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Università degli Studi di Siena Facoltà di Lettere e Filosofia Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali Dottorato di Ricerca in Metodologie della Ricerca Etno-Antropologica XXI° Ciclo. Sviluppo delle forme espressive grafiche infantili: storia, teorie, pratiche. Una ricerca etnografico-cognitiva. Coordinatore: Chiar. mo Prof. Massimo Squillacciotti Tesi di Dottorato di Cinzia Maria Braglia ANNO ACCADEMICO 2010-2011

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Università degli Studi di Siena Facoltà di Lettere e Filosofia

Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali Dottorato di Ricerca in Metodologie della Ricerca Etno-Antropologica

XXI° Ciclo.

Sviluppo delle forme espressive grafiche infantili: storia, teorie, pratiche.

Una ricerca etnografico-cognitiva. Coordinatore: Chiar. mo Prof. Massimo Squillacciotti

Tesi di Dottorato di Cinzia Maria Braglia

ANNO ACCADEMICO 2010-2011

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Università degli Studi di Siena Facoltà di Lettere e Filosofia

Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali Dottorato di Ricerca in Metodologie della Ricerca Etno-Antropologica

XXI° Ciclo.

Cinzia Maria Braglia

Sviluppo delle forme espressive grafiche

infantili: storia, teorie, pratiche. Una ricerca etnografico-cognitiva.

Coordinatore del Dottorato e Relatore: Chiar. mo Prof. Massimo Squillacciotti

ANNO ACCADEMICO 2010-2011

I

Indice

Volume primo

Indice _________________________________________________________ I Introduzione ___________________________________________________ 1 Capitolo primo LA NATURA CULTURALE DELLO SVILUPPO __________ 10 1 La teoria storico-culturale _________________________________________ 22 1.1 Filogenesi e storia culturale ____________________________________ 37 1.1.1 Coevoluzione di filogenesi e storia culturale___________________ 40 1.1.2 Primati e uomini_________________________________________ 57 1.1.3 Il livello storico-culturale: eterogeneità e gerarchia _____________ 66

1.2 Un approccio culturale all’ontogenesi ____________________________ 73 1.2.1 Il bambino sociale _______________________________________ 85 1.2.2 La mediazione attraverso artefatti ___________________________ 98 1.2.3 L’apprendimento come processo situato e distribuito ___________ 121 1.2.4 Contesti di insegnamento-apprendimento ____________________ 130

Capitolo secondo LA SIMBOLIZZAZIONE GRAFICA_________________ 149 2 Teoria delle rappresentazioni pittoriche e sviluppo dell’espressione grafica dalle origini all’ottavo anno di vita. _________________________________________ 153 2.1 Il disegno come movimento___________________________________ 157 2.2 Dallo scarabocchio allo schema figurativo. Disegnare e raffigurare. ___ 176 2.2.1 La prospettiva intellettuale________________________________ 201 2.2.2 La prospettiva artistica ed estetica__________________________ 218 2.2.3 Schemi figurativi e sistemi di notazione non iconici____________ 233

2.3 Il disegno come comunicazione e narrazione _____________________ 240 3 Contesti culturali e teorie psicologiche ______________________________ 253 3.1 Nascita di un mito: l’arte infantile ______________________________ 254 3.2 La psicologia scientifica e i test psicometrici _____________________ 266 3.3 I test proiettivi “carta e matita” ________________________________ 276 3.4 Il disegno tra rappresentazione e proiezione ______________________ 281

4 Aspetti cognitivi dell’espressione grafica: fare, conoscere, comunicare_____ 285 4.1 Il disegno tra casualità e intenzionalità __________________________ 286 4.2 Il disegno come “fare” e “saper fare” (aspetti procedurali del disegno?) 298 4.3 Il disegno tra esplorazione e conoscenza_________________________ 321 4.4 Raffigurazione dell’oggetto e funzione comunicativa del disegno _____ 339

Conclusioni__________________________________________________ 356 Bibliografia __________________________________________________ 370

Volume secondo

DOCUMENTI ETNOGRAFICI

II

1

Introduzione

Fra noi e “le cose come sono” c’è sempre un filtro creativo.

I nostri organi di senso non usano percepire niente e riportano solo ciò che produce senso.

Ciò ci rende “a un tempo creatore e creatura”. G. Bateson

Il presente lavoro si propone di delineare un percorso teorico intorno

al rapporto tra pensiero e immagine in una prospettiva ontogenetica

che indaghi l’emergere di questa capacità finzionale, peculiare

nell’uomo, all’interno dei processi di apprendimento e di crescita del

bambino in un ambiente culturale ricco di artefatti che rimandano alla

storia sociale del gruppo cui appartiene e ne pre-determinano lo

sviluppo.

Nella prospettiva teorica qui proposta la parola immagine si riferisce

al suo significato più ampio di attività simbolica che realizza, con una

specifica azione espressiva e con gli strumenti a sua disposizione,

una “rappresentazione del mondo”.

D’altro canto conoscenza e pensiero sono considerati in senso lato

come attività di problem solving: si parte cioè dal presupposto che il

pensiero sia funzionale, attivo e fondato su un’azione orientata ad

uno scopo1.

1 «Ipotizzando una mente articolata come un incrocio tra una macchina di calcolo e un archivio di informazioni, si finisce con l’ignorare che le menti si sono evolute per fare accadere delle cose. Ci si dimentica che la reale mente è anzitutto un organo deputato al controllo del corpo biologico in un contesto pratico. Le menti producono azione, percezione e movimento» (Grasseni – Ronzon 2004, p. 12).

2

Il problem solving mette in evidenza la natura attiva del pensiero più che

puntare sulla cognizione come possesso passivo di oggetti mentali, quali

possono essere le nozioni o i percetti. Le persone esplorano, risolvono

problemi e ricordano, più che acquisire semplicemente ricordi, percetti e

abilità. Lo scopo della cognizione non è produrre pensieri ma dirigere

azioni interpersonali e pratiche intelligenti (Rogoff, 1990, p. 8).

Il pensiero è visto come guidato da un contenuto, con uno specifico

dominio e costruttivamente connesso ad uno stimolo, che non può

essere considerato indipendente dai “mondi intenzionali”,

storicamente variabili e culturalmente diversi, nei quali gioca un ruolo

co-costruttivo (Shweder, 1990).

In questo senso ogni attività simbolica è “finzione” non nel senso di

“simulazione”, “imitazione”, “copia” di un universo percettivo dato (sia

esso esterno o interno), quanto piuttosto in riferimento al suo

carattere di sostituto formale di un’assenza, prodotto

dell’intenzionalità che crea forme specifiche che “stiano per” l’oggetto

e che siano riconoscibili dopo che l’azione produttiva si sia conclusa

(Borutti, 2003).

La ricerca muove da un interesse prevalente per lo sviluppo e

l’acquisizione delle abilità cognitive, considerate in interazione con

interventi educativi diversi: la natura culturale dello sviluppo e lo

stretto legame tra pratiche e cognizione. All’interno del dominio

generale della cultura e dello sviluppo, sarà dedicata particolare

attenzione al significato evolutivo dell’educazione, particolarmente

dell’istruzione formale come importante istituzione socio-culturale2.

2 Come avremo modo di vedere più dettagliatamente di seguito, il concetto di sviluppo cui si fa riferimento in questa ricerca si basa sulle transizioni di natura qualitativa (ma anche quantitativa) che permettono al bambino di gestire in modo più efficace i problemi che via via gli si pongono, facendo affidamento sulle risorse e sui vincoli, forniti da altre persone e dalle pratiche culturali, per la definizione e soluzione dei problemi. Proprio perché il bambino, nel suo sviluppo, si appropria degli strumenti e delle abilità intellettuali della comunità culturale che lo circonda, è essenziale sia il ruolo delle interazioni informali che il ruolo delle istituzioni formali della società, come elementi fondamentali del processo dello sviluppo cognitivo.

3

Nello specifico ci occupiamo dell’emergere della capacità simbolica

nelle produzioni grafiche di bambini e bambine di età compresa tra i

tre e i sette anni che frequentano la scuola dell’infanzia e di come

queste si configurano come “sistemi di attività” che incorporano sia

aspetti produttivi che comunicativi.

L’indagine si incentra sulle caratteristiche della linea e delle

formazioni di linee (scarabocchi e disegni) e sulla loro evoluzione nel

corso del tempo. Formazioni di linee si trovano anche in pittura, ma

la maggior parte del materiale raccolto ed esaminato è rappresentata

da disegni eseguiti con il pennarello o la matita su carta. Non è stato

preso in considerazione l’uso del colore perché la scelta delle tonalità

è spesso limitata al materiale messo a disposizione dall’adulto.

Inoltre, l’aver ristretto la ricerca alle formazioni di linee, ha consentito

il confronto tra grafiche prodotte da bambini di paesi diversi (italiani e

tedeschi), e di documentare comparativamente la scelta operata

nella costruzione delle linee.

Ogni bambino, nella “scoperta” del significato simbolico del tratto

grafico, segue la medesima evoluzione: dagli scarabocchi emergono

dapprima forme di base, che, combinate in diverse maniere, danno

vita a simboli più complessi. Attraverso l’esercizio e un lungo

processo di apprendimento lo schema figurativo diventa infine codice

comunicativo-narrativo: la dimensione culturale, intenzionale e

simbolica è intrinsecamente sociale, intersoggettiva e situata.

Nello sviluppo di questa capacità, occorre distinguere tra le pure e

semplici azioni senso-motorie compiute dal bambino attraverso il

mezzo espressivo durante le primissime fasi dello sviluppo e le

azioni intenzionali che da esse derivano, e che sono destinate a ri-

produrre un oggetto o una situazione specifica che “stia per” un

determinato aspetto del mondo. Quest’ultime si caratterizzano per

Vorremmo sottolineare inoltre che, pur concentrandoci essenzialmente sulla prima e seconda infanzia, partiamo dal presupposto che lo sviluppo proceda per tutto l’arco della vita e che le modalità di pensiero degli individui si ri-organizzino attraverso l’acquisizione progressiva di conoscenze e abilità.

4

l’intenzione di presentare un aspetto del mondo (reale o

immaginario), intenzione che produce una relazione tra simbolo e

referente sempre più culturalmente connotata, laddove la

formalizzazione del messaggio visivo prevede una decodifica entro

un confine preciso.

Forme “primitive” di produzioni non sono qualificabili come

rappresentazioni: si tratta piuttosto di presentazioni, di breve durata,

difficili da interpretare, che non intendono ancora creare forme che

implichino una relazione con oggetti o aspetti del mondo.

Il bambino piccolo impegnato a scarabocchiare può forse evocare

immagini connesse con l’azione ma, in assenza di un prodotto finale

riconoscibile, si tratta di associazioni prive di significato

rappresentazionale. Ogni rappresentazione è dunque, almeno

potenzialmente, consapevole, poiché implica il comprendere che

un’azione mentale, ad esempio un pensiero, possa indurre

all’intenzione di creare forme che “stiano per” l’oggetto e che siano

riconoscibili e condivisibili dopo che l’azione si sia conclusa.

La forma simbolica è in fondo l’elaborazione figurale-immaginativa del

lutto per l’assenza dell’oggetto concreto: è rinuncia alla sua presenza

effettiva, e elaborazione dell’assenza attraverso la finzione della forma

(Borutti, 2003, p. 289).

Essa implica un’attività che va oltre la percezione e la trasformazione

attraverso le possibilità offerte dal mezzo espressivo: il simbolo, sia

esso verbale, grafico o ludico, non riproduce, ma trasforma; l’attività

simbolica riorganizza il “già dato”, lo dispone in prospettive nuove e

se tali prospettive vengono valutate scegliendo le combinazioni utili,

essa si configura come attività euristica (Bruner, 1973).

La materialità dei prodotti dei bambini è significativa, in quanto ne

sancisce da una parte la condivisibilità sociale e dall’altra la

possibilità di ulteriori ispezioni percettive e categoriali che diventano

a loro volta oggetto di conoscenza.

5

Alla base del procedere figurale c’è un lungo processo di

apprendimento e di maturazione che, pur avendo premesse

biologiche, dipende, per la sua realizzazione dall’ambiente culturale.

Parte dei processi ontogenetici attraverso i quali l’eredità biologica si

realizza avviene nel bambino mentre interagisce con il proprio

ambiente. Il lungo periodo di immaturità nel quale questa interazione

ha luogo, se da un punto di vista evolutivo può costituire uno

svantaggio (in tale periodo il neonato si trova a dipendere

completamente da chi si prende cura di lui per la sua sopravvivenza),

dall’altro rende possibili percorsi ontogenetici nei quali la cognizione

e l’apprendimento hanno un ruolo significativo, e che tipicamente

conducono ad adattamenti comportamentali e cognitivi flessibili

(Tomasello, 1999).

La “nicchia ontogenetica” nella quale avviene lo sviluppo del

bambino è un ambiente culturalmente determinato, che non solo

configura ed esige forme determinate di adattamento, ma ne

prefigura e facilita l’ulteriore sviluppo.

Che gli organismi ereditino il loro ambiente non meno del loro genoma è

una verità mai troppo ripetuta. I pesci sono fatti per vivere nell’acqua, le

formiche sono fatte per vivere nei formicai. Gli esseri umani sono fatti

per vivere in un certo ambiente sociale, e senza di esso (se anche

riuscissero a sopravvivere) non si svilupperebbero normalmente sotto

l’aspetto sociale e cognitivo (Tomasello, 1999, pp. 102-102).

Il presente volume si articola in due parti: una dedicata alla

documentazione e alla presentazione di alcune ipotesi teoriche volte

ad indagare il nesso tra eredità biologica e culturale, l’altra, più

ampia, dedicata allo sviluppo del disegno infantile e all’analisi delle

dimensioni culturali, intenzionali e simboliche che questo tipo di

produzione sottende.

La ricerca si basa sull’analisi di circa un migliaio di disegni eseguiti

da bambini e bambine di età compresa tra i tre e i sette anni che

6

frequentano la scuola dell’infanzia3. I disegni selezionati (raccolti nel

volume a parte che accompagna la tesi), sono stati eseguiti in

particolare da bambini iscritti e frequentanti la scuola dell’infanzia di

Scandiano (Reggio Emilia) in un arco di tempo che va dall’anno

scolastico 2005/2006 all’anno scolastico 2008/2009; e da bambini

tedeschi iscritti e frequentanti il Kindertagesstätte St. Christophorus-

Haus di Wolfsburg durante l’anno scolastico 2006/2007.

Dal 1992 lavoro come insegnante presso la scuola dell’infanzia di

Scandiano di Reggio Emilia e ho potuto raccogliere i disegni dei

bambini sia come “insegnante di sezione” che come “ricercatrice”

conosciuta da bambini, genitori e insegnanti; durante il dottorato di

ricerca, ho avuto invece la possibilità di lavorare come insegnante

madrelingua di italiano e atelierista presso la scuola dell’infanzia di

Wolfsburg (gennaio - luglio 2007) e questo mi ha consentito di

progettare attività specifiche che prevedessero l’uso del linguaggio

grafico.

I documenti etnografici sono stati raccolti in un volume a parte, in

allegato, e rappresentano il lavoro di circa ottanta bambini; la

quantità di disegni che è stata esaminata durante la ricerca e gli anni

di insegnamento è molto superiore a quella contenuta nell’allegato,

ma la raccolta è sufficiente a documentare le tesi che si intendono

sostenere.

Alcuni sono disegni dello stesso soggetto eseguiti da bambini diversi

[fig. 1-113-118 “tartarughe”, p. 5, 73, 76 rispettivamente4; fig. 29-38-

55-61-73-74-99-112 “la mia famiglia”, p. 20, 26, 35, 38, 46, 47, 61, 72

rispettivamente; fig. 52-54-78-93 “la fiaba de’ I tre Porcellini”, p. 33,

3 Le grafiche raccolte in Germania comprendono anche disegni di bambini di età superiore ai sei anni e sei mesi [fig. 123, 124, 126 e 127, pp. 78-80 nel volume delle grafiche]. Al momento in cui è stata condotta la ricerca i bambini che non avevano compiuto il sesto anno di età entro il trenta giugno dell’anno scolastico in corso potevano frequentare la scuola dell’infanzia l’anno successivo, posticipando l’ingresso alla scuola primaria su richiesta dei genitori o suggerimento dell’insegnante o del pediatra. 4 I numeri di pagina per le figure che riproducono le grafiche raccolte durante la ricerca etnografica, si riferiscono all’impaginato in allegato che le raccoglie.

7

34, 49, 57 rispettivamente; fig. 56, p. 35 e 77, p. 48 “la fiaba di

Cappuccetto Rosso”; fig. 58, p. 36 e fig. 64, p. 39 “il gioco dei ragni”;

fig. 63, p. 39; fig. 84, p. 52 e fig. 130 p. 82 “il gioco dei canestri”; fig.

71, p. 45 “cani”; fig. 122-123-124-125-126-127 “i pensieri", p. 78, 79,

80 rispettivamente]; altri documentano l’evoluzione di un soggetto

grafico nell’arco di alcuni mesi [fig. 30, p. 21; fig. 31, p. 22; fig. 46, p.

30; fig. 68, p. 43; fig. 91, p. 56; fig. 101, p. 62; fig. 103, p. 64] o di

alcuni anni [fig. 94, p. 58] e sono grafiche prodotte dallo stesso

bambino. Le raccolte longitudinali sono state realizzate nella scuola

di Reggio Emilia, dove è prassi realizzare un raccoglitore individuale

che documenti l’evoluzione delle grafiche dei bambini nel corso del

triennio di frequenza a scuola, al quale mi è stato possibile attingere.

Infine, alcuni disegni sono stati scelti perché ritenuti significativi al

fine dell’indagine.

I disegni sono stati classificati con il nome del bambino, con il

numero progressivo dei disegni che venivano via via prodotti e con

l’età dell’autore, espressa in anni e mesi. Questo metodo di

classificazione si presta allo studio dello sviluppo individuale, studio

che solo in parte è stato completato e che sarebbe interessante

proseguire nel passaggio degli stessi bambini da un ordine di scuola

all’altro.

Le scuole dell’infanzia nelle quali è stata condotta la ricerca hanno

un’utenza di bambini provenienti da ambienti diversi, sia culturali che

sociali. Di conseguenza, i disegni sui quali si basa sono stati prodotti

da bambini di ambienti familiari differenti.

Le illustrazioni dei disegni non sono state minimamente modificate, e

l’ordine con cui sono state impaginate segue quello con cui vengono

trattate nel presente volume.

Difficilmente avrei potuto portare a termine questo lavoro senza i

preziosi consigli e soprattutto la fiducia e l’entusiasmo che Massimo

Squillacciotti mi ha saputo trasmettere in ogni momento, soprattutto

8

nei momenti di incertezza e difficoltà. Ma un sincero ringraziamento

va a tutti i docenti della scuola di dottorato dell’Università di Siena e

ai colleghi di dottorato che direttamente o indirettamente hanno

contribuito a sostenere, scientificamente e umanamente, l’attività di

ricerca svolta in questi anni. Non meno importante è stato per me il

confronto con i colleghi dell’Università di Modena e Reggio ed in

particolare con Giuseppe Malpeli, Giorgio Ghio, Laura Cerrocchi e

Antonio Gariboldi. Grazie, infine, a Marco Macchi per la perizia

tecnica e la pazienza dimostrata nella preparazione grafica del

secondo volume della tesi.

9

10

Capitolo primo

LA NATURA CULTURALE DELLO SVILUPPO

In questo capitolo verranno introdotti alcuni principi utili a descrivere

la natura culturale dello sviluppo cognitivo che fanno riferimento

principalmente alla prospettiva storico-culturale5.

Il fondatore di questo orientamento, Lev Semenovič Vygotskij (1934)

fu il primo psicologo moderno a ritenere che lo studio dello sviluppo

del bambino dovesse considerare anche le influenze culturali, e a

suggerire il meccanismo attraverso cui la cultura diviene una parte

della natura di ogni persona.

Egli compì sul piano teorico una critica alla concezione dell’uomo in

chiave biologica e naturalistica, contrapponendo a queste la sua

teoria dello sviluppo storico-culturale. Introdusse l’idea della storicità

della natura della psiche umana6, l’idea della trasformazione dei

5 Quest’orientamento è definito in modo intercambiabile “storico-culturale”, “socio-culturale” o “storico-sociale”. Un attivo movimento continua ancora oggi ad indagare e ampliare le intuizioni di inizio Novecento di Vygotskij, Lurija e Leont’ev e altri studiosi sovietici come Bakhtin e Ilyenkov. Vygotskij (1896-1934) è stato uno studioso praticamente sconosciuto in Occidente fino al 1962, quando fu pubblicata la traduzione in inglese di Pensiero e linguaggio, seguita nel 1966 da quella in Italiano. Per una biografia approfondita sull’autore e un’analisi dei suoi scritti (ivi compresi quelli meno conosciuti) si rimanda a Veggetti 1994; Mecacci 1976; 1983. 6 «Ancora molti studiosi, al giorno d’oggi, tendono a rappresentarsi sotto una luce non esatta l’idea di una psicologia storica. Essi identificano la storia con il passato, per cui studiare qualche argomento storicamente diventa studiare questo o quel fatto del passato. Da qui deriva quella concezione ingenua che vede una insormontabile separazione tra lo studio di forme storiche e lo studio di forme attuali. Invece compiere lo studio storico di un determinato argomento, significa semplicemente applicare ad esso la categoria dello sviluppo. Studiare alcunché storicamente significa studiarlo in movimento. È questa un’esigenza fondamentale del metodo dialettico. Soltanto cogliere come oggetto d’indagine il processo dello sviluppo di qualche fenomeno in tutte le sue fasi e in tutti i suoi mutamenti, dal momento del suo insorgere fino alla sua scomparsa, significa scoprire la sua natura e rivelare cosa esso è in sostanza, poiché “soltanto nel suo movimento un

11

meccanismi naturali dei processi psichici nel corso dello sviluppo

storico-sociale e ontogenetico nella concreta sperimentazione

psicologica. Una tale trasformazione era vista da Vygotskij come il

risultato necessario dell’appropriazione dei prodotti della cultura

umana da parte dell’uomo, nel processo della comunicazione di

questo con le persone circostanti (Leont’ev, 1975).

Il comportamento di un adulto contemporaneo culturalmente evoluto, se

si mette da parte per qualche minuto il problema dell’ontogenesi, il

problema dello sviluppo del bambino, è il risultato di due diversi processi

di sviluppo psichico. Da un lato il processo dell’evoluzione biologica

della specie che conducono al sorgere della specie dell’Homo sapiens;

dall’altro il processo dello sviluppo storico, mediante il quale l’uomo

primitivo si è evoluto culturalmente. […] Tutta la particolarità e la

difficoltà del problema dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori

consiste nel fatto che ambedue questi aspetti nell’ontogenesi sono fusi

insieme, costituendo realmente un processo unitario, sebbene

complesso. (Vygotskij, 1930-31, p. 105).

Vygotskij si oppose alle teorie a lui contemporanee che affermavano

che le proprietà delle funzioni intellettive del bambino nascono dalla

sola maturazione e allo stesso tempo costruì una penetrante critica

alla tesi che si potesse trovare una comprensione delle funzioni

psichiche superiori dell’essere umano moltiplicando e rendendo più

complessi i principi derivati dalla psicologia animale7.

corpo mostra che cosa è”. L’indagine storica del comportamento non è, dunque, soltanto un supplemento o un sussidio all’indagine teorica, ma è anzi la base di quest’ultima» (Vygotskij, 1930-31, p. 105). 7 «Il fatto è che la maturazione di per sé è un elemento secondario nello sviluppo delle forme più complesse e “uniche” del comportamento umano. Lo sviluppo di questi comportamenti è caratterizzato da complicate trasformazioni qualitative di una forma di comportamento in un’altra. […]. Recentemente parecchi psicologi hanno proposto di abbandonare questo modello botanico. In risposta a questo tipo di critica, la psicologia moderna, nella presunzione di una maggiore scientificità, ha adottato modelli zoologici come base per un nuovo approccio generale alla comprensione dello sviluppo dei bambini. Un tempo prigioniera della botanica, la psicologia infantile è ora ipnotizzata dalla zoologia. Le osservazioni cui questi modelli più nuovi attingono vengono quasi interamente dal regno animale e si

12

Nella prospettiva storico-culturale lo sviluppo del bambino dipende in

ampia misura dal contesto storico e socioculturale in cui vive e da

come viene messo in grado di padroneggiare gli strumenti della

propria cultura (artefatti ideali e materiali).

Diversamente da Piaget, noi sosteniamo che lo sviluppo non va nel

senso della socializzazione, ma nel senso della trasformazione delle

relazioni sociali in funzioni psichiche. Perciò tutta la psicologia del

collettivo nello sviluppo infantile si presenta in una luce affatto nuova. Ci

si chiede solitamente come questo o quel bambino si comporti nella

collettività. Noi ci chiediamo come la collettività instaura in questo o in

quel bambino le funzioni psichiche superiori. (Ibidem, p. 202).

La costruzione della conoscenza appare come un processo

interattivo che è sempre situato in un contesto storico-culturale in cui

il bambino, attraverso gli strumenti forniti dalla cultura e mediante la

comunicazione conversazionale con i genitori e con altri partner,

impara a interpretare l’esperienza e a negoziare i significati della

situazione e dei compiti incontrati, in modo congruente e condiviso

con il sistema di regole proprie della cultura in cui vive.

Lo sviluppo costituisce un fatto culturale poiché, per sua natura, è

mediato dall’utilizzo degli strumenti elaborati dall’uomo nel corso del

tempo, che organizzano la mente “amplificandone” le capacità e

trasformando le funzioni psichiche naturali in funzioni storiche e

superiori (Vygotskij, Lurija, 1930); e poiché l’uso di tali strumenti è

sempre contestualizzato in situazioni specifiche, lo sviluppo possiede

una dimensione sociale. In questa concezione, ogni fenomeno

culturale è storico e sociale.

Fin dal primo giorno dello sviluppo del bambino le sue attività

acquisiscono un loro significato in un sistema di comportamento sociale

cercano risposte a problemi relativi ai bambini con esperimenti effettuati su animali» (Vygotskij, 1978, pp. 35-36).

13

e, essendo dirette verso uno scopo definito, si rifrangono attraverso il

prisma dell’ambiente del bambino. Il tragitto dall’oggetto al bambino

passa attraverso un’altra persona. Questa complessa struttura è il

prodotto di un processo di sviluppo radicato profondamente nei legami

tra storia individuale e storia sociale. (Vygotskij, 1978, p. 51).

Il primato della dimensione sociale rispetto alla dimensione cognitiva

emerge nella “legge generale dello sviluppo”, la quale sostiene che

ogni funzione psichica superiore appare prima sul piano sociale del

funzionamento interpsicologico, cioè nello scambio di significati tra

individui, e solo in un secondo tempo su quello mentale del

funzionamento intrapsicologico.

Per noi dire che un processo è “esterno” equivale a dire che è “sociale”.

Ogni funzione psichica superiore è stata esterna perché è stata sociale

prima ancora che interiore e psichica, è stata cioè originariamente un

rapporto sociale tra due persone. Il mezzo per esercitare un’azione su

se stessi è inizialmente un mezzo per esercitare un’azione sugli altri, o

un mezzo che gli altri adoperano per esercitare un’azione sulla persona

singola. […].

Potremmo formulare come segue la legge genetica generale dello

sviluppo culturale: ogni funzione nel corso dello sviluppo culturale del

bambino fa la sua apparizione due volte, su due piani diversi, prima su

quello sociale, poi su quello psicologico, dapprima tra le persone, come

categoria interpsichica, poi all’interno del bambino, come categoria

intrapsichica. […]. Dietro a tutte le funzioni superiori e ai loro rapporti

stanno geneticamente delle relazioni sociali, relazioni reali tra gli uomini.

(Vygotskij, 1930-31, pp. 200-201).

Questo è il percorso del processo di sviluppo delle funzioni psichiche

superiori, al quale Vygotskij dà il nome di sviluppo storico-culturale.

In base a questa dinamica, Vygotskij avanzò l’ipotesi, del tutto

teorica e strumentale, che nel corso dell’ontogenesi queste funzioni

si presentassero due volte: come forma di attività psichica organica-

14

naturale-spontanea e poi, verso l’età scolare, sotto forma mediata-

superiore. Occorre sottolineare, come fece lo stesso Vygotskij, che

queste due forme possono essere differenziate soltanto tramite

un’astrazione.

Si tratta di una teoria che assegna al contesto, inteso in senso

sociale e culturale, un ruolo di primaria importanza per lo sviluppo e

che tenta di individuare l’intreccio, nel processo di apprendimento, di

natura e cultura.

Noi sosteniamo questo, e tutte le nostre ricerche rafforzano questa

convinzione, che proprio le diverse forme di fusione dei due processi

determinano le caratteristiche del bambino. Possiamo, perciò, con E.

Kretschmer, ripetere che la contrapposizione tra “natura” e “cultura”

nella psicologia umana è vera soltanto in un senso molto relativo. A

differenza di Kretschmer sosteniamo, però, che la differenziazione

dell’una dall’altra costituisce un presupposto indispensabile per

impostare giustamente una ricerca nel campo della psicologia umana.

(Ibidem, p.74).

In questa prospettiva gli eventi e le situazioni interpersonali svolgono

una funzione di strutturazione della mente se l’individuo che vi

partecipa è in grado di comprenderli come membro del gruppo di cui

fa parte. Pertanto lo sviluppo cognitivo dipende non solo dal rapporto

interpersonale ma anche dagli strumenti di cui una data cultura

dispone.

Il contesto socioculturale è, per Vygotskij, accessibile all’individuo

attraverso l’interazione con altri membri della società che hanno

familiarità con le abilità e gli strumenti tipici della propria cultura. Più

in particolare Vygotskij sottolinea come la mente abbia modo di

svilupparsi in situazioni nelle quali l’individuo meno competente – il

bambino – partecipa a situazioni problematiche sotto la guida di un

adulto – o di un individuo più competente – che struttura e modella

per lui la soluzione del problema. Perché si dia apprendimento è

15

necessario da un lato che il compito che l’attività condivisa propone

sia adeguato alle potenzialità cognitive di chi è chiamato ad

apprendere e, dall’altro, che l’individuo più esperto sia in grado di

modulare le difficoltà in funzione di tali potenzialità.

Applicata al contesto educativo, questa teoria conduce al concetto di

“zona di sviluppo prossimale”8 intesa come quell’area di

funzionamento psichico che il bambino non è ancora in grado di

raggiungere autonomamente ma alla quale può essere

progressivamente avvicinato grazie all’interazione con adulti o

coetanei più competenti, capaci di attivare e dirigere comportamenti

adeguati alla situazione.

La zona di sviluppo prossimale definisce quelle funzioni che non sono

ancora mature ma che sono nel processo di maturazione, funzioni che

matureranno domani ma sono al momento in uno stadio embrionale.

Queste funzioni potrebbero essere chiamate i “boccioli” o i “fiori” dello

sviluppo piuttosto che i “frutti” dello sviluppo. Il livello di sviluppo

caratterizza lo sviluppo mentale retrospettivamente, mentre la zona di

sviluppo prossimale caratterizza prospettivamente lo sviluppo mentale.

La zona di sviluppo prossimale fornisce agli psicologi e agli educatori un

mezzo attraverso il quale può essere capito il corso interiore dello

sviluppo. Usando questo metodo possiamo prendere in considerazione

non solo i cicli e i processi di maturazione che sono già completi ma

anche quei processi che sono al momento in uno stadio di formazione,

che stanno cominciando appena a maturare e a svilupparsi. […]. Lo

stato dello sviluppo mentale di un bambino può essere determinato solo

chiarendo i suoi due livelli: il livello di sviluppo effettivo e la zona di

sviluppo prossimale. (Vygotskij, 1978, p. 128).

8 «È la distanza tra il livello effettivo di sviluppo così come è determinato dal problem-solving autonomo e il livello di sviluppo potenziale così come è determinato attraverso il problem-solving sotto la guida di un adulto o in collaborazione con i propri pari più capaci» (Vygotskij 1978, p. 127).

16

Questa visione richiede un’attenzione particolare alla capacità degli

adulti di organizzare gli ambienti dei bambini così da ottimizzare il

loro sviluppo secondo norme culturalmente definite. Si genera così

l’idea di una “zona di sviluppo prossimale” che predisponga

l’ambiente esperienziale prossimo e rilevante per lo sviluppo.

Nello spiegare le cause dello sviluppo Jerome Bruner (1983a, 1986)

riprende il punto di vista di Vygotskij sostenendo che i processi

mentali hanno un fondamento sociale e che la cognizione umana è

influenzata dalla cultura attraverso i suoi simboli, artefatti e

convenzioni. L’influenza della cultura si realizza grazie alle relazioni

sociali che il bambino stabilisce precocemente con chi si prende cura

di lui e in cui il ruolo dell’adulto viene caratterizzato secondo Bruner

come scaffolding. Nel corso della prima infanzia (in particolare

durante il primo anno di vita) compito fondamentale dell’adulto è

quello di facilitare e promuovere il “dialogo” dei sistemi di

comunicazione con il bambino. Da parte sua l’adulto è indotto ad

agire come se il bambino fosse già un partner attivo nello scambio

comunicativo, attribuendo ai suoi comportamenti un’intenzione e un

valore di segnali che essi, di fatto, non hanno.

Nelle prime interazioni l’adulto consente materialmente al bambino di

dare il ritmo all’interazione, inserendosi nelle pause fra le fasi di

attività di quest’ultimo. Il bambino sviluppa le proprie capacità non

attraverso comportamenti per tentativi ed errori, e nemmeno

attraverso la semplice imitazione, né affidandosi al proprio repertorio

innato o a semplici processi maturativi, bensì all’interno di strutture di

sequenze interattive che si ripetono con ritmi regolari. Bruner (1983a)

introduce la nozione di format9 per esplicitare la struttura che si viene

9 «Tali format sono assai utili per la costruzione della mente culturale del bambino, poiché gli consentono di discriminare nel continuo flusso delle stimolazioni quei movimenti e quei suoni che costituiscono unità cognitive e affettive rilevanti all’interno della propria cultura. Essi inoltre riducono i gradi di variazione e d’indeterminatezza delle situazioni e contribuiscono a rendere regolari e prevedibili i contesti, effetto che, a sua volta, è alla base della regolarità e della stabilità dei significati. Parimenti questa condizione consente anche all’adulto di verificare e di

17

a creare. Un format è una struttura di interazione standardizzata,

inizialmente un microcosmo tra adulto e bambino, un’interazione

abituale in cui adulto e bambino “fanno” delle cose insieme.

L’interazione tra adulto e bambino non svolge solo la funzione di

promuovere lo sviluppo delle capacità e delle competenze del

bambino in quanto soggetto psichico, ma anche quello di inserire

progressivamente il bambino nella dimensione simbolica della

propria cultura e di renderlo soggetto attivo nello scambio sociale con

gli altri individui e gruppi della società. In questa operazione la madre

non può non favorire anche lo sviluppo cognitivo, in quanto

quest’ultimo è legato ad «amplificatori» delle capacità motorie,

percettive e riflessive fornite dalla cultura (primo fra tutti il linguaggio).

La mente non si sviluppa in modo spontaneo e senza assistenza; lo

sviluppo intellettivo consiste nella capacità di usare come «protesi»

della mente le conoscenze e le procedure trasmesse dalla propria

cultura.

Ne consegue che, secondo Bruner (1986), l’interazione tra madre e

bambino costituisce il primo e più importante luogo di

«acculturazione», in quanto la madre si pone inevitabilmente come

figura di mediazione e anello di congiunzione fra il bambino e la

cultura di riferimento.

Mentre nel caso di molte abilità culturali gli adulti adottano un

atteggiamento laissez faire – cosa che avviene in misura

significativamente differente in culture differenti – in tutte le società

umane vi sono cose che gli adulti si sentono obbligati ad aiutare i

bambini ad apprendere […].

L’adulto osserva il bambino alle prese con un certo compito e cerca in

vari modi di facilitare il compito o di attirare l’attenzione del bambino su

certi suoi aspetti cruciali, o esegue egli stesso una parte del compito

così che il bambino non sia sopraffatto da troppe variabili. In alcune

valutare i progressi fatti dal bambino rispetto a specifiche abilità» (Anolli, 2006a, p. 68).

18

culture, questo modello di istruzione assume semplicemente la forma

dell’adulto che chiede al bambino di mettersi seduto e di osservarlo

mentre tesse un tappeto o prepara il pasto o coltiva l’orto (Greenfield e

Lave 1982). Ma in tutte le società umane vi sono abilità o conoscenze

che gli adulti si sentono obbligati a insegnare direttamente ai giovani,

tanto appaiono loro importanti (Kruger e Tomasello 1996). Esse variano

da attività fondamentali per il sostentamento alla memorizzazione degli

antenati della famiglia o rituali religiosi.

Il punto principale è che sia nello scaffolding sia nell’insegnamento

diretto l’adulto si preoccupa dell’acquisizione di una certa abilità o una

certa conoscenza da parte del bambino e, in molti casi, il suo

coinvolgimento nel processo non cessa finché il bambino non apprende

il materiale o non raggiunge un certo livello di competenza. (Tomasello,

1999, p. 103).

Bruner (1983a, 1986) osserva e analizza in quest’ottica le interazioni

precoci fra madre e figlio, nelle quali il bambino impara a

padroneggiare il linguaggio attraverso episodi condivisi di azione e

attenzione (ad esempio leggere un libro, indicare e nominare), che

includono elementi sia verbali (parole e frasi) che non verbali (gesti,

azioni, espressioni facciali). L’”impalcatura” fornita dall’adulto serve a

compensare il dislivello tra le abilità richieste dalla situazione e le

ancora limitate capacità del bambino, consentendo a quest’ultimo di

realizzare il compito richiesto dalla situazione e facendolo al tempo

stesso progredire verso livelli più avanzati di partecipazione10.

10 «E’ la madre che stabilisce gli “schemi” essenziali o i rituali secondo cui il linguaggio viene usato; e lo fa tramite la pratica della lettura di libri illustrati, mediante i modelli che segue nel fare le proprie richieste, nei piccoli giochi quotidiani e così via. In tutte queste attività essa recita la propria parte in modo sorprendente regolare. Nel corso della lettura, per esempio, articola le proprie domande secondo una sequenza regolare: 1) vocativo, 2) quesito, 3) indicazione del nome, 4) conferma. Per esempio: 1) Oh, guarda Richard!, 2) Che cos’è quello?, 3) E’ un pesciolino. 4) Bravo! Questa sequenza rappresenta un’impalcatura per l’insegnamento della referenza. All’inizio il bambino comprende ben poco le parole della madre. In seguito comincia ad abbozzare una risposta che ha l’aspetto del balbettio. Da allora, cioè dopo aver ottenuto questo risultato, la madre insisterà per avere una qualche risposta che completi lo schema. Una volta che il bambino sia arrivato a trasformare i propri balbettii di risposta in monosillabi, essa alza di nuovo il prezzo: non accetterà il balbettio, ma solo la risposta più

19

Il bambino acquisisce la conoscenza del significato degli eventi che

vive mediante la partecipazione attiva a un contesto interattivo

alimentato dagli scambi ripetuti con l’adulto che si prende cura di lui.

Le cure parentali costituiscono un sistema di supporto indispensabile

per la crescita del bambino e sono intrinsecamente indirizzate dalla

cultura di riferimento: esse rimandano a precisi stili educativi che

definiscono gli ambienti di apprendimento significativi per il bambino

stesso. Nella prospettiva interazionista di Bruner le prime relazioni

sociali costituiscono la radice dello sviluppo mentale del bambino, a

condizione che l’adulto di riferimento sia in grado di svolgere la

funzione di struttura di sostegno11.

Ci sono molti modi in cui il comportamento degli adulti struttura e

organizza l’ambiente esterno del bambino, così da facilitare i suoi

processi di crescita e porre vincoli a ciò che può fare12. Dal canto suo

breve. Alla fine, quando il piccolo saprà maneggiare il nome di un oggetto, la madre adotterà dei giochi in cui ciò che il bambino conosce e ciò che non conosce ancora devono essere tenuti distinti. Mentre prima la domanda “che cos’è quello?” veniva pronunciata con un tono finale ascendente, ora assume un tono discendente, come ad indicare che chi la pone sa che il bambino conosce la risposta. A questo punto il bambino pronuncerà la risposta con un inedito quanto tipico atteggiamento di timidezza. Ma ben presto la madre alza di nuovo il prezzo: “che cosa fa il pesciolino?”, e la domanda torna ad avere un tono finale ascendente in quanto tende a portare di nuovo il bambino nella zona di sviluppo prossimale, questa volta con lo scopo di padroneggiare la predicazione. La madre si mantiene sempre sul confine in continua espansione della competenza del bambino» (Bruner, 1986, pp. 95-96). 11 «Sebbene molti tipi di esperienza contribuiscano alla formazione della capacità di essere solo, ve n’è uno che è fondamentale e senza il quale tale capacità non si instaura: è l’esperienza di essere solo, da infante e da bambino piccolo, in presenza della madre. In tal modo la capacità di essere solo ha un fondamento paradossale, e cioè l’esperienza di essere solo in presenza di un’altra persona. Soltanto quando è solo (cioè: solo in presenza di qualcuno) l’infante può scoprire la propria vita personale» (Winnicott, cit. in, Liverta Sempio - Marchetti, 1995, pp. XV). 12 «Ovviamente, non tutti sono tagliati a fungere da “sostituto della coscienza” di altre persone. Ma l’indagine svolta da David Wood sull’insegnamento dimostra inequivocabilmente che quella di insegnare è un’abilità che si può imparare. Uno dei risultati conclusivi di un’altra ricerca – un risultato alquanto malinconico – mi ha indotto a pensare che possono anche esistere delle microculture – talvolta non più grandi della famiglia o della coppia – che contribuiscono a distruggere o distruggono senz’altro tale abilità. La psicologa inglese Barbara Tizard riferisce un’indagine da lei condotta per porre in relazione l’”intelligenza” delle domande dei bambini con la “bontà” delle risposte dei genitori. Le malinconiche conclusioni a cui perviene sono queste: quanto più è probabile che i genitori diano risposte

20

il bambino cresce e apprende in un ambiente protetto, scandito dai

compiti e dalle tappe che gli adulti hanno opportunamente

selezionato in base alla storia culturale del gruppo cui appartengono.

Uno dei più importanti fattori di variabilità culturale che riguarda i

bambini è il grado a cui a essi è consentito di partecipare alle attività

degli adulti. La “segregazione” dei bambini dalla vita degli adulti è data

per scontata nei contesti sociali di classe media, ma è rara in molte altre

comunità.

Le diverse opportunità dei bambini di imparare dalle attività quotidiane

degli adulti sono strettamente connesse a molte altre differenze nei

modelli culturali riguardanti la cura e l’educazione del bambino (Rogoff,

1990; Morelli, Rogoff, Angelillo, 2002). Il grado di partecipazione del

bambino alle attività degli adulti, o l’esclusione, sono legati a particolari

modelli culturali. [Esistono] differenze culturali nelle opportunità

concesse ai bambini di imparare assistendo o partecipando alla vita

della comunità sin dalla tenera età […]. Tali differenze si collegano ad

altri aspetti della vita del bambino, per esempio il ruolo della scuola e

dell’istruzione formale, le abilità cognitive promosse dal contesto, le

motivazioni e gli interessi del bambino, la comunicazione tra genitori e

bambino, e i rapporti tra coetanei. (Rogoff, 2003, p. 134).

Kenneth Kaye (1982) propone l’idea di apprendistato per

caratterizzare la condizione del bambino che si introduce

gradualmente ai contenuti della propria cultura partecipando ad

attività congiunte con l’adulto. In questo caso il rapporto tra adulto e

bambino viene assimilato al rapporto apprendista-maestro: appena

introdotto in una certa attività, il bambino è come il “novizio”, e

intelligenti, tanto più è probabile che i bambini pongano domande interessanti. D’altro canto, però, stante la natura di queste correlazioni, l’esito della ricerca può essere formulato alla rovescia: quanto più è probabile che i bambini pongano domande interessanti, tanto più è probabile che i genitori diano risposte intelligenti. L’esito di questa indagine implica che il fenomeno del “prestito di coscienza” alla persona meno capace da parte della persona più capace, pur essendo concretamente rilevabile, scaturisce però sicuramente non da un puro e semplice atto di volontà, ma da una transazione “negoziabile”» (Bruner, 1986, pp. 94-95).

21

diventa in seguito sempre più “esperto” e autonomo nel

padroneggiare quell’attività mentre l’adulto diminuisce parallelamente

la propria assistenza e supervisione.

In questo processo, ciò che una generazione trasmette alla successiva

non è un corpus di progetti e disegni, o di informazioni in senso stretto,

ma degli specifici contesti di sviluppo in cui gli apprendisti, attraverso la

pratica e l’addestramento, acquisiscono e affinano le proprie capacità di

azione e di percezione. È questo ciò che Gibson (1979) chiama

“educazione dell’attenzione”. (Ingold, 2001, p.151).

Un’analisi integrata più recente della natura storica e culturale dello

sviluppo proviene da un approccio interdisciplinare che comprende

antropologia, psicologia, storia, sociolinguistica, pedagogia,

sociologia, neurologia e altri campi. Esso si basa su tradizioni di

ricerca che vanno dall’osservazione partecipante delle attività

quotidiane in una prospettiva antropologica, alle ricerche

psicologiche in contesti naturali e in laboratorio, alle analisi storiche

di resoconti e documenti.

La convergenza tra queste diverse tradizioni teoriche e di ricerca al

confine tra antropologia e psicologia, sta promuovendo un nuovo

modo di studiare gli aspetti culturali dello sviluppo umano e ha

condotto ad una significativa ridefinizione del concetto stesso di

apprendimento come esperienza mediata da un lato e processo

situato e distribuito dall’altro, fortemente dipendente dal contesto e

interpretato come processo sociale di co-partecipazione piuttosto che

acquisizione individuale di contenuti proposizionali o

rappresentazionali. Lo sviluppo, contestualizzato all’interno di

aspettative sociali e culturali, si configura come un processo in cui gli

individui partecipano alle attività socioculturali della loro comunità,

che può essere compreso solo alla luce delle pratiche culturali e

delle condizioni di tali comunità, anch’esse in continua evoluzione

(Rogoff, 2003).

22

Comuni denominatori di queste teorie sono sia il riferimento ad un

paradigma epistemologico di tipo costruttivista per il quale

“conoscere” non è “rappresentarsi” un mondo “dato” quanto piuttosto

“costruirlo” (e si costruisce nella misura in cui si è coinvolti) o

“abitarlo”; sia l’enfasi posta sull’agire in quanto fondamento

dell’”essere-nel-mondo” degli organismi viventi, aspetto quest’ultimo

che trova ampio sostegno nell’attuale dibattito neuroscientifico

sull’aspetto incorporato e ambientale di mente, pensiero e

cognizione.

1 La teoria storico-culturale

La concezione dello psicologo russo Lev Semenovič Vygotskij è

stata definita dallo stesso autore una teoria “storico-culturale” dello

sviluppo psichico.

Le esposizioni che ne sono state compiute sia in Russia (Leont’ev,

Lurija, 1959; Leont’ev 1990) che in altri paesi (Cole et al., 1978;

Mecacci, 1976; Veggetti, 1974, 1986, 1994; Wertsch, 1985a, 1985b)

concordano generalmente nella presentazione dei temi che la

riguardano: i rapporti tra sviluppo mentale e apprendimento, la

mediazione semiotica nella sociogenesi dei processi cognitivi (le

funzioni psichiche superiori), i rapporti tra pensiero e linguaggio, il

processo di formazione dei concetti.

Al bambino “eterno” di matrice piagetiana che attraversa tappe

universalmente scandite dal corso dello sviluppo e che solo in un

secondo tempo è influenzato dalla “cultura”, Vygotskij sostituisce il

bambino “storico”13 il cui sviluppo nell’ontogenesi si intreccia con altri

13 «Questa antistoricità ha colpito anche quegli studiosi contemporanei che si sono proposti di uscire dal vicolo cieco della psicologia empirica con una teoria strutturale dello sviluppo psichico o con una considerazione genetico-funzionale dei problemi della psicologia della cultura. Questi studiosi sanno, è vero, che le leggi psicologiche da loro scoperte con il metodo genetico sono valide solo per un particolare “tipo” di bambino, per il bambino della nostra epoca. A questo punto

23

tre livelli evolutivi: lo sviluppo filogenetico, rappresentato dai lenti

cambiamenti genetici che caratterizzano la storia evolutiva della

specie umana; lo sviluppo storico-culturale che produce strumenti

materiali e simbolici, sistemi di valori, precetti, norme e documenti; lo

sviluppo microgenetico, che si riferisce all’apprendimento continuo

degli individui in un dato contesto, in base alla loro eredità genetica e

storico-culturale14. Questi livelli evolutivi sono inscindibili: i

comportamenti degli individui generano pratiche culturali che a loro

volta organizzano lo sviluppo degli individui stessi; in modo simile, lo

sviluppo biologico interagisce con le pratiche e istituzioni culturali; lo

sviluppo ontogenetico è parte della storia culturale e filogenetica, e

così via.

Per studiare tale processo è necessaria, secondo Vygotskij, una

metodologia storico-culturale15.

sembrerebbe quasi che si stesse a un passo dal riconoscere il carattere storico di queste leggi, ma ecco che gli studiosi stessi regrediscono a una considerazione puramente zoologica, sostenendo che le leggi che regolano lo sviluppo del linguaggio nella prima infanzia, sono le stesse che presiedono, nel comportamento dello scimpanzé, all’acquisizione della capacità di adoperare degli strumenti e sono cioè leggi biologiche, nessuna concessione facendo alla specificità delle forme superiori del comportamento umano.

Il concetto di struttura viene esteso a tutte indifferentemente le forme del comportamento e della vita psichica. Così, nuovamente, alla luce, o meglio nelle tenebre, della struttura, “tutti i gatti sono bigi”: con la sola differenza che un’eterna legge della natura, la legge dell’associazione, è stata sostituita da un’altra legge, pure eterna, della natura, quella della struttura. Anche qui non ci sono concetti adeguati per esprimere l’aspetto culturale, storico del comportamento umano. Il concetto di struttura si fa lentamente strada nella fisiologia dell’attività nervosa, poi ancora più profondamente nella fisica, e così ciò che è stato storico (ogni fenomeno culturale è per sua natura storico) si confonde ancora una volta con ciò che è naturale, ciò che è culturale con ciò che è istintivo» (Vygotskij, 1930-31, p. 53). 14 Per un’analisi comparativa del modello epistemico piagetiano e della concezione storico-culturale vygotskijana cfr. Bruner, 1997. 15 Il “problema del metodo in psicologia” è un tema molto caro a Vygotskij e si trova in quasi tutti i suoi scritti (cfr. in particolare Vygotskij, 1930-31 e Vygotskij - Lurija 1930, in cui è contenuto il tentativo di servirsi del «metodo storico» per l’impostazione dei più importanti problemi della psicologia genetica). D’altronde, la rifondazione della psicologia in chiave marxista è un tema estremamente contemporaneo a Vygotskij che lavora negli anni della Rivoluzione Bolscevica. In questo periodo si consumano accesi dibattiti in una duplice direzione: da una parte una forte critica alla psicologia del tempo a partire da concezioni marxiste (che si traduceva in letture critiche di autori contemporanei quali Freud, Stern, Piaget, Adler e della psicologia della Gestalt); dall’altra la definizione dell’oggetto stesso

24

Da tutte queste premesse deriva che

lo sviluppo umano implica una partecipazione degli individui a comunità

culturali, e può essere compreso solo alla luce delle pratiche culturali e

delle condizioni di tali comunità, che sono anch’esse in continua

evoluzione. (Rogoff, 2003, p.1).

La cognizione d’altronde non può che essere “cognizione culturale”

che si presenta come sintesi dell’evoluzione filogenetica, della

traiettoria storica e del percorso ontogenetico del soggetto:

attribuire la giusta importanza a questi processi permette di dare conto

non solo dei tratti universali della cognizione peculiari dell’uomo – come

la creazione e l’uso di artefatti materiali, simbolici e istituzionali, con le

della psicologia marxista. Vygotskij trovò nel metodo storico-culturale (o dialettico) la chiave di volta per la fondazione di una nuova psicologia che si tradusse, sul piano teorico, in una critica della concezione dell’uomo in chiave biologica e naturalistica (voluta dalla riflessologia e dal comportamentismo), cui contrapponeva la sua teoria dello sviluppo storico-culturale. La nuova metodologia avrebbe dovuto contemplare da una parte lo sviluppo psicologico generale (una dimensione storico-naturale-oggettiva della psiche), dall’altra chiarire in che rapporti stesse la filogenesi umana con il contesto evoluzionistico della specie, e descrivere in che momento e in che modo avvenisse lo sviluppo specificamente umano. Le ipotesi che Vygotskij poneva alla base delle sue indagini sperimentali erano fondamentalmente due: la natura mediata delle funzioni psichiche superiori e la genesi dei processi mentali interni da un’attività originariamente esterna, dove, come vedremo, “esterno” è sinonimo di “sociale”.

«Vygotskij vedeva nei metodi e nei principi del materialismo dialettico una soluzione all’interpretazione dei paradossi scientifici che i suoi contemporanei si trovavano a dover affrontare. Un dogma fondamentale di questo metodo è che tutti i fenomeni devono essere studiati come processi in movimento e in trasformazione. Per quanto riguarda l’argomento della psicologia, il compito degli scienziati è di ricostruire l’origine e il corso dello sviluppo del comportamento e della coscienza. Ogni fenomeno non solo ha una storia, ma questa storia è caratterizzata da trasformazioni sia qualitative (cambiamenti nella forma, nella struttura e nelle caratteristiche fondamentali) sia quantitative. Vygotskij adoperò questo tipo di ragionamento per spiegare la trasformazione di processi psichici elementari in processi psichici complessi. Lo scisma tra gli studi secondo la storia naturale dei processi elementari e la riflessione speculativa sulle forme di comportamento culturale potrebbe essere risolto tracciando le trasformazioni qualitative del comportamento che avvengono nel corso dello sviluppo. Quindi, quando Vygotskij definisce il suo punto di vista “inerente allo sviluppo” ciò non va confuso con una teoria dello sviluppo infantile. Il metodo dello sviluppo, secondo Vygotskij, è il metodo centrale della scienza psicologica» (Cole - Scribner 1978, p. 19).

25

loro storie cumulative – ma anche delle peculiarità di particolari culture,

ciascuna delle quali nel corso delle ultime decine di migliaia di anni della

storia umana ha sviluppato autonomamente, attraverso questi stessi

processi storici e ontogenetici, una varietà di abilità e di prodotti cognitivi

culturalmente unici. (Tomasello, 1999, p.30).

La tesi centrale della teoria storico-culturale è che la struttura e lo

sviluppo dei processi psicologici umani (le funzioni psichiche

superiori) emergono dall’attività pratica, mediata culturalmente e

suscettibile di sviluppo storico.

Nello sviluppo del bambino sono rappresentati (ma non si tratta di una

ripetizione) ambedue i tipi di sviluppo psichico che troviamo, separati,

nella filogenesi: sviluppo biologico e sviluppo storico, ossia uno sviluppo

naturale e culturale del comportamento16

e questo renderebbe complesso il problema dello studio dello

sviluppo del bambino in quanto il sistema di attività organiche,

proprie di una dimensione biologica, e il sistema di attività

strumentali, proprie dello sviluppo storico, non si avvicendano, ma

sono contemporanei. Lo sviluppo culturale non crea nulla rispetto a

quanto già predisposto dalla crescita e dalla maturazione ma

modifica profondamente le abilità naturali, subordinandole ai fini

specifici dell’uomo.

16 Vygotskij, 1930-31, p. 69. Va inoltre sottolineato che Vygotskij non intende affatto sostenere la legge della ricapitolazione biogenetica: «con questo non intendiamo dire che l’ontogenesi ripeta o riproduca in qualche sua forma o grado la filogenesi, o che le sia parallela; stiamo invece esponendo un pensiero molto diverso. […]. Nell’esporre i nostri esperimenti ci volgeremo spesso, per fini euristici, ai dati della filogenesi, nei casi in cui avremo bisogno di una chiara definizione del concetto di sviluppo culturale del comportamento. […]. Parlando dell’analogia tra le due linee dello sviluppo infantile con le due linee della filogenesi, non intendiamo estendere questa analogia alla struttura e al contenuto di questo e quel processo, ma la limitiamo ad un solo momento: la presenza nella filogenesi e nell’ontogenesi di due linee di sviluppo» (ibidem).

26

L’acquisizione dei valori della civiltà da parte di un bambino normale,

avviene di solito in maniera inscindibile dai processi della crescita e della

maturazione organica. I due piani dello sviluppo, naturale e culturale

coincidono e si fondano insieme. Le due serie di mutamenti confluiscono

l’una nell’altra e costituiscono sostanzialmente quell’unico processo

complesso che è la formazione biologico-sociale del bambino. Lo

sviluppo culturale assume un carattere affatto particolare, che non ha

paragoni possibili con altri fenomeni, poiché si compie

contemporaneamente alla crescita organica e inseparabilmente da

questa, e perché il soggetto è costituito dall’organismo infantile in

evoluzione, sottoposto ai mutamenti della crescita. (Vygotskij, 1930-31,

p.70).

In base a questa prima definizione dello sviluppo infantile, Vygotskij,

insieme a Alexander R. Lurija e Alexej N. Leont’ev, prepara un

programma di ricerche empiriche che avrebbero dovuto trovare

evidenza della funzione determinante degli strumenti di mediazione

su tutti gli aspetti del comportamento o, come egli stesso si

esprimeva quando si riferiva agli aspetti specificamente culturali del

comportamento, sugli aspetti dell’attività (Veggetti, 1994).

La teoria genetica dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori

trova un’ampia trattazione in due scritti: La scimmia, l’uomo primitivo,

il bambino. Studi sulla storia del comportamento, preparato in

collaborazione con Lurija17 la cui prima pubblicazione risale al 1930 e

Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori che risale agli

anni 1930-1931.

Nel volume scritto con Lurija, Vygotskij parla di «comportamento» e

non ancora di funzioni psichiche superiori. Il metodo utilizzato dagli

autori per presentare i fondamenti della psicologia storico-culturale

consiste in una comparazione tra la specificità di ognuna delle tre

17 Lurija si occupa in particolare della stesura del terzo capitolo Il bambino e il suo comportamento, mentre Vygotskij scrive i primi due capitoli: Il comportamento della scimmia antropoide e L’uomo primitivo e il suo comportamento.

27

tendenze dello sviluppo del comportamento: della scimmia

antropoide, dell’uomo «primitivo» e del bambino.

Lo schema dei nostri saggi può essere così rappresentato: l’utilizzazione

e l’invenzione degli strumenti nelle scimmie antropoidi rappresenta il

completamento dello sviluppo organico del comportamento nella serie

evolutiva e prepara la trasposizione di tutto lo sviluppo su nuovi criteri,

creando il principale presupposto psicologico dello sviluppo storico del

comportamento; il lavoro e lo sviluppo, ad esso collegato, del linguaggio

umano e di altri segni psicologici, mediante il quale l’uomo primitivo

cerca di dominare il comportamento, indicano l’inizio dello sviluppo del

comportamento culturale o storico nel vero senso della parola; infine

nello sviluppo infantile, accanto ai processi della crescita organica e

della maturazione, emerge chiaramente una seconda linea di sviluppo e

cioè la crescita culturale del comportamento, basata sull’assimilazione di

procedimenti e metodi di comportamento culturale e di pensiero.

(Vygotskij – Lurija, 1930-31, p. 4).

Secondo gli autori questi tre momenti sono sintomi di nuove epoche

nell’evoluzione del comportamento e indizi di cambiamento del tipo

stesso di sviluppo.

Abbiamo dunque sempre preso in considerazione le tappe cruciali e

critiche nello sviluppo del comportamento. Un tale momento critico e

cruciale riteniamo coincida nel comportamento della scimmia con l’uso

degli strumenti, nel comportamento dell’uomo primitivo con il lavoro e

l’uso dei segni psicologici e nel comportamento del bambino con lo

sdoppiamento della linea del suo sviluppo in sviluppo psicologico-

naturale e psicologico-culturale. […].

Abbiamo cercato in primo luogo di evidenziare la profonda specificità di

ognuna delle tre tendenze dello sviluppo del comportamento, la diversità

del metodo e del tipo di sviluppo. Ci hanno soprattutto interessato i

caratteri differenziali e non quelli similari di questi processi.

Contrariamente alla teoria del parallelismo, noi siamo partiti dal

presupposto che lo studio delle principali caratteristiche distintive di ogni

28

processo di sviluppo, caratteristiche che lo distinguono dal comune

concetto dell’evoluzione, può portare direttamente a chiarire il tipo e le

regolarità specifiche di ognuno dei tre processi esaminati. (Ibidem, pp. 4-

5).

Per Vygotskij fra gli animali e l’uomo ci sarebbe un salto qualitativo

caratterizzato dallo sviluppo di processi psichici superiori dipendenti

dal contesto storico-sociale; i processi psichici superiori pur

conservando la stessa natura biologica di quelli inferiori,

rappresentano una nuova organizzazione funzionale di quest’ultimi,

generatasi sotto l’influsso dei fattori sociali e culturali. Sia le funzioni

psichiche inferiori che quelle superiori sono “processi materiali” che

si svolgono a livello neurologico18, con la differenza che i processi

psichici superiori si sviluppano in relazione all’ambiente sociale e

culturale.

Nessuno ha mai trovato, osservando la vita degli animali, strumenti o

metodi tradizionali diversi nelle diverse popolazioni e che indicassero

una trasmissione di scoperte, una volta fatte, da una generazione

all’altra, alcuna presenza di segni su pietre arenarie o creta che

potessero essere presi per un disegno che rappresentasse qualche

cosa o perfino un ornamento scarabocchiato per gioco, alcunché che

indichi un linguaggio, cioè suoni equivalenti a nomi. […].

Ma non bisogna dimenticare che le differenze quantitative si trasformano

in quelle qualitative. Ciò che esiste come embrione in una specie può

diventare un tratto distintivo in un’altra specie di animali. L’elefante

stacca i rami per scacciare le mosche. Ciò è interessante e istruttivo. Ma

18 A ogni livello dello sviluppo del comportamento, afferma Vygotskij riportando le teorie di Ludwig Edinger, si accompagna una crescita delle strutture celebrali. Scrive inoltre citando Bühler: «nelle scimmie antropoidi e ancor più nell’uomo, avviene un nuovo aumento del peso relativo del cervello, che spetta alla corteccia celebrale. Nuovi campi con innumerevoli intrecci di fibre si intersecano con quelli vecchi sulla corteccia del cervello. Nell’uomo questo riguarda prima di tutto i più importanti centri della parola» (ibidem, p. 49). Affermando che i processi cognitivi (le funzioni psichiche superiori) sono un prodotto dell’attività celebrale, Vygotskij divenne uno dei primi sostenitori delle possibili convergenze tra psicologia cognitiva, neurologia e fisiologia (Cole, 1978).

29

nella storia dello sviluppo della specie “elefante” l’uso dei rami nella lotta

contro le mosche forse non ha avuto nessun ruolo essenziale. Gli

elefanti non sono diventati elefanti perché i loro antenati di tipo più o

meno elefantico agitavano i rami.

Un’altra cosa è l’uomo. Tutta l’esistenza dell’aborigeno australiano

dipende dal suo boomerang, come tutta l’esistenza dell’Inghilterra

moderna dipende dalle sue macchine. Togliete all’australiano il suo

boomerang, fategli lavorare la terra ed egli, per necessità, cambierà tutto

il suo modo di vita, tutte le sue abitudini, tutto il suo modo di pensare,

tutta la sua natura. (Ibidem, pp. 53-54).

Nel corso dello sviluppo storico dell’umanità – afferma Vygotskij,

riprendendo le teorie di Marx – non sono soltanto cambiati i rapporti

tra l’umanità e la natura, ma è cambiata la natura stessa dell’uomo:

«questa modificazione della natura da parte dell’uomo è alla base di

tutta la storia umana» (Vygotskij, 1930-31, p.123). Di questo sviluppo

storico dell’uomo si sa molto poco in quanto si dispone di scarso

materiale.

Il grande e differenziato mondo degli animali, bloccatosi ai diversi livelli

dell’”origine delle specie”, offre quasi un panorama vivente

dell’evoluzione biologica e permette di aggiungere ai dati dell’anatomia e

della fisiologia comparata i dati della psicologia comparata.

Lo sviluppo del bambino è un processo che si compie ripetutamente

davanti ai nostri occhi. Esso ammette i più diversi metodi di studio. Il

processo di modificazione storica della psicologia umana invece è posto

in condizioni assai peggiori di studio. Le scomparse epoche storiche

hanno solo lasciato documenti e tracce riguardo al passato.

Secondo questi documenti e tracce può essere ristabilita più facilmente

la storia esterna della specie umana. Non è rimasto, però, nessun

elemento completo e oggettivo dei meccanismi psicologici di

comportamento. Perciò la psicologia storica dispone di assai meno

materiale.

30

Per questo una delle sue fonti più ricche è lo studio dei cosiddetti popoli

primitivi. Alcuni popoli del mondo non civilizzato che si trovano a livelli

più bassi dello sviluppo culturale, di solito chiamati, anche se in verità in

senso convenzionale, primitivi. Questi popoli non possono essere a

pieno diritto chiamati primitivi, poiché in loro, decisamente in tutti, esiste

un grado minore o maggiore di civilizzazione. Tutti sono già usciti dal

periodo preistorico di esistenza dell’uomo. Molti hanno delle tradizioni

antichissime. Alcuni hanno esperito l’influenza di lontane e potenti

culture. Oggi in nessun luogo esiste l’uomo primitivo nel senso vero e

proprio della parola. (Vygotskij – Lurija, 1930, pp. 64-65).

In sostanza, avverte Vygotskij, l’uomo così detto «primitivo» è già un

soggetto di sviluppo storico, affermazione che egli pone con

chiarezza fin dall’inizio, differenziando in tal modo le sue concezioni

da quelle della psicologia comparata a lui contemporanea, che

affermava l’inferiorità del tipo biogenetico del «primitivo». Dopo avere

riportato ricerche di etnografi ed etnologi a lui contemporanei quali

Taylor, Spencer, Lévy-Bruhl, Thurnwald conclude:

se proviamo a sommare i risultati di queste ricerche sulle differenze

fisiologiche del primitivo, si può arrivare a concludere che la ricerca

scientifica non dispone attualmente di un materiale in qualche modo

positivo, atto ad indicare un particolare tipo biologico al quale sarebbe

opportuno ascrivere, come causa principale, l’origine di tutta la

specificità del comportamento dell’uomo primitivo. Al contrario, le

differenze accertate dagli studiosi, da una parte, risultano assai

insignificanti, mentre dall’altra sono profondamente dipendenti

dall’esercizio e risultano quindi profondamente dipendenti dallo sviluppo

culturale. (Ibidem, p. 75).

In sostanza tra le operazioni intellettive del «primitivo» e quelle

dell’uomo «civile» ci sarebbe una continuità dovuta all’uso di segni

per controllare i processi psichici naturali, viceversa l’adattamento e il

31

dominio dei processi naturali è ciò che manca al bambino rispetto al

primitivo.

Il bambino nasce in un ambiente produttivo-culturale già pronto e in

questo consiste la sua differenza decisiva e radicale dal primitivo. Ma il

fatto è che egli nasce separato da esso e che non vi si inserisce subito.

Questo inserimento nelle condizioni civili non equivale affatto al

semplice atto di indossare un vestito nuovo: esso è accompagnato da

profonde trasformazioni nel comportamento, dalla formazione di nuovi

suoi meccanismi, fondamentali e specifici. Per questo è del tutto

naturale che in ogni bambino ci deve essere il periodo primitivo

preculturale; questo periodo dura un certo tempo ed è caratterizzato

dalle sue particolarità nella struttura della vita psichica del bambino, da

tratti originali primitivi nell’assimilazione del pensiero.

Inserendosi nel suo ambiente, il bambino inizia subito a mutarsi e a

cambiare: ciò avviene molto presto, perché la situazione socio-culturale

già pronta crea in lui quelle necessarie forme di adattamento che da

tempo erano state create dagli adulti che lo circondano.

Tutto il comportamento del bambino si riordina; in esso si produce

l’abitudine di frenare il diretto soddisfacimento delle sue necessità e

inclinazioni, di trattenere le risposte dirette agli stimoli esterni in modo da

impadronirsi di una data situazione meglio e più facilmente, per vie

traverse, elaborando procedimenti culturali adeguati. (Ibidem, p. 168).

Il comportamento del bambino in varie età, presenta significative

differenze qualitative che affondano le proprie radici non solo nelle

modificazioni fisiologiche, ma anche nella diversa capacità di

utilizzare le forme culturali.

In breve possiamo dire che il bambino attraversa determinati stadi di

sviluppo culturale, ognuno dei quali è caratterizzato da un diverso

rapporto del bambino con il mondo esterno, da un diverso tipo di

utilizzazione degli oggetti e da diverse forme di invenzione e di uso di

determinati procedimenti culturali, sia esso un qualche sistema

32

elaborato nel processo di sviluppo della cultura, o un procedimento,

inventato durante la crescita e l’adattamento della personalità. (Ibidem,

p. 126).

Lo sviluppo del comportamento del bambino è visto come

caratterizzato da quattro stadi19.

Il primo è quello prettamente organico: nella fase neonatale il

bambino è alle prese con sensazioni organiche limitate al suo corpo

e determinate dai principali istinti, in quanto manca di qualsiasi

strumento nell’adattamento alla realtà20.

In un secondo stadio il bambino dispiega una serie di processi

psichici che sono inizialmente «naturali»; si tratta di uno stadio

transitorio, che corrisponde al primo anno di vita circa, in cui il

bambino sta preparando i suoi strumenti per entrare nella

dimensione dello sviluppo culturale che gli si presenta nel terzo

stadio.

[Questo] è caratterizzato dalla genesi, nel comportamento del bambino,

di processi mediati che ristrutturano il comportamento con l’utilizzazione

di segni-stimolo. Questi metodi di comportamento, acquisiti nel processo

19 Ognuno di questi stadi sarà ripreso nello scritto Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori (cui si rimanda) per quanto riguarda lo sviluppo del linguaggio, dell’attenzione volontaria e della memoria nel bambino; per quanto riguarda lo sviluppo del linguaggio in particolare cfr. Vygotskij, 1934. 20 «L’adulto non solo è legato all’ambiente circostante da mille legami più intimi, egli stesso è il suo prodotto, la sua sostanza è nella sostanza dell’ambiente circostante. La situazione è del tutto diversa per il neonato. […]. E’ vero che il mondo è per lui pieno di rumori e macchie, ma i suoi organi di senso ancora non gli servono: egli ancora non percepisce singole impressioni, non riconosce gli oggetti, non distingue nulla in questo caos generale; il mondo delle cose note e percepite non esiste per lui, ed egli vive in mezzo ad esso come un eremita. […]. Nell’adulto un enorme e determinante ruolo è svolto da quelle funzioni di comportamento che lo collegano all’ambiente e che sono il prodotto di questa azione sociale e culturale, cioè le sue percezioni, la sua pratica, il suo intelletto; nel bambino questo posto dominante è occupato da sensazioni organiche, limitate al suo corpo (costanti eccitazioni interne – inclinazioni primitive, l’eccitazione della mucosa della bocca, ecc.); ciò che è più importante nel comportamento dell’adulto, è assente nel bambino; per lui nella fase primitiva di sviluppo vi sono altri valori, altre proporzioni, altre leggi; il bambino piccolo si differenzia dall’adulto, in un certo senso, non meno che la crisalide dalla farfalla» (Vygotskij - Lurija, 1930, pp. 134-135).

33

dell’esperienza culturale, trasformano le principali funzioni psicologiche

del bambino, le equipaggiano con nuovi strumenti, le sviluppano.

(Ibidem, p. 174).

Sul piano delle funzioni psichiche, il bambino inizia ad usare alcuni

strumenti per potenziare la propria memoria, per esempio, inizia ad

essere in grado di utilizzare delle figurine per ricordare delle liste di

parole. Adopera tuttavia strumenti esterni, che trova perlopiù già

pronti nel contesto in cui si svolge la sua esperienza e questo è un

tratto caratterizzante che differenzia il comportamento del bambino

dal «primitivo» che, invece, crea da solo i propri strumenti di

adattamento attivo alla natura21. Questo stadio viene definito come

quello del comportamento secondo un metodo culturale esterno.

Il quarto stadio dello sviluppo del comportamento è caratterizzato

dall’uso di strumenti astratti, i segni (come le parole e i diversi sistemi

semiotici), con valore strumentale per dominare le funzioni psichiche.

Ciò che egli faceva prima con l’aiuto di segni esteriori, comincia ora a

farlo con l’aiuto di procedimenti interiori che sostituiscono interamente

quei segni esteriori sui quali egli ha imparato. Il bambino che ricordava

prima con i cartoncini, ora comincia a memorizzare mediante un sistema

interiore, pianificando e collegando il materiale alla sua esperienza

precedente in modo che le immagini interiori, nascoste all’occhio

estraneo e rimaste costantemente nella memoria, hanno ora un ruolo

21 «Più sopra abbiamo fatto notare che l’uomo primitivo, al quale occorre ricordare il numero dei capi di bestiame o delle misure di grano, invece di ricordare questo in modo diretto, praticava delle tacche e, marcando con esse il quantitativo necessario, raggiungeva due scopi in una volta: usando un metodo primitivo egli, con maggior forza che col metodo naturale, ricordava il materiale a lui necessario e nel contempo alleggeriva la propria naturale memoria del carico superfluo.

Possiamo dire che anche il bambino percorre un cammino simile, con la sola differenza che l’uomo primitivo inventava i suoi sistemi di memorizzazione da solo, mentre il bambino in fase di sviluppo il più delle volte riceve sistemi già pronti, che lo aiutano a ricordare e non fa altro che inserirsi in essi, impara ad usarli, ad assimilarli e, per il loro tramite, a trasformare i sui processi naturali» (Vygotskij - Lurija, 1930, p. 177).

34

funzionalmente ausiliario, servono da anello di congiunzione per il

ricordo. (Ibidem, p. 223).

Utilizzando dati di ricerca empirica, l’esposizione dimostra come la

struttura delle funzioni psichiche si modifichi attraverso la mediazione

interna: l’attenzione diventa volontaria e ciò permette al bambino di

riprodurre certi contenuti appresi nel momento in cui vuole riprodurli.

In questo passaggio il linguaggio verbale acquista un ruolo

dominante; la memoria perde la caratteristica eidetica (e cioè il suo

fondarsi su immagini concrete e vivide) e diventa logico-verbale.

Il linguaggio acquista un ruolo dominante, diventa il procedimento

culturale più usato, arricchisce e stimola il pensiero, e la psiche del

bambino si riadegua, acquista una nuova struttura. I meccanismi verbali,

che prima si esprimevano chiaramente nel periodo del linguaggio attivo,

in questo periodo di accumulazione iniziale si trasformano in un

linguaggio interiore silente, che diventa uno dei principali strumenti

ausiliari del pensiero. In effetti, quanti complessi e precisi compiti

intellettuali sarebbero rimasti insoluti se noi non possedessimo il

linguaggio interiore, grazie al quale il pensiero può assumere forme

precise e chiare, grazie al quale diventano possibili prove verbali (o

meglio intellettuali) preliminari di singole soluzioni e la loro

pianificazione. […].

Trasferendosi dall’esterno all’interno, il linguaggio forma

un’importantissima funzione psicologica, che rappresenta in noi

l’ambiente esterno, stimola il pensiero, e, come pensano alcuni autori,

pone le basi per lo sviluppo della coscienza.

Quelle primitive forme dell’attività verbale del bambino, i periodi della

chiacchiera infantile del “monologo collettivo”, tutto ciò è la preparazione

a quegli stadi di sviluppo in cui il linguaggio diventa un importantissimo

meccanismo di pensiero; solo in quest’ultimo periodo il linguaggio da un

procedimento formato dall’esterno si trasforma in processo interiore e il

35

pensiero dell’uomo acquista nuove ed enormi prospettive di ulteriore

sviluppo22.

Il lavoro in esame si chiude con due paragrafi dedicati alla

descrizione del comportamento del bambino «normale» e con deficit

o handicap. Secondo gli autori, ritardo mentale e handicap

priverebbero il bambino non tanto delle funzioni psichiche “naturali”,

ma proprio dei procedimenti culturali per potenziarle. Ciò

spiegherebbe ad esempio la contraddizione per cui si osserva, a

volte, in bambini ritardati una memoria formidabile.

La differenza tra il bambino ritardato e quello normale spesso si

dimostra non nelle particolarità naturali dell’uno e dell’altro, ma nella

diversa utilizzazione delle doti naturali, dipendenti evidentemente dalla

diversa formazione culturale del bambino. Nei deboli e negli imbecilli ciò

è ostacolato dai difetti oggettivi nello sviluppo del cervello, nello scolaro

ritardato da un’insufficiente influenza dell’ambiente culturale. Ma se nei

primi spesso non vediamo una grande influenza dell’educazione, se

essa si scontra con gravissime difficoltà costituzionali, per quanto

riguarda i bambini ritardati della scuola normale, restiamo pieni di sano

ottimismo: inculcando nel bambino determinati procedimenti culturali di

comportamento, possiamo lottare con successo contro il ritardo infantile

non come fatto biologico, ma come fenomeno di insufficiente sviluppo

culturale. […].

Tutti questi fatti ci obbligano naturalmente a rivalutare alquanto il nostro

atteggiamento verso le capacità naturali e acquisite e a porre la

questione della capacità culturale, come uno dei problemi più importanti

della psicologia moderna23.

22 Ibidem, pp. 214-215. Con queste affermazioni risultano delineate, in questo lavoro, alcune delle concezioni di Vygotskij sui rapporti tra pensiero e linguaggio che verranno approfonditi in un volume successivo dal titolo Pensiero e linguaggio (1934) in cui criticando Piaget, l’autore afferma che ciò che nella concezione piagetiana viene indicato come “linguaggio egocentrico” e che assume la caratteristica di “monologo collettivo” rappresenta in verità una forma di pensiero esteriorizzata. 23 Ibidem, pp. 242-243. In stretto collegamento con la definizione della concezione storico-culturale dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori e della funzione

36

Lo studio comparato dei diversi tipi di sviluppo culturale (nel bambino

con handicap e nel bambino normodotato) diventa metodo principale

di indagine (insieme al metodo genetico) per l’analisi delle funzioni

psichiche superiori proprio per la forma che esso assume nella

patologia: il valore euristico di questa metodologia consiste nella

possibilità di focalizzare l’apporto culturale allo sviluppo del bambino

e di studiare com’esso si innesta sullo sviluppo biologico24.

del loro controllo Vygotskij elabora, sulla base dell’attività clinica, i principi per il lavoro riabilitativo e rieducativo. Per un’analisi comparata dello sviluppo normale delle funzioni psicologiche e della loro disgregazione (in particolare un’analisi genetica del pensiero concettuale dell’adolescente e una comparazione con quello dello schizofrenico) si rimanda al saggio Deterioramento dei concetti nella schizofrenia. Contributo al problema della psicologia nella schizofrenia (1932); mentre per un’analisi del ritardo mentale in connessione con disturbi nell’attività intellettiva si veda Il problema del ritardo mentale, saggio per la costruzione di un’ipotesi di lavoro (1935); entrambi contenuti in Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori. Sintetizzando le posizioni principali, in parte già contenute in Studi sulla storia del comportamento, egli afferma che compito della psicologia deve essere quello di partire non da ciò che al bambino manca, ossia dal deficit sensoriale o dal ritardo (cosa che snatura la psicologia ponendola al livello della fisiologia o della biologia) ma quello di partire dalla considerazione della dotazione naturale, che nel bambino handicappato è a volte più forte di quella del bambino normale, e di creare, su questa base, dei percorsi ausiliari, delle vie indirette per lo sviluppo culturale. Pertanto, se la differenziazione tra il bambino normale e quello handicappato sta sul piano culturale, la natura dell’intervento deve essere propriamente educativa. 24 «La particolarità fondamentale dello sviluppo infantile sta nella fusione dei due processi di sviluppo culturale e biologico. Nel bambino che presenta qualche difetto fisico, non si osserva la fusione di questi due processi. I due piani dello sviluppo abitualmente, in modo più o meno sensibile, divergono. Causa di questa divergenza è il difetto organico. La cultura umana si è venuta costituendo nelle condizioni di una determinata stabilità e costanza del tipo biologico umano. Per questo i suoi strumenti materiali, l’adattamento, i suoi istinti e le istituzioni e gli apparati sociali e psicologici sono determinati in funzione di un’organizzazione psicofisiologicamente normale.

L’uso di questi strumenti e di questi apparati richiede come suo presupposto essenziale la presenza degli organi e delle funzioni peculiari dell’uomo. L’acquisizione dei valori della civiltà da parte del bambino è condizionata alla maturazione delle funzioni e degli apparati corrispondenti. A un determinato stadio del suo sviluppo biologico il bambino apprende l’uso della lingua, se il suo cervello e l’apparato fonatorio si sviluppano normalmente. A un altro stadio, superiore, dello sviluppo, il bambino apprende il sistema del calcolo decimale e la lingua scritta, più tardi ancora le fondamentali operazioni aritmetiche.

Il legame, la coincidenza di questo o di quello stadio, o forma, dello sviluppo con determinati momenti della crescita organica è sorto oramai da secoli, millenni, e ha istituito una simbiosi a tal punto stretta tra i due fenomeni, che la psicologia infantile non ha più fatto distinzione tra i due fenomeni, considerando così l’idea che l’acquisizione delle forme culturali del comportamento sia un sintomo naturale

37

Questa complessa opera, sommariamente riassunta in questo

paragrafo, espone i fondamenti della psicologia storico-culturale e

della teoria strumentale in psicologia delineando proprio la natura

degli strumenti culturali che provocano l’ominizzazione delle funzioni

psichiche naturali, il loro divenire più complesse (sia sotto l’aspetto

genetico che funzionale) e dunque superiori come Vygotskij le

definisce nello scritto Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche

superiori.

1.1 Filogenesi e storia culturale

La psicologia storico-culturale considera dunque la cognizione

umana come il risultato di trasformazioni avvenute all’interno di vari

domini dello sviluppo: filogenesi, storia culturale e ontogenesi.

Essa pone inoltre molta fiducia in una rigorosa successione

temporale tra i diversi domini:

per noi [il collegamento tra le tre tendenze dello sviluppo] consiste nel

fatto che ciascun processo di sviluppo prepara dialetticamente il

successivo e si trasforma in un nuovo tipo di sviluppo. Noi non pensiamo

che tutti e tre i processi convergano linearmente, ma riteniamo che ogni

tipo superiore di sviluppo inizi là dove termina il precedente e si ponga

come sua continuazione nel nuovo indirizzo. (Vygotskij – Lurija, 1930,

p.6).

dello sviluppo organico come il manifestarsi si qualsiasi altra caratteristica somatica. […].

Tutta la patologia tradizionale, tutta la teoria dello sviluppo e delle caratteristiche del bambino anormale, più ancora che la stessa psicologia infantile, era centrata sull’idea dell’omogeneità e dell’unità del processo dello sviluppo infantile, e poneva su un unico piano le caratteristiche primarie, biologiche, del bambino non normale e le secondarie, culturali, della complicazione del difetto. Questo era causato, in linea generale, dal fatto che la gradualità e la consequenzialità del processo di acquisizione dei valori della civiltà sono condizionati dalla gradualità dello sviluppo organico» (Vygotskij, 1930-31, pp. 75-76).

38

Come ha fatto notare James Wertsch (1985a) l’idea che ogni livello

“superiore” inizi precisamente nel punto in cui termina quello

precedente implica una teoria del “punto critico” nelle origini della

cultura, del tipo proposto da Alfred Kroeber (1917), che sosteneva

una concezione della cultura come realtà superorganica, disgiunta

dalla filogenesi25.

In quanto alla teoria del punto critico della comparsa della cultura, essa

postula che lo sviluppo della capacità di acquisire cultura fu un tipo di

avvenimento improvviso, tutto-o-nulla, nella filogenesi dei primati. In

qualche preciso momento nella nuova irrecuperabile storia

dell’ominazione avvenne un’alterazione organica e prodigiosa, ma

probabilmente secondaria in termini genici o anatomici –

presumibilmente nella struttura della corteccia – in cui un animale i cui

genitori non erano stati predisposti a “comunicare, apprendere e

insegnare” […] venne predisposto e “con ciò egli cominciò ad essere in

grado di agire come ricevitore e trasmettitore, e ad iniziare

quell’accumulazione che è la cultura”. Con lui era nata la cultura e, una

volta nata, iniziò il suo corso in modo del tutto indipendente dall’ulteriore

evoluzione organica dell’uomo. […]. Non solo è diventato ora fuorviante

usare l’immagine della “promozione” a un gradino superiore per la

comparsa dell’uomo, ma “è ugualmente dubbio se dobbiamo parlare

ancora in termini di comparsa della cultura, come se anche la cultura

fosse improvvisamente balzata nell’esistenza insieme con l’uomo”.

(Geertz, 1973, p.83).

25 Interessante notare come lo stesso Vygotskij ravveda nel «paradosso biologico-culturale» dello sviluppo infantile la differenza tra la linea di sviluppo filogenetica e ontogenetica: «se nello sviluppo biologico dell’uomo domina un sistema di attività organiche e nello sviluppo storico un sistema di attività strumentali se nella filogenesi di conseguenza tali sistemi sono rappresentati e si sono sviluppati isolatamente l’uno dall’altro, nell’ontogenesi essi si sviluppano insieme e contemporaneamente. […]. Questo significa che nell’ontogenesi lo sviluppo del sistema di attività rivela un duplice condizionamento. […]. Questo fatto merita il nome di paradosso biologico-culturale dello sviluppo infantile» (Vygotskij, 1930-31, p. 72).

39

La stessa teoria del “punto critico” è presente anche nel passaggio

dalla scimmia all’uomo, mentre una teoria del “livello” storico-

culturale raggiunto nei diversi contesti culturali, che giustifica la

distinzione tra uomo «primitivo» e «civile» riporta ad un concetto,

molto diffuso durante il Diciannovesimo e Ventesimo secolo,

dell’evoluzione come progresso lungo una sola dimensione.

Sembrerebbe che una volta raggiunto un livello di competenza

riconoscibile come umano, tutto il successivo cambiamento tecnologico,

dalla caccia e raccolta del paleolitico all’industria moderna, potrebbe

avere avuto luogo senza ulteriori mutamenti significativi nella dotazione

di base ereditaria della specie umana.

In breve, sembra che mentre il cambiamento di utensili dal Basso all’Alto

Paleolitico appartiene all’evoluzione, il cambiamento da quest’ultimo alle

moderne tecnologie industriali appartiene alla storia. Quando parliamo di

evoluzione, si da per scontato che i cambiamenti degli utensili

dipendano da, e possono perciò essere indici di cambiamenti delle

forme e capacità umane. […].

La nozione di “capacità” sembra implicare una certa visione della natura

umana, che comprende una serie di strutture universali o di

comportamenti, pienamente formati nella vita di ogni individuo fin

dall’inizio, e successivamente riempiti di tanti contenuti particolari e

culturali. Così, le capacità sarebbero innate, prodotto di un processo

evolutivo, mentre il contenuto acquisito cambierebbe nella storia […].

Non possiamo mettere gli universali dalla parte dell’evoluzione e i

particolari dalla parte della storia. Piuttosto, se la storia deve

comprendersi come un processo per cui le persone, attraverso le proprie

attività stabiliscono le condizioni ambientali all’interno delle quali i propri

discendenti raggiungono la maturità, sviluppando delle abilità

appropriate a una certa forma di vita, questo non è che l’estensione di

un processo nel dominio umano che è in atto in tutto il mondo organico.

Questo processo è un processo evolutivo. (Ingold, 2001, pp. 174-175).

40

Il presente paragrafo ha lo scopo di allineare la teoria-storico

culturale ai dati e alle teorie interpretative a noi più contemporanee

per quanto riguarda il dominio filogenetico e storico-culturale; mentre

l’ontogenesi nei suoi contesti storico-culturali, sarà trattata in un

paragrafo a parte.

1.1.1 Coevoluzione di filogenesi e storia culturale

Nell’ambito della ricerca paleoantropologica, a partire dagli anni

Settanta, una serie di dati viene a mettere in crisi l’idea di evoluzione

come processo lento, graduale e inesorabile tramite selezione

naturale. Le nuove formulazioni post-darwiniste oppongono al

gradualismo darwinista una visione sistemica che rende conto, in

maniera articolata, della struttura complessa della realtà (in cui geni,

individui, popolazioni, specie, ambiente interagiscono

continuamente) e del pluralismo evolutivo dei tempi dell’evoluzione,

dei fattori che la determinano e delle unità che ne sono coinvolte

(Eldredge, 1995).

Per quanto riguarda i “tempi” dell’evoluzione le tracce che si sono

andate raccogliendo sulla storia delle forme ominidi testimoniano che

non vi è stata una successione lineare di trasformazioni genetiche

all’interno di un unico ceppo originario (dalle quali è stato possibile

far “decollare” lo sviluppo culturale) ma che, al contrario, l’evoluzione

ha proceduto in modo «ramificato» per «speciazione». Il

meccanismo della speciazione offre un’immagine dell’evoluzione

biologica simile a quella di un «cespuglio» per cui, da un ceppo

originario può venire a distaccarsi, in maniera improvvisa e

imprevedibile, una linea evolutiva originale, la cui direzione evolutiva

è anch’essa assolutamente imprevedibile. Quando si verifica la

«gemmazione» di una nuova specie, la popolazione che è rimasta

isolata dal ceppo originario (e che inizia a riprodursi all’interno di una

nicchia ambientale specifica) si lega al proprio ambiente in un

41

sistema co-evolutivo complesso, i cui esiti appaiono imprevedibili e

resi ulteriormente complessi dalle interrelazioni che si instaurano tra

sistemi co-evolutivi diversi (Ehrlich, 2000). Nessuna specie presenta

al proprio interno forme di trasformazione graduale: esse al contrario

godono di una stabilità interna che si mantiene inalterata fino

all’intervento, anch’esso improvviso, di estinzioni o di nuove

ramificazioni (Gould, 1982).

All’interno di questo complesso contesto filogenetico, le ricerche

paleoantropologiche hanno rilevato che la mediazione attraverso

artefatti ha fatto la sua comparsa nella linea degli ominidi milioni di

anni prima dell’avvento dell’Homo sapiens, argomento a sfavore di

una teoria del punto critico e a favore di un processo di profonda

interazione tra filogenesi e storia culturale26. La maggior parte degli

studi fanno risalire la costruzione e l’uso documentato di strumenti

all’Homo habilis (che visse approssimativamente tra i 2,5 e 1,7

milioni di anni fa), il primo tra i nostri antenati ad avere il pollice

completamente opponibile e a presentare tracce fisiche di sviluppo

celebrale asimmetrico27.

26 Per una rassegna degli studi recenti sui processi di antropogenesi cfr. Groppo - Locatelli, 1996. 27 «Gli utensili associati a questi fossili di Homo sono un insieme di pietre da cui erano state staccate delle scaglie percuotendole con altre pietre e con quelle stesse schegge, che spesso erano state ulteriormente modificate. Si pensa che i resti delle pietre originali, detti nuclei, fossero usati per lavori grossolani, mentre le scaglie venissero lavorate per compiere quelli più delicati. I primi utensili di pietra sono tendenzialmente piccoli (da tre a quattro centimetri e mezzo) e non sono riconducibili a categorie separate che consentano facilmente ai ricercatori di stabilirne l’uso. A prima vista questi manufatti sono piuttosto insignificanti, ma si capisce che sono stati modellati di proposito, perché di norma i processi naturali non scheggiano le pietre nello stesso modo e spesso sono fatti di un tipo di pietra che solo dagli esseri umani potrebbe essere stata introdotta nei depositi in cui sono stati trovati i manufatti. […].

Il fatto che i nostri antenati ominidi fossero in grado di produrre utensili del genere dimostra che possedevano non solo una buona manualità, ma anche la capacità di progettare (come gli utensili dovessero essere usati), di fare previsioni essenziali (perché le pietre, spesso nuclei parzialmente lavorati, venivano tenute da parte in caso di necessità, come provano i frequenti rinvenimenti lontano dalla roccia madre) e di valutare le caratteristiche di diversi tipi di materiale. […].

La tecnologia olduvaiana di Homo habilis, però, non fu un fuoco di paglia. Fu la tecnologia umana della pietra per più di 800 000 anni. Tuttavia, studi recenti suggeriscono che, più di quanto si pensasse prima, la tecnologia fosse diversa da

42

Sembra che gli ominidi abbiano subito una radiazione adattiva e che

l’albero genealogico della loro storia evolutiva, anziché una successione

in linea retta dall’Australopithecus a noi, sia più che altro un cespuglio

filogenetico. Oggi, la nostra storia fisico-culturale indica più chiaramente

che per lungo tempo i ritmi dell’evoluzione fisica e di quella culturale si

sono trovati appaiati solo in parte: le culture primitive sono rimaste

sorprendentemente statiche durante un periodo di crescita consistente

della dimensione dell’encefalo, benché la sola grandezza non ci dica

tutto quello che dobbiamo sapere sull’evoluzione del cervello (viceversa,

sarebbe un elefante o una balena azzurra a scrivere questo libro).

Comunque, dopo si verificarono mutamenti culturali a una velocità

stupefacente senza che dai crani fossili si potesse desumere alcun

cambiamento significativo nell’aspetto fisico degli esseri umani o nelle

caratteristiche del loro cervello. (Ehrlich, 2000, p 131).

La comparsa dell’Homo sapiens, che aveva un volume celebrale

molto maggiore dei suoi predecessori28, non è accompagnata da

un posto all’altro, a seconda tanto delle condizioni ambientali quanto dell’abilità degli ominidi che fabbricavano gli utensili. Le nature umane potrebbero essersi differenziate su base geografica più di due milioni di anni fa, proprio com’è oggi per le nature degli scimpanzé» (Ehrlich, 2000, pp. 112-113). 28 Il rapporto dedotto dai reperti archeologici tra i cambiamenti tecnologici e la massa celebrale degli ominidi in evoluzione non è ancora del tutto chiaro. «Da un lato abbiamo la teoria secondo cui le nuove attività culturali e le tecniche più avanzate si sarebbero sviluppate gradualmente, insieme all’ampliamento della massa celebrale, e le apparenti rivoluzioni che riguardano gli strumenti e la manualità sarebbero solo il risultato della casualità dei campioni o di altre coincidenze. Tali coincidenze sono a volte definite tecnicamente “artefatti statistici”. Queste spiegazioni sono simili ad altre (utilizzando la catena statistica di Markov) riferite a periodi di stasi o punteggiatura nel repertorio fossile della vita (Bergman e Feldman, 1995). All’estremo opposto, i cambiamenti tecnologici potrebbero essere associati a una serie di esplosioni demografiche la cui causa è sconosciuta, ma che potrebbe essere stata il risultato di un rapido incremento delle doti mentali che hanno a loro volta aumentato la possibilità di sopravvivenza (Polgar, 1972). Il dubbio è se i cambiamenti tecnologici abbiano favorito l’esplosione demografica permettendo l’intensificazione della produzione o se piuttosto siano stati provocati dalla necessità di una produzione più efficiente creata dall’esplosione demografica, specialmente se si considera la rivoluzione agraria. Una rivoluzione potrebbe essere avvenuta più o meno all’epoca in cui apparve Homo habilis, un’altra alla comparsa di Homo ergaster/erectus (che portò al primo “fuori dall’Africa”), un’altra ancora con l’evoluzione dell’arcaico Homo sapiens nell’uomo moderno (il secondo “fuori dall’Africa” e il Grande salto della rivoluzione agraria). Le masse celebrali

43

cambiamenti drastici del repertorio archeologico. La tecnologia

acheuleana associata all’Homo erectus persistette nelle prime

popolazioni della nostra specie in Africa e in Europa, fino a circa

250.000 anni; mentre la tecnologia musteriana (Paleolitico Medio)

durò fino a 50.000 anni fa. Quando circa 40.000 anni fa apparve

l’Homo sapiens sapiens la gamma degli artefatti si era invece

considerevolmente estesa, al punto da includere non solo una

grande varietà di strumenti, ma anche figurine di pietra, calendari

lunari e pitture rupestri29.

Oggi l’ipotesi più accreditata considera la cultura come il risultato

dell’azione concomitante di molti fattori, genetici ed extragenetici30:

alla luce dei risultati acquisiti dalla genetica e dallo studio della

cultura, la distinzione natura-cultura sembra aver perso significato e

importanza31; in riferimento a questa integrazione spesso si dice che

la nostra vita concettuale è “incarnata” (embolie). Non esiste una

«natura umana» indipendente dalla cultura: per definizione la “natura

umana” è culturalmente situata (Anolli, 2004). Si parla di

interdipendenza reciproca tra fattori culturali e genetici per

aumentarono significativamente al primo di questi due passaggi, raggiungendo le dimensioni attuali solo negli ultimi 200 000 anni circa» (Ehrlich, 2000, p. 471). 29 «Il Grande balzo in avanti fu annunciato dalla comparsa di armi nuove, di utensili di pietra più elaborati e di punte di pietra raffinate, accompagnati da strumenti e armi fatti di materiali diversi: punte d’osso, arpioni di corno e aghi d’avorio. Furono inventati lo spago, il filo e i vestiti cuciti. Fatto ancora più importante, a partire da 40 000 anni fa, fiorì improvvisamente l’arte, che produsse magnifiche pitture rupestri, statuine e gioielli. Si cominciò ad accompagnare le sepolture con manufatti per sostenere, difendere e divertire i defunti e a mettere decorazioni sulle salme» (ibidem, p., 210-211). 30 Per un’esposizione sulle teorie biologiche degli ultimi due secoli cfr. Jablonka - Lamb, 2005. 31 Occorre tuttavia precisare che la cultura si fonda su alcune “premesse” come il bipedismo e la stazione eretta (Leroi-Gourhan, 1965); l’aumento del quoziente di encefalizzazione in seguito alla conquista della stazione eretta; la neotenia, come condizione di non completa maturità biologica del neonato al momento del parto, che implica il prolungamento dello stadio infantile; la capacità di produrre una gamma estesa di suoni vocalici grazie all’evoluzione dell’apparato vocale. Per un’analisi delle premesse “remote” e “recenti” della cultura cfr. Anolli, 2006a, cap. II.

44

sottolineare il processo “co-costruttivo” piuttosto che “interattivo” fra

gene e cultura (Lewontin, 2000).

Con il netto trionfo dell’Homo sapiens e la fine delle glaciazioni, il

legame tra mutamento organico e culturale venne, se non spezzato,

almeno notevolmente indebolito. Da allora l’evoluzione organica della

linea umana è molto rallentata, mentre la crescita della cultura ha

continuato a procedere con sempre crescente rapidità. È perciò inutile

postulare un modello di evoluzione umana discontinuo, tale da

comportare una “diversità di genere” o un ruolo non selettivo della

cultura durante tutte le fasi dello sviluppo degli ominidi per mantenere la

generalizzazione stabilita empiricamente che “per quanto riguarda la

loro capacità [innata] di imparare, conservare, trasmettere e trasformare

la cultura, i diversi gruppi di Homo sapiens si devono considerare

egualmente competenti”. L’unità psichica forse non è più una tautologia,

ma è ancora un fatto. (Geertz, 1973, p. 89).

Forse ancor prima, ma sicuramente con l’avvento dell’Homo sapiens,

un nuovo principio di sviluppo o evoluzione culturale, quello che

Michael Tomasello definisce effetto dente d’arresto, inizia ad

interagire con i principi evolutivi che governano altre specie32.

L’enigma fondamentale è questo. I sei milioni di anni che separano gli

esseri umani dalle altre grandi scimmie antropomorfe sono, in termini

evolutivi, un tempo molto breve, tanto che gli uomini e gli scimpanzé

moderni condividono qualcosa come il 99% del patrimonio genetico – lo

stesso grado di parentela che corre tra altri generi prossimi come leoni e

tigri, cavalli e zebre, ratti e topi (King e Wilson 1975). Vi è dunque un

problema di tempo. In effetti, non c’è stato abbastanza tempo perché la

normale evoluzione biologica basata sulla variazione genetica e sulla

selezione naturale creasse, l’una dopo l’altra, le abilità cognitive

necessarie agli esseri umani per inventare e mantenere tecnologie e

32 Per la ricognizione di ipotesi interpretative alternative per quanto riguarda il Grande balzo si rimanda a Ehrlich, 2000.

45

tradizioni d’uso degli strumenti, forme di comunicazione e

rappresentazione simbolica, organizzazioni e istituzioni sociali in tutta la

loro complessità. E l’enigma non fa che infittirsi se teniamo conto delle

attuali ricerche paleoantropologiche secondo le quali a) fino a due

milioni di anni fa la linea evolutiva umana non ha dato mostra di

alcunché di diverso dalle tipiche abilità cognitive delle grandi scimmie, e

b) i primi vistosi segni di abilità cognitive specie-specifiche sono emersi

solo negli ultimi 250.000 anni con il moderno Homo sapiens (Foley e

Lahr 1997; Klein 1989; Stringer e McKie 1996). (Tomasello, 1999, p.21).

Secondo Tomasello

a questo enigma non vi è che una soluzione possibile. Vi è, intendo dire,

un solo meccanismo biologico noto che possa produrre in così breve

tempo cambiamenti comportamentali e cognitivi come questi – che si

parli di sei milioni, due milioni o un quarto di milione di anni fa. Questo

meccanismo biologico è la trasmissione sociale o culturale, che opera

su scale temporali inferiori, e per molti ordini di grandezza, rispetto

all’evoluzione organica. In generale, la trasmissione culturale è un

processo evolutivo relativamente comune che permette agli individui di

risparmiare tempo e fatica, per tacere dei rischi, sfruttando le

conoscenze e le abilità già acquisite dai conspecifici. (Ibidem, pp. 21-

22).

Anche se esistono esempi di trasmissione culturale in altre specie

animali (negli uccelli che apprendono dai genitori i canti della loro

specie, nei ratti che mangiano solo ciò che mangia la propria

madre….) i meccanismi comportamentali e cognitivi che sostengono

la trasmissione culturale nell’uomo e nelle altre specie animali sono,

secondo questo autore, estremamente differenti: attivazione di

schemi comportamentali fissi nella prole per quanto riguarda gli

animali, apprendimento imitativo e per istruzione per quanto

concerne l’uomo.

46

Tomasello sottolinea inoltre che nelle tradizioni e negli artefatti della

cultura umana si accumulano cambiamenti in modalità sconosciute

alle altre specie («effetto dente d’arresto»):33 ogni generazione può

contare sulle “scoperte” della generazione o delle generazioni che

l’hanno preceduta e introdurre, se ne ravvisa la necessità, modifiche

a comportamenti o artefatti che a loro volta andranno ad accumularsi

per le generazioni successive34.

Di conseguenza, mentre il cambiamento genetico è principalmente

darwiniano (ovvero si verifica attraverso la selezione naturale, che

agisce sulla variazione non guidata), l’evoluzione culturale è lamarkiana,

nel senso che le scoperte utili di una generazione vengono trasmesse

direttamente a quella successiva (Gould, 1987). (Cole, 1996, p. 174).

Il concetto di accumulazione culturale presuppone, secondo

Tomasello, una trasmissione sociale “fedele” da una generazione

33 «Può forse sorprendere che per molte specie animali la difficoltà maggiore non stia nella componente creativa, ma piuttosto nell’azione stabilizzatrice dell’”effetto dente d’arresto”. Per esempio, tra i primati non umani molti individui producono regolarmente intelligenti innovazioni e invenzioni comportamentali, ma poi i loro compagni non mettono in atto quelle forme di apprendimento sociale che, nel tempo, permetterebbero all’”effetto dente d’arresto” culturale di agire (Kummer e Goodall 1985)» (Tomasello, 1999, p. 23). 34 «Vi sono tradizioni culturali che con l’accumularsi delle modificazioni apportate nel tempo da individui differenti diventano più complesse e riescono a fare fronte ad una più ampia varietà di funzioni adattive – ciò che va sotto il nome di evoluzione culturale cumulativa o “effetto dente d’arresto”. Per esempio, gli oggetti che l’uomo ha usato come martelli sono andati incontro a una significativa evoluzione nella storia umana. Ne danno prova, tra gli artefatti di cui abbiamo testimonianza, i vari strumenti più o meno simili a martelli che gradualmente hanno ampliato la loro sfera funzionale via via che venivano modificati e rimodificati alla luce di nuove esigenze – all’inizio semplici pietre, poi attrezzi compositi costituiti da una pietra legata ad un bastone, quindi i vari tipi di martelli di metallo e infine i martelli meccanici (alcuni con funzione di estrazione di chiodi, vedi Basalla 1988). Anche se non vi sono testimonianze altrettanto dettagliate, è verosimile che nel tempo alcune convenzioni e alcuni rituali (per esempio, le lingue e i rituali religiosi umani) siano divenuti anch’essi più complessi a mano a mano che venivano modificati per soddisfare nuovi bisogni comunicativi e sociali. Questo processo può essere più caratteristico di alcune culture umane rispetto ad altre, o di certi tipi di attività rispetto ad altri, ma in tutte le culture si possono trovare almeno alcuni artefatti prodotti dall’”effetto dente d’arresto”. Il comportamento di altre specie animali, scimpanzé compresi, non mostra traccia di processi di evoluzione culturale cumulativa» (ibidem, p. 58).

47

all’altra, tale da impedire “slittamenti” all’indietro. Essa è garantita da

una particolare forma di cognizione sociale, ossia la capacità

peculiare dell’uomo di comprendere i conspecifici come esseri simili

a loro stessi: nella filogenesi l’uomo avrebbe sviluppato una nuova

forma di cognizione sociale, la quale avrebbe reso possibili nuove

forme di apprendimento culturale responsabili di nuovi processi

sociogenetici e di evoluzione culturale cumulativa.

L’evoluzione culturale cumulativa può dunque spiegare molte delle

conquiste cognitive più impressionanti dell’uomo. Tuttavia, per

apprezzare fino in fondo il ruolo dei processi storico-culturali nella

costituzione dell’odierna cognizione umana, occorre guardare a ciò che

accade nell’ontogenesi umana. La cosa più notevole è che l’evoluzione

culturale cumulativa assicura che l’ontogenesi abbia luogo in un

ambiente di artefatti e di pratiche sociali in continuo rinnovamento, che,

in ogni momento, rappresentano qualcosa che rimanda all’intero sapere

collettivo dell’intero gruppo sociale nella sua intera storia culturale. I

bambini entrano a far parte pienamente di questa collettività cognitiva fin

da quando, pressappoco a nove mesi d’età, abbozzano i primi tentativi

di condividere stati attentivi con (e di apprendere imitativamente da e

attraverso) i propri conspecifici. L’emergere di queste nuove forme di

attenzione congiunta non rappresenta altro che l’emergere ontogenetico

dell’adattamento sociocognitivo specifico della nostra specie attraverso il

quale ci identifichiamo con gli altri e li comprendiamo come agenti

intenzionali al pari del Sé. (Tomasello, 1999, pp. 25-26).

Quest’ultima affermazione di Tomasello può essere messa in dialogo

con un’altra supposizione problematica della prima psicologia

storico-culturale riguardante l’esistenza di una gerarchia genetica

all’interno di ciascun dominio di sviluppo e tra un dominio e l’altro.

(Vygotskij – Lurija, 1930). Scrive in proposito Michael Cole:

sono incerto su quale significato attribuire all’asserzione che

l’ontogenesi sia ad un “livello superiore” rispetto alla filogenesi o alla

48

storia culturale, se non che le ontogenesi sono sempre costituite dagli

sviluppi più recenti della filogenesi e della storia culturale. (Cole, 1996,

p. 145).

Qualunque ricostruzione storica dei processi di cambiamento che si

sono prodotti nel corso della filogenesi soffre per la scarsità dei dati

paleoantropologici e per la necessità di ricorrere a deduzioni per

integrare in modo coerente ciò che è noto con ciò che è plausibile.

Occorre aggiungere che ogni ipotesi (a posteriori) sull’antropogenesi

corre il rischio di produrre una falsa teleologia. Ciò rende difficile (se

non impossibile) un consenso generale tra gli studiosi che se ne

occupano.

La verità è che non sappiamo ancora esattamente cosa abbia provocato

il Grande balzo, e potremmo non saperlo mai. Quello che è

incontestabile è che gli esseri umani sono stati un mucchio di creature

alquanto ottuse in lenta evoluzione per milioni di anni prima del balzo -

che ci ha portati alla condizione di dominatori della Terra e di esploratori

dello spazio nel giro di qualche decina di millenni. (Ehrlich, 2000, p.200).

Secondo Tomasello, nel corso della filogenesi, si è evoluto un nuovo

“meccanismo” cognitivo, la capacità di “leggere la mente dell’altro”35

che ha reso possibili nuove forme di apprendimento culturale e di

35 «I programmi che si sono evoluti più di recente nel cervello umano ci danno la capacità di risolvere problemi di relazione e di causalità che per altri animali è difficile o impossibile decifrare. Gli esseri umani, e probabilmente alcuni dei nostri parenti più stretti, hanno la nozione di causalità incorporata nel sistema nervoso. Sembra anche che noi esseri umani siamo predisposti a interpretare il comportamento degli altri secondo la nostra percezione delle loro convinzioni e dei loro desideri (piuttosto che attribuire le azioni altrui a forze esterne). Sospetto che fino ad un certo punto si possa riscontrare quella predisposizione anche in altri primati superiori […]. Ma la differenza di grado della capacità cognitiva fra la specie Homo sapiens e gli altri primati viventi è così grande che equivale a una differenza di tipo. Non c’è alcun indizio che gli scimpanzé siano in grado di compiere una rilevazione e un’analisi del comportamento degli altri loro simili complesse come quelle che possiamo compiere noi sul modo di agire delle altre persone. Non sentiremo mai di psicanalisti o di consulenti per il lavoro tra gli scimpanzé» (Ehrlich, 2000, p. 150).

49

sociogenesi36. Questa ipotesi ci sembra interessante perché

suggerisce l’opportunità di considerare il rapporto tra individuo e

contesto relativamente a due aree distinte di ricerca: lo sviluppo

cognitivo (con particolare attenzione ai processi di apprendimento), e

il nascere ed evolvere delle “teorie della mente”37 nel bambino.

Approccio contestualistico alla cognizione e all’apprendimento da un

lato e ricerche sulle teorie della mente dall’altro, rappresentano

attualmente due dei settori di maggiore interesse all’interno delle

riflessioni sullo sviluppo del bambino.

Tornando agli studi a noi contemporanei per quanto riguarda la

coevoluzione di filogenesi e storia culturale, segnaliamo come le

ricerche e gli approfondimenti degli anni Ottanta abbiano

ulteriormente contribuito ad allargare la considerazione sistemica dei

processi evolutivi alla pluralità dei fattori dell’evoluzione e ai soggetti

evolutivi coinvolti.

Spesso si presenta l’evoluzione come un fenomeno che accade più o

meno sotto vuoto e ce l’immaginiamo come un susseguirsi di moscerini 36 Scrive a proposito Tomasello «sfortunatamente, nell’odierno clima intellettuale la mia posizione potrà apparire a qualche studioso come di tipo essenzialmente genetico: l’adattamento sociocognitivo che caratterizza l’uomo moderno sarebbe una sorta di formula magica che differenzia la nostra specie dagli altri primati. Ma questa è un’idea sbagliata che ignora in sostanza tutto il lavoro che deve essere fatto dagli individui e dai gruppi di individui, in tempi storici e ontogenetici, per creare le abilità e i prodotti cognitivi peculiari della specie umana. Dal punto di vista storico, un quarto di milioni di anni è un tempo assai lungo durante il quale molto può avvenire nell’universo culturale, e chiunque abbia avuto a che fare con dei bambini sa quante esperienze di apprendimento possono aver luogo nel corso di qualche anno – o addirittura qualche giorno o qualche ora – di interazione continua e attiva con l’ambiente.

Qualunque seria indagine sulla cognizione umana, perciò, deve tener conto di questi processi storici e ontogenetici, che sono resi possibili, ma niente affatto determinati, dall’adattamento biologico che è alla base del tipo di cognizione sociale che è peculiare dell’uomo» (Tomasello, 1999, pp. 28-29). 37 «In generale essa può essere definita come la capacità di “leggere” la mente degli altri (mindreading), attribuendo loro stati e processi mentali che possono essere diversi dai propri. Nello specifico la Teoria della mente, che compare nel corso dell’infanzia, è la capacità di interpretare, spiegare e prevedere le azioni dei consimili, attribuendo loro stati e processi mentali quali desideri, modelli interpretativi, credenze e intenzioni. Questa teoria implica quindi la capacità di rappresentare a se stessi le rappresentazioni mentali altrui (metarappresentazioni o rappresentazioni di secondo livello)» (Anolli, 2006a, p. 47).

50

sempre più bramosi di sorseggiare DDT per cena, o magari come una

sequenza di figure solitarie che attraversano la pagina: scimmia/uomo-

scimmia/uomo di Neanderthal caracollante/essere umano in posizione

perfettamente eretta. In una rappresentazione di questo tipo è facile

soffermare l’attenzione sulle righe del testo e perdere di vista un fatto

fondamentale del nostro passato e del nostro presente: senza

l’esistenza di molti altri tipi di organismi e degli ambienti che hanno

contribuito a creare, non ci sarebbero né moscerini della frutta, né esseri

umani. Le nostre nature umane dipendono completamente dalle “nature”

di altre specie. Co-evolviamo contemporaneamente con molte di esse,

influenzando gli uni il percorso evolutivo degli altri. Quelle sequenze

mentali ci portano anche a pensare alle nostre e alle loro nature come al

prodotto di un cambiamento strettamente genetico e a perdere di vista il

ruolo cruciale dell’ambiente e (specialmente nella storia dell’uomo)

dell’evoluzione culturale.

Pur con la nostra intelligenza, noi esseri umani per la nostra

sopravvivenza abbiamo ancora bisogno di una varietà di altre forme di

vita di una certa parte dei 10 milioni di specie o più con cui dividiamo la

Terra. Oggi la nostra dipendenza da queste comunità di esseri viventi è

in qualche modo diversa da quella dei nostri antenati cacciatori-

raccoglitori o da quella degli antichi primati che acchiappavano gli insetti

nei cespugli nel Paleocene, 60 milioni di anni fa. Ma non è meno

completa. Come tutti gli altri organismi, dobbiamo scambiare con

l’ambiente materiali ed energia e quindi siamo noi stessi elementi degli

ecosistemi – cioè delle comunità di specie e degli ambienti fisici con cui

queste interagiscono. (Ehrlich, 2000, pp. 57-58).

I fattori che determinano l’evoluzione lungo la scala filogenetica

vengono ora considerati plurali: non solo l’evoluzione procede per

«salti» (e non attraverso impercettibili cambiamenti genetici

all’interno di una specie), ma accade anche che tali salti evolutivi,

piuttosto che essere finalizzati a un’ottimizzazione adattiva, siano in

gran parte legati a fenomeni non interpretabili in termini di

51

«adattamento» (adaptation) ma piuttosto di «exattamento»

(exaptation).

Una caratteristica sorprendente della modificazione adattiva

nell’evoluzione organica è che le nuove strutture non compaiono dal

nulla, come se fossero disegnate apposta de novo per un obiettivo. La

selezione naturale può solo funzionare su uno stock di materiali già a

disposizione. Questo significa che, cambiando le condizioni ambientali,

le strutture che sono venute adattandosi a un certo tipo di funzione

vengono cooptate per funzioni completamente diverse, per le quali

tornano buone. Queste nuove funzioni condizionano perciò anche il

processo successivo di adattamento. I paleontologi Stephen Jay Gould

e Elizabeth Vrba hanno coniato il termine exattamento (exaptation) per

riferirsi a questo processo di cooptazione di strutture per svolgere un

compito diverso da quello per cui si erano originariamente adattate

(Gould, Vrba, 1982). In generale, possiamo affermare che tutti i tipi di

adattamento si fondano sull’exattamento. (Ingold, 2001, p. 167).

Gould e Vrba (1982) hanno individuato la chiave di volta dei

cambiamenti evolutivi nell’intrinseca «ridondanza multifunzionale»

degli organismi viventi e, in particolare, della specie umana38.

Accanto a “tempi” e “fattori” evolutivi, un ulteriore approfondimento si

sta dispiegando nei confronti delle “unità” componenti l’evoluzione.

Il darwinismo, nella versione datene dopo i successi della genetica,

si era limitato a considerare la selezione al livello della genetica delle

«popolazioni»: al livello della competizione che si svolge nell’ambito

di una singola popolazione di organismi per il successo riproduttivo.

Al contrario, sostiene il paleontologo Niles Eldredge, occorre

considerare che i comportamenti dei sistemi su larga scala (ad

esempio, l’evoluzione della specie) non rispecchiano i processi che

hanno luogo nelle parti che li compongono (ad esempio, le

«popolazioni»); o, come sostenuto da Paul Ehrlich (2000), occorre

38 Cfr. sull’argomento la sintesi introduttiva fornita in M. Ceruti, 1995.

52

considerare i rapporti tra «microevoluzione» e «macroevoluzione». Si

tratta di configurare un’ecologia complessa in cui organismi e

ambienti co-evolvono sulla base della complessa interazione fra

unità gerarchiche diverse: i geni, gli individui, le popolazioni, le

specie, le unità tassonomiche di ordine superiore (Eldredge, 1995).

In tale rinnovata prospettiva, il richiamo a una storia dei diversi e

variabili modi in cui il sistema-uomo e il sistema-ambiente

concorrono alla produzione reciproca di vincoli e possibilità (Ceruti,

1986) all’interno dei quali coevolvere e determinarsi, ha permesso di

affrontare l’antico dissidio fra corpo-mente, istinto-ragione,

sentimento-intelletto.

Perché la metafora dell’adattamento funzioni le nicchie ambientali e

ecologiche devono esistere prima degli organismi che li riempiono

(Lewontin 1983). Così nel neodarwinismo l’ambiente è specificato

indipendentemente dagli organismi come un insieme di vincoli,

l’organismo è specificato indipendentemente dall’ambiente come un

insieme di geni, cosicché lo sviluppo non è che l’effetto combinato di

queste cause esterne e interne. Invertendo l’ordine del ragionamento,

noi argomentiamo invece che sia l’organismo che l’ambiente emergono

da un continuo processo di sviluppo. Inoltre, la loro interfaccia non è un

contatto estrinseco tra domini separati e mutuamente esclusivi, poiché

implicata nell’organismo stesso è l’intera storia delle sue relazioni.

(Ingold, 2001, p. 92).

A fronte del persistere di una visione dualistica e gerarchica della

realtà umana e naturale, emerge, da più parti, l’esigenza di avviare

un riesame della «specie-uomo» in una chiave evolutiva che

delegittimi ogni bipolarità oppositiva e scardini la base stessa della

scissione tra natura e cultura. Si tratta, in tal senso, di rilevare come

ciò che costituisce lo «specifico» della specie umana non sia altro

che il prodotto più recente e quantitativamente più avanzato della

storia evolutiva della “natura” in quanto sistema.

53

Che cosa è esattamente questa natura umana di cui si sente tanto

parlare? La nozione dominante è che sia una singola e immutabile

qualità ereditaria: una proprietà comune a tutti i membri della specie.

Questa nozione è implicita nell’uso universale del termine al singolare.

Io credo che il termine singolare ci porti fuori strada. Per dare una

similitudine grezza, “la natura umana” sta a “le nature umane” come “il

vulcano” sta a “i vulcani”. Non si discuterebbe mai delle caratteristiche

“del vulcano”. Anche se tutti i vulcani condividono certe caratteristiche,

usiamo sempre la forma plurale del termine quando ne parliamo in

generale. E questo perché, anche se qualunque vulcano ha più

caratteristiche in comune con gli altri vulcani che non con un dipinto o un

fiocco di neve, riconosciamo automaticamente l’ampia diversità

compresa all’interno della categoria “vulcani”. Come per il “vulcano”, a

volte c’è motivo di parlare di natura umana al singolare in riferimento a

ciò che tutti condividiamo: per esempio, la facoltà di comunicare con il

linguaggio, il possesso di una ricca cultura e la capacità di sviluppare

un’etica complessa. Dopo tutto ci sono aspetti quanto meno quasi-

universali delle nostre nature umane e dei nostri genomi e la diversità tra

loro è piccola in relazione alle differenze tra, diciamo, le nature umane e

quelle degli scimpanzé o fra i genomi umani e quelli degli scimpanzé.

[…].

Contrariamente alla nozione prevalente la natura umana non è la stessa

da una società all’altra o da un individuo all’altro, e non è neppure una

qualità costante di Homo sapiens. Le nature umane sono i

comportamenti, le credenze e gli atteggiamenti di Homo sapiens e

anche le strutture fisiche mutevoli che governano, sostengono e

contribuiscono al particolare funzionamento della nostra mente […]. Non

esiste un’unica natura umana, non più di quanto esista un unico genoma

umano, anche se ci sono caratteristiche comuni a tutte le nature umane

e a tutti i generi umani. […].

La persistenza è spesso vista come una caratteristica umana

fondamentale: dopotutto “non si può cambiare la natura umana”, ma,

naturalmente, si può – e lo facciamo continuamente. Le nature degli

americani di oggi sono molto diverse rispetto al 1940. Di fatto, le nature

54

umane di oggi, in ogni luogo, sono prodotti diversi del cambiamento, di

lunghi processi di evoluzione genetica e, soprattutto, culturale. Un

milione di anni fa, come hanno dimostrato i paleontologi, gli archeologi e

altri scienziati, la natura umana era una qualità radicalmente diversa,

presumibilmente più uniforme. Allora il cervello umano era meno pronto,

la lingua non aveva completamente sviluppato una sintassi, la società

non era formalmente stratificata in classi e gli esseri umani non avevano

ancora imparato ad attaccare pietre lavorate ad aste di legno per

costruire martelli e frecce.

Fra un milione di anni le nature umane saranno, di nuovo,

inconcepibilmente differenti da quelle di oggi. I processi che hanno

cambiato i primi esseri umani in quelli moderni continueranno fintanto

che ci saranno esseri umani. (Ehrlich, 2000, pp. 16-18)

Le acquisizioni evoluzionistiche determinano la convinzione che non

esiste «una natura umana» data e immutabile così come non

esistono barriere tra i sistemi viventi in base alle quali costruire rigide

gerarchizzazioni. Al contrario di quello che la classica visione

gerarchica e teleologica della natura suggerisce, il mondo vivente

appare caratterizzato da una radicale continuità tra le specie viventi,

continuità che si attualizza concretamente in un’estrema varietà di

percorsi co-evolutivi: le differenze tra uomo e natura, tra la specie

umana e le altre specie vengono interpretate come un originale

contributo di ciascuna specie al complessivo equilibrio dell’intero

ecosistema.

Dobbiamo sostituire la concezione dominante del processo evolutivo in

termini statistici con una concezione topologica. Secondo questa,

l’evoluzione deve essere ridefinita come una modulazione nel tempo di

un sistema totale di relazioni. Il ruolo di fattori endogeni ed esogeni, dei

prodotti dei geni e degli stimoli ambientali indipendenti, è perciò quello di

“selezionare”, tra le variabili possibili modulazioni del campo di relazioni,

quelle forme che vediamo emergere effettivamente. Per fare

un’analogia, tutte le sezioni coniche, dall’ellisse all’iperbole, possono

55

essere generate da un’equazione di base cambiando i valori di un

parametro. Ma non sono questi di per sé ad indicare la forma della

curva, poiché questa è descritta dall’intera equazione. (Ingold, 2001,

pp.93-94).

Ogni caratteristica di ogni organismo è il prodotto di un’interazione

tra corredo genetico e ambiente.

La dicotomia naturale-acquisito (nature-narture), che da decenni domina

le discussioni sul comportamento, è ampliamente falsa: tutte le

caratteristiche di tutti gli organismi sono realmente il risultato

dell’influenza simultanea di entrambe. In molti casi i geni non dettano il

destino (fanno eccezione quei difetti genetici cui al momento non si può

rimediare), ma spesso definiscono una gamma di possibilità di un dato

ambiente […]. I tentativi di distinguere naturale e acquisito quasi sempre

finiscono per fallire. Anche se ho scritto di come l’espressione dei geni

dipende dall’ambiente in cui vengono espressi, un altro modo di

guardare lo sviluppo della natura avrebbe potuto essere quello di

esaminare il contributo di tre fattori: geni, ambiente, interazione geni-

ambiente. Tuttavia è difficile distinguere i diversi contributi. Non si può

fare neppure in ambito sperimentale, dove è possibile dire a livello

matematico qualcosa sui contributi comparati di ereditarietà e ambiente,

perché c’è un “termine di interazione”. Questo termine non si può

scomporre fra naturale e acquisito dal momento che l’effetto di ciascuno

dipende dal contributo dell’altro. (Ehrlich, 2000, pp. 14-15).

Tutto questo ha portato a considerare la cultura come un fatto

dichiaratamente biologico, legato e conseguente all’apprendimento

inteso come «strategia di sopravvivenza biologica» (Laporta, 1993,

p. 193).

Gli esseri umani allora non nascono identici biologicamente o

psicologicamente, per poi differenziarsi a seconda delle culture. Ci deve

essere qualcosa di sbagliato in una teoria che si fonda sulla tesi

56

manifestamente ridicola che “i bambini sono tutti uguali dappertutto”

(Toby, Cosmides, 1992, p. 3). Perfino i genitori di gemelli monozigoti

sanno che questo è falso! La fonte della difficoltà sta nella nozione di

cultura come ingrediente in più, che deve essere aggiunto per

completare l’essere umano. Al contrario, tutte quelle abilità specifiche

che sono state classicamente attribuite alla cultura sono in realtà

incorporate nel processo di sviluppo come proprietà degli organismi

umani. In questo senso sono pienamente biologiche. La cultura, perciò,

non è super-organica o sovra-biologica. Non è qualcosa di aggiunto agli

organismi ma una misura della differenza tra di loro. E queste differenze

deriva dai modi in cui sono posizionati l’uno rispetto all’altro, e rispetto

agli elementi non umani dell’ambiente, in vasti campi di relazioni.

(Ingold, 2001, p. 77).

Allargando lo sguardo ai “sistemi viventi” occorre sottolineare che,

ogni essere vivente, in quanto «sistema aperto», sopravvive non solo

perché alimentato da materia ed energia, ma anche perché

contemporaneamente nutrito da informazioni e conoscenze, nel

senso che la sua “natura” gli impone forme particolari e specifiche di

“comprensione” della realtà e di “riconoscimento” di quello che è più

utile alla propria sopravvivenza. Si tratta dell’attivazione, da parte di

tutti gli organismi viventi, di fondamentali e specifiche forme di

apprendimento come strategie di conoscenza, riconoscimento e

scelta delle condizioni della sopravvivenza, motivate dal bisogno di

conservare la vita39.

La ricaduta epistemologica principale, anche per le scienze sociali, di

questo modello di sistemi viventi, è che quello che siamo abituati a

39 Il passaggio da un approccio scientifico meccanicistico e gerarchico a un approccio probabilistico e “reticolare” promuove e si accompagna alla formulazione del paradigma della complessità; un pensiero ecologico capace di scoprire gli elementi di appartenenza ad una comune “rete vitale” (Capra, 1996) e, quindi, capace di rispondere al suggestivo interrogativo di Gregory Bateson: «quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi?» (Bateson, 1979, p. 21). Cfr. anche id. 1972; Bateson - Bateson, 1987.

57

considerare “il mondo là fuori” è in realtà la nostra esperienza

accoppiata a un mondo. Contro l’idea di farsi un modello del mondo, si

fa così valere il concetto biologico e sistemico di accoppiamento

strutturale: apprendiamo quando aggiustiamo il nostro accoppiamento

strutturale (couplage) col mondo. Non è possibile trarci fuori da questo

intreccio conoscitivo, e uscire dal cerchio, poiché il “bagaglio di

regolarità proprie dell’accoppiamento di un gruppo sociale costituisce la

sua tradizione biologica e culturale” (Maturana, Varela 1984, p.194).

Vivere è di per se stesso conoscere, poiché per esistere occorre

conservare l’accoppiamento strutturale come essere vivente con un

ambiente. Ogni tipo di sapere in questo senso è un’azione. La

cognizione a sua volta consiste nella capacità dei sistemi viventi di far

emergere (secondo il lessico biologico dell’autopoiesi), di porre innanzi

(secondo il lessico filosofico dell’ermeneutica), di co-costruire (secondo il

lessico epistemologico costruttivista) significato e ordine. (Grasseni –

Ronzon, 2004, pp. 23-24).

1.1.2 Primati e uomini

Riprendiamo ora la “teoria del punto critico” per quanto riguarda “il

salto qualitativo” di specie tra uomo e primate sull’uso di strumenti, in

parte già chiarito dal paragrafo precedente.

Nell’introduzione a Studi sulla storia del comportamento abbiamo

visto come Vygotskij e Lurija (1930) si propongano di attuare

un’analisi comparata «delle principali caratteristiche distintive» dei tre

processi di sviluppo dell’animale superiore (l’antropoide), dell’uomo

«primitivo» e del bambino, per dimostrare che «ciascun processo di

sviluppo prepara dialetticamente il successivo e si trasforma in un

nuovo tipo di sviluppo».

Lo sviluppo storico, quello propriamente umano, è l’ultimo stadio, il

quarto, dello sviluppo del comportamento; esso non presenta delle

modifiche morfologiche di organi naturali nei confronti dei precedenti,

ma comporta quelle modificazioni del comportamento strumentale

58

così profonde da far affermare a Vygotskij (1930-31) che: «il

comportamento umano si differenzia da quello animale

qualitativamente» in quanto il tipo stesso dell’adattamento umano

alle condizioni di vita è diverso. A differenza di Darwin, gli psicologi

storico-culturali hanno sostenuto con forza una discontinuità di

principio tra l’uomo e le altre specie. Nella scala dello sviluppo del

comportamento che separa le forme di vita più semplici dall’uomo,

vengono individuati tre stadi.

Il primo stadio è costituito in tutti gli animali, uomo compreso, dalle

reazioni ereditarie che adempiono la funzione biologica della

conservazione e della continuazione della specie (gli istinti). Tutto il

comportamento di insetti e invertebrati si esaurisce con simili reazioni

istintive.

Su questo stadio se ne struttura un secondo, quello

dell’addestramento o dei riflessi condizionati, che si differenzia dal

precedente per il fatto che le reazioni non sono ereditarie ma

sorgono dall’esperienza diretta dell’organismo.

In sostanza l’addestramento non crea nuove reazioni negli animali, ma

combina solo le reazioni innate, come anche crea i nuovi nessi

condizionati tra le reazioni innate e gli stimoli dell’ambiente circostante.

In questo modo il nuovo stadio dello sviluppo del comportamento sorge

immediatamente sulla base del precedente […]. Se gli istinti sono mezzi

di adattamento a condizioni ambientali che sono più o meno costanti,

consolidate, stabili, i riflessi condizionati rappresentano un meccanismo

assai più elastico, sottile e perfezionato di adattamento all’ambiente, la

cui essenza consiste nel fatto che le reazioni istintive ereditarie si

adattano alle condizioni individuali e personali di un dato animale.

(Vygotskij – Lurija, 1930, pp. 10-11).

59

Il pieno sviluppo di questo stadio di comportamento si trova negli

animali vertebrati40.

Su questo secondo stadio nello sviluppo del comportamento se ne

«edifica» un terzo, l’ultimo per il regno animale41. Esso caratterizza il

comportamento delle scimmie antropoidi (scimpanzé, bonobo,

gorilla, gibbone, orangutan) che inventano e utilizzano strumenti per

raggiungere i propri scopi. Riprendendo le osservazioni di Wolfgang

Köhler42 sulla psicologia delle scimmie, gli autori concludono che

40 «Nonostante tutti i successi dell’addestramento negli animali inferiori, l’istinto rimane in essi la forma di comportamento dominante e prevalente. Negli animali superiori, al contrario, si manifesta uno spostamento verso la prevalenza dei riflessi condizionati nel sistema generale di reazioni. In questi animali, per la prima volta, si manifesta la plasticità delle capacità innate, si manifesta l’infanzia nel senso proprio di questa parola e il gioco infantile collegato ad essa» (Vygotskij – Lurija, 1930, p. 11). 41 «La documentazione fossile, enormemente aumentata soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, mostra una serie notevole di creature con caratteristiche variamente intermedie tra quelle degli esseri umani e quelle delle altre grandi scimmie antropomorfe. Molti trovano affascinante questa continuità […].

Oltre a quella dimostrata dai crani, è stata dimostrata una continuità analoga nei confronti particolareggiati delle nostre strutture fisiche, dei nostri geni, con quelli delle scimmie attuali e degli altri primati […].

Per trovare il progenitore comune che condividiamo con le scimmie del Vecchio Mondo, dobbiamo soltanto risalire il nostro albero genealogico di quasi 30 milioni di anni (più o meno a metà fra noi e la fine dell’era dei dinosauri). Se prendiamo in considerazione lo scimpanzé piuttosto che le altre scimmie, la distanza dal progenitore comune è soltanto di circa un sesto. […]. In anni recenti, attraverso l’uso delle moderne tecniche della biologia molecolare, i ricercatori hanno scoperto che nella diramazione dell’albero evolutivo, noi siamo posizionati proprio in mezzo alle grandi scimmie. È stato solo 5 milioni di anni fa che i nostri progenitori si sono staccati dalla linea evolutiva che portava allo scimpanzé e al bonobo, mentre i progenitori dei gorilla hanno lasciato la linea scimpanzé-uomo circa sette milioni di anni fa. Genealogicamente, noi siamo vicini allo scimpanzé e al bonobo più di quanto questi ultimi siano vicini al gorilla» (Ehrlich, 2000, p. 86). 42 W. Köhler (1887-1967) fu uno dei massimi esponenti della psicologia della Gestalt; teoria piuttosto attiva in Europa nel periodo tra le due guerre mondiali in cui è centrale il concetto di fenomeni psichici (percezione, apprendimento ecc…) intesi come totalità organizzate e strutturate da principi autonomi.

Nel presente testo si fa riferimento agli studi compiuti da Köhler (1917) sul comportamento dei primati posti in situazioni problematiche come, ad esempio, riuscire a raggiungere del cibo collocato oltre le sbarre della gabbia, fuori dalla portata diretta delle loro “mani”. La soluzione trovata dall’animale consiste nel ricorrere a qualche elemento della situazione, per esempio, a un bastone, usandolo come strumento per avvicinare a sé il cibo, cioè come mezzo per raggiungere lo scopo. Si tratta di un comportamento che compare improvvisamente, non a seguito di una catena per prove ed errori. Köhler ritenne questo tipo di comportamento il risultato di un processo di ristrutturazione del campo cognitivo compiuto dall’animale: il bastone fa parte degli elementi presenti

60

l’invenzione e l’uso di strumenti sia, per lo sviluppo del

comportamento dell’uomo, il fattore più importante e più originale. Lo

studio delle scimmie ha un importante valore euristico «non solo per

spiegare lo sviluppo del comportamento verso l’alto, dalla scimmia

all’uomo, ma anche per una giusta spiegazione del comportamento

verso il basso dall’istinto all’intelletto attraverso i riflessi condizionati»

(ibidem, p. 14).

La linea di demarcazione tra il comportamento della scimmia e

dell’uomo è vista da una parte nell’assenza di linguaggio e dall’altra

nel ruolo che ha l’uso degli strumenti per la scimmia:

in generale questo tipo di comportamento non è la base

dell’adattamento della scimmia […]. Nella storia dello sviluppo della

scimmia ancora non è avvenuto quel salto che consiste nel processo di

trasformazione della scimmia nell’uomo e che consiste nel fatto che gli

strumenti di lavoro diventano la base dell’adattamento alla natura. Nel

processo di sviluppo della scimmia questo salto è già stato preparato,

ma non è stato ancora compiuto. (Ibidem, pp. 54-55).

L’attività più complessa che l’animale svolge adoperando gli

strumenti non viene modificata dall’uso stesso dello strumento:

nessuna scimmia, anche la più intelligente della stazione di Tenerife,

nella quale Köhler ne osserva il comportamento, riesce a conservare

il bastone con cui è stato raggiunto il cibo che desidera, una volta

che questo è stato preso. Nello sviluppo psicologico umano, afferma

Vygotskij «avviene, con l’introduzione e l’uso degli strumenti, una

frattura analoga a quella che si verifica nella sfera del suo

adattamento biologico» e cita le parole di Bacone che spesso

figurano nel frontespizio dei lavori suoi e di Lurija: «non solo la mano,

nel campo visivo dell’animale anche prima della soluzione del problema; attraverso la ristrutturazione del campo i diversi elementi della situazione, tra cui il cibo e il bastone, vengono organizzati in una nuova totalità mutando le relazioni reciproche e il bastone, da elemento irrilevante in rapporto al cibo, acquista il significato di oggetto che serve per raggiungerlo.

61

o l’intelletto in sé possono sussistere, tutto si compie mediante gli

strumenti e i mezzi ausiliari» (ibidem, p. 59). Con l’ingresso dell’uomo

nello sviluppo storico ha inizio anche il rapido processo del

perfezionamento degli strumenti di lavoro:

il perfezionamento dei “mezzi di lavoro” e dei “mezzi di comportamento”,

come la lingua e altri sistemi di segni, che sono mezzi ausiliari nel

processo di acquisizione del comportamento, viene messo al primo

posto, sostituendo lo sviluppo della mano nuda e dell’intelletto stesso.

(Ibidem, pp. 59-60).

L’uso di strumenti che si riscontra negli animali superiori pur

costituendo un embrione di attività lavorativa, non assurge mai a

lavoro, il quale presuppone che, attraverso i segni, l’uomo acquisisca

il controllo del proprio comportamento. Questa è appunto la

caratteristica del periodo storico nello sviluppo del comportamento

umano. Con questo ha inizio lo sviluppo culturale, il cui contenuto

essenziale è dato dall’uso dei segni, anche più primitivi, come quelli

già chiaramente presenti presso l’uomo «primitivo».

Abbiamo precedentemente esposto come le teorie evoluzionistiche a

noi contemporanee abbiano in parte scardinato questo modello

lineare di evoluzione, e quanto possa essere problematico porre

barriere tra sistemi viventi in base alle quali costruire rigide

gerarchizzazioni.

Negli ultimi decenni le ricerche sui primati hanno attestato l’esistenza

di uso di strumenti come parte significativa della vita degli scimpanzé

allo stato brado (Goodall, 1986), di insegnamento attivo alla prole

(Boesch, 1993), dell’uso di un certo tipo di linguaggio e della

presenza di cultura (Savage-Rumbaugh et al., 1986) mettendo in

dubbio la teoria della discontinuità comportamentale.

Riprendendo gli stessi temi Tomasello e colleghi (Tomasello, 1990,

1994; Tomasello, Kruger e Ratner, 1993) sono giunti tuttavia alla

conclusione che se si vuole affermare che gli scimpanzé “possiedono

62

una cultura”, essa dovrà essere intesa in senso diverso rispetto alla

cultura che attribuiamo agli esseri umani:

tra i gruppi [di scimpanzé studiati allo stato brado] vi sarebbero

differenze di comportamento superficialmente simili alle differenze

culturali umane, ma svincolate da qualsiasi forma di apprendimento

sociale. In questi casi la “cultura” è una semplice conseguenza di forme

di apprendimento individuale dipendenti dalle diverse ecologie locali

delle diverse popolazioni – e perciò questo processo è detto

modellamento ambientale. (Tomasello, 1999, p.47).

Nondimeno, gli studi odierni sulla composizione genetica di

scimpanzé ed esseri umani hanno concluso che essi si differenziano

solo nell’1% dei genomi, e che anche quella percentuale minima è

distribuita in maniera tale che è difficilmente confrontabile.

Moltissime differenze fenotipiche cruciali dipendono da quel due

percento scarso di differenza. Alcune di quelle differenze fenotipiche,

naturalmente, sono fisiche e quindi impressionanti. Gli esseri umani

sono le uniche scimmie viventi dotate di postura del tutto eretta. In

confronto agli scimpanzé siamo anche praticamente senza peli,

abbiamo incisivi e canini molto più piccoli e il pollice completamente

opponibile. Le femmine umane sono diverse da quelle di scimpanzé, e

pure da quelle di tutti gli altri nostri parenti […].

Il cervello degli uomini e delle donne è approssimativamente tre o

quattro volte più grande di quello degli scimpanzé. Infatti, la maggior

parte della differenza di qualità fra gli esseri umani e le altre scimmie sta

nella capacità del cervello – l’organo responsabile di molti degli aspetti

tipici della parte non fisica della natura umana, di capacità umane che

sono universali o quasi.

L’aspetto universale più ovvio della natura umana è l’uso del linguaggio

[…]. E’ scarsamente provato che i nostri parenti stretti usino la

comunicazione vocale in modo significativo più degli altri mammiferi.

(Ehrlich, 2000, pp. 89-90).

63

Aspetto, quest’ultimo, già evidenziato dallo stesso Vygotskij. Gli

esseri umani utilizzano capacità esclusive in connessione con un

cervello che consente loro comportamenti estremamente flessibili,

basandosi su interpretazioni che vanno spesso oltre la situazione

data. Abbiamo anche visto che siamo l’unica specie ad avere

“empatia cognitiva” ovvero la capacità di formarci una teoria della

mente: strumento indispensabile per la sopravvivenza in un ambiente

altamente socializzato.

I nostri progenitori, più di ogni altro primate, si specializzarono nel vivere

di espedienti, il che produsse un’altra differenza di qualità. Svilupparono

la strategia di fronteggiare sia la preda che il nemico con la

pianificazione, con attrezzi costruiti accuratamente e con una complessa

cultura in evoluzione; per dirla con gli antropologi John Tooby e Irven

DeVore, l’uomo si evolse verso la “nicchia cognitiva” – una nicchia

creata proprio dagli ominidi. Non sappiamo con esattezza come i nostri

antenati siano giunti sulla via della specializzazione, ma è senz’altro

questo che ha reso il nostro cervello molto diverso da quello dei nostri

parenti più prossimi. […].

La differenza di grado nel bagaglio culturale fra noi e gli altri animali è

talmente grande che ha creato molte differenze di qualità. Il motivo è

che grazie al linguaggio e alla capacità di risolvere problemi e

immagazzinare informazioni di cui il cervello umano è dotato, la

conoscenza racchiusa nella cultura umana si può espandere e

condividere in modo semplice e veloce […]. Naturalmente, è

esattamente la capacità umana di immagazzinare e condividere la

cultura che ha portato l’arte, la religione, le lettere e la scienza, che sono

una parte così tipica della natura umana. (Ibidem, pp. 90-91).

Nella critica agli studi sui primati che sottolineano una continuità

comportamentale tra scimmie antropomorfe e uomini Tomasello

sottolinea come molti fenomeni (l’uso di strumenti, la trasmissione

culturale, l’uso e l’invenzione di segnali gestuali a scopi comunicativi)

64

che apparentemente possono sembrare simili ai processi

comportamentali dell’uomo, in verità sono sorretti da processi di

cognizione e apprendimento sociale differenti. La continuità nell’uso

di strumenti da una generazione all’altra, esempio di trasmissione

culturale nelle teorie di Boesch (1993) e McGrew (1992), secondo

Tomasello dipenderebbe interamente dal fatto che gli individui

“riscoprono” le innovazioni apportate dalle generazioni precedenti, in

quanto vivono nella stessa “nicchia ecologica” (e questo è il motivo

per cui tra i primati la cultura non si «accumula», ma si «diffonde»);

al contrario gli esseri umani si dedicano attivamente

all’insegnamento, e si dimostrano abili nell’imitare il processo

comportamentale di diverse nicchie ecologiche.

Secondo Tomasello vi sono molti tipi differenti di eredità e di

trasmissione culturale che corrispondono ad altrettanti meccanismi di

apprendimento: esposizione, incentivazione dell’attenzione verso

uno stimolo (esperienza di apprendimento individuale), riproduzione

di un comportamento (apprendimento per emulazione),

apprendimento imitativo.

Gli scimpanzé si dimostrano molto intelligenti e creativi nell’uso di

strumenti e nel comprendere i cambiamenti provocati nell’ambiente

dall’uso di strumenti da parte di qualcun altro, ma non sembrano

comprendere il comportamento strumentale dei conspecifici allo stesso

modo dell’uomo. Nel caso degli esseri umani, lo scopo o l’intenzione del

dimostratore è parte essenziale di quel che viene percepito, e in effetti lo

scopo appare come qualcosa di distinto dai mezzi comportamentali che

possono essere usati per raggiungerlo. La capacità umana di separare

scopi e mezzi permette di isolare le tecniche o le strategie d’uso degli

strumenti adottate dal dimostratore – il comportamento che egli attua per

raggiungere lo scopo, data la possibilità di raggiungerlo anche in altri

modi. Incapaci di separare nelle azioni degli altri lo scopo dai mezzi

comportamentali, gli scimpanzé si concentrano sui mutamenti di stato

(compresi i mutamenti di posizione spaziale) degli oggetti implicati nella

dimostrazione, dove le azioni del dimostratore sono solo un movimento

65

fisico tra i tanti. Gli stati intenzionali del dimostratore e, di conseguenza, i

suoi metodi in quanto entità comportamentali a sé stanti, non sono parte

della loro esperienza. (Tomasello, 1999, p. 49).

Ciò che distingue i primati dall’uomo non sarebbe una «differenza

quantitativa» nell’uso di strumenti che nel tempo si è trasformata in

una «differenza qualitativa» quanto piuttosto una nuova forma di

cognizione sociale.

Un’importante puntualizzazione di Tomasello merita di essere

sottolineata. Passando in rassegna diversi studi che dimostrano

capacità molto simili tra le scimmie e l’uomo (uso complesso di

strumenti, insegnamento, apprendimento per imitazione,

comunicazione simbolica, uso del gesto per indicare qualcosa allo

scopo di attirare l’attenzione di qualcun altro), Tomasello nota che si

tratta di scimmie “culturalizzate”, ovvero di scimmie che sono vissute

a stretto contatto con l’uomo e che hanno ricevuto un certo

addestramento. Egli conclude che un ambiente sociocognitivo simile

a quello dell’uomo è indispensabile affinché avvenga lo sviluppo di

abilità sociocognitive simili a quelle umane e di capacità di

apprendimento per imitazione:

il fatto che gli scimpanzé e i bonobo allevati fin dall’inizio e per molti anni

in un ambiente culturale umano possano sviluppare alcuni aspetti della

cognizione sociale e dell’apprendimento culturale dell’uomo dimostra in

modo particolarmente incisivo l’importanza dei processi culturali

nell’ontogenesi, e il fatto che altre specie animali non facciano altrettanto

dimostra le formidabili abilità di apprendimento sociale delle grandi

scimmie antropomorfe. Ma rispondere a una cultura e creare ex novo

una cultura sono due cose differenti 43.

43 Tomasello, 1999, p. 56. Scrive a proposito Bruner analizzando gli studi sulle prestazioni delle scimmie “culturalizzate”: «tutto questo suggerisce con forza che il complesso mente/cervello degli umanoidi non si limiti semplicemente a “crescere” secondo una tabella di marcia geneticamente predestinata, ma che tragga vantaggio dall’accudimento in un ambiente di tipo umano. Prendendo spunto dal libro di Gerald Edelman sul “darwinismo neurale”, sembra ragionevole supporre

66

1.1.3 Il livello storico-culturale: eterogeneità e

gerarchia

Se dunque occorre ricalibrare la teoria storico-culturale per quanto

concerne il “salto” dell’uomo moderno postulando una profonda

coevoluzione tra filogenesi e storia culturale, occorre anche

ridimensionarne la posizione per quanto riguarda l’idea che un solo

fattore possa spiegare tutto ciò che distingue la nostra specie dalle

altre.

A livello storico-culturale occorre inoltre ancorare le differenze

culturali osservate nelle prestazioni cognitive all’interno delle diverse

società, e dunque rivedere quell’uomo «primitivo» dal quale è

possibile ricavare la storia dello sviluppo storico dell’uomo «civile».

I testi che delineano i principi fondamentali della psicologia storico-

culturale, pur riconoscendo una sostanziale identità biologica tra

uomo «primitivo» e «civile», avvalorano una concezione che vede

nell’evoluzione degli strumenti di mediazione (artefatti materiali e

simbolici) una corrispondente evoluzione del pensiero e che, di

conseguenza, giustifica lo studio delle popolazioni “tradizionali” allo

scopo di ricostruire lo sviluppo storico del pensiero dell’uomo tout

court.

Lo sviluppo dell’uomo come tipo biologico, è già, in linea di massima,

concluso al momento dell’inizio della storia dell’uomo. Ciò certamente

non significa che la biologia umana si sia fermata nel momento in cui è

iniziato lo sviluppo storico della società. Certamente non è così.

La natura plastica dell’uomo ha continuato a modificarsi. Tuttavia tale

cambiamento biologico della natura umana è già divenuto una

che ammesso che lo scimpanzé possieda un bagaglio neurale di supporto alla sua “zona di sviluppo potenziale”, questo può semplicemente morire quando non è attivato dall’opportunità di sviluppare aspettative reciproche affini a quelle culturali» (Bruner,1996, p. 197).

67

grandezza dipendente e subordinata allo sviluppo storico della società

umana […].

Lo sviluppo umano, che noi troviamo anche nei popoli più primitivi, è

sviluppo sociale. Per questo ci dobbiamo attendere di scoprire qui un

processo di sviluppo molto particolare e profondamente diverso da

quello che abbiamo osservato nell’evoluzione dalla scimmia all’uomo.

Diciamo, in anticipo, che il processo di trasformazione dell’uomo

primitivo in quello civile per la sua stessa natura è differente dal

processo di trasformazione della scimmia in uomo. Oppure

diversamente: il processo dello sviluppo storico del comportamento

umano ed il processo della sua evoluzione biologica non coincidono;

l’uno non è la continuazione dell’altro, ma ognuno di questi processi è

soggetto alle sue particolari leggi. (Vygotskij – Lurija, 1930, pp. 75-76).

Gli psicologi russi facevano riferimento soprattutto ai dati e alle teorie

di sociologi e antropologi a loro contemporanei, tra i quali Lucien

Lévy-Bruhl (1910) e Richard Thurnwald (1922).

Riprendendo le teorie di Lévy-Bruhl essi affermano che ai diversi tipi

di società corrispondono diversi tipi di psicologia dell’uomo

che si differenziano l’uno dall’altro così come si differenzia la psicologia

degli animali vertebrati e invertebrati.

Certo, come nei diversi animali, così nelle diverse strutture sociali

esistono caratteristiche comuni che sono proprie di ogni tipo di società

umana – lingua, tradizioni, istituzioni. Ma, accanto a queste

caratteristiche comuni le società umane, come gli organismi, possono

rappresentare strutture profondamente differenti una dall’altra e quindi le

rispettive differenze nelle funzioni psichiche superiori. Perciò occorre

rinunciare a ridurre dall’inizio le operazioni psicologiche ad un tipo unico,

indipendentemente dalla struttura della società, e a spiegare tutte le

rappresentazioni collettive con un unico meccanismo psicologico e

logico che rimane sempre immutato. (Ibidem, pp. 67-68).

68

Per completare la descrizione del tratto differenziale del

comportamento e del pensiero dell’uomo «primitivo»44 Vygotskij

introduce un’analisi sulla specificità delle funzioni psichiche, in

particolare sulla memoria che sotto l’aspetto “naturale” è superiore a

quella dell’uomo civile45. Memoria, pensiero, linguaggio e calcolo

sono le funzioni che egli esamina. In queste analisi non mancano

affermazioni forti che riguardano «la matematica civile», la

successione lungo una scala evolutiva dal «più primitivo» al

«primitivo medio» al «primitivo superiore» a seconda del livello di

complessità degli strumenti di mediazione (del linguaggio in

particolare) utilizzati dalle diverse società (cfr. Vygotskij – Lurija,

1930, pp. 61-128).

Per quanto riguarda il “livello” di pensiero dei popoli «primitivi»,

Vygotskij si trova in disaccordo con Lévy-Bruhl laddove quest’ultimo

44 Come abbiamo precedentemente chiarito, per gli psicologi storico-culturali, la differenza tra l’uomo «primitivo» e l’uomo «civile» non è in nessun modo ascrivibile ad una differenza di tipo biologico, ma essa sarebbe dovuta alla «arretratezza culturale» del primo rispetto al secondo. «L’uomo primitivo, con tutto il suo bagaglio di personalità, con tutto il suo comportamento, si differenzia profondamente dall’uomo civile. Per chiarire in che cosa consista questa differenza che determina in generale il punto di partenza e di arrivo dello sviluppo storico del comportamento umano, inizieremo dalle differenze visibili che saltano agli occhi». Successivamente vengono elencate alcune differenze riscontrate da antropologi ed esploratori quali «l’acutezza della vista, la finezza dell’udito e dell’olfatto, la sua enorme resistenza, la furbizia istintiva, il senso dell’orientamento, la conoscenza dell’ambiente circostante, dei boschi, del deserto, del mare» (Vygotskij – Lurija, 1930, pp. 69-70). Tutte queste differenze risultano collegate non a un diverso sviluppo biologico, ma a una certa “mancanza” di sviluppo culturale che causa una conseguente arretratezza nel campo delle funzioni psicologiche. 45 «Lo sviluppo storico della memoria inizia nel momento in cui l’uomo passa per la prima volta dall’uso della propria memoria, come funzione naturale, al dominio di essa» (Vygotskij – Lurija, 1930, p. 84). Il processo che porta al dominio della memoria e al dominio di qualsiasi forma naturale di comportamento, implica che l’uomo acquisisca una conoscenza sufficiente delle leggi di funzionamento della propria memoria e le utilizzi. Non si tratta di una conoscenza formale, o teorica, ma della capacità di usare segni artificiali per potenziarla. Gli psicologi russi hanno fatto ricorso agli scritti di Thurnwald per quanto attiene ai dati sulle variazioni culturali nell’uso di sistemi di mediazione “decisivi” dal punto di vista storico, come i sistemi di calcolo e di scrittura. Le fotografie di Thurnwald delle cordicelle annodate che gli Incas adoperavano come dispositivi mnemonici (quipu) sono uno degli esempi iconici che Vygotskij e colleghi adoperavano come esempio di “rievocazione mediata”. Inoltre, la scuola storico-culturale, ha incorporato lo sviluppo sequenziale dei sistemi di scrittura, da quelli pittografici a quelli ideografici, nello studio dello sviluppo della scrittura nei bambini.

69

ne assolutizza il “carattere magico” attribuendo ad esso il significato

di “tratto primario” del pensiero, mentre sussiste accordo per quanto

riguarda la convinzione che i «popoli primitivi» non pensino in termini

di concetti, ma di situazioni concrete, ovvero in termini di

«complessi»46.

Il quadro del progresso cognitivo che si accompagna a quello

socioeconomico-culturale è complicato dal fatto che Vygotskij e

colleghi sostenessero l’eterogeneità dei livelli di funzionamento

cognitivo, a seconda del genere di attività a cui le persone

generalmente si dedicano: introducendo forme più complesse di vita

economica e un livello generalmente “più alto” di vita culturale, si

sarebbero ottenuti altrettanti cambiamenti di pensiero.

Così, ad esempio, l’eccellente memoria naturale dell’uomo primitivo nel

processo di sviluppo culturale diminuisce lentamente riducendosi infine

a zero; in questo aveva profondamente ragione Baldwin quando

sosteneva che ogni evoluzione è nella stessa misura involuzione, cioè

che ogni processo di sviluppo racchiude in sé, come sua componente

costitutiva, i processi inversi di involuzione e di estinzione delle vecchie

forme.

Sarebbe sufficiente confrontare la memoria del messaggero africano,

che trasmette parola per parola una lunga missiva del capo di una

qualsiasi tribù africana e che usa esclusivamente la memoria naturale

eidetica, con la memoria “dell’ufficiale dei nodi” peruviano, le cui funzioni

erano la legatura e la lettura dei quipu, per vedere in che direzione va lo

sviluppo della memoria umana con la crescita della cultura e, anzitutto,

da che cosa e come viene guidato.

46 «Il pensiero primitivo, dotato di una sua logica specifica, è un pensiero per complessi», afferma Vygotskij, introducendo qui il termine che utilizzerà in Pensiero e linguaggio e che farà corrisponderee alla seconda fase dello sviluppo dei concetti nel bambino. «Un tale pensiero e una tale logica, come vediamo, si basano su complessi: i complessi sono costituiti da legami concreti, e questi legami concreti, certamente, possono esistere in gran numero per lo stesso oggetto» (Vygotskij – Lurija, 1930, p, 106) e proprio il pensiero per complessi fonda la logica della partecipazione.

70

“L’ufficiale dei nodi” è, nella scala dello sviluppo culturale della memoria,

ad un livello superiore del messaggero africano, non perché la sua

memoria naturale è superiore, ma perché egli ha imparato ad utilizzare

meglio la sua memoria, a dominarla mediante segni artificiali.

Saliamo ancora di un gradino ed esaminiamo la memoria che

corrisponde allo stadio successivo nello sviluppo della scrittura […].

(Ibidem, p. 90).

Le stesse argomentazioni “evoluzioniste” furono utilizzate per

spiegare i dati etnografici raccolti da Lurija negli anni Trenta in

Uzbekistan47 presso le comunità rurali da poco sottoposte ad un

47 All’epoca in cui gli psicologi storico-culturali scrivevano, l’Unione Sovietica fu sottoposta ad una massiccia campagna di alfabetizzazione. Nelle repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale, gli psicologi storico-culturali ebbero modo di osservare un grande esperimento culturale: la combinazione tra la collettivizzazione e il diffondersi dell’istruzione formale offriva l’opportunità di studiare, per un breve periodo, l’interazione tra sviluppo culturale e sviluppo individuale in un’unica comunità.

«Si doveva trovare il modo di dimostrare che i processi psicologici superiori (in prima linea i processi cognitivi) non sono affatto un semplice rispecchiamento della logica generale, ma hanno origini storiche e sociali, che anche processi come la generalizzazione e il pensiero concettuale, la deduzione e l’inferenza logica, non sono universali ma risalgono a fattori di tipo sociale, in stretto collegamento con le forme generali delle azioni sociali umane, e che la loro struttura si modifica nettamente al mutare dei modi di vita sociale.

L’inizio degli anni’30 era un periodo particolarmente adatto per condurre la necessaria sperimentazione.

Nelle regioni più remote del nostro paese, particolarmente nelle Repubbliche dell’Asia Centrale, la Rivoluzione era arrivata un po’ in ritardo rispetto alla Russia europea. Era appena ricominciata l’effettiva ricostruzione sociale, attraverso modificazioni fondamentali nella vita economica (sostituzione del lavoro agricolo individuale con le fattorie collettive), mentre si istituiva un’ampia rete di scuole per gli analfabeti e un gran numero di giovani aveva per la prima volta l’opportunità di accedere alla cultura moderna o anche solo a forme elementari di scolarizzazione. Allo stesso tempo, le vecchie tradizioni, che sappiamo quanto siano rigide, sopravvivevano immutate. Non era forse quello il momento migliore per osservare i cambiamenti intervenuti nei processi cognitivi e mostrare l’impatto delle modalità di vita sociale sul loro sviluppo?

L’idea di inviare nelle Repubbliche asiatiche un’apposita spedizione psicologica nacque verso la fine degli anni’20 e nel 1930-31 si organizzarono due spedizioni in Asia Centrale (ma si sarebbero potuti scegliere per la ricerca su campo anche certi remoti villaggi russi). Vygotskij impostò il programma dei lavori e la ricerca ebbe inizio […].

Si formulò tutta una serie di interrogativi da indagare: la percezione dei colori e delle Gestalt visive ha la stessa forma, che si suppone universalmente stabile? I processi di generalizzazione e astrazione sono gli stessi che studiano i logici e gli

71

massiccio programma di alfabetizzazione (ritenuta foriera di una

«trasformazione mentale») e di mutamento economico (politiche di

collettivizzazione che alterarono profondamente le forme dell’attività

economica e l’organizzazione sociale).

Allo scopo di valutare «lo sviluppo mentale» dei soggetti in rapporto

alle attività che svolgevano e al grado di scolarizzazione cui erano

state sottoposte, Lurija utilizzò, tra le altre cose, il test Stanford-Binet.

Questo test, sul quale avremo modo di tornare successivamente, era

basato in generale sulla teoria di Jean Piaget e prevedeva compiti di

classificazione, logica e memoria.

Un esempio di problema logico su cui Lurija testava adulti di diversi

gradi di istruzione era il sillogismo. Egli riportò che alla richiesta di

fare inferenze in base alle premesse del sillogismo, gli intervistati

scolarizzati risolvevano il problema come atteso, mentre non

avveniva altrettanto per quelli non istruiti. Gli stessi risultati si

ottenevano nei compiti di classificazione e di memoria.

Le deduzioni principali che gli psicologi trassero dal loro lavoro nelle

regioni dell’Asia Centrale sono così riassunte da Lurija:

vi sono marcati cambiamenti nella natura dell’attività cognitiva e nella

struttura dei processi mentali strettamente associati all’assimilazione di

nuove sfere dell’esperienza sociale. Le forme più elementari di attività

cognitiva iniziano ad andare al di là della stabilizzazione e della

riproduzione dell’attività pratica individuale, e cessano di essere

puramente concrete e situazionali. L’attività cognitiva umana diviene

parte di un più ampio sistema dell’esperienza umana generale, che

intanto si è stabilizzata nel processo della storia sociale, codificato nel

linguaggio. (Cit. in, Cole, 1996, p. 152).

psicologi di vari paesi, secondo modalità specifiche alle rispettive culture? In che modo ragionano e deducono soggetti analfabeti provenienti da ambienti sociali diversi? Come procedono nella soluzione dei problemi? Esistono differenze fondamentali non solo nel contenuto, che sarebbe ovvio, ma anche nelle strutture psicologiche dei processi cognitivi? Infine (ma non era certo l’ultima delle nostre curiosità), mutamenti rapidi e radicali nella vita sociale, un’autentica rivoluzione sociale e culturale, si traduce in profonde modificazioni psicologiche delle persone coinvolte?» (Lurija, 1976, pp. 48-49).

72

Dalla stessa ricerca emerse inoltre che la struttura psicologica del

pensiero logico deduttivo non è una caratteristica universale del

pensiero, e che tutti i processi cognitivi «non scaturiscono da alcun

universale logico, ma dipendono invece profondamente dalle forme

pratiche della vita sociale e sono creati e trasformati ad opera del

processo storico di sviluppo della società» (Lurija, 1976, p. 55).

Un’importante conseguenza di questa conclusione riguarda la

necessità, ribadita dallo stesso Lurija, di partire dalla vita pratica e

sociale delle persone per «impostare correttamente i problemi di

fondo delle leggi psicologiche che governano i processi cognitivi» e

un rifiuto integrale del test di Stanford-Binet per misurare il livello di

sviluppo del pensiero nelle culture non alfabetizzate. Infatti, Lurija

osservò che i soggetti da lui studiati erano in grado di ragionare e

avanzare deduzioni logiche su argomenti pratici: in tal caso

mostravano eccellenti capacità di giudizio ed erano in grado di trarre

le “corrette” conclusioni48.

Mentre il risalto alla struttura mediata dei processi cognitivi e la

“storicità” della natura della mente sono il postulato della prima teoria

storico-culturale, saranno gli sviluppi successivi di tale teoria che, a

partire dagli anni Sessanta e Settanta insisteranno fermamente

sull’importanza dell’azione mediata in un contesto “rimediando” in tal

modo all’apparente contraddizione in cui Vygotskij e colleghi cadono

laddove esprimono giudizi di carattere generale sul modo di pensare

48 Questo tipo di ricerca è stato replicato in altre parti del mondo da Cole, Gay, Glick et al., (1971); Fobih, (1979); Scribner, (1975, 1977); Sharp, Cole, Lave, (1979); Tulviste, (1991). Ad esempio, se agli intervistati, rispetto al sillogismo, veniva chiesto non di trarre una conclusione ma di limitarsi a valutare se le premesse ipotetiche si accordavano logicamente alle conclusioni del ricercatore, erano disposti a considerare le relazioni logiche tra le asserzioni (Cole et al., 1971). Il sillogismo appartiene a un genere linguistico specialistico, che richiede pratica per essere padroneggiato (Scribner, 1977). La disponibilità ad accettare una premessa che non può essere verificata, e a ragionare su di essa, è tipicamente “scolastica”. Questo tipo di test di abilità logica riflette un addestramento piuttosto specifico ad una forma linguistica.

73

degli individui basandosi sulla storia del pensiero e delle culture a

tecnologia avanzata.

Come ha fatto notare Michael Cole l’uso di strumenti implica sia la

mediazione che la specificità del contesto, e un approccio contesto

specifico porta con se un’accidentalità storica dei processi mentali.

Gli psicologi storico-culturali russi avevano ragione ad insistere sulla

natura mediata della mente e sull’aspetto strumentale dei mediatori ma,

affermando l’esistenza di ampie differenze culturali nel pensiero, non

applicavano la teoria secondo la quale processi e contenuti del pensiero

differiscono a seconda di particolari circostanze. Considerare la

mediazione degli strumenti come fulcro del pensiero comporta,

logicamente, l’inclusione di restrizioni del pensiero a livello di contesto:

tutti gli strumenti devono simultaneamente conformarsi alle costrizioni

che emergono dall’attività che essi mediano, nonché alle caratteristiche

fisiche e mentali degli esseri umani che li utilizzano. Non esistono

strumenti universali, svincolati dal contesto, indipendenti da compiti e

agenti […].

Fin tanto che vi sono differenze nel genere di problemi riconosciuti e

inglobati nelle pratiche culturali nelle diverse società, sarà necessario

adottare, conseguentemente, la posizione del relativismo culturale:

nessuna nozione universale che riguardi una caratteristica psicologica

unica, generale, che sia denominata “livello di pensiero” o con

qualunque altro nome surrogato, potrà mai essere universalmente

appropriata. (Cole, 1996, pp. 153-155).

1.2 Un approccio culturale all’ontogenesi

Lo sviluppo ontogenetico si inserisce dunque all’interno di un

complesso sistema “in sviluppo”, che riguarda contemporaneamente

filogenesi e storia culturale: esso è intrinsecamente radicato

nell’eredità che gli uomini condividono alla nascita in quanto membri

della specie e della storia culturale della loro comunità.

74

Il retaggio filogenetico ci restituisce innanzitutto una condizione

d’immaturità psicobiologica del neonato al momento della nascita49.

La prole della specie umana è inetta e presenta una condizione di

“incompetenza sostanziale”, in quanto è incapace di sopravvivere da

sola. Inoltre, a differenza degli altri primati, i neonati50 umani

impiegano molto più tempo a raggiungere la maturità (condizione di

prematuranza).

Tale condizione è il risultato di un compromesso biologico tra le

dimensioni e la conformazione del canale da parto della donna da un

lato e le notevoli dimensioni del cervello e della scatola cranica del feto

dall’altro. Se il cervello fosse stato più grande, il parto sarebbe potuto

49 Ricordiamo che al momento della nascita il bambino ha già alle spalle nove mesi di vita “prenatale”. Oltre a sviluppare il patrimonio genetico trasmessogli dai genitori, il feto è comunque esposto a una serie di fattori ambientali, a causa dello stretto rapporto con la madre nella fase intrauterina. L’ambiente uterino protegge e nutre l’organismo in formazione (lo mantiene ad una temperatura costante e, attraverso il liquido amniotico, lo preserva dagli urti); tuttavia attraverso il sangue materno, oltre al nutrimento e all’ossigeno, passano anche sostanze chimiche, ormoni e virus che possono lasciare tracce sullo sviluppo successivo. Inoltre, se il sangue materno è carente di sostanze necessarie all’organismo in crescita, lo sviluppo armonico di organi e apparati può risultare alterato. Il feto dimostra altresì di possedere meccanismi elementari di apprendimento (familiarizzazione prenatale) come l’assuefazione (che si traduce in una diminuzione del battito cardiaco in corrispondenza della sovraesposizione ad un determinato stimolo), il condizionamento classico, e l’inversione delle sillabe. Queste forme di apprendimento consentono al bambino di entrare più facilmente in contatto con la madre al momento della nascita. «In effetti gli esseri umani apprendono dalla cultura in cui vivono già prima di nascere. L’esperienza maturata quand’era feto consente al neonato di individuare molti aspetti della sua vita prenatale. È in grado di riconoscere la voce della madre, di distinguere tra racconti familiari e sconosciuti (ascoltati ripetutamente nelle ultime settimane prima della nascita) e persino di discriminare tra la lingua madre e altre lingue» (Rogoff, 1990, p. 65).

Occorre anche puntualizzare che il bambino viene al mondo con le competenze necessarie per sopravvivere all’ambiente extrauterino (il riflesso respiratorio mette in funzione i polmoni, che consentono al bambino di prendere ossigeno dopo che il cordone ombelicale è stato reciso; mentre il riflesso di suzione gli permette di ingerire cibo), ma il passaggio dalla vita interuterina a quella extrauterina richiede un adattamento di tutti gli organi alle nuove esigenze e una diversa modalità di interdipendenza dalla madre (o da chi si prende cura del bambino). Per una rassegna dei principali mutamenti fisici, motori, psichici e affettivi del bambino dalla fase prenatale alla fase adulta cfr. Camaioni – Di Blasio, 2002. 50 La crescita postnatale viene suddivisa solitamente in cinque fasi: il periodo neonatale (dalla nascita al ventottesimo giorno); la prima infanzia (da zero a due anni); la seconda infanzia (da due a sei anni); la terza infanzia (da sei a dieci anni); l’adolescenza (da 10 anni al completo sviluppo sessuale).

75

diventare un evento troppo rischioso. L’esito di tale compromesso è uno

stato di rilevante immaturità biologica al momento della nascita, che

implica un prolungamento dello stadio fetale in ambiente extrauterino

(neotenia). In particolare al momento della nascita il cervello umano è

solo il 23% delle sue dimensioni finali (rispetto al 65% nei macachi e al

41% negli scimpanzé). Solo a tre anni il cervello umano è all’80% circa

del suo sviluppo totale. (Anolli, 2006a, p. 61).

Il cervello si sviluppa per tre quarti dopo la nascita e ciò favorisce in

modo rilevante la flessibilità e l’apprendimento in funzione

dell’esperienza, che svolge un ruolo importante nella formazione e

organizzazione dell’architettura celebrale51.

Uno dei più recenti contributi in campo neurobiologico è quello fornito

dagli studiosi interessati a fondare una “fisiologia della mente”

capace di connettere “mente” e “corpo”, e di considerarli nella loro

costitutiva unità52. In tale prospettiva, una particolare centralità

51 «Lo sviluppo celebrale (e soprattutto corticale) fin da subito è influenzato in modo radicale dalle condizioni culturali dell’ambiente. Teniamo presente che il cervello del neonato continua a crescere a ritmi fetali assai rapidi dopo la nascita. In particolare, si stima che la sua corteccia celebrale cresca al ritmo di due milioni di sinapsi al minuto (Rose, 2005). Si tratta di collegamenti nervosi che, in buona parte hanno luogo a seguito dell’esposizione a stimoli ambientali, dalla percezione del volto materno all’allattamento, ai rumori esterni e così via» (Anolli 2006a, p. 61).

A ciò si aggiunga che il bambino presenta, al momento della nascita un repertorio di riflessi (rotazione del capo, suzione, Moro, Babinskiy, presa, marcia autonoma) un tempo definiti «riflessi primari» in quanto si riteneva che il cervello del neonato funzionasse come un insieme di reazioni motorie involontarie a determinati stimoli, in opposizione alle reazioni volontarie dell’età adulta. Questa definizione e concezione viene oggi rifiutata dalla comunità scientifica. «Già nelle prime fasi di sviluppo il sistema nervoso è capace di produrre spontaneamente movimenti ritmici (come la suzione e la respirazione) o fasici. La versione per la quale il neonato è un organismo inerte finché non viene stimolato è stata soppiantata da una diversa concezione circa il funzionamento del sistema nervoso e il comportamento del neonato, che non soltanto reagisce agli stimoli ma è anche capace di produrre spontaneamente movimenti autoregolati. Tra la concezione neurofisiologica classica e quella moderna la differenza è profonda: da una parte il neonato viene visto come un insieme meccanico di sistemi isolati, inerti fino a quando non vengono stimolati, dall’altro come un organismo attivo, composto da sottosistemi interconnessi, pronto a modulare la sua attività in funzione delle condizioni ambientali» (Camaioni - Di Blasio, 2002, p. 46). 52 «Per quanto sulle prime possa sorprendere, la mente esiste dentro e per un organismo integrato: le nostre menti non sarebbero quello che sono se non fosse per l’azione reciproca di corpo e cervello – nel corso dell’evoluzione, durante lo

76

occupano le teorie epigenetiche53 espresse nella teoria del

darwinismo neuronale di Gerald Edelman e nella teoria dell’epigenesi

per stabilizzazione selettiva di Jean-Pierre Changeux (Changeux -

Connes, 1989; Edelman, 1987, 1989, 1992).

Il cervello, in questo ambito di studi, è “l’organo della mente”, nel

senso che le manifestazioni del pensiero sono considerate un

prodotto derivato e collegato all’organizzazione neuronale.

Recuperando la teoria selettiva di origine darwiniana, questo

paradigma contesta che il cervello sia una tabula rasa pronta ad

essere istruita dall’ambiente; piuttosto, gli stimoli ambientali svolgono

una funzione di “selezionare” le risposte dell’organizzazione

neuronale fra tutte quelle previste dal patrimonio genetico. In tal

modo l’ambiente funziona come “specializzatore” e allo stesso tempo

sviluppo dell’individuo e nel momento presente. La mente dovette essere prima per il corpo, o non sarebbe potuta essere. Sulla base del riferimento che il corpo fornisce con continuità, la mente può allora avere a che fare con molte altre cose, reali e immaginarie. Quest’idea si radica sui seguenti enunciati: 1) il cervello umano e il resto del corpo costituiscono un organismo non dissociabile, integrato grazie all’azione di circuiti regolatori neurali e biochimici interagenti (che includono componenti endocrini, immunitari e nervosi autonomi); 2) l’organismo interagisce con l’ambiente come un insieme: l’interazione non è del solo corpo né del solo cervello; 3) i processi fisiologici che noi chiamiamo “mente” derivano dall’insieme strutturale e funzionale, piuttosto che dal solo cervello: soltanto nel contesto dell’interagire di un organismo con l’ambiente si possono comprendere appieno i fenomeni mentali. Il fatto che l’ambiente sia, in parte, un prodotto dell’attività stessa dell’organismo semplicemente sottolinea la complessità delle interazioni che bisogna tener in conto […].

Quando si parla di cervello e di mente, non è consuetudine fare riferimento agli organismi. Di fronte all’evidenza che la mente scaturisce dall’attività dei neuroni, si discute solo di questi, come se il loro funzionamento potesse essere indipendente da quello del resto dell’organismo […]. L’attività mentale – nei suoi aspetti più semplici come in quelli più alti – richiede sia il cervello che il resto del corpo. Quest’ultimo, a mio avviso, fornisce al primo più che un puro sostegno e una modulazione: esso fornisce la materia di base per le rappresentazioni celebrali» (Damasio, 1994, pp. 24-25). 53 Il termine «epigenetica» è stato utilizzato da Waddington (1957) per indicare che l’espressione dei programmi genetici assume differenti percorsi di sviluppo nella produzione di organi e tessuti in relazione alle condizioni ambientali. «A partire da uno stadio iniziale di cosiddetta totipotenzialità, lo sviluppo consiste nel progressivo restringimento dei percorsi e degli esiti evolutivi possibili in funzione congiunta sia delle informazioni genetiche disponibili sia delle condizioni ambientali contingenti e causali (epigenesi probabilistica). All’interno dei cosiddetti paesaggi epigenetici si ottiene così una specifica canalizzazione dello sviluppo, intesa come espressione dei vincoli e delle opportunità offerti congiuntamente dai fattori genetici e da quelli ambientali» (Anolli, 2006a, p. 63).

77

come “riduttore” delle competenze dei soggetti con cui è in

relazione54.

Changeux propone un esempio molto chiaro di questo processo,

riferendosi allo sviluppo del linguaggio. Senza voler in questa sede

ripercorrere gli stadi di apprendimento del linguaggio, (che seguono

lo stesso ordine nelle comunità culturali più disparate) ci basti

sottolineare che i bambini, nei loro primi mesi di vita, dispongono di

una vastissima gamma di possibilità foniche e sonore. Utilizzano un

balbettio amplissimo che, progressivamente, con l’uso e con

l’esercizio vocalico, tendono ad adeguare ai suoni prodotti e sentiti

nel proprio ambiente: alla straordinaria varietà iniziale, segue una

riduzione di suoni, una “selezione” che determina la specializzazione

fonetica, legata al sistema linguistico della comunità di appartenenza.

Il neonato, quindi, nasce con la capacità di acquisire le lingue più

diverse, ma con il graduale apprendimento della propria lingua

madre, va progressivamente a limitare il proprio patrimonio

vocalico55.

Ma per operare in tal modo il cervello deve entrare nel mondo

possedendo una robusta dose di “conoscenza innata” su come regolare

se stesso e il resto del corpo. Via via che il cervello incorpora

54 «Alla nascita è presente la maggior parte dei neuroni (cellule celebrali), anche se le connessioni tra i neuroni (sinapsi) sono ancora imperfette. Inoltre, sulla superficie cellulare si sono formate quelle strutture (assoni e dendriti), attraverso cui sostanze chimiche e informazioni vengono ricevute e inviate da una cellula all’altra. Paradossalmente all’inizio il numero di sinapsi, assoni e dendriti è molto superiore a quello che sarà poi il numero definitivo. In altri termini, si parte da una sovrapproduzione per passare ad una parziale eliminazione, e questo fenomeno riguarda anche il numero di neuroni (morte cellulare)» (Camaioni - Di Blasio, 2002, pp. 56-57). 55 «La rapidità di sviluppo del linguaggio del bambino dipende sia dalla capacità di percepire differenze nel linguaggio sia dall’esperienza nell’ascolto delle conversazioni degli altri (Jusczyk, 1997; Werker, Desjardins, 1995). Nel corso del primo anno di vita, egli diviene sempre meno sensibile alle differenze dei suoni che ascolta raramente, mentre presta sempre più attenzione alle caratteristiche proprie della lingua parlata da chi gli sta attorno. Fino a sei mesi, in ogni parte del mondo, la lallazione dei bambini si basa sugli stessi suoni, comuni a tutte le lingue. Ma tra i sei mesi e un anno, i bambini si “specializzano” nella loro lingua madre, e cominciano ad abbandonare i suoni che essa non utilizza» (Rogoff, 2003, p. 65).

78

rappresentazioni disposizionali di interazioni con entità e scene

significative per la regolazione innata, esso accresce le possibilità di

includere entità e scene che possono o no essere significative per la

sopravvivenza. E allorché ciò avviene, il nostro senso crescente di quel

che il mondo esterno può essere viene appreso come modificazione

dello spazio neurale nel quale corpo e cervello interagiscono. Non è solo

la separazione tra mente e cervello a essere mitica: probabilmente

anche la separazione tra mente e corpo è altrettanto fittizia. La mente è

incorporata, nel senso più pieno del termine, non soltanto intrisa nel

cervello. (Damasio, 1994, pp. 175-176).

La neotenia produce inoltre una condizione di dipendenza

fondamentale e prolungata dagli adulti che si prendono cura del

bambino (in particolare dalla madre): essi costituiscono un sistema di

supporto indispensabile per la crescita e il primo “strumento” che

consente al bambino di appropriarsi della cultura in cui vive. Le cure

parentali sono intrinsecamente indirizzate dalla cultura di riferimento

e rimandano a precisi stili educativi; esse sono inoltre espressione di

etnoteorie parentali ovvero di sistemi sufficientemente espliciti di

credenze su come i bambini vadano allevati56.

Il comportamento del bambino va considerato alla luce della relazione –

biologica e insieme culturale – instaurata con le persone che lo

accudiscono, e delle usanze culturali che incoraggiano la sua

partecipazione alla vita della comunità. Anche quando non “insegnano”

esplicitamente qualcosa ai bambini, gli adulti ogni giorno sono presi a

modello in ciò che fanno, e inoltre strutturano l’ambiente, le interazioni e

i comportamenti dei bambini in modi rispondenti alle forme di

apprendimento locali.

Nel corso dell’infanzia il bambino partecipa sempre più attivamente alle

attività socioculturali, perfezionando il modo di gestire le relazioni con gli

altri, che organizzano il processo di apprendimento, lo guidano nelle

56 Cfr. anche Tobin, Wu, Davidson, 1989.

79

attività condivise, e lo aiutano ad adattare il livello di partecipazione al

grado di competenza raggiunto […].

Le interpretazioni locali di queste forme di sostegno interpersonale

all’apprendimento si sono formate in seguito a una lunga evoluzione

biologica e culturale. Nella nostra specie, ogni generazione viene al

mondo predisposta ad adottare gli usi e i costumi dei nostri antenati,

grazie alla condivisione di una serie di attività promosse culturalmente.

Ciò può spiegare il rapido sviluppo, nei bambini, della capacità di

partecipare alle conoscenze e alle usanze culturali – imparando a

tessere o a leggere, badando al bestiame o ai fratelli più piccoli,

andando a scuola, o rispettando i particolari ruoli di genere previsti nelle

comunità. Lo sviluppo delle differenze di genere e dei ruoli ad essi

associati illustra in modo particolarmente efficace la natura

“biologicamente culturale” dello sviluppo umano. (Rogoff, 2003, pp. 66-

67).

Oltre a dover imparare a diventare soggetto culturalmente

competente, il neonato è fin dalla nascita oggetto culturale: oggetto

di un’interpretazione culturale da parte degli adulti.

Mettendo in luce l’eterocronia tra domini genetici (di norma, il

mutamento culturale procede più rapidamente di quello filogenetico e

più lentamente di quello ontogenetico) Cole (1996) analizza i

meccanismi di prolessi57 che condizionano lo sviluppo mentale

dell’individuo.

I genitori iniziano a parlare quasi subito del e al bambino, a volte

prima ancora che nasca, e questo sarebbe motivato in parte da

caratteristiche filogeneticamente determinate (le differenze

anatomiche tra maschio e femmina), e in parte da caratteristiche

culturali che i genitori hanno appreso dalla propria esperienza

57 «La rappresentazione di un atto o sviluppo futuro come esistente nel presente» (Cole, 1996, p. 163). Il materiale utilizzato da Cole in questa ricerca è costituito da registrazioni di conversazioni tra ostetrici e genitori al momento della nascita dei bambini.

80

personale (compresi quelli che ritengono essere i tratti distintivi di

bambini e bambine).

Utilizzando questa informazione, derivata dal loro passato culturale e

dando per scontata la continuità culturale (ossia postulando che il

mondo in cui vivrà il figlio sarà abbastanza simile a quello in cui hanno

vissuto loro), i genitori progettano un possibile futuro per il bambino […].

Due caratteristiche di questo sistema di trasformazioni sono essenziali

per capire il ruolo della cultura nel costruire lo sviluppo del bambino. La

prima, più ovvia, è un esempio di prolessi: i genitori rappresentano il

futuro nel presente. La seconda caratteristica, forse meno ovvia, è che il

richiamo (puramente ideale) del passato operato dai genitori e il futuro

che essi immaginano per il bambino diventa una restrizione

materializzata fondamentale che grava sulle esperienze di vita del

bambino nel presente […]. In altre parole, gli adulti creano letteralmente

diverse forme materiali d’interazione basate su concezioni del mondo

derivate dalla loro esperienza culturale. È opportuno notare come

questa situazione differisca da quella insita nel concetto di sviluppo

basato sulla teoria dell’apprendimento. Gli adulti non si limitano ad

ampliare il repertorio già esistente di comportamenti del bambino e a

modificarlo poco alla volta, piuttosto per loro, il bambino è un oggetto

culturale, ed è in questi termini che lo trattano. (Cole, 1996, pp. 164-

165).

In questo caso possiamo ulteriormente chiarire l’enfasi posta dagli

psicologi storico-culturali sull’origine sociale delle funzioni psichiche

superiori: esiste un’enorme differenza tra la socialità di alcune specie

animali e l’essere “sociale” proprio degli esseri umani.

Il termine “cultura”, in questo caso è riferito alle forme di attività

richiamate alla memoria che sono ritenute idonee, mentre con il termine

“sociale” si designano le persone il cui comportamento si conforma alla

struttura culturale data e la pone in atto […].

81

Solo un essere umano che utilizza la cultura potrà “penetrare” nel

passato culturale, proiettarlo nel futuro e quindi “riportare” quel futuro

concettuale nel passato, al fine di creare l’ambiente socioculturale del

nuovo venuto. Infine, l’analisi dei commenti dei genitori nel momento in

cui vedono per la prima volta il figlio ci aiuta a capire come la cultura

contribuisca sia alla continuità che alla discontinuità dello sviluppo

individuale. Pensando al futuro dei figli, i genitori presumono che le cose

continueranno ad andare come sono sempre andate.

Tale ipotesi di stabilità ricorda l’immagine eloquente proposta da White

(1942), che vede la mente culturalmente costituita, dal punto di vista

temporale, come “un continuum che si estende all’infinito, in entrambe le

direzioni”. In tal modo, il medium culturale consente agli individui di

“proiettare” il passato nel futuro, creando così un quadro interpretativo

stabile, che viene poi riletto nel presente come uno degli elementi

rilevanti della continuità psicologica. (Ivi).

Lo sviluppo del bambino avviene dunque grazie all’interdipendenza

intrinseca tra fattori biologici (informazioni genetiche) e condizioni

ambientali, che si esprimono in termini di vincoli e possibilità offerte

dalla nicchia ontogenetica nella quale cresce, una «nicchia

ontogenetica eminentemente culturale» (Tomasello, 1999, p. 104).

I bambini, come i piccoli di altre specie, crescono in un ambiente

“arredato” dal lavoro delle generazioni precedenti, e mentre crescono

essi incorporano letteralmente le forme del loro abitare, nel proprio

corpo – in abilità, sensibilità e disposizioni specifiche. Ma non le portano

nei propri geni, e nemmeno è necessario immaginarsi un qualche

veicolo di trasmissione inter-generazionale di informazione – culturale

piuttosto che genetica – per rendere conto della diversità dei modi di vita

umani. (Ingold, 2001, p. 136).

Come più volte sottolineato dalla scuola storico-culturale, proprium

della “natura umana” è quello di produrre un mondo artificiale e

convivere con esso. Tale convivenza implica che la stessa natura

82

umana si trasformi, venendo coinvolta in complessi processi di co-

evoluzione con gli «strumenti culturali».

La cultura crea forme particolari di comportamenti; essa muta il tipo

stesso dell’attività delle funzioni psichiche, innalza nuovi piani nel

sistema in sviluppo del comportamento umano […]. Nel processo dello

sviluppo storico l’uomo sociale cambia modi e criteri del suo

comportamento, trasforma le disposizioni e le funzioni naturali, elabora e

crea nuove forme di comportamento, specificatamente culturali […].

Quando parliamo di uno sviluppo culturale del bambino noi intendiamo

indicare quel processo, corrispondente allo sviluppo psichico, che si

compie nel corso dello sviluppo storico dell’umanità. […].

Sarebbe difficile respingere a priori l’idea che il tipo particolare

dell’adattamento umano alla natura, che differenzia radicalmente l’uomo

dagli animali e che rende per principio impossibile la semplice

trasposizione delle leggi della vita animale (lotta per l’esistenza) nella

scienza della società umana, che questo nuovo tipo di adattamento, che

è alla base di tutta la vita storica dell’umanità, sia impossibile senza

nuove forme di comportamento, di questo fondamentale meccanismo di

equilibrazione dell’organismo con l’ambiente. Una nuova forma di

rapporto con l’ambiente, sorta in presenza di determinati presupposti

biologici, ma superante i limiti della biologia non poteva non dar vita a un

sistema nuovo, qualitativamente diverso e diversamente organizzato, di

comportamento. (Vygotskij, 1930-31, p. 68).

Nel corso dell’ontogenesi, vi è un mutamento strutturale

fondamentale: un organismo che vive in un ambiente culturale, ma

che non è in grado di farne uso, diviene un organismo per il quale la

mediazione delle azioni attraverso la cultura è una “seconda natura”

(Cole, 1996).

In questo processo rivestono un’importanza fondamentale gli

artefatti, mediatori materiali/ideali dell’esperienza, strumenti-vincolo

per l’azione. I bambini non nascono con la competenza necessaria a

mediare l’azione attraverso gli artefatti, ma apprendono ad utilizzarli

83

nel contesto sociale e attraverso le persone che si prendono cura di

loro: «l’apprendimento così concepito non coincide con lo sviluppo,

ma attiva lo sviluppo mentale infantile, risvegliando quei processi

evolutivi che, al di fuori di esso, sarebbero inattuabili» (Vygotskij,

1930-31, p. 307).

Secondo questa ipotesi interpretativa l’apprendimento è definibile in

senso lato come cambiamento e quindi trasformazione58. Nelle prime

fasi della vita umana viene solitamente designato con il termine

“sviluppo”, indipendentemente dalle assunzioni teoriche più o meno

innatiste o ambientaliste degli studiosi che si servono di questa

metafora di origine biologica59; ma la contrapposizione tra sviluppo e

58 Sull’identità tra apprendimento e cambiamento (sviluppo, adattamento intelligente ed evoluzione) e sui diversi “tipi” di cambiamento, cfr. Bateson, 1979. 59 «Per molto tempo nella psicologia infantile ci si è rifiutati di considerare l’esperienza culturale del bambino come una forma di sviluppo. Di solito si diceva: si può considerare sviluppo soltanto ciò che procede dall’interno, ciò che viceversa procede dall’esterno è apprendimento, educazione, perché non esiste in natura un bambino che maturi per via naturale le sue funzioni aritmetiche, mentre, non appena raggiunge l’età scolare, o appena un po’ prima, apprende per via esterna, dalle persone che lo circondano, una serie di concetti aritmetici e di operazioni ad essi relative. […].

Ogni nuova forma dell’esperienza culturale non è semplicemente esterna, indipendente dalla situazione dell’organismo in un certo momento dello sviluppo; in realtà l’organismo, assimilando le influenze esterne, e assimilando una serie di forme del comportamento, assimila queste in dipendenza dal livello dello sviluppo psichico in cui si trova. Accade qualcosa che ricorda ciò che, nella crescita del corpo, si chiama nutrimento, cioè si verifica l’assimilazione di determinate cose dall’esterno, di materiale esterno, che tuttavia viene elaborato e assimilato dall’organismo in modo specifico. […].

Se a qualcuno riuscisse di dimostrare sperimentalmente che è possibile esser immediatamente capaci di una qualsiasi operazione intellettuale, considerata nel suo stadio più evoluto, si sarebbe con questo dimostrato sperimentalmente che si tratta non di sviluppo, ma di apprendimento esterno, e cioè di una qualche modificazione in funzione di influenze puramente esterne. L’esperimento ci insegna, viceversa, che ogni azione esterna è il risultato di una legge genetica interna. Sulla base di prove sperimentali possiamo dire che nessun bambino, persino un bambino prodigio, può raggiungere istantaneamente l’ultimo stadio di sviluppo delle operazioni senza aver percorso il primo e il secondo. In altre parole, lo stesso instaurarsi di una nuova operazione intellettuale si fraziona in una serie di stadi internamente collegati l’un l’altro e tali che ognuno di essi trapassa nell’altro. […]. Abbiamo tutti i fondamenti per applicare al processo di accumulazione dell’esperienza interna, il concetto di sviluppo» (Vygotskij, 1930-31, p.206).

84

apprendimento è per lo più strumentale a certe impostazioni

teoriche60.

L’apprendimento è una condizione essenziale ed ineliminabile del

processo di crescita, una dimensione del vivere; esso si configura

come sviluppo eminentemente contestualizzato e storico.

Il concetto di apprendimento nella teoria storico-culturale viene

declinato in termini processuali che ne evidenziano sia la funzione

adattiva, biologicamente definibile, che la funzione di crescita e

cambiamento. Quest’ultima è culturalmente “costruita” come

peculiare modalità di interpretare e selezionare esperienze, eventi,

contenuti di conoscenza sulla base di specifici orientamenti di

significato.

L’apprendimento può essere dunque inteso come un processo

significativamente connotato dalla configurazione cognitiva del

soggetto (al quale viene riconosciuto un ruolo attivo di costruzione-

decostruzione di strutture e schemi di conoscenza) e delle

determinazioni bio-culturali che l’hanno prodotta, ma anche

sostanzialmente modulato dalle relazioni e dalle caratteristiche dei

contesti in cui si produce.

Attraverso un significativo recupero del pensiero di Vygotskij le teorie

storico-culturali a noi più contemporanee, propongono

un’interpretazione dell’apprendimento come esperienza mediata e

come processo socialmente condiviso e culturalmente costruito, in

cui giocano un ruolo essenziale le relazioni intersoggettive e le

risorse culturali presenti in un determinato contesto61.

60 Ad esempio, in una concezione teorica di tipo piagetiano, il cambiamento è spiegato in termini di un evolversi interno e, in un certo senso, necessario delle strutture, mentre all’apprendimento è riservato un ruolo del tutto marginale di facilitazione del passaggio da uno stadio all’altro in determinate condizioni di maturazione cognitiva. Per contro, in un approccio behaviorista si attribuisce all’apprendimento la funzione di modellare l’individuo, che è considerato plasmabile attraverso l’imitazione e il rinforzo. 61 Si confrontino ad esempio le ricerche di Feuerstein (1988), quelle di Wertsch (1985), Cole (1996), Resnick (1994), Rogoff (2003, 1990), Lave e Wenger (1991), gli studi che dagli anni Settanta ad oggi si sono prodotti nell’ambito del Laboratory of Comparative Human Cognition (in cui si evidenzia la funzione giocata dagli

85

La tesi centrale della teoria storico-culturale è che la struttura e lo

sviluppo dei processi psicologici umani emergano dall’attività pratica

(originariamente esterna e interpsicologica) mediata culturalmente e

soggetta di sviluppo storico (Cole, 1996).

Prima di riprendere ciascuno dei termini implicati in questa

formulazione, dedicheremo un paragrafo alla competenza sociale del

bambino e quindi alla sua particolare predisposizione

all’apprendimento.

1.2.1 Il bambino sociale

«L’apprendimento umano presuppone una natura sociale specifica e

un processo attraverso il quale i bambini si inseriscono gradualmente

nella vita intellettuale di coloro che li circondano» (Vygotskij, 1978, p.

130).

Negli ultimi decenni le ricerche psicologiche sulle competenze

percettive e cognitive precoci si sono arricchite di nuovi dati che

hanno contribuito a modificare l’immagine del neonato da mero

recettore di stimoli, a soggetto attivo dotato di capacità che hanno

bisogno dell’interazione con l’ambiente per potersi dispiegare ed

evolvere. Nel neonato, assieme alle capacità percettive62, risulta

particolarmente consistente la competenza sociale.

artefatti e dai codici culturali nella costruzione del sapere e della conoscenza a livello interindividuale e intraindividuale) e il culturalismo di Bruner. 62 «La percezione [al contrario della sensazione] è un processo attivo e dinamico di elaborazione degli stimoli sensoriali che procede attraverso l’analisi, la selezione, il coordinamento e l’elaborazione delle informazioni. Quali rapporti esistono tra sensazioni e percezioni nel corso dello sviluppo? Sappiamo che i neonati sono dotati di capacità sensoriali e, fin dalla nascita, sono in grado di rispondere a stimoli luminosi, acustici e di reagire a sollecitazioni tattili e gustative […].

Già dal secolo scorso sono state proposte prospettive differenti [da quella empirista], basate sull’idea che la strutturazione percettiva della realtà contenga elementi già organizzati a cui l’essere umano è predisposto e che, quindi, può cogliere in modo immediato grazie alla sua dotazione innata. Non sarebbe così necessaria un’elaborazione mentale, vale a dire un’interpretazione cognitiva di interpretazione dei dati percepiti, poiché esisterebbe una corrispondenza tra le

86

La preferenza precoce per il volto umano, più volte accertata, non

sembra oggi essere oggetto di dibattito63. Sono in molti a ritenere che

tale preferenza sia innata e abbia valore adattivo in quanto

servirebbe a favorire la relazione tra esseri umani, in particolare la

relazione di attaccamento alla madre. Il bambino è inoltre in grado di

distinguere un volto allegro da uno triste e di imitare le espressioni di

coloro che interagiscono con lui (Meltzoff, Moore 1977, 1989).

Abbiamo poi visto come il processo di abituazione alla voce della

materna sembri essere in atto già nello stadio fetale; mentre fin dalle

prime fasi dello sviluppo i bambini riconoscono le altre persone come

esseri animati, distinti dagli oggetti fisici64.

strutture percettive di cui è dotato l’organismo e la struttura della realtà (qualità della forma, valore dell’insieme non ricavabile dalla semplice somma delle parti, ecc.) non riconducibile agli elementi forniti dalla sensazione. In anni recenti, la sperimentazione psicologica ha fornito un notevole contributo allo studio dello sviluppo percettivo dei bambini, sottolineando come essi nascano con una gamma di facoltà percettive assai più ampia di quella ipotizzata dagli empiristi, anche se non vi è dubbio che la stessa capacità infantile di apprendere dall’esperienza sia nettamente superiore a quella ipotizzata dagli innatisti.

Riconoscere l’esistenza di abilità percettive e di predisposizioni innate non deve, tuttavia, far dimenticare né i limiti del neonato né l’importanza dell’apprendimento che si realizza nei primi anni di vita. Le capacità precoci ma ancora rudimentali del neonato di percepire ed esplorare non sono, infatti, che punti di partenza di un lungo processo di progressiva comprensione dell’ambiente. Grazie all’esplorazione e all’esperienza, il piccolo dell’uomo scopre sia le caratteristiche permanenti di ciò che lo circonda sia le proprietà transitorie di oggetti e di persone. Sin dall’inizio però il processo di esplorazione dell’ambiente non è casuale e col trascorrere del tempo, diventa sempre più sistematico e mirato, permettendo di apprendere efficacemente come sia strutturato il mondo» (Camaioni – Di Blasio, 2002, pp. 60-61). 63 «Nell’arco di tre o quattro giorni di vita, il neonato è capace di riconoscere e discriminare il volto della madre grazie all’attivazione di un sistema sottocorticale situato nel collicolo superiore. Infatti, dopo 9-12 ore di esposizione visiva al volto materno durante l’allattamento, il neonato preferisce e dedica più tempo al volto della madre rispetto a quello di un’altra donna che abbia lo stesso colore dei capelli e della pelle» (Anolli, 2006a, p. 65). Per una rassegna degli studi sulla percezione e l’attenzione selettiva per il volto da parte del bambino cfr. Camaioni - Di Blasio, 2002, pp. 61-80. 64 «Persino un bambino molto piccolo tratta le persone in modo diverso dagli oggetti. Se vede un oggetto in movimento che poi si ferma, perde ogni interesse; se invece interagisce con una persona il cui volto si fa improvvisamente immobile, rimanendo tale a lungo, si spaventa (Tronick et al. 1978). Il bambino si aspetta non solo che un volto si muova, ma anche che lo faccia in modo da rispondere adeguatamente alle sue azioni. […]. Per quanto ne sappiamo la nostra specie non presenta caratteristiche particolari rispetto alla conoscenza del mondo fisico: da tutti gli studi comparativi condotti sull’argomento è emerso che la stessa

87

Alcune di queste capacità sono tipiche dei primati e sono condivise

da bambini e piccoli di scimmie antropomorfe, vi sono però due

comportamenti sociali che fanno pensare che i bambini non siano

semplicemente sociali come gli altri primati, ma piuttosto ultrasociali

(Tomasello, 2005).

Il primo riguarda il tentativo dei bambini di adeguarsi al

comportamento degli adulti durante le prime interazioni sociali. Già

poco dopo la nascita ripetono alcuni movimenti corporei degli adulti,

specialmente quelli della bocca e della lingua: tirare fuori la lingua,

aprire la bocca e muovere la testa; non essendosi mai guardati allo

specchio è come se essi “sapessero” istintivamente che la lingua che

vedono corrisponde a quella cosa che hanno in bocca e che non

hanno mai visto (Meltzoff - Moore 1977, 1989). E’ stata inoltre

osservata in bambini di sei settimane la protrusione della lingua a

seguito dell’imitazione di un adulto che la muoveva da un lato all’altro

della bocca (Meltzoff, 1995).

E’ perciò possibile che l’imitazione neonatale rifletta non solo la

tendenza del bambino a mimare i movimenti che conosce già, ma

anche, in certo modo, a “identificarsi” con i conspecifici (Meltzoff e

Gopnik 1993). Questa conclusione è in accordo con l’idea di Stern

(1985) secondo cui l’adeguarsi dei bambini agli stati emozionali degli

adulti è il riflesso di un processo di identificazione molto profondo.

(Tomasello, 1999, p. 81).

Il secondo comportamento tipico, di cui abbiamo trattato analizzando

l’interazione adulto-bambino e il ruolo di sostegno degli adulti che si

prendono cura di lui, è la capacità, poco dopo la nascita, di

partecipare a protoconversazioni: interazioni sociali in cui adulto e

conoscenza degli oggetti caratterizza sia il bambino sia altri animali, soprattutto i primati, i quali sembrano concepire il corpo proprio come gli esseri umani. La situazione tuttavia è radicalmente diversa nel caso della conoscenza sociale» (Bloom, 2004, p. 29).

88

bambino focalizzano l’attenzione l’uno sull’altro (guardandosi,

toccandosi, “parlando” l’un l’altro) alternando i turni dell’interazione65.

Benché queste interazioni possano assumere forme differenti nelle

differenti culture – specialmente per quanto riguarda il tipo e l’entità del

contatto visivo faccia a faccia – esse sembrano comunque essere un

tratto universale dell’interazione adulto-bambino nella specie umana.

(Ibidem, p. 80)

A questo si aggiunga che a partire dal secondo mese di vita, appare

il “sorriso sociale”66 che suscita un maggiore senso di connessione

65 «Colwyn Trevarthen, in origine zoologo, ma in seguito impegnato in un centro di studi cognitivi, fu tra i primi a notare la straordinaria sincronia tra gli schemi gestuali e vocali di un bambino piccolo e quelli di sua madre. La cosa non poteva essere spiegata, osservò, come un semplice, graduale “adattamento seriale” delle reazioni del bambino alla madre seguito dalla reazione materna al bambino e così via. Pareva piuttosto che assomigliasse a quel controllo di ordine superiore che Leshley considerava essenziale in tutti gli schemi interattivi o ricorsivi che hanno luogo in un intervallo di tempo definito, come avviene nel corso di un’esecuzione musicale o dell’uso di un linguaggio che implica delle regole lessicali o grammaticali. Ma nella situazione madre-bambino due organismi erano coinvolti nella creazione di questa sincronia estesa […].

Per cercare di dare una spiegazione del fenomeno, Trevarthen prese a prestito dal filosofo scozzese MacMurray il termine “intersoggettività”. Poco dopo Daniel Stern, uno psichiatra infantile che si occupava del legame fra la madre e il bambino piccolo, fu colpito dallo stesso fenomeno e lo chiamò “sintonizzazione” fra madre e figlio. Non ci volle molto tempo perché fiorissero gli studi su questo argomento appassionante […] mi limiterò a citare alcuni dei molti risultati interessanti che sono emersi: 1) c’è un’unità neurale nella corteccia umana preposta all’elaborazione del contatto percettivo da occhio a occhio, che ne evidenzia la base biologica; 2) mentre i piccoli dei primati non umani non sembrano caratterizzati da un’analoga preferenza per il contatto da occhio a occhio, ci sono abbondanti prove che anche le giovani scimmie, per decidere dove indirizzare la loro ricerca in un dato territorio, controllano la direzione dello sguardo di un altro animale che, nel corso di precedenti tentativi, aveva dimostrato di sapere dove era nascosto il cibo; 3) è stato osservato che spesso il comportamento sociale dei primati è basato sull’intento di ingannare in maniera piuttosto machiavellica i conspecifici, e questo suggerisce che debbano possedere una qualche forma di teoria della mente; 4) il contatto con gli occhi che si prolunga oltre un certo tempo, molto breve, scatena un comportamento antagonistico e minaccioso negli individui adulti di sesso maschile delle scimmie catarrine, e in particolare nei babbuini; ma neanche gli esseri umani lo prendono alla leggera» (Bruner, 1996, pp. 189-190). 66 «Il sorriso sociale è di natura esogena e si distingue dal sorriso endogeno, che compare nelle prime settimane di vita, durante le fasi di sonno Rem, e che è una manifestazione automatica» (Anolli, 2006a, p. 83).

89

tra adulto e bambino, che a sua volta rinforza le dinamiche

protoconversazionali.

A partire dal sesto mese di vita il bambino inizia a includere un terzo

oggetto entro la cornice della relazione con l’adulto passando da un

tipo di relazione diadica (in cui la sua attenzione si focalizza o

sull’adulto o su un oggetto) a un’interazione triadica67.

Questo progresso psicologico è fondamentale poiché conduce alla

condivisione congiunta dell’attenzione, grazie alla quale bambino e

adulto orientano il loro interesse sul medesimo oggetto-evento. Essi

guardano congiuntamente il medesimo oggetto e poi si guardano

reciprocamente negli occhi, provando soddisfazione da tale condivisione

(Stern, 1985). Tale processo comune di messa a fuoco attentiva su

qualcosa di esterno alla coppia adulto-bambino consente loro di porre le

premesse di ciò che costituirà in seguito la referenza di un discorso o di

una conversazione […].

L’attenzione condivisa comporta un incipiente incontro di menti fra

adulto e bambino. Tale incontro dipende non solo dal fatto di condividere

lo stesso fuoco dell’attenzione, ma anche di prendere parte al medesimo

contesto e di sviluppare i medesimi assunti. In funzione di questo

processo, madre e lattante, nel momento in cui condividono un certo

interesse, lo costruiscono in modo convenzionale secondo gli standard

della cultura di appartenenza. (Anolli 2006a, p. 66).

Tra i nove e i dodici mesi vi è la comparsa osservabile di

comportamenti intenzionali da parte dei bambini68: iniziano ad

67 È oggi in corso un acceso dibattito sul tipo di cognizione sociale infantile che è alla base di questi primi comportamenti triadici. Per una rassegna degli studi in corso cfr. Tomasello, 1999, pp. 88-92. 68 Il problema dell’intenzionalità è stato analizzato da Bruner in relazione alla continuità tra comunicazione prelinguistica e linguistica. Dal punto di vista comportamentale, l’intenzione viene definita da Bruner (1973) come un processo caratterizzato da: a) anticipazione della comparsa dall’atto; b) selezione dei mezzi appropriati per conseguire lo stato finale; c) ordine d’arresto definito dallo stato finale.

Ma per Bruner (1975, 1986) risulta difficile capire che cosa il bambino intenda veramente comunicare nella fase prelinguistica. Per questa ragione, poiché la

90

orientare attivamente l’attenzione degli adulti utilizzando gesti deittici

o performativi (come l’indicare o quello di mostrare un oggetto

affinché qualcuno lo veda) accompagnati dallo sguardo al

destinatario del gesto. A differenza delle azioni di tipo strumentale

come l’afferrare, questi gesti sono inadeguati a raggiungere obiettivi

in modo diretto, ma sono adeguati a comunicare tali obiettivi ad un

altro soggetto. Si creano vere e proprie scene di attenzione

congiunta69 tra adulto e bambino, all’interno delle quali questi gesti

comunicazione presuppone, per definizione, l’intenzione di comunicare, è preferibile parlare di funzioni che la comunicazione assolve, e determinare come esse si realizzano.

Spostando la questione dell’intenzionalità comunicativa del bambino (nella fase prelinguistici) al tema delle funzioni comunicative, Bruner ammette che forse non sapremo che cosa il bambino intenda comunicare, ma possiamo in ogni caso osservare per quale fine comunica. Come abbiamo precedentemente visto i bambini piccoli scambiano esperienze vocali con le loro madri che attivamente interpretano, selezionano, commentano, ripetono le vocalizzazioni e i primi suoni emessi: intendono quei gesti in termini conativi – che cosa il bambino vuole – valutandone la sincerità e la consistenza. In particolare i format forniscono la base per interpretare correttamente le intenzioni comunicative della madre e del bambino, concretizzando, socializzando e strutturando le intenzioni di quest’ultimo.

Riprendendo la teoria di Grice, Bruner sostiene che parlare di intenzionalità comunicativa nel bambino prelinguistico non significa assegnargli una vera e propria “intenzione” né attribuirgli un’intenzione semantica; bensì significa riconoscergli la capacità di porsi in relazione e di avere uno scambio dotato di senso con l’adulto. Pertanto nello sviluppo dell’intenzionalità il ruolo più importante è giocato dall’interpretazione dell’adulto, mentre per quanto riguarda il bambino, la nozione di intenzione viene assimilata a quella pragmatica.

D’altra parte, riconosce Bruner (1990), apprendere il linguaggio consiste anche nell’apprendere le procedure comunicative che rendono possibile e attendibile l’interpretazione e l’intenzione del parlante. 69 «Le scene di attenzione congiunta sono interazioni sociali nelle quali il bambino e l’adulto prestano congiuntamente attenzione a una terza cosa, nonché all’attenzione reciproca verso quella cosa per un certo arco di tempo ragionevolmente esteso. I termini che sono stati usati sono quelli di interazione di attenzione congiunta, episodio di attenzione congiunta, impegno di attenzione congiunta, e format di attenzione congiunta. Sto introducendo qui un termine nuovo, ancorché affine, allo scopo di dare il giusto rilievo a due punti essenziali, a volte trascurati nelle trattazioni precedenti di questo fenomeno.

Il primo punto riguarda gli elementi inclusi nelle scene di attenzione congiunta. Da un lato, le scene di attenzione congiunta non sono eventi percettivi: esse includono solo una sottoparte del mondo percettivo del bambino. D’altro lato, le scene di attenzione congiunta non sono neanche eventi linguistici: vi è in esse più di quello che è esplicitamente indicato da qualsivoglia insieme di simboli linguistici […]. Una sorta di terra di mezzo tra il mondo percettivo, più ampio, e il mondo linguistico, più ristretto. Il secondo punto che va sottolineato è il fatto che la comprensione di una scena di attenzione congiunta da parte del bambino include come parte integrante il bambino stesso e il suo ruolo nell’interazione considerati dallo stesso punto di

91

possono avere valore richiestivo (come tentativo di far sì che gli

adulti facciano qualcosa in relazione ad un oggetto o ad un evento)

e/o dichiarativo (attirare l’attenzione di qualcuno su qualcosa)70.

Nell’evoluzione del gesto dell’indicare Vygotskij aveva visto una parte

importante dello sviluppo del linguaggio e più in generale di tutte le

funzioni psichiche superiori; esso fornisce inoltre un’importante

esemplificazione della dinamica di ricostruzione interna di

un’operazione esterna e di apprendimento attraverso un’altra

persona; per questo vale la pena di vederlo nel dettaglio.

All’inizio questo gesto non è niente di più che un tentativo non riuscito di

afferrare qualcosa, un movimento indirizzato ad un certo oggetto che

designa un’attività prossima. Il bambino cerca di afferrare un oggetto al

di sopra della sua portata: le sue mani, tese verso quell’oggetto, restano

sospese nell’aria. Le sue dita fanno movimenti per afferrare. In questo

stadio iniziale l’indicare è rappresentato dai movimenti del bambino, che

sembrano indicare un oggetto (questo e nient’altro).

Quando la madre viene in aiuto al bambino e realizza che i suoi

movimenti indicano qualcosa, la situazione cambia radicalmente.

L’indicare diventa un gesto per le altre persone. Il tentativo non riuscito

del bambino genera una reazione non da parte dell’oggetto che egli

vuole afferrare, ma da parte di un’altra persona. Di conseguenza, il

significato originario di quel movimento per afferrare non riuscito è

stabilito da altri. vista “esterno” dal quale sono considerati l’altra persona e l’oggetto, in modo che vi sia un unico format rappresentazionale – cosa che è di cruciale importanza per il processo di acquisizione dei simboli linguistici […].

Il punto è che le scene di attenzione congiunta sono definite intenzionalmente; esse, cioè, traggono la loro identità e la loro coerenza dal fatto che il bambino e l’adulto comprendono “ciò che stiamo facendo” nei termini delle attività dirette a un obiettivo nelle quali siamo impegnati» (Tomasello, 1999, pp. 122-123). 70«I gesti dichiarativi sono particolarmente importanti perché indicano chiaramente che il bambino non vuole semplicemente che accada qualcosa, ma desidera condividere l’attenzione con un adulto. Perciò la tesi di alcuni studiosi, me compreso, è che il semplice atto di indicare un oggetto a qualcun altro al solo scopo di condividere l’attenzione verso di esso sia un comportamento comunicativo specificamente umano [Gòmez, Serriá e Tamarit 1993], l’assenza del quale è anche un importante criterio diagnostico della sindrome dell’autismo infantile (Baron-Cohen 1993)» (Ibidem, p. 84).

92

Soltanto più tardi, quando il bambino riesce ad abbinare il suo

movimento per afferrare, non riuscito, alla situazione obiettiva nel suo

intero, egli comincia ad intendere questo movimento come indicare. In

questo frangente avviene un cambiamento nella funzione di quel

movimento: da movimento orientato verso un oggetto diventa

movimento diretto ad un’altra persona, un mezzo per stabilire dei

rapporti. Il movimento dell’afferrare si trasforma nell’atto dell’indicare.

Come risultato di questa trasformazione, il movimento stesso è quindi

semplificato fisicamente, e il risultato è la forma di indicare che

potremmo chiamare vero gesto. Diventa un vero gesto solo dopo che

manifesta obiettivamente tutte le funzioni di indicare per altri ed è dagli

altri considerato come un gesto del genere. Il suo significato e le sue

funzioni sono create dapprima da una situazione obiettiva e in seguito

dalle persone che circondano il bambino. (Vygotskji, 1978, pp. 86-87)

Il gesto dell’indicare inizia con un movimento che viene prima

compreso dagli adulti (si tratta in questo caso di ritualizzazioni

diadiche, di procedure affinché vengano fatte certe cose), e

successivamente dal bambino stesso. Questo “gioco” di

assegnazione dell’intenzione ai gesti e ai vocalizzi del bambino

rientra nel più vasto principio di cooperazione fra adulto e bambino,

proposto da Paul Grice71. Da una parte, la madre agisce come se il

bambino fosse consapevole e intenzionale, dall’altra, il bambino si

aspetta la “comprensione” dei suoi messaggi.

E’ questa fitta trama di reciprocità con gli stati intenzionali del partner

che costituisce l’essenza della negoziazione socio-cognitiva a livello

umano, culturale – della “sintonizzazione”, per usare un termine di Stern.

Non esiste “allo stato selvatico”, nemmeno in primati estremamente

intelligenti e socialmente sensibili come scimpanzé e orangutan.

(Bruner, 1996, p. 197).

71 «Conforma il tuo contributo conversazionale a quanto è richiesto, nel momento in cui avviene, dall'intento comune accettato o dalla direzione dello scambio verbale in cui sei impegnato» (Grice, 1975, p. 55).

93

La capacità di indicare presuppone, secondo Tomasello, la

comprensione da parte del bambino dell’interlocutore come agente

intenzionale al pari del Sé72 (Tomasello, 2001). Si tratta di veri e

propri gesti comunicativi in quanto sono usati con questo tipo di

intenzione, sono convenzionali e si riferiscono a un oggetto o evento

esterno (Bates, 1979).

Un’altra mia tesi è che dovremmo considerare l’attenzione come un tipo

di percezione intenzionale (Tomasello, 1995). Gli individui scelgono

intenzionalmente di prestare attenzione a certe cose e non ad altre in

modi che sono collegati direttamente al perseguimento dei loro scopi

[…]. L’emergere pressoché simultaneo di numerosi e differenti

comportamenti di attenzione congiunta, tutti fondati, in qualche modo,

sulla comprensione delle altre persone come esseri che percepiscono,

72 Secondo Tomasello per comprendere gli altri come agenti intenzionali i bambini fanno ricorso all’esperienza che essi hanno di se stessi «e questa esperienza del Sé nelle prime fasi dello sviluppo va incontro a un cambiamento, in particolare per quel che riguarda l’auto-agentività. L’ipotesi è che quando questa nuova esperienza dell’auto-agentività emerge, emerga anche, come sua conseguenza diretta, una nuova comprensione degli altri. Questo approccio può essere considerato come una sorta di simulazione nella quale gli individui comprendono le altre persone, in un certo senso, in analogia con il Sé (dal momento che gli altri sono “come me”) in un modo che non è applicabile, almeno nello stesso senso, agli oggetti inanimati. […].

D’accordo con Meltzoff e Gopnik, ritengo che l’emergere della comprensione da parte dei bambini del fatto che altre persone sono “come me” sia il risultato di un adattamento biologico peculiare dell’uomo […]. Questa comprensione è un elemento chiave dell’emergere nei bambini, a nove mesi di età, della comprensione degli altri come agenti intenzionali. Più precisamente, essa diventa un elemento chiave quando fa la sua apparizione un secondo fattore, che spiega perché l’età di nove mesi sia tanto speciale. Questo fattore è la comprensione da parte del bambino delle proprie azioni intenzionali […] in particolare la mia ipotesi è che quando i bambini giungono a una nuova comprensione delle proprie azioni intenzionali essi usino il principio del “come me” per comprendere allo stesso modo il comportamento delle altre persone. E vi sono prove del fatto che quello tra gli otto e i nove mesi sia in effetti un momento critico per la comprensione da parte dei bambini delle proprie azioni intenzionali» (Tomasello, 1999, pp. 93-94).

Il tipo di comprensione delle azioni intenzionali da parte del bambino cui si riferisce Tomasello, non implica che i bambini siano in grado di concettualizzare i propri stati intenzionali prima di poterli usare per simulare il punto di vista degli altri. «Essi semplicemente percepiscono il modo generale di funzionare dell’altro attraverso un’analogia col Sé, e la loro capacità di individuare un particolare stato mentale in particolari circostanze dipende da molti fattori» (ibidem, p. 98).

94

agiscono e sono guidati da scopi […] suggerisce con forza che i

comportamenti di attenzione congiunta non siano solo moduli cognitivi

isolati o sequenze comportamentali apprese indipendentemente l’una

dall’altra. Essi sono il risultato dell’emergere della comprensione degli

altri come agenti intenzionali.

Forse nessun comportamento di attenzione congiunta, da solo, prova in

modo inequivocabile questa comprensione, ma il dato globale è

convincente – si pensi, in particolare, a quei comportamenti di

attenzione congiunta che richiedono che il bambino determini

precisamente a che cosa l’adulto sia interessato o che cosa stia

facendo, e che dunque rivelano una chiara comprensione dell’attenzione

dell’adulto. Ma ai bambini resta da scoprire ancora molto sulle altre

persone e sul loro comportamento. In particolare nell’acquisizione delle

loro abilità di comunicazione linguistica i bambini apprendono molte

cose su come seguire e orientare – con la massima precisione –

l’attenzione dell’adulto. E, naturalmente, i bambini di un anno non sanno

abbastanza del nesso tra percezione e azione per intervenire

efficacemente nel processo – producendo, per esempio, indizi percettivi

ingannevoli che inducano gli adulti ad acconsentire ai loro desideri

(un’abilità, questa, che richiede altri due o tre anni di pratica

nell’interazione sociale). Quelli che stiamo osservando qui sono i

primissimi passi del processo. (Tomasello, 1999, p. 91)

La comparsa dell’intenzionalità (come capacità di manifestare ad altri

le proprie intenzioni e come capacità di capire che gli altri sono

agenti intenzionali) rappresenta una tappa fondamentale per lo

sviluppo delle funzioni psichiche superiori. Essa rafforza

l’apprendimento per imitazione (da cui deriva una sempre maggiore

convenzionalizzazione dei gesti) e favorisce la dissociazione fra

mezzi e fini, ovvero una diversa comprensione del rapporto tra

azione e risultato (Piaget, 1937).

Alla fine del primo anno di vita si assiste alla comparsa di un nuovo

tipo di gesti definiti rappresentativi o referenziali. A differenza dei

gesti deittici, questi gesti non esprimono solo un’intenzione

95

comunicativa ma anche un referente specifico, che non varia a

seconda del contesto (aprire e chiudere la mano per dire “ciao”,

scuotere la testa per dire “no”...). Sono gesti che nascono all’interno

di format interattivi con le persone che si prendono cura del bambino,

e che vengono appresi per imitazione.

Nello stesso periodo compaiono le prime parole che, al pari dei gesti,

sono all’inizio molto legate a situazioni specifiche73. Gli studi sulla

relazione tra repertorio comunicativo gestuale e vocale hanno

evidenziato che i gesti referenziali sono un fenomeno caratteristico

del primo sviluppo linguistico: fino a un anno d’età la modalità

prevalente di comunicazione è attraverso i gesti referenziali, che

vengono utilizzati per esprimere significati per i quali i bambini non

posseggono ancora le parole; quando il linguaggio verbale si

consolida e il vocabolario raggiunge le cinquanta parole, l’uso dei

gesti referenziali inizia a diminuire fin quasi a scomparire.

73 «L’età di comparsa delle prime parole varia considerevolmente ma in generale si colloca tra gli 11 e 13 mesi di età. I bambini tendono inizialmente a parlare delle “stesse cose”: le prime parole stanno ad indicare persone (mamma, papà, nonni, fratelli/sorelle) e oggetti (giocattoli, cibo, vestiario) familiari, oppure azioni che il bambino compie abitualmente (dormire, salutare, leggere, nascondere, affermare, negare). […]. Tutte queste parole vengono usate in contesti specifici ritualizzati, sono cioè legate alle situazioni e agli eventi che servono a significare (“contestualizzate”). È utile differenziare questo uso non referenziale delle parole da un uso referenziale, che compare più tardi ed è legato alla capacità del bambino di comprendere il carattere arbitrario della relazione tra suono e significato (Camaioni, Volterra e Bates 1986). Ad esempio, la parola “ciao” all’inizio accompagna il gesto di abbassare la cornetta del telefono, mentre in seguito il bambino la utilizza ogni volta che qualcuno se ne va. Analogamente “mamma” funziona spesso come una richiesta generica e “papà” viene usato soltanto in situazioni specifiche (ad esempio, quando il padre ritorna a casa dal lavoro) o nel contesto di giochi particolari. In seguito queste parole vengono usate in modo referenziale, ovvero per nominare e chiamare la madre o il padre in una varietà di situazioni.

Questo fenomeno di progressiva decontestualizzazione lo si trova anche nella comprensione del linguaggio. Intorno agli 8-10 mesi il bambino comprende semplici frasi dell’adulto soltanto in contesti specifici (ad esempio risponde al proprio nome o ad ordini del tipo “no!”, “non si fa!”), e all’interno di routine (“batti le manine”, “fai ciao”) in cui esegue l’azione richiesta.

La comprensione precede e influenza la produzione linguistica, nel senso che il bambino comprende espressioni che soltanto in un secondo momento sarà capace di produrre spontaneamente» (Camaioni - Di Blasio, 2002, pp. 137-138).

96

Nei mesi successivi la produzione vocale aumenta considerevolmente,

cosicché a sedici mesi il numero di gesti e di parole prodotte è circa lo

stesso.

Dopo questa età l’uso di gesti referenziali decresce, mentre il numero di

parole continua a crescere, cosicché le due modalità comunicative dopo

uno sviluppo parallelo si differenziano, e la modalità vocale prevale su

quella gestuale. Ciò dipende anche dal fatto che l’ambiente offre al

bambino più modelli vocali che gestuali e apprezza i primi assai più che i

secondi. (Camaioni – Di Blasio, 2002, p. 137).

Lo sviluppo del linguaggio prende dunque avvio dalla comparsa

dell’intenzionalità e da una sempre maggiore articolazione della

comunicazione non verbale (accompagnati da un contemporaneo

sviluppo dell’apparato fonatorio).

Le prime scene di attenzione congiunta corrispondono ai primi

episodi di «sintonizzazione intenzionale dell’attenzione del novizio-

apprendista con movimenti degli altri» (Ingold, 2001, p. 151) in

contesti sociali interattivi. Nello sviluppo delle diverse abilità

l’ambiente fornisce quelle condizioni variabili per la crescita delle

strutture neurofisiologiche che sottendono le diverse capacità

(motorie, percettive, linguistiche…).

La comprensione umana dei conspecifici come esseri intenzionali si

sviluppa progressivamente nel corso dell’ontogenesi e porta il

bambino alla formulazione, all’età di quattro anni, della cosiddetta

teoria della mente (altrui)74 come capacità specie-specifica di

attribuire stati mentali alle altre persone. Questo fatto ha molti e

profondi effetti sul modo in cui i bambini interagiscono tra di loro e

con gli adulti75.

74 Per un’esaustiva rassegna dei più recenti contributi sullo studio dello sviluppo di teorie della mente cfr. Liverta Sempio, - Marchetti, 1995. 75 «Se nei primi mesi di vita il bambino si mette in relazione con l’adulto come un soggetto animato e se all’età di un anno lo considera come un soggetto intenzionale, soltanto verso i tre o quattro anni egli è in grado di trattarlo come soggetto mentale. Considerare l’altro come un soggetto mentale significa

97

Nel presente contesto, il più importante di questi effetti è quello di

permettere al bambino di accedere alle forme di eredità culturale

peculiari dell’uomo. Un bambino che comprenda che le altre persone

hanno relazioni intenzionali con il mondo, può trarre profitto dai modi in

cui gli altri individui cercano di conseguire i propri scopi. I bambini, a

questo punto dello sviluppo, sono in grado di cogliere la dimensione

intenzionale degli artefatti usati dalle persone come mediatori delle loro

strategie attentive e comportamentali nelle specifiche situazioni in cui

esse perseguono i loro scopi. (Tomasello, 1999, p. 101).

attribuirgli credenze, modelli interpretativi e punti di vista che possono essere diversi dai propri.

La teoria della mente (ToM) va intesa come la capacità di “leggere” la mente degli altri (mindreading), nonché d’interpretare, spiegare e prevedere le loro azioni, attribuendo a essi stati e processi mentali quali desideri, modelli interpretativi, credenze e intenzioni. La ToM è stata illustrata secondo diversi modelli. Fra gli altri, l’approccio modularista considera la mente come un insieme di moduli specializzati e indipendenti, di natura obbligatoria e impenetrabili alla coscienza, ritenendo il “sistema per leggere la mente” come innato e composto da diversi sottosistemi (Baron-Cohen, 1995).

Al contrario, il modello della teoria delle teorie prevede che lo sviluppo della ToM avvenga secondo i principi generali sottesi alla costruzione di una qualsiasi teoria scientifica, attraverso l’elaborazione di previsioni, supposizioni, modelli interpretativi, ecc. (Gopnik e Meltzoff, 1997). A sua volta, secondo il modello della simulazione la ToM si sviluppa grazie alla capacità di assumere il punto di vista degli altri: la propria esperienza, a guisa di un simulatore, diventa il modello per infierire informazioni sugli stati interni altrui.

Quest’ultimo modello merita di essere approfondito. La comprensione degli stati mentali altrui si sviluppa nel bambino insieme alla capacità di assumere il loro punto di vista a livello cognitivo. La conoscenza psicologica e sociale è molto diversa dalla conoscenza fisica; vanno quindi previsti meccanismi esplicativi differenti. […].

Una conferma neurofisiologica importante a questo modello deriva dalla scoperta e dallo studio dei neuroni specchio, che si trovano nella porzione rostrale della corteccia premotoria ventrale e che si attivano sia durante l’esecuzione di azioni nella manipolazione di oggetti, sia durante la semplice osservazione di azioni analoghe eseguite da parte di un altro (Rizzolatti, 2005; Rizzolatti, Fogassi e Gallese, 2001). In questo caso tali neuroni si eccitano come se fosse l’organismo stesso a eseguire i movimenti. In altri termini, l’osservazione di un’azione implica la simulazione della medesima. Pertanto la comprensione degli stati mentali degli altri si fonda sulla possibilità di stabilire un’equivalenza motoria fra ciò che fanno gli altri e ciò che fa l’osservatore e sul principio conseguente della somiglianza degli altri a sé. Questa forma di empatia vale anche per le emozioni e le sensazioni […]. Per tale ragione, sulla base di quest’architettura nervosa, è corretto parlare di un sistema multiplo di condivisione dell’intersoggettività e dei processi culturali che ci consente di riconoscere gli altri come simili a noi» (Anolli, 2006a, pp. 74-75).

98

1.2.2 La mediazione attraverso artefatti

L’importante intuizione che i teorici storico-culturali condividono è che

la vita umana prende forma e si sviluppa pienamente in un ambiente

unico, che include l’insieme degli artefatti (ideali/materiali)76

accumulati dal gruppo sociale nel corso del suo sviluppo storico. La

caratteristica della nostra specie riguarda la capacità di svilupparsi

all’interno di tale ambiente e di provvedere alla sua riproduzione di

generazione in generazione.

La presenza di stimoli creati accanto a quelli dati è, a nostro parere, la

caratteristica distintiva della psicologia dell’uomo.

Noi chiamiamo “segni” questi “stimoli-mezzi” artificiali introdotti dall’uomo

nella situazione e svolgenti una funzione di autostimolazione. A questo

termine diamo un senso più ampio e al tempo stesso più preciso di

quello che ha nell’uso abituale. In base a questa nostra definizione,

dunque, ogni stimolo condizionato creato dall’uomo e assunto come

mezzo per dirigere il proprio o l’altrui comportamento è un segno.

(Vygotskij, 1930-31, p. 123).

76 «Un artefatto è un aspetto del mondo materiale che è stato modificato durante la storia della sua incorporazione nell’azione umana rivolta ad un obiettivo. In virtù dei cambiamenti prodotti nel processo della creazione ed uso, gli artefatti sono simultaneamente ideali (concettuali) e materiali. Sono ideali in quanto la loro forma materiale è stata modellata dalla loro partecipazione alle interazioni di cui hanno prima costituito una parte che ora invece mediano.

Così definite le proprietà degli artefatti si applicano con egual forza sia che si consideri il linguaggio, sia forme più usuali di artefatti, come tavoli e coltelli, che sono parte della cultura materiale. Ciò che differenzia la parola “tavolo” da un tavolo reale è l’importanza relativa degli aspetti materiali e ideali e dei tipi di coordinazione che permettono. Nessuna parola esiste indipendentemente dalla sua istanza materiale (come, ad esempio, una configurazione di onde sonore, i movimenti delle mani, la scrittura o l’attività neuronale), mentre ogni tavolo personifica un ordine imposto degli esseri umani pensanti […].

Si noti che, in questo modo di pensare, la mediazione degli artefatti si applica egualmente agli oggetti e alle persone. Ciò che differisce nei due casi sono il modo in cui idealità e materialità sono fusi fra i membri di queste due categorie dell’essere e i tipi di interattività di cui sono capaci.

Questa concezione afferma anche l’unità primordiale del materiale e del simbolico nei processi cognitivi umani» (Cole, 1996, pp. 109-110).

99

La creazione e l’uso di segni (o, se si preferisce, di artefatti) impone

all’uomo la significazione come nuovo principio regolativo del

comportamento, che si affianca e specializza il più primitivo sistema

di segnalazione (caratteristico del mondo animale) da cui deriva.

L’esperienza dell’uomo è mediata dagli artefatti, che si pongono tra il

soggetto che conosce e l’oggetto della sua conoscenza, creando un

nuovo tipo di adattamento.

Gli artefatti non esistono in modo isolato, ma sono connessi tra loro e

con la vita sociale in modo più o meno organico.

Cole (1996), riprendendo una proposta fatta da Marx Wartofsky

(1973) che descriveva gli artefatti (includendo strumenti e linguaggio)

come delle «oggettivazioni delle esigenze e delle interazioni umane

già investite di contenuto cognitivo ed emotivo», sviluppa la nozione

di artefatto distinguendone tre categorie (Wartofsky, cit. in, Cole,

1996, p. 113).

Gli artefatti primari sono quelli impiegati direttamente per l’attività

umana. «Gli artefatti primari sono strettamente connessi al concetto

di artefatto come materia trasformata dall’attività umana

antecedente, sebbene io non faccia una distinzione, fra produzione

di beni materiali e produzione di vita sociale in generale». (Ibidem).

Gli artefatti primari consistono dunque in strumenti e dispositivi che i

soggetti di una data comunità usano abitualmente per interagire tra

loro e con l’ambiente (dal martello ai nuovi mezzi di comunicazione)

e costituiscono la “cultura materiale”.

Gli artefatti secondari sono delle rappresentazioni degli artefatti

primari e dei modi di azione ad essi associati: consistono in modelli

mentali e simbolici, intesi sia come schemi cognitivi impiegati per

rappresentare gli oggetti sia come aspetti più astratti (norme,

credenze tradizionali, le costituzioni…) presenti nell’interazione

sociale.

100

Un tipo importante di questi artefatti sono i modelli culturali, che

“riproducono non solo il mondo degli oggetti fisici, ma anche mondi più

astratti come l’interazione sociale, il discorso e anche il significato delle

parole” (D’Andrade, 1984). (Cole, 1995, p. 191).

Gli artefatti secondari giocano un ruolo centrale nel preservare e

trasmettere forme di azione e credenze culturali; essi costituiscono la

cosiddetta “cultura ideale”.

Gli artefatti terziari è una classe di artefatti

che può arrivare a costruire “un mondo” relativamente autonomo, in cui

le regole, le convenzioni e gli esiti non sembrano più direttamente pratici

o sembrano persino costituire una sfera di attività non pratica, o di gioco

“libero”. (Cole, 1996, p. 113).

Rientrano in questo ambito i diversi fenomeni e processi artistici nelle

loro diverse espressioni creative; qui siamo in presenza della “cultura

espressiva”.

Gli artefatti occupano una posizione di mediazione tra l’uomo e

l’ambiente, poiché essi non solo sono dati, ma l’ambiente culturale

ne organizza l’uso in attività specifiche (da cacciare a cucinare a

lavorare il legno a pianificare il futuro…). La mediazione è un

processo attivo che contribuisce in modo rilevante a organizzare,

gestire e controllare le attività e le interazioni fra le persone. Gli

artefatti giocano un ruolo essenziale nel dare forma all’azione, ma

non la determinano in modo automatico: essi esercitano la loro

efficacia solo quando le persone li usano in modo appropriato. Vanno

intesi come convenzioni e costituiscono pratiche sociali che si

trovano, nello stesso tempo, sia all’interno della mente sia all’esterno

nel contesto pubblico.

101

Grazie agli artefatti il rapporto tra soggetto e ambiente è reso culturale.

La presenza di un’azione mediata, tuttavia, non significa che il percorso

di mediazione sostituisca quello naturale […].

Come esito di questa condizione si crea un’interdipendenza costante tra

le possibilità di una data azione, l’impiego appropriato degli strumenti

attualmente a disposizione, il loro continuo miglioramento e l’invenzione

di nuovi strumenti che vengono ad aumentare le potenzialità dell’azione

medesima. Su tale interdipendenza si fonda il progresso della

tecnologia, che costituisce un fattore non secondario di evoluzione delle

singole culture, a qualunque livello si collochino.

L’inserimento di nuovi strumenti culturali nell’attività di mediazione

inevitabilmente la trasforma .[…]. La mediazione svolta dalla cultura è

universale e trasversale in quanto investe tutti gli ambiti dell’esistenza

umana, da quelli alimentari a quelli medici e biologici, a quelli religiosi e

politici, sociali, ludici e artistici […].

La cultura appare dunque come una lente incorporata in noi che distorce

la percezione e la valutazione di qualsiasi evento. Si tratta di una lente di

cui non ci rendiamo conto fino a quando non incontriamo culture di altre

comunità che fanno riferimento ad artefatti diversi. Tali differenze fanno

emergere (a volte in modo repentino) la coscienza della propria

appartenenza culturale, il senso della propria identità culturale, nonché

la distanza da altre culture (Anolli, 2006a, pp. 18-19).

In generale con il termine «esperienza di apprendimento mediata» si

indica il modo in cui gli stimoli ambientali sono trasformati da un

«agente mediatore» sulla base di intenzioni, orientamenti culturali,

investimenti affettivi attraverso procedure di selezione e

organizzazione che fanno leva su frame, funzioni di filtraggio e di

modulazione. Se le esperienze di esposizione diretta agli stimoli

sollecitano l’attivazione di determinati processi cognitivi, l’esperienza

di apprendimento mediato dai diversi artefatti in uso presso la cultura

cui si appartiene, rappresenta il fondamento su cui si costruiscono le

“strutture” cognitive individuali e, pertanto, riveste un ruolo essenziale

nella loro emergenza e sviluppo.

102

Infatti l’incorporazione di artefatti nell’uso permette e allo stesso tempo

impone una riorganizzazione percettiva e motoria nell’interazione con

l’ambiente, come anche una ripianificazione delle azioni e delle relazioni

sociali. Da sempre, in realtà, gli artefatti rientrano nell’attività cognitiva e

trasformativa umana e si trovano sempre incorporati in sistemi socio-

culturali di ampio respiro che organizzano le pratiche in cui vengono

utilizzati (Hutchins 1993). (Grasseni – Ronzon, 2004, p. 156).

Questa nuova relazione strutturale dell’individuo con l’ambiente è

stata tradizionalmente rappresentata dai teorici dell’approccio

storico-culturale con un triangolo, come nella Fig.1.

Figura 1: triangolo della mediazione in cui soggetto (S) e oggetto (O) sono visti non

solo “direttamente” connessi, ma anche, al tempo stesso, “indirettamente” connessi

attraverso il medium costituito dagli artefatti (X).

Le funzioni «naturali» («non mediate»; «rudimentali») sono quelle

lungo la base del triangolo che corrispondono alla classica situazione

“stimolo-risposta” (S-X)77; le funzioni «superiori», «culturali»

77 «Bisogna sottolineare che ciò che si considera “diretto” non può essere adeguatamente concepito come “naturale”. Piuttosto la via “diretta”, come quella mediata, dipende da un ambiente modificato da (antecedenti) azioni umane che hanno avuto successo ed è fino a questo livello intrisa da interazioni umane. Di

103

(«mediate») sono quelle in cui i rapporti tra soggetto e ambiente (tra

soggetto e oggetto, stimolo e risposta…) sono mediati da una

qualche forma di artefatto (S-X-R), cui Vygotskij e colleghi si sono

riferiti con il termine «strumenti-stimolo»; «mezzi ausiliari»; «segnali

artificiali» o, più semplicemente «strumenti»78.

Un esempio tipico riportato da Vygotskij per esemplificare la

relazione tra operazioni mediate e naturali, è il nodo al fazzoletto per

ricordare.

Se si riflette sul fatto che, praticando un nodo per ricordare, in sostanza

l’uomo costruisce un processo della memoria all’esterno, costringe un

oggetto esterno a ricordargli un incarico da compiere, o meglio

esteriorizza un suo processo interiore trasformandolo in un’attività

esteriore, se si pensa dunque a ciò che di fatto si verifica in tutti questi

casi, già questo fatto stesso ci potrà dare un’idea del carattere affatto

particolare delle forme superiori del comportamento. In un caso ci

troviamo di fronte a qualcosa che viene ricordato, nell’altro a un uomo

che ricorda qualcosa. In un caso il legame temporaneo s’instaura grazie

alla coincidenza di due stimoli che agiscono contemporaneamente

sull’organismo; nell’altro l’uomo crea egli stesso un nuovo legame

temporaneo nel cervello mediante il collegamento artificiale di due

stimoli. (Vygotskij, 1930-31, pp. 132-133). conseguenza, ciò a cui i primi teorici storico-culturali si sono riferiti con il nome di processi “diretti, naturali” deve essere messo tra virgolette, per ricordarci che il mondo fisico è il mondo-come-condizionato dalla cultura e non in maniera totale, “dato naturalmente” (Sahlins, 1976)» (Cole, 1995, cit., p. 100). 78 L’invenzione e l’uso di segni come mezzi ausiliari per risolvere determinati compiti psicologici presenta un’analogia con l’uso degli strumenti materiali che l’uomo, nel corso dello sviluppo storico, ha inventato e utilizzato per il suo adattamento all’ambiente. Pertanto Vygotskij (1930-31, 1978) parla di una funzione strumentale del segno. Sia lo strumento che il segno hanno in comune la funzione di mediazione e possono essere ricondotti ad un’unica categoria. Una differenza tra segno e strumento, su un piano puramente logico, riguarda il fatto che lo strumento orienta il comportamento verso l’esterno (portando trasformazioni negli oggetti cui è rivolto), mentre il segno è un mezzo di attività orientato internamente che mira a padroneggiare il comportamento. «Vorrei soltanto dire che nessuno dei due, in qualsiasi circostanza può essere considerato isomorfo rispetto alle funzioni che compie, e che essi non possono neppure spiegare in modo del tutto esauriente il concetto di attività mediata. Si potrebbero nominare moltissime altre attività mediate; l’attività cognitiva non si limita all’uso di strumenti o di segni» (Vygotskij, 1978, cit., pp. 84-85).

104

La comparsa e l’uso di strumenti non sostituisce la forma “naturale”

di comportamento; piuttosto l’incorporazione di strumenti nell’attività

crea una nuova relazione strutturale in cui le vie culturali (mediate) e

naturali (non mediate) operano sinergicamente.

Nella storia dello sviluppo culturale del bambino incontriamo il concetto

di struttura due volte: innanzitutto nel momento iniziale come punto di

partenza del processo stesso; in secondo luogo quando bisogna

interpretare il processo dello sviluppo culturale come la trasformazione

di questa prima struttura iniziale e la nascita di nuove strutture sulla sua

base, caratterizzata da una nuova correlazione tra le parti. Chiamiamo

primitive le prime strutture; si tratta di una totalità psicologica naturale

determinata soprattutto dalle caratteristiche biologiche dello psichismo.

Chiameremo le seconde, che sorgono nel processo dello sviluppo

culturale, strutture superiori, in quanto rappresentano delle forme di

comportamento geneticamente più complesse e più alte. […].

Nella struttura superiore il fine funzionale determinante, o fuoco, di tutto

il processo, è il segno e il modo in cui lo si impiega. Così come l’impiego

di un determinato strumento determina tutta la struttura di un’attività

lavorativa, allo stesso modo il carattere del segno impiegato è quel

momento fondamentale da cui dipende la costruzione di tutto il

rimanente processo. Cosicché il rapporto fondamentale che sta alla

base della struttura superiore è una particolare forma di organizzazione

di tutto il processo, consistente nel fatto che l’intero processo si

costruisce mediante l’introduzione nella situazione di stimoli artificiali noti

che svolgono la funzione di segni 79.

79 Vygotskij, 1930-31, pp. 166-168. Scrive a proposito Damasio: «l’essere umano [è] un organismo che viene dato alla vita dotato di meccanismi autonomi di sopravvivenza, al quale l’educazione e l’acculturazione apportano un insieme di strategie di decisione socialmente ammissibili e desiderabili, che a loro volta rafforzano la sopravvivenza, ne migliorano la qualità e servono da base per la costruzione di una persona. Alla nascita, il cervello umano comincia a svilupparsi dotato di pulsioni e istinti che comprendono non solo un corredo fisiologico per la regolazione del metabolismo, ma anche dispositivi di base per rafforzare comportamento e cognizione sociale. Dallo sviluppo dell’età infantile esso emerge dotato di ulteriori livelli di strategie di sopravvivenza: la base neurofisiologica di tali strategie aggiunte è intrecciata con quella del repertorio degli istinti, e non solo ne

105

Struttura primaria (come processo di crescita e maturazione

organica) e secondaria (lo sviluppo culturale) non si avvicendano

nell’ontogenesi, ma sono contemporanei: la distinzione è, di fatto,

un’astrazione, un modo per descrivere un processo molto

complesso. Le due serie di cambiamento confluiscono l’una nell’altra

e costituiscono quell’unico processo che è la formazione della

personalità biologico-sociale del bambino80.

Accanto ad una specie di “dispositivo innato” per l’apprendimento si

pone altresì un “sistema di supporto”; tale sistema è fornito dal

mondo sociale ed è in qualche modo, ma regolarmente, in armonia

con il sistema di apprendimento del bambino.

È tale sistema di supporto all’apprendimento che aiuta il bambino ad

attraversare le zone di sviluppo prossimale fino a conseguire il

controllo completo e consapevole dell’uso degli strumenti e, di modifica l’uso, ma ne estende anche la portata. Nel loro disegno formale d’assieme, i meccanismi neurali su cui poggia il repertorio sopraistintivo possono essere simili a quelli che governano le pulsioni biologiche, e da queste possono essere vincolati. Tuttavia essi richiedono l’intervento della società, per diventare ciò che verranno, e perciò hanno riferimento sia in una data cultura sia nella neurobiologia generale. Inoltre, fuori da questa doppia costrizione, le strategie di sopravvivenza di quel repertorio generano qualcosa che probabilmente è proprio solo degli esseri umani: un punto di vista morale, che all’occasione, può trascendere gli interessi del gruppo ristretto, e anche quelli della specie» (Damasio, 1994, pp. 185-186). 80 Per spiegare questo meccanismo Vygotskij riprende da Jennings il concetto di sistema di attività. L’uomo, come ogni altra specie, dispone di forme e modi di comportamento (attività) che costituiscono un sistema condizionato dagli organi e dalla loro stessa organizzazione sistemica.

Scrive Vygotskij: «l’ameba, per esempio, non può nuotare come l’infusore e l’infusore non possiede un organo per spostarsi volando. Partendo da questo concetto, estremamente importante in campo biologico, gli studiosi della psicologia del bambino sono giunti ad individuare un momento decisivo, di frattura, nello sviluppo del neonato. L’individuo umano non fa eccezione alla legge generale di Jennings. Anch’esso possiede un sistema di attività, che pone entro certi limiti il suo sistema di comportamento. In questo sistema non rientra, per esempio, la possibilità di volare. L’uomo però supera tutti gli animali per la possibilità illimitata che ha di ampliare, mediante strumenti, il raggio della sua attività. Il suo cervello e la sua mano hanno reso illimitatamente ampio il sistema delle sue attività e cioè il campo delle forme di comportamento accessibili. Perciò il momento decisivo nello sviluppo del bambino, che definisce il campo delle forme di comportamento a lui accessibili, è costituito dal primo passo verso un’interdipendente utilizzazione e invenzione degli strumenti, che, nel bambino, avviene al termine del primo anno di vita» (Vygotskij, 1930-31, pp. 70-71).

106

conseguenza, del proprio comportamento. Esso opera

intenzionalmente scelte orientative per innescare processi di

apprendimento e per costruire le coordinate all’interno delle quali

inscrivere gli apprendimenti futuri mediante una selezione degli input

ambientali adeguati, una loro organizzazione sequenziale, la

ricognizione di stimoli specifici, la ripetizione e la variazione delle

sollecitazioni.

E’ attraverso gli altri che i bambini vengono a contatto con cornici

concettuali, categorie interpretative e coordinate cognitive che,

progressivamente, acquisiscono ed interiorizzano come proprie, per

poterle utilizzare successivamente in modo autonomo

nell’organizzazione e selezione degli stimoli ambientali. In questo

senso, il mondo sociale ha un importantissimo ruolo formativo,

perché fornisce al bambino strumentalità cognitive e trame di

significati in cui inscrivere ed organizzare esperienze e conoscenze.

L’importante implicazione finale del principio della mediazione

culturale è che gli esseri umani, compresi quelli delle generazioni

precedenti, giocano un ruolo cruciale nella formazione delle capacità

cognitive del bambino: poiché egli nasce in una condizione di

inettitudine, in un ambiente umano socialmente organizzato e

culturalmente mediato, il suo pensiero deriva dalla propria natura

sociale (Cole, 1995).

Questo rilievo è assunto nella legge generale dello sviluppo che, lo

ricordiamo, sostiene che ogni funzione psichica superiore appare

prima sul piano sociale del funzionamento interpsicologico, cioè nello

scambio di significati tra individui, e solo in un secondo tempo su

quello mentale del funzionamento intrapsicologico.

Uno dei percorsi principali dello sviluppo culturale è l’imitazione degli

adulti, che consente al bambino di entrare nello «spazio

intenzionale», nella dimensione «ideale» degli artefatti81. A partire

81 Esiste una notevole differenza tra l’imitazione caratteristica dei primati e quella degli esseri umani. Riprendendo gli studi condotti da Köhler sull’imitazione degli scimpanzé Vygotskij sostiene che “l’imitazione” è possibile soltanto nella misura in

107

dal primo anno di vita, il bambino si impegna con assiduità crescente

nella riproduzione dell’uso intenzionale degli artefatti passando da un

rapporto prevalentemente “sensomotorio-manipolativo” dominato

dalla percezione, ad un rapporto basato principalmente sulla

prospettiva e sulla ricognizione degli aspetti intenzionali degli

artefatti, sul loro significato82.

In questo processo di apprendimento imitativo, è come se il bambino si

unisse all’altra persona nel dichiarare “per” quale scopo “noi” usiamo

questo oggetto: usiamo i martelli per dare martellate e le penne per

scrivere. In tal modo, il bambino giunge a vedere in alcuni artefatti e

oggetti culturali, oltre alle loro proprietà sensomotorie, anche quelle che

potremmo chiamare proprietà intenzionali, che sono basate sulla

comprensione delle relazioni intenzionali che le altre persone hanno con

cui si accompagna alla comprensione; dallo studio dell’imitazione è inoltre possibile stabilire il livello delle azioni accessibili all’intelletto dell’animale da un lato e del bambino dall’altro. «Ricercando i limiti dell’imitazione possibile a un determinato animale, indaghiamo anche i limiti del suo intelletto. L’imitazione è perciò un metodo d’indagine estremamente attendibile soprattutto in campo genetico. Se vogliamo sapere quanto un determinato intelletto è maturo per una data funzione, possiamo studiarlo attraverso l’imitazione». (Vygotskij, 1930-31, p. 184). Nel caso di primati sarebbe più corretto parlare di emulazione piuttosto che di imitazione, in quanto il comportamento riproduttivo non implica la comprensione delle intenzioni di colui che si sta “imitando” (Tomasello,1999). 82 Un aspetto particolare della percezione umana (che compare molto presto) è, secondo Vygotskij, la percezione degli oggetti reali ovvero la percezione non solo di colori e forme degli oggetti, ma del loro significato. Essa è caratteristica dell’uomo e non avrebbe nessuna analogia nel mondo animale.

«Gli esseri umani non vedono soltanto qualcosa di rotondo e nero con due lancette, vedono un orologio e possono distinguere una lancetta dall’altra. Quindi la struttura della percezione umana si potrebbe esprimere figurativamente con un rapporto in cui l’oggetto è il numeratore e il significato è il denominatore (oggetto/significato). Questo rapporto simbolizza l’idea che tutta la percezione umana è composta di percezioni generalizzate piuttosto che isolate. Per il bambino l’oggetto domina nel rapporto oggetto/significato e il significato è subordinato» (Vygotskij, 1978, pp. 143-144).

Nel corso dello sviluppo il rapporto tra l’oggetto e il suo significato è destinato a rovesciarsi (questo processo è favorito, come vedremo, dall’uso del linguaggio) e il significato è destinato a dominare la relazione oggetto/significato. Sinteticamente potremmo schematizzare lo sviluppo della percezione come segue: percezione-manipolazione dell’oggetto; oggetto/significato come scoperta della relazione duale della rappresentazione e del significato intenzionale degli artefatti; significato/oggetto come dominio del significato sulla percezione e uso consapevole dei simboli.

108

quell’oggetto o artefatto – cioè le relazioni intenzionali che le altre

persone hanno con il mondo attraverso l’artefatto. (Tomasello, 1999, p.

108).

Ciò è particolarmente evidente nei primi giochi di finzione durante i

quali i bambini estraggono le proprietà intenzionali di vari oggetti (i

loro «significati» nella terminologia utilizzata da Vygotskij) e le usano

per giocare, andando oltre le proprietà percettive degli oggetti

stessi83.

Ci sembra interessante segnalare che, contrariamente a quanto

sostenuto da Piaget (1945), lo stesso atteggiamento ludico non è

innato, ma deriva dalle prime interazioni ludiche tra adulto e bambino

durante i primi mesi di vita (Spiz, 1958; Winnicott, 1971; Schaffer,

83«Nel gioco le cose perdono la loro forza determinante. Il bambino vede una cosa ma agisce in modo diverso in relazione a quel che vede. Quindi è raggiunta una condizione in cui il bambino comincia ad agire indipendentemente da quello che vede. Certi pazienti con il cervello leso perdono la capacità di agire indipendentemente da ciò che vedono. Nel considerare tali pazienti ci si può rendere conto che la libertà di azione di cui godono gli adulti e i bambini più maturi non è acquisita in un baleno ma deve passare attraverso un lungo processo di sviluppo.

L’azione in una situazione immaginaria insegna al bambino a guidare il suo comportamento non solo secondo la percezione immediata degli oggetti e la situazione che lo colpisce immediatamente ma anche secondo il significato della situazione. […].

Nel gioco il pensiero è separato dagli oggetti e l’azione nasce dalle idee più che dalle cose: un pezzo di legno inizia ad essere una bambola e un bastone diventa un cavallo. L’azione che segue delle regole comincia ad essere determinata dalle idee e non dagli oggetti stessi» (Vygotskij, 1978, pp. 142-143).

Lo stesso Piaget a proposito del gioco infantile e in particolare del gioco del fare finta, sostiene che esso marchi in maniera cruciale una tappa dello sviluppo in quanto il piccolo, usando gli oggetti simbolicamente, dimostra di essere in grado di distinguere tra la cosa immediatamente percepita e la rappresentazione della cosa, la quale è semplicemente evocata. «In quanto implicante la rappresentazione, il gioco simbolico non esiste presso l’animale e non appare che nel secondo anno dello sviluppo infantile. […] Il simbolismo inizia, di fatto, con le condotte individuali che rendono possibile l’interiorizzazione dell’imitazione (sia delle cose che delle persone)» (Piaget, 1945, pp. 164-165).

L’emergere del gioco di finzione e del gioco simbolico, meriterebbe indubbiamente una trattazione a parte, data l’importanza che esso riveste nel sostenere l’emergere del pensiero simbolico del bambino. Per una trattazione esaustiva sull’argomento e la ricchezza dei contributi bibliografici cfr. Bondioli 1989, 1996.

109

1977; Bondioli, 1987; Sutton-Smith 1979; Tomasello, Striano, Rochat

1999).

Gli studi relativi alle interazioni ludiche adulto-bambino mostrano che

gli interscambi giocosi tra madre e bambino sono canali di

trasmissione dell’atteggiamento ludico, ovvero di un orientamento

non letterale, simulativo nei confronti del mondo.

Ciò che il bambino comprende in queste interazioni – il “senso” o la

lezione che ne ricava – è che, tra i molti modi in cui le cose possono

essere fatte e le azioni compiute, ve ne è uno secondo il quale esse

vengono fatte per il piacere di farle o per il reciproco piacere di farle

(Bondioli, 1996, p. 105).

La scena di attenzione congiunta creata dall’interazione ludica viene

inscritta all’interno di una cornice particolare che, seguendo Gregory

Bateson, marca le azioni in senso ludico: «le azioni che in questo

momento stiamo compiendo non denotano ciò che denoterebbero le

azioni per cui esse stanno»84.

84 Bateson, 1972, p. 219. Per Bateson il gioco è soprattutto una questione di comunicazione che riguarda non tanto il contenuto dei messaggi, ma come essi vengono interpretati. L’interpretazione comporta che azioni, gesti e parole siano incorniciate: la cornice in cui esse sono collocate ne permette l’assegnazione del significato. Il gioco è un esempio di distinzione di tipi logici – mappa/territorio – distinzione che consente di contestualizzare gesti e parole. «Gioco non è il nome di un atto o di un’azione; è il nome di una cornice per l’azione» (Bateson, 1979, p. 187). Quando si gioca si compiono gesti e azioni reali ma per comprendere il loro significato occorre fare un salto logico, scoprire e comprendere la cornice che li rende comprensibili. L’inquadramento è collegato a «premesse», cioè a regole di interpretazione di ciò che è dentro la cornice. Ogni inquadramento è perciò metacomunicativo.

La “definalizzazione” del gioco, che rimanda ad attività finalizzate ma ne modifica il senso, non comporta, secondo Bateson, che esso non sia possibile di apprendimento ma solo che il tipo di apprendimento che esso inaugura è di ordine diverso da quello messo in atto quando ad esempio si impara ad andare in bicicletta o a preparare un pasto. In Verso un’ecologia della mente Bateson lo indica come apprendimento 2, in Mente e natura come deutero-apprendimento: «io sostengo che esiste un apprendimento del contesto, un apprendimento che è diverso da ciò che vedono gli sperimentatori, e che questo apprendimento del contesto scaturisce da una specie di descrizione doppia che si accompagna alla relazione e all’interazione (Ibidem, p. 181). Ciò che viene appreso è la possibilità stessa di istituire mappe e territori; giocare non significa comportarsi secondo ruoli e regole, ma istituirli, e l’atto stesso di farlo comporta apprendimento circa il fatto che l’esperienza si organizza in termini di tipi e categorie di comportamenti.

110

L’adulto, nell’interagire ludicamente con il bambino inizialmente

“gioca” per il bambino, più che con il bambino (allo stesso modo in

cui inizialmente parla per piuttosto che con il bambino all’interno dei

primi format interattivi), istituendo la cornice ludica e dirigendo

l’avvenimento; progressivamente il bambino imparerà a giocare i

diversi ruoli che caratterizzano la situazione ludica diventando

sempre più attivo e prendendo sempre più l’iniziativa85. In questa

prospettiva il gioco solitario del bambino piccolo con gli oggetti non è

la prima forma di gioco ma una riproduzione, un’imitazione differita,

con le cose, dei giochi che l’adulto ha fatto con lui86.

Giocando si apprende ad apprendere: è questo il significato di deutero-apprendimento.

La congiunzione del modello di Vygotskij con quello di Bateson può risultare proficuo nella misura in cui anche Bateson sottolinea il carattere intrinsecamente relazionale dell’apprendimento, che comporta un’interpretare l’esperienza secondo quadri appresi in contesti di comunicazione e interazione. Imparare a giocare, così come imparare il significato degli «strumenti» significa apprendere che del mondo possono darsi diverse interpretazioni. 85 «Riassumendo possiamo dire che le funzioni svolte dall’adulto come “iniziatore” ludico sono le seguenti:

- l’adulto inizialmente crea la cornice ludica e esegue un gioco (iniziatore ludico); - l’adulto rinforza i comportamenti del bambino trasformando atti senza significato in atti aventi un significato ludico; - il comportamento dell’adulto è contingente rispetto a quello del piccolo; l’adulto assume i ruoli ludici non svolti dal bambino ed è pronto a modificarli in funzione della progressiva capacità del bambino di assumerli e di attivare nuove forme di gioco; - l’adulto accetta di non essere l’unico “compagno” di giochi del bambino e si fa “tramite” della relazione del bambino con altri bambini.

Come conseguenza il piccolo diventa sempre più attivo nel gioco condiviso:

a) inizialmente si mostra attento e divertito quando la madre gioca con lui; b) tra i 7 e i 10 mesi mostra di comprendere la struttura di semplici giochi

(“cucù”, “dare e prendere”, “costruire e distruggere”) ed è in grado di prevedere le azioni materne;

c) verso gli otto mesi assume per circa la metà del tempo di gioco un ruolo attivo;

d) a partire dai 12 mesi prende sempre più spesso l’iniziativa e alterna i ruoli; e) tra i 15 e i 18 mesi produce variazioni di giochi noti e ne inventa di nuovi.

Infine il piccolo, che ha appreso modelli di gioco con l’adulto, trasferisce questi modelli nel gioco con gli oggetti e con altri partner (coetanei, altri adulti)» (Bondioli, 1996, pp. 107-108).

86 «C’è molto poco di immaginario. E’ una situazione immaginaria, ma è comprensibile solo alla luce di una situazione reale che è appena avvenuta. Il gioco è più vicino al ricordo di qualcosa che è effettivamente avvenuto che

111

L’adulto svolge un ruolo fondamentale nell’acquisizione

dell’atteggiamento ludico e dell’orientamento simulativo […].

Si potrebbe pensare che una volta acquisito un atteggiamento ludico il

bambino possa essere lasciato a se stesso nella sua avventura giocosa

col mondo […]. Ma l’addestramento al gioco, da parte dell’adulto,

continua per introdurre il bambino in un universo ludico più complesso

quale è quello del gioco simbolico, nel quale la riproduzione “per finta” di

scene e gesti di vita quotidiana comporta la capacità di far uso e di

manipolare simboli e significati. Il gioco di finzione è un gioco con i

significati delle cose più che con le cose stesse e anch’esso, nella sua

struttura come nei suoi contenuti tipici, richiede addestramento e

apprendimento. (Bondioli, 1996, p. 109).

Secondo Vygotskij l’evoluzione del gioco andrebbe nel senso della

realizzazione sempre più cosciente degli scopi per cui si gioca.

L’azione nella sfera immaginaria, in una situazione immaginaria, la

creazione di intenzioni volontarie, e la formazione di programmi di vita

reale e di motivi volitivi, tutti compaiono nel gioco e fanno di esso il livello

più alto di sviluppo prescolare […].

Alla fine dello sviluppo, emergono le regole e tanto più sono rigide tanto

maggiori le esigenze della loro applicazione da parte del bambino, tanto

maggiore la regolamentazione dell’attività del bambino, e più teso e

acuto diventa il gioco […]. Di conseguenza, un complesso di aspetti

originariamente non sviluppati vengono alla ribalta alla fine del gioco

(aspetti che all’inizio erano secondari o incidentali occupano alla fine

una posizione centrale, e viceversa). (Vygotskij, 1978, pp. 150-151).

Va comunque notato che il concetto stesso di gioco sia mediato

culturalmente: che cosa possa essere considerato come tale, in che

modo venga connesso ad apprendimenti significativi, quali siano i

all’immaginazione. E’ più la memoria in azione che una nuova situazione immaginaria» (Vygotskij, 1978, pp. 150-151).

112

contesti nei quali si può o non può esprimere, quali siano gli agenti

deputati al suo insegnamento… è questione relativa a valori

implicitamente ed esplicitamente condivisi all’interno di un orizzonte

culturalmente connotato. Tali valori vengono anch’essi appresi e

contribuiscono a definire le cornici ludiche, in senso batesoniano, che

assegnano significato ai comportamenti e alle azioni ludiche.

Più o meno nello stesso periodo in cui appaiono i primi giochi

simbolici, ovvero a partire dal secondo anno d’età87, ha luogo

l’acquisizione dei simboli linguistici88.

Proprio perché lo stesso Vygotskij osserva che l’acquisizione del

linguaggio rappresenta un caso paradigmatico del processo di

interiorizzazione dei segni, e quindi dello sviluppo delle funzioni

psichiche superiori, esso può essere preso come modello per ogni

apprendimento culturale89. Riportiamo dunque di seguito una sintesi

del processo di apprendimento del significato delle parole nello

sviluppo del bambino.

La funzione iniziale del linguaggio è la funzione della comunicazione, del

legame sociale, dell’azione su coloro che sono attorno, sia dalla parte

87 Secondo Tomasello i bambini imparano a usare gli oggetti come simboli pressappoco nello stesso modo in cui imparano ad usare i simboli linguistici. Cfr. Tomasello, 1999, pp. 107-111 e 156-159. 88 E’ durante il secondo anno di vita che si attesta il fenomeno denominato “esplosione del vocabolario”. «In questa fase il ritmo di espansione è di 5 o più nuove parole (fino anche a 40) per settimana, cosicché alla fine del periodo in questione il vocabolario complessivo si attesta mediamente sulle 300 parole, ma può raggiungere anche 600 parole. Il bambino diventa capace di attribuire alle parole uno status propriamente simbolico ed è in grado di capire non solo che tutte le cose hanno un nome, ma anche che c’è un nome per qualsiasi cosa. La capacità di attribuire piena autonomia simbolica alla parola fa sì che il bambino apprenda nuovi vocaboli con grande rapidità, e impari anche ad usare flessibilmente le parole che conosce» (Camaioni - Di Blasio, 2002, pp. 138-139). 89 Nell’evolversi del pensiero vygotskijano, si presenta sempre più chiaramente definita la posizione relativa alla funzione del segno-strumento nella ristrutturazione delle funzioni psichiche superiori. Si fa quindi strada, nell’insieme degli scritti che precedono la sua ultima opera, la descrizione dell’importanza del linguaggio nello sviluppo culturale. Questo tema troverà una trattazione elettiva nel volume Pensiero e linguaggio, cui si rimanda, in cui Vygotskij descrive lo sviluppo delle forme di concettualizzazione, spontanea e scientifica, in connessione con il linguaggio.

113

degli adulti che dalla parte del bambino. Così il primo linguaggio del

bambino è puramente sociale; non sarebbe corretto chiamarlo

socializzato poiché a questa parola è legato qualcosa che è non sociale

all’inizio e diventa tale solo nel processo del suo cambiamento e

sviluppo. (Vygotskij, 1934, p. 57)

Dopo uno stadio iniziale, fondamentalmente pre-verbale e

«primitivo» in cui il bambino emette grida o altri suoni, insorge uno

stadio in cui per il bambino la parola che designa un oggetto è una

proprietà dell’oggetto stesso: «in altre parole il legame esterno tra gli

stimoli, o il legame tra le cose, viene preso per un legame

psicologico». Questo non significa che il bambino “scopre” che le

cose hanno nomi, ma piuttosto il linguaggio si sviluppa attraverso

reazioni verbali che si verificano nel contesto socio-culturale in cui

vive: il bambino semplicemente usa le parole, così come fanno le

persone che costituiscono la realtà sociale che li circonda. In questa

fase i bambini rifiutano l’arbitrarietà della lingua e si aspettano delle

parole “trasparenti”, che rivelino nella loro forma la qualità delle cose

(Simone, 1988).

Gli esperimenti e l’osservazione quotidiana dimostrano chiaramente che

è impossibile per i bambini piccoli separare il campo del significato dal

campo visivo perché c’è una così intima fusione tra significato e quello

che è visto. Perfino un bambino di due anni a cui si chiede di ripetere la

frase: “Tania è in piedi” quando Tania è seduta davanti a lui, la cambierà

in “Tania è seduta”. In certe malattie si osserva la stessa situazione […].

Una separazione tra i campi del significato e della visione avviene per la

prima volta in età prescolare […]. (Vygotskij, 1978, pp. 142-143).

Dallo stadio in cui considera le parole come proprietà delle cose (lo

stadio “magico” o della psicologia «naïf») il bambino passa allo

stadio in cui adopera le parole come segni esterni: si tratta dello

114

stadio “egocentrico” del linguaggio90 durante il quale, parlando con

se stesso, enuncia le azioni che deve compiere. In questo stadio i

problemi psichici interni vengono risolti esternamente dal bambino

per mezzo delle parole così come quando, nello stesso periodo,

ricorre al calcolo sulle dita per contare.

A questo terzo stadio ne segue un quarto, lo stadio del

«ripiegamento» verso l’interno: il linguaggio diventa intellettivo e il

pensiero diventa verbale. Nel campo del linguaggio a questo stadio

corrisponde il linguaggio silenzioso, ovvero il pensiero verbale91. Il

90 Per analizzare il processo dinamico tra esistente tra pensiero e parola Vygotskij in Pensiero e linguaggio (1934) propone di analizzare la forma del linguaggio interiore, o endofasia. Questa forma è stata erroneamente considerata come un riflesso verbale inibito nella parte motoria (Behtérev) o come un linguaggio esteriore privato dell’aspetto sonoro (Watson). Esso è in realtà strutturalmente, funzionalmente e geneticamente diverso dal linguaggio esteriore; Vygotskij fonda queste affermazioni su una critica alla concezione del linguaggio egocentrico esposta da Piaget, al quale riconosce il merito di avere riscontrato per primo questa particolare forma di linguaggio e soprattutto di avere considerato la psiche del bambino non quantitativamente, ma qualitativamente diversa da quella adulta.

Tuttavia Piaget aveva messo in relazione questa forma di linguaggio (ripetitivo e non rivolto all’altro anche se usato in contesti collettivi) come l’espressione dell’egocentrismo della mente infantile. Egli aveva descritto il percorso genetico di pensiero e linguaggio in modo tale da vederlo come un passaggio da uno stato iniziale di «pensiero autistico» (una forma di pensiero indipendente dalla realtà), uno stadio secondario in cui il bambino acquista una forma di pensiero individuale non socializzato (espressione dell’egocentrismo, di cui appunto il linguaggio egocentrico sarebbe espressione sintomatica), e uno stadio finale in cui, grazie all’acquisizione del linguaggio comunicativo (espressione della socializzazione) il bambino giunge al pensiero logico.

Alla luce di questa interpretazione, afferma Vygotskij, il linguaggio egocentrico sarebbe una forma di linguaggio destinata a scomparire e priva di una funzione specifica nel contesto della psiche infantile. Egli replicò gli esperimenti di Piaget controllando come variabili indipendenti proprio la possibilità di essere compreso e la vocalizzazione (vietandola espressa mente o facendo svolgere i giochi spontanei ai bambini in presenza di un forte rumore). In queste situazioni, il linguaggio egocentrico non si presentava affatto. Egli deduce dunque che non si tratta di una forma che è l’espressione dell’egocentrismo del pensiero, ma di una forma di linguaggio verbale che rappresenta un precedente evolutivo del linguaggio interiore: una transazione tra lo stadio dello sviluppo che opera con funzioni interpsichiche, esteriorizzate, derivate dalla situazione sociale, e lo stadio in cui le funzioni divengono intrapsichiche, attraverso la loro interiorizzazione, che da luogo alla funzione regolativa interiore del proprio comportamento, che è la pianificazione. 91 «Se ora dalla genesi del linguaggio interno passiamo a come funziona il linguaggio interno dell’adulto, ci ritroviamo subito di nuovo con la stessa domanda: il pensiero e il linguaggio sono necessariamente legati nel comportamento dell’adulto, questi due processo possono essere identificati? Tutto quello che

115

linguaggio interiorizzato è una forma di pensiero che si struttura

utilizzando le regole della lingua, le parole e i loro significati; è

pensiero verbale al quale il linguaggio conferisce una forma logica,

analitica e sequenziale.

Il linguaggio egocentrico del bambino è uno dei fenomeni del passaggio

delle funzioni interpsichiche a quelle intrapsichiche, cioè delle forme di

attività sociale, collettiva del bambino alle sue funzioni individuali.

Questo passaggio è una legge generale dello sviluppo di tutte le funzioni

psichiche superiori che compaiono inizialmente come forme di attività di

collaborazione e solo in seguito sono trasferite dal bambino nella sfera

delle sue proprie forme psichiche di attività. Il linguaggio per se stessi

nasce dalla differenziazione della funzione inizialmente sociale del

linguaggio per gli altri. Non una socializzazione progressiva, apportata

dal bambino dall’esterno, ma un’individualizzazione progressiva, nata

sulla base della socialità interna del bambino, è il tratto principale dello

sviluppo infantile. (Vygotskij, 1934, p. 350).

L’acquisizione del linguaggio non è solo una conseguenza

dell’apprendimento culturale, ma anche il mezzo privilegiato dalla

nostra cultura per la trasmissione culturale.

Il secondo processo dello sviluppo culturale è l’insegnamento attivo

che si attua nella realtà dell’educazione e dell’istruzione92.

sappiamo a questo proposito ci obbliga a rispondere negativamente a questa domanda.

La relazione tra pensiero e linguaggio potrebbe essere rappresentata schematicamente in questo caso da due circonferenze che si intersecano, che mostrerebbero che i processi del linguaggio e del pensiero coincidono in parte. Questa è quella che si chiama sfera del “pensiero verbale”. Ma questo pensiero verbale non esaurisce né tutte le forme del pensiero, né tutte le forme del linguaggio. Vi è una grande area di pensiero che non ha alcuna relazione diretta con il pensiero verbale. E’ innanzitutto il caso, come ha già indicato Bühler, del pensiero strumentale e tecnico e in generale di tutta quella area che si chiama intelligenza pratica» (Vygotskij, 1934, 118). 92 La «ricrescita culturale» del bambino avviene attraverso l’apprendimento inteso come «una modificazione relativamente duratura e stabile del comportamento a seguito di un’esperienza, di solito ripetuta più vote» (Anolli, 2006a, p. 76). In questo senso l’apprendimento è, dal nostro punto di vista, distinto dalle

116

Mentre l’apprendimento sociale procede dal basso verso l’alto, con gli

individui privi di conoscenze o di abilità che cercano di acquisirle dagli

altri, l’insegnamento procede dall’alto verso il basso, con gli individui in

possesso di conoscenze o di abilità che cercano di trasferirle a coloro

che non le posseggono […]. D’altra parte, nonostante la grande

variabilità interculturale, in tutte le culture umane gli adulti istruiscono i

giovani in modo attivo e sistematico. Assieme all’apprendimento

imitativo, anche l’istruzione attiva è molto probabilmente cruciale per il

tipo di evoluzione culturale peculiare dell’uomo. (Tomasello, 1999, pp.

52-53).

Dal momento che l'interazione sociale è costituita principalmente

dalla parola ed è mediata dalla stessa, ciò che viene interiorizzato

nel flusso di pensiero del bambino sono i significati e le forme

generati durante lo scambio verbale, che sono a loro volta prodotti di

un più ampio sistema storico-culturale che esprime gli innumerevoli

modi di interpretare intersoggettivamente il mondo che si sono

accumulati, in tempi storici, in una determinata cultura.

modificazioni del comportamento dovute a programmi genetici e a circuiti nervosi sottesi ai riflessi, dai processi maturativi e dalle condotte istintive.

Solitamente di distinguono due tipologie di apprendimento: l’apprendimento individuale (come capacità di acquisire nuove conoscenze a seguito di un’esperienza personale) e l’apprendimento sociale (come capacità di acquisire nuove conoscenze e pratiche a seguito dell’interazione sociale). Anolli, riprendendo le ricerche di Boyd e Richerson (2005) sottolinea come in ambienti stabili l’apprendimento sociale risulti più vantaggioso di quello individuale in quanto il primo risulta più affidabile e il secondo più soggetto ad errori. In ambienti variabili si ha il rapporto inverso: maggiore rilevanza dell’apprendimento individuale in quanto l’apprendimento sociale risulta meno affidabile.

«Si è visto che le specie con un elevato livello di apprendimento sociale presentano anche un eguale elevato livello di apprendimento individuale. L’apprendimento sociale svolge la funzione di accelerare e rendere meno casuale l’apprendimento individuale (Galef, 1996). In generale, l’incremento dell’encefalizzazione è strettamente connesso a forme rilevanti di attaccamento ai genitori, al ritardo della maturazione sessuale e a un arco di vita abbastanza prolungato: tutte condizioni che favoriscono l’apprendimento sociale (Eisenberg, 1981)» (Anolli, 2006a,pp. 76-77). Ciò che rende l’apprendimento sociale specifico nella nostra specie si basa su due dispositivi: l’imitazione (vs emulazione) e l’insegnamento attivo.

117

Attraverso il linguaggio, il bambino sviluppa una particolare forma di

cognizione, o come direbbe Howard Gardner (1983), una particolare

forma di intelligenza, che definisce le categorie cognitive con cui

descrivere e spiegare i fenomeni.

Gardner definisce simbolo

una qualsiasi entità materiale o astratta che possa denotare qualsiasi

altra entità o che possa riferirsi ad essa […]. Sono simboli parole,

diagrammi, numeri e una vasta gamma di altre entità. E’ simbolo un

qualsiasi elemento – una linea non meno di una pietra – purché venga

usato (e interpretato) come rappresentante una qualche sorta di

informazione. (Gardner, 1983, p. 321).

Oltre a questa funzione rappresentativa un simbolo ha anche una

funzione espressiva:

può trasmettere un certo stato d’animo, un certo sentimento o una certa

tonalità […] solo finché la comunità in oggetto decida di interpretare un

particolare simbolo in modo particolare. (Ibidem, p. 322).

Da questa definizione emerge che non solo le parole, ma anche altri

artefatti (suoni, gesti, grafismi…) possono essere usati in veste di

simboli. Come le parole, anche questi simboli possono funzionare

isolatamente o entrare come componenti in sistemi più elaborati. Se

le parole vengono organizzate nel linguaggio parlato e scritto, i

numeri e altri sistemi astratti vengono organizzati nel linguaggio

matematico, i gesti in sistemi di danze, codici rappresentativi ed

espressivi, «strumenti» che ci consentono di descrivere ed esprimere

aspetti della realtà.

Susanne Langer (1969) afferma che la capacità di trattare con

simboli (parole, dipinti, diagrammi e composizioni musicali) è il

carattere distintivo della conoscenza umana. Le modalità di pensiero

artistico sono altrettanto valide di quelle matematiche o scientifiche;

118

la differenza consiste nel tipo di simboli usati e nel tipo di processo

cognitivo messo in atto. La Langer non privilegia simboli astratti e

logici – matematica, metalinguaggio, linguaggi specialistici – e parla

di forme simboliche non solo discorsive come il linguaggio orale e

scritto ma anche «presentazionali» (simboli ostensivi quali dipinti).

Accanto al linguaggio matematico la Langer colloca la musica, il

mito, il rito, l’arte come altrettante forme simboliche93.

Gardner, servendosi delle argomentazioni della Langer, osserva che

l’atto creativo assume una sua specificità in funzione del tipo di

simboli con cui ha a che fare e giunge per questa via e attraverso

studi neurofisiologici sulla specificità delle funzioni celebrali e di

psicologia evolutiva a ipotizzare l’esistenza di «intelligenze

multiple»94 connesse ai diversi sistemi simbolici.

A mio giudizio, una competenza intellettuale umana deve comportare un

insieme di abilità di soluzione di problemi, consentendo all’individuo di

risolvere genuini problemi o difficoltà in cui si sia imbattuto e, nel caso, di

creare un prodotto efficace; inoltre deve comportare la capacità di

trovare o creare problemi, preparando in tal modo il terreno

all’acquisizione di nuova conoscenza. (Gardner, 1983, pp. 80-81).

93 L'accezione di simbolo cui si riferisce l’autrice si illustra unicamente in contrapposizione a segnale. Segnale è ciò che indica l'esistenza di qualcosa. Segnale è il ruggito di un leone, che indica l'esistenza di un leone nelle nostre immediate vicinanze. Segnali della mia ira sono le vampe di rossore che salgono al viso, il tono della mia voce. Per la Langer tutto ciò che ha carattere di segno, ma non di segnale, deve essere annoverato nell'ambito dei simboli. Ed allora saranno simboli le parole del linguaggio verbale o scritto, in quanto “presentano” un'idea. Presentando un'idea si connettono insieme formando una frase, un discorso. La nozione di simbolo può essere attinta dal linguaggio verbale o scritto - ma esempi tratti soltanto da quest’ambito implicherebbero, secondo la Langer, un’indebita restrizione. La sua “scoperta” è che vi sono anche simboli non discorsivi (Langer, 1969). 94 «Diventa necessario dire – e dirlo una volta per tutte – che non c’è, non potrà mai esserci, un elenco singolo inconfutabile e universalmente accettato delle intelligenze umane […]. Queste intelligenze sono finzioni – nel migliore dei casi finzioni utili – per parlare di processi e abilità che (come il resto della vita) formano un continuo. La natura non presenta discontinuità brusche […]. Le varie intelligenze sono definite e descritte separatamente nel preciso intento di illuminare problemi scientifici e affrontare pressanti problemi pratici» (Gardner, 1983, pp. 80-90).

119

Gardner definisce come forme di intelligenza solo le abilità

valorizzate culturalmente, che si rivelano di qualche importanza

all’interno di un contesto culturale.

Al tempo stesso, riconosco che l’ideale delle qualità apprezzate

differisce marcatamente, a volte anche in modo radicale, fra una cultura

umana e l’altra, nell’ambito della creazione di nuovi prodotti o della

formulazione di nuovi problemi di importanza relativamente modesta in

taluni contesti.

I requisiti preliminari sono un modo per assicurare che un’intelligenza

umana sia veramente utile e importante, almeno in certi contesti

culturali. Questo criterio da solo può condurre a escludere certe capacità

che, sulla base di altre ragioni, potrebbero soddisfare i criteri che mi

accingo a fissare. Per esempio, l’abilità di riconoscere le facce è una

capacità che sembra essere relativamente autonoma ed essere

rappresentata in un’area specifica del sistema nervoso umano. Essa

esibisce inoltre una storia di sviluppo sua propria. Eppure, a quanto so,

benché gravi difficoltà nel riconoscimento di facce possano creare

dell’imbarazzo a qualche individuo, non pare che questa abilità sia molto

apprezzata da molte culture. Né ci sono molte opportunità di trovare

problemi nel campo del riconoscimento delle facce. (Ibidem, p. 81).

Tra gli elementi che Gardner ritiene indispensabili per poter definire

un’abilità o un insieme di abilità come forma particolare di intelligenza

vi sono le seguenti caratteristiche che hanno importanza dal nostro

punto di vista: a) una storia di sviluppo caratteristica nel corso

dell’ontogenesi, con periodi critici (come pure pietre miliari)

identificabili connessi all’apprendimento o alla maturazione, assieme

a un complesso di prestazioni «terminali» esperte; b) una storia

evolutiva e una sua plausibilità dal punto di vista filogenetico; c) una

tendenza “naturale” dell’abilità specifica a materializzarsi in sistemi

120

simbolici, sistemi di significati elaborati culturalmente che

racchiudono forme importanti di sapere95.

Lo studio di come tali sistemi simbolici evolvano nel corso

dell’ontogenesi permette di considerare «l’intelligenza come proprietà

emergente in uno specifico contesto storico-culturale che allo stesso

tempo include un insieme particolare di artefatti, con cui gli agenti

interagiscono» (Grasseni – Ronzon, 2004, p. 157).

Per spiegare lo sviluppo di un pensiero mediato dalla cultura dunque

è necessario specificare non solo gli «strumenti» attraverso i quali il

comportamento viene mediato ma anche le circostanze nelle quali

esso ha luogo, ossia la nicchia di sviluppo all’interno della quale esso

avviene96.

95 Gardner (1983) identifica «otto segni» che identificano un’intelligenza. Accanto a quelli già citati vi sarebbero: l’isolamento di facoltà in conseguenza di un danno celebrale; la possibilità di trovare individui che presentino profili “eccezionali” come gli idiots savantes o altri prodigi; un’operazione o un insieme di operazioni centrale identificabile; prove a sostegno fornite da compiti psicologici sperimentali e da risultati psicometrici (Ibidem, pp. 83-86).

Va inoltre notato che le intelligenze non sono equivalenti a sistemi sensoriali in quanto sono capaci di realizzarsi (almeno in parte) attraverso più di un sistema sensoriale. Sono più ampie di meccanismi di elaborazione specifici e più limitate e ristrette di capacità «generali» come analisi, sintesi o il senso del Sé (Ibidem, pp. 86-88). 96 Nel corso degli anni sono stati proposti diversi modi di concettualizzare l’unità d’analisi che lega il bambino al suo ambiente socioculturale e al mutamento evolutivo. Bronfenbrenner (1979) parla di “nicchie ecologiche” in riferimento alle proprietà e alle condizioni degli ambienti fisici e psichici che favoriscono o ostacolano lo sviluppo; Charles Super e Sara Harkness (1972, 1986), fanno riferimento a “nicchie evolutive” come insiemi di: ambiente fisico e sociale, modalità di accudimento e di educazione (regolate culturalmente), psicologia di chi si prende cura del bambino (incluse le credenze dei genitori sui bisogni del bambino, le finalità educative, e le conoscenze condivise sulle cure e le pratiche educative); Cole (1996) identifica varie pratiche culturali come unità prossimali dell’esperienza infantile molto simili alle nicchie evolutive di Super e Harkness; Jaan Valsiner (1987) distingue le nicchie in base al coinvolgimento degli adulti: nella Zona di Movimento libero (la nicchia più interna) l’adulto struttura l’accesso del bambino a determinati ambienti, oggetti, eventi e strumenti e lo incentiva in vari modi ad agire in determinate maniere, creando la Zona dell’Azione Incentivata adatta allo stato di sviluppo corrente del bambino, in modo da guidarne lo sviluppo futuro. E’ importante sottolineare che tutti questi approcci concordano nel sostenere che se è vero che gli adulti creano le nicchie evolutive e, in virtù del loro ruolo e, impongono determinate restrizioni nell’organizzazione del comportamento al loro interno, la realizzazione degli eventi che vi si verificano dipende in ampia misura dal bambino e dall’ambiente socio-culturale, i quali giocano un ruolo attivo.

121

1.2.3 L’apprendimento come processo situato e

distribuito

Occorre dunque tener presente la collocazione “ecologica” dei

processi di apprendimento e di costruzione della conoscenza

nell’ambito di peculiari configurazioni contestuali, individuando come

unità di analisi una complessa realtà di natura essenzialmente socio-

cognitiva – “costruita” dai soggetti in esso implicati, che si evolve

attraverso processi di cambiamento e sviluppo che si danno sulla

base di una costante e reciproca interazione tra individuo e

contesto97.

Questa visione dei processi di apprendimento viene a costruirsi sulla

base di una prospettiva di matrice storico-culturale che vede il

contesto in cui un’attività cognitiva ha luogo come parte integrante di

quella attività e non solo come la dimensione fisico e socio-culturale

in cui essa si inscrive. Tale dimensione ha una funzione costitutiva

97 Segnaliamo a proposito il lavoro pionieristico compiuto da Margaret Mead (1935) che per prima ha evidenziato come i momenti di attività condivisa, più o meno intenzionalmente “educativi”, abbiano sempre conseguenze sullo sviluppo. Molte ricerche, sulla stessa scia hanno contribuito a definire il rapporto tra sviluppo individuale e processi culturali. Il modello psicoculturale di Beatrice e John Whiting (1975) si è occupato ad esempio del rapporto tra sviluppo individuale da un lato e aspetti immediati, partner sociali, valori culturali e sistemi istituzionali dall’altro. Secondo tale prospettiva, per comprendere lo sviluppo è necessario acquisire dettagliate informazioni sulle situazioni in cui esso ha luogo: tanto le situazioni “immediate” quanto i processi culturali meno diretti che riguardano il bambino e le persone che lo circondano (e coloro che li hanno preceduti). In questo modello viene evidenziato maggiormente l’insieme delle situazioni che il bambino vive e lo sviluppo è visto come il prodotto di una serie di condizioni sociali e culturali in cui il bambino è immerso (Whiting - Whiting, 1975). Un’ultima segnalazione di contributi riguardanti gli studi pionieristici sugli aspetti contestuali dello sviluppo è il classico Ecologia dello sviluppo umano di Urie Bronfenbrenner. In questa prospettiva l’ambiente è costituito tanto dai contesti di cui il bambino ha diretta esperienza, quanto dai sistemi culturali e sociali, che pongono in relazione situazioni diverse, quali la casa, la scuola, il luogo di lavoro dei genitori… Bronfenbrenner era interessato a specificare le proprietà degli ambienti fisici e psichici che favoriscono o ostacolano lo sviluppo all’interno delle “nicchie ecologiche” in cui un individuo vive. Egli definisce l’ecologia dello sviluppo umano come «lo studio scientifico del progressivo adattamento reciproco tra un essere umano attivo che sta crescendo e le proprietà, mutevoli, delle situazioni ambientali immediate in cui l’individuo in via di sviluppo vive, anche nel senso di definire come questo processo è determinato dalle relazioni esistenti tra le varie situazioni ambientali e dai contesti più ampi di cui le prime fanno parte» (Bronfenbrenner, 1979, pp. 54-55).

122

nei processi di apprendimento individuali che devono essere

interpretati come contestualmente situati e distribuiti98 tra il soggetto,

gli artefatti culturali e le relazioni sociali in cui è implicato.

Ogni processo di apprendimento si produce in un particolare setting

e in un particolare contesto, le cui caratteristiche svolgono un ruolo

essenziale e costitutivo del processo stesso. In questo senso si può

sostenere che si tratti di un processo «situato» sia in quanto

collocato in un tempo e in uno spazio specifico, sia in quanto

determinato dalle relazioni sociali e dai significati culturali che

appartengono a quel determinato contesto sia, infine, in quanto parte

essenziale di pratiche99 che generano conoscenze nell’ambito di una

varietà di dimensioni della vita (Lave – Wenger, 1991).

98 «L’espressione cognizione situata oggi indica un insieme non compatto di teorie e prospettive che propongono una visione contestualizzata (e, perciò, particolaristica) e sociale della natura del pensiero e dell’apprendimento. Gli studiosi della cognizione situata hanno come punto di partenza la natura distribuita dell’attività cognitiva – il fatto che, nelle normali circostanze, l’attività mentale implica una coordinazione sociale. Completare un lavoro, calcolare qualcosa, sono quasi sempre azioni fatte in coordinazione con altri. Ciò che rende un individuo competente non è solo ciò che conosce, ma anche come la sua conoscenza si accorda con quella degli altri individui con i quali l’attività deve essere coordinata. Inoltre, l’attività è spesso condivisa con degli strumenti (Hutchins, 1991) e anche con le cose fisiche di ogni giorno su cui le persone ragionano (Lave, 1988). C’è, perciò una distribuzione del lavoro cognitivo non solo tra le persone ma anche tra persone e strumenti. Essere competente significa risultare in grado di usare strumenti particolari in modi particolari. Gli strumenti in se stessi rappresentano una porzione dell’intelligenza necessaria per portare a termine un qualsiasi compito particolare. La natura distribuita della prestazione competente significa che la competenza è altamente specifica della situazione. Si deve essere capaci di comportarsi in una particolare situazione, con strumenti particolari e con particolari altre persone. La prospettiva della cognizione situata, allora, tende ad allontanare dalla ricerca delle strutture generali della conoscenza e a portare verso lo studio degli ambienti particolari dell’attività cognitiva e verso la conoscenza che si accorda con questi ambienti. Allo stesso tempo sottolinea la natura sociale dell’attività e dello sviluppo cognitivi» (Resnick, 1994, pp. 75-76). 99 «Che una “svolta pratica” nella teoria contemporanea sia oramai conclamata (Schatzki, Knorr-Cetina, von Savigny, a cura, 2001) si rende evidente nel modo in cui, in antropologia, filosofia, scienze cognitive, linguistica e psicologia, ci si propone di ripensare attraverso il concetto di pratica le teorie della società, della conoscenza e del significato. Il fatto che il concetto di pratica oramai si imponga sia nelle scienze sociali che in quelle umanistiche è il risultato di una tendenza di lunga durata. Secondo l’ampia sintesi di Sherry Ortner (1984), la “pratica” si è costruita progressivamente come una categoria oppositiva, per contrasto con le categorie maggiormente usate dalle teorie antropologiche e sociologiche degli anni Sessanta (il simbolo, la struttura, il sistema energetico-ambientale), come pure in seguito alle istanze prodotte dalla critica marxista degli anni Settanta. I precursori della “svolta pratica” sarebbero quindi quei molti che, a vario titolo e con diverse

123

Riprendendo il significato etimologico di “contesto” (contextere) come

“intrecciare” Cole sottolinea come esso non possa essere ridotto a

“ciò che ci circonda”, ma come costituisca piuttosto

una relazione qualitativa fra minimo due entità analitiche (fili) intese

come due momenti di un unico processo […]. I confini tra “il compito e il

suo contesto” non sono ben delineati e statici ma ambigui e dinamici. matrici teoriche, hanno sottolineato l’importanza dell’azione e dell’agente rispetto alla struttura; della comunicazione e della performance rispetto a norme e regole; del “dramma” e dell’interpretazione dei soggetti rispetto all’idea di società come organismo o macchina. La rivalutazione dei desideri, dell’interazione, dell’esperienza dei soggetti, attori, individui, è un processo che già negli anni Ottanta interessava non solo l’antropologia ma l’arte, la storia, la sociologia, la storia e la filosofia della scienza e la critica letteraria. Nel contempo, pur sottolineando la riscoperta della cosiddetta agency degli individui, ci si chiedeva e si studiava come essa interagisse, e addirittura contribuisse a produrre e riprodurre gli stessi “sistemi sociali” e le loro “strutture” (Giddens, 1984) attraverso gli aspetti routinari della pratica» (Grasseni - Ronzon, 2004, pp. 13-14).

I primi contributi in questa direzione possono essere considerati i lavori di Marcel Mauss (1936) nello studio pionieristico sulle tecniche del corpo come variabili culturali, socialmente acquisite, creatrici di un sapere pratico e non discorsivo; di André Leroi-Gourhan (1964) e le sue analisi sul gesto tecnico-operativo produttore di artefatti; di Pierre Bourdieu (1972) che delinea una vera e propria teoria della pratica che, una volta appresa tramite processi di mimesis, “prova ed errore” o istruzione esplicita è incorporata a livello soggettivo dai diversi attori sociali in un habitus «inteso come un sistema di disposizioni durature e trasferibili che, integrando tutte le esperienze passate, funziona in ogni momento come matrice delle percezioni, delle valutazioni e delle azioni» (Bourdieu, 1972, p. 211).

Il tema della pratica è stato variamente declinato dalla “svolta pragmatica” in filosofia (Dewey, Ryle, Austin, Wittgestein, Rorty); o ancora, in ambito sociologico, dall’etnometodologia (Garfinkel, Lynch, Sudnow).

Uno scenario più ampio è costituito dal dibattito a noi contemporaneo sulla teoria della pratica (practice theory) che si propone un superamento della distinzione tra conoscenza ed esperienza, ovvero tra pensiero teorico e pratico per impostare lo studio dei contesti di lavoro come contesti di acquisizione e uso di competenze e di performance cognitive. Secondo questa prospettiva tutti i processi di pensiero sono pratici, nel senso che tutti sono inseriti in quadri di attività storicamente e culturalmente determinati.

«In questa prospettiva il pensiero pratico non è un residuo o succedaneo del “vero” pensiero (e la competenza pratica non è il parente povero di quella teorica), ma piuttosto ogni attività cognitiva, proprio perché nei contesti di vita reale è mediata culturalmente e finalizzata al perseguimento di specifici obiettivi, può essere definita come pensiero in azione che necessita di conoscenza pratica. In questa prospettiva quindi pratico non è contrapposto a teorico, ma piuttosto diventa un qualificatore e un descrittore di tutti i processi cognitivi messi in atto nello svolgimento di attività reali, anche lavorative, essendo un aspetto necessario al raggiungimento degli scopi di quelle attività. In questo senso è quindi pratico tutto quel pensiero mediato culturalmente, situato in quadri di attività storicamente e culturalmente determinati e legato al raggiungimento di determinati obiettivi» (Zucchermaglio, 1995, p. 240).

124

Come regola generale, ciò che è considerato come oggetto e ciò che è

considerato come “ciò che circonda l’oggetto” si forma nel momento in

cui vengono nominati […].

Un “atto nel suo contesto”, inteso in riferimento alla metafora

dell’”intrecciare”, richiede un’interpretazione relazionale della mente;

oggetti e contesti si presentano insieme come parte di un unico

processo di sviluppo bio-socio-culturale […].

In poche parole, dato che ciò che chiamiamo mente opera per mezzo di

artefatti, essa non può essere incondizionatamente circoscritta nella

testa o nel corpo, ma deve essere vista come distribuita tra gli artefatti,

che sono tra di loro intrecciati e che intrecciano azioni umane individuali

con e come parte degli eventi permeabili e mutevoli della vita.

L’assetto rilevante del contesto dipenderà in modo decisivo dagli

strumenti attraverso i quali si interagisce con il mondo, e questi

dipendono a loro volta dagli obiettivi che si hanno e da altre condizioni

imposte all’azione […]. In base a questa concezione del contesto, la

combinazione di obiettivi, strumenti e situazione costituisce

contemporaneamente il contesto del comportamento e i modi in cui i

processi cognitivi possono essere ritenuti connessi a quel contesto.

(Cole, 1996, pp. 124-125).

In un senso più generale ogni comportamento non può che essere

inteso in senso relazionale, ossia in relazione ad un contesto.

Cole (1996) propone poi di espandere il triangolo base di mediazione

proposto dai teorici storico-culturali russi (fig. 1) per rappresentare i

molteplici modi in cui gli artefatti culturali mediano l’attività degli

individui come membri di un gruppo sociale.

Egli riprende il diagramma elaborato da Yrjo Engeström (1987) il

quale si riferisce alla “situazione” che si presenta all’interno di un

particolare contesto come un sistema di attività che

integra il soggetto, l’oggetto e gli strumenti (strumenti materiali ma anche

i segni e i simboli) in un sistema unificato.

125

Un sistema d’attività incorpora sia l’aspetto produttivo orientato

all’oggetto che l’aspetto comunicativo del comportamento umano

orientato alla persona. Produzione e comunicazione sono inseparabili. In

realtà, un sistema di attività umana contiene sempre sub-sistemi di

produzione, distribuzione, scambio e consumo. (Engeström, cit. in Cole,

1996, p. 127)

Figura 2: Il triangolo della mediazione di base allargato (dopo Engeström, 1987) per

includere altri soggetti (Comunità), le regole sociali e la divisione del lavoro tra il

soggetto e gli altri (ruoli).

La relazione superiore (Subject-Instruments-Object) rappresenta il

livello dell’azione elaborato dalla scuola russa.

Questo è il livello dell’azione mediata, attraverso la quale il soggetto,

agendo sull’oggetto, lo trasforma. Ma l’azione esiste “in quanto tale” solo

in relazione ai componenti della parte bassa del triangolo. (Ibidem, p.

128).

Se guardiamo questi tre momenti in rapporto con quelli disposti lungo

la base del triangolo, possiamo vedere un numero di linee lungo le

quali l’azione individuale è parte di un ordine sociale più ampio.

Bambino

Mondo

Divisione del lavoro

Strumenti (artefatti mediazionali)

Comunità Regole sociali

126

La comunità fa riferimento a coloro che condividono lo stesso oggetto in

generale; le regole fanno riferimento alle norme e alle convenzioni

esplicite che confinano l’azione all’interno del sistema d’attività; la

divisione del lavoro fa riferimento alla divisione, fra i membri della

comunità, delle azioni orientate sugli oggetti. I vari componenti di un

sistema di attività non esistono isolatamente gli uni dagli altri; al

contrario si costruiscono, rinnovano e trasformano costantemente come

risultato e causa della vita umana. Nella teoria dell’attività, riassunta

nella figura, i contesti sono sistemi d’attività. Il sub-sistema associato

alle relazioni soggetto-mediatore-oggetto esiste solo in relazione agli

altri elementi del sistema. E’ una concezione del contesto interamente

relazionale. (Ibidem).

L’azione mediata è vista come un costituente di, e come costituita

da, l’attività mediata collettiva.

Ciò si collega ad una prospettiva di lettura dei processi cognitivi e

d’apprendimento che mette in discussione il paradigma secondo cui

è possibile individuare un nucleo cognitivo indipendente dai contesti

socio-culturali e dalle intenzioni umane. Ogni atto cognitivo deve

essere inteso come una specifica risposta ad una determinata serie

di circostanze, e solo attraverso la comprensione di tali circostanze e

della «costruzione» che i soggetti implicati danno di una particolare

situazione, diventa possibile comprendere la natura e il significato

dell’atto in questione.

L’apprendimento, pertanto, è un processo «situato» in quanto

emergente da specifiche situazioni e da peculiari configurazioni

contestuali in riferimento alle relazioni sociali, alle trame di

significato, agli oggetti, agli strumenti e agli artefatti culturali presenti

in esse.

Questi elementi ne costituiscono una parte integrante ed essenziale,

tanto che non si può pensare all’apprendere come ad un processo

che si svolge unicamente su un piano intraindividuale attraverso

procedure di acquisizione ed elaborazione di dati esperienziali, ma

127

come un processo che si costruisce in situazione, in dipendenza

degli artefatti culturali e degli strumenti di cui si fa uso, delle relazioni

sociali in cui si è implicati. Ogni esperienza di apprendimento si

configura, pertanto, come unica e peculiare sulla base dei diversi

contesti che la determinano.

Ne deriva la necessità di un riconoscimento della collocazione

dell’apprendere in tutte le dimensioni in cui si declina e si svolge il

processo di formazione umano; dell’apprendimento che si da non

solo e non tanto nei contesti formativi “formali” e istituzionali, ma

anche e soprattutto in quelli non formali e informali, nelle comunità

culturali d’appartenenza, negli ambienti di lavoro, nei luoghi in cui si

svolge il vivere quotidiano100; del ruolo svolto dagli artefatti e dai

100 Negli anni Sessanta e Settanta, gli psicologi transculturali cercarono di applicare i test cognitivi sviluppati in America e Europa ai bambini di altri paesi (Cole, Gay, Glick e Sharp, 1971, Scribner 1975, 1977; Sharp, Cole, Lave, 1979). Questi test si basavano sulla teoria evolutiva di Piaget, o comunque erano test di classificazione, logica e memoria. L’obiettivo era di usare strumenti di misura slegati dalle attività quotidiane, per esaminare le abilità degli individui indipendentemente dalle loro conoscenze precedenti basate sull’esperienza quotidiana.

«Alla base vi era la convinzione che la competenza “reale” delle persone che si ipotizzava caratterizzasse la loro abilità a destreggiarsi nelle diverse situazioni, dovesse essere studiata attraverso problemi insoliti, di cui non si conoscessero in anticipo le modalità risolutive. Il livello di competenza era considerato una caratteristica personale generale, fondante quasi ogni aspetto del comportamento, senza tener conto delle variazioni tra le varie situazioni. Con i test si cercava di studiare gli stadi generali di sviluppo cognitivo, o le abilità generali di classificazione, logica e memoria. Ci si attendeva che alcuni individui si trovassero ad uno stadio più “avanzato” o mostrassero – in generale – migliori abilità logiche, mnestiche o classificatorie rispetto ad altri» (Rogoff, 2003, p.36).

I ricercatori rimasero sconcertati dal constatare che gli stessi soggetti che avevano ottenuto risultati molto bassi nei test cognitivi, mostravano notevoli capacità di ragionamento e memoria (abilità che i test avrebbero dovuto misurare) nelle attività quotidiane. Assumendo che la cognizione fosse una competenza generale, questa discontinuità risultava inspiegabile. Furono allora modificati i test, rendendone più familiare forma e contenuto, allo scopo di ottenere risposte più aderenti alle abilità sottostanti; autori come Sylvia Scribner (1975, 1977) e Michael Cole (Cole et al. 1971) iniziarono a notare che, benché si credesse che i test fossero indipendenti rispetto all’esperienza delle persone, in realtà vi era un legame tra performance ai test e grado di scolarizzazione.

La possibilità di generalizzare automaticamente lo sviluppo cognitivo fu ulteriormente messa in discussione dai risultati della ricerca culturale, secondo cui gli individui non attraversano gli stessi stadi evolutivi, e le prestazioni alle prove variavano sensibilmente in base ai materiali, ai concetti e ai compiti stessi. I ricercatori iniziarono ad abbandonare l’idea che il pensiero consistesse in una

128

codici culturali, dagli oggetti e dagli strumenti d’uso, dagli ambienti

fisici e sociali nei processi d’apprendimento e di costruzione della

conoscenza.

Per Barbara Rogoff i bambini sono «apprendisti del pensiero» il cui

sviluppo è un processo di apprendistato che avviene grazie alla loro

partecipazione guidata nell’attività sociale.

Per ampliare la nostra prospettiva sulla natura collaborativa dei processi

di apprendimento, in situazioni che possono contenere o meno espliciti

insegnamenti, ho proposto il concetto di partecipazione guidata alle

attività culturali (Rogoff 1990). Tale concetto da risalto ai diversi modi in

cui i bambini imparano, partecipando e facendo riferimento ai valori e

alle usanze delle loro comunità culturali. Con il concetto di

partecipazione guidata non mi riferisco a un particolare metodo di

sostegno all’apprendimento. Partecipazione guidata può essere una

spiegazione, uno scherzo, un rimprovero, e forme di controllo sociale più

o meno sottili, con cui gli adulti e i coetanei fanno notare al bambino i

suoi difetti e sbagli commessi.

In aggiunta, la partecipazione guidata include i tentativi dei partner

sociali – e degli stessi bambini – di evitare alcune forme di

apprendimento. Al fine di proteggerli, gli adulti evitano di parlare ai

bambini di molti argomenti […]. I vincoli imposti dagli adulti sono

espressione della natura partecipativa e guidata dello sviluppo.

Nel concetto di partecipazione guidata, il termine “guidata” è dunque

inteso in senso generale, includendo ma non limitandosi alle interazioni

che contengono espliciti insegnamenti. Oltre alle interazioni finalizzate

all’insegnamento, la partecipazione guidata contempla i rapporti

ravvicinati e quelli a distanza in cui i bambini prendono parte a valori,

usanze e competenze della comunità, senza espliciti insegnamenti e a

volte persino in assenza dell’altro. In molti casi, essa si compie

generica elaborazione delle informazioni, indipendente dal tipo di informazione e dalla familiarità degli individui con le attività testate (LCHC, 1983).

129

attraverso strumenti particolari o partecipando a istituzioni culturali.

(Rogoff, 2003, p. 293).

Il processo d’apprendimento è visto come processo di partecipazione

dinamica ad attività culturali. In questo senso esso si differenzia dalla

prospettiva dell’”influenza sociale”, secondo cui la socializzazione è

promossa dagli adulti che organizzano l’apprendimento del bambino.

Al contrario il concetto di partecipazione evidenzia il ruolo attivo

essenziale giocato dai bambini non solo nell’apprendimento, ma

anche nell’ampliamento delle usanze della comunità.

Per Jean Lave ed Etienne Wenger l’apprendimento consiste in un

cambiamento del grado di coinvolgimento degli individui, in veste di

partecipanti periferici legittimi nelle comunità di cui fanno pratica.

La principale caratteristica definitoria dell’apprendimento inteso come

attività situata è un processo che chiamiamo partecipazione periferica

legittima. Con questa espressione intendiamo richiamare l’attenzione sul

fatto che le persone che apprendano partecipano inevitabilmente a una

comunità di praticanti, e che la piena acquisizione di conoscenze e

abilità richiede ai nuovi arrivati di indirizzarsi verso una piena

partecipazione alle pratiche socioculturali di una comunità.

L’espressione “partecipazione periferica legittima” ci permette di parlare

delle relazioni fra nuovi arrivati e veterani nonché di attività, identità,

strumenti e comunità di conoscenza e pratica. Si riferisce al processo

mediante il quale i nuovi arrivati entrano a far parte di una comunità di

pratica. Le intenzioni di apprendere si esprimono, e il significato

dell’apprendimento si configura, nel processo con il quale una persona

diventa partecipante a pieno titolo di una pratica socioculturale. Questo

processo sociale comprende, anzi, sussume, l’apprendimento di abilità

consapevoli. (Lave – Wenger, 1991, p. 19).

Si tratta di una teoria in cui l’apprendimento non è semplicemente

situato nella pratica sociale, ma ne è parte integrante. Attraverso

l’ascolto, l’osservazione, l’acquisizione tacita di modalità cognitive e

130

di trame di significato, colui che apprende nell’ambito di uno specifico

contesto formativo diventa partecipe di una peculiare dimensione

culturale alla quale appartiene in modo sempre più legittimo nel

momento in cui quanto appreso è accettato e riconosciuto come

significativo.

In verità, nulla viene davvero trasmesso. La crescita della conoscenza

pratica nella storia di vita di una persona è il risultato non della

trasmissione di informazioni ma di una riscoperta guidata. Con questo

intendo dire che ad ogni generazione, gli apprendisti imparano per

mezzo del loro essere situati in determinati contesti nei quali, alle prese

con certi compiti, viene loro mostrato cosa fare e a che cosa prestare

attenzione, sotto la tutela di mani più esperte. Mostrare qualcosa a

qualcuno significa rendere qualcosa presente a quella persona, di modo

che essa lo apprenda direttamente, attraverso lo sguardo o l’ascolto o il

tatto. La responsabilità del tutore sta nel creare le condizioni in cui si

fornisce all’apprendista la possibilità di tale esperienza immediata. Posto

in una situazione di questo tipo, l’apprendista viene istruito a porgere

attenzione a questo o quest’altro aspetto di ciò che vede, sente o tocca,

in modo da “sentirlo” da solo […].

Ciò che ciascuna generazione contribuisce alla prossima non sono

regole e rappresentazioni per la produzione del comportamento

appropriato, ma piuttosto circostanze specifiche nelle quali i successori,

crescendo in un mondo sociale, possono sviluppare le proprie abilità e

disposizioni incorporate e le proprie capacità di coscienza e sensibilità.

Apprendere in questo senso è tutt’uno con ciò che James Gibson, il

pioniere della psicologia ecologica, chiamò “educazione dell’attenzione”

(Gibson, 1979). (Ingold, 2001, p. 69).

1.2.4 Contesti di insegnamento-apprendimento

Una riflessione antropologica sull’apprendere in quanto processo

contestualmente determinato impone a diversi livelli un’indagine

131

critica e una “rivisitazione” di alcuni “contesti” della formazione in cui

si è tradizionalmente ipotizzata la localizzazione dei processi di

apprendimento e di costruzione della conoscenza.

Il primo di questi “contesti” è identificabile con la mente, che,

nell’ambito di una tradizione di pensiero e di ricerca ampliamente

diffusa e condivisa, è stata intesa in passato come dimensione

essenzialmente intrapersonale e localizzabile su base individuale.

Su questi principi, l’apprendimento è stato interpretato come prodotto

di processi cognitivi individualmente attivati e costruiti e di

motivazioni e stati affettivi essenzialmente legati alla sfera personale

del soggetto.

Un errore fondamentale consisteva nel voler separare “l’individuo” dal

resto del mondo, attribuendogli una serie di caratteristiche generali, solo

secondariamente “influenzate” dalla cultura. In modo simile, la “cultura”

era spesso considerata un assortimento statico di caratteristiche.

(Rogoff, 2003, p. 35).

In tale prospettiva, il “luogo” dell’apprendere (e quindi del formarsi)

era identificato con la “mente”, riconosciuta come l’insieme di stati

psicologici di cui ciascuno è portatore, ovvero come espressione

dell’organizzazione e del funzionamento celebrale di un singolo

individuo.

Tale interpretazione della mente e dei processi d’apprendimento è

stata progressivamente messa in crisi dagli sviluppi della ricerca

nell’ambito dell’antropologia, della psicologia culturale, delle

neuroscienze, delle scienze cognitive, della filosofia della mente e

della psicologia dell’apprendimento, in cui si è evidenziata, come

abbiamo visto, una significativa attenzione alla connotazione

contestuale sia dell’architettura neurale che dei processi cognitivi.

Nell’indagare i rapporti tra pensiero ed esperienza culturale, molti

autori si sono ispirati alla teoria storico-culturale di Vygotskij che

sottolinea il rapporto tra abilità individuali e partecipazione a contesti

132

socioculturali ricchi d’artefatti. In quest’ambito il cambiamento più

rilevante si è avuto a partire dagli anni Ottanta, quando si è iniziato a

considerare la dimensione antropologico-culturale al di là dei

confronti interculturali tra le culture “altre” e la nostra cultura di

riferimento. Un tale indirizzo di ricerca (Scribner e Cole, 1981; Lave,

1988) ha avuto un’influenza notevole nel chiarire la non universalità

di alcuni aspetti cognitivi, sociali e interattivi del comportamento

umano e nel mostrare la specificità culturale di strategie culturali fino

ad allora considerate generali. Da questi studi è emerso un quadro

generale in cui le capacità cognitive, le “menti”, mostrano di essere

specifiche in rapporto allo svolgimento di compiti particolari che sono

diversamente valorizzati dalle culture (Rogoff, 2003).

Questo insieme di contributi è stato recentemente compreso sotto

l’ampia categoria della psicologia culturale che prende esplicitamente

le distanze da quella cross-culturale o interculturale101.

101 La psicologia interculturale si è preoccupata di mostrare in che misura e in quali modi noi siamo influenzati dalla cultura nella quale viviamo o, se vogliamo, ha cercato di rispondere a quesiti del tipo «c’è una cultura A che “produce” individui a1 e una cultura B che “produce” individui b1; conoscendo A e B quali saranno le differenze tra a1 e b1? Mente e cultura sono considerate come separate e concepite come una variabile indipendente (la cultura) che esercita la sua influenza sulla variabile dipendente (la mente). In questa prospettiva è legittimo domandarsi se i bambini nati nella Costa d’Avorio sviluppino il pensiero operatorio con la stessa velocità dei bambini ginevrini o londinesi.

Di fronte a ricerche di questo tipo la psicologia culturale solleva molti dubbi. Essi sono basati sull’assunzione che mente e cultura non possono essere separate e manipolate come fossero due variabili, una dipendente e l’altra indipendente. Supponiamo di voler osservare come rispondono alla scala d’intelligenza Therman-Merill i bambini maschi ugandesi confrontati con quelli inglesi o svizzeri, come ha fatto Vernon, e di scoprire che i bambini inglesi o svizzeri sono molto più capaci. Lo psicologo culturale si domanderebbe cosa è che rende più bassa la prestazione dei primi nei test di intelligenza.

Se mente e contesto culturale non possono essere separati, non ha senso applicare le stesse prove a due tipi di bambini così diversi. Infatti la stessa situazione sperimentale, anche se è identica nelle due situazioni – anzi proprio per questo – verrebbe interpretata diversamente, e questo renderebbe i due contesti di prova psicologicamente diversi e non compatibili […]. Ciò che emerge è allora che la persona è abile a fare le cose che sono importanti per sé e che ha occasione di fare spesso. Questo fa sì che le differenze culturali nella cognizione consistano più nelle situazioni in cui vengono applicati particolari processi cognitivi che nell’esistenza di un processo cognitivo generale, presente in un gruppo culturale e assente in un altro.

133

La psicologia culturale102, più che una disciplina che studia i rapporti

tra sviluppo cognitivo e cultura, in termini di effetti e differenze nello

sviluppo cognitivo stesso

è un’opzione teorica nuova che analizza le prestazioni (verbali,

manipolative, interattive e persino percettive) di bambini e adulti in

riferimento ai modi in cui interpretano gli aspetti simbolici dei compiti che

gli vengono proposti. Secondo tale prospettiva, la mente è “content-

driven, domain-specific, and constructively stimulus-bound” (Shweder,

1990, p. 13) e non può essere districata dai mondi intenzionali che sono

La psicologia culturale si distingue dunque dalla psicologia interculturale per il modo di concepire i rapporti tra mente e cultura. Si tratta di una questione scientifica che peraltro ha un’importante implicazione ideologica. Quando si fanno dei confronti tra culture è inevitabile la presenza di un aspetto valutativo, in termini di cultura più “avanzata”, così come è possibile la presenza di assunti etnocentrici che ci fanno pensare che usare i blocchi logici sia un modo “neutro” per misurare l’intelligenza, quando invece esso è chiaramente uno strumento di misura saturo di significati culturali […]. Se si vuole la psicologia culturale costituisce un approccio piuttosto “politicizzato” al rapporto tra mente e cultura, perché essa prende particolarmente a cuore il problema di ciò che potremmo definire la “colonizzazione della diversità”. Vale a dire quel complesso di attitudini mentali, ipotesi teoriche e pratiche di ricerca con le quali si tenta di ridurre l’”altro culturale” entro le proprie categorie culturali d’appartenenza» (Smorti, 2007, pp. 21-22). 102 Cole riassume le acquisizioni delle sue ricerche personali affermando di voler raggiungere, con la sua concezione della psicologia culturale, «la possibilità di tornare ai primi decenni della psicologia e intraprendere il cammino non percorso, quello in cui la cultura è posta sullo stesso piano della biologia e della società nel formare la natura umana individuale» (Cole, 1996, p. 97). A questo tentativo dà il senso di «fondare una seconda psicologia». Nell’esaminare i termini del dibattito a lui contemporaneo rispetto alla psicologia culturale Cole ritiene che «le principali caratteristiche della psicologia culturale siano le seguenti:

• Enfatizza l’azione mediata in un contesto. • Insiste sull’importanza del “metodo genetico” inteso in senso ampio per

includere i livelli storico, ontogenetico e microgenetico di analisi. • Cerca di fondare la sua analisi sugli eventi della vita quotidiana. • Suppone che la mente scaturisca dall’attività congiunta e mediata delle

persone. La mente è, dunque, in un certo, importante, senso, “co-costruita” e distribuita.

• Suppone che gli individui siano soggetti attivi del proprio sviluppo ma che non agiscano in situazioni completamente da loro determinate.

• Rifiuta la scienza esplicativa di causa-effetto e di stimolo-risposta, in favore di una scienza che ponga in rilievo la natura emergente della mente nell’attività e che riconosca un ruolo centrale all’interpretazione all’interno della propria struttura esplicativa.

• Attinge alle metodologie delle discipline classiche così come delle scienze sociali e biologiche»

(ibidem, p. 99).

134

storicamente variabili e culturalmente diversi e in cui ha un ruolo co-

costruttivo. (Pontecorvo, 1995, p. 16).

Quest’approccio sottolinea la centralità del soggetto come essere

riflessivo che formula piani, possiede obiettivi ed è in grado di

modificare il proprio ambiente: l’uomo è visto come attivo produttore

di significati che agisce sulla base dei significati che produce (Bruner,

1990). Ne deriva che il livello d’analisi scelto per lo studio del

comportamento dell’uomo è il contesto culturale in cui tale

comportamento ha luogo.

L’assunto che la mente sia, almeno in parte, culturalmente costituita,

deriva dal riconoscimento che l’individuo partecipa e modifica la propria

cultura con la sua soggettività, la quale, d’altro canto, è già informata da

significati e pratiche culturali, per cui non si può fare una distinzione

netta tra ciò che è mente e ciò che è cultura. (Ibidem, p. 23).

Si tratta di un approccio non riduzionistico, né in senso psicologico,

né in senso sociologico.

L’insieme di competenze interattive che caratterizzano l’essere

umano fin dalla nascita, la sua immaturità prolungata, la dipendenza

dalle cure parentali, la capacità di “leggere le menti altrui”, queste ed

altre caratteristiche fanno dell’essere umano un essere

«biologicamente culturale» (Rogoff, 1990).

Gli psicologi culturali si oppongono dunque al postulato dell’unità

psichica, ovvero all’affermazione secondo cui i processi cognitivi

siano gli stessi in tutti gli individui indipendentemente dalla cultura e

dalle pratiche culturali in essa agite e vissute, ed affermano la

necessità di teorie esplicative culturalmente differenziate per

spiegare lo sviluppo103.

103 «La psicologia culturale non nega che possano esistere processi psicologici universali, solo che, quando questi “universali” esistono, essi sono dovuti al fatto che gli individui attribuiscono significati culturalmente simili e utilizzano pratiche

135

Ne è derivato un significativo spostamento dell’attenzione sulle

interazioni socio-culturali e sulle variabili contestuali implicate nei

processi cognitivi e di apprendimento, riconosciute come costitutive

dei processi stessi. Viene posta molta enfasi sul ruolo del linguaggio

e dell’interazione come veicoli attraverso cui i significati sono

negoziati, creati, tramandati e trasformati.

Oggi lo studio dello sviluppo cognitivo non si limita a prendere in

considerazione il modo in cui l’individuo, nel corso dell’infanzia, arriva a

comprendere il mondo che lo circonda, ma si sofferma sul processo di

attiva partecipazione ad attività socioculturali condivise che consente

questo apprendimento. (Rogoff, 2003, p. 241).

Su queste basi, le rappresentazioni e i modelli della mente e

dell’organizzazione cognitiva individuale si sono sempre più orientati

verso una visione contestualista, distribuita e socio-culturalmente

situata della mente104. Ogni configurazione cognitiva deve essere

dunque intesa come un complesso prodotto di elementi biologici e

socio-culturali. Ne deriva che i processi di pensiero e di

apprendimento in essa inscritti non possono verificarsi se non in

riferimento ai peculiari contesti in cui i singoli soggetti si trovano

implicati: un’attenzione preponderante alla funzione di mediazione

svolta dagli altri soggetti e dagli elementi ambientali e socioculturali

(artefatti primari, secondari e terziari) in relazione ai processi di

apprendimento e costruzione della conoscenza.

culturali simili. Insomma, secondo questo principio, non si dovrebbe tanto tendere a costruire teorie generali, quanto teorie particolari in rapporto a situazioni culturali o a gruppi culturali specifici» (Pontecorvo, 1995, p. 24). 104 Cfr. a questo proposito la definizione data da David Olson dell’intelligenza come «abilità in un medium culturale» (Olson, 1979, p. 53); il modello delle “intelligenze multiple” proposto da Gardner (Gardner, 1983; 1999), cui si può affiancare il modello di Robert Sternberg, secondo cui l’intelligenza umana è il prodotto di elementi individuali – di natura bio-psicologica – e di elementi socio-culturali riferibili alle diverse e differenti dimensioni contestuali e situazionali (Sternberg, 1987, 1997).

136

In questo senso, un contesto dell’apprendimento fondamentale

nell’analisi dello sviluppo ontogenetico, è costituito dalla famiglia,

intesa, in senso generale, come l’ambiente “abitato” dalle persone

che si prendono cura del bambino. Esso è il contesto primario in cui

vengono a costituirsi le strumentalità cognitive da utilizzare in

funzione dell’apprendimento e in cui si esplicano le coordinate socio-

culturali e le prospettive per gli apprendimenti futuri.

Il ruolo della famiglia e della comunità nello sviluppo del bambino

differisce in modo piuttosto evidente nelle varie parti del mondo. Cause

importanti di variabilità culturale sono riconducibili alla probabilità di

sopravvivenza o di morte del bambino, alla presenza di fratelli e di una

famiglia allargata, all’opportunità per il bambino di partecipare

estensivamente alla vita della propria comunità, e ai prototipi culturali

relativi alle relazioni sociali (”per coppie” o “per gruppi”).

Nel mondo, l’allevamento dei bambini impegna la famiglia, il vicinato e la

comunità in ruoli diversi […].

L’accordo su chi si prenderà cura del bambino nelle diverse circostanze

è strettamente connesso al sostegno offerto dalla comunità e dalla

famiglia allargata […]. Le pratiche culturali riguardanti la cura dei

bambini sono ereditate dal passato da ciascuna generazione, che le

adatta alle circostanze e alle credenze, in parte riconducibili alle politiche

nazionali e internazionali. (Rogoff, 2003, p. 101).

I caregiver operano scelte organizzative per i bambini, selezionando

attività e materiali che ritengono adeguati per una certa fascia d’età.

Queste scelte vengono spesso effettuate senza l’intenzione di fornire

una particolare esperienza di apprendimento, o, al contrario,

possono essere intenzionalmente indirizzate alla socializzazione o

all’educazione del bambino.

La famiglia costituisce il primo contesto in cui inizia a prendere forma

la storia cognitiva del bambino. In ogni cultura, lo sviluppo è orientato

verso finalità particolari, secondo le competenze promosse dalla

cultura stessa attraverso istituzioni e «strumenti» locali. Lo stesso

137

concetto di «traguardo evolutivo» deriva da un modo particolare di

concettualizzare l’infanzia, come preparazione alla vita

(Rogoff,2003). Il contesto famigliare organizza l’apprendimento del

bambino in funzione del suo ingresso nelle diverse comunità di

pratiche che definiscono la società cui appartiene. In questo

contesto, ricco di qualità affettive, attraverso apprendimenti spesso

“impliciti”, vengono a costituirsi procedure cognitive che preparano la

comparsa della teoria della mente (Liverta Sempio, Marchetti,

Lecciso, 2005).

Gli adulti e i bambini organizzano le esperienze di socializzazione

attraverso la scelta di situazioni e di modalità di strutturazione che

funzionino tanto a distanza quanto nel corso dell’interazione sociale

esplicita. Sia i caregiver sia i bambini contribuiscono alla definizione

delle attività e dei ruoli di questi ultimi non solo attraverso l’adattamento

implicito e pragmatico dell’attività a competenze e interessi, ma anche

mediante più esplicite modalità organizzative, capaci di agevolare una

maggiore partecipazione alle attività della cultura di appartenenza.

Nelle interazioni esplicite, gli adulti e i bambini lavorano insieme alla

strutturazione dei ruoli dei bambini, ripartendo tra loro la responsabilità

dell’attività: mentre gli adulti sostengono e ampliano le abilità dei più

piccoli e suddividono i compiti in sotto-obiettivi più gestibili, i bambini

guidano o, addirittura, gestiscono gli sforzi degli adulti. La struttura

necessaria a sostenere l’apprendimento e la partecipazione dei bambini

evolve man mano che essi acquisiscono le abilità necessarie per

assumere responsabilità sempre maggiori. Tale trasferimento di

responsabilità è realizzato da adulti e bambini congiuntamente. (Rogoff,

1990, pp. 99-100).

La specializzazione dei ruoli nella cura dei bambini, ci porta all’analisi

di un terzo contesto dell’apprendimento, la scuola intesa come

l’istituzione formativa tradizionalmente deputata, nella nostra cultura,

138

alla gestione e all’organizzazione dei processi di apprendimento105.

Le ricerche transculturali hanno dimostrato che esiste uno stretto

legame tra scolarizzazione e prestazioni ai test di classificazione e

memoria (Rogoff, 1981; Wagner - Spratt, 1987; Cole, 1990) e che

strumenti culturali quali la scrittura106 e la matematica107 stimolano

particolari forme di pensiero108 nelle società in cui le pratiche

dell’alfabetizzazione sono onnipresenti e interrelate109.

105 «Nei paesi industrializzati, la responsabilità della comunità nei confronti della cura e dell’educazione del bambino si compie attraverso operatori specializzati e retribuiti, quali insegnanti, educatori, assistenti sociali, pediatri, e anche istituzioni per l’infanzia e pubblicazioni specializzate su questi temi […]. Di fatto sono gli “esperti” a stabilire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato nella cura e nell’educazione dei bambini. Ciò si riflette anche nelle leggi che regolano i diritti dei genitori e nelle politiche promosse dagli enti sociali […].

Da un punto di vista storico, gli insegnanti sono probabilmente i più importanti operatori specializzati nella cura e nell’educazione del bambino. Il loro ruolo è emerso verso la fine dell’Ottocento, quando in molti paesi la scuola divenne un aspetto centrale della vita dei bambini» (Rogoff, 2003, pp. 130-131). 106 Cfr., Havelock, 1963; Ong, 1967, 1977, 1982; Goody, 1986, 1987; Goody - Watt, 1963; Olson, 1979; Olson - Torrance (a cura di) 1991. 107 Le ricerche transculturali sulle abilità matematiche, come quelle sull’alfabetizzazione, hanno indicato il ruolo fondamentale degli strumenti culturali utilizzati per lo svolgimento di tali pratiche; strumenti quali abachi, sistemi di calcolo scolastici, sistemi metrici, rappresentazione dei numeri attraverso l’indicazione di parti del corpo o gettoni d’argilla (Ellis, 1997; Nicolopoulou, 1997; Saxe, 1981, 1991). Le strategie utilizzate per risolvere problemi matematici dipendono strettamente dalle finalità del calcolo e dalla disponibilità di strumenti (Cole, 1996; Lave, 1988; Scribner, 1984). 108 «Esaminando la ricerca sulle abilità cognitive di persone scolarizzate e non, sono giunta alla conclusione che gli individui scolarizzati acquisiscono un’ampia varietà di abilità cognitive che sono in relazione con le attività scolastiche [Rogoff, 1981]: l’istruzione formale stimola le abilità percettive nell’uso di convenzioni grafiche per rappresentare la profondità in stimoli bidimensionali e nell’analisi di modelli bidimensionali. Le persone scolarizzate vengono addestrate a ricordare intenzionalmente unità non connesse di informazioni e sono più portate delle altre a ricercare spontaneamente strategie volte a organizzare informazioni tra loro non collegate per poterle memorizzare. Gli individui scolarizzati organizzano più facilmente gli oggetti presentati nel test in base a una struttura tassonomica, raggruppando oggetti categorialmente simili, mentre gli individui privi di istruzione formale impiegano spesso raggruppamenti funzionali di oggetti che vengono utilizzati insieme. Mostrano, inoltre, maggiori abilità nel passare a parametri di classificazione alternativi e nel fornire spiegazioni nel tipo di organizzazione adottato. L’istruzione formale non sembra avere a che fare con l’apprendimento di regole o con il pensiero logico, almeno non finché l’individuo non abbia compreso il problema secondo la prospettiva dell’esaminatore. I soggetti non scolarizzati sembrano preferire, comunque, una conclusione fondata sulla base dell’esperienza piuttosto che contare esclusivamente sui dati forniti dal problema. È possibile che l’istruzione formale sia necessaria per la risoluzione di problemi basati sulle operazioni formali di Piaget.

139

La relazione tra scolarizzazione e abilità cognitive può sembrare ampia,

in parte a causa delle relazioni storiche tra test sulle abilità intellettive e

istruzione formale. Come evidenziato da Cole, Sharp e Lave (1976), i

primi test di intelligenza messi a punto da Binet erano basati su compiti

scolastici, dato che il suo obiettivo era quello di predire le prestazioni

scolastiche. Non è un caso che i nostri parametri di intelligenza siano

riferiti all’istruzione formale. Questa relazione può derivare anche dal

fatto che, come osserva Neisser (1976), le abilità di coloro che

elaborano i test (gli accademici) sono scelte come basi per definire

l’intelligenza. (Rogoff, 1990, pp. 52-53).

La scuola è un’istituzione complessa che si rivolge ai bambini, alle

famiglie e indirettamente a tutta la società. Questo contesto Sono giunta alla conclusione che i dati non confermano il concetto di abilità generali; piuttosto, individuano un effetto della scolarizzazione sulla performance, o una relazione locale tra pratiche scolastiche e attività cognitive specifiche (vedi anche Wagner, Spratt, 1987)» (Rogoff, 1990, p. 52). 109 Scribner e Cole (1981) hanno tratto le stesse conclusioni cui è giunta Rogoff attraverso ricerche in Liberia con i bambini Vai sottoposti a diverse forme di alfabetizzazione (Vai, coranica, inglese). I risultati di questi autori indicano che l’alfabetizzazione è legata alle abilità cognitive attraverso le specifiche pratiche di letto-scrittura, con forme diverse di lingua scritta (fonetica, con o senza la divisione delle parole, alfabetica) e generi diversi (prosa saggistica, lettere, storie, elenchi, poesie) che stimolano abilità cognitive diverse. «L’educazione scolastica formale è costituita come una serie di pratiche, così come l’alfabetizzazione in Vai o le forme Vai di alfabetizzazione coranica. La superiorità degli individui scolarizzati nei compiti da noi assegnati non è dovuta alla loro capacità di leggere e scrivere per sé, così come nel caso di individui alfabetizzati in Vai o tramite l’insegnamento coranico. Per esempio, il fatto che l’istruzione scolastica favorisca l’abilità di illustrare verbalmente i processi di problem solving è spiegabile nel più naturale dei modi, semplicemente dal fatto che tali abilità sono requisiti del tipico dialogo docente-allievo in ambiente scolastico (Griffin e Mehan, 1981; Mehan, 1979). Spesso, gli insegnanti chiedono agli studenti di rispondere a richieste del tipo: “Perché hai dato quella risposta?” oppure “Vai alla lavagna e spiegaci quello che hai fatto”.

Se localizziamo il mutamento cognitivo nelle pratiche culturali e applichiamo questo principio alle pratiche dell’educazione scolastica (come a quelle relative alla stesura di lettere e all’annotazione di fatti) e trattiamo gli esperimenti cognitivi alla stregua di modelli delle pratiche correlate, potremmo raggiungere quella simmetria tra metodi sperimentali e pratiche quotidiane […].

Il nostro approccio orientato alle pratiche culturali e basato sulle attività ha posto in risalto che, se gli usi della scrittura sono pochi, lo sviluppo di abilità che questi agevolano sarà anch’esso limitato a un ristretto numero di compiti, in un novero di domini di attività e contenuti proporzionatamente ristretto» (Cole, 1996, pp. 202-203).

140

d’apprendimento è profondamente radicato nelle comunità, nei paesi

e nelle culture; in tal senso, riflette e nello stesso tempo influenza il

cambiamento sociale. Obiettivi e mezzi valorizzati dalle tradizioni

della società si intrecciano con le pratiche scolastiche. La scelta di

una tecnologia particolare (l’uso di un tipo linguaggio per spiegare un

evento, una certa modalità di relazione, l’opportunità di ricorrere a

determinati strumenti per risolvere un particolare problema),

l’organizzazione del contesto relazionale d’apprendimento (la classe

omogenea per età o per abilità; l’organizzazione dell’apprendimento

in forma diadica, per piccoli, medi o grandi gruppi), la strutturazione

dello spazio “fisico” in cui ha luogo (la classe, il laboratorio, il

cortile…) riflette il consenso generale della società riguardo

all’approccio condiviso, in sintonia con i sistemi di valori e gli obiettivi

culturali (Berger, Luckmann, 1996; Wertsch, 1987).

Come altre istituzioni sociali, la scuola permette di fare pratica nell’uso di

strumenti e tecnologie specifiche per risolvere problemi particolari.

Questi strumenti comprendono dispositivi di memorizzazione; generi

diversi di linguaggio, come i testi saggistici, le narrazioni storiche, le

procedure di calcolo e di archiviazione, l’aritmetica e la scrittura.

Le istituzioni della società e gli strumenti del pensiero portano con sé

valori che definiscono quali siano gli obiettivi importanti da raggiungere, i

problemi fondamentali da risolvere e gli approcci sofisticati da utilizzare

per affrontare quei problemi e per raggiungere quegli obiettivi. I valori

variano in relazione all’importanza che attribuiscono all’indipendenza o

all’interdipendenza, alla responsabilità sociale a fronte del progresso

tecnologico, all’analisi di quesiti o di schemi inseriti in contesti pratici,

alla velocità d’azione rispetto all’intenzionalità pianificata, e in relazione

a molti altri criteri. (Rogoff, 1990, p. 225).

141

L’apprendimento come sviluppo contestualizzato e storico110, la

concezione della costruzione della conoscenza come attività situata

e distribuita che si dischiude all’interno di comunità di pratiche come

proprietà emergente che riguarda l’intero contesto, l’importanza

attribuita alla conoscenza pratica, il passaggio da una concezione

dell’apprendimento come fenomeno individuale all’apprendimento

come processo di partecipazione al mondo sociale e culturale hanno

recentemente portato i ricercatori ad analizzare che cosa si apprenda

effettivamente a scuola a partire dal tipo d’organizzazione dell’attività

che è tipico della scuola stessa oltre che a valorizzare l’importanza di

altri contesti (informali e non-formali) di apprendimento.

L’aspetto paradossale è che, nel momento in cui conoscenza e

apprendimento sono stati riconosciuti come attività che si praticano e si

esercitano in luoghi sociali naturali quali la famiglia (Ochs, Taylor 1992;

Fasulo, Pontecorvo, 1994), laboratori di ricerca, luoghi di lavoro ad alta

tecnologia (Hutchins, Palen, 1993) e/o ad alta interazione (Suchman,

1993), investigazioni scientifiche di archeologia (Goodwin, 1994) e di

chimica (Goodwin, 1993), diventa arduo presupporre o dare per

scontato che attività cognitive complesse si possano verificare anche in

luoghi “artificiali”, per quanto ad esse deputati dalla società, quali sono le

scuole, le Università o i laboratori di sperimentazione psicologica!

(Pontecorvo, 1995, p. 30).

Alla scuola è richiesto di “mettersi in rete” con altri contesti

d’apprendimento, quelli non formali (gli altri soggetti

“intenzionalmente” formativi) e informali e di confrontarsi con una

varietà di problematiche, relative sia alla qualità degli apprendimenti

che si producono in questi contesti, sia al valore formativo di tali

dimensioni dell’apprendere, in cui emergono significative istanze di

formazione del sé. La dimensione di questi spazi sta assumendo una

110 Per un’analisi tra istituzioni prescolari e contesti culturali cfr. Tobin, Wu, Davidson, 1989.

142

notevole ampiezza e rappresenta il contesto in cui viene a definirsi la

maggioranza delle esperienze d’apprendimento nell’ambito dei

processi di formazione individuali: si apprende sempre più

diffusamente attraverso occasioni e proposte formative costruite e

scelte sulla base di specifici e settoriali bisogni di conoscenza

(apprendere l’uso di nuove tecnologie, nuove procedure operative,

diversi software…) o sulla base di più generiche istanze di “crescita

culturale” o di “cambiamento educativo”. In questo scenario,

particolare rilevanza assume il ruolo svolto dalle nuove tecnologie

informatiche che, nel quadro dei sistemi formativi contemporanei

vengono a delineare i «luoghi di interfacciamento» con il sistema

sociale.

Lauren Resnick (1987) individua quattro elementi di discontinuità tra

l’apprendimento che si verifica a scuola e quello che si verifica al di

fuori della scuola. L’apprendimento scolastico si configura per lo più

come un processo individuale, che valorizza attività di «puro

pensiero» privo di strumenti materiali111, un pensiero veicolato per lo

più da strutture simboliche decontestualizzate, focalizzato su

strutture di conoscenza generali più che su saperi e conoscenze

specifiche e funzionali.

Nel considerare alcuni dei modi in cui si apprende al di fuori della

scuola Resnick suggerisce di recuperare, nella pratica didattica,

l’efficacia formativa dell’apprendistato: la ricerca di Jean Lave (Lave

– Wenger, 1991) sull’apprendistato della sartoria in Liberia sottolinea

come sia possibile raggiungere una competenza esperta con poco

insegnamento diretto, molta osservazione, attraverso esercizi

111 «Nella scuola, il maggior merito è indirizzato ad attività di “puro pensiero”, quello che gli individui sanno fare senza il supporto esterno di libri e appunti, calcolatrici, o altri strumenti complessi. Sebbene alcune volte l’uso di questi strumenti possa essere permesso durante l’apprendimento scolastico, essi sono sempre assenti durante le verifiche e gli esami. Almeno implicitamente, quindi, la scuola è un’istituzione che valorizza il pensiero che procede autonomamente, senza l’ausilio di strumenti materiali e cognitivi. Diversamente, la maggior parte delle attività mentali al di fuori sono intimamente connesse con gli strumenti, e l’attività cognitiva emergente è formata ed è dipendente dal tipo di strumenti disponibili» (Resnick, 1987, p. 63).

143

semplici e un graduale inserimento in pratiche concrete via via più

complesse.

Nell’esaminare il difficile rapporto che si stabilisce tra le conoscenze

acquisite a scuola e quelle quotidiane possedute da chi impara (che

può assumere le forme di «totale incomunicabilità» quando si

determina l’incapsulamento) Engeström (1991) presenta tre diverse

prospettive teoriche: quella di Davidov dell’«ascensione dall’astratto

al concreto», quella di Lave e Wenger della «partecipazione

periferica legittima» e la propria, dell’«apprendimento per

espansione». Caratteristica comune ai tre modelli è quella di

affrontare l’incapsulamento dal punto di vista dell’intervento

educativo, individuando in esso le ragioni dell’insuccesso e le

possibili soluzioni.

Riposizionare l’apprendimento all’interno delle comunità di pratica

comporta anche una distinzione/decentramento tra i processi di

apprendimento e di insegnamento: se ciò che effettivamente struttura

le opportunità di apprendimento sono le pratiche di lavoro, occorre

rivedere anche la relazione, fortemente asimmetrica, tra chi insegna

e chi apprende.

Etienne Wenger nel considerare le comunità di pratica come «storie

condivise di apprendimento» (Wenger, 1998, p. 102), assegna

all’insegnamento e all’apprendimento uno status indipendente, al fine

di evidenziare sia l’autonomia dei processi di apprendimento sia gli

equivoci che si creano quando si privilegia la “struttura pedagogica”

come fonte di apprendimento.

Focalizzarsi sull’insegnamento non equivale a focalizzarsi

sull’apprendimento. Le due cose non sono speculari. In un contesto

didattico, come un’aula scolastica o una sessione formativa, la

reificazione dell’apprendimento combinata con l’autorità istituzionale può

dare facilmente l’impressione che sia l’insegnamento a produrre

l’apprendimento. Eppure l’apprendimento che si verifica effettivamente

non è altro che una risposta alle intenzioni pedagogiche del contesto.

144

L’insegnamento non produce l’apprendimento. Crea un contesto nel

quale avviene l’apprendimento, che può avvenire anche in altri contesti.

- L’apprendimento e l’insegnamento non sono intrinsecamente legati.

L’apprendimento avviene in gran parte senza l’insegnamento,

l’insegnamento avviene in gran parte senza l’apprendimento.

- Nella misura in cui l’insegnamento e l’apprendimento sono legati alla

pratica, quel rapporto non è di causa ed effetto, ma di risorse e

negoziazione.

In altre parole, l’insegnamento non causa l’apprendimento: ciò che viene

appreso potrebbe anche non essere ciò che viene insegnato, o più in

generale ciò che intendeva l’organizzazione istituzionale del processo

didattico. Apprendere è un processo emergente e continuativo, che

potrebbe usare l’insegnamento come una delle sue tante risorse

strutturanti. Da questo punto di vista, gli insegnanti e i materiali didattici

diventano risorse per l’apprendimento in maniera molto più complessa

che attraverso le loro intenzioni pedagogiche. (Ibidem, p. 297).

L’apprendimento non è mai semplicemente questione di

“trasmissione di conoscenze e acquisizione di abilità”. Eppure, le

rappresentazioni che informano la pratica educativa vedono lo

scolaro come una persona che “apprende conoscenze” (nel senso

che le internalizza), che possono “essere scoperte”, o “trasmesse da

altri”, o “sperimentate nell’interazione con gli altri”. Esito del

paradigma dell’internalizzazione è l’istituzione di una dicotomia tra

“interno” ed “esterno”, che rimanda ad un’idea “celebrale” della

conoscenza e che assume colui che è “sottoposto al processo di

apprendimento” come unità d’analisi. A questo tipo di paradigma si

oppone l’apprendimento come partecipazione crescente a comunità

di pratiche, in cui pensiero e sapere sono relazioni tra persone attive

“nel e con” il mondo socialmente e culturalmente strutturato e in cui

l’apprendimento può essere inteso come “produzione storica,

trasformazione e cambiamento delle persone” che agiscono in quel

contesto.

145

Mentre i dibattiti pedagogici si concentrano su dicotomie quali

autorità/libertà, istruzione/scoperta, apprendimento

individuale/apprendimento collaborativo, formazione “direttiva”/

esperienza diretta, Wenger sottolinea come il vero problema che sta

alla base di tutti questi dibattiti sia l’interazione tra il deliberato

(pianificato) e l’emergente, «vale a dire la capacità dell’insegnare e

dell’apprendere di interagire fino a diventare risorse reciprocamente

strutturanti» (Ivi).

Anziché sulla diade insegnante-discente, questa prospettiva

focalizza l’attenzione su un campo di attori piuttosto variegato

composto da novizi ed esperti, caratterizzato da rapporti asimmetrici

e tra pari, da sistemi di attività più o meno accessibili e trasparenti e

su una conseguente pluralità di forme di relazione e partecipazione.

Lave e Wenger (1991) sollevano una serie di questioni, tra le quali

alcune riguardano il ruolo della conoscenza nella pratica,

l’importanza dell’accesso al potenziale di apprendimento di

determinati ambienti, gli usi del linguaggio e delle storie

nell’apprendimento dall’esperienza e di come la conoscenza

acquisisca valore per la persona che apprende nel momento in cui

prendono forma le identità di piena partecipazione.

Secondo Wenger gli aspetti individualistici dell’impostazione

cognitiva, lungi dal sottolineare attenzione nei confronti della

persona, tendono in verità a promuovere una concezione non

personale della conoscenza, delle abilità, dei compiti e

dell’apprendimento.

Di conseguenza, tanto le analisi teoriche che le prescrizioni

pedagogiche risentono in genere dei limiti dovuti al fatto di fare

riferimento ad “ambiti di conoscenze” reificati e a meccanismi di

apprendimento universali intesi in termini di acquisizione e

assimilazione. D’altro canto, insistere a voler partire dalla pratica sociale,

riconoscere la centralità della partecipazione e porre al centro dell’analisi

il mondo sociale solo in apparenza porta a mettere in secondo piano la

146

persona. In realtà il concetto di partecipazione a una pratica sociale –

soggettiva e oggettiva – induce a considerare in modo esplicito la

persona. E questa attenzione promuove una concezione del sapere

inteso come attività di persone specifiche in circostanze specifiche […].

Le attività, i compiti, le funzioni, e le cognizioni non esistono

isolatamente, ma sono parte di sistemi di relazioni più ampi in cui hanno

significato. Questi sistemi di relazioni si producono, riproducono e

sviluppano all’interno di comunità sociali, che in parte sono sistemi di

relazioni fra persone. La persona è definita da queste relazioni e al

contempo le definisce. L’apprendere implica quindi il divenire una

persona diversa in relazione alle possibilità aperte da questi sistemi di

relazioni. Ignorare questo aspetto dell’apprendimento significa

trascurare il fatto che l’apprendimento comporta la costruzione

dell’identità. (Wenger, 1998, p. 35).

Il costrutto della partecipazione legittima periferica in questo caso

aiuta e suggerisce di tematizzare la «formazione» in termini di

partecipazione a una comunità di pratiche specifica che si costituisce

come «comunità di apprendimento» in cui i temi dell’identità e di

come vengono acquisite le conoscenze diventano primari rispetto

all’acquisizione di abilità specifiche e di informazioni.

Il lavoro mentale socialmente condiviso, un coinvolgimento più diretto

con i referenti, l’impegno esplicito nella costruzione e interpretazione dei

significati, il pensare intorno a particolari ambiti di conoscenza (e non in

vista di abilità generali): queste sono le caratteristiche dei programmi più

efficaci nell’insegnare a pensare anche nel contesto della scuola […]. In

questa linea teorica, alle scuole è richiesto di sviluppare abiti mentali di

questa natura attraverso il loro divenire vere e proprie comunità di

“apprendisti discenti” (Brown, Ellery-Campione, 1994) dove si impara a

pensare e a ragionare e dove si è introdotti alle attività e alle pratiche di

discorso scientifico che sono specifiche di una varietà di domini di

conoscenza (Pontecorvo, Girardet, 1993). E’ comune a questi modelli il

fatto che la conoscenza sia prodotta, e verificata nell’interazione e che

147

l’expertise sia distribuita in modo da fornire una più ricca base di

conoscenza per tutti. (Pontecorvo, 1995, p.32).

148

149

Capitolo secondo

LA SIMBOLIZZAZIONE GRAFICA

La pittura è una bugia che dice la verità

(Picasso)

La mano, l’occhio e il segno sono gli elementi essenziali dell’attività

grafica.

L’occhio e la mano sono il padre e la madre dell’attività artistica. Il

disegnare, dipingere e modellare fanno parte del comportamento

motorio umano, ed è lecito supporre che essi si siano sviluppati da due

più antichi e più generali aspetti di tale comportamento: il movimento

fisionomico e descrittivo. (Arnheim, 1954, p. 150).

Il disegno chiama in causa la polarità funzionale mano-utensile e si

configura come modalità di espressione specifica: la mano è

creatrice di immagini e di simboli che, sotto la guida dell’occhio, si

sviluppano e si affiancano al linguaggio verbale112.

112 Le ipotesi sull’evoluzione cui si fa riferimento in questa parte del saggio sono fondamentalmente quelle di A. Leroi-Gourhan (1965) sul versante della biologia e della paleoantropologia e quelle di J.C. Eccles (1989) nell’ambito propriamente neurologico, dove l’attenzione viene prevalentemente focalizzata sul cervello e sui suoi cambiamenti lungo la scala filogenetica. Entrambi gli autori si richiamano alla teoria evoluzionista darwiniana (collocazione dell’uomo nella scala animale, modificazione della specie legata alla selezione naturale e sessuale) tuttavia ciò che maggiormente sottolineano è il processo evolutivo del mondo vivente nel suo complesso (vegetale e animale insieme) in accordo con le teorie ecologiche sostenute in questa tesi.

150

Come per le abilità linguistiche e ludiche, anche per il simbolismo

grafico si può parlare di processo di sviluppo che trova in ogni

bambino un modo personale di evolversi113 e uno “stile” che

sottolinea modalità individuali di vedere, sentire, esprimere significati,

all’interno di una cornice comune di evoluzione che si dispiega per

“tappe”.

Nel nostro contesto culturale il simbolismo grafico si realizza

complessivamente dal grafismo cinestesico alla figurazione,

passando attraverso fasi intermedie che evidenziano da un lato i

processi evolutivi delle capacità motorie, attentive, percettive e

dall’altro, il progressivo possesso di strumenti culturali. Questo

processo è inserito in un contesto di apprendimento,

prevalentemente quello scolastico, che si avvale di determinate

pratiche culturali e di codici pedagogici specifici.

Lo sviluppo dell’abilità grafica non è un’acquisizione mentale

individuale, né un’evoluzione continuativa dello strumento espressivo

in sé, ma una “trasformazione sociale” che si radica in contesti di

interazione con altre persone all’interno di una cornice di

condivisione di scopi, strumenti e attività.

Questo quadro rimanda alle teorie che fanno riferimento al modello

vygotskijano (1934; 1930-31) il quale sottolinea come i processi

psichici superiori siano sempre situati in un contesto storico-sociale

dal quale traggono origine e alimento.

Il livello e la forma del sostegno fornito ad ogni linguaggio simbolico

varia a seconda dello specifico dominio o sistema simbolico.

Sappiamo che, come esseri umani, investiamo molto nell’iniziare i

più piccoli all’uso del linguaggio verbale sin dalla nascita (Bruner,

113 Con questo si vuole riconoscere come, all’interno di una stessa cultura, gli individui, anche se trattati nei modi più appropriati ed equivalenti, possono differire significativamente l’uno dall’altro in capacità intellettuali, nell’abilità di imparare, nell’uso delle loro facoltà, in originalità e creatività.

151

1983a). Il sostegno nella comprensione e nella produzione dei

simboli grafici è meno forte, soprattutto nella nostra cultura, rispetto

ad altri contesti storico-culturali.

Inoltre

le variazioni individuali riscontrate in altri campi […] relativamente al

disegno si accentuano, proprio perché il comportamento grafico

dell’adulto, nell’interazione con il bambino è meno uniforme. Tutti i

bambini sono continuamente esposti al linguaggio e tutti vengono

sollecitati a parlare; mentre non tutti vengono sollecitati a disegnare.

Quegli adulti che curano questo aspetto dello sviluppo possono farlo, e

di fatto lo fanno, nelle maniere più varie. (Pizzo Russo, 1988, p. 213).

Tuttavia, nel corso dello sviluppo, grazie alla frequenza della scuola

dell’infanzia prima e della scuola dell’obbligo dopo, grazie ai diversi

rapporti (diretti e indiretti) con i codici iconici che si trovano

nell’ambiente che li circonda, tutti i bambini raggiungono lo stadio

della figurazione nella produzione di simboli grafici.

Ma poiché gli ambienti non sono omogenei, quanto alla presenza e

all’uso di carta e matita, né tanto meno il comportamento degli adulti

segue norme uniformi nel fornire ai bambini stimoli e modelli per il

disegno, va da sé che i bambini iniziano a tracciare segni ad età molto

diverse e i loro primi tracciati possono assumere varie configurazioni,

dipendendo, anche queste ultime, sia dallo sviluppo psicomotorio che

dal contesto ambientale che tale sviluppo ha assicurato. (Ibidem, p.

212).

Il disegno coniuga il fare con il conoscere e il comunicare

muovendosi contemporaneamente su più piani: espressivo, cognitivo

e comunicativo-informativo.

In particolare l’analisi dell’attività grafica, nella fase più avanzata del

suo sviluppo, prevede la considerazione di due processi, ugualmente

fondamentali, che si riferiscono a procedimenti di “lettura-scrittura”

152

del mondo: il processo esplorativo-conoscitivo da un lato e quello

espressivo-interpretativo dall’altro, entrambi fondati sull’uso di segni

e che presuppongono la padronanza da parte del bambino di quei

processi cognitivi che sono diretti a scopi rappresentativi.

Ogni disegno può essere considerato come un sistema di riferimento

costituito da una rete di rapporti esterni (informazioni sull’oggetto e

sul contesto relazionale implicito o esplicito) utilizzati come stimolo e

strumento per articolare complesse connessioni interne che

restituiscono informazioni sul punto di vista del disegnatore.

In questo capitolo verranno prese in considerazione le principali

teorie dello sviluppo del grafismo, secondo la classificazione stadiale

che tradizionalmente ne è stata fatta e attraverso le principali linee

interpretative percorse da autori e ricercatori. Data la

sovrabbondante letteratura sul disegno, quella che viene proposta di

seguito, non può che esserne una selezione, senza pretese di

esaustività.

Si cercherà poi di evidenziare come l’interesse per il disegno abbia di

volta in volta riguardato aspetti diversi del fenomeno e di come il

concetto di “arte infantile” abbia condizionato e tutt’ora condizioni il

dibattito teorico, i campi di ricerca e le modalità di utilizzo dei disegni

dei bambini.

Nel paragrafo conclusivo riprenderemo i temi trattati

precedentemente allo scopo di esaminare le specificità dell’attività

grafica come codice espressivo-comunicativo e, in tale operazione ci

serviremo di ipotesi, risultati e ricerche elaborate dalla psicologia

della percezione.

Nel corso di questo capitolo verranno altresì presentati i materiali

raccolti durante la ricerca: essi saranno un utile strumento esplicativo

rispetto ai temi che verranno di volta in volta tratti e le analisi che ne

saranno fatte serviranno a supportare le tesi illustrate.

153

2 Teoria delle rappresentazioni pittoriche e sviluppo

dell’espressione grafica dalle origini all’ottavo

anno di vita.

Gli scarabocchi sono un inizio ed è agli inizi che si pongono le premesse

di ogni aspetto della personalità futura. Non tutti i bambini che

scarabocchiano diventano scrittori o artisti, ma scrittori e artisti hanno

iniziato scarabocchiando. Non è neppure possibile distinguere per

qualità formali gli scarabocchi di chi è divenuto artista da colui che ha

completamente smesso di disegnare, ma ciò non comporta

necessariamente una vanificazione dell’atto di scarabocchiare. (Quaglia,

2003, p. 61).

La variabilità con cui ogni bambino attraversa le fasi di sviluppo di

seguito presentate è un fattore di cui occorre tener presente

nell’analisi dello sviluppo grafico e che dipende sia delle singole

individualità che dell’influenza esercitata dall’ambiente.

Tale variabilità si evidenzia anche nel confronto tra le grafiche

raccolte durante la ricerca [vedi volume allegato] e le età dei bambini

che le hanno prodotte.

Lo stesso bambino può servirsi di un’intera gamma di tecniche nello

spazio di un solo giorno, settimana o mese (Arnheim, 1954), inoltre

bambini della stessa età disegnano figure in maniere molto diverse.

Si vedano ad esempio le figure 1, p. 5; 113, p. 73; 118, p. 76

“tartarughe”. Le figure 52, p. 33; 54, p. 34; 78, p. 49; 93; p.57 “la

fiaba de’ I tre Porcellini”. Le figure 56, p. 35 e 77, p. 48 “la fiaba di

Cappuccetto Rosso”. Le figure 58, p. 36 e 64, p. 39 “il gioco dei

ragni”. Le figure 63, p. 39; 84, p. 52; 130, p. 82 “il gioco dei canestri”.

La figura 71, p. 45 “cani”.

Gli autori di questi disegni sono tutti bambini di età compresa tra i 5 e

i 6 anni che, pur frequentando la stessa sezione di scuola

dell’infanzia (Scandiano, Reggio Emilia) da tre anni e con le stesse

154

insegnanti, danno interpretazioni grafiche completamente diverse dei

soggetti che intendono rappresentare.

Accanto ad una variabilità di “stile personale” nella valutazione-

analisi delle grafiche occorre considerare il contesto della loro

produzione e gli scopi per cui sono state prodotte. I bambini possono

scegliere di disegnare ad esempio figure “più complesse”, quando si

tratta di un unico soggetto o del protagonista di una scena, e figure

“più semplici” quando queste fanno parte di una scena dove luogo e

azione sono aspetti più importanti.

A titolo esemplificativo si osservi la figura 2, p. 6, dove Giulia (5,7) in

tre momenti diversi dello stesso mese, si rappresenta in altrettante

modalità, a seconda della posizione che il suo Sé occupa nella

narrazione grafica: in 2a l’ospite di una festa di compleanno (in cui il

soggetto più importante sembra essere la torta di compleanno del

papà); in 2b la co-protagonista, insieme a due amiche, di un’attività

vissuta in palestra; in 2c la protagonista di un’altra attività in palestra

vissuta la settimana successiva.

Il confronto tra i tre disegni di Giulia evidenzia inoltre quanto si possa

rivelare fallace l’uso dei disegni (specie di uno solo) come misura

dello «sviluppo cognitivo»; le tre rappresentazione sembrano

suggerire diverse idee del sé in relazione a un più ampio contesto

rappresentativo che comprende lo scopo per cui il disegno è stato

prodotto, la comprensione della consegna dell’adulto, la scelta di

determinati soggetti per esprimere un contenuto... e tanto altro.

Le teorie che stabiliscono una forte corrispondenza tra l’evoluzione

della rappresentazione grafica e il più generale sviluppo cognitivo

(orientamento psicometrico), autorizzano l’uso dei disegni per

cogliere e “misurare” lo sviluppo intellettivo del bambino. Tale utilizzo

si è rivelato arbitrario alla luce di nuovi modelli di interpretazione e

lettura dei prodotti dei bambini e di una maggiore considerazione

delle diversità individuali, dei fattori esperienziali e delle differenze

culturali nella definizione degli obiettivi dello sviluppo che

155

intervengono in ogni processo di ideazione e produzione di artefatti

materiali e simbolici114.

Solo ai fini di una teoria sistematica lo sviluppo della forma può venir

presentato come una standardizzata sequenza di passi, ben distinti gli

uni dagli altri. E’ possibile, e anche utile, isolare le varie fasi e allinearle

in termini di complessità crescente; ma questa sequenza corrisponde

soltanto approssimativamente a ciò che realmente avviene in qualsiasi

esempio concreto. Bambini diversi toccheranno le diverse fasi in periodi

di tempo diversi […]. Lo sviluppo della struttura percettiva non è che un

fattore al quale altri fattori si possono sovrapporre modificandolo nel

processo globale dell’evoluzione mentale. Inoltre, stadi dell’evoluzione

più remoti possono permanere anche quando siano stati raggiunti stadi

più progrediti; e, quando si trova di fronte a una difficoltà, il bambino può

retrocedere a una situazione primitiva […]. Si dovrebbe anche tener

presente il fatto che non esiste un rapporto fisso tra l’età del bambino e il

grado d’evoluzione dei suoi disegni. Esattamente come i bambini della

stessa età variano per quella che viene indicata come età mentale o

114 Le teorie stadiali forniscono un quadro normativo anche per quanto riguarda lo sviluppo del disegno, dandoci un’idea di cosa possiamo aspettarci da un bambino a una data età. Nel corso del tempo, esse sono state tuttavia oggetto di numerose critiche da parte di autori quali Golomb (2002), Tallandini, Valentini, (1990), Thomas, Silk (1990) per citarne alcuni. Eleonora Cannoni così riassume le principali critiche ad esse rivolte:

• una suddivisione evolutiva in stadi penalizza l’idea della continuità dello sviluppo umano. Non è facile identificare il momento in cui si verifica un cambiamento “studiale”: si assiste piuttosto a modificazioni quasi insensibili, e forse di tanto in tanto a qualche improvvisa scoperta. Inoltre, accanto ai progressi, nel disegno si verificano anche temporanei regressi

• la sequenza evolutiva individuata non sempre viene rispettata fedelmente: è possibile sia saltare del tutto uno stadio passando direttamente al successivo, sia che due stadi si fondano tra loro, dando vita ad un “ibrido”

• il livello evolutivo delle abilità pittoriche non sembra strettamente collegato con l’età cronologica; molti adolescenti e adulti non raggiungono mai lo stadio del realismo visivo […]; viceversa, bambini nella fase dello scarabocchio possono disegnare una figura umana completa se un adulto enuncia loro verbalmente la progressione delle parti del corpo.

L’autrice conclude affermando che «sulle abilità pittoriche sembra invece influire l’esperienza, ossia il livello di familiarità e di confidenza sia nell’eseguire disegni personali (produzione pittorica), sia nell’osservare quelli prodotti da altri (fruizione pittorica)» (Cannoni, 2003, pp. 20-21).

156

intelligenza, così varia pure il grado di maturità che si riflette nei loro

disegni. (Arnheim, 1954, pp. 158-159).

Tenuto conto di queste importanti premesse, gli studiosi che si sono

occupati dell’evoluzione del disegno individuano generalmente tre

momenti fondamentali relativi rispettivamente alla genesi dei primi

tracciati (sedici-diciotto mesi/tre anni), al passaggio dallo

scarabocchio allo “schema figurativo” (tre/sei anni) e alla comparsa

della figurazione come linguaggio simbolico vero e proprio (sei/otto

anni). Si tratta di una cornice convenzionale, utile a tratteggiare lo

sviluppo del disegno: le età in cui i diversi autori situano la comparsa

di un particolare fenomeno sono indicative e la variabilità

interindividuale molto forte.

In questo paragrafo, per ogni fase dello sviluppo grafico si

prenderanno in esame ipotesi e teorie, nonché orientamenti che

studiosi dell’argomento hanno via via elaborato per rendere conto di

questa manifestazione specificatamente umana115. Uno spazio

privilegiato sarà riservato al passaggio dallo scarabocchio allo

schema figurativo, trattandosi del periodo di sviluppo oggetto, nello

specifico, della ricerca.

Diverse discipline si sono occupate dello studio del disegno:

psicologia, pedagogia, sociologia, antropologia e discipline artistiche.

115 «Di fatto, non solo i bambini ma anche “le scimmie riconoscono quasi spontaneamente le immagini al tratto di oggetti familiari”. Lo scimpanzè Viki usava le fotografie per ottenere da Keith e Cathy Hayes gli oggetti che voleva, percepire un disegno, riconoscendolo come raffigurante un oggetto, non è tuttavia in nessun modo produrlo […].

Così, se il riconoscimento di disegni accomuna bambini e scimmie, la produzione li differenzia. L’invenzione di forme grafiche è specifica della specie uomo […]. “Nessuna scimmia, non importa di che età ed esperienza, è stata finora capace di uno sviluppo grafico fino allo stadio pittorico della semplice rappresentazione”. Del resto, ad un’analisi attenta della documentazione sull’arte degli scimpanzè e sull’attività grafica iniziale del bambino, si evince che le capacità del bambino e del primate divergono da molto prima […]. Per lo scimpanzè l’imitazione dell’azione grafica dell’adulto si ferma allo stadio dello scarabocchio, mentre il bambino procede nell’’imitazione” della forma dei segni tracciati dall’adulto, e nell’imitazione della forma degli oggetti”. “Imitare” la forma degli oggetti non deve essere tanto semplice se nessuno dei 32 primati infraumani, di cui riferisce Morris, vi è riuscito» (Pizzo Russo, 1988, pp. 196-198).

157

In ambito più strettamente psicologico, sono stati fatti usi svariati

delle manifestazioni grafiche dei bambini: ne sono stati ricavati test

psicometrici di diversi tipi, sono stati utilizzati come misura della

creatività infantile e come rilevatori di tratti della personalità nei

setting psicanalitici. Quel che segue non può che essere una mappa

orientativa di autori e teorie utile ad evidenziare i rapporti tra lo

sviluppo del pensiero simbolico, l’ambiente in cui tale sviluppo ha

luogo e quella forma specifica di espressione che è l’attività grafica.

In questo senso non verranno prese in considerazione le teorie

psicanalitiche e cliniche in modo specifico, ma verranno selezionati

alcuni autori e modelli teorici e ne saranno lasciati sullo sfondo altri,

presentati tuttavia nella sezione bibliografica.

2.1 Il disegno come movimento

Secondo molti autori, all’inizio, il di-segnare non è altro che l’incontro

casuale tra un gesto e una superficie in grado di registrarne il

percorso; per altri si tratta di una scoperta preparata ed attesa, frutto

dell’osservazione e imitazione di figure con le quali il bambino ha una

relazione affettivamente importante116.

116 «A riferire qualcosa sul significato dei primi tracciati non sono i bambini che disegnano, ma quelli che non disegnano. Non è difficile appurare che i bambini che non disegnano, in realtà, sono bambini che non hanno mai avuto modo di osservare i genitori scrivere o, in ogni modo, hanno genitori che non favoriscono le condizioni per disegnare, non fornendo ai figli né le possibilità materiali né rinforzi affettivi. Imitare l’adulto per il bambino non è un puro esercizio intellettivo, ma è un apprendere ad essere nel sentirsi come l’altro. L’attività grafica, come qualsiasi altra attività fondamentale, si genera e si sviluppa all’interno di una relazione affettivamente importante. Inizialmente il bambino imita il gesto dell’adulto, un gesto che “fa” cose di estrema serietà […]. Soltanto in un secondo momento subentrerà l’interesse del bambino per la propria produzione, passando dall’imitazione del gesto all’imitazione del prodotto del gesto, cioè ai tracciati. Questo passaggio avviene a condizione che gli adulti si interessino ai disegni dei bambini valorizzandoli. Nessun apprendimento avviene per caso e ogni gioia autentica del bambino si esprime all’interno del dialogo relazionale con i genitori. Non esiste un piacere che possa sorgere e alimentarsi nel vuoto affettivo. Il piacere motorio promosso dall’attività grafica diviene così piacere imitativo, mentre il piacere visivo per le linee è in funzione della gioia che il bambino vede quando

158

Sia in un caso che nell’altro, l’origine del linguaggio grafico è un

movimento che lascia una traccia [figure 3 e 4, p.7].

Con il gesto ha inizio lo sviluppo del linguaggio figurativo sia sul piano

ontogenetico sia su quello filogenetico. In quanto libero, spontaneo,

svincolato da qualsiasi rapporto di dipendenza con gli strumenti e con le

tecniche, il gesto, animato da una forza ancestrale, esprime la presenza

vitale, primordiale, istintiva, preculturale e astorica che soggiace in ogni

uomo. La pittura gestuale, l’informale europeo e l’action painting

americano, facendo appello a quanto di arcaico permane nella natura

umana, propongono, appunto, il ritorno alle origini; a quell’espressività

primitiva e selvaggia governata da forze brutali, allo scopo di ritrovare

nell’unità uomo-natura-materia l’autenticità e l’unicità del gesto aurorale.

In fondo il gesto non può esprimere qualche cosa d’altro all’infuori del

proprio essere-azione, atto esistenziale, espressione del dinamismo

psico-cosmico dell’Essere. (Di Napoli, 2004, pp. 212-213).

Le prime organizzazioni grafiche prodotte dal bambino, indicate col

termine di scarabocchio117, sono collocate, nella nostra cultura,

mostra i suoi tracciati agli adulti. I gesti di un bambino non visto si perdono nel vuoto» (Quaglia, 2003, pp. 50-51). 117 «Ma cosa si intende per scarabocchio? Intanto, se “è disdicevole che lo scarabocchio abbia per gli adulti una connotazione negativa”, tale connotazione non è, oramai da molto tempo, la più frequente. Anzi, la connotazione prevalente è positiva. Lo è, quantomeno, nella letteratura specialistica. Ma qui, il significato di scarabocchio, sebbene l’esemplificazione grafica di esso sia uno scarabocchio per lo più circolare o, meno frequentemente, pendolare, non è per nulla univoco. Può essere quello comune di groviglio di linee variamente orientate, e/o stadio iniziale dell’attività grafica, o ancora linee in funzione non rappresentativa; l’analisi può essere basata sul tracciato, sul gesto tracciante, su entrambi; la descrizione può tenere presente la variabile età, oppure prescinderne; l’opposizione può essere con il disegno in quanto rappresentativo, o con il segno in quanto lineare e non massivo; e così via. Ne risulta un insieme eterogeneo esemplificabile con le diverse classificazioni: da quella della Eng che distingue lo scarabocchio in pendolare, circolare, a forme sparse; a quella di Meyers che quadripartisce in tracciati lanciati, “di va e vieni”, circolari, variati; a Lowenfeld e Brittain che parlano di scarabocchio disordinato, controllato, identificato da un nome; a Bernson con la distinzione di scarabocchio vegetativo-motorio, rappresentativo, comunicativo-sociale; a Ada Fonzi che distingue lo scarabocchio in disinteressato e interessato; a Cyril Burt che parla di uso della matita senza uno scopo, uso intenzionale della matita, uso imitativo, scarabocchio localizzato; fino ad arrivare a Rhoda Kellogg che descrive venti scarabocchi-base» (Pizzo Russo, 1988, pp. 206-207).

159

approssimativamente tra i sedici e i diciotto mesi di vita118. Esse

sarebbero più il risultato di “colpi di mano” che di “sfregamenti”:

mentre il controllo motorio del bambino è ancora limitato, la carica

d’energia e di entusiasmo che mette in questo genere di attività è

solitamente grande.

Ad un certo punto, di solito verso i due anni, il bambino, quando gli viene

dato un lapis, comincerà a tracciare dei segni sulla carta. Per quanto lo

scarabocchiare possa cominciare anche più presto, di solito i bambini

molto piccoli considerano il lapis come qualcosa da guardare, da

succhiare e da stringere. I primi scarabocchi sono dei segni eseguiti a

caso, il bambino può guardare anche altrove mentre scarabocchia. Da

ciò però gli deriva una grande soddisfazione perché è impegnato in

118 «La letteratura sull’argomento riporta la comparsa dello scarabocchio ad età molto diverse: dai 2 ai 3 anni (Osterrieth, 1973) o dai 2 ai 4 anni (Lowenfeld e Brittain, 1947) è l’età più frequentemente indicata. Tuttavia è stata riscontrata una produzione di soli scarabocchi anche in bambini di età superiore ai 4 anni, se si prendono in considerazione dati provenienti dalla ricerca interculturale. Gorge Rioux, ad esempio, in ambiente nord-africano, alla richiesta di un disegno a piacere e di uno a tema, in soggetti dai 6 anni e 5 mesi ai 12 anni e 4 mesi, frequentanti una prima classe preparatoria, ha riscontrato il 5% di scarabocchi e, per inciso, lo stesso autore nota la scomparsa totale dello scarabocchio, indipendentemente dall’età, dopo un anno di scolarizzazione» (Ibidem, p. 266).

Gli studi longitudinali attestano la comparsa dello scarabocchio molto prima dei due anni. Per uno dei bambini studiati da Paolo Bonaiuto è a 6 mesi e 15 giorni (Bonaiuto, 1970); età davvero eccezionale se si considera lo scarabocchio sotto il profilo della maturazione neurofisiologica.

L’arco cronologico andrebbe quindi da 6 mesi e 15 giorni a 12 anni e 4 mesi che, in termini di sviluppo psichico, sono età difficilmente equiparabili. Se in un primo momento la maturazione neurofisiologica gioca un ruolo decisivo, la stessa, non può essere chiamata in causa per spiegare lo scarabocchio in età successive. «In sostanza si dimentica l’ambiente, che quand’anche si limitasse a fornire al bambino l’occorrente per l’attività grafica, svolgerebbe già un ruolo tutt’altro da sottovalutare. Anche se, ovviamente, non si può misconoscere l’importanza della maturazione per la comparsa dell’attività grafica, lo sviluppo psicomotorio è condizione necessaria ma non sufficiente: il bambino può essere pronto a tracciare segni, ma se l’ambiente non conosce il medium del disegno, il bambino non disegnerà» (Pizzo Russo, 1988, p. 204).

Conviene dunque, in termini generali, individuare la soglia prima della quale non vi sono condizioni di possibilità né di scarabocchi né di disegni, più che indicare l’età della loro comparsa. Di fatto, la maggior parte degli studi longitudinali segnala la comparsa dello scarabocchio verso la fine del primo anno di vita, e l’età riportata da Bonaiuto, alla luce delle osservazioni rivolte non specificatamente al disegno ma più in generale allo sviluppo della prima infanzia, può essere considerata la soglia maturativa prima della quale non ci sono nemmeno le condizioni di possibilità dello scarabocchio.

160

un’attiva esperienza cinestetica, una delle prime a consentirgli di

esprimersi in modo diverso dal piangere. Tutti i fanciulli del mondo

iniziano con lo scarabocchiare […]. Possiamo perciò dire che lo

scarabocchio è un aspetto naturale dello sviluppo dei fanciulli e come

tale riflette il globale sviluppo fisico e mentale […].

Il lapis può essere tenuto dritto o inclinato, oppure afferrato con il palmo

della mano oppure tenuto tra le dita. Il fanciullo è in genere affascinato

dai suoi scarabocchi e ne deriva una grande soddisfazione, senza con

ciò voler tentare nessuna immagine visiva ma prendendo solo piacere

dal movimento in quanto attività cinestetica. (Lowenfeld - Brittain, 1947,

pp. 103-104).

Il bambino produce «scarabocchi disordinati»119 compiendo

movimenti più ampi possibili utilizzando l’intera circonduzione del

119 Victor Lowenfeld e W. Lambert Brittain distinguono tre stadi di sviluppo dello scarabocchio: lo stadio dello scarabocchio disordinato, lo stadio dello scarabocchio controllato e lo stadio in cui viene attribuito un nome agli scarabocchi. «Durante le prime fasi dello scarabocchio i segni fatti sulla carta possono andare in molte direzioni. Molto dipende dal fatto che il bambino disegni stando sul pavimento, oppure stia in piedi e disegni su un tavolo basso. La maniera in cui viene tenuto il pastello influenza anch’essa il tipo di segno. È importante notare che la grandezza dei movimenti riprodotti sulla carta è in rapporto con la grandezza del bambino […]. Poiché i piccoli autori degli scarabocchi non hanno ancora un controllo muscolare del tutto sviluppato, di solito ripetono solo i segni più larghi. Bisogna ricordare che il bambino scarabocchia compiendo i movimenti più ampi che gli sono possibili, anche se ad un adulto il risultato può apparire solo come un disegno di esigue proporzioni» (Lowenfeld - Brittain, 1947, p. 105).

Gli “scarabocchi disordinati” sono stati studiati in modo approfondito da Rhoda Kellogg. Nella terminologia dell’autrice essi vengono definiti “scarabocchi-base”. «Gli scarabocchi-base sono venti tipi di segni che i bambini fanno già all'età di due anni e in alcuni casi anche prima. I movimenti che essi compiono, comportano variazioni di tensione muscolare che non richiedono l’uso della vista: a due anni, i bambini possono eseguire tutti gli scarabocchi senza il controllo degli occhi; se fosse possibile registrare con uno strumento i movimenti della punta delle dita di un neonato che agita le braccia nell’aria, ne risulterebbero proprio questi scarabocchi. Anche i bambini ciechi possono farli, ma naturalmente non traggono nessun piacere visivo dai risultati del gesto e non hanno quindi stimoli a comporre scarabocchi.

Gli scarabocchi-base ci aiutano a capire come nei bambini molto piccoli la facoltà di disegnare, anche se in modo estremamente rudimentale, sia naturale. Anche gli animali possono tracciare delle linee su una superficie, ma nessuno di essi è in grado di fare tutti gli scarabocchi-base; per farli tutti è necessario il sistema nervoso e muscolare dell’uomo, ed è quindi evidente che la capacità di comporre scarabocchi non è un’acquisizione recente della specie» (Kellogg, 1969, p. 17). L’autrice definisce gli scarabocchi-base come «le strutture portanti del disegno» in quanto sarebbero a fondamento di tutte le produzioni grafiche. Con la Kellogg lo

161

braccio, e continua a farlo, anche se il risultato è costituito da segni

brevi, dovuti alla non completa aderenza dello strumento al foglio120

e al fatto che spesso il bambino stia guardando altrove durante la

produzione.

In questo tipo di attività il bambino è impegnato complessivamente:

c’è una partecipazione di tutto il corpo allo sforzo grafico che non si

limita all’azione della mano e del braccio; c’è ancora un richiamo ad

abilità e competenze che fanno capo a settori diversi: motorio,

intellettivo, percettivo.

Sono qui gli inizi del movimento espressivo, cioè le manifestazioni del

momentaneo stato d’animo del disegnatore oltre che dei tratti

permanenti della sua personalità. Queste qualità mentali sono

costantemente riflesse dalla velocità, dal ritmo, dalla regolarità o

dall’irregolarità, dalla forma dei movimenti corporei, e lasciano quindi il

segno sui tratti a matita o a pennello. (Arnheim, 1954, p. 150).

Rudolf Arnheim121 osserva che questa prima fase risulta legata ai

movimenti descrittivi122 del gesto (pertanto le prime manifestazioni

scarabocchio perde il suo carattere di “stadio” e acquista quello di “alfabeto” del disegno. 120 Già ad un anno circa d’età il bambino è in grado di produrre quello che è stato denominato lo “scarabocchio di corpo”, un insieme di grandi tracce che concretizzano la sua presenza “dinamica”. Questo tipo di attività è proposta spesso ai bambini che frequentano i servizi dell’infanzia 0-3: vengono loro dati a disposizione grandi fogli su cui possono sedersi e disegnare (un tipo di attività che può essere proposta anche ai bambini che ancora non deambulano) e grossi supporti traccianti (pennelli, pennellesse, pennarelli o altri tipi di colori che possono essere facilmente impugnati e manipolati dai bambini). Il prodotto che ne risulta è spesso un gioco di linee e colori con un grande buco bianco in mezzo, che corrisponde alla seduta del bambino. Nello “scarabocchio di corpo” verticale, fogli di grandi dimensioni (alti quasi il doppio del bambino e lunghi il più possibile) sono collocati di fronte ai bambini. I bambini possono camminare disegnando o fare cerchi e vortici utilizzando il movimento di tutto il braccio o di entrambe le braccia. All’interno di queste sperimentazioni il cui scopo è la registrazione del movimento e la stimolazione dell’attenzione del bambino al rapporto tra movimento e grafismo, sono previste anche attività centrate sulle “vere” tracce: lasciare impronte di mani e di piedi; utilizzare stampi naturali o artificiali. 121 Il metodo di trattazione delle rappresentazioni infantili da parte di Arnheim è di tipo psicogenetico. Egli sostiene, come sarà maggiormente chiarito in seguito,

162

grafiche sono caratterizzate dalla predominanza della linea sulla

macchia) e ne sottolinea il perdurare dell’importanza nel tempo.

Il gesto della mano che accenna alla forma di un animale nell’aria

durante una conversazione non è molto lontano dall’atto di fissare la

stessa impronta nella sabbia o su una parete […]. Questo aspetto

rappresentativo del comportamento motorio è ben evidente nel bambino

piccolo. Jacqueline Goodnow registra che i bambini dell’asilo, cui è stato

richiesto di accoppiare una serie di suoni con una serie di puntini,

disegnano i puntini in fila da sinistra a destra ma non lasciano spazi

vuoti sulla carta in corrispondenza degli intervalli tra gruppi di suoni.

Invece usano sovente pause motorie: fanno due puntini, si fermano, altri

due puntini, e così via. Per loro questo corrisponde al modello sonoro,

anche se sulla carta gli intervalli non risultano. (Ibidem, pp. 150-151).

I primi prodotti grafici sono esecuzione-registrazione di

comportamenti motori che traducono una modalità sincretica di

sentire: come sottolineato da Arnheim, non si tratta di

rappresentazioni, ma piuttosto di presentazioni; sono

una forma della gradevole attività motoria con la quale il bambino

esercita gli arti, con il piacere addizionale di produrre tracce visibili

attraverso i gesti vigorosi delle braccia avanti e indietro. Produrre

qualche cosa che prima non esisteva è un’esperienza gradevole.

Quest’interesse per il prodotto fine a se stesso […] è un semplice

piacere sensoriale, che perdura invariato anche nell’artista adulto.

(Ibidem, p. 150).

un’origine motoria della rappresentazione (anche artistica) nel senso che il comportamento motorio ha in sé un valore descrittivo: produce rappresentazioni. 122 «La spontaneità del gesto è governata dall’intenzione di imitare le proprietà delle azioni o degli oggetti […]. Sembra lecito presumere che la sorgente dell’attività artistica deliberata stia nel movimento descrittivo» (Arnheim, 1954, p. 150). Anche per Piaget, che considera il movimento descrittivo «germe dell’imitazione», la sorgente del disegno può essere ravvisata nel gesto (Piaget, 1945, p.110); tuttavia secondo Piaget, che distingue percezione e attività percettiva, «il disegno traduce i movimenti di esplorazione del soggetto molto più che la sua percezione visiva» (Piaget - Inhelder, 1948, pp. 45-46).

163

È l’inizio di un processo di reificazione destinato ad avere sempre

maggior importanza: «lo scarabocchio, realizzandosi, diviene per il

bambino un oggetto privilegiato perché è l’oggetto che egli stesso sta

creando. Lo scarabocchio si individualizza, si condensa in qualcosa

che si stacca su uno sfondo» (Neville, cit. in, Pizzo Russo, 1988, p.

206).

Per Arnheim la forma, la dimensione e la disposizione dei tratti che

compongono lo scarabocchio è determinata sia dalla costruzione

meccanica del braccio e della mano quanto «dal temperamento e

dall’umore del bambino» (Arnheim, 1954, p. 150).

Anche se gli scarabocchi dei bambini possono sembrare tutti uguali,

essi sono già altamente personali nella forma, nella composizione,

nel tratto e nel dinamismo: lo scarabocchio «porta la firma dell’autore

accanto ai contrassegni della specie». (Bernson, 1968, p. 35).

Del resto non bisogna parlare di scarabocchio in generale perché già

al suo interno si delineano differenze nel senso del controllo e

dell’organizzazione.

Solo lo scarabocchio «incontrollato» (fino ai due anni circa) è in

prevalenza movimento123. Dopo un periodo di solito non molto lungo

di esperienza con gli strumenti e con l’attività, cominciano a rendersi

evidenti segni di controllo e di organizzazione, cioè una prima

tendenza verso espressioni “figurali”: gli scarabocchi cominciano ad

avere valore e funzione di rappresentazione.

123 «Gli scarabocchi comprendono tutti i segni che risultano da un movimento spontaneo, eseguito o meno con il controllo degli occhi. Quando gli scarabocchi vengono fatti con il controllo visivo, danno una gamma infinita di effetti ottici, tuttavia ciascun disegno, modello, forma, struttura, simbolo figurativo o linguistico può essere scomposto negli scarabocchi che lo compongono, vale a dire nei suoi elementi lineari di base.

È difficile trovare esempi puri di questi scarabocchi nei disegni dei bambini di due anni; a quest’età, normalmente essi sovrappongono uno scarabocchio ad un altro. La mano del bambino muta spesso direzione, forse per evitare la fatica muscolare, e di solito i cambiamenti di direzione modificano la forma dello scarabocchio. Sovente a tre, quattro anni, il bambino disegna sullo stesso foglio un solo tipo di scarabocchio» (Kellogg, 1969, p. 21).

164

Crediamo tuttavia che non sia corretto parlare di «attività puramente

motoria degli esordi» (Lowenfeld - Brittain, 1947).

La mia esperienza evidenzia piuttosto un’attenzione per la traccia già

dalle primissime manifestazioni: i bambini sembrano interessati fin

dall’inizio ai segni che lasciano sui fogli e il vederli comparire dà loro

un innegabile piacere. Né, prescindendo dall’attrazione per la traccia,

sarebbe possibile capire il comportamento di Jacqueline riferito da

Jean Piaget (1945) quando, a 1 anno e 21 giorni, smette di imitare il

padre che disegna perché, avendo capovolto la matita, essa non

lascia traccia sul foglio. In questo esempio si palesa il precoce

interesse della bambina per il segno e non per il solo movimento124.

Si chiede a proposito Rhoda Kellogg:

perché un bambino traccia dei segni sulla carta o delle linee nella

polvere? Perché smette subito di scarabocchiare se il suo gesto non

lascia traccia, se ad esempio il gessetto gli si rompe in tanti pezzi

inutilizzabili? Perché una finestra appannata lo attrae solo fino a quando

il vapore gli permette di vedere le linee tracciate dal suo dito? La

risposta è che l’interesse visivo, sia esso primario o no, è una

componente essenziale dello scarabocchiare. (Kellogg, 1969, p. 11).

Possiamo allora dire che l’elemento percettivo è presente fin dagli

esordi: il gesto, la traccia lasciata dal gesto, i mezzi con cui e su cui

si lascia la traccia sono tutti elementi che entrano nella vicenda

percettivo-espressiva.

124 Piaget inserisce l’attività con la matita nel V stadio del periodo sensomotorio, caratterizzato dalle “reazioni circolari terziarie”. A proposito delle prime esperienze di imitazione della figlia Jacqueline riferisce: «a 1;0 (21) [Jacqueline] imita l’azione del disegnare. Le metto sotto gli occhi un foglio di carta e traccio qualche segno con la matita. Poso quindi la matita: lei se ne impossessa subito ed imita il mio gesto con la mano destra. Non riesce dapprima a scrivere, ma, raddrizzando per caso la matita, traccia qualche segno e, subito, le viene da continuare. Passa quindi la matita alla mano sinistra, ma capovolgendola. Cerca allora di disegnare con la parte sbagliata; constatando l’insuccesso, essa non rigira la matita, ma la rimette nella mano destra e aspetta» (Piaget, 1945, p. 75).

165

Esistono inoltre differenze nel comportamento dei bambini

relativamente all’attenzione che essi dedicano ai loro tracciati, a

partire dall’interesse che ciascuno manifesta: c’è chi si stanca subito

e chi no, alcuni non staccano mai lo sguardo dal foglio, mentre altri

guardano altrove; alcuni sembrano più interessati alla mano che si

muove sul foglio, altri al tracciato; ci sono quelli che continuano a

disegnare solo sul foglio e con la matita, altri che sembrano trovare

maggiore soddisfazione a scarabocchiare sui muri o su qualunque

altro supporto.

Ricordiamo che date le diversità ambientali in cui i bambini hanno o

non hanno la possibilità di scarabocchiare e l’enorme variabilità

individuale che presentano fin dalla nascita, la prima traccia e

l’andamento delle successive può presentare variazioni notevoli da

bambino a bambino.

Il segno grafico non è il primo doppio che il bambino riesce a

staccare da sé125, né la sua prima “presentazione”; tuttavia

costituisce l’inizio di un processo di obiettivizzazione e di fissazione.

Essa è qualcosa di persistente e duraturo nel tempo (informazione

visiva) che si contrappone alla traccia sonora (informazione acustica)

la cui caratteristica è l’immediato svanire. Essa si pone come visibile

e tangibile “duplicazione” del sé: è autonoma e permanente anche

quando il suo autore non è più presente.

Anche se la traccia sonora svanisce in fretta, essa ha tuttavia

carattere “imperativo”: gli adulti rispondono immediatamente ai

vocalizzi del bambino, stimolandone la produzione ulteriore e

creando format interattivi importantissimi per lo sviluppo del linguaggio

(Bruner, 1983a).

125 Pierre Naville vede nello scarabocchio la fine di un periodo in cui il bambino è impegnato attivamente a lasciare tracce organiche o corporee di sé (come ad esempio la saliva, l’impronta della mano o del piede). Secondo questo autore il bambino prova un piacere istintivo a ripetere ogni tipo di azione che lascia un segno del sé. Lo scarabocchio si inserirebbe alla fine di questo periodo (e non all’inizio dell’attività grafico-rappresentativo) e sarebbe espressione della vita vegetativa e istintiva dell’uomo. Cfr. Quaglia, 2003.

166

In questo senso, è possibile sostenere che il significato sociale delle

prime manifestazioni grafiche nella nostra cultura è, a differenza di

quelle sonore, rimandato nel tempo e tuttavia il bambino prosegue

attivamente nell’esplorazione e nell’apprendimento di questo

linguaggio.

L’interesse percettivo, presente, come abbiamo visto, fin dall’inizio,

non va tuttavia confuso con il crescente controllo del gesto; né il

bambino scopre «che vi è una connessione tra i suoi movimenti ed i

tracciati sul foglio […] all’incirca sei mesi dopo che ha cominciato a

scarabocchiare» (Lowenfeld - Brittain, 1947, p. 240).

Il fatto che crescendo il bambino abbia un maggiore controllo sul suo

tracciato non va interpretato, a nostro avviso, come causato dalla

«scoperta» del nesso movimento-segno; l’esercizio, che la scoperta

del nesso causale promuove, contribuisce piuttosto allo sviluppo

della coordinazione visivo-motoria necessaria alla produzione del

segno grafico. Così il bambino gradualmente abbandona questa

attività “disordinata” e “presentativa” e inizia attivamente a produrre

segni e a cercare di controllarli; è questo il momento dello

scarabocchio controllato126 in cui «scopre» le possibilità offerte dal

controllo visivo.

Nel disegno di Caterina (3,11) in figura 5, p. 8 il controllo visivo è

espresso dalle tonalità utilizzate per coprire zone diverse del foglio e

dalla volontà di rimanerne all’interno.

Mentre i primi scarabocchi comprendono «tutti i segni spontanei,

eseguiti o meno con il controllo degli occhi» (Kellogg, 1969) gli

scarabocchi controllati prevedono una supervisione dell’occhio che

guidi il comportamento della mano, senza che questa supervisione

sia necessariamente programmata dall’inizio.

126 «In un determinato momento il bambino scopre che c’è un rapporto tra i suoi movimenti ed i segni ottenuti sulla carta […] è un passo molto importante perché il bambino scopre, in tal modo, la possibilità di un controllo visivo sui segni da lui effettuati» (Lowenfeld - Brittain, 1947, p. 105).

167

In questo periodo i bambini si dedicano agli scarabocchi con grande

entusiasmo, perché il coordinamento tra sviluppo visivo e sviluppo

motorio è una conquista estremamente importante. La gioia di questa

scoperta stimola il bambino a variare i movimenti. Il ripetersi di certi

movimenti indica un sopravvenuto controllo su certi movimenti

essenziali. Le linee possono essere tracciate orizzontalmente,

verticalmente e circolarmente […]. Il bambino non ha alcun intento

creativo oltre a quello di muovere il pastello sulla carta. Tutta la sua gioia

è determinata dalla sensazione cinestetica e dalla sua padronanza.

(Lowenfeld - Brittain, 1947, p. 240).

Ma mentre il bambino scarabocchia sul foglio, la carta stessa gli offre

uno stimolo visivo che muta in relazione alla sua attività grafica.

L’immagine nel suo insieme – spazi bianchi e segni – si modifica

sotto ai suoi occhi e il bambino reagisce alla nuova immagine che si

crea, in un “gioco” di rimandi continui. Gli scarabocchi, in questa

fase, sono collocati in posizioni diverse del foglio, sotto il controllo di

una sufficiente coordinazione oculo-manuale.

La Kellogg chiama questi scarabocchi «modelli di posizione»127 per

sottolinearne la collocazione rispetto al foglio. Ciascun modello di

posizione rivela, secondo l’autrice, un tipo di percezione associato

allo scarabocchiare. Ad esempio lo scarabocchio di Caterina della

figura 5, nella classificazione della Kellogg, corrisponde al modello di

posizione n.10, dove lo scarabocchio occupa due terzi del foglio

(Kellogg, 1969).

Se le linee e gli spazi che ha dinnanzi glielo suggeriscono, [il bambino]

può essere indotto a completare un modello di posizione. Può

ovviamente seguire un progetto iniziale e disporre le linee nella pagina

secondo una precisa intenzione, oppure la sua percezione delle linee,

127 «Gli scarabocchi-base si possono riconoscere in tutte le formazioni di linee eseguite su qualsiasi superficie, mentre la posizione di un segno va riferita ad un perimetro ben definito, a una qualche “cornice” […]. Sono riuscita ad individuare diciassette modelli di posizione nell’arte infantile, ma ve ne potrebbero esser altri che ricorrono con una certa frequenza» (Kellogg, 1969, pp. 28-30).

168

degli spazi e dei rapporti figura-superficie può non agire per nulla; il

bambino può essere così assorto nel tracciare una linea da ignorare

completamente il foglio di carta nel suo insieme. Si hanno tuttavia prove

che spesso il bambino vede il foglio come un tutto unico e reagisce di

conseguenza; succede spesso che i bambini collochino

intenzionalmente i loro segni lungo il lato del foglio. (Kellogg, 1969,

p.30).

I modelli di posizione sono le prime documentazioni di struttura

controllata.

Ricordano forme non casuali, come la mezza circonferenza, il quarto di

circonferenza, rettangoli, triangoli, archi e molte altre ancora […]. Questi

modelli sono eseguiti spontaneamente, non sono copiati o suggeriti

dall’insegnante e spesso sono la risposta allo stimolo visivo che gli offre

il suo stesso scarabocchio. I modelli suggeriscono le forme che il

bambino farà più tardi, riempiendo una certa superficie o disegnando un

contorno. (Ibidem, p. 35).

Anche gli scarabocchi base suggeriscono forme come il cerchio, il

triangolo o il rettangolo, tuttavia in questi tracciati i movimenti della

mano non sono necessariamente guidati dall’occhio, cosa che non

accade nei modelli di posizione, in cui la supervisione dell’occhio

condiziona il tratto [figura 6, p.8].

Lo scarabocchio è dunque all’inizio un evento cinetico che provoca

piacere motorio e visivo, un’espressione dei movimenti della mano e del

braccio sostenuti da un’attività globale di tutto o parte del corpo in cui

non interviene altro fattore intellettivo se non l’intenzione di lasciare una

traccia. (Oliverio Ferraris, 1973, p. 20).

Il bambino prende lentamente coscienza dei rapporti di causa ed

effetto tra il suo gesto e la traccia, in modo che la traccia,

provocando una reazione sul gesto, ne diviene causa a sua volta. In

169

questo senso si può parlare dello sviluppo dell’attività grafico-

rappresentativa come una lenta conquista intenzionale da parte del

bambino verso un tipo di comportamento sempre più significativo

che, a partire da una “naturale vitalità motoria”, si mette in relazione

ad un’istintiva forma di “provocazione” nel voler ottenere effetti sul

mondo.

Da questo momento in poi il bambino varia i suoi movimenti (che si

fanno via via più scorrevoli) e cerca attivamente di cambiare la

direzione e la forma delle sue linee: compaiono linee verticali,

orizzontali, circoli, zig-zag e ghirigori. Il bambino si rende conto di

poter decidere lo “stile” della linea che realizza.

Si veda a questo proposito la grafica di Daniele [figura 7, p. 9] dove

lo spazio grafico è riempito da diverse tipologie di segni e colori:

puntini, linee vaganti aperte e attorcigliate, linee diagonali multiple,

cerchi a linee multiple sovrapposte.

L’intenzione di controllare il gesto nasce dall’esame della traccia ed è

resa possibile dalla contemporanea maturazione della motricità fine,

in particolar modo dalla motilità della mano-avambraccio e

dall’evoluzione del controllo visivo sulla traccia.

Soffermiamoci sulle abilità tecniche e cognitive richieste dall’attività

grafica. Per riuscire a disegnare il bambino deve prima “imparare” a

servirsi della propria mano e delle proprie dita128: lo sviluppo motorio

128 Nel corso del primo anno e mezzo di vita si sviluppa la manipolazione come abilità motoria specifica, il cui progresso dipende sia dalla maturazione neuromuscolare sia dall’esercizio. Alla nascita è presente una forma primitiva di prensione (il riflesso di presa): se il palmo della mano del neonato viene toccato, lui stringe le dita attorno alla mano o a qualunque oggetto afferrabile. «Se la presa del neonato è abbastanza forte da sostenere il peso del suo corpo, essa è del tutto inefficace come strumento. Intorno al primo mese di vita il riflesso di presa comincia ad indebolirsi e scompare del tutto verso i due mesi. Pressappoco alla stessa età il bambino inizia a sviluppare la prensione vera e propria, la quale si differenzia dal riflesso in quanto è fin dall’inizio sotto il controllo volontario: il bambino si tende verso un oggetto che attira la sua attenzione e lo afferra, più tardi è anche in grado di manipolarlo e di lasciarlo andare.

Nello sviluppo di questa capacità si individuano alcune fasi che riguardano sia il movimento del braccio verso l’oggetto (avvicinamento) sia il gesto della prensione vera e propria […].

170

determina come tenere lo strumento tracciante e come usarlo. Nei

primi incontri con la matita il bambino solitamente usa le cinque dita

serrate a pugno (come tutti i primati) per afferrarla; il passaggio dal

pugno alla prensione fra pollice, indice e medio è un apprendimento,

che richiede diversi incontri con lo strumento e che spesso viene

sollecitato da adulti che intervengono attivamente a “correggere”

l’impugnatura.

Variazioni di lunghezza della matita causano variazioni nella prensione e

quindi nel tracciato. Il bambino sperimenta approcci diversi con la matita

e verso i tre anni perviene a controllarla alla maniera degli adulti ma solo

a cinque anni è del tutto esperto nel tenerla. Per lasciare poi una traccia

qualsiasi su un foglio di carta, la matita deve essere considerata dal

bambino termine transitorio o mezzo per raggiungere uno scopo, e non

confusa con l’azione stessa dell’afferrare. (Pizzo Russo, 1988, p. 205).

Piaget ravvisa una prima distinzione mezzo-scopo nelle «reazioni

circolari secondarie» (distinte in “tipiche” e “derivate”), azioni che

caratterizzano quel comportamento che consistente «nel ritrovare i

gesti che hanno esercitato per caso un’azione interessante sulle

Il gesto della prensione attraversa un’evoluzione progressiva. All’inizio l’oggetto viene afferrato dalla parte cubitale della mano (sotto il mignolo), senza utilizzare il pollice (prensione cubito-palmare). In seguito viene condotto verso il palmo e afferrato utilizzando tre dita insieme: pollice, indice e medio (prensione digito-palmare). Infine l’oggetto viene posto sotto all’indice, e la prensione implica l’opposizione tra pollice e indice (pressione radio-digitale) […].

La diversità tra prensione precoce e tardiva si spiega con il processo di differenziazione cui vanno incontro le modalità sensoriali (visive, tattili, uditive) inizialmente indifferenziate. Nel neonato il semplice vedere un oggetto determina l’avvicinamento del braccio ad esso. In seguito alla maturazione e alla differenziazione tra i due canali sensoriali, l’attivazione di uno di essi (la vista) porta ad un’inibizione dell’altro (la prensione). Quando infine i due canali oramai differenziati si coordinano tra loro, il movimento di orientamento verso l’oggetto ricompare sotto il controllo visivo.

L’abilità di controllare l’informazione “direzione” per guidare la prensione dell’oggetto diventa sempre più precisa nei mesi successivi, insieme alla capacità di controllare la postura e l’orientamento del corpo. Alla fine del primo anno di vita il bambino è così abile da programmare la direzione del movimento anticipando la futura posizione di un oggetto che si muove davanti a lui» (Camaioni - Di Blasio, 2002, pp. 51-53).

171

cose»129. I primi adattamenti «quasi intenzionali» e «quasi

intelligenti», volti a «conservare e riprodurre il risultato interessante

scoperto per caso»130 nascerebbero proprio dai tentativi operati dal

bambino nel mettere in relazione le proprie azioni e i risultati ottenuti.

Tuttavia

il nesso causale, casualmente scoperto, è più facile da scoprire e

mantenere quando l’effetto prodotto è un movimento […].

Se il nesso causale movimento-suono è meno semplice del nesso

movimento-movimento, le cose si complicano ulteriormente nel caso del

segno grafico. Gli effetti suono e segno grafico, prodotti dalla propria

azione, sono entrambi qualitativamente diversi da quest’ultima. E però,

mentre il suono che l’oggetto produce, sebbene sia diverso dal

movimento che l’ha causato, è pur sempre dell’oggetto, l’effetto prodotto

dall’uso della matita non viene ad interessare l’oggetto matita, ma

l’oggetto foglio di carta. Ed è un effetto che si conserva nel tempo.

(Pizzo Russo, 1988, p. 206).

Lo scarabocchio controllato diventa oggetto privilegiato

dell’attenzione del bambino, nel suo essere “quel particolare effetto”

che il bambino sta cercando.

L’organizzazione del tratto comincia con tracce curvilinee [figure 5 e

6, p. 8; figura 7, p. 9]:

129 Piaget, 1937b, p. 171. Le reazioni circolari secondarie “tipiche” comparirebbero nel III periodo dello stadio sensomotorio, ma non sono una condotta esclusiva di questo stadio. «Quando il bambino in uno stadio ulteriore (oppure l’adulto) scopre un risultato fortuito, ciò avviene quasi sempre in un contesto di ricerca o di sperimentazione e da allora l’azione di riprodurre l’effetto ottenuto costituisce un’azione derivata» (Ibidem, p. 234). Le attività con la matita, come abbiamo precedentemente visto, sono collocate da Piaget al V stadio, caratterizzato dalle «reazioni circolari terziarie». 130 Ibidem, pp. 205-206. Prosegue oltre «la parte di intelligenza implicata in tali comportamenti consiste dunque semplicemente nel riprodurre la serie di movimenti che hanno dato luogo ad un risultato interessante e l’intenzionalità di queste condotte non consiste nel cercare di riprodurre il risultato ottenuto».

172

la costruzione del corpo umano, basata sul principio della leva, favorisce

il movimento curvilineo. Il braccio ruota attorno all’articolazione della

spalla, e una più sottile possibilità di rotazione è garantita dal gomito, dal

polso, dalle dita. Quindi i primi tratti rotatori nel disegno del bambino

indicano un organizzarsi del comportamento motorio in accordo con il

principio della semplicità. (Arnheim, 1954, pp. 152-153).

L’attività grafica dipende dal controllo esercitato dall’attenzione e

dagli occhi sulle braccia e sulle mani, ma anche dalla posizione del

corpo, dalla prensione delle mani e, non ultimo, dalla capacità di

tenere fermo il foglio.

La maturazione biologica e le condizioni neurologiche assolverebbero, in

questo caso, un ruolo importante nello sviluppo del disegno, in quanto il

bambino può misurare l’ampiezza del suo gesto, può limitare il

movimento della mano controllando il pollice, può tornare al punto di

partenza in virtù della posizione di perno che il gomito assume. (Quaglia,

2003, p. 13).

L’attenzione si focalizza sempre più sulla linea che, per mezzo

dell’occhio, acquista potere sulla mano controllandola. Da questo

momento in poi il bambino darà sempre maggiore importanza a ciò

che sperimenta visivamente, rispetto a ciò che sperimenta

cinestesicamente; la fonte del piacere e il fuoco dell’attenzione si

sposteranno sempre più dall’effetto cinetico a quello visivo.

La linea visivamente più semplice è la linea retta. Considerando il

cerchio non tanto come linea quanto come il contorno di una superficie,

la linea retta è la prima configurazione lineare concepita dalla mente.

Questo dato è complicato dal fatto che per il braccio e per la mano, che

devono eseguire materialmente la linea retta, essa non è affatto

semplice: al contrario, per produrne una bisogna attivare un complesso

sistema muscolare, perché l’avambraccio, il braccio, la mano e le dita

funzionano come una leva che naturalmente percorre un tracciato curvo.

173

[…]. È quindi difficile per il bambino di produrre una linea

ragionevolmente diritta. Il fatto che, ad onta di ciò, egli la usi tanto

spesso dimostra quanto ne apprezzi la semplicità visuale.

La linea retta è un prodotto del senso della vista, su mandato del

principio di semplicità. È caratteristica delle configurazioni create

dall’uomo, mentre in natura si trova raramente perché la natura è una

così complessa combinazione di forze che la drittezza, prodotto di

un’unica forza senza interferenze, ha raramente la possibilità di

concretarsi. (Arnheim, 1954, p. 159).

Il bambino conquista il “controllo semplice” (o controllo di partenza)

che gli consente di guidare la mano verso un tracciato già effettuato:

può scegliere di ripartire da un punto del tracciato precedente per

dare inizio a una nuova linea. La tappa successiva è caratterizzata

dal “controllo doppio” (o controllo della partenza e dell'arrivo): riesce

ormai a far partire la linea da un punto preciso e farla arrivare in un

punto pre-determinato dello spazio.

L’intera fase dello scarabocchio è compresa, quindi, tra il momento in

cui l’occhio comincia a seguire la mano e il momento in cui la mano è

guidata dall’occhio, e la linea progressivamente si trasforma in una linea

di contorno. Inoltre, il doppio controllo consente al bambino di eseguire

una grande varietà di figure geometriche: cerchi, ovoidi, triangoli,

quadrati. Tutti i successivi perfezionamenti tecnici dipendono così da un

crescente controllo motorio e da uno sviluppo percettivo integrato alla

funzione motoria. (Quaglia, 2003, pp. 13-14).

Lo scarabocchiare (come più tardi, il disegnare) è per il bambino un

tipo di attività così affascinante e coinvolgente che alcuni autori ne

parlano come di un vero e proprio gioco.

Per Georges-Henri Luquet (1927) è «gioco d’esercizio» che

evolverebbe in «gioco impegnato»; per Jerome Bruner (1976) «gioco

di destrezza», che consentirebbe al bambino di maturare atti motori

174

che saranno successivamente incorporati in programmi d’azione più

complessi.

Gli adulti stessi condividono e sostengono tale idea: affiancano

pennarelli, matite colorate, album da disegno e altri materiali per

l’attività grafica a bambole e automobiline tra i regali tradizionalmente

fatti ai bambini.

Alcune attività infantili osservate nei primi tre anni di vita sembrerebbero

rappresentare proprio un trait d’union tra gioco e disegno. Qualche

bambino mentre scarabocchia accompagna l’attività grafica con azioni

(per esempio riproducendo verbalmente il rumore del treno o

salterellando sulla sedia come un coniglio) o con narrazioni. Intorno ai 2

anni nel gioco di finzione il bambino usa gli scarabocchi al pari di altri

oggetti: così come una scatola di liquirizie può diventare un’astronave,

allo stesso modo dei segni su un foglio possono essere usati come un

giocattolo. (Cannoni, 2003, pp. 44-45).

Sia nel gioco che nel disegno si evidenzia uno sviluppo parallelo,

poiché scaturiscono entrambi da aspetti motori del comportamento, e

tra i due e i quattro anni si hanno analoghe manifestazioni creative e

cognitive sia nell’uno che nell’altro. Tuttavia il rapporto tra attività

grafica e attività ludica si evidenzia in particolare durante le fasi

successive dello sviluppo, quando oltre al piacere intrinseco provato

dal bambino durante i due tipi di attività, emergono gli aspetti che li

accomunano, in riferimento al loro carattere simbolico.

Il disegno nasce quindi come gesto e “movimento esercitativo”: il

bambino non ha intenzioni riproduttive - imitative della realtà che lo

circonda, ma si misura esclusivamente con i suoi movimenti e con gli

effetti che tali movimenti producono.

La possibilità di articolare la produzione grafica consente di

cominciare ad attribuire ad una traccia grafica una precisa funzione

rappresentativa:

175

in particolare si nota una differenza evidente tra quello che è il semplice

prodotto di una rotazione e la forma intenzionalmente rotonda e chiusa,

guidata dall’occhio del disegnatore. Si può anche supporre che dalla

prima esperienza del bambino, la curva lineare tracciata dalla matita o

dal pennello si trasformi in un oggetto visivo bidimensionale, un disco

percepito come una “figura” posta contro uno sfondo […]. Questa

trasformazione percettiva promuove un’altra tappa fondamentale nella

genesi dell’attività figurativa: l’intuizione che le forme disegnate nel foglio

o plasmate con la creta possono stare al posto di altri oggetti esterni, a

cui sono legate come il significante al significato. (Arnheim, 1954, p.

153).

All’inizio le tracce curvilinee e le forme circolari indicano

semplicemente l’avvio di un processo di controllo e di

organizzazione; esse non hanno per il bambino il significato di

rappresentare eventi, elementi naturalistici curvilinei o circolari; le

une e le altre sono indifferenziate.

La forma organizzata circolare che, come vedremo, si instaura ben

presto in forza della sua semplicità sotto il rispetto motorio e visuale

non è specifica, non si differenzia da altre forme; essa può

rappresentare una quantità enorme di oggetti che nella realtà non

hanno forma circolare o sferica131.

131 «Si è detto che il bambino, per le sue prime configurazioni, si ispira ai vari oggetti rotondi che si è visto intorno. Gli psicologi freudiani le fanno derivare dal seno materno, gli junghiani dal mandala; altri pensano al sole e alla luna. Sono speculazioni basate sulla convinzione che ogni qualità formale dei dipinti debba derivare in qualche modo dall’osservazione del mondo fisico, mentre la tendenza di base, nel comportamento motorio e visivo, verso le forme più semplici è del tutto sufficiente a spiegare la priorità delle forme circolari: il cerchio è la forma più semplice offerta dal medium pittorico perché ha una simmetria centrale in tutte le direzioni. Una volta emersa dal mondo pittorico, comunque, la forma circolare entra in contatto con le forme analoghe degli oggetti percepiti nell’ambiente. Questa analogia poggia agli inizi su una base molto ampia e indifferenziata. Per capire l’uso, nei primi anni, della forma rotonda va ricordato che anche l’adulto usa il cerchio o la sfera per raffigurare qualsiasi configurazione e nessuna in particolare. Sfere, dischi, anelli, che sono la forma più indifferenziata e universale, occupano un posto preminente nei più primitivi modelli della configurazione della terra e dell’universo, non tanto sulla base di osservazioni ma perché si tende a rappresentare le forme e i rapporti spaziali sconosciuti nel modo più semplice» (Arnheim, 1954, p. 154).

176

Ad esempio, in figura 8, p.9, Patrik (4,5) disegna una serie di cerchi

concentrici partendo da quello più interno e procedendo verso

l’esterno. Aggiunge poi alcuni cerchi più piccoli nelle zone interne

dove lo spazio lo consente, poi una riga, e tanti piccoli puntini. Alla

richiesta dell’insegnante di esplicitare che cosa abbia disegnato,

verbalizza indicando le singole figure: “uccello, giraffa, serpente,

formica, coccodrillo, delle righe che ci vanno intorno delle formiche”.

«Sarebbe sbagliato dire che il bambino non tiene conto, o tradisce

nel riprodurla, la forma degli oggetti, perché egli li dipinge come

rotondi solo per l’occhio dell’adulto» (Arnheim, 1954, p. 155).

L’indipendenza di questo risultato grafico dalla realtà è per Arnheim

la prova che esso è un’invenzione che funziona come generale

sistema di rappresentazione: il bambino che scarabocchia, e

successivamente disegna, non riproduce una forma reale particolare

per adoperarla estensivamente, ma «inventa» (nei limiti di certi

condizionamenti motori) un pattern strutturale.

2.2 Dallo scarabocchio allo schema figurativo. Disegnare e

raffigurare.

Lo stretto legame tra segno e gesto-movimento132 fa sì che la

produzione grafica che ne risulta sia composta da tracce di forme

132 Per la mano che disegna, non tutti i movimenti sono equivalenti. Lo stesso Arnheim riconosce l’esistenza di movimenti che risultano più naturali di altri, e che, di conseguenza, vengono preferiti soprattutto dal disegnatore inesperto. «Se pensiamo alle abilità tecniche necessarie a disegnare, ci rendiamo conto facilmente di come la biomeccanica degli arti superiori (braccia, mani, dita) e le caratteristiche del nostro sistema visivo si traducono in veri e propri vincoli percettivo - motori (o esecutivi). Ad esempio la lateralizzazione della manualità sembra incidere sulla direzione delle linee tracciate: se i destrimani per disegnare una linea tendono a muoversi da sinistra verso destra, i mancini solitamente si muovono in direzione opposta. A questi vincoli di “ordine inferiore” se ne aggiungono altri di “ordine superiore”, i vincoli cognitivi, ciascuno legato a specifiche caratteristiche della nostra attività di pensiero: per esempio è difficile disegnare a memoria un oggetto strano, oppure pianificare bene una figura che si esegue per la prima volta o, ancora, trovare un equivalente efficace per una forma complessa» (Cannoni, 2003, p. 32).

177

diverse. Sotto gli occhi del bambino, compare un panorama di segni

ricco e sempre più articolato in forme rudimentali di diagrammi,

diagrammi regolari e irregolari, associazioni.

Segni sparsi o concatenati, aggregati133 di forme che occupano uno

spazio senza un ordine riconoscibile; agglomerati di forme a sé stanti

che danno l’idea di un insieme; segni in fila o in sequenza; schemi

molto controllati e “celebrali” sono le strutture compositive più usate

dopo lo scarabocchio originario [figure 9 e 10, p. 10].

Queste forme si compongono nello spazio “casualmente”, senza un

particolare criterio. Con la pratica e l’evoluzione si evidenziano

tuttavia alcune modalità di organizzazione nello spazio grafico,

sempre più precise e ricorrenti. Si tratta di strutture compositive

trasversali a tutte le tecniche figurative (artistiche e non) che il

bambino svilupperà in seguito.

Peter Van Sommers ha analizzato le competenze articolatorie richieste dal disegno e ha individuato la seguente tipologia di movimenti spontanei per la mano (di cui riferiamo quelli relativi ai destrimani):

- la mano nel tracciare un cerchio tende a eseguire un movimento antiorario con origine nella parte bassa a destra e termine nella parte in basso al centro (prendendo come riferimento un orologio, il punto corrisponde alle ore sei). Questo movimento non si chiude completamente ma lascia aperta la circonferenza nella parte che va dalle sei alle quattro;

- tendiamo a disegnare linee inclinate verso di noi, iniziando a tracciarle dall’alto a sinistra verso il basso a destra (dalle undici alle cinque);

- le linee orizzontali preferite dalla mano sono quelle che vanno da sinistra verso destra con andamento ascendente, dal basso verso l’alto;

- nessuno riesce a tracciare l’arco di cerchio rimasto aperto, quello nella parte in basso a destra (nello spazio compreso dalle sei alle quattro), perché le particolari articolazioni che la mano intrattiene con il polso e con il braccio non lo consentono; e se, forzando, si tenta di entrarci, la fluidità del gesto ne risente in modo evidente.

L’autore sostiene che questi elementi siano universali e alla base dell’evoluzione di tutti i sistemi di scrittura; essi sarebbero strutture profonde non modificabili dalle abitudini culturali, poiché ubbidiscono ad una logica interna, modellata su un arcaico coordinamento occhio-mano (Van Sommers, 1984). 133 «Quando il bambino comincia a comporre aggregati – insieme di tre o più diagrammi – si comporta come l’artista con il suo repertorio di forme visive. Il numero di aggregati possibili è infinito. Di solito il bambino che a due-tre anni ha avuto la possibilità di scarabocchiare spesso e liberamente, a tre-quattro anni disegnerà un gran numero di aggregati complessi, svilupperà uno stile personale nel costruirli e l’insegnante o il genitore sovente saranno in grado di riconoscere i suoi disegni tra quelli di altri bambini» (Kellogg, 1969, p 67).

178

Dallo stadio del modello (che comprende la produzione di

scarabocchi-base e modelli di posizione), il bambino passa allo

stadio della forma134 e della composizione formale135 in cui si affina il

controllo volontario dell’attenzione sul gesto (intenzione), l’esercizio

della memoria136 e la ricerca attiva di configurazioni sempre più

strutturate e complesse (pianificazione) [figure 11 e 12, p. 11].

Il sistema dell’arte infantile è un sistema logico visivo poiché il bambino

procede per tappe: apporta varianti alle Gestalt che già conosce e

queste, di riflesso, gli suggeriscono nuove Gestalt. Se è libero di creare

nuove forme, progredisce spontaneamente nella sua attività, poiché

sono proprio le nuove Gestalt che lo stimolano e mantengono vivo il suo

interesse.

L’uniformità dell’arte infantile da un capo all’altro del mondo mi induce a

credere che la mente umana sia predisposta a ricordare – vale a dire, a

134 «Nello sviluppo artistico del bambino lo stadio del modello è seguito da quello della forma. Questo stadio include i diagrammi – forme definite contornate da una linea – come pure le forme rudimentali di diagramma che precedono i diagrammi […]. I tipi di diagrammi possibili che risultano dall’analisi dei disegni dei bambini sono sei. Cinque di essi sono geometricamente regolari: il rettangolo (o il quadrato), l’ovale (o il cerchio), il triangolo, la croce greca e la croce diagonale. Anche se mancano di precisione geometrica, questi cinque diagrammi sono normalmente disegnati dai bambini con sufficiente chiarezza, spesso con linee singole e continue. Il sesto diagramma, di forma irregolare, serve a classificare tutte quelle formazioni di linee intenzionali che circoscrivono un’area irregolare […]. Nel processo evolutivo i diagrammi indicano un progresso del bambino nell’uso più controllato delle linee e nell’esercizio della memoria» (Kellogg, 1969, pp. 49-53). 135 «Poco dopo avere incominciato a fare diagrammi, il bambino li elabora in ciò che io definisco associazioni (insiemi di due diagrammi) o aggregati (insieme di tre diagrammi); questi insiemi sono caratteristici dello stadio della composizione formale dell’arte spontanea» (Ivi). 136 «I diagrammi comunque sono una prova evidente dell’intenzionalità e dell’uso della memoria nei disegni infantili. E’ probabile che il bambino, facendo i diagrammi, si ricordi di forme analoghe presenti nei suoi scarabocchi precedenti e che queste forme gli vengano in mente quando usa carta e matita. […]. Che ruolo ha la memoria nei primi scarabocchi infantili? Io penso che questo ruolo sia molto importante anche se non ho ancora prove del tutto soddisfacenti per dimostrarlo. Disegnando forme simili forse il bambino manifesta la sua predisposizione a vedere e a completare certe formazioni di linee piuttosto che il ricordo di scarabocchi precedenti. Tuttavia è possibile che bambini di due anni rifacciano lo stesso disegno nel corso di una lezione senza copiare dal lavoro già fatto: in questo caso è chiaro che sono in gioco entrambe, predisposizione e memoria […]. Che la memoria e l’intenzionalità basata su di essa, abbiano un ruolo importante, appare chiaro dal momento in cui il bambino è in grado di disegnare i diagrammi» (Ibidem, p. 57).

179

preferire – certe variazioni della forma e a scartarne altre. Quelle

scartate o sono troppo complicate per essere colte al primo sguardo o

troppo difficili per essere riprodotte abbastanza spesso da poterle fissare

nella mente.

I neurologi cercano di stabilire quanti stimoli “vecchi” e quanti stimoli

“nuovi” siano richiesti dal sistema nervoso per funzionare in modo

equilibrato; a me sembra che l’attività artistica sia per i bambini una

fonte di stimoli equilibrata ed autoregolata, almeno fino a quando gli

adulti non intervengono. (Kellogg, 1969, p. 97).

Seguendo i presupposti della psicologia della Gestalt, secondo la

quale l’esperienza percettiva si struttura in configurazioni irriducibili

alla somma degli elementi che lo compongono, la Kellogg sostiene

che il bambino che scarabocchia organizzi cognitivamente punti e

linee in forme dotate di “senso”137 secondo un “ordine visivo primario”

che «esiste indipendentemente dal pensiero razionale, dallo sviluppo

del linguaggio o dalle condizioni emotive e si esprime nelle

formazioni gestaltiche» (ibidem, p. 74).

Si veda a questo proposito grafica di Marika (3,7) in figura 13, p. 12,

che compone un arco lungo la diagonale del foglio utilizzando il

tratteggio (scarabocchio 6 nella classificazione della Kellogg, ovvero

una linea verticale multipla) e alternando diversi colori.

137 «Poiché lo scarabocchiare implica la percezione e la percezione coinvolge il cervello, le teorie generali sull’arte infantile dovranno prima o poi prendere in considerazione il suo funzionamento. W. Kohler, uno psicologo della Gestalt ha avanzato l’ipotesi che certe funzioni fisiologiche del cervello siano responsabili della tendenza a organizzare i dati visivi in forme piacevoli o “buone”, vale a dire in forme simmetriche, semplici e regolari. Il meccanismo mediante il quale vengono ricordate le forme “buone” che si possono ritrovare negli scarabocchi è così descritto da Penfield e Roberts:

V’è ragione di credere che esistano nel cervello aree specializzate in cui possono essere immagazzinati “modelli di passaggio” degli impulsi nervosi. Il modello di passaggio di potenziali elettrici attraverso determinati neuroni (cellule nervose) e le fibre connettive forma un’unità…Ciascun passaggio di un flusso di impulsi neurali lascia dietro di sé una facilitazione persistente, tale che gli impulsi possano ripercorrere la stessa strada più facilmente. È questa grossomodo la base neurale della memoria.

Partendo da questa ipotesi si potrebbe arrivare un giorno a dimostrare che i primi scarabocchi costituiscono una testimonianza dei processi mentali naturali della specie» (Kellogg, 1969, pp. 35-36).

180

La percezione, secondo la psicologia della Gestalt, è regolata da

alcuni criteri, tra cui il principio della buona forma, in virtù del quale

gli stimoli visivi tendono ad organizzarsi in forme simmetriche e

regolari basate sull’equilibrio, sulla proporzione e sulla strutturazione

delle linee138 [figura 14, p. 12].

Per la Kellogg, scarabocchiare non è solo un atto percettivo e

motorio, ma anche un atto cognitivo:

la mia ricerca avvalora la convinzione che gli occhi e il cervello

dell’uomo siano predisposti a vedere le forme globali; che questa

predisposizione influisca sulla coordinazione oculo-manuale nel fare gli

scarabocchi; che il bambino crescendo disegni le forme in modo sempre

più determinato e chiaro e che preferisca quelle dotate di equilibrio.

(Ibidem, p. 300).

Ad ogni “stadio” i bambini risponderebbero alla presenza dell’ordine

di una forma: pur sperimentando diversi scarabocchi, diagrammi e

combinazioni, le unità da loro ricordate e ripetute sarebbero quelle

dotate di una “buona forma visiva” o un buon equilibrio139 [figura 15,

p. 13].

138 I recenti studi sulle basi neurologiche della percezione hanno confermato le conclusioni ottenute in via sperimentale dalla psicologia della Gestalt agli inizi del Novecento. I vari elementi che concorrono alla costruzione delle immagini sono interpretazioni contestuali della teoria della percezione in senso gestaltico. Per un’aggiornata rassegna degli studi gestaltisti cfr. Branzaglia, 2003. 139 «La maggior parte dei disegni che il bambino fa tra i tre e i cinque anni è costituita da aggregati, che continuano ad essere presenti anche negli stadi successivi. La preferenza per l’equilibrio e la regolarità che sembra innata nei bambini impedisce che gli aggregati risultino miscugli disordinati di forme. […].

L’equilibrio può essere di tre tipi: verticale, orizzontale e globale. Nell’equilibrio verticale la maggior parte dei segni presenti nella parte superiore della figura è controbilanciata da altri segni posti in basso. Nell’equilibrio orizzontale alla maggior parte dei segni di sinistra corrispondono segni analoghi a destra. L’equilibrio globale, come nel rettangolo o nell’ovale, è dato dalla somma dei due tipi di equilibrio» (Kellogg, 1969, p. 68).

181

Il mandala140, una forma chiusa, di solito ovoidale, con linee che si

incrociano nel centro, è secondo la Kellogg, una forma che mostra

un equilibrio straordinario, una combinazione di unità e contrasto. È

quest’equilibrio, sostiene la studiosa, che spiega sia l’apparire del

mandala in molte forme di arte nella storia, sia il piacere che provano

i bambini di ogni età nel disegnarlo [figure 14, p. 12; 16, p. 13; 17 e

18, p. 14].

Se le mie ricerche sono corrette, il mandala è, in parte, una chiave della

sequenza che dai disegni astratti porta a quelli figurativi. Il bambino dal

mandala passa al sole, poi alla figura umana, e così aggiunge

gradualmente ai nuovi disegni molte configurazioni proprie dei suoi

precedenti lavori spontanei. Questo sistema logico-visivo dello sviluppo

spiega la forma globale della prima figura umana disegnata dal

bambino, forma che di solito all’adulto sembra contorta.

In realtà, la forma mandaloide della prima figura umana è un segno della

profonda sensibilità artistica del bambino. Il mandala è importante non

solo in quanto parte della sequenza evolutiva dell’arte infantile, ma

anche come legame tra l’arte infantile e quella degli adulti.

Il prevalere di queste forme in arte è la prova più ovvia di questo

legame. Sia nell’arte infantile che in quella degli adulti i quadrati e i

cerchi divisi da una o più croci sono numerosi […]. Il mandala dimostra

che gli adulti condividono la visione estetica dei bambini. Il mandala è

una Gestalt cui rispondono positivamente sia i bambini sia gli adulti.

(Ibidem, pp. 82-87).

140 «Mandala è una parola sanscrita che significa cerchio. Nella religione orientale essa viene usata per indicare varie formazioni di linee, ma soprattutto forme geometriche a struttura concentrica. Gli stessi tipi di formazioni di linee ricorrono anche nei disegni dei bambini. I mandala fatti dai bambini sono spesso delle associazioni formate da un cerchio o da un quadrato, divisi in quattro parti da una croce greca o una croce diagonale; oppure sono aggregati, formati da un cerchio o un quadrato divisi in otto parti da due croci appaiate. Anche cerchi e quadrati concentrici sono mandale» (Ibidem, p. 81).

182

“Soli” o “radiali”141 sono tipi di forme simili al mandala e vengono

ripetuti nello stesso modo dai bambini.

Il “sole”, inteso nel suo significato ristretto di “struttura compositiva”,

associa il contrasto nel tipo di linea e l’equilibrio nel modo in cui una

delle unità (una linea, un cerchio, un occhiello) viene ripetuta e fatta

ruotare in maniera regolare intorno al centro costante dell’altra (il

cerchio).

La Kellogg ritiene che queste forme di ordine visivo siano

intrinsecamente affascinanti, che cioè non ci sarebbe bisogno di

apprendere che si tratti di “buone” forme [figure 19 e 20, p. 15; figura

21, p. 16].

Queste strutture posseggono qualità gestaltiche così forti che i

bambini le riutilizzano volentieri: in fasi successive è possibile

rivederne la comparsa per rappresentare mani, visi, corpi, o altri

oggetti [figura 22, p. 16; figura 23, p. 17].

Le Gestalt solari dei primi scarabocchi, insieme ai mandala,

sarebbero per il bambino lo stimolo visivo per la realizzazione di soli

sempre più strutturati. I soli con segni centrali [figura 20, p. 15] di

norma precedono quelli con il centro vuoto

evidentemente le formazioni dei soli con il centro vuoto rappresentano

una rottura rispetto alla forma del mandala e di alcuni aggregati circolari.

Questo passaggio sembra richiedere troppo tempo e “pensiero”.

(Kellogg, 1969, p. 97).

141 «Due analoghe formazioni di linee sono considerate rispettivamente soli e radiali. Il sole non è un’associazione o un aggregato perché al centro non vi sono linee incrociate, ma è in genere formato da un ovale (o da un cerchio) oppure da un rettangolo (o da un quadrato) con brevi linee che incrociano il perimetro. A volte le linee iniziano dal perimetro e si estendono all’esterno, più raramente iniziano dal perimetro prolungandosi all’interno del cerchio o del quadrato. La radiale può essere o un’associazione formata da due croci, o un aggregato formato da tante croci centrate sul medesimo punto, oppure essere composta da linee rette o curve che irradiano da una piccola area centrale invece che da un unico punto.

A differenza dal sole, il mandala è diviso da una o più croci e, diversamente dalla radiale, ha un perimetro di chiusura» (Ibidem, pp.81-82).

183

Nelle figure 24 e 25, p. 18, lo stesso bambino sperimenta diverse

tipologie di soli, arrivando, dopo alcune prove, al sole con centro

vuoto [figura 25].

Le osservazioni della Kellogg richiamano da vicino quelle di Semir

Zeki secondo il quale «tutte le arti visive sono espressione del nostro

cervello e quindi devono obbedire alle sue leggi, nell’ideazione,

nell’esecuzione o nella valutazione». (Zeki, 1999, p. 17).

La tesi di Zeki è che sia possibile fondare una “teoria neurologica

dell’estetica” ovvero una neuroestetica. Funzione dell’arte (e del

cervello) sarebbe quella di «rappresentare le caratteristiche costanti,

durevoli, essenziali e stabili di oggetti, superfici, volti, situazioni e

così via, permettendoci di acquisire conoscenza» (Ibidem, p. 26). In

questa formulazione, la visione è un processo attivo in cui il cervello,

nella sua ricerca di conoscenza del mondo visivo, opera

costantemente una scelta tra tutti i dati disponibili e, confrontando

l’informazione selezionata con i ricordi immagazzinati, genera

l’immagine visiva, con un procedimento molto simile a quello messo

in atto dagli artisti. Se la visione è dunque una ricerca attiva di dati

essenziali, la produzione artistica sarebbe, secondo questo autore, la

rappresentazione di quei dati.

La scoperta della specializzazione funzionale ha contribuito a cambiare

le nostre idee sulla natura della visione, inducendoci a considerarla un

processo attivo – una ricerca fisiologica dell’essenziale e dell’invariante

che svincola il cervello dai continui mutamenti, e dalla dipendenza da

essi, e lo affranca inoltre dall’atto visivo momentaneo e accidentale. Il

cervello, insomma non è un semplice cronista che si limita a registrare in

modo passivo la realtà fisica del mondo esterno, ma partecipa

attivamente alla creazione dell’immagine visiva, in base a regole e a

programmi suoi propri. Questo è l’unico ruolo che gli artisti hanno

attribuito all’arte, e il ruolo che alcuni filosofi si sono augurati avesse la

pittura. (Zeki, 1999, p. 91).

184

Colore, forma, movimento, volti, espressioni facciali e linguaggio del

corpo sono attributi della visione cui corrispondono sia sistemi

specializzati di elaborazione dell’informazione visiva

(specializzazione funzionale della corteccia) che funzioni di primo

piano nell’arte. Questo autore, attraverso esperimenti di laboratorio,

trova interessanti corrispondenze tra ciò che viene prodotto in arte e

il campo ricettivo di alcune cellule del campo visivo: «per questa

ragione parlo di arte del campo ricettivo, convinto di questa piena

corrispondenza tra dimensione artistica e fisiologica delle singole

cellule studiate attraverso i loro campi» (Ibidem, p. 125).

Seguendo le argomentazioni di Zeki è possibile ipotizzare che i

bambini, durante le loro esplorazioni grafiche accentuino quegli

stimoli che sono i più efficaci per attivare cellule particolari del

cervello.

Gli studi sullo sviluppo del sistema percettivo nell’infanzia

avvalorerebbero ulteriormente i dati raccolti dalla Kellogg.

La psicologia distingue tre principali momenti di questo sviluppo,

caratterizzati da altrettante modalità visive: la percezione sincretica

(globale-indifferenziata, caratteristica dei bambini fino all’età di sei

anni circa), analitica (che si sviluppa tra i sei e gli otto anni, e che

permette una migliore capacità di analisi e di esplorazione

sistematica degli stimoli visivi) e, in ultimo, la percezione sintetica

(globale-differenziata, corrisponde alla subordinazione della

percezione alla cognizione). Mentre l’adulto che osserva

un’immagine percepisce un insieme strutturato e può scegliere di

analizzare l’insieme o le parti che lo compongono spostando il fuoco

della sua attenzione dall’uno all’altro a seconda del compito, per il

bambino il tutto o i dettagli (a condizione che siano particolarmente

significativi o “vistosi”) attirano la sua attenzione; insieme ed elementi

sono disgiunti gli uni dagli altri senza nessuna integrazione. Il

185

sincretismo percettivo infantile142 fa sì che per il bambino la

percezione della struttura di un insieme ostacoli la percezione delle

parti che lo costituiscono.

La percezione visiva richiede che vengano considerati sia i singoli elementi

sia la loro appartenenza ad un insieme sovraordinato che li comprende e li

organizza. Ebbene, i bambini di 3-4 anni percepiscono il livello

sovraordinato e quello subordinato, come un insieme, mostrando di non

essere in grado di comprendere in modo flessibile l’organizzazione di

una struttura percettiva che si compone sia di parti che di un insieme. Se

mostriamo ad un bambino il modello isolato di una figura e poi gli

chiediamo di trovarlo in un’immagine più grande in cui il modello è

“mascherato”, ci accorgiamo che fino a 5-6 anni i bambini hanno grande

difficoltà a risolvere il compito perché non sono in grado di contrastare,

utilizzando una strategia analitica che implica abilità cognitive superiori,

le forze percettive dell’organizzazione […]. Il sincretismo infantile non

dovrebbe essere inteso nel significato restrittivo di un generico

globalismo, bensì come una carenza di organizzazione articolata e

flessibile del campo percettivo, e quindi come tendenza a cogliere le

strutture spontaneamente prodotte, con più immediata evidenza, dal

gioco delle condizioni oggettive. (Camaioni – Di Blasio, 2002, p. 85).

142 «Estrarre elementi da strutture percettive unitarie che vengono percepite come un insieme coerente comporta maggiore difficoltà. Effettivamente dai 3 anni ai 5 anni si manifesta una prevalenza di identificazioni riguardanti l’insieme, che si attenua e scompare negli anni successivi, mentre vanno crescendo sia le risposte concernenti i dettagli sia quelle che tengono conto dell’insieme dei dettagli.

Con l’età si affinerebbero le capacità analitiche e le abilità di cogliere i particolari. Tuttavia non è corretto impostare il problema in termini di contrapposizione tra visione globale e visione analitica. I dati sperimentali di Vurpillot (1972) mostrano che a partire dai tre anni e mezzo i bambini sono in grado di accedere percettivamente sia a configurazioni complesse sia alle unità che le compongono. Non si tratta quindi di un problema connesso alla visione in quanto tale, ma piuttosto ad altre condizioni che generano il prevalere dell’una o dell’altra organizzazione percettiva. Entrano qui in gioco sia le influenze derivanti dall’ambiente sia le proprietà strutturali degli stimoli, così come sono state studiate dalla psicologia della Gestalt. Quando l’insieme corrisponde ad una forma semplice o ad una struttura forte, esso tende ad imporsi, ma se le singole parti rappresentano oggetti familiari o particolari vistosi (sempre gestalticamente organizzate in un tutto) vengono preferite all’insieme non noto. I bambini possono percepire i dettagli se questi sono significativi o vistosi» (Camaioni - Di Blasio, 2002, p. 84).

186

Il bambino ha a disposizione una gamma completa di segni e di

forme, che lo stimola visivamente inducendo anche la possibilità di

fare delle distinzioni o di trovare delle analogie. Si forma così lo

stimolo a scegliere e a costruire forme sempre più specifiche di

organizzazione [figure 26 e 27, p. 19].

Ovviamente i bambini trovano forme ovali o rettangolari nel mondo che li

circonda: la luna, le facce e i corpi umani, i tronchi dell’albero, le

formazioni di nuvole e le strutture circolari o rettangolari delle case fanno

parte dell’esperienza di quasi tutti i bambini. Tuttavia l’intero processo

evolutivo delle forme nell’arte infantile sembra essere in gran parte

indipendente da queste osservazioni (basti pensare alle figure umane

disegnate dai bambini). Ad ogni modo l’inclinazione a fare forme è così

forte e prorompente da sembrare innata, che nasca o no da esperienze

diverse dagli scarabocchi. (Kellogg, 1969, p. 34).

Secondo la Kellogg mandala e soli stimolerebbero il bambino al

disegno della prima figura umana. Dopo che il bambino ha disegnato

la prima figura umana con linee ben definite, continua comunque

nell’esplorazione della struttura solare, sperimentando varie tipologie

di raggi e generando diverse composizioni formali (come il simbolo

del fiore). Tuttavia

non dobbiamo attribuire la definizione di “uomo” alla prima figura umana,

per la ragione che non possiede né i caratteri del sesso né dell’età.

Questo stimolo è particolarmente evidente nei disegni del sole con

faccia, nei quali il sole è unito ad aggregati circolari, e nei disegni del

sole umanizzato, che risultano più dal sole che dal mandala. Le

definizioni di “capelli” o “ciglia” ai tratti del sole umanizzato provengono

dagli adulti. In questa fase dello sviluppo le linee che vengono così

definite non sono figurative: infatti, se lo fossero, comparirebbero anche

nelle figure umane fatte più tardi, cosa che invece non accade. Queste

187

linee dimostrano invece che il bambino è stato stimolato dai suoi primi

scarabocchi del sole. (Ibidem, p. 99).

Si vedano ad esempio le grafiche a pag. 20. Il disegno di Leon (4

anni) in figura 28 è un disegno a tema in cui la figura del gatto è

ricavata dallo schema solare; mentre in figura 29 Lea (4,2) utilizza la

struttura solare per rappresentare il sole, diverse tipologie di figure

umane solari e un fiore.

In sintesi, il passaggio dallo scarabocchio allo schema figurativo è

dato dall’incrociarsi di tre fattori: la capacità ri-conoscere, produrre e

usare segni di forme e dimensioni differenti; la scoperta di strutture

compositive fondamentali; lo sviluppo del meccanismo di

aggregazione dei segni fra loro.

In fasi successive gli scarabocchi vengono esplorati in vari “modelli di

posizione” rispetto ad uno sfondo e più tardi sviluppati in forme

semplici o “diagrammi” basilari (cerchi o ovali, rettangoli, quadrati,

tipologie di croci) che vengono associati in diverse modalità. Tra

queste numerose combinazioni i bambini tendono a preferirne e

ripeterne soltanto una piccola parte. Sono queste combinazioni

preferite che essi adotteranno per la rappresentazione di oggetti e

persone e che caratterizzeranno i loro disegni.

Nella figura 30, p. 21, abbiamo un esempio di questo processo: si

tratta di una raccolta di alcune delle grafiche eseguite

spontaneamente da Emily nell’arco di alcuni mesi143.

La Kellogg vede l’inizio della pianificazione e dell’intenzionalità già a

partire dallo stadio della forma, ravvisando valori rappresentativi nei

diagrammi.

Nello stadio della composizione formale il linguaggio grafico è

“grammaticalmente” e “sintatticamente” completo, pur non

assomigliando a nessun modello figurativo convenzionale: sono

143 L’ordine con cui sono state prodotte le grafiche è dall’alto al basso; da sinistra a destra.

188

presenti tutte le strutture grafiche fondamentali che stanno alla base

sia del disegno (figurativo e non) che della scrittura (la sequenza e,

in parte, la calligrafia).

I bambini non disegnano ancora per realizzare un progetto o per

raggiungere un obiettivo: si lasciano piuttosto coinvolgere

dall’espressione che si modifica strada facendo, cambia con il

cambiare delle idee e delle invenzioni che si susseguono prendendo

spunto le une dalle altre, senza uno schema prefissato o conosciuto

[figura 31, p. 22]. Per questa ragione gran parte della letteratura sullo

sviluppo del grafismo (Luquet, 1927; Lowenfeld – Brittain, 1947)

definisce queste composizioni tecnicamente come “scarabocchi” e

considera propriamente come disegno il tracciato a cui il bambino

assegna un nome.

Il fatto di dare un nome allo scarabocchio ha un grande significato,

poiché indica che il pensiero del bambino è cambiato. Prima di questo

periodo il bambino si contentava dei movimenti in sé e per sé, mentre

ora comincia a connettere questi movimenti con il mondo che lo

circonda. E’ passato da un tipo di pensiero cinestesico in termini di

movimenti ad un pensiero immaginativo in termini di figure144.

144 Lowenfeld - Brittain, 1947, p. 109. Lo sviluppo del disegno proposto da Lowenfeld e Brittain è segnato da una progressiva e graduale conquista di abilità, strategie esecutive e conoscenze da parte del bambino: «la modificazione e il miglioramento del risultato artistico verranno automaticamente, quando si sia verificato un mutamento nel modo di pensare, di sentire e di percepire del fanciullo» (Ibidem, p. 148).

Per questi studiosi il valore dell’attività grafica infantile è indiscutibile; essa è un potente mezzo di espressione e sviluppo della creatività. Anche in questo modello lo sviluppo del disegno si snoda per fasi che richiamiamo qui brevemente: dopo aver abbandonato lo scarabocchio, il bambino entra nello stadio preschematico (dai quattro ai sette anni) dove scopre il rapporto esistente tra le sue immagini mentali e i disegni. Naturalmente i bambini in questa fase non disegnano tutto ciò che sanno, perché non sono ancora in grado di disporre di tutte le conoscenze che hanno nell’atto della rappresentazione. A questo stadio segue lo stadio schematico (dai sette ai nove anni), in cui il bambino giungerebbe al concetto di forma, uno schema che rappresenta il concetto che il bambino è riuscito ad elaborare di un oggetto attraverso la conoscenza. Nello stadio realistico (nove-undici anni) le forme si arricchiscono di dettagli e l’attenzione per il particolare assumerebbe un significato soprattutto emozionale da parte del bambino. L’ultimo stadio è quello del periodo naturalistico (dagli undici ai tredici anni) durante il quale la

189

Il passaggio dallo scarabocchio “incontrollato” (o disordinato) a quello

“controllato”145 e allo scarabocchio “con nome” in cui compaiono i

primi intenti rappresentativi, avviene, per alcuni autori casualmente

(Luquet, 1927), per altri dalla progressiva organizzazione di schemi

figurativi e in seguito a condizionamenti ambientali (Kellogg, 1969); in

un caso o nell’altro alla fine del terzo anno di vita le rappresentazioni

grafiche, più organiche e complesse, iniziano ad avere una

“leggibilità” (manifesta o solo dichiarata) anche per chi le guarda

[figure 32 e 33, p. 23; figura 34, p. 24].

Come per l’inizio dello scarabocchio, anche per l’inizio del disegno

(inteso come grafica con nome) l’età dei bambini seguita

longitudinalmente è inferiore a quella indicata in generale.

Esaminando i pochi dati presenti nella letteratura, relativamente al primo

segno tracciato e al primo segno interpretato dallo stesso bambino, il

tempo che intercorre tra l’uno e l’altro varia in relazione all’età. In

generale la lunghezza dello scarto ha una relazione inversamente

preoccupazione maggiore del bambino sembrerebbe il raggiungimento di un alto grado di “perfezione naturalistica”. 145 Senza voler entrare troppo dettagliatamente nelle diverse tipologie di scarabocchi individuate nel corso del tempo da autori appartenenti a orientamenti differenti, ci pare interessante segnalare lo scarabocchio onomatopeico come caso particolare di scarabocchio controllato e come precursore più prossimo allo scarabocchio con nome. La caratteristica di questo tipo di scarabocchio è quella di essere accompagnato, durante l’esecuzione, da espressioni onomatopeiche. Dal punto di vista formale, nel tracciato, non appaiono variazioni rispetto a scarabocchi “silenziosi”, ma l’utilizzo del suono da parte del bambino informa del fatto che è cambiato qualcosa nel rapporto tra il bambino, gli oggetti e la traccia. Il suono diventa parte integrante del disegno, una sola gestalt o configurazione “che sta per” una situazione che appartiene “all’esterno” di cui lo scarabocchio è “duplicato”.

«Non vi è ancora rappresentatività della realtà esterna in questi scarabocchi […]. Certamente, l’onomatopea, qualità dinamica dell’oggetto, potrebbe essere intesa come pars pro toto, vale a dire una qualità del tutto, in armonia con l’organizzazione percettiva diffusa propria del bambino, in cui le parti non sono ben identificate in una struttura (Werner, 1940). In realtà, il bambino non è interessato all’oggetto in quanto tale, nella sua obiettività, ma il suo interesse è rivolto a quel che egli compie o esperisce mediante l’oggetto disegnato. In altre parole, gli scarabocchi onomatopeici sono dei veri e propri scarabocchi transizionali: essi non sono più soltanto scariche emotive-motorie, ma non sono ancora disegni di oggetti con parti tra loro in rapporto e aventi un’esistenza indipendente dal disegnatore» (Quaglia, 2003, p. 55).

190

proporzionale all’età: più piccolo è il bambino più lungo sarà il tempo in

cui scarabocchierà solamente146.

Nella fase iniziale il nome sarebbe associato al disegno più per un

desiderio di trovare un significato condivisibile, che non per via della

rassomiglianza effettiva con il modello147.

Si vedano ad esempio la figura 35, p. 24; le figure 36 e 37, p. 25. Tra

le tre la grafica di Giuseppe (4 anni) in figura 37, è particolarmente

interessante. Si tratta della rappresentazione della fiaba de Il

pesciolino d’oro, i cui protagonisti sono un pescatore e un pesciolino

presenti nella grafica e rappresentati rispettivamente attraverso

“l’omino” azzurro e quello giallo; e la moglie del pescatore (assente).

146 Pizzo Russo, 1988, p. 215. «Considerando i dati relativi a bambini che iniziano a tenere la matita in mano entro il primo anno di vita, l’intervallo tra scarabocchio e disegno va da un minimo di 8 mesi (e riguarda i bambini che iniziano verso la fine del primo anno) a un massimo di 19 mesi (e riguarda i bambini che iniziano molto prima). Quando il bambino inizia a tracciare segni nel secondo e terzo anno di vita, in genere l’intervallo si riduce. Rouma, che conduce le sue osservazioni su bambini di tre anni e più, constata che il passaggio dal segno al disegno avviene nell’arco della prima settimana o al massimo nel corso del primo mese. Luquet (1927, p. 134), per un bambino di 4 anni e 1 mese osserva che “la fase preliminare, tra il primo tracciato occasionale privo d’intenzione rappresentativa e il primo disegno intenzionale enunciato prima dell’esecuzione, non è durata più di un quarto d’ora”» (Ibidem, p. 267). 147 Nella teoria di Luquet (1927) il bambino, fin dalle prime esplorazioni grafiche, sarebbe “naturalmente” orientato verso il disegno figurativo. A tre anni scoprirebbe casualmente una rassomiglianza tra la forma dei suoi scarabocchi e qualche oggetto della realtà che lo porterebbe a fornire le prime interpretazioni verbali, anche se tali interpretazioni possono variare nel tempo, pur riferendosi allo stesso prodotto. La rassomiglianza involontariamente ottenuta, spingerebbe il bambino a ricercare attivamente analogie tra i suoi tracciati e gli oggetti della realtà e «ad eseguire dei tracciati con l’intenzione di rappresentare qualcosa». Il bambino passerebbe così dalla fase del realismo fortuito alla fase del realismo intenzionale. Anche se il bambino agli inizi vuole produrre delle immagini realistiche tuttavia è ostacolato da limiti di ordine fisico quali la maldestrezza motoria, e di ordine psichico, come la discontinuità e l’esauribilità dell’attenzione, nonché l’incapacità di sintesi. Il disegno in questa fase (realismo mancato) si presenta più o meno incomprensibile, per la scarsa coordinazione motoria; povero di dettagli a causa del carattere limitato e discontinuo dell’attenzione; disarticolato e sproporzionato per l’incapacità sintetica. «Chiameremo incapacità di sintesi quella imperfezione generica del disegno infantile che costituisce la caratteristica essenziale del realismo mancato e si manifesta a proposito delle diverse relazioni tra gli elementi» (Luquet, 1927, pp. 135-145). Nella teoria di Luquet il bambino sarebbe motivato alla produzione di disegni dal realismo (il disegnare oggetti reali) e interessato unicamente alla figurazione ovvero alla rappresentazione delle qualità visibili di un oggetto o di un evento.

191

Interessante la verbalizzazione del disegno: in alto a sinistra, allo

scarabocchio bordeaux più esteso, Giuseppe assegna il nome di

“uccello”, personaggio assente nella fiaba, ma la cui forma può

essere ricavata dallo scarabocchio.

Sono molti, in ogni caso, gli autori che ritengono che anche i primi

tracciati infantili su un foglio esprimano molto di più di quanto noi adulti

siamo capaci di leggervi, e che linee e cerchi o spirali stiano per, o al

posto di, o siano sostitutivi di un qualcosa che è più corposo e

composito di quanto possa denotare il segno stesso. Non solo, o non

tanto, nel senso che una linea verticale, un semplice filamento attaccato

direttamente al cerchio (la testa, il volto), che scende verso il basso,

intende raffigurare una gamba, mentre una linea orizzontale, anch’essa

filamentosa, ha la funzione di indicare un braccio levato. Ma piuttosto

per il fatto che in quel filamento c’è una rappresentazione e insieme

un’elaborazione mentale che sono certamente più complesse, per

quanto difficili da comprendere, da spiegare, da accettare,

probabilmente per il loro simbolismo. (Giani Gallino, 2008, pp. 77-78).

Tuttavia, il soggetto del disegno costituisce un elemento di novità: i

segni acquisiscono un riferimento visivo, che influenza a sua volta i

tracciati successivamente prodotti [figura 38, p. 26].

Da questo momento è comunque certo, non tanto il passaggio dallo

“scarabocchio” al “disegno”, ma l’utilizzazione del segno come di-

segno: d’ora in poi il bambino si eserciterà a trattare i segni da lui

tracciati anche come “somiglianza”.

La traccia grafica, inizialmente (periodo comunemente chiamato

dello scarabocchio) unico scopo dell’attività e la matita tramite,

diventa a sua volta mezzo per uno scopo ulteriore: rappresentare

(Pizzo Russo, 1988).

Secondo Clair Golomb

all’inizio, i bambini possono essere del tutto soddisfatti delle loro

produzioni di scarabocchi, ma quando un osservatore adulto chiede loro

192

che cosa rappresenta “il quadro” eseguito, tendono a romanzare, cioè a

inventare una narrazione priva di una relazione manifesta con lo

scarabocchio.

Qualche tempo dopo, i piccoli scoprono una somiglianza accidentale tra

il loro disegno e un oggetto familiare e quindi tentano di “estrapolare”

che cosa il dipinto potrebbe rappresentare. Questi primi sforzi possono

essere interpretati come espedienti prerappresentazionali per dare

senso alle creazioni non intenzionali costituite dagli scarabocchi.

(Golomb, 2002, p. 19).

Nella figura 39, p. 26 e 40, p. 27 possiamo osservare due

esemplificazioni di questo processo: il significato dei disegni è

ricavato dai due autori solo a lavoro ultimato, e dopo aver osservato

il loro prodotto.

Se è vero che in parte il bambino è sollecitato dagli adulti a dare un

nome alle proprie grafiche, è altrettanto vero che

il bambino spesso incoraggia questa tradizione: definisce i suoi

scarabocchi, i suoi modelli e i suoi aggregati come persone e cose,

perché ha capito che gli adulti vogliono la prova che il significato del suo

lavoro sia figurativo. Egli può essere deriso se il suo lavoro non è del

tutto simile a come lui l’ha definito oppure può restare confuso quando

gli adulti assumono un atteggiamento tollerante nei confronti dei suoi

scarabocchi e si dichiarano d’accordo con le sue definizioni strampalate.

Il bambino sa che i suoi scarabocchi non sono Gestalt figurative come le

fotografie e gran parte dell’arte degli adulti che ha visto, tuttavia accetta

la tolleranza degli adulti per le sue definizioni considerandola una

incoerenza della loro mentalità. L’abitudine di dare definizioni figurative è

anche rafforzata dalla carenza di termini per descrivere gli aspetti

peculiari del disegno infantile. Gli adulti che desiderano parlare del

lavoro del bambino trovano conveniente usare le stesse parole che

impiegano per gli oggetti di ogni giorno. (Kellogg, 1969, pp. 123-124).

193

Nella figura 41, p. 27, Sana (4,7) dichiara, a disegno ultimato, di

avere disegnato “un lupo”. Sana, nata in Marocco e trasferitasi in

Italia dall’età di 6 mesi, è una bambina che frequentava da tre anni la

scuola dell’infanzia di Reggio Emilia, ma che non parlava ancora

italiano al momento in cui è stata prodotta la grafica. Il livello di

comprensione della lingua italiana era discreto, mentre nella

produzione utilizzava pochissime parole, e difficilmente partecipava

alle conversazioni (sia a grande che a piccolo gruppo). Ci sembra

dunque interessante il fatto che, a fronte di una grafica spontanea,

abbia sentito la necessità di denominarla, con una parola che ha

sentito diverse volte a scuola nelle narrazioni di fiabe o nelle

conversazioni tra bambini.

Come già per lo scarabocchio, la variabilità cronologica riscontrata

per l’apparizione dello schema figurativo è determinata sia dalla

maturazione fisiologica che da fattori ambientali. Di eguale

importanza sono i criteri utilizzati dagli studiosi per decidere se si

tratti di segno o di disegno148.

Intanto non tutti gli studiosi scelgono come criterio la denominazione o

interpretazione […]; il bambino, pur considerando il suo tracciato come

rappresentazione, può non denominarlo; la denominazione può non

essere presa in considerazione perché non la si riconosce come tale.

148 «H. Eng riporta i casi di Major e Bühler i quali “hanno sostenuto che quando dà un nome ai suoi scribilli il bambino intende con quel nome nulla più che il gioco del tracciare lo scribillo; assegnando tali nomi il bambino sta semplicemente chiacchierando con l’idea di imitare gli adulti” e non rappresentando, in quanto non avrebbe ancora sviluppato l’immaginazione per ravvisare nelle linee una qualche somiglianza. La Eng (1931, pp. 118-119) si chiede e chiede: “Perché l’immaginazione di un bambino non dovrebbe essere in grado di indurlo a credere che una linea è un essere umano, quando gli fa credere che un pezzo di legno è una bambola e un bastone è un cavallo?”. Ed è una linea, la prima rappresentazione che la nipote fa dell’uomo. Lo stesso P.A. Osterrieth (1973, p. 34) non riporta nell’elenco dei primi disegni dei suoi tre figli il disegno denominato “chalet” (una forma circolare chiusa eseguita dal suo terzogenito all’età di 2 anni e 9 mesi); mentre riporta il disegno denominato “albero” (la stessa forma alla quale subito dopo il bambino ha aggiunto nella parte inferiore un filamento verticale). Per la prima, “la rassomiglianza obiettiva è inesistente”; la seconda, “dal punto di vista di una rassomiglianza schematica, è perfettamente accettabile”. E. Lowenfeld e Brittain parlano per l’appunto di scarabocchio interpretato» (Pizzo Russo, 1988, p. 267).

194

Questo ultimo punto è da mettere in relazione a quella che sembra

essere la concezione prevalente di disegno […] è una domanda che

rivela l’implicita convinzione che il disegno serve unicamente a rendere

la configurazione degli oggetti, e che il tracciato del disegno sia diverso

dal tracciato dello scarabocchio. (Pizzo Russo, 1988, p. 215).

In questo senso l’intento rappresentativo viene unicamente inteso

come realizzazione del contorno degli oggetti mentre, in realtà, sono

gli stessi tracciati che il bambino si è esercitato fin qui a produrre che

vengono, da un certo momento in poi, a funzionare diversamente.

Ciò che nel passaggio cambia non è ancora né l’aspetto né

l’espressività dei tracciati, ma la loro funzione.

A livello formale il prodotto grafico non subisce immediatamente

alcuna trasformazione (tanto che l’adulto continua a vedere solo

scarabocchi), tuttavia avviene qualcosa nel modo di “pensare” del

bambino: egli attribuisce (autonomamente o su richiesta dell’adulto)

un nome al suo tracciato (un significato) e si mostra desideroso di

mostrarlo a genitori o insegnanti per condividerlo [figure 42 e 43, p.

28].

Il passaggio dallo scarabocchio al disegno non interessa

immediatamente la materialità del segno, né avviene bruscamente.

All’inizio il bambino non anticipa l’intenzione di rappresentare

qualcosa, ma si limita a rintracciarla nei segni a posteriori.

«Ha già capito che il segno, anche quello da lui prodotto, può essere

usato per rappresentare, ma non è ancora in grado di pianificarlo in

funzione rappresentativa» (Pizzo Russo, 1988, p. 216). Se lasciati

liberi di disegnare, i bambini assegnano il nome al disegno solo dopo

averlo completato, perché devono vederlo prima di poter dire che

cos’è, e uno stesso disegno può cambiare denominazione in

momenti successivi. Uno dei motivi per cui devono vederlo prima di

195

decidere che cosa è, è che non esiste nessuna “affinità formale”149

tra il tracciato e il movimento che l’ha prodotto.

Trattando la differenza tra l’atto del disegnare (che si compie in

sequenza) e il prodotto finale, che ha perso la sequenzialità dell’atto,

Arnheim osserva:

il compito dell’artista è reso più difficile non soltanto dal fatto che non

può contare sul movimento vivo che egli sperimenta mentre disegna o

scolpisce, ma anche dal dovere tenere a mente, mentre esegue un

particolare, un intero che in parte è presente e in parte va completato

con il procedere dell’opera. (Arnheim, 1954, p. 152).

Inizialmente il bambino si comporta come se potesse contare sul

“movimento vivo che sperimenta mentre disegna” e spesso chiede

all’adulto di “fargli vedere come si fa”, seguendo attentamente i

movimenti della mano dell’adulto piuttosto che lo svolgimento del

tracciato; ugualmente non è sempre in grado di ripetere il risultato da

lui precedentemente ottenuto e non può fare a meno che ritrovare

somiglianze a disegno ultimato [figura 44, p. 29].

La capacità di vedere gli oggetti come somiglianza è una

“sublimazione” della visione, una conquista privilegiata della specie

umana (Arnheim, 1969).

Con l’esercizio e la pratica l’intenzione rappresentativa (dichiarata o

suggerita da altri) informa sempre maggiormente l’espressione

grafica e quando il bambino inizia a trattare il segno anche come

somiglianza, l’analogia che vi riconosce può riguardare proprietà

dinamico-funzionali (ciò che un oggetto fa o che si può fare con

quell’oggetto), percettivo-formali (come è) o entrambe.

Così ad esempio, in figura 45, p. 29, Felix (5, 10) evidenzia “il salto”

come qualità caratteristica del canguro e motivo di somiglianza tra la

grafica e il soggetto rappresentato. 149 «Le qualità dinamiche delle opere d’arte [e del disegno in generale] non sono affatto create dalle forze fisiche corrispondenti» (Arnheim, 1954, p. 340).

196

Il primo canguro che disegna è quello posto nella parte più bassa del

foglio. Dapprima disegna una linea a zig-zag rossa che allunga con

un pennarello verde prima a destra (completando l’allungamento con

la testa); poi a sinistra (per rendere una sorta di coda). Cerca poi di

ottenere la tridimensionalità del corpo colorando una parte della linea

a zig-zag con il pennarello arancione. Infine guarda la figura e

aggiunge due gambe in azzurro. Per realizzare il secondo canguro

procede velocemente: dapprima la linea a zig-zag da sinistra a

destra, poi la testa e infine la coloritura del corpo.

Attributi dinamico-funzionali e percettivo-formali guidano d’altronde la

costruzione della conoscenza in questa fase dello sviluppo, nonché

la formazione dei relativi concetti.

Proprietà dinamico-funzionali e proprietà percettivo-formali, proprietà

quindi di natura diversa si combinano nel dar luogo al concetto. Le

prime, secondo la Nelson, costituiscono il criterio di definizione – il

nucleo funzionale del concetto – le seconde ne determinano l’estensione

[…]. Il criterio di estensione è dato prevalentemente dagli attributi

formali, ma il nucleo del concetto non è esclusivamente funzionale; fin

dall’inizio è costituito dal nesso che lega, talvolta in modo casuale, una

certa forma a una certa funzione.

Va messo anche in evidenza che nel trattare le proprietà dinamico-

funzionali dell’oggetto il bambino passa da un primo momento in cui le

considera strettamente dipendenti dalla sua azione, al momento in cui le

tratta come inerenti l’oggetto. L’elemento funzionale che andrà a fare

parte del nucleo concettuale, confuso all’inizio con l’azione del soggetto,

diventa viepiù oggettivo. Nell’oggettivazione delle proprietà dinamico-

funzionali un ruolo essenziale viene ad essere svolto proprio dall’analisi

delle proprietà percettivo-formali: la stessa azione non produce lo stesso

effetto su oggetti diversi, come ad esempio una palla o un cubo. Che

una palla rotoli, anche se è stata l’azione del soggetto a produrre

l’azione dell’oggetto, è una proprietà della palla, in quanto oggetto

sferico, e non dell’azione del soggetto […]. Fermo restando ciò, quando

il bambino comincia a disegnare, l’integrazione delle componenti formali

197

e funzionali del concetto può non risultare, in quanto il bambino può

concentrarsi solo su una delle caratteristiche. (Pizzo Russo, 1988, pp.

218-219).

Nel “vedere” somiglianza tra i suoi tracciati e gli oggetti, il bambino

sperimenta un modo diverso di conoscere: gli oggetti possono

essere disegnati e il disegno diventa uno strumento per conoscerli.

Da questo momento in poi, il disegno va, per così dire, oltre se

stesso e si rivolge al referente di cui “sta al posto” assumendo lo

statuto di simbolo: il significato domina sul significante (Vygotskij,

1978). Inizia un periodo di sperimentazione attiva sulla relazione tra

segno tracciato e proprietà dell’oggetto.

Se riflettiamo sul fatto che il disegno si realizza tramite un movimento, si

spiega perché il tracciato inizialmente può essere utilizzato come

equivalente di aspetti dinamico-funzionali e non formali. Ciò non

significa, tuttavia, che il bambino non sia “interessato (almeno agli inizi

della sua attività grafica) agli oggetti per la loro forma quanto per l’attività

ad essi collegata”. Molto più semplicemente, il bambino può trovare più

facile rappresentare, attraverso il movimento, un movimento che una

forma150.

Gradualmente cerca di rendere le immagini prodotte rassomiglianti al

loro modello attraverso l’aggiunta di dettagli caratterizzanti e

sperimentando configurazioni sempre più complesse ed elaborate. Si

150 Pizzo Russo, 1988, p. 219. Nell’analizzare le differenze tra gioco simbolico e disegno l’autrice sottolinea a proposito la maggiore complessità di quest’ultimo rispetto al primo. La relativa “semplicità” del gioco simbolico rispetto al disegno dipenderebbe dal fatto che il primo è rappresentazione di aspetti funzionali di oggetti, mentre il secondo riguarda anche e soprattutto elementi formali. Inoltre «che il nesso “movimento-movimento” sia più facile da comprendere di quello “movimento-forma”, trova una conferma indiretta nei dati di Gesell relativi all’“imitazione di segni” e alla “copiatura delle forme”. Se, come rileva Gesell, “il disegnare dopo avere osservato qualcun altro farlo, è un compito più facile e si sviluppa più precocemente del disegno, quando è dato il prodotto finale come modello”, ciò è dovuto al fatto che nel primo caso il bambino è facilitato dal potere imitare i movimenti dell’altro, nel secondo caso non ha da imitare un bel niente, ma deve organizzare i suoi movimenti per riprodurre il modello» (Ivi).

198

tratta di rappresentazioni che verranno sempre più orientate in senso

“percettivo-formale” sulla spinta di richieste culturali specifiche [figura

46, p. 30].

In sequenza relativamente rapida, le figure si differenziano

graficamente, grazie all’aggiunta di parti o alla loro suddivisione […]. Via

via che aumenta la pratica nel disegnare forme semplici, cresce il

desiderio di eliminare le ambiguità e di raffigurare i dettagli che

renderanno distinguibili, per esempio, l’uomo dall’animale. Il fatto che la

figura disegnata sia essenzialmente un utile schema, una soluzione

temporanea al problema grafico, è confermato dalle significative

variazioni che i bambini producono quando viene chiesto loro di

dichiarare all’osservatore le parti della figura che devono disegnare; o di

costruire una figura da forme di legno indistinte; oppure di completare

figure disegnate in modo incompleto; è inoltre confermato quando

spiegano le loro preferenze per modelli grafici specifici […]. (Golomb,

2002, p. 20).

Nella sequenza prevalente dello sviluppo grafico, che impegna il

bambino nella realizzazione dei primi lavori figurativi, gli esseri

umani, in particolare le figure di riferimento affettivamente più

importanti (mamma o papà) sono le prime grafiche a comparire,

seguiti da animali, edifici, vegetazione e mezzi di trasporto (Kellogg,

1969).

Gli elementi che compongono le figure sono illustrati separatamente

e ne viene riconosciuta l’identità attraverso la denominazione

“mamma”, “albero”, “casa” etc.

Non c’è modo di indicare con certezza a che punto dello sviluppo il

bambino cominci a rendersi conto che le sue figure sono

rappresentative: probabilmente già prima che confermi il fatto

all’osservatore adulto indicando il suo disegno e dicendo “cane!” Anche

dopo che questo stadio sia stato raggiunto, non c’è ragione di supporre

199

che tutte le figure disegnate in seguito dal bambino siano da lui

percepite come rappresentative. (Arnheim, 1954, 153-154).

Le figure 47 e 48, p. 31; 49 e 50, p. 32 sono esempi di questo

processo. In particolare la figura 48 è un esempio di denominazione

successiva: Liam ha letteralmente romanzato durante la

verbalizzazione, mostrandosi piuttosto indeciso sul “cosa”

effettivamente avesse disegnato, mentre la grafica 49 è di Glenis

(5,5), che, perfettamente in grado di rappresentare oggetti e

situazioni in modo realistico (si vedano le altre sue grafiche tra i

documenti etnografici) sperimentava spesso e volentieri forme più

“astratte” di composizioni nelle grafiche che spontaneamente

produceva.

Nel processo di sviluppo del codice molto presto le figure sono

allineate orizzontalmente e l’allineamento suggerisce relazioni

“convenzionalizzate” tra gli elementi della composizione, tuttavia per i

bambini impegnati a disegnare, le figure dovrebbero essere in grado

di affermare ciò che sono e la preoccupazione per la loro identità

sembra avere priorità su altri aspetti della rappresentazione quali, ad

esempio, le dimensioni o il colore [figure 51 e 52, p. 33].

Tra i cinque-sei anni iniziano a prestare maggiore attenzione alle

dimensioni dei soggetti, alla loro differenziazione e caratterizzazione

spesso su sollecitazione di adulti o bambini “più esperti” [figura 53, p.

34].

Nonostante appaiano piuttosto semplici e primitive, queste figure

testimoniano processi piuttosto astratti di pensiero visivo […].

L’indifferenza iniziale al realismo in relazione alle dimensioni e ai colori

non è tanto una questione di “vedere” il mondo differentemente in senso

psicologico o in termini di percezione visiva. Piuttosto, segue una logica

di tipo grafico che richiede di rappresentare in modo simile le

componenti ritenute ugualmente importanti. I bambini sono inoltre aiutati

200

da una strategia intuitiva che li porta a raggruppare le componenti in

base alla somiglianza dimensionale […].

In generale il loro stile di rappresentazione non riflette una mancanza

percettiva o concettuale; piuttosto è la valutazione di un principiante che

sta sviluppando un vocabolario pittorico di forme e colori e prova ad

organizzare i suoi elementi in modo significativo. (Golomb, 2002, p.

133).

Il disegno è ora più strutturato, curato e ricco; mentre i temi che

vengono rappresentati perseguono contenuti grafico-narrativi sempre

più elaborati [figure 54, p. 34; 55 e 56, p. 35]. La fase della

figurazione chiude il secondo periodo dello sviluppo grafico del

bambino, e viene collocata approssimativamente tra i 5 e i 6 anni.

Cuore dell’esperienza diventa ora la spinta a creare equivalenti

attraverso un medium particolare.

Anche la parola svolge un importante ruolo in questo processo,

soprattutto nella comunicazione-condivisione-trasformazione

dell’intenzione rappresentativa151: essa traduce e designa ciò che il

bambino intende esprimere attraverso la sua grafica, rendendolo

pubblico.

Lo spostamento del processo di denominazione (prima a posteriori,

in seguito a priori) sottolinea un cambiamento nella funzione stessa

del linguaggio. All’inizio il linguaggio accompagna l’azione, ed è

provocato e dominato dall’attività; più tardi, quando il disegno

assume lo statuto di equivalente simbolico, il linguaggio si muove

verso il punto di partenza dell’attività inaugurando un nuovo tipo di

rapporto tra parola e azione (o tra ideazione e processo grafico).

Ora una “parola” può guidare il corso dell’azione; una funzione

programmatica si aggiunge alla preesistente funzione di 151 «I metodi e gli scopi degli educatori hanno effetti molto precisi sugli alunni. A scuola i bambini sono indotti ad imitare i disegni di chiunque e questo è il risultato del giudizio espresso dall’insegnante sul lavoro dei diversi studenti. Anche i commenti positivi o negativi fatti dagli insegnanti sulle singole parti dei disegni possono suggerire ai bambini idee per modificare o aggiungere altri schemi a quelli elementari che già conoscono» (Kellogg, 1969, p. 179).

201

rispecchiamento, svolgendo un importante ruolo nella condivisione

dei processi in atto e dei prodotti ottenuti. Quando i bambini

imparano a usare in modo efficace la funzione programmatrice del

linguaggio hanno a disposizione uno strumento in più e il loro campo

cognitivo cambia radicalmente. Una visione del futuro è ora una

parte integrante del loro modo di accostarsi al compito (Vygotskij,

1978).

Anche nella copia di immagine si assiste allo stesso processo; ad

esempio nella figura 57, p. 36, Matteo (4,6) nomina le parti che copia

dall’immagine un attimo prima di iniziare a disegnare: la parola in

questo caso lo aiuta a focalizzare l’attenzione sulla parte che sta

riproducendo.

La prassi didattica della scuola dell’infanzia, e la pedagogia

sostenuta da quest’ultima, favoriscono e incoraggiano il trasferimento

delle parole in senso grafico e, nel processo inverso, la traduzione

delle grafiche in codice linguistico, laddove la richiesta da parte

dell’insegnante è spesso finalizzata alla riproduzione di oggetti o

avvenimenti specifici che riguardano una discussione verbale, una

narrazione, un vissuto, che a sua volta è seguita da una richiesta di

verbalizzazione dei disegni stessi.

2.2.1 La prospettiva intellettuale

Per molto tempo gli studiosi del disegno infantile si sono chiesti se il

bambino disegna ciò che sa di una persona, di un oggetto, di una

situazione, o piuttosto ciò che vede.

Secondo la prospettiva intellettuale152 lo schema figurativo riproduce

le conoscenze che il bambino ha del mondo fenomenico, ed è

152 Gli studiosi che rientrano in questo orientamento sono accomunati dalla premessa che «non un atto percettivo visivo sia alla base del disegno, ma una non ben identificata attività mentale, che creerebbe il modello interno per le composizioni grafiche infantili. In altre parole, i disegni dei bambini traducono una conoscenza non visiva ma intellettuale delle cose, pertanto sarebbero riproduzioni

202

ispirato da un modello interno (una rappresentazione schematica di

oggetti, una sorta di “copia”) in cui l’aspetto percettivo subisce, a

livello mentale, una rielaborazione di tipo astrattivo.

Ad esempio, nella figura 58, p. 36, Giulia (6,5) rappresenta il gioco

dei ragni153 che ha imparato il giorno precedente in palestra. In

questo disegno Giulia rielabora il suo vissuto svincolandosi dalla

realtà: la palestra è come una casa (e così viene rappresentata);

fuori c’è il sole (che non è visto veramente), e il gioco viene

condensato in due figure umane solari (i ragni) poste al centro della

palestra.

Secondo la prospettiva teorica che stiamo analizzando la procedura

seguita da Giulia per la rappresentazione del gioco dei ragni sarebbe

stata: evocazione cognitiva dell’esperienza, elaborazione di

un’immagine percettiva che la condensi, copia dell’immagine nel

disegno.

Secondo la prospettiva intellettuale, nel processo di restituzione

grafica il bambino cerca di rendere i suoi disegni rassomiglianti agli

oggetti della realtà, attraverso un «modello interno» (una sorta di

immagine mentale) che ne riproduce l’esemplarità (Luquet, 1927)154.

non della realtà esterna o di modelli visivi ma riflessi di un modello interiore o di una pura rappresentazione mentale. Nell’ambito di tale visione, acquistano importanza gli studi volti a mettere in luce i processi cognitivi che informano le abilità grafiche e favoriscono l’evoluzione del disegno. La prospettiva intellettuale è altresì denominabile come prospettiva cognitiva o evolutiva, secondo che l’accento sia posto sulla relazione tra lo sviluppo del sistema cognitivo e i cambiamenti della rappresentazione grafica, oppure sulle fasi che caratterizzano lo sviluppo del disegno» (Quaglia, 2003, p. 9). Di seguito prenderemo in considerazione la prospettiva intellettuale di stampo evolutivo e successivamente la più recente impostazione cognitiva. 153 Nel gioco dei ragni vengono scelti due bambini (i ragni) che hanno lo scopo di catturare gli altri (le prede). La palestra viene divisa in due zone, e i ragni, al centro e per mano, possono muoversi solo lungo la linea orizzontale che attraversa le due zone. Gli altri bambini si muovono da una parte all’altra della palestra, e, se catturati, prendono per mano gli altri bambini e diventano a loro volta ragni. La catena dei ragni si allunga durante il gioco, rendendo sempre più difficile lo spostamento delle prede da una zona all’altra. Il gioco si conclude quando tutti i bambini sono stati catturati. 154 Vorremmo precisare che Luquet non sostiene affatto la posizione intellettuale e tuttavia è opportuno prenderlo in considerazione perché, avendo per primo parlato di “realismo intellettuale”, ritenuto a torto sinonimo dell’assunzione che il bambino

203

Tuttavia il concetto di rassomiglianza del bambino è diverso da

quello dall’adulto155, e il disegno di Giulia ne è un esempio

emblematico.

In generale per il bambino è rassomigliante un disegno che contiene

tutti gli elementi essenziali a identificare l’oggetto rappresentato156.

Per l’adulto, un disegno, perché sia rassomigliante, deve essere una

specie di fotografia dell’oggetto visto in prospettiva con dettagli visibili

soltanto dalla parte da cui l’oggetto si osserva, riprodotti nella forma che

assumono guardati da quel punto di vista. Nella concezione infantile

invece un disegno, per essere rassomigliante, deve contenere tutti gli

elementi reali dell’oggetto, anche se non visibili dalla parte da cui viene

guardato e senza preoccupazione dei punti di vista, ciascun dettaglio

disegna “non ciò che vede, ma ciò che sa” (formula peraltro di Piaget e non di Luquet, che invece si limita all’assunzione che il bambino disegna “ciò che sa”), è registrato nella letteratura sull’argomento come il più acceso sostenitore di tale teoria, e soprattutto perché la sua posizione nella ricezione viene intrecciata con quella di Piaget «il quale, avendo combinato “il realismo intellettuale” con la formula più volte riportata, se ha contribuito alla fortuna di Luquet – un Luquet ad usum delphini -, è stato probabilmente decisivo per la diffusione e la conservazione della formula stessa e soprattutto per l’interpretazione corrente del “realismo intellettuale”» (Pizzo Russo, 1988, 105). A titolo esemplificativo dell’irradiazione di questa valutazione della posizione di Luquet cfr. Gombrich, 1963, p. 14; Perussia, 1979, p. 41.

Anche se Luquet non sminuisce il ruolo svolto dalla percezione nelle produzioni grafiche, il passaggio dalla percezione al disegno è comunque mediato da un modello interno «la rappresentazione dell’oggetto, prima di essere tradotta graficamente, si trasforma necessariamente in un’immagine visuale la quale non è affatto la riproduzione servile delle percezioni fornite al disegnatore dalla vista dell’oggetto o di una sua riproduzione, ma è una rifrazione attraverso la mente del bambino, una ricostruzione originale che risulta da una rielaborazione soggettiva assai complicata nonostante la sua spontaneità: è questo appunto il modello interno che si distingue nettamente dall’oggetto o dal modello propriamente detto» (Luquet, 1927, p. 73). Per una critica dell’appartenenza di Luquet alla prospettiva intellettuale e un’analisi puntuale delle reciproche posizioni di Piaget e Luquet, cfr. Pizzo Russo (1988). 155 Luquet, ricordando che il disegno può essere figurativo («copia della realtà») o non figurativo («geometrico»), precisa che il bambino, anche quando copia dei disegni geometrici, non li interpreta «come forme di bellezza» ma come «forme di vita». Sui significati non geometrici che le figure della geometria piana assumono per i bambini, istruttivi sono i protocolli riportati da J. Piaget e B. Inhelder (1948). Il triangolo ad esempio viene individuato dai bambini di 5-6 anni come “formaggio, casa, tetto”. 156 Per il bambino «il fine essenziale di un disegno è quello della rassomiglianza sia nell’insieme sia riguardo al numero e all’esattezza dei particolari» (Luquet, 1927, p. 115).

204

inoltre deve conservare la sua forma caratteristica seguendo il concetto

di esemplarità e non quello di prospettiva. (Luquet, 1927, p. 147).

Così, nella figura 59, p. 37, Glenis (6 anni) rappresenta la torta del

compleanno di Liam utilizzando contemporaneamente una

prospettiva dall’alto (che gli permette di visualizzare le due fette di

torta tagliate da Liam, ma che nella realtà sono state tagliate

dall’insegnante) e una prospettiva frontale (che gli consente di

posizionare le cinque candeline sulla torta). Nello stesso tempo, Liam

è rappresentato a figura intera, in prospettiva frontale dietro (o

davanti?) ad un tavolo i cui piedi sono visti frontalmente, a differenza

del piano che è rappresentato come se fosse visto dall’alto.

Nel modello di sviluppo elaborato da Luquet157 il bambino, raggiunto

lo stadio dello schema figurativo, esprime nelle sue grafiche una

sorta di realismo intellettuale. (Luquet, 1927, pp. 147-173).

Luquet distingue il realismo dell’adulto, di tipo visivo, da quello del

bambino, di tipo, appunto, intellettuale, e puntualizza: «ciò che

interessa il bambino non è l’aspetto che un soggetto può assumere

secondo un punto di vista contingente e variabile, ma è il suo aspetto

essenziale sub specie aeternitatis» (Ibidem, p. 115) il realismo

157 L’opera di Luquet (1927) è il punto obbligato di riferimento per tutti gli studi sul disegno infantile e l’evoluzione in stadi da lui delineata è ancora oggi usata e ritenuta valida, soprattutto nella versione rivisitata che ne ha dato successivamente Piaget. In sintesi, le fasi di sviluppo del disegno nella teoria di Luquet, sono principalmente quattro: il realismo fortuito, corrispondente allo stadio dello scarabocchio, una fase prevalentemente psicomotoria e di imitazione di genitori o di altre figure che il bambino osserva mentre disegnano o scrivono; il realismo mancato in cui il bambino disegna con maggiore intenzionalità ma con immatura accuratezza e attenzione rispetto al modello reale; il realismo intellettuale, durante il quale c’è maggiore accuratezza e appaiono alcune caratteristiche tipiche del disegno infantile quali la “trasparenza” e il “ribaltamento” (che verranno trattati in seguito); il realismo visivo in cui il bambino abbandona i fenomeni prima citati, aggiunge la prospettiva nei suoi elaborati e “disegna ciò che vede” (dagli otto anni in poi). L’interesse di Piaget per la teoria di Luquet fu dovuto alla sua congruenza con il modello di sviluppo cognitivo in quattro stadi tracciato da Piaget stesso: periodo sensomotorio, pre-operatorio, operatorio concreto, operatorio formale. In particolare la rappresentazione dello spazio, corrisponde per Piaget alla fase del ragionamento sullo spazio, in cui il bambino passa da intuizioni topologiche a strutture proiettive e metriche. La rappresentazione grafica rifletterebbe dunque un progressivo sviluppo delle strutture cognitive in senso razionale.

205

intellettuale, caratterizzato dall’esemplarità e non dalla prospettiva, è

il «realismo più congeniale all’infanzia».

Il bambino propone “rappresentazioni canoniche” degli oggetti del

mondo, ovvero utilizza «forme che sono vicine ai modi in cui quegli

oggetti sono codificati nell’occhio della mente» (Hochberg, cit. in,

Quaglia, 2003, p. 73). Così può accadere ad esempio, che scelga di

disegnare, per ogni parte di un oggetto o di un episodio, l’aspetto che

maggiormente lo identifica. Al contrario, tutti gli elementi che non

vengono considerati necessari ai fini della comprensione

dell’oggetto, sono eliminati.

A seconda del tipo di configurazione che intende dare alle varie parti del

disegno, adotta per ognuna il piano che meglio la caratterizza. Nel

disegno della giostra la struttura globale è disegnata vista dall’alto

perché per il disegnatore l’essenza della giostra - l’idea giostra – è una

piattaforma tonda che gira; le automobili sono invece viste di fianco

perché questa è la configurazione tipica di un’automobile in movimento;

gli omini infine stanno di fronte perché questa è la posizione che li rende

più facilmente individuabili come spettatori: se essi fossero di profilo

parrebbero in movimento, il che contrasterebbe l’intenzione dell’autore.

(Oliviero Ferraris, 1973, p. 48).

Nella figura 60, p. 37, Jonny (5,6) rappresenta il momento della

narrazione delle fiabe durante la festa di carnevale a scuola. La

scenografia è posta in alto, staccata dal resto della scena; sul palco,

la volpe e il gatto che recitano, e sotto, alcuni bambini che guardano

lo spettacolo girati dalla parte “sbagliata”.

Per la prospettiva intellettuale persone, animali, e oggetti sono

rappresentati solo secondo quei tratti essenziali che li rendono

riconoscibili e non in base a “modelli visivi”, e ciò giustificherebbe

fenomeni come il ribaltamento e la trasparenza; e tutte quelle

«contraddizioni» tra disegno e realtà di cui il bambino «non ha

ancora coscienza».

206

Il concetto di riconoscibilità ricercato e agito dal bambino va

senz’altro nella direzione di una maggiore interpretabilità delle

grafiche anche da parte degli adulti per i quali i disegni appaiono

sempre più “chiari” e “conformi” a un modello di «realismo ottico» di

produzione (da questo punto di vista, il disegno di Giulia 6,5 in figura

58, p. 36, sarebbe considerato da molti insegnanti “sbagliato”).

In questa prospettiva teorica, il realismo intellettuale158 può indurre il

bambino a riprodurre particolari che non esistono nella realtà e la

soddisfazione del bambino deriverebbe proprio dall’aver reso

identificabile a se stesso (e soprattutto ad altri aggiungeremmo noi),

il proprio disegno.

Così nella figura 61, p. 38, Martina (5,11) mette lo stesso vestito a lei

e alla sorella più piccola (di sei mesi): in realtà la mamma non ha mai

vestito le due bambine con vestiti uguali; mentre nella figura 62

Marta (5, 10) non esita a rappresentare contemporaneamente la

scuola e il suo interno, dando origine al fenomeno della trasparenza.

La riconoscibilità degli oggetti e l’importanza attribuita alla loro

identificazione spiegherebbe dunque sia il fenomeno della

trasparenza, sia la compresenza di più punti di vista all’interno dello

spesso disegno (il ribaltamento) che rende possibile rappresentare le

case «con le loro facciate, come se fossero distese sullo stesso

piano della strada» (Widlöcher, 1965, p.38).

158 Il realismo intellettuale per Piaget corrisponde ad una vera e propria modalità di funzionamento psichico del soggetto. Il bambino «non vedrà gli oggetti quali sono, ma quali egli se li sarebbe rappresentati prima di vederli se, supposto l’impossibile, egli se li fosse descritti a se stesso. Per la stessa ragione i primi stadi del disegno infantile non sono caratterizzati dal realismo visuale, cioè da una copia fedele del modello dato, ma da un realismo intellettuale tale che il bambino non disegna delle cose altro che quello che egli ne sa e non guarda che un “modello interno”. Tale è anche l’osservazione infantile. Il bambino sovente non vede che quello che sa […].

Il realismo intellettuale è dunque la rappresentazione più naturale del mondo per il pensiero egocentrico. Da un lato esso testimonia un’incapacità all’osservazione obiettiva (il realismo visivo). Da un altro lato è tuttavia un realismo, perché il bambino non è né un intellettuale (il suo disinteresse per la sistematizzazione logica è completo) né un mistico». Pertanto «il realismo infantile è intellettuale e non visuale: il bambino non vede [che] quello che sa e vede il mondo esterno come se egli lo avesse costruito prima con la propria intelligenza» (Piaget, 1924, rispettivamente pp. 258 e 264).

207

A questo proposito si noti in figura 63, p. 39, come Salvatore (5,4)

rappresenta il cerchio del pavimento della palestra e il contenitore dei

palloni (entrambi in una prospettiva dall’alto in contrasto con la

prospettiva frontale utilizzata nel resto della grafica).

In questi casi il bambino non assumerebbe un punto di vista

“esterno” alla scena rappresentata, piuttosto è come si collocasse

all’interno della situazione, «restandone coinvolto» (Oliverio Ferraris,

1973).

Il coinvolgimento dell’autore all’interno della rappresentazione può

essere espresso anche in altri modi. Si veda ad esempio il disegno di

Jonny (5,6) in figura 65, p. 40. Si tratta della rappresentazione grafica

delle attività svolte in palestra, dove in parte, ritroviamo il gioco dei

ragni rappresentato da Giulia (6,5) in figura 58, p. 36. Nel disegno di

Jonny (che frequenta da tre anni la stessa sezione di scuola

dell’infanzia di Reggio Emilia con Giulia e che ha partecipato alle

stesse attività) vi è la compresenza di più attività: il percorso (una

delle attività proposte ai bambini che consiste in una staffetta in cui

sono previste diverse andature e l’uso di piccoli attrezzi e altri

materiali della palestra) e il gioco dei ragni.

La parola “percorso” sconvolge tutta la rappresentazione: il percorso

diventa una specie di “pista” per delle macchine che devono andare

ad una certa velocità (il 100 della figura); l’insegnante di trasforma in

un vigile che dirige il traffico; mentre il ragno ha una sua macchina,

diversa dalle altre. Vengono poi aggiunti altri veicoli e un lampadario

animato (in palestra ci sono i neon).

Trasparenza, ribaltamento, uso simultaneo di entrambi i procedimenti

e collocazione dell’autore all’interno della rappresentazione sono

modalità che discendono dalla «prospettiva infantile», diversa da

quella dell’adulto che «rappresenta, in ultima analisi un’astrazione

perché, nella rappresentazione […] toglie all’oggetto tutto ciò che non

è visibile». (Luquet, 1927, pp. 147-173).

208

Luquet pone termine al disegno infantile attorno agli otto-nove

anni159, quando il bambino abbandona progressivamente il realismo

intellettuale a favore del realismo visivo e adotta gli stessi criteri

rappresentativi degli adulti con riferimento alla sola apparenza

visiva160. In questo passaggio, si verificherebbero alcuni cambiamenti

159 «Mediante le dichiarazioni verbali degli stessi bambini è possibile stabilire che essi optano, non inconsciamente ma per deliberato proposito, per il realismo visivo […]. Considerando come criterio base dell’applicazione del realismo infantile la raffigurazione di un solo occhio in una fisionomia di profilo, abbiamo constatato che la sostituzione del realismo visivo al realismo intellettuale si realizza quasi sempre verso gli otto o nove anni; ma possono senz’altro riscontrarsi differenze individuali fra i vari bambini e l’intenzione del realismo visivo può manifestarsi anche ad un’età assai inferiore».

Luquet esemplifica poi con bambini di 4 anni. «Ma la sostituzione del realismo visivo al realismo intellettuale non avviene tutta in una volta, così come ogni altro progresso grafico […]. Il realismo visivo deve lottare contro abitudini contrarie ad esso profondamente abbarbicate e, dopo la sua apparizione, impiega un certo tempo prima di divenire permanente; non soltanto il realismo intellettuale tende a riapparire in disegni posteriori ad altri in cui è già assente, ma uno stesso disegno può contenere contemporaneamente i due tipi di realismo» (Luquet, 1927, pp. 174-180). 160 Piaget adottò il sistema di classificazione elaborato da Luquet, e postulò una stretta corrispondenza tra i disegni dei bambini e il ragionamento matematico-spaziale. Ne La rappresentazione dello spazio nel bambino (Piaget - Inhelder, 1948) in particolare delineò una progressione evolutiva del grafismo che inizia con il disegno di forme chiuse (alla fine del periodo senso-motorio) e che si conclude con il raggiungimento del realismo visivo (alla fine del pensiero operatorio concreto). La rappresentazione grafica è collocata all’interno delle manifestazioni che riguardano la funzione semiotica o simbolica, che coincide con la capacità rappresentativa, ossia la capacità di richiamare alla mente oggetti non percettivamente presenti (“significati”) grazie a indici, simboli o segni che ne evocano le caratteristiche (“significanti”). La capacità rappresentativa si esprime attraverso svariate condotte: l’imitazione, il gioco simbolico, la produzione di immagini mentali, il linguaggio e il disegno. Piaget riconosce al disegno lo statuto di simbolo (un significato cui corrisponde un significante da esso differenziato) a metà strada tra il gioco simbolico (con cui condivide il piacere funzionale e l’autoreferenzialità) e l’immagine mentale (che esprime lo stesso sforzo di imitazione della realtà).

Secondo Piaget nel disegno predomina l’accomodamento sull’assimilazione: il disegno è “copia” dell’immagine mentale, ovvero dell’interiorizzazione di oggetti e della corrispondente esperienza percettiva che il bambino ne ha (una sorta di imitazione interiorizzata). Le “carenze” rinvenibili nei primi schemi figurativi (omissioni, trasparenza, ribaltamento, non corrispondenza di forma e dimensioni tra gli oggetti raffigurati…) sono associate da Piaget allo sviluppo cognitivo e trovano una spiegazione nell’immaturità concettuale; mentre, i successivi mutamenti nelle grafiche (in particolare nel periodo che va dai 7 agli 11 anni), denoterebbero l’avvenuta intuizione dei concetti euclidei della misurazione e della geometria proiettiva. Superato l’egocentrismo il bambino introdurrebbe nelle sue grafiche la prospettiva, segno dell’avvenuta interiorizzazione della possibilità dell’esistenza di altri punti di vista e della relativa capacità di tenerne conto. Mentre nel modello dello sviluppo cognitivo dello psicologo ginevrino, la meta finale dello

209

a livello cognitivo: primo fra tutti il progredire della sua capacità di

attenzione, che lo costringerebbe a misurarsi con la realtà e a

rendersi conto della «contraddittorietà» delle sue raffigurazioni, che

costituiscono delle «assurdità empiriche». Diviene meno «maldestro»

nell’esecuzione dei disegni, e meno «negligente» nell’osservazione

della realtà. Un simile progresso mette in grado il bambino di valutare

criticamente i suoi prodotti grafici: avverte le sue ingenuità e

«condanna il realismo intellettuale» per la sua insufficienza a

rappresentare «adeguatamente» la realtà (Luquet, 1927).

Al realismo intellettuale si sostituisce il realismo visivo. Il realismo

intellettuale è caratterizzato da una serie di espedienti mediante i quali il

bambino è riuscito a rendere socialmente interpretabili i suoi disegni

[ora] non basta rappresentare tutti gli elementi costitutivi di un oggetto, è

necessario anche che gli elementi appaiano in relazione tra loro, e ciò

induce il disegnatore ad eleggere un unico punto di vista. (Quaglia,

2003, p. 74).

Nella fase del realismo visivo il bambino continua a disegnare

secondo il proprio «modello mentale», ricercando esemplarità e

rassomiglianza ma ora i disegni sono ora maggiormente informati

dalle regole convenzionali della prospettiva. Non si tratta né di

un’informazione “scientifica”, né di una copia dal vero frutto

sviluppo cognitivo corrisponde al ragionamento logico-matematico, meta finale dello sviluppo grafico è il realismo visivo delle rappresentazioni.

Il pensiero di Piaget ha influenzato per molto tempo gli studi sulle grafiche dei bambini, e il criterio del realismo visivo sottende la costruzione di numerosi test di misurazione dell’intelligenza in cui è richiesto ai bambini di disegnare. Va peraltro specificato che il significato che Piaget attribuisce al realismo intellettuale è diverso da quello originario di Luquet. Mentre per Luquet il realismo è la caratteristica saliente del disegno in quanto disegno, e intellettuale e visivo sono modi diversi di intendere la rassomiglianza tra disegno e oggetto, per Piaget il realismo diventa una caratteristica della mentalità infantile. Sulla base di analisi approfondite e di ulteriori ricerche sperimentali, molti autori hanno ridimensionato la concezione di Piaget (Freeman, 1980; Selfe, 1983; Leslie, 1987¸ Golomb, 2002). Nello specifico Golomb osserva: «La mia critica a Piaget riguarda il suo modello evolutivo grafico, inteso come una progressione unidirezionale verso il realismo ottico, una teoria che ignora la varietà dei modelli culturali e l’efficacia dei modelli rappresentazionali alternativi che dipendono dalle intenzioni dell’artista» (Golomb, 2003, p. 19).

210

dell’osservazione, ma di una vera e propria conquista cognitiva nella

direzione della «figurazione realistica», ultima e universale tappa,

secondo questo modello, dello sviluppo del disegno161.

Tradizionalmente la teoria intellettuale di stampo evolutivo fonda la

propria analisi dello sviluppo sul prodotto simbolico, indagando le

motivazioni cognitive che stanno alla base delle “imperfezioni”

presenti nelle manifestazioni grafiche dei bambini e di come queste

cambino nel corso dello sviluppo con il procedere dell’età.

Autori più recenti, nell’ambito dello stesso approccio, privilegiano

invece l’aspetto processuale dell’attività, mettendo in primo piano gli

aspetti relativi ai coefficienti esecutivi e ai problemi tecnici che il

bambino deve di volta in volta risolvere quando disegna162.

Sulla spinta delle nuove ricerche aperte dalla psicologia cognitiva,

viene valutata la produzione dei disegni come compito di problem-

solving, e l’attenzione degli studiosi si focalizza sui processi esecutivi

che mediano il passaggio dal progetto al prodotto.

Il disegno è visto come attività simbolica agita attraverso determinati

strumenti e soggetta a determinati vincoli: «nessun disegno è una

traduzione automatica di qualche mondo percettivo» perché ciò che

si conosce deve essere trasformato nell’azione di disegnare (Olson,

1979).

161 Piaget e Inhelder sostengono in La psicologia del bambino, che «realismo intellettivo del disegno infantile ignori la prospettiva e le relazioni metriche, ma tiene conto dei nessi topologici: vicinanze, separazioni, inclusioni, chiusure, ecc. da queste intuizioni topologiche procedono, a partire dai 7-8 anni, intuizioni proiettive nello stesso tempo in cui si elabora una matrice euclidea, vale a dire che appaiono i due caratteri essenziali del “realismo visivo” del disegno» (Piaget - Inhelder, 1966, p. 63). 162«E’ nell’ambito dell’approccio HIP (Human Information Processing o teoria dell’elaborazione delle informazioni), dagli anni ’70 in poi, che ci si inizia a porre il problema della specificità dell’attività del disegnare rispetto alle competenze cognitive più generali, distinguendo in modo netto il conoscere qualcosa dal saperlo rappresentare.

In relazione a tale mutamento di prospettiva teorica, la ricerca si indirizza ad indagare meglio le caratteristiche dell’attività rappresentativa e i processi di acquisizione delle regole che la guidano» (Donsì - Parrello, 2005, pp. 20-21).

211

Si cerca di risalire alla “natura dell’azione grafica” e alle difficoltà

implicite nella progettazione-pianificazione-esecuzione di un disegno:

riduzione della tridimensionalità del reale alla bidimensionalità del

foglio, riconoscibilità di ciò che si raffigura, posizionamento “corretto”

degli elementi che compongono il disegno e reciproca collocazione di

più oggetti tra loro.

Ci si preoccupa dei problemi procedurali e degli espedienti utilizzati

dai bambini per tradurre “una conoscenza” in disegno e si focalizza

maggiormente l’attenzione sul processo “materiale” dell’azione

grafica e sul contesto in cui avviene.

Così ad esempio secondo Jacqueline Goodnow

i disegni dei bambini, più di ogni altro tipo di produzione grafica, sono

fatti di unità combinate in una grande quantità di modi. Le unità possono

variare nel genere: possono essere per esempio linee rette,

scarabocchi, cerchi, quadrati, triangoli o croci; possono anche variare

nel numero: uno o più ovali, due o più aste. Possono variare nel modo in

cui sono unite: ammucchiate l’una all’altra o collegate da una linea di

contorno comune. (Goodnow, 1977, p. 33).

L’autrice si è occupata in particolare dell’analisi degli schemi

figurativi, di come le diverse unità che compongono gli schemi sono

collocate nello spazio grafico-pittorico e di come sono organizzate in

sequenze d’azione. Molti aspetti dei disegni sono attribuiti al modo

escogitato dai bambini per risolvere i problemi incontrati nel corso del

compimento di determinati tipi di schemi o nella sequenza di

esecuzione scelta per produrre lo schema stesso. Così, ad esempio,

l’omissione delle braccia nella riproduzione di una figura umana,

potrebbe essere dovuta al tipo di linea utilizzata nello schema

figurativo o dallo spazio rimasto disponibile sul foglio, piuttosto che a

un fallimento d’analisi percettiva o di comprensione concettuale delle

relazioni spaziali:

212

spesso sono le parti precedenti di un disegno a porre il problema di

come aggiungere una parte successiva facendo in modo che le linee

non si incrocino né violino lo spazio appartenente ad un’altra unità.

(Ibidem, p. 63).

Nella rappresentazione grafica effettivamente solo il primo tratto è

completamente “arbitrario” e il processo produttivo risente

necessariamente delle restrizioni imposte dai segni già tracciati163.

Ad esempio, nella figura 65, p. 40, Annalisa (5,11) durante

l’esecuzione, ha iniziato a disegnare la mamma dalla testa, nella

parte alta del foglio, formato A4 posto verticalmente davanti a lei.

Durante la produzione, dopo aver disegnato testa, busto e iniziato a

tracciare il segno della prima gamba, si è ferma e, prima completare

la gamba, mi ha guardato e chiesto “posso andare fino in fondo?”

L’ho lasciata libera di decidere. Si è rimessa sul disegno e ha

proseguito. A disegno ultimato ha commentato (stupita e divertita)

“che gambe lunghe ci sono venute alla mia mamma!”

Dunque non vi è rispondenza possibile né con l’intenzione iniziale né

con eventuali schemi interni, ma il disegno è determinato dalla somma

163 «Non si tiene mai nella giusta considerazione il fatto che ogni disegno ha inizio sempre in un punto, a partire dal quale la mano avvia il movimento con cui traccia la prima linea, seguita da una linea successiva che può avere origine da un altro punto nello spazio del foglio, e che l’occhio avrà guardato in un secondo momento, senza però averlo considerato in rapporto al primo; e così di seguito fino all’ultima linea con cui si conclude il disegno.

La visione di un oggetto, così come il disegno della sua forma, non si ha mai nella sua completezza in modo istantaneo; noi non vediamo mai una cosa nella sua globalità in un sol colpo d’occhio; la cognizione visiva che ne abbiamo, sia pure in un lasso di tempo molto breve, è così breve da sembrarci perfino immediata, in realtà è sempre il risultato di un’esplorazione che l’occhio compie, toccando i punti salienti della sua morfologia […]. Non foss’altro che per una condizione puramente meccanica, il disegno prevede tempi di realizzazione molto più lunghi di quelli che occorrono alla visione; l’occhio è molto più veloce a percorrere un bordo, il contorno di una forma rispetto a quanto occorre alla mano per tracciare la linea del medesimo contorno sul foglio. La mano esegue in tempi diversi le operazioni una di seguito all’altra in successione temporale, raccordando il tratto di linea appena tracciato con un altro in continuità con questo, ma con un’altra direzione. L’occhio invece non esegue necessariamente le operazioni nello stesso ordine e con la stessa cronologia» (Di Napoli, 2004, pp. 289-290).

213

degli effetti di una pluralità di indici – che vanno dai margini del foglio,

alla posizione dei tratti già eseguiti, alla necessità di rispettare le

proporzioni, a tutti i problemi grafici e rappresentativi che via via si

pongono. (Donsì – Parrello, 2005, p. 22).

Si osservi a proposito lo strano andamento della strada ferrata

disegnata da Salvatore (5,5) in figura 66, p. 41.

Norman Freeman e collaboratori164 hanno inoltre dimostrato che la

rappresentazione grafica può essere condizionata dal tipo di compito

e dalle consegne dello sperimentatore; mentre altri autori (Crook,

1985; Callaghan, 1999; Cox, 1985; Davis, 1985, Tallandini - Valentini

1991, Thomas - Silk, 1990) si sono occupati di come la

rappresentazione canonica possa essere abbandonata in favore di

una rappresentazione “centrata sull’osservatore” quando la

situazione lo richiede165.

164 Freeman – Cox, 1985. Già a partire dalla fine degli anni Settanta, Freeman articola un’innovativa analisi dei processi produttivi del disegno, il cui “farsi” è visto come progressiva risposta alle limitazioni imposte dai segni precedentemente tracciati. Al centro dell’attenzione dello studioso, la cui metodologia si caratterizza per un’accurata logica sperimentale, i problemi della traduzione della tridimensionalità in rappresentazioni bidimensionali, la rappresentazione della profondità e della figura umana, il modo di affrontare questi vincoli e la modifica delle strategie da parte del bambino nel corso dello sviluppo. La maggior parte dei materiali d’analisi sono stati raccolti in laboratorio e la metodologia prevede consegne ai bambini, per lo più presi individualmente, che riguardano il disegno di oggetti singoli (ad esempio cubi) o oggetti in una specifica relazione (davanti/dietro, sopra/sotto) (Freeman, 1977; 1980). Più recentemente lo stesso Freeman ha riconosciuto che i ricercatori hanno sottostimato le abilità pittoriche dei bambini, studiandole in condizioni impoverenti; cfr. Freeman, 1987. 165 «In effetti una raffigurazione “centrata sull’osservatore”, cioè più informata sull’aspetto di un oggetto visto da una prospettiva specifica, può essere sollecitata da situazioni particolari. Esistono infatti condizioni che consentono di modulare l’influenza intellettualistica: si possono progettare situazioni sperimentali che inducano un bambino di 5 anni ad accedere ad una rappresentazione basata sul punto di vista. Vari ricercatori hanno provato questa asserzione, ma forse lo studio più esemplificativo è quello di Davis (1985), che mostra che la tendenza dei bambini a disegnare comunque il manico di una tazza, anche se invisibile nella prospettiva proposta, per denotare più chiaramente l’oggetto, può essere contrastata creando una contrapposizione con un’altra tazza dal manico visibile: secondo l’autrice, questo contrasto simultaneo nella configurazione visibile tende a indurre la possibilità di omettere il manico nella rappresentazione di una delle tazze, allo scopo di far notare la differenza tra i due oggetti. Pinto e Bombi (1996) hanno più di recente dimostrato l’abbandono spontaneo da parte dei bambini di 5 anni delle forme canoniche di rappresentazione frontale della figura umana, a

214

È chiaro che se, come sostenuto da Piaget e dalla prospettiva

intellettuale di stampo evolutivo, il disegno fosse solo la restituzione

di un “modello mentale” astratto e universale che evolve con l’età,

varianti dovute a contesti e consegne, non potrebbero essere

accolte.

In questo senso, di particolare utilità si sono rivelati gli studi di coloro

che hanno indagano l’attività grafica dei bambini in relazione agli

strumenti utilizzati nei processi di raffigurazione.

Sul piano generale si è oramai d’accordo nel riconoscere che lo scontro

con la varietà dei materiali sollecita l’individuo ad affrontare problemi

diversi e a escogitare di volta in volta soluzioni su misura. Un materiale

che si trasforma in un medium, per rispondere ad un’intenzione

espressiva, conduce il ragazzo a trovare ordine e forma, a rimediare,

ristrutturare e individuare nuovi rapporti. (Piantoni, 1992, pp. 9-10).

L’efficacia rappresentativa sarebbe dunque raggiunta in misura

diversa a seconda del medium utilizzato e in stretto rapporto con la

varietà delle caratteristiche che ogni compito comporta166.

Golomb ha analizzato in modo approfondito le tendenze

rappresentazionali del bambino nel disegno e in attività basate su

mezzi espressivi tridimensionali.

Nel disegno e nella pittura, la carta, la tela, la corteccia, la seta o altri

tessuti costituiscono una superficie bidimensionale su cui inchiostro,

pittura, carboncino, gesso e pastelli devono essere applicati con

pennelli, penne, matite e simili. Il mezzo bidimensionale permette

all’artista, da un lato una gamma di azioni e di forme potenziali di

rappresentazione, dall’altro lato gli impone dei vincoli. A differenza dei

mezzi bidimensionali, l’argilla, il gesso, il legno e la pietra sono materiali

favore di quella di profilo, per rendere meglio una dinamica di conflitto tra due figure» (Donsì - Parrello, 2005, p. 23). 166 Sull’importanza dei fattori di pianificazione e del loro intrecciarsi con il medium utilizzato cfr. Pinto, Bombi, Freeman, 1997.

215

tridimensionali che invitano l’artista a lavorare su tutte le sfaccettature

della scultura […]. Anche se c’è una notevole distanza tra le concezioni

e le abilità dell’artista adulto e quelle dei bambini, alcune delle proprietà

fondamentali dei mezzi bidimensionali e tridimensionali influenzano

anche il lavoro dei bambini e i linguaggi artistici che sviluppano.

(Golomb, 2002, p. 81).

L’analisi condotta dall’autrice evidenzia sia somiglianze che

differenze nei modelli rappresentazionali realizzati dai bambini con

tecniche espressive diverse. Ad esempio, mentre nella

rappresentazione grafica della figura umana prevale, di norma, la

visione frontale (la visione canonica, quale maggiormente

caratterizzante il soggetto rappresentato), nell’attività plastica i

bambini tendono a prestare una certa attenzione ai diversi lati

dell’oggetto differenziando le parti che caratterizzano i diversi punti di

vista, manifestando quindi una conoscenza che non emerge

immediatamente nelle grafiche.

[Il confronto] mette in luce diversi modelli che i bambini inventano e i

progressivi cambiamenti del loro pensiero rappresentazionale e della

loro competenza. La diversità rappresentazionale nella scelta dei modelli

e l’ordinamento interno delle loro parti si oppongono all’idea di una

singola immagine o schema mentale soggiacente, anzi, confermano la

grande flessibilità con cui il bambino realizza figure bi o tridimensionali. I

disegni bidimensionali, i modelli misti, l’omissione di particolari e di parti

del corpo, la preferenza per il punto di vista frontale e molti altri

cosiddetti errori nei disegni dei bambini non indicano necessariamente

immaturità concettuale, confusione o realismo intellettuale. L’omissione

del busto nel disegno, ma la sua inclusione nella scultura, non può

indicare confusione concettuale o limiti di memoria in un caso e

competenza nell’altro. […]. La risposta deve essere individuata

nell’evoluzione del pensiero artistico, che implica sensibilità alle

possibilità e alle richieste di ciascun mezzo espressivo e la spontanea

216

consapevolezza che una rappresentazione non è un’imitazione letterale

dell’oggetto. (Ibidem, pp. 86-87).

La prospettiva intellettuale di stampo cognitivo non prende in

considerazione né la dimensione emotiva del bambino che disegna

(di cui si è occupata tradizionalmente la prospettiva clinica167 e, più

recentemente la prospettiva estetico-dinamica168), né le idee

espresse, ovvero gli aspetti relativi al contenuto informativo dei

disegni.

Tuttavia, la realizzazione del disegno come mediazione tra istanze

rappresentative e vincoli procedurali pone al centro dell’attenzione

dei ricercatori il problema di che cosa costituisca per il bambino una

“rappresentazione efficace” e di come strategie e regole di 167 «L’orientamento clinico, definito anche simbolico, ha analizzato i disegni, considerando la sua organizzazione e i suoi contenuti come proiezione di tratti, tendenze e caratteristiche della personalità del disegnatore. In questa prospettiva, il disegno da oggetto di studio diviene, quindi, uno strumento per esplorare la dimensione affettiva. Al come il disegno si costruisce ed evolve, si sostituisce il perché dei suoi elementi e della sua formazione. Al bambino che disegna per rappresentare il mondo degli oggetti, succede il bambino che lascia indizi e tracce di un mondo fantasmatico» (Quaglia, 2003, p. 115).

La prospettiva clinica si concentra sul valore “espressivo” del disegno come indice di atteggiamenti, stati emotivi e umori. Essa analizza i legami tra i prodotti grafici e i tratti temperamentali (Alschuler - Hattwich, 1947; Corman 1966), il valore catartico del disegno che, al pari del sogno, viene letto come tentativo di “eliminare” le parti intolleranti dell’esperienza (Stora, 1963), il disegno come strumento di analisi della personalità (Schilder, 1935; Bender, 1938; Abraham, 1976; Di Leo, 1973; Balconi - Del Carlo Giannini, 1987). Nel setting analitico, lo psicoterapeuta può chiedere al bambino di disegnare ciò che vuole, come vuole: in questo caso si tratta di disegno libero, anche se non spontaneo. Oppure la consegna e il tema sono più specifici, e in questo caso si tratta di un test proiettivo: ad esempio il disegno di una figura umana (test di Machover), o di una casa, di un albero e di una persona (test di Buck), oppure il disegno della propria famiglia (richiesto con modalità diverse) o altri test proiettivi. In tutti questi casi lo scopo del terapeuta è quello di aiutare il bambino (o l’adolescente) ad esprimere le proprie emozioni (ansie, paure, desideri inconsci) e risolvere problematiche e conflitti di ordine psichico, emotivo o socio affettivo. 168 Questo approccio si pone a metà strada tra l’approccio clinico ed estetico e analizza le qualità dinamiche delle rappresentazioni grafiche. «La dinamizzazione degli oggetti da parte del bambino, vale a dire la sperimentazione della realtà mediante un atteggiamento affettivo, non conduce soltanto ad un particolare tipo di percezione “fisionomica” o “animata”, ma ad attribuire ai simboli un diverso significato o un diverso valore cognitivo: i simboli diventano così segni di esperienza e non segni di una realtà fisica e geometrica. Il bambino percepisce soprattutto espressioni e non forme, immagini e non strutture obiettive» (Quaglia, 2003, p. XV).

217

combinazione cambino con l’età e l’esperienza per adeguarsi

progressivamente alle convenzioni rappresentative proprie di una

determinata cultura e per rispondere in modo più efficace ad

esigenze comunicative.

In questo senso la prospettiva intellettuale di stampo cognitivo si

incontra con le ricerche che hanno per oggetto le competenze

comunicative del bambino e che vedono nel disegno, come nel

linguaggio, un adattamento del messaggio al contesto che ha una

forte responsabilità nell’indirizzare il bambino a selezionare cosa

rappresentare e come rappresentarlo.

L’ipotesi di stadialità che lega il disegno alle rappresentazioni mentali

interne e alla loro evoluzione, a lungo dominante nella cultura

psicologica, viene messa in discussione169.

Secondo le più recenti interpretazioni, tra le varie soluzioni alla sua

portata, il bambino tenderebbe a scegliere facendosi guidare dal

compito, dalle specificità di ciò che deve essere rappresentato, dalle

tecniche personalmente padroneggiate, dal medium utilizzato, ma

anche da norme iconografiche di origine culturale170.

169 «In effetti la teoria di Piaget considera la produzione grafica infantile come strettamente rispondente a modelli logico-matematici, o spaziali-matematici: l’evoluzione del disegno come qualsiasi altra manifestazione intellettuale segue le tappe di uno sviluppo cognitivo previsto, all’interno di una rigida evoluzione stadiale. Tale evoluzione non presta alcuna attenzione alla personalità del bambino, alle potenzialità e ai ritmi di crescita individuali, all’ambiente sociale e culturale, all’educazione familiare, all’espressione delle emozioni […]. Inoltre, a proposito della rappresentazione spaziale, della metrica euclidea e della geometria proiettiva, concetti su cui Piaget insiste molto, già altri ricercatori si sono detti stupiti che possa essere considerato come un processo cognitivo naturale, raggiunto da tutti o quasi alla fine dell’infanzia o nella prima adolescenza, il fatto di acquisire la conoscenza di tecniche e leggi come quelle che governano la prospettiva, che sono invece nozioni che, con una certa fatica, si apprendono a scuola, ad esempio attraverso il disegno delle proiezioni ortogonali dei solidi, o con lo studio della prospettiva e del punto di fuga» (Giani Gallino, 2008, pp. 117-119). 170 «Vivere in un ambiente ricco di immagini può aiutare i bambini a produrre schemi grafici più variati, sia per la motivazione che si alimenta del valore intrinseco assegnato al mondo figurativo, sia per la possibilità di usare modelli semplificati che facilitano il passaggio dalla tridimensionalità degli oggetti alla bidimensionalità del mezzo grafico con soluzioni più facili di quelle visivamente realistiche […]. Le differenze transculturali da noi rilevate non si spiegano certo in termini di idee diverse su che cosa sia una persona, ma neppure in termini di diverse disposizioni all’esercizio del grafismo: la capacità grafica raggiunge, prima o poi, livelli qualitativi simili nei vari ambienti culturali. È il modo in cui si concretizza

218

Questa prospettiva teorica colloca la performance in un contesto

comunicativo e in relazione a determinate consegne: il disegno,

considerato un vero e proprio codice simbolico con scopi comunicativi,

complementare al linguaggio verbale, è organizzato in modo da

veicolare le informazioni che il bambino vuole inviare, informazioni su

una realtà che è fisica e sociale insieme, come congiuntamente

relazionale e cognitiva è la matrice dell’attività grafica. (Donsì – Parrello,

2005, p. 12).

2.2.2 La prospettiva artistica ed estetica

A conclusioni simili, ma a partire da presupposti completamente diversi,

giungono anche i teorici della prospettiva artistica ed estetica che hanno

una visione del bambino che crea, attraverso il linguaggio grafico, forme

per descrivere la realtà e che sottolineano l’importanza di questa

specifica attività per promuovere e accompagnare lo sviluppo mentale.

Secondo quest’approccio, che accomuna autori diversi, quali Arnheim,

Lowenfeld e Brittain, Kellogg, Golomb, Herbert Read e Howard Gardner

(per citarne alcuni), i primi disegni figurativi dei bambini non sarebbero

basati sull’osservazione diretta della realtà, né su una conoscenza

astratta degli oggetti rappresentati; essi sono piuttosto composizioni

“estetiche”171 che si sono sviluppate a partire dagli scarabocchi.

la raffigurazione a variare in funzione delle convenzioni iconografiche della cultura di appartenenza, rendendo il compito più o meno facile per il bambino» (Pinto - Bombi, 1999, p. 137). 171

«L’elemento estetico è presente in tutte le rappresentazioni figurative che gli esseri umani tentano. Nei diagrammi scientifici esso determina qualità necessarie come l’ordine, la chiarezza, la corrispondenza tra significato e forma, l’espressione dinamica delle forze, e così via. Il valore della rappresentazione figurativa non è più contestato da alcuno. Ciò che è necessario riconoscere è che le forme percettive e pittoriche non costituiscono soltanto trascrizioni dei prodotti del pensiero, ma il midollo stesso del pensiero in sé; e che una continuità ininterrotta di interpretazioni visuali conduce dagli umili gesti della comunicazione quotidiana alle testimonianze supreme della grande arte» (Arnheim, 1969, p. 161).

219

Quando un adulto definisce una figura umana “uomo” o “mamma” o

“signora” o “babbo” o con un altro termine che indica una persona reale,

accetta dei pregiudizi molto vecchi sull’arte infantile. Da almeno un

centinaio d’anni e forse più queste definizioni ed altre simili sono state

applicate ai disegni dei bambini […]. Un adulto che usi tali etichette

piuttosto che termini sostitutivi quali “formula”, “schema”, o “simbolo”, si

esprime con termini che hanno una lunga tradizione. (Kellogg, 1969, p.

123).

Nell’ambito della prospettiva estetica, una figura di rilievo è senz’altro

Rudolph Arnheim, che nel suo libro Arte e percezione visiva, ha

affrontato il problema del disegno infantile nei suoi aspetti cognitivi,

affettivi ed emotivi.

La posizione di Arnheim non è tuttavia assimilabile a quelle posizioni

che hanno teorizzato l’arte infantile a partire dalle varie definizioni

storiche di “arte”, elaborate dai filosofi, dai critici dagli artisti per ciò che

chiamiamo “opere d’arte”. Arte per Arnheim è “ciò che rende visibile la

natura delle cose”. (Pizzo Russo, 1988, p. 114).

In questo senso, concordando con quegli autori che non considerano

il disegno dei bambini come “arte infantile” pur tuttavia riteniamo che

i disegni dei bambini possano essere considerati arte, perlomeno nel

ristrettissimo significato individuato da Arnheim.

La posizione di Arnheim rispetto alla teoria intellettuale (da lui definita

intellettualistica) è chiara:

la più antica – e a tutt’oggi più diffusa – spiegazione del disegno

ammette che, dato che i bambini non disegnano come si suppone che

vedano, deve essere qualche altra attività mentale, e non la percezione,

a determinare tale modificazione […]. La teoria intellettualistica

asserisce che il disegno infantile, come altre forme d’arte allo stadio

iniziale, deriva da una fonte non visiva, ossia da concetti “astratti”, dove

220

il termine “astratto” si intende come qualificazione della conoscenza non

percettiva.

La vita intellettuale del bambino dipende strettamente dalle esperienze

sensoriali. Per le menti giovani le cose sono quello che risultano alla

vista, all’udito, all’odorato, al senso del movimento. Nel bambino i

concetti non percettivi, se esistono, devono essere pochissimi, e il loro

influsso sulla rappresentazione grafica non può che essere trascurabile.

(Arnheim, 1954, p. 144).

Partendo dai principi della psicologia della Gestalt, Arnheim sostiene

che alla base delle operazioni cognitive172 vi è la percezione e che la

vista è il sistema sensoriale per eccellenza. Essa riveste un ruolo

primario nei processi del pensiero produttivo173, nel senso che al

concetto percettivo e rappresentativo spetterebbe il primato nella

concettualizzazione e costruzione della conoscenza.

Io affermo che le operazioni conoscitive chiamate pensiero non sono

privilegio di processi mentali posti al di sopra e al di là della percezione,

bensì gli ingredienti essenziali della percezione stessa. Mi riferisco ad

operazioni quali l’esplorazione attiva, la selezione, la capacità di cogliere

l’essenziale, la semplificazione, l’astrazione, l’analisi e la sintesi, il

172 «Per “cognitive” intendo tutte le operazioni mentali coinvolte nel processo del ricevere, immagazzinare ed elaborare l’informazione: la percezione sensoriale, la memoria, il pensiero, l’apprendimento. Questo modo di impiegare il termine è in conflitto con un altro, cui moltissimi psicologi sono avvezzi, e che esclude dalla cognizione l’attività dei sensi: ciò riflette la distinzione che appunto io cerco di eliminare. Pertanto dovrò estendere il significato dei termini “cognitivo” e “cognizione”, per includervi la percezione» (Arnheim, 1969, p. 18). 173 «Ci si chiede in quale altro campo di attività mentale può risiedere il concetto, se lo si bandisce dal campo dell’immagine? Forse il bambino si rifà a concetti puramente verbali? Concetti del genere non mancano: per esempio la “quintuplicità” che si trova nella frase “la mano ha cinque dita”. Di fatto nel bambino questa conoscenza è verbale, e quando disegna una mano egli conta le dita per essere sicuro dell’esattezza del numero.

Questo, cioè, avviene dopo che al bambino è stato insegnato il numero esatto delle dita: ma il suo procedimento abituale è esattamente il contrario. Il bambino si rifà, sì, a dei concetti, ma a concetti visivi: il concetto visivo di una mano consiste in una base rotonda, ossia il palmo, da cui le dita sporgono a raggiera come nel sole, e anche il loro numero è determinato da considerazioni puramente visive» (Arnheim, 1954, p. 144).

221

completamento, la correzione, il confronto, la risoluzione di problemi,

nonché la combinazione, la distinzione, l’inserimento entro un contesto.

Tali operazioni non sono prerogativa di nessuna singola funzione

mentale; sono il modo in cui la mente, tanto dell’uomo che dell’animale,

tratta, ad ogni livello, il materiale conoscitivo. (Arnheim, 1969, p. 18).

Gli schemi che il bambino propone nei suoi disegni per

rappresentare un oggetto, non sono “forme” ricavate da quest’ultimo,

ma autentiche “invenzioni”: si tratta di “equivalenti strutturali” che

concordano con l’impressione complessiva che il bambino ha di

quell’oggetto.

Il bambino utilizza concetti rappresentativi per creare degli schemi

grafici equivalenti ai concetti visivi:

si può enunciare più precisamente lo stesso fatto dicendo che ogni tipo

di figurazione richiede l’uso di concetti rappresentativi, i quali forniscono

l’equivalente, tramite un determinato medium, dei concetti visivi che si

vogliono rappresentare, e trovano una manifestazione esterna nel

prodotto della matita, del pennello, del cesello. (Arnheim, 1954, p. 149).

Se letta in questo senso anche la rappresentazione grafica di Dorian

(4,1) in figura 67, p. 42, non ci stupisce più di tanto, è il “concetto

rappresentativo” che il bambino ha “inventato”, attraverso gli

strumenti a sua disposizione, per esprimere il suo concetto visivo di

“papà”.

All’interpretazione intellettuale, che considera lo sviluppo del

grafismo come una progressione lineare, unidirezionale, che passa

dal realismo intellettuale al realismo visivo e che si conclude

nell’adozione di criteri rappresentativi “realistici”, Arnheim

contrappone uno sviluppo del disegno nel senso della

differenziazione174: «la misura delle differenziazioni dipenderà da

174 «Nella forma più elementare questo principio afferma che l’evoluzione organica procede sempre dal semplice al più complesso. […]. Secondo Spencer, la

222

quanto è interessata la persona particolare, o il gruppo culturale,

all’affinamento dell’astrazione iniziale» (Arnheim, 1969, p. 198). Lo

sviluppo grafico nel bambino sarebbe dunque il risultato di

successive modificazioni formali, nella direzione della maggiore

articolazione e complessità, sotto la spinta di influenze culturali, a

partire da forme semplici e globali.

Tale organizzazione inizia con tracce curvilinee in corrispondenza

della costruzione del corpo umano, basata sul principio della leva

(Arnehim, 1954).

Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, né le tracce

curvilinee né le forme circolari hanno in principio il significato di

rappresentare elementi naturalistici curvilinei o circolari, le une e le

altre sono indifferenziate: indicano piuttosto l’avvio di un processo di

controllo e di organizzazione [figura 68, p. 43].

L'indipendenza di questo risultato grafico dalla realtà, prova che esso

è un’invenzione che funziona come generale sistema di

rappresentazione: il bambino non ri-produce, ma inventa (nei limiti di

certi condizionamenti motori) un pattern strutturale. Solo più tardi,

quando disporrà di un patrimonio formale più differenziato, il cerchio

assumerà un significato specifico.

differenziazione comporta anche uno sviluppo dall’indefinito al definito, dalla confusione all’ordine. Oggi il concetto è ripreso da Piaget per descrivere ad esempio come l’io e il mondo esterno, in origine indifferenziati, si separino a un certo stadio dello sviluppo mentale […]. Ai nostri scopi sarà utile accostare il principio della differenziazione al principio gestaltico della semplicità. Coerentemente con la premessa che l’atto del pensare e del concepire procede dal generale al particolare, si afferma innanzitutto che “ogni forma resta indifferenziata tanto quanto lo permette l’idea che il disegnatore ha dell’oggetto” […].

In secondo luogo la legge della differenziazione dice che finché una caratteristica visiva non è ancora differenziata, l’intera gamma delle sue potenzialità viene rappresentata da quella strutturalmente più semplice […]. Soltanto quando altre forme, come la linea retta e il quadrato, divengono articolate, le forme rotonde cominciano a raffigurare la rotondità: la testa, il sole, il palmo della mano. Si può esprimere questo principio anche dicendo, con E. H. Gombrich, che il significato di una caratteristica visiva dipende dalle alternative disponibili al disegnatore. Un cerchio è un cerchio solo quando esiste l’alternativa del triangolo» (Arnheim, 1954, pp.156-158).

223

Dopo il cerchio appare un’altra invenzione di portata generale: la

linea retta che serve ad indicare nel modo più semplice la diversità di

direzione. Allora le braccia spalancate che si trovano spesso nelle

prime figure umane rappresentate dai bambini costituiscono la

traduzione visuale della diversità di direzione tra le braccia e il corpo

da cui si dipartono. Finché la diversità di direzione resta

indifferenziata, viene resa dalla forma strutturalmente più semplice

cioè come un rapporto ad angolo retto: si tratta di un caso di

accentuazione175 come tendenza alla semplicità.

La linea diritta introduce l’estensione lineare nello spazio e quindi l’idea

di direzione. Coerentemente con la legge di differenziazione, il primo

rapporto tra direzioni che viene acquisito è il più semplice, quello

dell’angolo retto. L’incrocio ad angolo retto vale a rappresentare tutti i

rapporti angolari finché subentra la padronanza dell’obliquità, e questa si

differenzia dal rapporto ad angolo retto. Tale angolo è il più semplice

perché crea un disegno simmetrico, ed è la base dello schema verticale-

orizzontale su cui poggia l’intera nostra concezione dello spazio.

(Arnheim, 1954, p. 160).

Dopo lo schema rappresentativo orizzontale-verticale Arnheim

esamina le altre caratteristiche che incrementano, precisano e

differenziano l’espressione grafica: obliquità, fusione delle parti,

grandezza, terza dimensione, movimento.

Ad esempio, rispetto alle variazioni di grandezza, prima della

differenziazione, esse non sono significative per il bambino: le cose

175 «A questo proposito è utile rifarsi a una distinzione introdotta in linguistica tra unità accentate e unità non accentate. Come esempio, John Lyons usa le parole “cane” e “cagna”: “cane” è semanticamente non accentato (o neutro) perché si può usare sia per i maschi che per le femmine, mentre “cagna” è accentato (o positivo) perché si usa solo per le femmine; si può usarlo in contrasto con il termine non accentato per definire, di quest’ultimo, il valore negativo invece che neutro. Lyons conclude che “il termine non accentato ha un senso più generale, neutro per quanto riguarda un determinato contrasto; il suo negativo, più specifico, è derivato e secondario perché conseguenza della sua contrapposizione contestuale al termine positivo (non neutro)”. Il parallelo con la differenziazione delle forme visive è molto stretto» (Ibidem, p. 158).

224

piccole vengono fatte all’incirca uguali a quelle grandi perché ancora

non è emerso un interesse preciso per la grandezza e l’uguaglianza

approssimativa è il mezzo più semplice per esprimerla.

La grandezza realistica ha soltanto un’importanza marginale per la

dimensione delle cose nei disegni, perché l’identità percettiva non è

legata più che tanto alla dimensione. La forma e l’ubicazione di un

oggetto non risultano affatto menomate da un cambiamento di

dimensione, così come in musica, un tema resta riconoscibile anche se

la velocità della sua presentazione - cioè della sua dimensione

temporale - viene alterata da un’accelerazione o da un rallentamento

moderato. (Ibidem, p. 170).

La teoria di Arnheim fornisce un utile correttivo alla tendenza

piuttosto diffusa a intendere affrettatamente i grafismi infantili

secondo significati proiettivi e affettivi, tendenza che produce molti

arbitrii. Prima di pronunciarsi sull’incidenza di differenze o esperienze

individuali, è necessario avere ben chiara la trama delle costanti, in

quanto le variazioni si producono innanzitutto su una costruzione

percettiva della realtà che non è un “mettere insieme particolari” e

procedere da questi all’astrazione attraverso operazioni associative,

quanto piuttosto il contrario.

Durante gli stadi primitivi la differenziazione della forma è ottenuta

soprattutto per mezzo dell’aggiunta di elementi autonomi. Per esempio,

il bambino procede dalla più primitiva rappresentazione della figura

umana sotto forma di cerchio aggiungendo le linee rette, forme

oblunghe, o altre unità. Ciascuna di queste unità è una forma

geometricamente semplice e ben definita. Esse sono connesse

mediante un egualmente semplice rapporto di direzione, dapprima

verticale-orizzontale, più tardi obliqua. La costruzione dell’intera figura

relativamente complessa è resa possibile dalla combinazione di varie

figure semplici. Ciò non significa che nei primi stadi il bambino non abbia

un concetto integrato dell’oggetto nella sua globalità. La simmetria e

225

l’unitarietà di tutto l’insieme e la pianificazione delle proporzioni

mostrano che, entro certi limiti, il bambino dà una determinata

configurazione alle varie parti in vista della loro ubicazione nel pattern

globale; ma il metodo analitico gli rende possibile allo stesso tempo di

trattare volta a volta in particolare ogni semplice forma o direzione.

Certi bambini si servono di questa procedura sino a formare le

combinazioni più complicate, costruendo il tutto su una gerarchia di

particolari che rivela un’attenta osservazione. […]. Dopo un certo tempo

però il bambino comincia a fondere parecchie unità mediante un unico

contorno più differenziato. L’occhio e la mano contribuiscono a questa

evoluzione. L’occhio si familiarizza con la forma complessa risultante

dalla combinazione di elementi finché diventa capace di concepire il

tutto come unità. […]. Più differenziata è la concezione, più abilità si

richiede per usare questa procedura. […].

Suddivisione e fusione si alternano dialetticamente. Un’iniziale forma

globale si differenzia per suddivisione, ad esempio quando la figura

ovale si divide in testa e torso separati: questa nuova combinazione di

unità semplici richiama un’integrazione più completa a un livello più alto,

che a sua volta ad uno stadio ulteriore per perfezionarsi avrà bisogno

della suddivisione, e così via. (Arnheim, 1969, p. 165-168).

La figura 69, p. 44, può essere considerata rappresentativa della

ricerca di Sana (4,1) di una “primitiva” forma di differenziazione

attraverso l’aggiunta di elementi autonomi che si ripetono, e di una

“mancata” differenziazione per quanto riguarda la direzione

orizzontale-verticale. Nella figura 70 Emily (4,9) ripropone elementi

precedentemente sperimentati [figura 30, p. 21] in una figura

“umanoide” più differenziata e “ripulita”. Nella figura 71, p. 45, alcuni

esempi di processo di differenziazione ad uno stadio più avanzato:

“cani” con diversi tipi di testa, di gambe e di coda rappresentati da

bambini di età compresa tra i 5 e 6 anni.

226

Per Arnheim, contrariamente a quanto sostenuto da Luquet176, la

“figurazione realistica” non è una tappa obbligatoria nello sviluppo

dell’abilità grafica, essa è piuttosto incoraggiata dalla nostra cultura

basata su una lunga tradizione artistica in senso realistico177 e da

pratiche educative più o meno direttamente orientate in questo

senso178.

Molta strada si è fatta da quando si credeva che soltanto la copia

meccanica del modello fosse fedele alla natura: ci si è resi conto che

tutta la gamma degli infinitamente diversi modi rappresentativi è

accettabile, e non solo per chi condivide la posizione particolare dei loro

creatori ma anche per chi vi si sa adattare. Non basta tuttavia la

semplice tolleranza dei diversi modi di raggiungere uno stesso scopo:

bisogna far un passo avanti e prender coscienza che se persone della

nostra civiltà e del nostro secolo percepiscono come simile al vero un

176 «Uno dei concetti fondamentali di Luquet e presupposto di tutto l’orientamento intellettuale è che, per il bambino, il disegno riveste sempre il ruolo essenziale di dover rappresentare qualcosa. Il disegno è pertanto realistico sia per la scelta dei “motivi” sia per gli aspetti “esecutivi”. Il bambino dunque, mosso da un’intenzione realistica, sarebbe interessato unicamente ai disegni figurativi. Al contrario i disegni non figurativi non eserciterebbero su di lui alcuna attrazione. Ora, per disegno figurativo si deve intendere la rappresentazione grafica delle proprietà visibili degli oggetti raffigurati. Per Luquet, dunque, il realismo è la caratteristica essenziale del disegno infantile» (Quaglia, 2003, p. 67). 177 «Quanto alla prospettiva propriamente detta – l’arte di fare immaginare in un quadro una profondità che non c’è – si tratta di altra cosa, sia che la si consideri secondo la definizione della geometria descrittiva, cioè come “scienza che insegna a rappresentare gli oggetti tridimensionali su una superficie bidimensionale, in modo che l’immagine prospettica e quella data dalla visione diretta coincidano”, sia che si faccia riferimento ai testi di storia dell’arte in cui si considera con diversi metodi la rappresentazione della profondità spaziale. […]. Su questi temi si sono spesi per primi i maggiori architetti e pittori italiani, facendone anche oggetto di indagini matematiche e di poderosi trattati. Immaginare che ragazzini di 9-10 anni arrivino naturalmente a comprenderle, o che esse facciano parte del realismo visivo e del pensiero logico dell’adulto, anche di quelli che non hanno frequentato le scuole superiori, pare davvero improbabile» (Giani Gallino, 2008, pp. 118-119). 178 «Esiste per il disegno, come per gli altri domini, il problema del contratto educativo: l’insegnante non solo deve individuare i reali moventi dei bambini, ma deve anche prendere coscienza delle proprie aspettative (estetiche, funzionali) e dei luoghi comuni che rischiano di agire sul suo approccio […]. E’ inoltre auspicabile accostarsi allo sviluppo del disegno infantile con più consapevolezza delle influenze sociali esercitate da genitori, educatori e mezzi pittorici sulla scelta di ciò che conta rappresentare e del modo in cui ciò deve preferibilmente avvenire» (Pinto – Bombi, 1999, pp.140-142).

227

modo rappresentativo particolare che non sembra tale a chi crede a un

approccio diverso, così questi sostenitori dell’approccio diverso sono

altrettanto convinti che il loro modo rappresentativo sia non soltanto

accettabile ma del tutto simile al vero. […].

Il principio del livello di adattamento introdotto in psicologia da Harry

Helson, afferma che uno stimolo dato viene giudicato non in base alle

sue proprietà assolute ma in rapporto al livello normale che si è imposto

nella mente del giudicante. Nel caso della rappresentazione pittorica, il

livello normale sembra desunto non dalla percezione diretta del mondo

fisico ma dallo stile dei dipinti noti a chi guarda179.

È dunque necessario considerare le forme rappresentative utilizzate

dai bambini, alla luce delle loro soggettività, della conoscenza del

contesto comunicativo e sociale in cui avviene la produzione e dei

“riferimenti culturali” ai quali tali produzioni appartengono.

Gli adulti raramente si rendono conto di quanto siano arbitrarie e

artificiose le loro definizioni figurative. Alla base di questo problema non

vi è semplicemente l’inesperienza del bambino nel riprodurre gli schemi

convenzionali della realtà propri del sistema culturale, ma soprattutto

l’interesse del bambino per valori diversi dalla rappresentazione

figurativa. (Kellogg, 1969, p. 207).

179 Arnheim, 1954, p. 120. La teoria di Arnheim richiama quella esposta da Michael Baxandall laddove l’autore utilizza il concetto di “convenzione” artistica per spiegare la capacità degli artisti di realizzare opere in grado di provocare nel pubblico una risposta emotivo-conoscitiva (Baxandall, 1972). Secondo Baxandall l’opera d’arte sarebbe in grado di provocare effetti emotivi perché artista e pubblico condividono la conoscenza e l’esperienza delle convenzioni utilizzate (Geertz parla a proposito di “condivisione di sensibilità”). Il bambino sarebbe “iniziato” all’«occhio del periodo» attraverso l’apprendimento delle forme e delle modalità rappresentative apprezzate dalla cultura cui appartiene. Ciò conduce a considerare una diversa ontologia dell’immagine la cui interpretazione passa attraverso attese e convenzioni culturali sia sotto il profilo rappresentativo che percettivo. Scrive a proposito George Kubler: «l’esistenza di un simbolo è basata sulla ripetizione. Tra coloro che se ne servono, la sua identità dipende dalla capacità di tutti di attribuire uno stesso significato a una certa forma. La persona che usa il simbolo se ne serve sperando che altri contemporaneamente allarghino l’associazione e che le somiglianze tra le differenti interpretazioni che la gente dà di un simbolo siano più forti delle differenze. È improbabile che una qualsiasi copia possa essere accettata come tale senza un forte sostegno di associazioni simboliche» (Kubler, 1972, p. 91).

228

Le prime rappresentazioni sono composte da forme molto semplici

(cerchi, punti e linee); attraverso “l’assemblaggio” di questi elementari

alfabeti, il bambino realizza, ad esempio, le prime figure umane globali,

composte da forme sferiche e da pochi altri dettagli, che stanno per i

tratti del volto. In accordo con i principi gestaltisti, nei primi disegni si

evidenziano i principi della semplicità e dell’economia della forma.

I bambini sono parsimoniosi nel loro uso di unità. Cioè usano un’unità

grafica (un particolare tipo di cerchio, una particolare “forma solare”, un

particolare tipo di figura umana) ripetutamente. Lo stesso tratto spesso

rappresenta sia il braccio che la gamba […].

La ripetizione di unità aiuta a creare un senso di affascinante semplicità.

Essa assolve anche alla funzione di ricordarci che il bambino sta

sviluppando non soltanto un tipo di linea, ma anche un concetto, nello

scoprire analogie e nel rendersi conto che molti elementi possono

essere rappresentati da un unico simbolo. (Goodnow, 1977, p. 166).

Si vedano ad questo proposito le figure 72, e 73, p. 46, in cui la

ripetizione dello stesso motivo grafico, con alcune piccole modifiche,

da vita a figure diverse.

I disegni hanno una loro disciplina interna, controllata da percezioni

differenti da quelle che consentono al bambino di riconoscere

persone, bambini, abbigliamenti e altre caratteristiche umane.

Condivide con gli adulti le gestalt che permettono il riconoscimento

delle persone, ma non quelle per disegnare un essere umano,

perché gli adulti utilizzano formule di espressione grafica che i

bambini in questo stadio non hanno ancora preso in considerazione.

I modelli di posizione, le forme implicite, i diagrammi e gli stessi

scarabocchi-base si trovano sia nel lavoro dei bambini che in quello

degli adulti. Infatti queste formazioni sono presenti nei disegni e nei

dipinti di qualsiasi cultura. L’arte degli adulti si differenzia da quella dei

bambini per quelle modalità stilistiche che i bambini più grandi

229

apprendono nell’ambiente culturale in cui vivono e che ci aiutano a

distinguere una cultura da un’altra. In certe culture, formule e stili

peculiari richiedano una notevole tecnica di esecuzione, tuttavia, come è

chiaramente dimostrato dalla storia della pittura accademica, quando la

tecnica si allontana troppo dalle forme estetiche di base, l’arte sembra

perdere validità. (Kellogg, 1969, p. 51).

Ai bambini è richiesta un’enorme quantità di apprendimento sia

nell’acquisire le molteplici forme d’espressione usate da una cultura

in vista della loro decodificazione e comprensione, che

nell’apprendere a produrre degli equivalenti ritenuti “buoni” o

“accettabili”.

Gran parte di ciò che apprendiamo consiste nel giungere a sapere che

una cosa può “equivalere” ad un’altra o essere chiamata “nello stesso

modo” di un’altra […].

All’interno di questa vasta area dell’apprendimento di equivalenti,

possiamo parlare di percezione di equivalenti in sostanza, il modo in cui

impariamo a leggere o a decodificare un equivalente che ci venga

presentato […]. Possiamo parlare di produzione o di invenzione di

equivalenti, e questo è il campo di maggiore interesse se si vuole

estendere il discorso ai disegni infantili […].

I disegni sono equivalenti: contengono solo alcune delle proprietà

dell’originale, e la convenzione spesso determina quali proprietà

debbano essere incluse e in che modo. (Goodnow, 1977, pp. 27-28).

I primi schemi figurativi utilizzati dai bambini per rappresentare le

persone e, successivamente, ogni altro oggetto, sono composizioni

molto semplici, complete dal punto di vista del bambino, in quanto

esprimono l’essenziale dell’oggetto: quel semplice schema risponde

a tutte le esigenze del suo disegnatore (Arnheim, 1954).

Attraverso l’esercizio e la pratica il bambino diventa sempre più abile

nella produzione degli “equivalenti ortodossi” incoraggiati dal

contesto culturale-relazionale e trasforma le sue produzioni fino a

230

quando non rientrano nei canoni estetici prescritti dalla comunità cui

appartiene.

Tuttavia, in quanto equivalenti, i disegni mantengono un loro grado di

ambiguità, e variano nel rapporto che mantengono con il loro

referente180.

Due o più equivalenti possono a volte rappresentare la stessa cosa: un

puntino, una linea, un cerchio un triangolo, possono tutti equivalere al

disegno di un naso. Così un equivalente può rappresentare due o più

cose: un cerchio può rappresentare una palla, un melone, una testa o un

buco. (Goodnow, 1977, p. 28).

I simboli grafici mantengono una polisemanticità e un’apertura a

molteplici utilizzazioni e attribuzioni di significato maggiore rispetto al

linguaggio orale: la ricchezza e la specificità dei simboli grafici sta

proprio nella loro capacità di sostenere molteplici interpretazioni e

ruoli nella raffigurazione.

Si osservino, a titolo esemplificativo, i disegni di Liam, il cui lessico

grafico si piega alle più svariate forme di lettura [figure 74-80, pp. 47-

50].

La forte ambiguità evocativa dei simboli grafici comporta spesso

l’attivazione di altri canali comunicativi (tra cui il linguaggio verbale)

per una loro corretta interpretazione (nel caso di Liam la

denominazione è fondamentale per il riconoscimento dei diversi

soggetti). «Così l’immagine che può essere sempre e solo

un’evidenza e mai un giudizio, attraverso la didascalia rientra nel

campo del giudicabile e quindi del comprensibile oltre quindi a quello

del riconoscibile». (Massironi, 1982, p. 96)

Tuttavia il punto essenziale, ai fini della nostra ricerca, è l’ambiguità

di ciò che dovrebbe essere incluso nel simbolo181 ad interessarci: il 180 «Fondamentalmente, un’immagine non può rappresentare un oggetto; lo può fare solo il cervello, che lo ha osservato da molte angolazioni differenti e lo ha collocato all’interno di una classe specifica. Un’immagine può solamente imitare l’oggetto in un suo aspetto particolare» (Zeki, 1999, p.68).

231

disegno allora non sarebbe lo specchio di una concezione individuale

del mondo, ma qualcosa che presuppone sempre un interlocutore,

un vero e proprio atto situato in uno specifico contesto; un linguaggio

dotato di una sintassi specifica i cui segni, quando appresi,

consentono la comunicazione delle intenzioni dell’autore.

Tale linguaggio ha caratteristiche tipiche e consente di sviluppare

concetti rappresentativi di base, dettati dai principi gestaltici della

buona forma e della semplicità, soggetti a vincoli materiali,

motivazionali e procedurali, che preparano ad ulteriori sviluppi. Si

tratta di un sistema simbolico autonomo e autosufficiente fino ad un

certo punto dello sviluppo, che esige alimenti culturali per

trasformarsi in sintassi espressiva.

I cambiamenti che intervengono nel corso dello sviluppo e con l’età

sono dovuti al variare della gerarchia delle regole utilizzate in modo

sempre più adeguato alla rappresentazione e alla comunicazione.

Sotto questo profilo gli “errori” possono indicare l’inadeguatezza delle

regole in uso più che una forma di pensiero intellettuale o visivo e,

nel corso dello sviluppo tali regole sono destinate ad essere sostituite

da regole più convenzionali che porteranno aspetti innovativi, anche

se stereotipati, alle successive rappresentazioni.

L’enfasi posta dall’approccio artistico-estetico “sull’arte dei

bambini”182 si apre alla considerazione dell’impatto che viene

esercitato dalla cultura sulle produzioni grafiche e alla

considerazione delle relazioni significative e degli strumenti

disponibili nel contesto in cui sono negoziati significati.

Nella fase della figurazione, che è quella che caratterizza i bambini di

5/6 anni, figure dalle forme definite, codificate e differenti tra loro,

181 «Nella storia dell’arte, le opinioni su omissioni e inclusioni costituiscono un’ampia parte delle discussioni sulla differenza tra varie forme: “arte” contro “caricatura”; equivalenti “realisti” o “astratti” contro equivalenti “iper-realisti” di un originale» (Massironi, 1982, p. 126). 182 Rimandiamo ad un paragrafo successivo lo “scottante” tema dell’”arte infantile”.

232

sono portatrici “autonome” di significato183 [figura 81, p. 50; figure 82

e 83, p. 51].

L’espressione grafica è ora strutturata in una fase astratta di

elaborazione e una concreta di realizzazione, anche se il prodotto

non restituisce la complessità del processo ideativo e produttivo: il

bambino ricerca e sceglie attivamente quelle forme particolari che

realizzano una rappresentazione soddisfacente dei propri concetti

percettivi184 secondo criteri estetici personali e collettivi, all’interno di

determinate esigenze cognitive, emotive ed espressive.

La raffigurazione comporta un fatto nuovo, una mediazione:

l'invenzione di un sistema di rappresentazione che, attraverso la

codificazione culturale, si trasforma in una forma particolare di

linguaggio. Il prodotto è diventato strumento di comunicazione, ed è

meno necessaria una verbalizzazione che renda noti i significati della

183 «C’è nell’arte moderna una vasta corrente che rivaluta con l’aspetto onirico dell’espressione la spontaneità, l’immaginazione libera della prima infanzia. Se si considera la pittura del Ventesimo secolo si ha l’impressione di percorrere a rovescio l’ontogenesi della pittura infantile. L’evoluzione degli artisti si è spinta gradualmente alle estreme conseguenze fino agli scarabocchi informi del bambino piccolo. I personaggi di Klee e di Mirò rassomigliano a quelli delle prime figurazioni dei quattro, cinque anni; le figure di Chagall fluttuano nel vuoto come gli “omini” non ancora verticalizzati. D’altronde le astrazioni di Nicholson e di Mondrian ricordano gli “aggregati” e le “combinazioni” dei tre anni e i “gesti” degli action painters, i tracciati dei bambini di due anni. Lo stadio più spinto di ritorno alle origini trova un simbolo in una recente opera di Turcato intitolata “la bava”. Kandinsky afferma che nella pittura prefigurativa infantile c’è il primo contatto dell’essere umano con il mondo di cui non “sa” ancora nulla e di cui ignora le leggi che lo governano. Questa “esperienza prima”, appunto perché non ancora intaccata dalla cultura e quindi genuina, è, secondo l'artista, un’esperienza estetica pura (Argan, 1970). Un altro tratto del bambino piccolo che affascina l’artista è il godimento afinalistico delle forme e dei colori non ancora mediato da riferimenti alle caratteristiche reali degli oggetti. Per Kandinsky il bambino non conosce il fattore pratico funzionale degli oggetti perché guarda con occhio non assuefatto e ancora integra la facoltà di percepire l’oggetto come tale; soltanto in seguito, e attraverso una serie di esperienze non raramente tristi, imparerà a conoscere il lato funzionale delle cose» (Oliverio Ferraris, 1973, pp.145-146). 184 «Il percepire consiste nella formazione di concetti percettivi. Ad un normale modo di pensare questa terminologia apparirà alquanto spiacevole, giacché di solito si considera che i nostri sensi siano limitati a dati concreti, mentre i concetti hanno a che fare con dati astratti. E tuttavia il processo visivo sembra rispondere ai requisiti di una formazione concettuale. La visione tratta il materiale grezzo fornitole dall’esperienza creando uno schema corrispondente di forme generali che si possono applicare non solo al caso individuale ma ad un numero infinito di altri casi in modo analogo» (Arnheim, 1954, p. 59).

233

figurazione, perché essa è autonoma e autosufficiente, nel senso

che può sottintendere significati condivisi.

Si guardino in 84 e 85, p. 52, i disegni di Glenis (6,3) e Paul (5,4): la

verbalizzazione contestualizza maggiormente le grafiche che tuttavia

avrebbero potuto essere “lette” indipendentemente dalla spiegazione

data dai bambini. In figura 86, p. 53, una vera e propria narrazione

grafica in cui sono riconoscibili motivi e soggetti, mentre la

verbalizzazione di Jonny (5,8) restituisce la trama del “discorso”

grafico.

La prospettiva artistica ed estetica riconosce al disegno lo statuto di

sistema grafico di denotazione, e quindi di linguaggio.

Nel corso della ricerca abbiamo notato che spesso, accanto ai

disegni, i bambini si cimentavano spontaneamente in tentativi di

produzione di lettere alfabetiche, numeri o in vere e proprie prove di

scrittura.

È prassi sostenere queste sperimentazioni nelle scuole di Reggio

Emilia, accogliere le produzioni spontanee e sollecitarle attraverso

attività più o meno specifiche, a seconda dell’interesse che il gruppo

sezione manifesta. Non essendo oggetto di questa ricerca ci è

sembrato comunque interessante considerare, seppur brevemente, il

rapporto tra il disegno e un altro sistema di rappresentazione grafica,

la scrittura alfabetica e numerica, e vedere come questi diversi

sistemi si differenziano tra loro nel corso dell’ontogenesi.

2.2.3 Schemi figurativi e sistemi di notazione non

iconici

Abbiamo visto come il disegno, nel tempo, si configuri come vero e

proprio codice espressivo: il bambino passa dalla totale inesperienza

di chi sa solo scarabocchiare, alla condizione di “novizio”, a quella di

disegnatore “esperto”. Il linguaggio grafico-iconico mantiene, nel

234

corso dello sviluppo, una certa autonomia rispetto al linguaggio orale,

anche se le richieste dell’adulto, e quelle della nostra cultura «si

incentrano principalmente sul riconoscimento, sull’ideazione-

realizzazione grafica di “contenuti”, e mirano dunque

prevalentemente a sviluppare il piano semantico-lessicale» (Pinto –

Bombi, 1999, p. 119).

La base fisica della scrittura è certamente la stessa del disegno,

dell’incisione, della pittura (le cosiddette arti grafiche) […] dipende dalla

capacità umana di maneggiare taluni strumenti con una mano e un

pollice, coordinati ovviamente da occhio, orecchio e cervello. (Goody,

1987, p. 17).

tenendo presente che «non si può separare agevolmente oggetti, azioni

e persone dal loro simbolo linguistico, cosicché anche i segni o simboli

pittorici operano attraverso un canale tanto linguistico che parallelo»

(Ivi).

Secondo la Kellogg i bambini piccoli disegnano come «Gestalt

artistiche» la maggior parte delle lettere dell’alfabeto, sia maiuscole che

minuscole.

Nel disegno, le lettere sono collocate o combinate in modo da

completare un modello o una forma implicita. Nel linguaggio invece sono

disposte in un determinato ordine all’interno delle parole e in una

determinata posizione, da sinistra a destra, dall’alto al basso. Quando il

bambino impara a leggere, deve percepire la differenza tra la

disposizione estetica e quella linguistica delle lettere e quando impara a

scrivere deve applicare questa percezione. Tutti i bambini che hanno

scarabocchiato molto, quando vanno a scuola, conoscono già molte

Gestalt del linguaggio, ma devono ancora imparare la differenza tra l’uso

di queste Gestalt nel disegno e nel linguaggio. (Kellogg, 1969, p. 314).

La divaricazione tra sistemi di notazioni iconici (disegni) e non iconici

(sistemi di scrittura) inizia all’incirca a quattro anni, quando il

235

bambino ha già maturato la separazione tra oggetto e disegno che lo

rappresenta: a quest’età il bambino non solo è in grado di distinguere

nettamente i due sistemi di notazione, ma mostra di possedere teorie

specifiche rispetto al funzionamento del codice alfabetico e

numerico185.

Nelle figure 87 e 88, p. 54, troviamo due proposte di scrittura di

messaggi per il papà e per la mamma in occasione delle rispettive

feste.

Mentre nel primo messaggio [figura 87] Alessandro (3,8) confonde

ancora disegno e scrittura e nella verbalizzazione romanza il

significato del suo disegno piuttosto che della sua “scrittura”, nel

secondo [figura 88] utilizza una linea ondeggiante, che corrisponde

allo scarabocchio base numero 12 nella classificazione della Kellogg,

e verbalizza un messaggio coerente all’occasione: “tanti auguri!”

(Alessandro 3,10).

I pionieristici studi negli anni Trenta di Lurija evidenziano

un’evoluzione “spontanea” (nel senso di non-scolastica ma

ugualmente determinata dal contesto culturale in cui il bambino è

immerso) da una scrittura a base di scarabocchi, linee e zig-zag

(fase “prestrumentale”) a una modalità “pittografica”, in cui i segni si

differenziano per forma e numero, ma con modalità non

185 «Dal punto di vista evolutivo ogni bambino elabora le sue ipotesi di funzionamento della scrittura a partire dal sistema con cui entra in contatto – un contatto che è innanzitutto visivo e grafico – e attraverso il quale elabora delle ipotesi che in parte sono ricorrenti in più sistemi, in parte sono legati alle peculiarità del sistema di scrittura. Ad esempio è stata ritrovata in modo costante la presenza di un’ipotesi sillabica, cioè della scrittura di un segno per ogni sillaba in bambini che vivono in contesti linguistici assai diversi. […]. Un’altra ipotesi infantile riguarda la quantità minima. La maggior parte dei bambini non usa mai un solo segno per rappresentare una parola, anche se la parola è un monosillabo. La gamma preferenziale per una quantità minima accettabile per i bambini è di tre, o quattro o cinque segni: i bambini non scrivono e non accettano scritte più brevi, composte da solo una o due lettere, perché dicono che “non si possono leggere”. […]. Un’altra ipotesi infantile generalizzata: quella della “varietà interna”. Agli inizi della scrittura, quando le marche infantili sono ancora non convenzionali, si è osservato il rifiuto per sequenze contigue di lettere uguali, se queste vengono sottoposte loro chiedendo se si possono leggere. Analogamente, i bambini evitano in generale di produrre sequenze con lettere uguali in posizione contigua, soprattutto quando si dispone di un repertorio limitato di segni» (Pinto – Bombi, 1999, pp. 182-183).

236

convenzionali, e quindi, non alfabetiche. Si veda ad esempio, in

figura 31. p. 22, come nelle quattro grafiche in alto, Sana sperimenti

spontaneamente diverse declinazioni del tratto grafico (Lurija, 1976).

Della distinzione tra disegno e scrittura si sono occupate, negli anni

Settanta Emilia Ferreiro e Ana Teberosky (1979) che hanno mostrato

come i bambini giungano a distinguere il segno pittorico da quello

notazionale (lettere e numeri) tramite un processo attivo di scoperta,

che precede la scolarizzazione.

Secondo Ferreiro e Teberosky bambini di età inferiore ai quattro anni

non distinguono pienamente il disegno dalla scrittura: ad esempio, in

un testo illustrato indicano sia lo scritto che le immagini come

“qualcosa da leggere”. In una fase successiva la scrittura verrebbe

considerata come analoga agli oggetti che designa: così alcuni

bambini sono convinti che nelle didascalie ci debba essere scritto il

nome dell’oggetto raffigurato. Infine il bambino giunge alla

progressiva scoperta della funzione puramente simbolica della

scrittura, della sua natura astratta, svincolata dall’immagine ma

vincolata alla parola.

Questo modello ci sembra interessante perché evidenzia da un lato

gli sforzi fatti dal bambino per interpretare e differenziare il mondo

delle immagini iconiche dalle grafiche più convenzionali

(comprensione), dall’altro evidenzia come ipotesi relative a ciò che

deve essere rappresentato e del modo in cui deve essere

rappresentato costituiscano dei vincoli anche per la scrittura.

Nella teorizzazione delle autrici, in linea con i principi della psicologia

piagetiana, i bambini sono precocemente impegnati in un processo di

concettualizzazione della lingua scritta e in una continua

elaborazione e ri-elaborazione di ipotesi che la riguardano.

D’altronde sono immersi in un mondo notazionale, e sono molto

motivati ad interpretarlo anche senza l’intervento dell’adulto.

237

Soprattutto si cimentano con grande piacere, non appena l’attività

grafica è più controllata sul piano motorio e al suo prodotto viene

attribuito un significato rappresentazionale, ad accompagnare il disegno

con una scritta non convenzionale che è qualcosa di simile al nome di

ciò che è rappresentato. (Pinto – Bombi, 1999, p. 176).

In figura 89, p. 55, Alexey (4,5) dichiara ad esempio di avere scritto

quello che ha disegnato; mentre in figura 90 Erika (4,10) riempie lo

spazio rimasto libero con caratteri alfabetici.

Ad alimentare la curiosità del bambino hanno senz’altro un ruolo

importante i comportamenti degli adulti (soprattutto delle insegnanti,

a scuola, che scrivono spesso sui loro disegni, o dietro ai loro fogli),

dei bambini che già frequentano la scuola primaria, nonché le attività

di lettura e scrittura cui assiste.

Anche se le modalità di scrittura individuate da Ferreiro e Teberosky

variano da bambino a bambino, è possibile individuare quattro livelli

di sviluppo del codice scritto di tipo alfabetico: presillabico, sillabico,

sillabico-alfabetico, alfabetico.

La grafica di Alexey (4,5) può essere considerata rappresentativa del

primo livello caratterizzato dalla preoccupazione di distinguere, sul

piano grafico, il disegno dalla scrittura [figura 89]. La scrittura è

interpretata come scrittura di nomi in cui c’è corrispondenza tra nome

e segno. In questa fase i bambini possono applicare alle loro scritture

i criteri della quantità minima e della varietà interna dei segni che

utilizzano e proprio perché tendono a stabilire una relazione tra la

parola scritta e le caratteristiche del referente cui si riferisce,

ipotizzano ad esempio che una parola come treno debba essere più

lunga della parola formichina, a causa delle diverse dimensioni. Nella

figura 91, p. 56, ad esempio, possiamo vedere l’evoluzione di questo

processo in tre momenti diversi: nelle prime due grafiche i nomi

(dell’autrice della grafica e della sorella) fanno parte della

composizione nel suo insieme; mentre nell’ultimo disegno le scritte

designano le protagoniste del disegno.

238

Nella fase sillabica i bambini stabiliscono una corrispondenza tra le

parole e i segni, anche se i segni scritti corrispondono alle sillabe

delle parole e non ai fonemi della lingua. Nella fase di rilettura poi, i

segni in eccesso possono essere cancellati o giustificati.

Il livello sillabico-alfabetico è un livello intermedio tra quello

precedente e quello successivo: i bambini producono sistemi di

scrittura mista in cui spesso il valore assegnato a ciascun segno non

è stabile (può essere una sillaba, o un fonema).

E’ solo nel livello alfabetico che i bambini assegnano una

corrispondenza biunivoca tra le lettere e i suoni della lingua parlata.

Le scritture sono comprensibili, ma non ancora ortografiche.

Il disegno è ora scrittura:

le forme grafiche vengono separate dalla scrittura lineare [e] questa si

subordina al linguaggio verbale mentre il disegno esprime il pensiero e

rappresenta il reale per un’altra e sua propria strada. La distanza tra la

scrittura lineare dalle altre forme grafiche, cui il disegno appartiene, è

diventata differenza di codice: non basta più esprimere un pensiero

traducendolo in una delle due forme parallele e complementari, ma è

necessaria un’operazione di transcodificazione per mettere in

comunicazione questi due differenti piani e le loro differenti realizzazioni.

(Squillacciotti, 1995, p. 162).

Così come il disegno, la scrittura si configura come una complessa

attività cognitiva e socioculturale, che inizia prima di qualunque

insegnamento sistematico.

Possiamo ora ripercorrere i momenti cruciali dell’evoluzione del

bambino prescolare nel campo dell’attività grafica, alla luce delle fasi

individuate da Ferreiro Teberosky:

- segni tracciati su superfici in modo casuale, in cui non è ancora

presente una consapevolezza notazionale e in cui disegno e

scrittura vengono considerati equivalenti e non sono differenziati;

239

- inizio di un’attività simbolica: consapevolezza che i segni possono

designare qualcosa, denominazione arbitraria a posteriori;

- sviluppo, attraverso il principio della differenziazione, della forma:

consapevolezza che la linea può essere non solo un tracciato ma

anche un contorno; enumerazione di dettagli; differenziazione tra

sistemi notazionali iconici e non iconici. Prime forme di scrittura

che si diversificano nella scelta dei segni utilizzati e nelle ipotesi

relative al funzionamento dei sistemi di scrittura e del disegno. La

scrittura è in questa fase ancora molto vincolata agli aspetti

formali del referente cui si riferisce.

- avvio dell’attività simbolica in senso convenzionale: dalla

consapevolezza che oggetto e disegno sono separati e che il

secondo può rappresentare il primo ai primi schemi

rappresentativi e figurativi. “Scoperta” del vincolo della

somiglianza formale; aggregazione di vari particolari in un unico

schema; anticipazione dell’intenzione rappresentativa.

Parallelamente il bambino prende consapevolezza che i segni

tracciati sulla carta stanno al posto delle parole;

- uso notazionale dei simboli a scopo espressivo;

convenzionalizzazione dei grafismi in funzione del principio di

somiglianza; separazione funzionale tra i due sistemi di scrittura

(iconico e non iconico) raggiungimento del livello alfabetico per

quanto riguarda la scrittura.

Mentre l’espressività del disegno si concretizza in elaborati sempre

più ricchi e complessi, che si strutturano in un linguaggio

indipendente dalla lingua parlata186, ma tuttavia parallelo ad esso,

186 «Questo carattere di tridimensionalità delle rappresentazioni simboliche diverse dalla scrittura può segnare un’opposizione di portata più generale. La scrittura è uno strumento di grande precisione ma al tempo stesso di grande rigidezza: è una strategia sociale che lascia poco spazio - per lo meno all’interno delle sue strutture - alla tattica individuale, in cui non rimangono per così dire che l’interlinea e il margine» (Cardona, 1981, p. 65).

240

l’uso notazionale di simboli non iconici si libera progressivamente dal

suo referente materiale, per rivolgersi alla parola parlata.

Come dire che c’è un solo modo di scrivere le parole, ma “molti, ma

non troppi, modi” per disegnarle.

2.3 Il disegno come comunicazione e narrazione

Prima dell’ingresso alla scuola primaria i bambini riescono a produrre

forme che rappresentano in modo sufficientemente riconoscibile

oggetti ed eventi: «le figure canoniche (schemi di case, persone,

alberi, etc.), ricorrenti nei bambini, non sono altro che il modo di

comunicare un significato in maniera essenziale e non ambigua»

(Donsì – Parrello, 2005, p. 21). [Figure 92 e 93, p. 57].

Il “conservatorismo” grafico infantile dipenderebbe dunque sia da una

sorta di “economia” dei processi di progettazione ed esecuzione, che

da un’intenzionalità comunicativa.

Il bambino accumula un certo repertorio di tecniche grafiche ed è in

grado di impararne delle nuove. Tende ad utilizzare nel tempo gli stessi

progetti grafici e le innovazioni si esprimono spesso nell’abbellimento

successivo piuttosto che nella ristrutturazione. Egli deve imparare a

tener conto delle regole di espressione grafica e delle convenzioni

relative alla costanza del punto di vista. Inoltre deve conoscere ciò che

richiede e si aspetta l’ambiente che lo circonda. Infine, secondo Von

Sommers, egli deve conoscere le caratteristiche strutturali degli oggetti

ed essere in grado di risolvere problemi nella rappresentazione di forma,

occlusione, prototipicità e punti di vista; ciò deve essere fatto in modo

graficamente corretto, correlato alla raffigurazione di altri oggetti e in

funzione del particolare compito richiesto. (Tallandini – Valentini, 1991,

p. 321).

241

Col passare del tempo, il bambino amplia notevolmente la gamma di

oggetti che è capace di rappresentare, e disegna quelli vecchi in

nuovi modi. L’aggiunta di dettagli, come anche le deviazioni rispetto

allo schema rappresentativo di base, sono, secondo Lowenfeld e

Brittain (1947) indizi di particolari esperienze creative.

In figura 94, p. 58, possiamo vedere ad esempio i diversi tentativi di

Jonny (da 3,7 a 5,7) nella raffigurazione del treno a partire dal primo

anno di scuola dell’infanzia all’ultimo.

Durante gli anni della scuola primaria, il bambino giunge

definitivamente alla comprensione di ciò che può essere o non

essere incluso in un disegno, producendo attivamente “equivalenti

ortodossi” di soggetti, eventi e conoscenze187.

Ciò è molto più che conoscere l’oggetto da raffigurare, è acquisire un

sistema di denotazione che, sostanzialmente, significa accedere a un

codice convenzionale adeguato alla comprensibilità da parte di uno

spettatore, a un linguaggio i cui segni consentono la comunicazione

delle intenzioni dell’autore […]. Analogamente all’acquisizione del

linguaggio verbale, si tratta di inventare un sistema espressivo astratto,

governato da regole, una sintassi della rappresentazione. (Donsì –

Parrello, 2005, p. 21).

Lentamente gli elementi della composizione sono collegati tra di loro

e rappresentati da un unico punto di vista, secondo convenzione.

La riconoscibilità chiama in causa l’aspetto comunicativo del disegno

nella doppia direzione dell’autore e dell’interlocutore: dal disegno

emerge il mondo individuale del bambino, le sue conoscenze, le sue

scelte e abilità rappresentative; il prodotto sottende inoltre un

interlocutore, un lector in fabula (Eco, 1979) insieme al quale

condivide un codice iconografico.

187 «Qualsiasi oggetto o evento può essere disegnato in modo riconoscibile in diverse maniere, ma tra queste alcune vengono usate più spesso di altre, fino a diventare equivalenti standard» (Goodnow, 1977, p. 126).

242

I bambini stessi si aspettano che esista un modo “giusto” di

realizzare un disegno188 e cercano di avvicinarsi a quello che

ritengono il migliore dei modi possibili per compiacere gli adulti o per

migliorare l’aspetto comunicativo del loro disegno.

Certamente il ragazzo approda alla consapevolezza di una realtà

condivisa e con questa si confronta, e la realtà condivisa ha leggi proprie

alle quali bisogna sottomettersi. Il suo disegno diventa incomunicabile se

non rispecchia la realtà di tutti e che tutti possano sperimentare. Accanto

alla maturazione percettiva si pone così la consapevolezza di nuovi

criteri che giustificano, sul piano della comunicazione sociale, una

corretta rappresentazione grafica. All’espediente che il fanciullo

utilizzava per rappresentare “logicamente” una realtà tridimensionale, si

sostituisce la necessità di una rappresentazione subordinata alle leggi

della prospettiva, convenzionalmente stabilite. Bello, diviene il disegno

che riproduce, nel modo più corretto possibile, la realtà. Le nuove

categorie estetiche diventano la fedeltà e la buona composizione.

(Quaglia, 2003, p. 177).

Vale la pena di sottolineare che

non tutte le culture ritengono che gli equivalenti debbano mostrare le

cose come sembrano, invece che come sono; né tutte condividono l’idea

che il punto di vista appropriato debba essere diretto. In molti dipinti

cinesi, per esempio, si accetta che il disegno venga eseguito come da

una piccola altura presente sulla scena […].

188 Nella pratica didattica mi è capitato spesso che alla richiesta di disegnare i bambini mi abbiano risposto “non sono capace” o “come si fa?”. Con alcuni mi è capitato anche rispetto alla richiesta di disegnare soggetti noti. Le aspettative degli adulti (e degli insegnati in particolare) e i modelli conosciuti dai bambini potrebbero giustificare questi rifiuti nei confronti di particolari disegni. D’altra parte, quando il bambino inizia ad essere critico nei confronti della sua capacità di disegnare, trova conferma della sua presunta insufficienza nello stereotipo che vede il disegno legato ad un “talento” posseduto da pochi e che accomuna le risposte del bambino e dell’adulto per il quale il disegno non rientra tra le competenze dell’attività lavorativa che ha scelto o che svolge.

243

Abbiamo anche bisogno di essere coscienti che la maggior parte delle

persone operano entro i limiti di ciò che è comune in una cultura, e che

l’acquisizione del punto di vista da esso accettato è parte

dell’apprendimento e della capacità di inventiva infantili. (Goodnow,

1977, p. 126).

Dagli otto anni in poi la rappresentazione acquisisce lentamente le

leggi della prospettiva189 e di una rappresentazione realistica sotto il

profilo visivo: il bambino ha ora a disposizione maggiori capacità di

attenzione e concentrazione, ma soprattutto si completa e stabilizza

l’acquisizione di soluzioni convenzionali riprese e suggerite da

esempi esterni.

I vecchi equivalenti si modificano e si arricchiscono diventando più

complessi e i bambini procedono per temi e formule con variazioni,

piuttosto che attraverso ripensamenti radicali190 dello schema

189 «La prospettiva occidentale, quella centrale nata nel Rinascimento dalle teorie di Leon Battista Alberti e della pratica pittorica di Masaccio, si è rivelata un’invenzione di un’importanza e efficacia straordinarie. Essa ha infatti rappresentato il principale modello di lettura della realtà che la civiltà occidentale (e, vista la vastità del suo impiego, la civiltà umana in generale) abbia mai saputo generare; al punto che siamo arrivati a confonderla con la effettiva modalità di visione fenomenica dell’occhio. E questo non corrisponde a verità.

Tanto per cominciare, il nostro occhio recinge un campo circolare, non planare: non esiste nessun piano, nessuna lastra di vetro (come presuppone la prospettiva) che taglia i raggi indirizzati al nostro occhio; non esiste un reale punto di fuga; e non esiste neanche il punto di vista, che la visione prospettica ha trasmesso a fotografia, cinema e video, visto che noi abbiamo due occhi i cui coni visuali si incrociano; non abbiamo infine una visione omogenea in tutte le parti del campo, ma al contrario le zone più esterne dello stesso sono oggetto di una percezione alquanto vaga e indistinta. Insomma la prospettiva non rappresenta il nostro modo di vedere il mondo: si tratta al contrario di uno schema concettuale, per quanto molto efficace possa essere nell’avvicinarsi alla realtà come la percepiamo fenomenicamente» (Branzaglia, 2003, p. 52). 190 «Nel complesso troviamo che i bambini operano cambiamenti nella maniera più facile, quando possono semplicemente aggiungere un elemento, senza rinunciare a principi generali quali il principio di non invadere lo spazio appartenente a qualche altro elemento, o quello di disporre le parti in un ordine dato o su un dato asse. I cambiamenti più difficili sembrano essere quelli implicanti la rinuncia ad un principio che normalmente governa il modo in cui si dispongono i vari elementi. La differenza tra questi cambiamenti fondamentali e quelli più facili, non va soltanto ricercata nei disegni. Per es., nell’apprendimento delle domande (come nel caso della domanda “quando?”) è probabile che si abbia il passaggio da “John leggerà il libro” a “John leggerà il libro, quando?”, con la semplice aggiunta di un altro elemento. Cambiamenti successivi spostano il “quando” all’inizio della frase

244

figurativo: avendo già trovato una soluzione al “problema

rappresentativo”, tendono a proporre disegni che “funzionano”.

Via via che l’intento narrativo si stabilizza e che l’ambizione di ritrarre

con precisione un oggetto o un evento diventa più pronunciata, i bambini

devono affrontare nuovi problemi di composizione e relazioni spaziali:

come ritrarre il passaggio del tempo, un evento in corso, i sentimenti di

felicità, rabbia o tristezza? A questo punto l’atto di disegnare e dipingere

diventa più riflessivo, implica la possibilità di correggere e imparare

dall’esperienza personale e dai modelli di altri. I bambini più grandi

diventano consapevoli della necessità di essere più espliciti nella

descrizione delle relazioni; ora capiscono che la stessa semplice

prossimità, l’allineamento o la simmetria della disposizione non narra

l’intera storia come dovrebbe essere raccontata. Certamente, tra i

bambini ci sono notevoli differenze individuali nello stile, talento,

motivazione […]. Al crescere dell’età e della competenza cognitiva, i

“Quando John leggerà il libro?” […]. I cambiamenti più difficili sono quelli che alterano il nucleo di un progetto, decisioni di annullare, combinare, riorganizzare delle priorità, o di cominciare dal punto in cui pensavamo di finire» (Goodnow, 1977, pp. 164-165).

Più recentemente Annette Karmiloff-Smith ha condotto esperimenti sul cambiamento rappresentazionale nei bambini tra i cinque e undici anni, rilevando una flessibilità maggiore negli schemi rappresentativi dei bambini più grandi. Per provocare cambiamenti nelle modalità di procedere dei bambini e studiare il processo rappresentativo mentre si modifica Karmiloff-Smith ha proposto in due sessioni distinte il disegno di “una casa che non esiste” e di “una persona che non esiste”; il disegno di “una casa con le ali” e quello di “una persona con due teste”. Nel secondo esperimento, la variante era esplicitamente suggerita dallo sperimentatore. Riportiamo di seguito le conclusioni dell’autrice. «Bambini di tutte le età da 5 a 11 anni cambiavano forma o grandezza di alcuni elementi, oppure forma e grandezza del disegno complessivo, togliendo elementi essenziali. Invece pochissimi bambini al di sotto degli 8 anni inserivano elementi, cambiavano la posizione e/o l’orientamento, oppure eseguivano inserzioni trans-categoriali […].

La ragione per cui i bambini [piccoli] disegnano facilmente una casa con le ali è che le ali possono essere aggiunte alla fine della procedura sequenziale che si è eseguita nella sua interezza per disegnare una casa. Invece, quando cerca di eseguire il disegno di una persona con due teste, il bambino deve interrompere la normale sequenza procedurale del disegno di un uomo per inserire una subroutine. Nella letteratura sullo sviluppo, un gran numero di studi su attività diverse dal disegno ha mostrato che inserzioni del genere sono difficili per i bambini piccoli. Anche quelli di 5 anni, esaminati nel nostro esperimento, incontravano difficoltà simili, mentre i più grandi inserivano spontaneamente delle subroutine nella loro procedura rapida di disegno» (Karmiloff-Smith, 1992, pp. 227-228).

245

modelli culturalmente approvati iniziano a giocare un ruolo importante e i

bambini dedicano più attenzione agli stili artistici accreditati nella loro

comunità. (Golomb, 2002, pp. 133-134).

Questo aspetto è stato documentato anche dalla ricerca

transculturale191. Oltre ad una notevole diversità stilistica nella

produzione di modelli grafici192 esisterebbe una diversa precocità con

cui i bambini giungono a produrre figure convenzionali, ma anche

191 La ricerca sull’origine dell’arte infantile ha portato molti studiosi a collezionare disegni provenienti da diverse parti del mondo. Si tratta soprattutto di opere di bambini e adulti preletterati. Già l’antropologo A. C. Haddon disponeva, a inizio ‘900 di una copiosa raccolta di disegni provenienti dalle popolazioni Papuane e nel commentarne lo stile “molto rudimentale ed essenziale” lo paragonò alle produzioni delle tribù del Brasile Centrale (Haddon, 1904). Il campione più rappresentativo di disegni prodotti da bambini tra i cinque e i nove anni è stato realizzato da G.W. Paget che raccolse più di seimila elaborati che gli vennero spediti da varie regioni dell’Africa, dell’Asia, del Medio Oriente, della Nuova Zelanda, della Giamaica, dell’Australia e Nuova Guinea Inglese. Le sue ricerche confermano l’esistenza di un linguaggio grafico universale riconoscibile, soggetto a variazioni nel rispetto di un ambiente condiviso (Paget, 1932). Il lavoro di Paget stimolò ulteriormente la ricerca in questo campo. Segnaliamo gli importanti lavori dell’antropologo Meyer Fortes che, tra il 1934 e il 1937 raccolse, insieme alla moglie, diversi disegni prodotti da bambini e adolescenti Tallensi non scolarizzati (Fortes, 1940; 1981). Fortes ipotizzò l’esistenza di una fase ideo-grammatica originaria in cui i disegni sono “diagrammi funzionali”. Egli scorse una grossa differenza tra le produzioni dei bambini scolarizzati e non scolarizzati. Quest’ultimi, nella rappresentazione della figura umana producevano una sorta di ideogramma che riproduceva attraverso dimensioni e proporzioni, l’importanza funzionale delle parti del corpo. I bambini scolarizzati al contrario, producevano modelli grafici molto simili a quelli dei coetanei occidentali. Fortes interpretò i suoi dati in termini di convenzioni dipendenti dalla cultura (si veda a proposito anche Deregowski, 1978). Wayne Dennis, si è occupato di disegni di beduini preletterati della Siria (Dennis, 1960). In questi disegni sono omessi i particolari del volto, disegnato molto piccolo o ombreggiato; ciò sottolinea ancora una volta l’influenza di fattori culturali nei modelli rappresentazionali utilizzati. Per gli studi transculturali relativi ai disegni si vedano inoltre: Andersson, 1995a; 1995b; Wilson - Wilson, 1984, 1985. 192 Considerando gli studi sullo sviluppo del disegno alla luce delle convenzioni iconiche dell’ambiente culturale in cui viene realizzato o recepito, emergono due tipi di approccio: uno di tipo universalistico ed uno più “situazionale”. La posizione tradizionale è quella di stampo universalistico, che ascrive un carattere universale alle rappresentazioni grafiche supportato, secondo alcuni autori, dalla riconoscibilità stessa dei prodotti: chiunque, anche se non addestrato, può riconoscere nei disegni una raffigurazione della realtà.

All’universalismo si oppongono coloro che sottolineano la mediazione dell’azione e del giudizio sociale sul disegno infantile: in effetti «il marchio della cultura è riconoscibile sia nella scelta preferenziale di alcuni temi sia negli stili pittorici adottati dai bambini dei diversi paesi; e non dappertutto gli adulti loderebbero, come avviene da noi, l’omino-testone di un trenne» (Pinto - Bombi, 1999, p. 135).

246

una diversa scelta delle parti da includere e un diverso modo di

connetterle e denominarle.

Ad esempio i bambini Walbiri (aborigeni australiani) disegnano le

persone utilizzando un semicerchio come schema figurativo: un

semicerchio più grande con un semicerchio più piccolo inscritto

all’interno, raffigurerebbe una madre con un bambino in braccio.

L’iconografia Walbiri è quasi svincolata dalla somiglianza visiva e usa i

segni con significato variabile a seconda dei contesti. Così un cerchio

indica ora un albero, ora un falò, ora un uovo, ora un campo, mentre una

linea ondulata può rappresentare un danzatore, un fiume, un serpente e

così via: tracciare questi segni sulla sabbia è considerato parlare. (Pinto

– Bombi, 1999, p. 136).

Accanto ad un processo rappresentazionale universale, si colloca un

ambiente culturale che, attraverso i suoi modelli, ha un notevole peso

sullo sviluppo del linguaggio grafico e sulle forme che esso potrà

successivamente assumere.

Una volta raggiunto il livello basilare della differenziazione grafica, le

attività rappresentazionali non portano necessariamente a ulteriori

differenziazioni e cambiamenti. Nelle culture in cui le attività basate su

carta e matita sono consuete e di facile accesso e dove la

sperimentazione e il cambiamento evolutivo sono attesi e valorizzati, le

prime organizzazioni grafiche del tipico stile dell’arte infantile vengono

ulteriormente sviluppate e, entro la fine dell’infanzia, le attività artistiche

o vengono canalizzate in modelli progressivamente più complicati che

soddisfano le norme e le aspettative culturali, oppure vengono

accantonate nel senso che i bambini smettono di disegnare. (Golomb,

2002, p. 97).

Tara C. Callaghan (2003) ha recentemente delineato un modello di

funzionamento del simbolismo grafico che è interessante seguire nei

dettagli. Alla ricerca del ruolo complementare della predisposizione

247

biologica e del supporto culturale, l’autrice sviluppa un sistema di

evoluzione del linguaggio grafico a sei livelli – relativo sia alla

comprensione che alla produzione -, applicabile, secondo la stessa,

al processo che si verifica in qualunque momento dell’ontogenesi,

quando l’organismo si trova di fronte a un nuovo dominio simbolico.

In questo senso l’accessibilità al significato di un simbolo non

sarebbe necessariamente legata all’età, ma alla sua complessità,

alla capacità di ragionamento del bambino, così come alla novità del

dominio simbolico.

Partendo dal presupposto che i simboli siano una classe speciale di

artefatti la cui funzione è intenzionalmente comunicativa, ne

considera lo sviluppo come inseparabile dal contesto sociale:

il bambino porta dal mondo pre-simbolico dell’infanzia un ricco insieme

di meccanismi e una forte pulsione verso l’intersoggettività. Tutto ciò

prepara la strada ad un cambiamento nella comprensione infantile di

oggetti e persone. Quello che l’individuo porta nel processo è solo una

parte del quadro. Gli “altri” sono ugualmente impegnati a condurre i

bambini nel mondo dei simboli. E’ nel contesto degli scambi sociali

comunicativi che il bambino realizza che i simboli grafici devono essere

usati per riferirsi ad entità al di fuori di noi stessi, attraversando in tal

modo lo spartiacque simbolico che segna la fine dell’infanzia.

(Callaghan, 2003, p. 52).

Il modello della Callaghan parte dal livello 0, relativo ai primi nove

mesi, caratterizzato dall’assenza di qualsiasi differenziazione tra

simbolo e referente: «infatti, prima dei 9 mesi, il bambino afferra gli

oggetti rappresentati in fotografie ad alta definizione […] e talvolta

muove la matita in modo da rappresentare il referente [un coniglio

che salta]»193.

193 Callaghan, 2003, p. 53. Ci sembra interessante notare come il passaggio dal livello 0 al livello 1 avvenga proprio a 9 mesi, età in cui, come abbiamo visto nel capitolo precedente, il bambino si dimostra in grado di utilizzare diversi mezzi per

248

A livello 1, verso la fine del primo anno, i bambini iniziano a

differenziare gli oggetti dalle immagini che li rappresentano su un

piano pratico (comprensione), ma senza consapevolezza simbolica.

A livello 2 colgono sia la somiglianza che la differenza percettiva tra

simbolo e referente (comprensione) e iniziano ad etichettare i loro

scarabocchi a posteriori (produzione). Nei bambini di questo livello la

consapevolezza dei simboli grafici è essenzialmente percettiva e non

ancora simbolica.

Il livello 3 è il primo livello autenticamente referenziale:

durante il secondo anno di vita i bambini comprendono che tra simbolo e

referente può esservi una relazione di equivalenza non identica […] tale

comprensione, che per le immagini si sviluppa intorno ai 36 mesi, rivela

la capacità di rappresentazione duale, ovvero l’abilità di capire che un

simbolo è sia una rappresentazione di qualcos’altro sia un oggetto di per

sé. Nella produzione iniziano a mostrare nei loro disegni pianificazione e

intenzionalità a priori. (Ivi).

A questo livello i bambini producono forme grafiche che contengono

“l’equivalenza concettuale” dei referenti reali, come l’omino testone.

A livello 4 i bambini capiscono che uno stesso referente può essere

rappresentato in molteplici plausibili modi. Mentre la “costanza

simbolica” è il livello di comprensione che caratterizza questo

periodo, a livello produttivo i bambini utilizzano una varietà di forme

per raffigurare il medesimo soggetto a seconda dello scopo del

disegno.

A livello 5, all’età di cinque anni,

i bambini possono interpretare un simbolo grafico come un indicatore

delle intenzioni altrui (comprensione) […] tengono in considerazione gli

attributi mentali dell’artista nell’interpretazione delle rappresentazioni

raggiungere lo stesso scopo e soprattutto vi è la comparsa osservabile di comportamenti intenzionali attraverso i gesti deittici dell’indicare.

249

pittoriche, così come nei loro disegni. A questo livello essi possono

intenzionalmente produrre un disegno al fine di avere un impatto

particolare sugli spettatori, o per comunicare una particolare prospettiva

sul mondo (produzione). (Ibidem, p. 54).

Supportato da numerosissime verifiche sperimentali, il modello della

Callaghan tende a dimostrare che la nascita e il raffinamento della

“mente simbolica” si basano principalmente sull’impalcatura sociale

fornita dagli altri, sulle abilità imitative unite alla consapevolezza

intersoggettiva e sulla comprensione delle intenzioni proprie e altrui.

Non essendo copie della realtà ma schemi figurativi, i disegni

“incarnano” l’esperienza e la conoscenza degli autori e,

contemporaneamente, la loro abilità ad esprimersi attraverso il

linguaggio grafico.

Disegnare, quindi, non è un semplice atto di imitazione e raramente si

riscontra la prospettiva ottica nel lavoro artistico dei bambini e degli

adulti che vivono in un mondo dove le fotografie, le riproduzioni d’arte

realistiche, la pubblicità forgiano i sistemi di rappresentazione

tridimensionale. Quando i modelli sono consoni al livello di abilità e di

comprensione visiva del bambino, tendono a essere adottati e

perpetuati; ciò è testimoniato dallo stile artistico infantile comune in

tempi e luoghi differenti. In assenza di supporti culturali, la competenza

pittorica si ferma a uno stadio precoce del pensiero visivo. (Golomb,

2002, p. 97).

Quando al bambino è data la possibilità di disegnare e sperimentare

tecniche grafiche, i suoi elaborati si arricchiscono, diventano spunto

di riflessione, gioco, narrazione di progressive acquisizioni che ne

modificano profondamente l’aspetto.

Ad esempio, in figura 95, p. 59, Alexey (5,10) si preoccupa di

rappresentare il funzionamento interno del trattore che ha appena

250

disegnato. Si tratta di un’ipotesi di meccanica che giustifichi il

funzionamento del trattore che sta arando il campo.

Secondo alcuni

il disegno ha la sua storia che riflette pari pari la storia del nostro

sviluppo psichico, né più né meno di quanto accade alla nostra

personalità […]. Tutto ciò che guadagniamo nel corso degli anni in

raziocinio, abilità, assimilazione di norme, regole e comportamenti

socialmente accettabili, lo perdiamo in spontaneità ed inventiva: è il

prezzo che paghiamo per entrare a fare parte a pieno titolo della

comunità civile. Un pedaggio – questa sorta di conformismo – che ci

rassicura sul piano dell’accettazione dei nostri simili. Non a caso

chiamiamo artisti quegli individui che non si sono sottomessi appieno

alle regole sociali. Beninteso […] non è certo abdicando all’educazione e

al senso di realtà che si diventa automaticamente artisti. (Mancini, cit. in,

Di Napoli, 2004, p. 30).

Inoltre, a partire dalla preadolescenza i bambini iniziano a includere

l’effetto che il disegno suscita nello spettatore tra gli elementi che

concorrono a determinarne la riuscita e a guidarne la produzione:

la consapevolezza pittorica, in analogia con quanto suggerito a

proposito del linguaggio verbale, può essere definita come l’assunzione

di un atteggiamento di riflessione nei confronti della comunicazione

iconica, della sua natura, dei suoi scopi, delle sue regole e funzioni.

(Pinto, Mantelli, Giuntoli, 2003, p. 90).

Nelle concezioni infantili rispetto al disegno e all’attività del disegnare

si registra, attorno ai dieci anni, uno spostamento: da giudizi fondati

prevalentemente sul realismo visivo a una concezione più

“mentalistica” del processo di rappresentazione pittorica, nella quale

acquista valore il punto di vista dell’altro, sia questi l’autore o il

fruitore del disegno.

251

Si tratta di risultati che consentono di estendere allo sviluppo

metacognitivo in ambito pittorico quanto già rilevato in rapporto al codice

linguistico, ed in particolare alla scrittura: sarebbero cioè gli elementi di

pianificazione e le procedure della fase esecutiva a divenire per prime

oggetto di riflessione, mentre la valutazione si produrrebbe in tempi

successivi, implicando il controllo delle operazioni sottostanti:

comprensione del compito, pianificazione e organizzazione delle

procedure. (Ibidem, p. 97).

In questo senso l’età influenza prevalentemente l’esecuzione di

procedure, con un aumento progressivo della capacità di

monitoraggio (autoistruzione esecutiva) e della capacità di

confrontare le intenzioni espressive con il prodotto finito

(valutazione).

Thomas Charoters e Howard Gardner (1979) hanno valutato la

sensibilità estetica dei bambini rispetto all’opera d’arte attraverso due

parametri: la «completezza sintattica», cioè il modo in cui l’artista

utilizza i diversi mezzi espressivi per ottenere un «impatto artistico»,

e le «qualità espressive», cioè il modo in cui un’opera d’arte

comunica emozioni, stati d’animo, sentimenti, etc. La loro ricerca

dimostra che solo intorno ai dodici anni viene superato un approccio

“letterale” all’opera pittorica, a vantaggio di una lettura più

“interpretativa” che include i criteri di completezza ed espressività.

La maggiore disponibilità ad accedere al piano metacognitivo

sottolinea la maggiore flessibilità cognitiva dei bambini di quest’età

rispetto all’«errore incontrollato» e al disgiungersi dell’intenzione

dalla raffigurazione delle fasi precedenti.

I bambini più grandi ottengono intenzionalmente ciò che i bambini del

periodo precedente raggiungevano senza volerlo.

I caratteristici “errori” dei disegni infantili (ribaltamenti, trasparenze),

sono destinati a ricevere un ridimensionamento in concomitanza

252

dell’ingresso del bambino alla scuola primaria, mentre lo sviluppo

pittorico sembra concludersi, per molti studiosi, con l’adolescenza194.

Adolescenti e adulti valutano le proprie capacità artistiche e il proprio

prodotto pittorico in base alla consapevolezza della limitatezza dei propri

mezzi e all’incapacità di rendere efficacemente una rappresentazione

complessa della realtà. Per questi motivi spesso il disegno come mezzo

espressivo e comunicativo viene abbandonato, e gli si preferisce di gran

lunga l’espressione verbale. (Donsì – Parrello, 2005, p. 31).

A partire dall’adolescenza il disegno, sempre più inteso come copia,

finisce per perdere il suo fascino. Tuttavia «all’impoverimento della

vita immaginativa e fantastica» che la maggior parte degli autori

legge nei disegni di questo periodo, non corrisponde un

impoverimento delle capacità immaginative dell’adolescente:

anzi, il venir meno della creatività nel disegno infantile è frutto della

capacità dell’adolescente di interiorizzare il “movimento” ovvero le

qualità dinamiche degli oggetti. Quel che prima doveva essere

rappresentato graficamente per esistere, nell’adolescenza si muove solo

più a livello immaginativo. (Quaglia, 2003, p. 177)

Il disegno, a partire dall’adolescenza, sembra perdere la sua

capacità espressiva e viene abbandonato dalla maggior parte degli

adolescenti come forma di comunicazione.

Lo stesso si può dire per tutte le altre forme di espressione vive

durante l’infanzia che via via vengono abbandonate (come il gioco

simbolico, la danza, o la musica), se non vengono coltivate

attraverso percorsi di formazione specifici e paralleli alla scuola.

194 Tuttavia alcuni autori sottolineano come il disegno continui a svilupparsi dopo l’adolescenza (Freeman, 1995) e anche oltre nel caso degli artisti; anzi nella fase della prima adolescenza si evidenzia una fase di riavvicinamento al disegno, nella quale le produzioni dei bambini si avvicinano a quelle dei professionisti, soprattutto per la tecnica usata e gli elementi estetici ricercati.

253

Il periodo in cui si assiste al “declino” del disegno come mezzo per

esprimere vissuti e per comunicare eventi (coincidente agli otto anni

circa), corrisponde alla fase in cui i processi di lettura e scrittura

vengono completamente interiorizzati dal bambino. Questa

coincidenza ci porta a riconsiderare, da un lato, l’origine comune di

scrittura e grafismo come capacità di “annotare significati” attraverso

simboli grafici195, e dall’altro a considerare come, nel corso dello

sviluppo al grafismo sia riservato una doppia evoluzione: verso

sistemi notazionali iconici (disegno) e non iconici (numeri e lettere)

diversamente valorizzati dalla nostra cultura.

3 Contesti culturali e teorie psicologiche

Un’importante lezione che deriva dagli studi transculturali sul disegno

è che, all’interno di un repertorio universale includente forme che

sostanziano stili anche molto diversi tra loro, le scelte fatte dai

bambini nel disegnare dipendono solo in parte dalla “scoperta”

dovuta all’esercizio delle attività grafiche e pittoriche, mentre in parte

sono l’effetto di una trasmissione sociale che avviene entro un

contesto culturale in cui i bambini hanno ampio accesso ai diversi

codici visivi, agli strumenti per produrli e fruirne e in cui esiste una

prassi carica di “valori” molto intensi, anche se “ambigui”.

In questo paragrafo ci occuperemo di come l’idea di “arte infantile”

sia entrata a far parte del pensiero occidentale: presenteremo le

ragioni culturali e storiche che hanno condizionato e che tutt’ora

condizionano il dibattito teorico, i campi di ricerca e le modalità di

utilizzo dei disegni dei bambini. Riteniamo che tali ragioni abbiano

195 «Dallo scarabocchio informe si dipartono, con intenzionalità diverse, il disegno e la scrittura. Attività che richiede movimenti dei muscoli del braccio, del polso e della mano delicati, coordinati e di grande precisione, la scrittura ha per origine l’imitazione di un’azione osservata nell’ambiente sociale» (Oliverio Ferraris, 1973, 25-26).

254

sensibilmente guidato la ricerca psicologica e informato, più o meno

esplicitamente, il dibattito teorico successivo.

Di seguito proporremo una sintetica ricostruzione storica degli studi

sul disegno infantile operati dalla psicologia di matrice psicometrica e

psicodinamica196 e ne tenteremo una conciliazione a partire dalla

definizione di concetti quali “rappresentazione” e “proiezione”.

Concluderemo la sezione sul disegno infantile con le ricerche più

recenti, evidenziando lo stretto rapporto tra fare, conoscere e

comunicare. Vedremo poi come il disegno si presenti come

strumento cognitivo e codice espressivo-comunicativo variamente

articolato ed estremamente diversificato.

3.1 Nascita di un mito: l’arte infantile

Si dimentichi ora per un attimo quello che è stato scritto e si osservino le

produzioni di Davide (4,8), Alexey (4,6), Marta (4,11) in figura 96, p. 59;

97 e 98, p. 60 rispettivamente. Che cosa ci dicono queste

196 Nella letteratura sull’argomento gli orientamenti metodologici individuati all’interno della psicologia sono solitamente tre: l’orientamento descrittivo comparativo che si delinea dalla fine del secolo scorso e che domina fino agli anni Venti; l’orientamento psicometrico prevalente dagli anni Venti agli anni Quaranta ma tuttora ritenuto autorevole in alcuni contesti; l’orientamento proiettivo-interpretativo, dominante dagli anni Quaranta fin verso la metà degli anni Cinquanta (Osterrieth, 1973). Il primo orientamento, che non verrà trattato in modo specifico, ma per il quale si rimanda alla bibliografia, riguarda il periodo delle grandi raccolte dei disegni “spontanei” e dell’analisi dello sviluppo grafico di uno o più bambini. Acquisizione di tale orientamento è, secondo Osterrieth (1973) la segmentazione in stadi. Per quanto riguarda il secondo, esso si caratterizza «per il carattere rigoroso […] e per il ricorso allo strumento statistico e per la preoccupazione di controllo e di validazione delle conclusioni a cui si perviene». Le consegne dello sperimentatore sono precise e possono essere a orientamento geometrico o figurativo. Acquisizione di tale periodo viene considerato lo stretto legame tra sviluppo cognitivo e tratti salienti del disegno. Il terzo orientamento, denominato simbolico o interpretativo «è sensibilmente meno sicuro e meno rigoroso, benché in apparenza più ricco dei precedenti». Le finalità che questo approccio si propone sono soprattutto proiettive e interpretative e per questo secondo Osterrieth non vi sarebbe nessuna acquisizione da riconoscere a questo orientamento perché «le pretese sono spesso tanto alte, quanto sono deboli le prove su cui si fondano, e quanto illusori i controlli che spesso sono stati tentati» (Ibidem, pp.10-11).

255

rappresentazioni? Che cosa ci suscitano? A cosa ci riportano? Cosa ne

pensiamo?

L’idea che i disegni dei bambini possano essere esteticamente

interessanti è oggigiorno così comune da farci dimenticare che si tratti di

un’idea storicamente recente, e tuttora controversa. Secondo Gardner

(1980), è verso la metà dell’800 che pedagogisti e letterati cominciano a

mostrare interesse per il grafismo dei piccoli; nei decenni successivi

questo interesse si concretizzò nelle prime collezioni di disegni infantili.

Ma soprattutto a partire dagli anni ’30 e sino all’immediato dopoguerra,

l’importanza attribuita alla creatività e all’espressione artistica nello

sviluppo e nell’educazione del bambino ha portato educatori e psicologi

a porre l’accento sulle potenzialità artistiche della pittura infantile […].

E’ ovvio che il sorgere di questi atteggiamenti non può essere disgiunto

dal mutamento delle arti visive nel nostro secolo, e in particolare dal loro

svincolarsi, in forme anche estreme, dalla figuratività: sarebbe stato

impensabile cercare qualità esteticamente rilevanti in uno scarabocchio

o in un omino testone nel clima culturale del Rinascimento. (Pinto –

Bombi, 1999, pp. 138-139).

Se l’evoluzione delle idee relative all’infanzia197, all’arte e al

«primitivo» hanno concorso a far sì che l’interesse per il disegno del

197 Non si deve dimenticare che il concetto di infanzia, così come noi lo concepiamo oggi, è un’idea abbastanza recente. Esso risale alla seconda metà dell’Ottocento, primo periodo in cui si sono manifestati interessi per lo studio del comportamento infantile (infanzia come età carica di promesse in cui è possibile formare “l’uomo che verrà”), ma è soprattutto alla fine del Diciannovesimo secolo e durante il primo trentennio del Ventesimo, si è assistito ad uno straordinario fervore di iniziative a favore dell’infanzia. Durante il Novecento si iniziò a parlare di “diritti dell’infanzia”, e tra questi non vi erano solo i diritti all’istruzione, al mantenimento e alla protezione, ma anche “diritti specifici dell’infanzia” che consistevano essenzialmente nel sostenere la loro subalternità e dipendenza dagli adulti. Parallelamente si imponeva una conoscenza “scientifica” del bambino affinché le politiche sociali sull’infanzia fossero maggiormente efficaci.

«In primo luogo veniva affidato alla scienza il compito di sconfiggere l’alto tasso di mortalità infantile (tra i 100 e i 250 bambini morti per mille nati vivi, nei paesi più civilizzati) […]. Si riteneva inoltre che la scienza potesse contribuire a svelare i misteri del funzionamento della mente infantile, misurare l’intelligenza dei bambini, dire alle madri come allevare i figli e fornire una guida per il trattamento di quei bambini il cui sviluppo o il cui comportamento non si conformassero agli standard» (Giani Gallino, 2008, p. 36).

256

bambino maturasse in ambito artistico e si sviluppasse nella

direzione di una valutazione estetica, non di meno l’interesse degli

psicologi, anche quando si dichiarano non interessati all’artisticità

delle grafiche dei bambini, appare profondamente legato alla

capacità infantile di fare e di fruire dell’arte.

Dal Postmodernismo in poi, è come se il mondo dell’arte - quello del fare

arte e quello della riflessione teorica sull’arte – abbia scelto e imboccato

un percorso per così dire illustrativo, e perciò stesso dimostrativo,

dell’arte infantile. O per meglio chiarire, chi ritiene che il disegno infantile

sia arte, trova nell’avanguardia storica e nella postavanguardia materiali

e argomenti, non solo per sostenere l’artisticità del disegno del bambino,

ma addirittura per operare un confronto puntuale tra produzione infantile

e produzione adulta, fino a proporre una sequenza cronologica, sia pure

di opposta direzione. La “bava” di Turcano, primo anno di vita; i “gesti”

degli action painters, secondo anno di vita; le “astrazioni” di Nicholson,

terzo anno di vita; le figure che “fluttuano nel vuoto” di Chagall, quarto

anno di vita; il quinto ci porterebbe a Klee e Mirò; il realismo intellettuale,

infine, stadio emblematico per Luquet del disegno infantile, al cubismo. I

più cauti parlano di analogie; sebbene non manchi chi postula vere e

proprie omologie che, rimandando ad un’identità di strutture

psicologiche, non possono non interessare la psicologia […].

La concezione che vuole il bambino capace di fare e fruire arte,

sviluppatasi alla fine del secolo scorso arriva fino ai nostri giorni […].

Sarebbe necessario che arte infantile e disegno infantile fossero nella

letteratura concetti ben differenziati, mentre il sospetto è proprio che la

nozione di disegno infantile sia ricalcata su quella di arte infantile. Vero è

che in buona parte della letteratura più recente compare l’esplicita

negazione dell’arte infantile. Ma affermare che il disegno infantile non è

arte, e continuare poi ad usare il corredo di formule linguistiche e

concettuali che tradizionalmente hanno accompagnato la riflessione

sull’arte, se è spia della difficoltà che oggi pone la soluzione elaborata

nel passato, non da luogo purtroppo ad una riformulazione teorica, né

tantomeno ad una diversa impostazione delle pratiche del disegno.

Sicché, nonostante le dichiarazioni contrarie, parrebbe che la nozione di

257

arte, sia pure inavvertitamente, continui ad essere esplicativa dell’intera

produzione disegnativa del bambino. In breve, l’ipotesi che si avanza è

che arte infantile e disegno infantile siano locuzioni intercambiabili

poiché i referenti teorici, più o meno espliciti per la prima e impliciti per il

secondo, son gli stessi: quelli cioè elaborati per la classe di oggetti

culturalmente chiamati opere d’arte. (Pizzo Russo, 1988, pp. 48, 61-62).

Sembra difficile osservare alcune grafiche dei bambini e resistere

alla tentazione di leggerle come “forme di arte astratta”.

L’espressione “arte infantile”, di per sé già una combinazione

terminologica, si diffonde a partire dalla metà dell’Ottocento dopo che

una serie di processi culturali si sono sedimentati e affermati: una

diversa concezione del bambino e dell’infanzia da una parte, una

concezione romantica dell’arte e dell’artista dall’altra, tale da

congegnarsi idealmente alla nuova immagine dell’infanzia. Durante il

Romanticismo il modello della didattica artistica è individuato nella

promozione della “spontaneità creatrice”, mentre l’infanzia, teorizzata

già a partire da Jean-Jacques Rousseau al di fuori della società e

delle sue norme, è disponibile a configurarsi come modello

naturale/ideale e “stilistico”.

Quando si è cominciato a parlare di arte infantile, l’artista era già

intuitivo-irrazionale dall’occhio vergine-autoespressivo-ossessionato-

sensitivo; tutto fuorché razionale. Era uno stereotipo; ma decisamente di

segno opposto a quello che si era formato durante il Rinascimento

quando Michelangelo sosteneva di dipingere con il cervello, Leonardo

fondava la propria pratica sulla scienza, e, in generale, l’artista era

portatore di un ordine razionale. Aveva comunque molte assonanze con

l’immagine rousseauiana del fanciullo che stava divenendo corrente.

Rousseau, del resto, come è stato fondamentale per la nuova

concezione dell’infanzia, non di meno ha contribuito alla nuova

concezione dell’arte. Si pensi solo all’artista bohémien, “nuovo ideale

umano” contrapposto, idealmente al bourgeois. Fanciullo e artista

258

potevano gravitare nella stessa orbita perché la loro condizione umana

veniva descritta pressappoco negli stessi termini198.

Così mentre l’artista romantico inizia la sua lotta contro la tradizione

e le convenzioni, esalta contemporaneamente tutti coloro che non

sono portatori di questi valori: il bambino e il “primitivo”.

Quando si predica l’antintellettualismo, bisogna trovare qualche

condizione umana in cui ci siano felicità e benessere senza il dono della

ragione, a meno che ci si appaghi della disperazione. Si può respingere

il sapere a vantaggio dell’intuizione, della visione mistica, dell’istinto, o

persino del fugace piacere sensibile, ma è difficile costruire una filosofia

della vita senza indicare un essere umano che ne sia l’esemplificazione.

(Boas, 1966, pp. 10-11).

Dietro alla passione per “l’arte primitiva”199 e “l’arte infantile” la

ricerca e la nostalgia per “ciò che si è stati”. Negli ambienti

intellettuali e artistici si accumulano reperti archeologici (sono di

questo periodo le scoperte delle grotte del paleolitico), bottini

198 Ibidem, p. 27. Nell’economia dell’argomentazione che si sta portando avanti vorremmo segnalare a proposito il saggio di Lévi-Strauss (1962) Jean-Jacques Rousseau, fondatore delle scienze dell’uomo. Lévi-Strauss riconosce un ruolo profetico a Rousseau come fondatore dell’etnologia affermando «senza tema di smentita […] che, quell’etnologia che ancora non esisteva egli l’aveva, un secolo prima che facesse la sua comparsa, concepita, voluta, preannunciata, ponendola di colpo al suo rango fra le scienze naturali e umane già costituite; e, persino, che egli aveva indovinato in quale forma pratica – grazie al mecenatismo individuale o collettivo – le si sarebbe consentito fare i primi passi»; ma anche per ciò che gli si deve in tema del mito del “primitivo”. Sebbene non gli si possa attribuire «la glorificazione dello stato di natura – dove si può vedere l’errore di Diderot ma non il suo» (Ibidem, p. 378). 199 Secondo Layton ci si è spesso avvicinati alle culture “altre” negando loro la storia, ossia una dimensione di sviluppo “temporale”. Il sospetto che «ben lontano dall’essere “fossili viventi”, le tradizioni artistiche contemporanee delle società diverse dalla nostra mostrino una grande differenza di forma rispetto alle loro origini» è piuttosto recente. L’autore preferisce sostituire il termine “arte primitiva” con “antropologia dell’arte”, sostenendo che il primo può essere usato «solo come una di quelle figure retoriche che utilizzano gli opposti per trarne un effetto drammatico». Ogni comunità dotata di una tradizione di espressione artistica possiede una cultura, in un certo senso, raffinata» (Layton, 1981, rispettivamente pp. 11 e 12).

259

etnografici (un’etnografia impegnata nella ricerca della comprensione

della “storia dell’umanità”, la nostra), e prodotti infantili200.

L’ambito scientifico elabora un potente strumento di spiegazione di

tutti questi fenomeni: la legge della ricapitolazione genetica di Ernest

Haeckel. Cresce così l’importanza attribuita allo sviluppo psicologico

del bambino, termine di paragone, confronto e verifica delle

sequenze storiche ricostruite dall’etnologia e dall’archeologia201.

Interesse, quindi, per il primitivo. E che le prospettive siano diverse –

evoluzionistica quella scientifica e romantica quella artistica – non

indebolisce per nulla, anzi, la focalizzazione incrociata sull’oggetto,

moltiplica l’interesse stesso. Si può così parlare di dominante

primativistica per ciò che dopo Snow si è soliti chiamare le due culture,

fermo restando, in quel preciso contesto storico, il differente accento

valutativo: quanto costituiva progresso per gli uni, era regresso per gli

altri. (Pizzo Russo, 1988, p. 31).

200 E’ a partire dalla seconda metà dell’Ottocento che si assiste ad un’esplosione sincrona dell’interesse per ogni forma d’arte non convenzionale. Oltre alle forme “artistiche” di bambini e “primitivi”, matura in questo stesso periodo l’interesse per l’arte psicopatologica.

«Per arte psicopatologica bisogna considerare, da un lato, la concezione della malattia mentale come regressione a stadi “primitivi”; dall’altro, il binomio arte-follia. Tale binomio, come è noto, si trova già esplicitamente formulato fin dalle origini della civiltà occidentale. La rinascita del platonismo durante il Rinascimento portò alla ribalta la nozione classica della divina follia del poeta. Nella seconda metà del XVI secolo tale nozione venne estesa alle arti visive. Nel XIX la nozione, perduta l’aura sacrale – Genio e Follia del Lambroso è del 1864 - divenne un contrassegno fondamentale dell’artista» (Pizzo Russo, 1988, p. 54). 201 Nel secolo XIX oltre alla premessa fondamentale secondo cui le differenze culturali implicano differenze cognitive ebbero larga diffusione altre due ipotesi. La prima era la credenza universale che la società evolvesse e contemporaneamente progredisse verso una condizione culturalmente e tecnologicamente simile a quella dell’Occidente. La seconda ipotesi era il concetto biologico secondo cui gli organismi giovani “ricapitolano” la storia anatomica della loro specie durante lo sviluppo embrionale, un’idea questa che rafforzava la tesi evoluzionista.

«Questa dottrina ebbe una grande diffusione tanto in psicologia che in antropologia, e solitamente viene riassunta nell’aforisma di E. Haeckel: “l’ontogenesi ricapitola la filogenesi”. Ad alcuni antropologi che guardavano con interesse alla dottrina evoluzionista queste due ipotesi suggerirono l’idea che gli adulti primitivi rappresentino una forma precoce degli adulti delle società avanzate; il bambino europeo rappresenterebbe a sua volta una forma precoce dell’adulto europeo. Pertanto, in base a questo ragionamento, l’adulto primitivo è un equivalente del bambino civilizzato» (Cole, Gay, Glick, Sharp, 1971, p. 25).

260

L’arte dei bambini di Corrado Ricci, intellettuale e critico d’arte, viene

pubblicato nel 1887; il volume rappresenta il clima epocale, piuttosto

che l’idea espressa nel titolo dall’autore: per Ricci i bambini «non

riproducono artisticamente un oggetto, ma lo descrivono […]. L’arte

come arte è loro sconosciuta» (Ricci, 1887, p. 67); pur tuttavia

l’intenzione del libro è quella di «studiare come il senso dell’arte

nasca e si sviluppi nei bambini» (ibidem, p. 9). Sebbene Ricci, nella

sua analisi delle produzioni infantili, «primitive» e medioevali ravvisi

profonde differenze, dovute alla «mancanza» che caratterizza l’arte

dei bambini, rimane legato all’idea di poter scoprire l’artista a partire

dal «talento» precocemente ravvisabile nelle primissime produzioni.

La sua definizione di disegno come «descrizione» è servita inoltre da

sfondo all’interpretazione intellettuale analizzata nel paragrafo

precedente secondo la quale “il bambino disegna ciò che sa, e non

ciò che vede”.

Formula, questa, che si trascinerà stancamente fino ai nostri giorni con

significati non sempre sovrapponibili. In linea di massima parrebbe

un’implicita negazione dell’arte infantile, non foss’altro che per la

dicotomia tra percezione e conoscenza sovrasensibile che ha

attraversato la storia del pensiero. Su tale dicotomia, in un certo senso,

si fonderà la contrapposizione moderna arte/scienza che dal XVII secolo

in poi si è andata sempre più affermando. (Pizzo Russo, 1988, p. 33).

Tale affermazione porterà anche a quello stereotipo dell’artista che

ha creato il mito del bambino artista e alla nascita dell’”arte

concettuale”.

«Il bambino disegna ciò che sa e non ciò che vede» diventa la

formula preferita dagli psicologi in un momento in cui le ricerche sulla

percezione non erano ancora in grado di rendere conto della

particolare configurazione del percetto; tuttavia anche quando la

Gestalttheorie dimostrerà che il percetto non è copia fotografica della

261

realtà, verranno elaborati nuovi presupposti teorici per dare ai disegni

dei bambini una diversa “esteticità” mentre il modello evoluzionistico

che va dal realismo intellettuale a quello visivo sarà, come abbiamo

visto, abbandonato.

L’arte moderna contribuì inoltre a rendere il quadro più complesso.

All’inizio del secolo molti artisti appartenenti o simpatizzanti dei

movimenti d’avanguardia, iniziarono a prendere molto seriamente le

produzioni artistiche dei bambini, non ancora “contaminate” dalla

cultura occidentale e dalle pretese accademiche radicate nel

naturalismo visivo. In momenti diversi della loro vita, artisti quali Léon

Bakst, Marc Chagall, André Derain, Raoul Dufy, Vasilij Kandinskij,

Ernest Ludwig Kirchner, Paul Klee, Mikhail Larionov, Lionel

Feininger, Johannes Itten, André Masson, Joan Mirò e Gabriele

Münter ne apprezzarono la profonda non convenzionalità, la

semplicità delle forme, l’essenzialità dello stile.

Gli artisti attribuirono valore soprattutto alla spontaneità e alla libertà

dalle convenzioni che caratterizzano l’arte infantile. Desiderosi di

rappresentare pensieri e sentimenti in modo semplice e diretto, videro

nell’arte dei bambini l’espressione di una visione artistica incontaminata,

veicolo di una verità interiore che risuonava in loro. Nel loro entusiasmo

per l’arte infantile, dotarono il bambino di una mente curiosa, di una

percezione superiore della realtà e di una ricca immaginazione capace

di afferrare i misteri della natura e vedere le cose come sono realmente,

senza pregiudizi. Questa nozione di una “visione originale” potrebbe

riferirsi agli stimoli luminosi proiettati sulla retina o, metaforicamente, alla

freschezza di vedere le cose per la prima volta. Implicita in questa idea è

la convinzione che acquisire conoscenza e abilità interferisca con questo

stato della mente primario e intuitivo. (Golomb, 2002, p. 124).

Anche quando l’interesse degli psicologi è dichiaratamente

svincolato dall’artisticità delle produzioni grafiche e rivolto allo studio

del bambino che disegna allo scopo di analizzarne aspetti diversi

262

dello sviluppo, l’analogia istituita tra bambino e artista continua a

regolare, più o meno inconsapevolmente, la ricerca e le applicazioni

pedagogiche.

Gli usi presuppongono l’interdipendenza, come esplicitamente dichiara

Kramer, tra stile, sviluppo e personalità. Interdipendenza postulata per

l’arte, o, più precisamente, solo per la pittura e non per le altre arti, e

meno che mai per gli altri prodotti culturali. La terapia con l’arte, ma

anche l’educazione con l’arte, alla quale, di fatto, nessuno educa, data la

diffusa convinzione che ogni intervento educativo disturberebbe lo

spontaneo processo creativo del bambino, si giustificano nello spazio

teorico dell’arte. (Pizzo Russo, 1988, p. 63).

Orientamento psicodinamico e psicometrico elaborano, a partire dai

rispettivi campi d’indagine, spiegazioni diverse del disegno. Così se il

primo utilizza il disegno per indagare la dimensione affettiva del

bambino, perché “il bambino, non disegna ciò che vede o ciò che sa,

ma ciò che è importante per lui positivamente o negativamente”, il

secondo indaga lo sviluppo cognitivo perché “il bambino disegna ciò

che sa” (Quaglia, 2003).

Nonostante le diverse angolazioni, e ne potremmo citare altre, su

una cosa tutti gli autori sembrano concordare, e cioè che, come

abbiamo visto nel paragrafo precedente, nella fase della pubertà, la

produzione grafica si esaurisca. Disegno e gioco simbolico

sembrerebbero condividere l’appartenenza al mondo dell’infanzia e

non a quello adulto. Si parla infatti di disegno infantile, o di arte

infantile laddove l’aggettivo infantile descrive la tipica modalità

grafica che caratterizza il bambino dai 3 agli 8/10 anni.

Si è andata nel tempo instaurando una tendenza di fondo, sottesa agli

studi psicologici sul disegno, per cui si è nei fatti preferito di far

riferimento quasi esclusivo ai disegni infantili, assegnando in linea di

massima le produzioni adulte ad altre discipline. Questo atteggiamento

263

fa sì che, quando si parla di disegno in psicologia, si parli soprattutto di

età evolutiva. (Perussia, 1979, pp. 17-18).

A questo si aggiunga che, data l’importanza attribuita nel tempo a

questa attività “spontanea” il fatto che venga abbandonata, è

interpretato per lo più come grave perdita di creatività, capacità

immaginative ed espressive. Sostenere che con l’adolescenza il

bambino smetta di disegnare significa contemporaneamente

sostenere, e si è fatto, che l’adulto, a meno che non faccia un lavoro

che lo preveda, o che non sia un artista, non disegni più202.

D’altra parte, se è vero che sono stati proprio i disegni degli adulti a

fornire la categoria di riferimento per l’analisi di quelli infantili, e che

le tecniche diagnostiche e terapeutiche per gli adulti, incentrate sul

disegno, prevedono che questo disegni, è altrettanto vero che in

determinate circostanze anche l’adulto riempie “spontaneamente” di

disegni, scarabocchi, asterischi… il foglio che ha davanti. Sappiamo

anche che i comportamenti “spontanei” sono spesso comportamenti

culturalmente regolati e che se al bambino non è data la possibilità di

disegnare, non lo farà (Quaglia, 2003).

Ora, a meno che di non considerare ogni intervento grafico arte, è

giocoforza riconoscere che il disegno non è prerogativa solo del

bambino e dell’artista, ma anche di quell’adulto non artista che pure

disegna (Pizzo Russo, 1988, p. 72).

L’affermazione che l’adulto non disegni è smentita nella realtà dai

comportamenti e nell’attuale organizzazione delle pratiche

culturali203.

202 «L’adulto, se non è un artista, non disegna» (Osterrieth,1973, p. 7). 203 È vero che alla richiesta di disegnare adulto e bambino rispondono diversamente: solitamente il bambino, più è piccolo, più risponde positivamente, al contrario dell’adulto che è spesso più restio o per niente entusiasta. Questo diverso comportamento, può indurre a ritenere più “spontaneo” disegnare per il bambino che non l’adulto, ma sicuramente non costituisce una prova del fatto che le cose vadano realmente così. Inoltre, chi lavora con i bambini sa benissimo che

264

Ci sembra piuttosto che la psicologia e il senso comune abbiano

optato una scelta di campo specifica, peraltro piuttosto arbitraria e

non sempre consapevole, che ha, in un certo senso, negato la

pluridirezionalità dell’evoluzione del disegno, e lasciato sullo sfondo

altre tipologie di espressione grafica, come ad esempio il disegno

geometrico o tecnico: una messa tra parentesi della parte non

artistica della produzione adulta.

Anche quando si sostiene che il disegno del bambino non sia arte, si

continua ad avere come termine di paragone solo il disegno artistico

adulto come modello e non altre sue modalità di espressione grafica.

Questo è confermato dalla differenza di valore attribuita ai diversi

stadi nell’evoluzione disegnativa. Abbiamo visto che nella letteratura,

lo stadio più apprezzato e studiato è quello dello schema figurativo

(con rare eccezioni) sia per quegli autori interessati all’estetica dei

disegni dei bambini, che per coloro che si sono occupati delle

strutture cognitive soggiacenti quelle produzioni. Tale fase,

variamente denominata dagli studiosi, è quella che va pressappoco

dai 3 agli 8 anni, ed è quella per la quale i confronti con l’arte

contemporanea sono ricorrenti. Sappiamo anche che, a lungo, lo

stadio dello scarabocchio non ha suscitato particolare interesse,

perché ritenuto “non-artistico”, per lo meno fino all’avvento dell’arte

contemporanea.

Tuttavia la similarità tra i sistemi di rappresentazione dell’artista e

schemi di rappresentazione del disegno infantile non dovrebbe

riguardare solo l’arte contemporanea e l’arte primitiva. A ben ragionare,

se gli schemi rappresentativi dello stadio del realismo logico stanno ai

sistemi rappresentativi dell’arte simil-infantile, allo stesso modo, gli

schemi rappresentativi del realismo visivo dovrebbero stare ai sistemi di

rappresentazione dell’arte classica. Sennonché i disegni dei bambini più

piccoli vengono considerati arte e quelli dei bambini più grandi, no; in

alla richiesta di disegnare non tutti i bambini rispondono in modo “entusiasmante” e ad alcuni l’attività grafica è nient’affatto o poco gradita.

265

altre parole, un sistema di rappresentazione funziona come criterio

artistico legittimamente, l’altro no. (Pizzo Russo, 1988, p. 74).

Ancora, se l’arte è la direzione ideale verso la quale l’evoluzione del

disegno dovrebbe tendere è altrettanto vero che ribaltamento,

trasparenza, rappresentazione di elementi non visibili (elementi che

caratterizzano il disegno infantile) sono presenti anche nel disegno

tecnico-scientifico.

Ci sembra che il mantenimento della metafora del “bambino artista”

abbia impedito alla letteratura sul disegno di indagare in modo

sistematico l’elaborazione di tali procedimenti, come se il valore del

disegno non dipendesse dall’osservazione di regole, ma

dall’originalità o dal “talento” del suo creatore.

Infine, nella concezione del disegno come “linguaggio affettivo” vi è

un uso quasi sinonimico dei termini “creativo”, “espressivo” e

“proiettivo”, che, ancora una volta, assimilano il disegno al disegno

artistico che annovera, tra le sue funzioni, quella di esprimere

sentimenti.

Se proiettivo è parola chiave della psicologia dinamica, e creativo lo è

della concezione moderna dell’arte, espressivo lo è di entrambi. L’arte

come espressione è del resto all’origine della cultura occidentale […]. La

convinzione che attraverso il disegno, attività ritenuta creativa, il

bambino esprima i propri sentimenti non è solo degli psicologi che

aderiscono al paradigma psicanalitico o ad un’altra qualsiasi teoria

“dinamica”, ma anche per gli psicologi lontani, per assunti teorici e

metodologici usati, da tale impostazione. (Ibidem, pp. 93-95).

Secondo la psicologia il disegno ci racconta il Bambino. Esso non è

un significante che rappresenta e rimanda ad un significato, quanto

piuttosto un significante che rimanda ad un soggetto e diventa

sostituto di processi di pensiero o di aspetti del suo io profondo e

della sua affettività (Pizzo Russo, 1988).

266

3.2 La psicologia scientifica e i test psicometrici

Mentre all’inizio del secolo scorso artisti e intellettuali apprezzavano

esplicitamente l’arte infantile, per la “purezza”204, lo stile e per

l’intelligenza di quegli equivalenti essenziali che fluttuavano nello

spazio grafico-pittorico [figure 99 e 100, p. 61], un numero

consistente di psicologi iniziarono a considerare alcune delle sue

caratteristiche (come l’omissione di parti o la loro collocazione

“sbagliata”, le trasparenze, i ribaltamenti, l’indifferenza per le

dimensioni e le proporzioni tra oggetti all’interno della stessa

composizione, la natura schematica delle raffigurazioni, che violano

le “regole del realismo”) come manifestazioni tipiche di una mente

immatura, ancora confusa, e concettualmente “carente”.

La concezione secondo cui il “primitivismo” corrisponde a una fase

che il bambino supererà “maturando”, era piuttosto diffusa all’inizio

del’900, ed era riscontrabile in ambiti disciplinari diversi, dalla

psicologia dello sviluppo all’antropologia. Questa concezione era

anche coerente con le teorie di quegli storici d’arte che vedevano nel

realismo (o naturalismo) la più raffinata forma artistica che una

cultura può raggiungere e, all’opposto, con coloro che, artisti e critici,

vedevano la fine dell’arte infantile causata dall’azione repressiva

della nostra cultura.

A partire dagli anni Venti la psicologia scientifica si impegnò

attivamente nello studio del disegno dei bambini: partendo dal

presupposto che il bambino “disegna quello che sa” e che le

204 «Il bambino ignora il senso pratico, poiché guarda ogni cosa con occhi nuovi e possiede ancora la capacità di percepire la cosa come tale. Il senso pratico lo apprende solo più tardi, lentamente, e passando attraverso numerose esperienze spesso tristi…. Gli adulti si impegnano a inculcare nel bambino questo senso pratico, e le critiche al disegno muovono da questo piatto punto di partenza: “Il tuo uomo non può camminare perché ha una gamba sola”; “Sulla tua sedia non puoi mica sederti, perché è tutta storta”. E così via. Il bambino ride di sé, mentre invece dovrebbe piangere» (Kandinskij, cit. in, Giani Gallino, 2008, p. 60).

267

produzioni grafiche sono una sorta di “copia” di processi cognitivi in

corso, vennero elaborati test grafici allo scopo di misurare il “livello di

sviluppo” di tali processi.

La psicologia scientifica inserì il disegno all’interno di un quadro

comportamentale tipico dell’essere umano, e la sequenza e

l’organizzazione dei cambiamenti che in esso si verificano furono

ispirati soprattutto a principi organizzativi intrinseci di tipo

“maturativo”.

A titolo esemplificativo prenderemo in considerazione i modelli

sviluppati da due importanti psicologi: Florence Goodenought (1926)

e Dale Harris (1963) che, trent’anni dopo, ristandardizzò ed estese il

test elaborato dalla Goodenought. L’eco di tali strumenti e la

metodologia utilizzata ebbe una grande influenza sulla ricerca loro

contemporanea, nei decenni successivi e, in alcuni contesti, tutt’oggi.

Come altri psicologi a loro contemporanei, essi utilizzarono il disegno

come strumento per misurare “intelligenza”205 e grado di sviluppo

mentale dei bambini in relazione agli stadi evolutivi. Le loro analisi

consistevano nella rilevazione della presenza o dell’assenza di una

serie codificata di elementi206 nei disegni stessi.

In genere questi test (anche detti “test carta e matita”) non venivano

usati da soli ma inseriti in una batteria di altri test e scale. Del resto,

anche nella Scala di Binet e Simon era già prevista una prova di

disegno, ma solo di tipo geometrico: si proponeva al bambino di cinque

205 Questi psicologi considerano l’intelligenza un’abilità intellettuale innata generale. «E’ ereditaria, o quantomeno innata, non dovuta ad un insegnamento o a un addestramento; è intellettuale, non emotiva o morale, e non soggetta all’influenza dell’operosità e dell’entusiasmo; è generale, non specifica, ad esempio non è limitata ad un particolare tipo di lavoro, ma partecipa a tutto ciò che facciamo, diciamo e pensiamo. Di tutte le nostre qualità mentali, è quella che ha la portata più vasta» (Burt, cit. in, Cole, 1996, p. 60). 206 «E’ singolare che Piaget, la cui teoria dello sviluppo infantile avrebbe avuto un profondo impatto nella psicologia evolutiva, abbia iniziato la sua carriera lavorando ai test di intelligenza nel laboratorio di Binet. Piaget non si accontentava di registrare il numero delle risposte sbagliate ai test di intelligenza, ma mirava a comprendere le basi delle diverse concezioni dei fenomeni da parte dei bambini nei vari stadi di sviluppo mentale» (Rogoff, 2003, p. 165).

268

anni di copiare un quadrato e a quello di sei un rombo, mentre a dieci

anni si doveva produrre un prisma e una “greca”, ma a memoria. Ben

presto furono poi inventati e validati da parte di numerosi psicologi una

quantità di test di disegno, geometrico e figurativo, tutti con l’obiettivo di

misurare lo sviluppo mentale. (Giani Gallino, 2008, p. 40).

Il più conosciuto e ancor oggi usato è il test della Goodenought detto

D-A-M (“Draw a man ”207 dal nome della consegna che veniva data al

bambino) e la sua autrice riteneva che fosse valido per bambini e

ragazzi di età compresa tra i tre e i dodici anni208.

Secondo la Goodenought

la frequenza con cui ogni caratteristica data tende ad apparire è una

funzione dell’estensione con cui è stata integrata nel concetto in

evoluzione e una misura del peso che dovrebbe esserle attribuito come

indice di sviluppo concettuale. (Cit. in, Quaglia, 2003, p. 84).

Il test, pubblicato per la prima volta nel 1926, aveva come obiettivo la

misurazione “dell’intelligenza” del bambino intesa come capacità di

“elaborare concetti”. Il disegno come riproduzione di “un’immagine

mentale interiorizzata” era considerato un’elaborazione cognitiva, e

quindi, espressione delle conoscenze del bambino.

207 La scelta del disegno di un uomo si giustifica con il fatto che è la prima figura con cui i bambini si cimentano ed è loro assai familiare; la sua evoluzione sembra inoltre essere abbastanza regolare e complessa per indicare significative differenze tra i disegnatori. 208 «Data la sua versatilità, il test è stato sperimentato e validato poi da numerosissimi ricercatori in tutto il mondo con molte varianti, anche con ragazzi di fascia d’età superiori, oppure con adulti, e con adulti e bambini ritardati, e spesso comparato con altre scale per il controllo intellettivo. Anche in Francia, più tardi, il test aveva avuto un’ampia diffusione con il nome di Test du Bonhomme. In Italia la pubblicazione completa del manuale è apparsa solo negli anni’70, nonostante il fatto che il test fosse da tempo utilizzato. A livello internazionale il test è stato utilizzato da più autori non solo come strumento psicometrico, ma anche per studiare la personalità dei soggetti, in considerazione del fatto che alcuni dettagli dei disegni erano considerati particolarmente significativi» (Giani Gallino, 2008, p. 43).

269

Avvalendosi di un campione di tremilaseicento disegni di bambini di

età compresa tra i tre e i dodici anni, la Goodenought209 elencò i

cinquantun elementi grafici che sarebbero dovuti apparire nella

rappresentazione della figura umana, assegnando un punto per

ciascun elemento: la presenza della testa, della bocca, del collo,

delle braccia e delle gambe, le loro proporzioni, i vestiti e così via. La

somma di tutti gli elementi, in base all’età, consente di ottenere una

stima dello sviluppo del disegno, che viene messo in relazione allo

sviluppo mentale dei bambini.

Dale B. Harris (1963) ha riproposto il test della Goodenought210.

Quest’autore considera lo sviluppo dei disegni da un punto di vista

strettamente cognitivo e assume la prospettiva come modello per la

valutazione dei disegni.

209 «Negli stessi anni in cui la Goodenought operava negli Stati Uniti, in Francia H.M. Fay (1923, 1934) elaborava la sua scala per misurare lo sviluppo intellettuale con riferimento alle capacità grafiche. L’istruzione è “disegna una donna che passeggia mentre piove”. La scala dei punteggi è stata calcolata in seguito alla somministrazione dei disegni a seimila bambini tra i sei e i quattordici anni. La valutazione avviene in base agli elementi espressi nel disegno e, precisamente, in base alle cinque idee contenute nell’istruzione. La donna; l’atto di passeggiare; il paesaggio nel quale passeggia; la pioggia; l’atto di ripararsi dalla pioggia. Ognuno di questi elementi è disegnato con un certo numero di particolari, che determinano la valutazione che può andare da 0 punti a 2 punti» (Ibidem, p. 86). 210 «Otre a questo test (validato per l’Italia da Polacek e Carli nel 1976), sono molto usati nel nostro paese anche quelli che richiedono di disegnare “una donna che passeggia sotto alla pioggia” (H. M. Fay revisione italiana di Falorni 1959), e il test di differenziazione dello schema corporeo proposto da Witkin (1963), che – a differenza delle prove precedenti – si può somministrare collettivamente e porta giudizi sul grado di differenziazione cognitiva o dipendenza/indipendenza dal campo. Tutti questi test non vanno confusi con quelli che utilizzano la rappresentazione di figure umane come indici dell’adattamento emotivo-affettivo. Facili da somministrare per il gradimento che incontrano da parte dei bambini (anche se non sempre facili da interpretare), i test pittorici sono assai usati dagli psicologi e, a nostro avviso piuttosto impropriamente, anche dagli insegnanti e perfino da qualche genitore. E’ invece importante ricordare che, nonostante l’apparente inoffensività, gli strumenti psicodiagnostici possono sempre attivare dinamiche psicologiche, intrapsichiche e interpersonali che richiedono la specifica professionalità di uno psicologo competente per essere correttamente governate. Questi test prendono in considerazione solo il prodotto pittorico, senza tener conto dei numerosi fattori che possono incidere durante la progettazione e l’esecuzione: risultano infatti di scarsa tenuta quando si confrontano esecuzioni ripetute» (Pinto - Bombi, 1999, p. 122).

270

L’analisi di una corretta riproduzione dei rapporti diviene così misura

dello sviluppo concettuale dei bambini. Ne consegue che l’incapacità dei

bambini di ottenere una proiezione prospettica visivamente corretta

sarebbe da riferirsi ad una loro sostanziale immaturità intellettiva.

(Quaglia, 2003, p. 87).

Nel test, denominato anch’esso D-A-M o test di Harris-Goodenought,

si chiede al bambino di disegnare la figura di un uomo, di una donna

(entrambi raffigurati per intero) e del Self 211 su tre fogli diversi.

Durante l’esecuzione viene cronometrato il tempo di esecuzione e

non è consentito al bambino l’uso della gomma per cancellare.

In questo test vi è un maggior numero di item di controllo: da

cinquantuno (modello originario) a settantatre per la figura maschile

e settantuno per quella femminile.

Il test della Goodenought non è stato esente da critiche, soprattutto

in relazione alle sue modalità e impostazioni.

Scrive a proposito Arnheim:

un tentativo di stabilire un rapporto tra intelligenza e abilità nel disegnare

è stato fatto da Florence Goodenought, sulla base di criteri alquanto

meccanici di realismo e compiutezza dei dettagli. Varrebbe la pena di

seguire questo filo conduttore usando invece criteri strutturali per la

valutazione dei disegni e un metodo più adeguato di quello fornito dai

reattivi per il quoziente d’intelligenza per determinare il grado di maturità

globale. (Arnheim, 1954, p. 159).

Arnheim osteggiava non solo il test della Goodenought ma tutte le

pratiche psicometriche in generale, né credeva nell’esistenza di un

rapporto rigido tra l’età del bambino e l’evoluzione dei suoi disegni.

Egli sostiene che i bambini disegnano “ciò che vedono” e critica la

teoria intellettuale con argomenti psicologici:

211 In Italia il test è stato denominato “Test della Figura Umana” e non sempre è prevista la raffigurazione del Self.

271

la teoria intellettualistica sembra essere stata suggerita dal prodotto

pittorico, il disegno infantile, piuttosto che da quanto si conosce circa la

mente infantile. In realtà una concezione secondo la quale i bambini

creano immagini di cose visibili per mezzo di concetti intellettivi è in

contrasto stridente con l’osservazione generale che, ai primi stadi dello

sviluppo umano, la vita mentale si lega in modo estremamente diretto

alle esperienze percettive. (Arnheim, 1966, p. 414.)

Tuttavia il punto di vista di Arnheim difficilmente viene considerato e

il disegno, visto come indicatore dello sviluppo cognitivo, continua a

promuovere ricerche volte a misurare lo sviluppo intellettuale del

bambino212. I mutamenti che col tempo pervengono a livello delle

strutture formali, il progressivo aumento dei dettagli, le proporzioni e

le articolazioni delle figure sempre più marcate in senso realistico,

continuano ad essere lette e a suggerire una visione stadiale del

disegno, e a giustificare ipotesi di connessione tra disegno e processi

intellettivi.

Probabilmente la teoria intellettualistica deve la propria origine e la

propria durevolezza al fatto che finché la percezione viene considerata

una registrazione “fotografica” puramente passiva dell’immagine retinica,

è possibile spiegare le deviazioni sorprendenti rispetto a quell’immagine

soltanto attraverso l’intervento di processi più alti, quali la

concettualizzazione intellettiva (Arnheim, 1966, p. 40).

Un’influenza importante sullo studio del disegno come indice della

maturità concettuale o mentale del bambino viene sostenuta, come

212 «Inoltre, i bambini non disegnano, dipingono e modellano soltanto per le ragioni che ci interessano qui in modo particolare. Amano esercitarsi, allenare i muscoli, ritmicamente o disordinatamente; amano veder apparire qualcosa dove prima non c’era nulla, specialmente se questo qualcosa stimola i sensi col colore forte o con una massa di forme; amano pure toccare, appiccicare, distruggere. Imitano ciò che vedano altrove. Tutto ciò lascia le proprie tracce e impedisce al quadro di un bambino di costituire sempre una registrazione del suo pensiero» (Arnheim, 1969, pp. 300-301).

272

abbiamo avuto modo di vedere, anche da Piaget che postula una

stretta corrispondenza tra i disegni dei bambini e il ragionamento

spaziale-matematico (Piaget 1923, 1924, 1926, 1945; Piaget -

Inhelder, 1948, 1966).

Piaget era convinto che il modo migliore per descrivere la vita mentale

fosse in termini di stadi evolutivi qualitativamente differenti. In una prima

fase dello sviluppo, il bambino usa dei simboli che mancano della

differenziazione e producono una comprensione distorta del sé e degli

altri. La vita mentale del bambino è dominata dall’egocentrismo

cognitivo, vale a dire dall’incapacità di tenere in considerazione

prospettive diverse che, secondo Piaget, è una caratteristica del

pensiero prelogico e dei suoi limiti concettuali. (Golomb, 2002, p. 10).

Ricordiamo che egli interpretò la teoria di Luquet come coincidente

con la propria teoria stadiale e i vari tipi di “realismo” attraversati dal

bambino nello sviluppo grafico furono in essa trasposti 213.

Sappiamo che la concezione globale che Piaget elabora dello

sviluppo cognitivo è quella di una progressione stabile verso una

specifica meta: nel pensiero quel traguardo è il ragionamento logico-

matematico; nelle arti visive è il realismo ottico.

Per Piaget «il disegno è una rappresentazione, ossia presuppone la

costruzione di un’immagine ben diversa dalla percezione stessa»

(Piaget – Inhelder, 1948, p. 51); costruzione che non consiste in una

semplice “estrazione” dei caratteri morfologici dell’oggetto:

213 In verità Luquet non menziona mai nessuna età precisa, da collegarsi a differenti fasi di realismo: l’unica indicazione, neppure questa rigorosa, è quella secondo cui il realismo visivo si realizza quasi sempre verso gli otto o nove anni. Piuttosto Luquet introduce questo o quel disegno di un bambino di una determinata età, mentre parla di una certa fase, ma al tempo stesso rimanda anche di continuo ad altri bambini e ad altri disegni che a loro volta erano stati indicati come tipici di fasi precedenti o seguenti, e per ognuno invita a osservare varie caratteristiche precise (giustapposizioni, trasparenze, ribaltamenti, oggetti tangenti), che possono comparire in età differenti, precoci ma talvolta anche tardive (Luquet, 1927).

273

la ricostruzione delle forme non consiste semplicemente nell’isolare

delle qualità percettive, né a fortiori nel trarre senz’altro queste forme

dall’oggetto, ma […] essa si basa su un rapporto attivo e, di

conseguenza, implica un’astrazione a partire dalle azioni stesse del

soggetto, e dalle loro coordinazioni successive. (Golomb, 2002, p. 83).

È per questo motivo che “il bambino disegna ciò che sa e non ciò

che vede”:

nei suoi celebri studi sul disegno infantile, Luquet ha proposto degli stadi

e delle interpretazioni tutt’oggi ancora validi. Prima di lui, gli autori

sostenevano due opinioni contrarie: gli uni ammettevano che i primi

disegni infantili sono essenzialmente realisti, poiché si attengono fino a

tardi a dei modelli effettivi senza disegni di immaginazione, gli altri

insistevano al contrario sull’idealizzazione di cui testimoniano i disegni

primitivi. Luquet sembra aver troncato definitivamente il dibattito

mostrando che il disegno del bambino fin verso gli 8-9 anni è

essenzialmente realista nell’intenzione ma che il soggetto comincia col

disegnare ciò che sa d’un personaggio o d’un oggetto molto prima di

esprimere graficamente ciò che vede del medesimo: osservazione

fondamentale, di cui rinverremo tutta la portata a proposito

dell’immagine mentale che, essa pure, è concettualizzazione prima di

giungere a buone copie percettive […] ubbidisce più a leggi vicine a

quelle della concettualizzazione che a quelle della percezione. (Piaget –

Inhelder, 1966, pp. 61-62)

L’opposizione tra vedere e sapere, ripresa e lungamente osteggiata

da Arnheim e in generale da tutta la scuola della Gestalt, è una

concezione sottolineata più volte da Piaget: l’adesione di Piaget alla

teoria intellettuale per quanto concerne lo sviluppo del disegno

infantile, deriva proprio dal diverso ruolo dato da Piaget alla

percezione nella conoscenza, e dalla concezione stessa della

conoscenza che l’autore sostiene.

274

Esaminando la dinamica dei processi cognitivi e il rispettivo valore

epistemologico assegnato alle varie funzioni, risulterà chiaro che la

conoscenza nel suo equilibrio finale, per la scuola di Ginevra, è

conoscenza logico-matematica […]. Con la formula “il bambino disegna

ciò che sa e non ciò che vede”, da ambigua e frusta, diventa

particolarmente pregnante. Perde di fatto ogni legame con la distinzione

“arte concettuale”/”arte percettiva”, e, carica della fitta rete dei concetti

della psicologia e dell’epistemologia genetica, acquisisce uno spessore

teorico reale all’interno della psicologia. (Pizzo Russo, 1988, pp. 112-

123).

Come abbiamo avuto modo di vedere, i dati provenienti da diverse

fonti sostengono sì una traiettoria evolutiva nei termini di “una

sequenza ordinata nell’acquisizione delle abilità grafiche

rappresentazionali” e questo vale per i bambini delle diverse culture,

per quelli “dotati”, per i bambini con ritardo mentale, e probabilmente

per i bambini autistici savant, ma il realismo fotografico non è una

competenza universalmente acquisita. La proiezione “realistica” è

piuttosto una problematica costruzione culturale e una conquista

(altrettanto culturale) che rappresenta valori che risalgono al

Rinascimento.

Un problema che questa impostazione solleva è senz’altro relativo

allo scarso valore riconosciuto all’esercizio e l’esercizio che il

bambino dedica a questa attività è direttamente o indirettamente,

sollecitato e promosso dall’ambiente socio-culturale in cui vive.

Alcune monografie critiche sul “talento artistico” dei bambini,

sottolineano l’importanza che hanno avuto fattori quali la cultura

grafica in cui il bambino ha vissuto e la quantità di tempo dedicata

alla produzione per lo sviluppo del loro “talento” (Golomb, 2002). Ciò

nonostante si continua a sostenere che «in linea di massima questi

stadi dello sviluppo artistico sono abbastanza rispettati

nell’evoluzione di qualsiasi bambino», con la sola precisazione che

valgono per i bambini di normale intelligenza (Lowenfeld - Brittain,

275

1947, p. 53). Vale a dire l’età di cui si deve tenere presente non

sarebbe quella cronologica, ma quella “mentale”. Ma se l’esercizio

può «indurre differenze talmente importanti da falsare ogni altro

criterio di valutazione» (Oliverio Ferraris, 1973, p. 63) allora riteniamo

che sia difficile continuare a parlare di “stadi” anche se il criterio

scelto si riferisce all’età mentale.

D’altra parte il realismo visivo non è uno stadio da tutti acquisito nelle

stesse modalità: le ricerche dimostrano che c’è un “rallentamento” se

non un “arresto” nello “sviluppo” grafico in adulti e adolescenti,

mentre nei bambini “dotati”, si verificherebbe una precoce

acquisizione del realismo visivo; gli adolescenti difficilmente

raggiungono il realismo visivo se non sono sottoposti ad un

apprendimento specifico o se non hanno a disposizione modelli da

copiare.

Forse gli psicologi hanno usato il termine realismo (e le relative

traiettorie di sviluppo) in un modo eccessivamente esemplificato. Luquet

(1913, 1927) utilizzò il termine per indicare l’intenzione del bambino di

rappresentare un oggetto o un evento reale. Ma la “realtà” è un referente

complesso e può essere rappresentata i diversi modi, incluso il mondo

interno, il mondo esterno e un misto di entrambi, in stili molto differenti.

Persino la tendenza alla decorazione crea una realtà pittorica da fruire,

da godere e su cui riflettere […]. Il realismo è soltanto uno dei molti

possibili stili di raffigurazione; tuttavia, poiché esso è alla base dei

processi percettivi ed è uno stile molto apprezzato nella nostra cultura,

lo riteniamo erroneamente una fase intrinseca dello sviluppo grafico

umano. (Oliverio Ferraris, 1973, p. 47).

Piaget e Inhelder utilizzarono il disegno soprattutto come pretesto, in

un’accezione del tutto particolare fortemente condizionata dalla loro

concezione dello sviluppo cognitivo, quella, appunto,

dell’epistemologia genetica.

276

Il disegno è stato utilizzato in modo pretestuoso anche da altri

ricercatori. Nel paragrafo che segue presenteremo l’approccio

simbolico-interpretativo, che ne fece lo strumento per indagare gli

aspetti motivazionali e affettivi del bambino.

3.3 I test proiettivi “carta e matita”

In generale, tutte le teorie stadiali, tracciando una regolarità

nell’evoluzione del grafismo in relazione ad un più ampio sviluppo

generale, ne autorizzano l’uso per individuare e misurare il grado di

tale sviluppo: i test grafici di Binet e Simon (1916), Fay (1923),

Goodenought (1926), Harris (1963) vedono nella crescente

realisticità dei disegni un indice dello sviluppo cognitivo del bambino.

Dagli anni Quaranta, il disegno attira l’attenzione di un gruppo di

ricercatori come metodo “proiettivo” che consente di indagare la

dimensione emotiva del bambino. «Se l’arte è espressione

dell’inconscio, proiezione di questo, qualsiasi disegno, purché non

tecnico-scientifico, è espressione-proiezione dell’inconscio e, più in

generale, della personalità dell’autore»214.

Per gli autori di questo approccio

tutti i disegni sono in qualche misura proiettivi, anche quello di chi ne fa

arte o professione. Ogni artista – è affermazione di Leonardo – quando

rappresenta una figura umana, rappresenta se stesso. Nei bambini tutto

ciò è ancora più vero. (Medioli Cavara, 1986, p. 14).

Il “Test della casa, dell’albero e della persona” (H-T-P, House-Tree-

Person) di Joan Buck (1948), e il “Disegno della Persona” (D-A-P,

Draw-a-Person) sono alcuni dei test elaborati non più allo scopo di

214 Pizzo Russo, 1988, p. 94. La parafrasi è tratta da Corman (1967).

277

valutare lo sviluppo concettuale del bambino, ma piuttosto gli aspetti

della sua personalità215, attraverso tecniche di tipo proiettivo.

Il valore espressivo del disegno è inscritto nel movimento stesso del

gesto. Il tratto può essere, infatti, la registrazione di un gesto incerto e

titubante ovvero rabbioso e aggressivo. Quando però si parla di

proiezione si indica qualcosa che va oltre lo stato emotivo del

disegnatore o i tratti peculiari della sua personalità. Se l’espressività è

riferibile alla manifestazione di un aspetto della vita affettiva, ad un modo

di sentire e di essere della persona, la proiezione è in relazione con la

dimensione più profonda dell’individuo, è un atto di esternalizzazione dei

suoi contenuti più intimi. Il disegno dunque, nei suoi aspetti espressivi,

informa della personalità del soggetto, nei suoi aspetti proiettivi, informa

dei conflitti della personalità del soggetto. (Quaglia, 2003, pp. 112-113).

Il tema principale proposto nei test proiettivi, come in quelli

psicometrici, è la figura umana sia da sola -“Disegno della figura

umana” (Machover, 1949) - che in relazione ad altre figure -

generalmente familiari (Corman, 1967) - ma altri temi sono presi in

considerazione come “l’albero” (Koch, 1949) e “la casa” (Minkowska,

1949)216 ritenuti altamente “simbolici”.

215 «In psicologia sebbene per personalità s’intenda l’insieme delle funzioni psichiche, poi di fatto non se ne tiene conto nell’uso. Non solo si distingue tra test di personalità (e i test proiettivi sono test di personalità) e intellettivi, ma sotto la voce personalità vengono di solito trattati i soli aspetti emotivi-affettivi. Tale stato di cose opera un restringimento semantico della parola che nell’uso si distingue dalla parola intelligenza. Tra le tecniche proiettive i test di disegno sono detti espressivi (cfr. A Anastasi, 1954, p. 281: una caratteristica distintiva dei metodi espressivi “consiste nel fatto che essi vengono impegnati sia come strumenti terapeutici che come strumenti diagnostici. Mediante le possibilità di auto-espressione offerte da queste tecniche l’individuo – si ritiene – non soltanto scopre le proprie difficoltà, ma, nello stesso tempo, se ne libera”). Persino nelle ricerche di psicologia ambientale il disegno, usato per studiare la rappresentazione dello spazio (mappe mentali), è considerato tecnica proiettiva di tipo espressivo (cfr., T. F. Saarinen, 1973). Nella letteratura sul disegno infantile se c’è chi distingue l’espressivo dal proiettivo (D. Widlöcher, 1965), c’è anche chi considera equivalenti i due termini (ad es. G. Crocetti, 1986)» (Pizzo Russo, 1988, pp. 132-133). 216 Per una rassegna esaustiva delle diverse tipologie di test proiettivi che si sono succeduti storicamente cfr. Quaglia, 2003.

278

Naturalmente veniva richiesta una preparazione molto differente e assai

più approfondita per la lettura e l’interpretazione dei disegni.

Diversa era anche la modalità di somministrazione, sempre individuale,

che richiedeva un rapporto vis-à-vis tra paziente (bambino ma anche

adulto) e psicoterapeuta, il quale doveva seguire con attenzione tutto il

processo grafico e memorizzare mentalmente sia le verbalizzazioni, sia

il comportamento non verbale e l’espressione delle emozioni sul volto di

chi disegnava, in modo da trarne spunto per l’indagine e l’interpretazione

successiva. (Giani Gallino, 2008, p. 44).

I disegni dei bambini vengono letti da questi studiosi in relazione al

loro contenuto emozionale e proiettivo; ad esempio, in relazione alla

dimensione delle figure si sostiene che

le dimensioni dei personaggi rifletterebbero i sentimenti che i bambini

proverebbero nei propri riguardi. Figure molto grandi esprimerebbero

sentimenti di autostima accentuata; disegni minuscoli indicherebbero un

sentimento di inadeguatezza o di fragilità. (Quaglia, 2003, p. 115).

Nel corso degli anni psicologi, psicoterapeuti e psicanalisti hanno

prodotto un’ingente quantità di test.

Illustriamo brevemente, a titolo esemplificativo, il “Disegno della

famiglia” nella versione elaborata da Luis Corman (1967). La

consegna dell’analista solitamente è “Disegnami una famiglia”, o

“Immagina una famiglia di tua invenzione e disegnamela”. Al test

segue un colloquio che prevede domande del tipo: “Dove sono?”,

“Cosa fanno?”, “Chi è il più buono?”, “Chi è il meno buono?”, “Chi è il

più contento?”, e così via.

Il test di Corman prevede tre livelli di interpretazione: grafico, delle

strutture formali, del contenuto. Al «livello grafico» vengono applicate

le regole generali della grafologia: ampiezza e forza del tratto,

grandezza delle figure, stereotipie, zone della pagina più disegnate e

zone lasciate bianche. A «livello delle strutture formali» anche

279

Corman, in sintonia con le teorie intellettuali, scrive: «il grado di

perfezione del disegno esprime la maturità del soggetto e può essere

un indice del suo grado di sviluppo» (Corman, 1967, p. 37). A «livello

del contenuto», indipendentemente dalla consegna, la famiglia

disegnata è considerata in relazione alla famiglia reale e con questa

confrontata.

Gli indici che vengono presi in considerazione sono: la presenza di

tutti i membri, l’ordine di rappresentazione dei diversi personaggi, le

dimensioni delle singole figure, la collocazione del soggetto, la cura e

la ricchezza dei particolari di ogni personaggio.

Rispetto all’ordine di rappresentazione, particolare importanza è

assegnata al personaggio che viene disegnato per primo: esso

rivelerebbe la fonte di maggior interesse per il bambino all’interno

della propria famiglia («personaggio valorizzato»). Al contrario, il

personaggio disegnato per ultimo indica il «personaggio

svalorizzato». Al bambino è data la possibilità di intervenire sul

proprio elaborato aggiungendo personaggi, cancellandone altri,

modificando quelli già disegnati. Il «personaggio aggiunto» sarebbe

qualcuno che non fa parte della famiglia, ma che esprime le

tendenze del disegnatore. L’analisi degli spazi che dividono le figure,

consentono di individuare la qualità delle relazioni (desiderate o

temute) che legano il bambino agli altri componenti del nucleo

familiare.

Da Corman in poi l’uso del disegno è diventato una pratica molto

diffusa nella psicologia clinica, spesso accompagnata da altre forme

di espressione: il colloquio, il gioco simbolico, l’elaborazione plastica,

la costruzione di ambienti o oggetti, una rappresentazione teatrale.

In questa impostazione il “simbolo grafico” è caricato di significati

nascosti, ignoti allo stesso disegnatore, che devono essere

riconosciuti e interpretati. Esso si configura come un’interpretazione

personale e/o creativa, una costruzione di significato simile ad una

narrazione ma con importanti differenze relative soprattutto ai diversi

280

gradi di consapevolezza con cui viene prodotto il messaggio e al

forte grado si polisemia degli equivalenti utilizzati.

Il legame non arbitrario ma motivato, tra rappresentazione grafica e ciò

che rappresenta, slitta da quest’ultimo termine a chi l’ha rappresentato.

Parafrasando Peirce: il disegno, agli occhi dello psicologo, sta per il

bambino sotto qualche rispetto. “Sotto qualche rispetto” nel nostro

contesto significa che il disegno rappresenta, del soggetto, non la sua

totalità, ma la sua personalità. Il quadro rappresenta comunque il

soggetto. Per un capriccio della lingua, nota Goodman, “un oggetto

rappresentato diventa un soggetto”. Nel nostro contesto il capriccio della

lingua viene inteso in maniera letterale. L’oggetto del bambino è il

bambino. L’interpretazione del disegno infantile ruota così attorno al

presupposto, poco semiotico, che, se il disegno è il significante, la

psiche del bambino è il significato. (Pizzo Russo, 1988, p. 96).

Il ricorso ai test carta-matita, d’altronde, sembra essere suggerito sia

per le caratteristiche di immediatezza e semplicità, sia perché il

compito richiesto non genera solitamente ansia nel bambino

(affermazioni forti, che non ci sentiamo di sostenere, in quanto

spesso smentite nella pratica didattica).

Disegnare è un’attività naturale come il gioco. Di là dei vantaggi pratici

che questi strumenti offrono, resta, tuttavia, aperto il problema relativo al

loro valore e soprattutto alla loro validità. Difficile è valutare che cosa

effettivamente i reattivi grafici “misurino”. Numerosi sono stati i tentativi

di associare ad una casistica psicopatologica una tipologia di

caratteristiche qualitative. […]. Lo scoglio più difficile da superare non è

rappresentato tanto dall’area che si vuole indagare, vale a dire dagli

aspetti della personalità del disegnatore, ma dall’impossibilità di valutare

l’incidenza della personalità dello psicologo nelle risposte interpretative.

[…].

Il disegno infantile non è una fotografia del mondo esterno e neppure

una fotografia del mondo interno [...]. Gli indicatori grafici non certificano,

281

ma suggeriscono; non rivelano verità, ma esprimono tendenze.

(Quaglia, 2003, pp. 117-137).

Senza concordare pienamente con le affermazioni di Rocco Quaglia,

soprattutto relativamente alla parte che tratta disegno e gioco come

attività “naturali”, e alla possibilità implicita di poter suddividere gli

aspetti della “personalità” del bambino da altri aspetti, riteniamo

tuttavia importante la sottolineatura dell’autore fatta a proposito del

contesto (relazionale-affettivo, ma non solo) in cui i test vengono

somministrati come elemento fondamentale per una lettura degli

elaborati stessi.

La nozione di “disegno infantile” allora, lungi dall’essere una nozione

neutra, rimane un problema ancora aperto nella letteratura

sull’argomento. Come abbiamo avuto modo di vedere nel corso di

questa trattazione esso è stato studiato dai diversi autori o come la

rappresentazione di una realtà esterna (una sorta di “copia” di

contenuti mentali, a loro volta imperfetti riflessi di una realtà fisica), o

come la proiezione di una realtà interna (una sorta di inconscio fluire

di sensazioni interne, personali e soggettive).

Nel paragrafo successivo proporremo un nuovo indirizzo di ricerca

che tenta di conciliare queste due diverse impostazioni.

3.4 Il disegno tra rappresentazione e proiezione

Attualmente psicologi di vario orientamento si trovano d’accordo

rispetto alla necessità di svincolarsi da questa visione dicotomica del

disegno: “modello interno” vs “modello interno”.

Se da una parte la psicologia dello sviluppo si accosta al disegno,

come ad ogni altra attività del bambino, legando in modo forte

l’aspetto cognitivo a quello affettivo; dall’altra in campo clinico e

psicodinamico sono presi maggiormente in considerazione i vincoli

posti dallo sviluppo cognitivo e dai fattori tecnico-procedurali

282

nell’interpretazione simbolica dei disegni. In entrambi i casi si

riconosce all’attività grafica una complessità, che richiede modelli

interpretativi di ampio respiro. A ciò si aggiunge il contributo della

prospettiva artistico-estetica che considera il disegno come processo

estetico-creativo, che chiama in causa i rapporti tra cognizione,

percezione e emozione.

In questa prospettiva Tambelli, Zavattini e Mossi (1995) hanno

utilizzato di recente il “Disegno della famiglia” di Corman rifiutando

sia una un’interpretazione basata sulla presunta rappresentazione

realistica dei rapporti familiari, sia un’interpretazione in termini di

elaborazione fantastica inconscia indipendente dall’esperienza, o per

lo meno responsabile della sua distorsione, e proponendone una

versione socio-cognitiva in cui il bambino, attraverso il disegno,

esprime contemporaneamente le sue conoscenze, le sue esperienze

e la sua personale versione della realtà.

Per questi autori in particolare “Disegno della famiglia” è la

rappresentazione di una rappresentazione ovvero il prodotto di una

costruzione costituita sia dalle proiezioni che derivano dai vissuti

affettivi del bambino che dalle relazioni reali esterne. Esso si

configura come vera narrazione, che non replica la realtà, ma la

deforma e la distorce sia alla luce delle vicende reali vissute che dei

“modelli operativi interni”217 del disegnatore. Il bambino, dunque, vive

vicende reali, si costruisce dei modelli operativi interni e costruisce

modelli narrativi.

Il modello operativo interno è inteso dagli autori come un sistema

motivazionale che regola il comportamento permettendo al bambino

217 Il concetto di modello operativo interno (MOI) è stato proposto da Bowlby (1979) come un’alternativa ai concetti psicanalitici relativi alle strutture mentali che si formano sulla base delle relazioni interpersonali. I MOI sono memorie delle relazioni, che acquisiscono un valore strutturale per la mente. Nella prospettiva relazionale la mente sviluppa le sue strutture e i suoi processi funzionali all’interno delle relazioni di attaccamento. Esse, non vengono semplicemente ricordate, ma offrono anche le regole per organizzare i ricordi e i contenuti dell’esperienza. La mente, a differenza di quanto suggeriva l’approccio pulsionale e della psicologia freudiana, costruisce le regole del suo funzionamento durante lo sviluppo, nel rapporto e nel contatto con le altre persone.

283

di crearsi delle aspettative e di valutarne le conseguenze. Si tratta di

un processo rappresentativo dinamico di natura relazionale, che

permette al bambino la simulazione mentale dell’esperienza,

riproducendo le sue relazioni con il mondo esterno e consentendone

la categorizzazione.

Tuttavia i modelli operativi interni non sono la copia esatta di ciò che

il bambino realmente vive

in altre parole sono “costruzioni” che esprimono il punto di vista, la teoria

che gli individui hanno su di sé e sulle relazioni affettive per loro rilevanti

[…]. Parimenti vi è una discrepanza tra modelli operativi interni che sono

inconsci, non verbali, privati e costituiti da eventi soggettivamente

esperiti e modelli narrativi che sono generalmente consci, verbali,

raccontabili, sociali e costituiti da referenti esperiti attraverso le parole.

(Tambelli, Zavattini, Mossi, 1995, p. 33).

Nell’approccio socio-cognitivo, la rappresentazione è il risultato

dell’interiorizzazione di schemi senso-motori, come nella teoria di

Piaget, ma ad essa non si giungerebbe attraverso un processo

maturativo a prescindere dal contesto sociale e culturale. L’intuizione

neo-pragmatica piagetiana della sostanziale continuità fra azione e

pensiero rimane valida ma con una correzione fondamentale, e cioè

la considerazione dell’azione come azione sociale, anche quando

riguarda apparentemente solo il bambino e oggetti fisici, perché,

come sosteneva Vygotskij (1978), il tragitto dall’oggetto al bambino e

dal bambino all’oggetto passa necessariamente attraverso un’altra

persona e dunque la capacità rappresentativa, come tutte le funzioni

psichiche superiori, nasce a livello interpsichico per poi diventare

intrapsichica.

In questa prospettiva, dunque, le rappresentazioni infantili sono

costitutivamente rappresentazioni sociali e per essere decodificate

vanno contestualizzate, tenendo conto anche dello statuto che il

284

bambino ha nella struttura della società: i bambini e gli adulti stanno tra

loro in un rapporto da categoria dominata a dominante. Questo rapporto

di potere contrassegna le rappresentazioni del bambino, come di

qualunque oggetto di rappresentazione, come un’impronta che indica il

posto occupato dal soggetto. (Tambelli, Zavattini, Mossi, 1995, p. 35).

La rappresentazione viene considerata come costruzione cognitiva

che scaturisce da un sistema di relazioni sociali ed affettive a più

livelli.

Abbiamo precedentemente visto la definizione che Quaglia dà del

valore proiettivo del disegno: qualcosa che va oltre l’espressività e

arriva ai tratti della personalità, delle dimensioni profonde, intime e

informa sulla conflittualità del suo autore, ma che tuttavia non si

risolve nella copia del mondo interiore dell’autore del disegno, ma

piuttosto la suggerisce.

Il disegno assume la forma di narrazione nel momento stesso in cui

traduce, attraverso un mezzo espressivo, l’esperienza e le intenzioni

del suo autore, comunicandoci, contemporaneamente, aspetti della

sua vita affettiva ed emotiva.

Il bambino che disegna si impadronisce di forme canoniche e tende da

un lato a riprodurle, in una sorta di conservatorismo economico per tanti

aspetti, ma inevitabilmente viola quei canoni grafici, rielaborando

creativamente i modelli. Il punto allora non sarebbe allora se il bambino

disegna ciò che sa, ciò che vede o ciò che può (Pinto, Bombi, 1999), ma

che nei suoi disegni realizza una visione del mondo (Minkowska, 1948),

che è frutto della rappresentazione della realtà, della proiezione dei suoi

stati interni più intimi, delle abilità e delle tecniche. (Donsì – Parrello,

2005, p. 37).

285

4 Aspetti cognitivi dell’espressione grafica: fare,

conoscere, comunicare

Nei paragrafi precedenti abbiamo presentato lo sviluppo del

grafismo, cercando di evidenziare come, quando e a quali condizioni

il gesto del bambino si organizza in traccia grafica; il momento della

riorganizzazione della traccia in disegno (ossia il momento in cui dal

gesto fine a se stesso si passa alla riorganizzazione del gesto in

vista di un significato); i problemi che la segmentazione stadiale

solleva.

Abbiamo anche visto come l’interesse per il disegno non abbia

sempre comportato una riflessione esplicita sul “meccanismo di

produzione”, ma si sia concentrato su aspetti diversi, in base a

complesse ragioni culturali che, di volta in volta, hanno restrinto il

campo problematico e messo in risalto aspetti diversi su cui si è

appuntata la ricerca.

In questo paragrafo riprenderemo alcuni dei temi trattati

precedentemente allo scopo di esaminare le specificità dell’attività

grafica e il modo in cui essa cooperi allo sviluppo di un sistema di

simbolizzazione più ampio, in cui precede e accompagna

l’acquisizione di altre modalità di rappresentazione.

Durante tale operazione ci serviremo di ipotesi, risultati, ricerche e

spiegazioni elaborate dalla psicologia della percezione. E’

interessante anzi notare, a questo punto, come l’acquisizione

percettiva e la rappresentazione grafica a fini comunicativi possano

essere considerati due facce della stessa medaglia.

La percezione può essere infatti assimilata ad un processo di

“decodificazione” della realtà esterna all’osservatore; essa comporta

un’attribuzione di senso e un’acquisizione di significato che avviene

coesistenzialmente alla strutturazione delle immagini.

286

La rappresentazione concreta, invece, può essere vista come una

“messa in codice” cioè un processo attraverso il quale si scelgono, si

costruiscono, si giustappongono i segni grafici col fine di raggiungere

quel significato; si tratta cioè della formalizzazione di un messaggio

visivo la cui decodifica sia prevista entro un preciso confine. (Massironi,

1982, p. 6).

Lo sviluppo dell’abilità grafica procede attraverso l’acquisizione e

l’arricchimento progressivo di determinati elementi formali e la

costante e continua verifica dei rapporti tra traccia grafica e

significato all’interno di un contesto specifico.

4.1 Il disegno tra casualità e intenzionalità

Tra i vari autori che si sono occupati dello sviluppo grafico infantile

sembra esserci un netto contrasto circa la casualità o l’intenzionalità

che guida originariamente il bambino.

Si definisce casuale la prima traccia grafica del bambino nel momento

stesso in cui essa non costituisce la meta verso cui tende il gesto che la

produce. Secondo quest’ottica il bambino produce casualmente delle

tracce che poi associa, per analogia, alle forme del mondo reale. Questa

scoperta mette il bambino in condizione di trasformare gradualmente il

proprio gesto da casuale ad intenzionale. (Di Rienzo – Nastasi, 1989, p.

38).

Si tratta ad esempio della classica posizione di Luquet (e di Piaget)

cui si oppone la visione di Arnheim e Kellogg per i quali il progresso

grafico è intenzionale fin dall’inizio: è intenzione del bambino creare

sostituti attraverso un determinato materiale.

In linea con i principi della teoria percettiva della Gestalt la Kellogg

sottolinea che «l’interesse visivo», assieme al piacere motorio,

287

stimoli il bambino di due anni a scarabocchiare: ma «la stimolazione

visiva va oltre la vista e l’illuminazione». Prendendo le mosse da

queste premesse, la Kellogg si oppone sia a coloro che sostengono

che gli scarabocchi dei bambini più piccoli siano insignificanti, che a

coloro che vedono nell’interesse per l’imitazione delle forme esterne

lo stimolo a disegnare nei bambini più grandi.

La teoria della Gestalt ci dice che quando un bambino guarda i suoi

scarabocchi, la retina dei suoi occhi vede milioni di puntini riflessi dalle

linee e dalla carta. Il cervello del bambino deve organizzare questi punti

in forme riconoscibili, e cioè in forme che “abbiano un senso”. Inoltre,

secondo la teoria della Gestalt, la percezione ha un fondamento

fisiologico: l’organizzazione percettiva è qualcosa che nasce come

caratteristica fisiologica del sistema nervoso. (Kellogg, 1969, pp. 10-14).

Riprendendo la teoria della percezione di Richard Gregory (1966)

considera poi le configurazioni ricercate attraverso lo scarabocchio,

come il risultato di ciò che il bambino «si aspetta di percepire e a cui

la sua percezione è abituata»218.

L’intento rappresentativo determina gli schemi figurativi a cominciare

dai primi scarabocchi controllati. L’intenzione rappresentativa del

bambino ri-guarderebbe un’area di concetti e relazioni che derivano

da acquisizioni di tipo visivo e che concernono quantità, qualità,

distribuzioni, inclusioni, esclusioni, suddivisioni… e le loro

modificazioni e variazioni.

218 Kellogg, 1969, p. 11. «La ragione per cui un cieco non vede è che la sua retina non può trasmettere adeguati impulsi nervosi al cervello, e questo anche se il suo cervello è normale. E anche una persona che abbia delle retine normali, ma una lesione al cervello, non può non percepire un oggetto, dal momento che entrambi gli organi gli sono necessari. Come afferma Gregory “la retina è in realtà una parte specializzata della superficie del cervello che è spuntata fuori e che è sensibile alla luce”. Uno stimolo luminoso sulla retina induce gli impulsi nervosi a raggiungere le cellule nell’area occipitale della corteccia celebrale. “La funzione degli occhi consiste nel fornire al cervello l’informazione, codificata nell’attività neuronale”. Il cervello agisce sull’energia neurale che gli arriva, selezionandola e organizzandola in base alla maturità, all’esperienza e all’aspettativa dell’individuo. Quello che quest’ultimo percepisce è almeno in parte la conseguenza di ciò che si aspetta di percepire e alla cui presenza è abituato» (Ibidem, pp. 12-13).

288

Si veda ad esempio la figura 101, p. 62, in cui Glenis (4,10; 4,11), a

distanza di un mese, produce spontaneamente due mandala molto

simili tra loro.

D'altronde, esistono usi codificati nella nostra stessa cultura, che non

prevedono la rappresentazione di oggetti, ma di rapporti e relazioni,

come i diagrammi e i grafi utilizzati in matematica o in statistica.

Interessante e pertinente ci sembra a proposito l’analisi condotta da

Manfredo Massironi sul disegno.

Egli conduce «un primo tentativo […] di definire una sistematica

interpretativa dell’universo del disegno» (Massironi, 1982, p. 2) e

descrive come la notazione grafica possa prendere forme diverse per

soddisfare una varietà di funzioni comunicative. I contenuti relativi a

diagrammi e reticolati sono assimilabili, come nel caso degli

aggregati, dei diagrammi prodotti dai bambini, dei mandala, dei soli e

delle radiali (per utilizzare la terminologia della Kellogg) a relazioni e

rapporti tra gli oggetti come essi vengono registrati nella percezione.

Il fine a cui sovrintendono non è la rappresentazione di oggetti, ma

un’area di concetti e relazioni concernenti qualità, quantità, distribuzione,

suddivisione e le loro modificazioni e variazioni. Si può dire che tali

concetti si formano e derivano da acquisizioni di tipo eminentemente

percettivo.

Poiché il sistema visivo risulta essere particolarmente adatto a cogliere

alcune relazioni tra gli stimoli, come posizionamenti reciproci, grandezze

relative, inclinazioni, variazioni, (quantità), ecc. risulterà che tutti i

contenuti riconducibili a quelle caratteristiche si presteranno ad essere

trasmessi sinteticamente ed esaurientemente mediante un adeguato

approntamento di materiale idoneo […]. Possiamo indicare tale

materiale come un insieme di variabili visive costituite dal:

a) piano con le sue dimensioni;

b) una forma percepibile definita “macchia” che può variare nei modi

seguenti:

posizione (sul piano),

grandezza,

289

intensità,

tessitura,

colore,

orientamento,

forma.

Il punto e la linea rientrano nel concetto di “macchia” […]. La linea può

assumere tutte le variazioni della macchia, ma non significherà mai

superficie, verrà letta come misurabile lungo una sola dimensione.

(Ibidem, pp. 99-100).

Così, ad esempio, la “macchia” di Giulia (3,9) in figura 102, p. 63,

attraverso i suoi elementi costitutivi (posizione, grandezza, intensità,

tessitura, colore, orientamento, forma), può rimandare a valutazioni

di tipo percettivo che riguardano «posizionamenti reciproci,

grandezze relative, inclinazioni, variazioni…».

I bambini arrivano a condividere le stesse formule grafiche degli

adulti solo dopo un lungo processo di apprendimento.

Se la percezione consiste non di una registrazione “fotograficamente”

fedele ma nella conquista delle componenti strutturali globali, sembra

evidente che tali concetti visivi non possiedono forma esplicita.

(Arnheim, 1954, p. 147).

In altri termini, la forma percettiva non si “materializza” nell’oggetto

durante la percezione, ma è piuttosto “estratta” dal soggetto. In

questo senso non si può nemmeno sostenere che attraverso il

disegno il bambino imiti la forma degli oggetti fornendone una copia,

ma che piuttosto scopra un equivalente «che rappresenta fatti

salienti del modello tramite le risorse di un medium particolare» (Ivi).

Percepire un oggetto, così come rappresentarlo, è “trovare” la

struttura di una forma: ma mentre nel primo caso la forma è

compresa, nel secondo la forma è prodotta attraverso un medium

290

particolare. Si osservino le grafiche spontanee di Sana (4,6/4,7) in

figura 103, p. 64.

I sistemi di rappresentazione concreta sono dei procedimenti raffinati,

escogitati per creare illusioni. E mentre, per la psicologia della

percezione, l’illusione costituisce la dimostrazione dell’autonomia dei

processi superiori che presiedono alla conoscenza rispetto ai dati fisici

esterni, per l’illustratore l’”illusione” è il fine da raggiungere, è il modo per

costruire situazioni consonanti con quanto si suppone che avvenga

nell’elaborazione di chi osserva. (Massironi, 1982, p. 6).

I sistemi di rappresentazione concreta si materializzano poi

attraverso strumenti che hanno a loro volta un effetto sulla tipologia

di forma «trovata».

Il cerchio, ad esempio, viene direttamente derivato da un mezzo grafico i

cui strumenti principali sono linee monodimensionali. Il percetto che ha

dato luogo al cerchio condurrebbe ad una rappresentazione diversa a

seconda che la si tentasse con il pennello, con blocchi cubici, in creta, in

tessuto, ma qualunque sia il medium, vi sarà similarità strutturale tra la

rappresentazione e il concetto percettivo. (Arnheim, 1954, pp. 47-48).

Tale similarità strutturale se da una parte rende conto della precoce

comprensione delle immagini, dall’altra ha spinto molti studiosi a

ritenere che il disegnare fosse originato dall’imitazione della realtà.

Sappiamo che il bambino è in grado di imitare, ma un conto è imitare

un’altra persona, un altro è imitare attraverso il disegno le

caratteristiche di un oggetto.

Gli elementi del medium disegno, attraverso i quali si dovrebbe

“imitare l’oggetto”, sono la bidimensionalità del foglio e le linee che

su di esso si possono tracciare. Proprio perché l’oggetto è

tridimensionale e non costituito da linee, non è possibile parlare di

imitazione ma piuttosto di “invenzione” di forme che stanno al posto

291

di alcune caratteristiche percettive. Ogni medium ha caratteristiche

specifiche che gli sono proprie e «prescrive il modo migliore di

rendere le caratteristiche di un modello» (ibidem, p. 123).

Gli elementi con cui si realizza il disegno devono essere elaborati dal

bambino, essi non sono “dati” e questo spiega il motivo per cui la

realizzazione delle prime forme grafiche possa essere un’impresa

molto laboriosa.

Secondo Ernest Gombrich il meccanismo psichico che presiede il

gioco simbolico può aiutarci a comprendere «le radici della forma».

Nel saggio A cavallo di un manico di scopa egli medita su un

cavallino di legno composto da un manico di scopa e da una testa

rudimentale e si chiede se questo possa essere considerato

un’immagine. Se per immagine si intende «l’imitazione di una forma

esterna di un oggetto, certo la forma esterna di un cavallo qui non è

imitata» (Gombrich, 1963, p. 3). Né può essere considerata

un’astrazione.

L’artista, così leggiamo, astrae la “forma” dall’oggetto che vede. Lo

scultore di solito astrae la forma a tre dimensioni, e si astrae dal colore;

il pittore astrae contorni e colori, e si astrae dalla terza dimensione. A

questo proposito si sente dire che la linea tracciata da un disegnatore è

“una straordinaria prova di astrazione” perché non “esiste in natura” […].

Eppure basta dare un’occhiata al nostro cavallino balocco per accorgerci

che l’idea dell’astrazione come di un atto mentale complicato ci fa

approdare ad alcune conseguenze curiose ed assurde. (Gombrich,

1963, p. 4).

Racconta poi la storia di un ubriaco che si ferma davanti ad ogni

lampione che incontra per strada e che si toglie il cappello per

salutare:

dovremmo forse dire che l’alcool ha tanto aumentato la sua capacità

d’astrazione che oramai gli riesce isolare la qualità formale dello star

292

ritto, o essere in posizione verticale, tanto dal lampione che dalla figura

umana? (ivi).

Se così fosse il lampione sarebbe un’astrazione di “uomo”; e lo

stesso varrebbe per il manico di scopa astrazione di “cavallo”; ma

astraendo dal cavallo non si ottiene un manico di scopa. Il giocattolo

non è quindi né una copia del cavallo (un suo “ritratto”), né il suo

equivalente concettuale (derivante da un’astrazione operata dal

soggetto che rappresenta la «cavillosità»). Il cavallo a manico di

scopa serve da «sostituto»: è una rappresentazione che funziona

come un cavallo. Come per il giocattolo, così per il disegno, concetti

quali copia, imitazione, astrazione, concetto, non spiegano le prime

forme grafiche.

Ma per noi, che siamo sempre circondati da cartelloni pubblicitari, e dai

giornali con le loro illustrazioni di merci e di avvenimenti, è difficile

liberarci da un partito preso, dalla prevenzione, cioè, che tutte le

immagini vanno “lette” come se si riferissero a una qualche realtà

immaginaria o vera. (Ibidem, p. 8).

Il bastone è stato promosso dal bambino a cavallo, in quanto si può

cavalcare.

Il tertium comparationis, ossia il fattore comune, non era tanto la forma,

quanto la funzione. O, per essere più precisi, quell’aspetto formale

dell’oggetto che aveva i requisiti minimi per l’adempimento della

funzione […]. In questo senso i sostituti affondano le radici in un

substrato di funzioni biologiche comuni a uomini e animali […].

Un’immagine, in questo senso biologico, non è l’imitazione della forma

esterna di un oggetto, ma l’imitazione di certi suoi aspetti privilegiati o

comunque pertinenti. (Ivi).

All’origine «rappresentare è creare sostituti con un certo materiale»

e, parafrasando Gombrich quanto maggiore sarà il desiderio per il

293

bambino di sperimentarsi nell’attività rappresentativa, tanto minore

potrà essere il numero di tratti sufficienti per costituire «un’immagine

minima», un’immagine cioè che funzioni come semplice sostituto.

[Figura 104, p. 65].

Ai fini dell’identificazione del sostituto, il grado di somiglianza potrà

andare da un minimo ad un massimo.

Occorre inoltre tener presente che «le immagini non solo

rappresentano, ma sono ciò che rappresentano». Per Arnheim

(1966) ogni immagine può funzionare o come somiglianza, o come

«autoimmagine»219.

Le autoimmagini «sono immagini: ma sono le proprie stesse

caratteristiche quelle che principalmente rivelano» (Arnheim, 1966, p.

396). Così come il cavallo a manico di scopa non ci informa sulle

caratteristiche fisiche dei cavalli, ma tutt’al più “rivaleggia” con esse;

allo stesso modo i primi schemi figurativi dei bambini non

rimanderebbero necessariamente alle qualità formali di oggetti

esterni, anche se «condividono parte dei poteri dei loro prototipi»

(ibidem, p. 400).

Eloquenti a questo proposito, le «autoimmagini» di Oussama

(5,7/5,9) in figura 105, 106, 107 e 108 (pp. 66-69) rispettivamente. Si

tratta di grafiche prodotte da un bambino inserito a scuola nel mese

219 Il comportamento dei bambini davanti allo specchio può essere esemplificativo dei due modi ravvisati da Arnheim attraverso i quali assumiamo le immagini: come somiglianza o come autoimmagine. Riprendendo le ricerche di René Zazzo sull’identificazione dell’immagine speculare, possiamo asserire che innanzitutto il riconoscimento non avviene che tra i 18 e i 24 mesi (esso non sarebbe affatto primitivo come sostenuto da Lacan) ed esso non da luogo ad un’«assunzione giubilatoria [ma la reazione che lo precede e accompagna] è di confusione e evitamento […]. I comportamenti contraddittori e paradossali del bambino ci fanno credere che, malgrado la costruzione oramai avanzata di uno spazio delle rappresentazioni, egli rimanga ancora a lungo affascinato, prigioniero della realtà dell’immagine. È come se lo specchio fosse contemporaneamente specchio e vetro» (Zazzo, 1983, pp. 172-192). La difficoltà del bambino è quella di non riuscire a staccarsi dal riflesso della sua immagine e di considerarla autoimmagine, dotata di una “realtà” indipendente. Lo spaesamento del bambino è dovuto al fatto che si riconosce in quell’immagine, ma tuttavia si sente altrove. I casi di autoscopia (allucinazione di se stesso) e di autoscopia negativa (lo specchio non rimanda la propria immagine), sono considerati da Zazzo come ulteriore conferma dello stadio in cui l’immagine speculare funziona come doppio.

294

di marzo a 5 anni compiuti, nato e vissuto in Marocco fino all’età di

tre anni, di lingua araba. Arrivato in Italia aveva frequentato per tre

mesi (aprile-giugno) un’altra scuola dell’infanzia. A marzo dell’anno

seguente ha iniziato a frequentare la scuola dell’infanzia di Reggio

Emilia nella quale è stata condotta la ricerca. Oussama ha sempre

disegnato con grande piacere sia “spontaneamente” (spesso si

organizzava autonomamente in questo genere di attività) che “su

consegna”. Il problema di Oussama con i disegni a tema (o,

piuttosto, dell’insegnante con i disegni a tema di Oussama)

riguardava la decodifica del messaggio verbale: non riusciva a

comprendere la richiesta dell’adulto.

Alla fine dell’anno scolastico, quando bambino ha iniziato a capire

alcune parole di italiano e a produrre brevissime frasi, le sue

produzioni si sono fatte “più fedeli” alla consegna anche se nelle

grafiche persistevano motivi non figurativi [figura 109, p.70].

«La morale della favola si può riassumerla dicendo che forse la

sostituzione precede l’intenzione di fare un ritratto, e la creazione

precede quella della comunicazione» (Gombrich, 1963, p.9).

E con questa sintetica conclusione ci sembra possibile risolvere la

dicotomia del disegno tra casualità e intenzionalità: il bambino

produce sostituti grafici (autoimmagini) che da un certo momento in

poi funzionano anche come somiglianza; successivamente “metterà

in codice” le sue grafiche, che potranno narrare ad un interlocutore

eventi e vissuti.

Vale la pena a questo punto di ridefinire il concetto di

rappresentazione in relazione a quello di figurazione (o

raffigurazione) secondo una prospettiva psico-evolutiva.

Rappresentare è, genericamente, “stare al posto di”; mentre

raffigurare è “riprodurre attraverso la forma”. La raffigurazione in

particolare si riferisce all’invenzione (e non alla scoperta) di forme

grafico-pittoriche che possono stare per un oggetto; è una “tecnica di

rappresentazione” che favorisce l’evocazione di un’immagine

295

“convincente”, senza per questo che ci sia con-fusione tra il simbolo

e il suo referente.

La rappresentazione sta alla base di tutta l’esperienza figurativa e, in

un certo senso, costituisce la fase “precedente” a quella della

raffigurazione. E’ quando il bambino tratta le sue rappresentazioni

anche come somiglianza che esse iniziano a trasformarsi in

raffigurazioni.

Eloquente, in questo senso è la comparsa dello scarabocchio

onomatopeico che, come abbiamo visto compare in una certa fase

dello sviluppo del grafismo. Esso sta per un’immagine vivida e

persino cinetica, ben presente nella mente del bambino. Pur in

assenza di schemi figurativi il bambino si dimostra in grado di

rappresentare la realtà: attraverso tracce grafiche “soggettive”

sonorizzate. C’è quindi continuità tra quella forma di

rappresentazione e le successive raffigurazioni della stessa

esperienza.

Ma, avverte ancora Gombrich,

non appena i più afferrano che un’immagine può non avere un’esistenza

indipendente, e che può riferirsi a qualcosa fuori di sé, quindi essere il

documento di un’esperienza visuale, piuttosto che la creazione di un

sostituto, da quel momento le leggi fondamentali dell’arte primitiva

possono essere impunemente violate […]. Ne deriva che l’idea del

quadro quale rappresentazione di una realtà fuori di sé, ci porta ad un

interessante paradosso […] non possiamo più concepire che nessun

punto della tela sia privo di “significato”: ogni punto deve rappresentare

qualcosa. (Gombrich, 1963, pp. 16-17).

L’inizio dell’attività raffigurativa coincide con l’intenzione da parte del

bambino di creare un “equivalente”, una forma specifica che possa

stare al posto di un oggetto a cui assomiglia “in qualche modo”.

Questo riconoscimento implica il passaggio dallo “scarabocchio

rappresentativo” a forme che, per così dire, superano se stesse

296

(Golomb, 2002); passaggio che abbiamo precedentemente definito

“dal segno al disegno”.

In una prima fase un segno, un tracciato o una figura con

caratteristiche proprie, può stare al posto indifferentemente di un

semplice movimento o di tanti significati diversi.

Questi scarabocchi non figurativi, ossia il tipo cinestetico sono in

generale rappresentativi220, non nel senso di raffigurare “qualcosa”,

bensì nel senso “stare per qualcosa”; ed è proprio perché “stanno

per” che essi acquistano la funzione di simboli (un significante che

rimanda ad un significato). In questa fase dello sviluppo ai diversi

tracciati, il bambino attribuisce, solitamente in un secondo momento,

un significato che può cambiare diverse volte per la stessa figura.

Ciò che motiva il bambino è l’intento rappresentativo e non ancora

quello raffigurativo.

Quando Erika (4,1) disegna e chiama la sua produzione “le palline

che fanno un girotondo” [figura 110, p. 71] sottolinea

“un’equivalenza” tra la forma che hanno preso le linee sul foglio e

una qualche altra forma che appartiene al mondo reale.

Attraverso questa azione dimostra di possedere una comprensione

intuitiva del fatto che una cosa possa rappresentarne un’altra senza

esserne una replica; il bambino “pratica” un’azione simbolica

attraverso un medium specifico. Possiamo ipotizzare che in questo

caso un’intenzione rappresentativa abbia condotto Erika

“casualmente” a raffigurare un oggetto specifico.

Secondo la Kellogg

il bambino come l’adulto, si deve servire delle forme base del disegno

per raffigurare oggetti e paesaggi. Ed è appunto la modalità di

composizione delle forme, che distingue il lavoro spontaneo del bambino

dal lavoro dell’adulto, così come la composizione delle linee base

distingue le Gestalt dell’arte infantile dai simboli dell’alfabeto. I bambini

220 Ci riferiamo a quelli che precedentemente abbiamo classificato “scarabocchi controllati”.

297

usano sempre le stesse formule per disegnare barche e veicoli a ruote,

indipendentemente dal fatto che li abbiano visti o no. È facile che il

bambino non dia definizioni figurative a queste formule prima che le

senta da un adulto. A questo punto, forse per la prima volta, può vedere

una certa somiglianza tra i suoi disegni, quelli degli adulti, le fotografie e

la sua esperienza visiva di barche e veicoli. (Kellogg, 1969, p. 151).

La raffigurazione chiama in causa l’intenzionalità a priori di produrre

le caratteristiche formali degli oggetti del mondo esterno, secondo un

codice culturalmente definito, nonché la capacità di collegare

intenzioni e produzioni materiali: l’intenzione di rappresentare un

aspetto del mondo reale o immaginato, crea una relazione di

“somiglianza” tra simbolo e referente, “somiglianza” che, come

abbiamo più volte sottolineato, può andare da un minimo ad un

massimo.

I disegni sono equivalenti: non sono né imitazioni né copie della

realtà. Essi contengono solo alcune delle proprietà dell’originale e

all’interno dei diversi contesti culturali, convenzioni più o meno

esplicite, determinano quali proprietà debbano essere incluse e in

che modo.

I disegni di Oussama, sembrano avvalorare le teorie di coloro che

sostengono che lo spostamento nella direzione della raffigurazione in

senso sempre più “realisticamente codificato” (realismo visivo) abbia

un’origine culturale.

Tutta l’arte è un “fabbricare immagini” e, tutto il fabbricare immagini è

radicato nella creazione di sostituti. Perfino l’artista “illusionista” è

costretto a prendere come suo punto di partenza l’immagine

convenzionale fatta dall’uomo, l’immagine concettuale. Strano a dirsi

non può semplicemente “imitare la forma esterna di un oggetto”, se

prima non ha imparato a costruirla […].

Wölfflin osservò una volta che tutti i quadri devono di più ad altri quadri

che non alla natura. È una verità ben nota a chi studia le tradizioni della

pittura, ma ancora mal compresa per quel che riguarda le conseguenze

298

psicologiche che se ne possono dedurre. La ragione sarà forse che,

contrariamente a quanto credono e sperano molti artisti, l’”occhio

innocente” che dovrebbe vedere il mondo con freschezza, in realtà non

lo vede affatto, e anzi frizza e brucia acciaccato dalla tragedia caotica di

forme e di colori che gli si para dinanzi221.

In questo senso il «vocabolario convenzionale delle forme basilari» è

indispensabile al bambino sia come punto di partenza, che per

mettere a fuoco l’organizzazione del suo materiale, affinché si “con-

figuri” come codice comunicativo.

4.2 Il disegno come “fare” e “saper fare” (aspetti

procedurali del disegno?)

Il sapere sul disegno nella nostra cultura continua di fatto ad avere una

circolazione ristretta e, soprattutto quando investe problemi più

squisitamente tecnici relativi alla produzione, rimane tacito appannaggio

di coloro che sanno disegnare; non fa parte delle conoscenze generali

ritenute formative.

Si pensi alla scrittura. L’alfabetizzazione comporta una riflessione, anche

minima, sull’uso. Siamo informati sull’esistenza delle regole di

produzione. Studiamo grammatica e sintassi e sappiamo, sia pur

vagamente, di essere eredi di una tradizione plurimillenaria non solo

nell’uso ma anche nella riflessione. Nessuno ritiene che ciò sia negativo

per la libertà di espressione del futuro scrittore o del futuro poeta. Lo

studioso del linguaggio poi, che è sempre produttore e fruitore, parte

anche da un sapere collettivo codificato. Lo psicologo che si occupa di

disegno, normalmente, non sa disegnare. Ciò, oltre che significare

221 Gombrich, 1963, pp. 15-16. Per «immagine concettuale» Gombrich intende «quel tipo di rappresentazione ideografica che, più o meno, è comune ai disegni dei bambini e a varie forme di arte primitiva e primitivismo» (Ibidem, p. 14). Si tratta di quegli schemi figurativi che hanno indotto i teorici della teoria intellettuale a sostenere che il bambino disegni “quello che sa e non quello che vede”.

299

letteralmente, significa, per le ragioni sopradette, anche che non sa di

disegno. (Pizzo Russo, 1988, p. 144).

Qualsiasi intenzione espressiva passa necessariamente attraverso

dei media che influenzano l'idea iniziale, trasformandola: il disegno è

prima di tutto un “fare”; ma non essendoci linea diretta tra intenzione

e medium (il medium interviene sull’intenzione limitandola e al

contempo offrendole possibilità espressive) il disegno, tutto il

disegno, è per di più, un “saper fare”222.

Malgrado tutta l’importanza del “sapere che”, non si può dire che sia

l’unico elemento chiave dello sviluppo. “Sapere come” è ugualmente

importante, anche se più raramente studiato. Abbiamo bisogno di

sapere, per esempio, come cercare un oggetto o un’informazione, come

arrivare da X a Y, come ricordare, come apprendere, come progettare e

organizzare una serie di azioni; in breve come tradurre il “sapere che” in

azione. Si è tentati di supporre che, una volta impadronitisi

dell’informazione, l’azione vera e propria possa aver luogo senza

problemi. Per fare un esempio, siamo stati tentati di considerare

l’inversione e altri errori di orientamento nella scrittura e nel disegno

soltanto come “problemi di percezione” o indifferente all’importanza

dell’orientamento. Certo, quello che il bambino vede o intende è una

componente importante, ma non è una spiegazione sufficiente. Per dirla

con David Olson, nessun disegno è “una rappresentazione automatica

di un qualche mondo percettivo”. Ciò che si vede o si intende deve

essere tradotto nell’azione del disegnare; e ciò che dobbiamo

comprendere in maniera più completa è la natura di tale traduzione e di

tale azione. (Goodnow, 1977, p.12).

222 «Molte opere sulle manifestazioni grafiche infantili hanno spesso il torto di muoversi sul terreno di una eccessiva superficialità finendo con il perdere di vista contenuti culturali molto più ampi. Ci si comporta insomma come se il bambino fosse un essere venuto da un altro pianeta e le sue manifestazioni, pertanto, non avessero niente a che fare con l'eterno problema dell'artista di trovare un medium per dare corpo e immagine ai contenuti dell'esperienza» (Piantoni, 1992, p. 94).

300

E’ proprio “il raffigurare” che implica qualcosa di specifico e diverso

rispetto all’ascoltare-vedere-narrare: in questo genere di attività

bambini devono risolvere il problema di agire “una grammatica” e

“una sintassi” grafica per la comunicazione di un’esperienza

personale.

Riteniamo che per comprendere l’attività grafica del bambino sia

pregiudiziale occuparsi delle caratteristiche di questo medium e degli

usi culturali che, di fatto, ne vengono fatti.

Tenere presente, quindi, non solo quanto la nostra cultura considera

arte, ma anche quanto etichetta come disegno tecnico-scientifico. Non

come modalità separate e opposte, in quanto fondate sul sentimento

l’una e sulla ragione l’altra, con tutto il corredo di coppie oppositive che

ne conseguono, ma il disegno in quanto tecnica che lungo i secoli è

stata utilizzata per assolvere funzioni molteplici, specializzandosi in

campi operativi diversi come mostra la ricca, variegata, complessa e

intricata fenomenologia. (Pizzo Russo, 1988, p. 146).

Nell’analizzare il ruolo del disegno (sia artistico che tecnico

scientifico) nell’interpretazione ottica della realtà, Massironi giunge

alla conclusione che i diversi tipi di disegni che si possono produrre,

corrispondono anche a “funzioni” ben distinte all’interno di schemi di

raffigurazione dissimili. Sono anzi le funzioni, in un certo qual modo,

a determinare la configurazione significante all’interno della quale

agisce effettivamente il disegno (Massironi, 1982).

Dal nostro punto di vista si tratta di una metodologia interessante

perché evita una classificazione dei disegni dei bambini basata su un

palinsesto unicamente “concettuale” e lontano dal contesto d’uso. Il

criterio di “funzione” permette di isolare gli elementi sostanziali dei

vari schemi di raffigurazione, precisandone l’origine, attraverso la

modalità d’uso. Ma vediamo nel dettaglio la teoria di Massironi.

301

In Vedere con il disegno l’autore si propone di analizzare il

funzionamento del disegno smontandone cognitivamente il

meccanismo:

analizzare il disegno cercando di approfondire tutti gli elementi e i

processi che intervengono nella determinazione del dato rappresentato.

Si vuole cioè tentare lo smontaggio del sistema del disegno nelle sue

componenti elementari e la determinazione degli effetti delle intenzioni

fra tali componenti. (Massironi, 1982, pp. 9-10).

L’autore propone di distinguere gli elementi del disegno in primari,

«strutturalmente fondamentali per indagare il modo di costruirsi della

notazione grafica» (ibidem, p. 10) e secondari.

Gli elementi secondari sono quelli relativi ai portati del luogo e del tempo

e della cultura che produce il disegno, oltre a quelli propri della

personalità e dello stile dell’autore [e] possono essere diversi da tempo

a tempo, da luogo a luogo, da disegnatore a disegnatore, al limite da

disegno a disegno. (Ivi).

Gli elementi primari individuati sono: la caratteristica del segno

(traccia); la posizione fenomenica del piano di rappresentazione; il

processo di enfatizzazione-esclusione degli elementi messi in

rapporto al fine della rappresentazione (lo scopo informativo

immediato a cui tende).

Gli elementi secondari sono il campo d’indagine della storia e della

critica d’arte, mentre quelli primari possono rientrare nel campo di

studio della psicologia.

Massironi differenzia poi, all’interno degli elementi primari quelli di

“primo livello” (la traccia) da quelli di “secondo livello” (il piano della

rappresentazione) poiché la posizione del piano di rappresentazione

è un elemento che non si può dare da solo e va mediato attraverso le

tracce di primo livello.

302

Le caratteristiche del segno (la traccia) «sono definite dal tipo di

vissuto percettivo che inducono nell’osservatore». Per l’autore

esistono solo tre modi di utilizzazione della traccia: il segno oggetto,

il segno contorno, il segno tessitura223.

Il segno oggetto (la «linea oggetto di Arnheim») è quello nel quale la

traccia si identifica con l’oggetto rappresentato: per esempio una

linea sinuosa al posto di un serpente. Questo segno è il più sintetico

in assoluto: prevede con la sua sola presenza di individuare

un’esistenza e di creare un rapporto tra figura e sfondo:

la caratteristica di questo tipo di segno è di essere aperto e di

presentarsi come isomorfo rispetto ad un oggetto ad esso assimilabile o

anche come oggetto autonomo indipendentemente dal significato cui

può essere ricondotto. (Massironi 1982, p. 11).

Il segno contorno o «linea-margine» delimita una superficie e «ciò

avviene quando il segno è chiuso» In questo caso oggetto della

percezione è (anche) la superficie racchiusa dal segno. Tale segno

«acquista una funzione unilaterale, appartiene sempre cioè alla

figura e mai allo sfondo. Il segno abdica così alla sua caratteristica di

oggetto a favore dello spazio che esso racchiude» (ibidem, p. 12)

Il segno tessitura è il «tratteggio» di Arnheim, solitamente studiato

come chiaroscuro quando veniva utilizzato per dare spessore alle

figure.

Quando la traccia sul piano si ripete sempre uguale a se stessa, o

mutando in progressione sistematica, con intervalli regolari, oppure

anche irregolari, ma sempre molto piccoli, la superficie interessata da

223 Come lo stesso Massironi puntualizza, queste tre utilizzazioni della linea sono le stesse individuate da Arnheim (linea-tratteggio, linea-oggetto, linea-margine) in Arte e percezione visiva. Se per il tratteggio bisogna considerare soprattutto il capitolo relativo alla luce, per la linea-oggetto e la linea-margine, nel capitolo sullo sviluppo, dopo la precisazione che la linea è il primo elemento dell’attività artistica infantile, vi è un puntuale riferimento al doppio carattere che questa assume nel giro di poco tempo, diventando linea margine (cfr. Arnheim, 1954).

303

questo tipo di intervento viene definita “tessitura”. La traccia grafica può

assumere qualsiasi andamento o caratteristica lineare, incrociata,

tratteggiata, punteggiata, imprecisa, ecc224.

Le linee utilizzate nelle tre modalità sopra riportate, possono essere

tracciate con strumenti, e di conseguenza apparire come «precise»,

o a mano libera e apparire «variate».

Per quanto riguarda la superficie su cui si dispongono le tracce (il

piano di rappresentazione e non il piano fisico di supporto) essa

viene definita in relazione al piano di visione (al nostro modo di

guardare gli oggetti).

Essa

può assumere vari gradi di inclinazione e in tal modo diventare parte

strutturale del processo di raffigurazione. Tale funzione strutturale e

strutturante dell’immagine grafica è assolta facendo sì che la superficie

di supporto informi circa la posizione di osservazione degli oggetti

rappresentati. Usiamo il termine posizione nel suo doppio significato di

collocazione fisica dell’osservatore rispetto alle cose osservate e di

intenzione comunicativa privilegiata di alcuni contenuti percettivo-

cognitivi, rispetto ad altri possibili. (Massironi, 1982, p. 17).

Secondo Massironi, a seconda di come l’osservatore vede il disporsi

delle superfici degli oggetti rappresentati, si producono in lui

aspettative e approcci diversi al disegno, da cui deriva l’importanza

della disposizione di tali piani.

Riprendendo la distinzione operata da Gibson225 sui modi

fondamentali di osservare e rappresentare gli oggetti, Massironi

224 Ibidem, pp. 12-13. Massironi ricorda che l’affinamento nell’uso della tessitura è stato uno dei risultati dell’introduzione della prospettiva, in particolare della “prospettiva aerea”, «che vuole dare il senso della profondità solo con lo sfumare dei contorni e delle superfici a seconda della dislocazione degli oggetti in profondità» (Ibidem, p. 15). La funzione della tessitura nella percezione della profondità è stata sottolineata anche da Gibson che ha introdotto il termine di “gradiente di stimolazione” (cfr. Gibson, 1979).

304

individua due modalità possibili di declinazione del piano di

rappresentazione, ovvero del disporsi degli oggetti nella

rappresentazione grafica.

Il piano di visione è frontale «quando i piani rappresentati incontrano

perpendicolarmente l’asse ottico»226 e, di conseguenza, il vissuto

percettivo indotto dal segno grafico è di «emersione»; il piano di

visione è invece inclinato quando si presenta come longitudinale o

variamente inclinato rispetto all’asse ottico e l’effetto percettivo è di

«sfondamento»227.

Le possibili combinazioni degli elementi di primo e secondo livello

non sono casuali, ma consequenziali a precise scelte che regolano,

sia pure implicitamente, l’articolazione degli elementi a seconda dei

contenuti e delle finalità che il disegno si propone. Contenuti e finalità

sono culturalmente determinati.

225 «L’interazione visiva con i piani di cui sono costituiti gli oggetti è, secondo Gibson, la condizione che ci permette di vedere la profondità e di assumere informazioni circa lo spazio del nostro agire. Se però si passa dall’esperienza diretta degli oggetti alla loro trascrizione grafica si hanno due tipi di rendimenti percettivi; quando i piani rappresentati sono prevalentemente longitudinali la superficie del segno si sfonda e gli oggetti appaiono vivere in uno spazio complesso e polidimensionale, mentre quando i piani sono fronto-paralleli, gli oggetti così raffigurati paiono emergere dalla superficie e, proprio in forza della loro dichiarata bidimensionalità, costituirsi come concettualizzazioni, quasi astrazioni cognitive» (Massironi, 1982, p. 24). 226 Ibidem, p. 19. I due piani di visione possono poi convivere in alcune opere d’arte contemporanea (come ad esempio nei quadri di Escher) o in figure oggetto di indagine psicologica (le cosiddette “figure incoerenti” o “impossibili”) il cui scopo è proprio quello di indurre vissuti di conflitto o di ambiguità. «Il fruitore di immagini di questo tipo si trova a vivere un’esperienza complessa che lo porta a verificare concretamente come l’atto percettivo sia cognitivamente complesso; infatti si trova ad attraversare coscientemente alcuni passaggi in cui visione e pensiero si integrano: la condizione osservata è assunta come problematica e conflittuale, viene esperito un vissuto di incongruità che attrae e infastidisce allo stesso tempo per cui si innescano tentativi di soluzione del conflitto a livello sia percettivo che mentale» (ibidem, p. 20). 227 «La rappresentazione dei piani inclinati rispetto alla linea di vista ha trovato nel metodo prospettico le regole per la sua trascrizione; mentre quel filone della geometria descrittiva formalizzatosi nelle proiezioni mongiane ha individuato i sui fondamenti nella presentazione dei piani frontali degli oggetti, questa scelta ha avuto una lunga serie di precedenti intuitivi e di esiti tecnici anche prima di Monge, così come era avvenuto per certe e parziali rappresentazioni della profondità prima di Brunelleschi e dell’Alberti» (Ibidem, pp. 23-24).

305

Trattandosi di disegno «la prima scelta consisterà nel prediligere le

qualità visive e nel trascurare le altre […]; ma per rendere informativo

l’elaborato si dovranno effettuare dalle scelte anche tra le qualità

visive» (ibidem, p. 56).

Questo porta, durante il processo rappresentativo ad enfatizzare

alcune caratteristiche percettive e ad escluderne altre: «in ogni

immagine alcuni tratti, elementi, o caratteristiche, sono evidenziati in

modo che risultino ben leggibili, altri invece vengono completamente

trascurati, volutamente ignorati, cancellati come se non esistessero».

E proprio per questo «ogni rappresentazione grafica […] è sempre

un’interpretazione e quindi un tentativo di spiegazione della realtà

stessa» (ibidem, rispettivamente pp. 56 e 55).

Tuttavia

con il termine “oggetto” bisogna intendere non solo quanto esiste

materialmente, ma anche quanto può essere immaginato, pensato,

supposto, progettato, ipotizzato, così come ciò che può esistere per

effetto della suggestione, dell’errore, delle allucinazioni, del sogno, ecc.

(Ibidem, pp. 73-74).

Tutto questo è disegnabile: tramite il disegno può essere reso visibile

anche l’invisibile che può riguardare l’area del “fantastico” o, nella

vasta area scientifica, il campo degli “oggetti osservabili”228.

La ricca produzione “ipotetigrafica”, e l’abbondante letteratura

scientifica sull’importanza dell’immagine visiva nelle scoperte

scientifiche

228 Massironi propone di chiamare quest’ultimo campo ipotetigrafia che «può essere definita sinteticamente come quell’elaborato grafico con cui forme e strutture non visibili del mondo naturale vengono raffigurate visivamente». Esempi di ipotetigrafia sono gli “anelli” con i quali vengono rappresentate le molecole, la doppia elica del DNA, lo schema del sistema solare… tutte cose che non esistono se non nei nostri sistemi di conoscenza. «L’essenza dell’ipotetigrafia poggia sulla convinzione che il primo passo sulla via del dimostrare sia costituito dal mostrare. Cioè porre in evidenza mediante artifici visivi quella parte, quel nocciolo di contenuto che risulta irriducibile all’espressione verbale» (Ibidem, p. 159).

306

evidenzia un fatto spesso trascurato e cioè che la percezione presiede

non solo l’acquisizione e l’organizzazione dei dati provenienti dal di fuori,

ma anche di quelli provenienti dal di dentro. E con ciò non si vuole

intendere solo il momento dell’autopercezione o della percezione di sé

come è sovente indagare in ambito psicologico, ma anche quella

capacità di osservare il frutto dei nostri pensieri e delle nostre

meditazioni, come dati da filtrare allo stesso modo dei dati sensoriali sì

da constatare la funzionalità operativa nei confronti del problema che

stiamo affrontando. (Ibidem, p. 136).

A partire dalla combinazione degli elementi primari e secondari,

tenuta presente la qualità del segno (preciso o variato) Massironi

elabora la seguente tabella229:

PREMINENZA DI

PIANI LONGITUDINALI

PREMINENZA DI PIANI FRONTALI

Segno oggetto

Segno

margine

Segno

tessitura

Segno oggetto

Segno

margine

Segno

tessitura

P.= preciso V.= variato X.= frequente O.= presente, non frequente FUNZIONE COMUNICATIVA

P

V

P

V

P

V

P

V

P

V

P

V

Illustrativa

O

X

X

Operativa

X

X

O

Tassonomica

O

X

X

Diagrammi

O

X

O

O

Segnaletica

X

X

229 La tabella, nelle intenzioni dell’autore, ha solo valore illustrativo e non ha pretesa di essere esaustiva dell’enorme varietà che presenta la produzione grafica. Le funzioni comunicative presenti nella tabella sono insiemi macroscopici che potrebbero essere divisi in sottoinsiemi. All’interno della funzione illustrativa, ad esempio, possono essere messi, separatamente il fumetto, la caricatura, l’immagine satirica, il disegno in prospettiva…

307

Tabella 1: articolazione delle componenti del disegno a seconda del fine comunicativo

che la notazione grafica si propone. (Massironi, 1982).

La portata dello strumento d’analisi ci sembra notevole sia applicato

in riferimento allo sviluppo grafico, che considerato come strumento

critico per gli studi che sono stati fatti a riguardo.

Se osserviamo la differenza tra il disegno a funzione operativa

(disegno che riguarda quegli schemi grafici che devono essere

interpretati da un esecutore per realizzare un’opera: schemi elettrici,

piante di case…) e quello a funzione illustrativa230, vediamo che

cambia non solo il piano di rappresentazione ma anche la tipologia di

tratto in rapporto all’uso della traccia. Disegno a funzione

tassonomica231 e a funzione operativa mantengono invece lo stesso

230 «La funzione illustrativa può accogliere al suo interno quel corpus di elaborati grafici che si propongono di rappresentare gli oggetti, le scene, i paesaggi cercando di approntare e organizzare gli stimoli percettivi in modo da produrre nell’osservatore vissuti analoghi a quelli provenienti da oggetti, scene, paesaggi dello stesso tipo osservati nella realtà.

Non è certamente preclusa, a questo tipo di notazione, la possibilità di rappresentare, in maniera illustrativa-spettacolare, situazioni od oggetti inesistenti. Queste immagini sono però costruite come se fossero osservate in un’ipotetica realtà che viene descritta illustrativamente, cioè allusivamente, in modo che chi la osserva l’assuma come percettivamente credibile: rappresentazione di un mondo riconoscibile anche se sconosciuto. Questo processo può instaurarsi proprio perché le modalità di realizzazione dell’elaborato seguono le regole e utilizzano gli strumenti propri della funzione illustrativa» (Massironi, 1982, pp. 29-30). 231 «Le immagini elaborate in vista di una funzione tassonomica presentano dei tratti costanti […] il più caratteristico dei quali consiste nell’uso del piano di rappresentazione frontale su cui però il segno variato e la tessitura contribuiscono a fornire l’impressione di un’immagine di tipo illustrativo.

Le regole strutturali su cui si basa la rappresentazione tassonomica sono le seguenti:

a) uso del piano frontale;

b) segno variato nelle sue tre declinazioni;

c) abolizione dello sfondo visto come elemento di disturbo alla lettura del disegno. In ciò si assiste ad un superamento del metodo prospettico: non è stato facile ed immediato, per i disegnatori, rinunciare a quella conquista suggestiva anche quando le esigenze comunicative lo richiedevano […]. Ora, invece, non solo si rinuncia allo sfondo,

d) ma si forza anche la rigida fissità del punto di vista pur di andare ad indagare i tratti significativi delle strutture».

Il disegno «sembra rappresentare un individuo della specie osservato-copiato dal vero, ma ad un più attento esame ci rendiamo conto che ciò non è vero; l’immagine che guardiamo è sì un individuo della specie descritta, ma è un

308

piano di rappresentazione ma variano rispetto alla tipologia di tratto

utilizzato per i diversi segni.

Differenti esigenze di visibilità assieme ad altrettante diverse

modalità di intendere la visibilità, ci restituiscono il disegno come

strumento cognitivo e come modalità espressiva-comunicativa

altamente articolata (e codificata).

Una prima considerazione che possiamo azzardare tenendo

presente la tabella, che, come sottolineato dall’autore, non ha

pretese di esaustività rispetto alle ancora varie modalità codificate

dalla nostra cultura di “fare disegno”, è che gli studi sul disegno

infantile, sia quelli di matrice “intellettuale” che “artistica”, si sono

concentrati sugli elementi secondari del disegno (uso dei piani di

rappresentazione), piuttosto che su quelli primari.

Al contrario, la ricerca della Kellogg (l’analisi minuziosa degli

scarabocchi base, il loro posizionarsi in modelli di posizione, la

formazione dei diagrammi, degli aggregati, dei soli, delle radiali e dei

primi schemi figurativi) può essere considerata un primo sistematico

tentativo di studio degli elementi primari.

Una seconda considerazione riguarda l’attenzione che è stata

riservata al disegno a funzione illustrativa, il cui sviluppo ha segnato,

nella teoria di molti, il traguardo finale dello sviluppo del disegno

infantile tout court.

Se ci volessimo attenere alla tabella potremmo poi scoprire che il

disegno illustrativo è caratterizzato dall’uso di piani longitudinali o

variamenti inclinati, un uso dello spazio rappresentativo non

caratteristico del disegno dei bambini: quest’ultimo risulta essere più

individuo emblematico, costruito appositamente per esporre dichiaratamente quegli attributi visivi su cui potrà basarsi un discorso di ordinamento e di sistematizzazione morfologica […] E’ per questa ragione che ancora oggi si preferisce usare il disegno piuttosto della fotografia; perché la fotografia, riprendendo un individuo non potrebbe prescindere dai tratti singolari e fuorvianti, mentre il disegno lo può fare in maniera elegante e convincente» (Ibidem, pp. 45-48).

309

vicino al disegno scientifico o, ancora di più, a quello tassonomico,

visto che è eseguito a mano libera.

Alcuni disegni dei bambini sembrano poi più vicini al disegno

geometrico (per uso di proiezioni e ribaltamenti) che a quello

“naturalistico”.

Tuttavia il disegno “spontaneo” dei bambini è ancora precedente

qualunque modalità codificata di produzione, ad uno stadio

precedente l’articolazione dei diversi contenuti storico-culturali

riportata in tabella, quindi, non può nemmeno essere considerato

propriamente né tassonomico, né illustrativo, né scientifico

fermo restando che, realizzandosi lo sviluppo in un contesto culturale

caratterizzato da una differenziazione delle regioni grafiche, le diverse

regioni dovrebbero essere tenute tutte presenti quanto meno come esiti

dello sviluppo stesso. (Pizzo Russo, 1982, p. 153).

Senza incorrere nell’errore di leggere la genesi del disegno come

finalizzata in un senso piuttosto che in un altro, vorremmo poter

considerare l’età evolutiva come quel periodo in cui il bambino della

nostra cultura sviluppa i concetti rappresentativi di base necessari ai

molteplici esiti specialistici.

Il disegno, tutto il disegno, «è ciò che rende visibile la natura delle

cose» (Arnheim, 1954, p. 147) ma il compito apparentemente

elementare di raffigurare su un foglio le proprietà “essenziali” della

sagoma di un oggetto è tutt’altro che facile.

Abbiamo visto in un paragrafo precedente come Arnheim, per

spiegare lo sviluppo del concetto rappresentativo, ricorra al processo

di differenziazione individuandone la direzione dal «generale al

particolare»232. La legge di differenziazione è essenziale per

232 Dello stesso parere è anche Gombrich secondo il quale «la nostra mente, ben inteso, funziona in base alla differenziazione, piuttosto che per generalizzazione; e un bambino per molto tempo seguiterà a chiamare tutti i quadrupedi “cavallino”, finché non avrà imparato a distinguere le varie specie di quadrupede e le loro “forme”» (Gombrich, 1963, pp. 4-5).

310

comprendere l’andamento evolutivo degli elementi primari (sia di

primo che di secondo livello) individuati da Massironi.

Relativamente alla produzione di segni, sappiamo che il bambino già

a 2 anni, è in grado di produrre i tre tipi di linea (oggetto, margine,

tessitura): negli scarabocchi base individuati dalla Kellogg, tutte e tre

le tipologie di segni non solo sono presenti, ma caratterizzano la

composizione degli scarabocchi.

Quando il bambino inizia a comprendere il valore segnico delle sue

linee, usa di preferenza il segno-margine e il segno-oggetto in

funzione rappresentativa, mentre il segno-tessitura è utilizzato solo

per riempire spazi vuoti.

Esempio eloquente di segno-oggetto, è la grafica di Dorian (4,1)

nella rappresentazione del padre in figura 67, p. 42; mentre in figura

111, p. 71, Leon (4,6) utilizza le due tipologie di linea nella medesima

grafica: una linea a spirale aperta (scarabocchio n. 15 nella

classificazione della Kellogg) per “l’elefante”, e segni margine per “i

bambini che stanno giocando il gioco degli animali”. Felix (5,10) in

figura 45, p. 29, utilizza la stessa tipologia di segno per

rappresentare il corpo dei suoi canguri e rispondere alla necessità

informativa rispetto alle caratteristiche dinamico-funzionali dei suoi

soggetti.

In un secondo momento, anche il segno-tessitura assumerà valore

rappresentativo per caratterizzare ad esempio la terra, il prato, il

cielo, il fumo del camino o per altri elementi.

Diverse tipologie di segno possono coesistere nella medesima

grafica, come in figura 112, p. 72, in cui Fabrizio (6,3) utilizza il

segno-margine per rappresentare la casa, il sole, il volto delle figure;

il segno-tessitura per il cielo, il fumo che esce dal camino, i capelli; il

segno-oggetto per le mani e, in modo ancora non del tutto

differenziato segno-oggetto e segno-margine per la rappresentazione

del corpo delle diverse figure (tronco/gambe).

311

Segno-oggetto, segno-margine, segno-tessitura si compongono per

dare forma a concetti rappresentativi sempre più differenziati e

complessi: la forma si differenzia per suddivisione e per fusione.

Le difficoltà che sorgono in questo processo dialettico riguardano la

relazione tra le unità che hanno “preso forma” e la soluzione a

questo problema comporta la comprensione che

la parte va modificata nell’interesse del tutto; [in quanto] la forma

ed il comportamento particolare della parte sono comprensibili

soltanto entro la funzione di essa entro l’insieme. In quanto

problema conoscitivo, l’interazione pone difficoltà a tutti i livelli del

pensiero teorico; in quanto problema di interazioni personali, resta

per molti sempre insolubile. (Arnheim, 1969, p. 312).

Nei primi stadi dello sviluppo, la relazione tra le parti non modifica i

singoli elementi, né essa viene trattata in relazione al tutto. In figura

112, p. 72, ad esempio, il camino è perpendicolare al tetto, ma non

alla casa.

In figura 113, p. 73, riportiamo invece alcune soluzioni elaborate dai

bambini per rappresentare una tartaruga233.

Emily [114-a] sceglie una vista dall’alto (o dal basso?) per

rappresentare il guscio, la coda e le (sei) zampe, e una prospettiva

frontale per il muso; Giulia [114-b] sceglie invece una vista di lato per

233 Nel periodo in cui sono state raccolte le grafiche, i bambini stavano partecipando ad un laboratorio di teatro della durata complessiva di nove ore (un incontro settimanale della durata di un’ora) condotto da un esperto esterno che proponeva loro, utilizzando come sussidio didattico un libro illustrato (cfr. C. Carminati, R. Angarano, Il carnevale degli animali ispirato alla grande fantasia zoologica di Camille Sain-Saën, Fabbri Editori, 2004), la narrazione di storie che avevano come protagonista un animale diverso per ogni incontro. Nel corso del laboratorio, i bambini avevano la possibilità di osservare le immagini che raffiguravano gli animali (durante la narrazione, ma anche nei giorni successivi, in quanto il libro era a loro disposizione in sezione) e di sperimentarne, attraverso la drammatizzazione, le “caratteristiche” attraverso le attività che di volta in volta erano proposte dall’esperto. L’argomento del laboratorio era poi approfondito nei giorni successivi con le insegnanti di sezione attraverso conversazioni, visione di altri libri che trattassero l’animale oggetto del laboratorio, rappresentazioni grafico-pittoriche e plastiche.

312

il corpo e non “sacrifica” parte del guscio (come invece aveva fatto

con uno dei due occhi nella rappresentazione del muso), rispettando

la prospettiva scelta per il corpo, preferendo una rappresentazione

per intero dello stesso con vista dall’alto. Mariano [114-c] opera la

stessa scelta fatta da Giulia (una rappresentazione di “profilo”) ma, a

differenza di Giulia, è disposto a “sacrificare” due gambe e parte

della forma del guscio per sottolineare la vista di lato, ma non

rinuncia ai lineamenti del muso: i due occhi mettono in prospettiva

frontale la testa della tartaruga. Linda [114-d] propone il guscio visto

dall’alto, il corpo, nell’insieme, sembra essere visto di lato, e il muso

è rappresentato di fronte. Infine la tartaruga di Nadia [114-e] ha

guscio e corpo visti dall’alto e il muso di profilo.

In molti degli esempi precedenti possiamo vedere lo stesso

procedimento: particolarmente informativo a riguardo è il disegno di

Martina (5,11) in figura 61, p. 38, in cui la prospettiva dall’alto della

carrozzina, contrasta fortemente con quella frontale delle altre figure

della famiglia.

Lungo lo sviluppo, da soluzioni «su scala ristretta e locale» il

bambino passa a soluzioni in cui il contesto di riferimento si fa

sempre più ampio più ampio, e gli elementi si articolano

maggiormente in connessioni reciproche.

Abbiamo anche visto che tra gli elementi primari Massironi distingue

quelli di primo livello (le varie tipologie di segni) e quelli di secondo

livello (il piano fronto-parallelo e quello longitudinale o variamente

inclinato); sembrerebbe che questi due piani siano di secondo livello

anche da un punto di vista dello sviluppo del grafismo. Mentre nello

“stadio” dello scarabocchio, il bambino sperimenta le diverse

tipologie di segno [figure 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16,

17, 18, 19, 20, 21, pp. 7-16; figure 24 25, 26, 27, pp. 18-19; figure 30,

31 pp. 21-22; figura 39, p. 26], il disegno prevede un’attenzione

crescente rispetto all’uso del piano di rappresentazione [si rimanda in

particolare alle figure 51, 52, 53, 54, 55, pp. 33-35; figure 58, 59, 60,

313

61, 62, 63, 64, 65, 66, pp. 36-41; figure 81, 82, 83, 84, 85, 86, pp. 50-

53; figure 92 e 93, p. 57; figura 95, p.59].

Del resto le rispettive rappresentazioni non discendono direttamente

dalle proprietà strutturali del medium bidimensionale, qual è quello del

disegno, ma dalla conoscenza e dall’acquisizione di particolari tecniche

rappresentative – la prospettiva e le proiezioni ortogonali –

estremamente sofisticate e capaci di rendere conto delle tre dimensioni

dello spazio attraverso le due dimensioni del piano. (Pizzo Russo, 1982,

p. 238).

Il foglio bidimensionale impone determinate condizioni alla

realizzazione della tridimensionalità: i bambini possono scegliere di

rappresentare per ognuna delle figure che intendono raffigurare il

piano di base che meglio le caratterizza [come ad esempio in figura

114, p. 74], oppure danno vita al fenomeno della “trasparenza”, che

può essere letta come l'interazione di due piani fronto-paralleli “visti”

uno dietro all’altro.

Finché la veduta bidimensionale non si differenzia dalla veduta

proiettiva, la superficie pittorica piana serve a rappresentare entrambe.

Questo si ottiene in due modi. Il bambino può servirsi della dimensione

verticale della superficie piana per fare una distinzione tra alto e basso e

di quella orizzontale per distinguere tra destra e sinistra, ottenendo così

quello che chiamerò lo “spazio verticale”. Oppure può usare le due

dimensioni per indicare le direzioni della bussola proiettate sul piano del

terreno, il che produce uno “spazio orizzontale”. Oggetti in posizione

eretta, come esseri umani, alberi, pareti, gambe di tavoli, risultano in

maniera chiara e caratteristica nello spazio verticale, mentre giardini,

strade, piani di tavoli o tappeti esigono lo spazio orizzontale. Un’ulteriore

difficoltà sorge per il fatto che nello spazio verticale uno solo degli

innumerevoli piani verticali può venir rappresentato in maniera diretta,

cosicché la raffigurazione di una casa è possibile solo per quanto

riguarda la facciata frontale, ma non per quelle laterali

314

contemporaneamente. Per questo deve ricorrere a qualche espediente

di rappresentazione indiretta. Allo stesso modo, nello spazio orizzontale

possono apparire piatti sul tavolo ma non, nella stessa figura, il cane

sotto il tavolo. (Arnheim, 1954, pp. 173-174).

In figura 60, p. 37, Jonny (5,6) utilizza la dislocazione degli elementi

della rappresentazione all’interno del “piano verticale” per rendere la

terza dimensione: il palcoscenico è collocato in alto (più “lontano”),

sotto i personaggi, e nella parte finale gli spettatori visti “a rovescio”.

Nelle figure 114 e 115, p. 74 abbiamo due diversi esempi di

“trasparenza” dovuti invece all’incrociarsi dei diversi piani della

rappresentazione. Nella prima figura Glenis (6 anni) sovrappone il

piano orizzontale dell’auto, con quello verticale del guidatore, mentre

nella seconda immagine, Marta cerca di rendere la terza dimensione

con un procedimento “più tecnico”: prima si disegna, e poi “si

traveste” sovrapponendo i due piani verticali.

Si rivedano ad esempio i disegni precedenti raffiguranti case o

palestre: essi possono essere considerati «equivalenti

bidimensionali» dei medesimi soggetti, piuttosto che case o palestre

“trasparenti”.

Arnheim (1954) dichiara che si tratta di accorgimenti prospettici che

hanno le loro esemplificazioni, oltre che nei disegni infantili, nelle

pitture murali egiziane e ci invita ad essere cauti nella valutazione di

questo procedimento raffigurativo in quanto

la rappresentazione pittorica è basata sul concetto visivo dell’oggetto

tridimensionale nella sua totalità; il metodo di copiare un oggetto o un

insieme di oggetti da un punto di osservazione fisso – all’incirca il

procedimento impiegato con la macchina fotografica - non è più fedele

alla concezione visiva globale di quanto non sia quello usato dagli

egiziani. (Ibidem, p. 105).

315

e, aggiungeremo noi, dai bambini. In questo e in altri casi dimostrano

una sensibilità eccezionale e immediata per le condizioni imposte dal

medium, e sono spesso molto competenti nell’utilizzare informazioni

aggiuntive per realizzare le loro rappresentazioni.

Dopotutto le loro produzioni non fanno altro che contraddire una

convenzione che “raramente” è messa in discussione: quella di

includere in un disegno soltanto ciò che è visibile da un unico punto

di vista. «Per quanto riguarda gli artisti primitivi, possiamo supporre

che la convenzione non venga seguita e possiamo chiedere a noi

stessi: perché dovrebbe esserlo?» (Goodnow, 1977, p.72).

I concetti rappresentativi di questo tipo presentano tuttavia delle

“ambiguità” dovute al fatto che

le unità bidimensionali dei disegni sono a seconda della necessità, degli

equivalenti di solidi oppure gli aspetti bidimensionali della superficie

esterna degli oggetti stessi o entrambi contemporaneamente […]. Ed è

proprio a causa di questa ambiguità che questo metodo viene usato

soprattutto in stadi evolutivi primitivi e viene abbandonato molto presto

dai bambini occidentali234.

La legge della differenziazione e le peculiarità del medium grafico,

consentono di dare una spiegazione coerente a tutte le

caratteristiche “tipiche” del disegno infantile, caratteristiche che

hanno portato alle due grandi correnti interpretative, della concezione

intellettuale e dinamica.

234 Arnheim, 1954, p. 173. Secondo A. Oliverio Ferraris «con l’acquisizione della prospettiva la rappresentazione si subordina a un unico punto di vista e il ragazzo impara a immobilizzare gli altri aspetti della realtà in funzione di quell’unico scelto, il che può impoverire quella visione dinamica delle cose che è la caratteristica principale della fase evolutiva precedente. Nel periodo pre-prospettico il bambino, rappresentando diverse angolazioni di uno stesso soggetto, fa confluire tutta la somma delle sue conoscenze intellettuali e delle sue emozioni sulle cose che rappresenta; riferisce cioè la realtà sulla base dei suoi apprendimenti, delle sue relazioni mentali, mnemoniche e psichiche». (Oliverio Ferraris, 1973, p. 56).

316

Nel disegno di Jonny (5,7) in figura 116, p. 75, confluiscono gran

parte di queste caratteristiche: la compresenza di diversi punti di

vista (il gatto, il mulino, il grano e il bidone visti di fronte; la strada

dall’alto); il fenomeno della “trasparenza” (il mulino) e del

ribaltamento (il gatto e il bidone che si “aprono” lungo la strada).

Altre caratteristiche del medium bidimensionale condizionano l’esito

finale della rappresentazione: analizzando gli aspetti processuali che

la raffigurazione comporta abbiamo visto come in ogni disegno sia

sempre implicita una sequenza e una direzione di movimento che ha

effetto sulle possibili fasi successive, aumentando o limitando le

facoltà di scelta. Questo condiziona la scelta e la modalità

rappresentativa degli elementi da enfatizzare o eliminare, a seconda

di quello che vuole essere “il messaggio” finale.

Ad esempio, in figura 117, p. 75, Alexey (5,10) è “costretto” ad

indicare la strada di casa al contadino che guida il trattore: avendo

finito lo spazio a disposizione nella parte inferiore del foglio, e

avendo proposto un altro tema rappresentativo, trova nella freccia

(elemento grafico a tutti gli effetti, anche se non ha carattere

mimetico) una soluzione convincente per dare continuità alla sua

rappresentazione. L’ordine in cui sono stati disegnati gli elementi,

non è lo stesso in cui di seguito sono stati verbalizzati. La sequenza

rappresentativa è stata:

trattore/contadino/terra/erba/nuvole/pioggia/pozza/bambino/freccia/c

asa.

In didascalia riproponiamo l’ordine in cui ha successivamente

verbalizzato all’adulto il disegno.

La tartaruga di Desiree (5,7) in figura 118, p. 76, sembra invece

piuttosto “sbilanciata in avanti”. La sequenza con cui la bambina ha

disegnato è stata: guscio, testa con tratti del volto, prima gamba a

sinistra, seconda, terza e quarta (da sinistra a destra), coda,

particolari del guscio. Affinché la sua tartaruga potesse stare “in

317

piedi” ha dovuto allungarle le gambe creando uno strano effetto di

piegamento.

Il problema degli “spazi disponibili” può spiegare diverse

caratteristiche delle grafiche dei bambini, comprese le posizioni

assegnate ai dettagli.

Nella rappresentazione grafica di Fabrizio (6,3) in figura 112, p. 72,

non solo la casa è posta sopra alla famiglia, come se fosse sospesa

in aria, ma due delle figure rappresentate (lui e il fratello) non hanno

le braccia. La consegna era il disegno della famiglia (una consegna

molto utilizzata in ambito clinico), e Fabrizio ha iniziato a disegnare

nell’angolo in basso a sinistra e ha proceduto verso destra. La prima

figura, le cui braccia sono perpendicolari al corpo, ha causato

l’omissione delle braccia della seconda, dal momento che Fabrizio

ha posizionato la testa della seconda troppo vicina alla prima; la

terza figura aveva invece spazio disponibile per includere le braccia,

ma non la quarta. Infine l’unico spazio disponibile rimasto per

disegnare anche la sua casa era quello in alto. Il contrario di quello

che è successo a Livia (5 anni), [fig. 100, p. 61], che nel disegno

dello stesso tema, avendo iniziato a disegnare dalla sua casa, è

stata costretta a mettere poi i componenti della famiglia “in aria”.

Analoghi problemi di “spazio disponibile” si possono osservare anche

in figura 2a (una torta esageratamente grande rispetto alle persone);

in figura 83, p. 51, (un serpente realisticamente attorcigliato per stare

nel foglio); nelle figure 33, p. 23, e 65, p. 40, (dove le lunghe gambe

delle figure completano lo spazio disponibile nel foglio).

Allo stesso modo, i treni di Jonny [figura 94, p. 58] vanno a sinistra

(quando è stato in grado di produrre una locomotiva soddisfacente,

la disegnava per prima in basso a sinistra) mentre, i trattori di Alexey

[figure 95, p. 59 e 117, p. 75] vanno tutti a destra. Alexey è infatti

mancino, e inizia a disegnare sempre partendo dall’angolo in basso a

destra, procedendo verso sinistra.

318

Nel suo disegno Glenis (6,3), in figura 119 p. 76, ha dovuto

organizzare lo spazio del foglio su “due piani”. Ha disegnato prima un

grosso camion con il rimorchio che avrebbe dovuto portare i regali di

Natale. Lo spazio disponibile rimasto per disegnare la casa era

quello sopra al camion, mentre, la macchina, messa a fianco della

casa, non può che andare “là in fondo”, fuori dal foglio, come ha

indicato durante la verbalizzazione.

Si confronti questa immagine con la figura 86, p. 53, (Jonny 5,8). In

questo caso è interessante notare le somiglianze tematiche e

stilistiche delle due rappresentazioni: entrambe i disegni fanno

riferimento a situazioni di “regali”; hanno in primo piano un camion

con rimorchio caratterizzato da elementi molto simili tra loro (si

vedano ad esempio l’antenna con il filo a zig-zag o la scritta con il

nome dell’autore del disegno), una casa (attraversata da una scala,

con la stessa porta, e la medesima tipologia di finestra e antenna) e

un’auto; i camion sono rappresentati nella parte inferiore del foglio, la

casa sopra ai camion e le automobili nella stessa posizione. Ci sono

poi molti elementi comuni: altoparlanti, uno stesso motivo decorativo

che corre su un lato del camion, uno stesso numero (1 nella grafica

di Glenis, 10000 e 0001 in quella di Jonny), diagrammi con croce

greca racchiusi in un quadrato (finestre ?)…

Nella stessa mattina i due bambini (molto amici tra di loro) si erano

organizzati autonomamente nei tavoli della sezione (come spesso

facevano durante le ore di attività libera) e si erano confrontati

diverse volte durante la produzione, scambiandosi pensieri,

commenti, temi. Le due verbalizzazioni sono invece molto diverse:

mentre Jonny narra con ricchezza di particolari la storia che la sua

grafica rappresenta; Glenis si dimostra disinvolto nella prima parte, e

impacciato nella seconda (il tema della macchina del presidente

Obama mi è sembrato inventato sul momento, non essendo né

argomento di conversazione tra i due durante la produzione, né

argomento di conversazione in classe quanto piuttosto argomento di

319

cronaca del periodo…). Il prodotto non restituisce l’aspetto

relazionale e nemmeno la dinamica di scambi di temi, idee, emozioni

avvenuti durante la produzione, che hanno avuto senz’altro un ruolo

fondamentale nel prodotto finale, come del resto, in generale, non lo

restituiscono tutti gli altri prodotti… che si presentano dotati di una

loro ontologia, indipendente e lontana dal contesto di produzione.

La legge della differenziazione è utile anche per comprendere un

altro aspetto dello sviluppo relativo alle aree di contenuto.

Massironi dimostra che lo sviluppo di determinate aree di contenuto

nella storia, ha comportato un diverso trattamento degli elementi

primari (di primo e secondo livello) in vista delle particolari finalità che

via via andavano determinandosi. Oggi «la produzione disegnativa

può essere suddivisa in grandi blocchi in cui i metodi e le tecniche

grafiche utilizzate risultano strutturalmente differenti» (Massironi,

1982, p. 65). In questo senso, occorre vedere il disegno

non più come sistema aperto, completamente soggetto all’invenzione,

ma regolato da norme abbastanza vincolanti, e quello che è più

importante, non stabilite una volta per tutte, ma che vengono

formalizzandosi in tempi successivi, man mano che un contenuto

informativo esige prepotentemente un codice di comunicazione: come è

stato per la prospettiva prima, le proiezioni ortogonali poi; del disegno

caricaturale, dei diagrammi, o dei marchi e segnali nel periodo attuale.

(Ibidem, p. 75).

Le regole che presiedono alla produzione-fruizione delle varie aree di

contenuto sono state elaborate nel corso dei secoli per rispondere a

precisi fini comunicativi che via via si sono delineati.

Quando parliamo del disegno del bambino siamo al di qua della

differenziazione delle aree di contenuto e progressiva costituzione delle

relative regole di produzione e di fruizione. Siamo nel momento in cui si

sta sviluppando il codice minimo per elaborare equivalenti indifferenziati

320

rispetto alle aree di contenuto. Il livello di articolazione del concetto

rappresentativo, precedente alla differenziazione delle aree di

contenuto, è il livello massimo che nella nostra cultura viene raggiunto

senza un intervento educativo specificatamente rivolto al disegno. (Pizzo

Russo, 1988, p. 241).

In quest’ottica, il realismo visivo, come disegno che include le regole

prospettiche, non è propriamente una fase dello sviluppo del disegno

del bambino, bensì una delle modalità adulte di disegnare, nonché,

fatto ben più importante, il modello prevalente di valutazione “del

disegno” nella nostra cultura.

Se volessimo poi considerare il realismo intellettuale potremmo

vedere in esso sia l’esito di una fase di sviluppo del disegno infantile

che una modalità rappresentativa presente nel disegno adulto

specialistico (in quello architettonico, operativo, geometrico e in

alcune correnti artistiche come nel cubismo).

Realismo intellettuale e il realismo visivo possono essere letti come

due tendenze evolutive individuabili nel corso dello sviluppo, e, nei

loro esiti adulti e specialistici, alla luce della tabella di Massironi,

come caratterizzate, l’una dal piano fronto-parallelo, e l’altra da

quello longitudinale o variamente inclinato.

Dopo lo scarabocchio (realismo fortuito) e il breve periodo del realismo

mancato, la fase del realismo intellettuale, variamente denominata dagli

studiosi, sarebbe allora quella fase durante la quale il bambino sviluppa i

concetti rappresentativi di base, precedenti ad ogni specializzazione, e

necessari ad ogni ulteriore sviluppo, sia esso nella direzione del

realismo intellettuale adulto o del realismo visivo inteso nella maniera

luquetiana. (Pizzo Russo, 1988, p. 243).

Se poi prendiamo in considerazione il realismo visivo individuato da

Piaget, che corrisponde alla conquista dello spazio euclideo,

potremmo affermare che esso non è lo stadio conclusivo del disegno

321

infantile, ma il momento evolutivo durante il quale il bambino della

cultura occidentale, diventa sempre più sensibile alle nozioni della

geometria che la scuola gli va insegnando. «Ma proprio per questo

può essere inteso come un inizio di differenziazione guidata

dall’ambiente» (ivi) e il momento in cui viene collocato da Piaget

(attorno agli otto-dieci anni), può essere considerato momento

cruciale per l’avvio di tutte le specializzazioni previste dalla tavola di

Massironi, piuttosto che il momento del “declino dell’arte infantile”.

4.3 Il disegno tra esplorazione e conoscenza

Disegnare, dipingere, modellare sono attività che dipendono dalla

percezione ma che, contemporaneamente, ne prendono le distanze:

entra in questione una mediazione, la ricerca di un sistema di

rappresentazione che riproduca nel mezzo e col mezzo propri del

disegno e della pittura o di altre condizioni tecniche le acquisizioni

percettive. E così il bambino che pure vede, sa fare tante cose, sul piano

della rappresentazione, a una certa età, non possiede, oltre agli

scarabocchi, altro che il cerchio: è il suo semplicissimo ma duttile

sistema di rappresentazione. Erroneamente lo faremmo corrispondere al

suo mondo percettivo già complesso e differenziato. (De Bartolomeis,

1984, pp. 186-187).

In questo paragrafo considereremo i disegni come sistemi di

rappresentazione; e vedremo come l’attività grafica sia per il

bambino mezzo per conoscere, interrogarsi, porsi e risolvere

problemi; strumento per agire e ed esplorare. Ciò ci condurrà a

toccare indirettamente il rapporto tra conoscenza/media da una parte

e media/processi cognitivi dall’altra.

322

Il bambino che dipinge fa qualcosa di più che esercitarsi in una libera

manipolazione e in una pura sperimentazione con il colore e la forma:

esprime - in una certa misura e con il sistema rappresentativo di cui è

capace - il grado, la struttura, il contenuto e la direzione dei suoi

adattamenti […].

La concezione evolutiva del narrare e del ragionare infantili ci porta di

fronte al sentimento, ma senza unilateralità; cioè possiamo dire che

l’affettività ha in essi un posto determinante ma non al punto di fare del

bambino un essere incapace di pensiero problematico, di movimento

logico e di cosciente inserimento nella realtà. Dunque l’affettività è

importante a causa sia della particolare struttura delle attività infantili sia

delle loro particolari emozioni; ma non si deve dimenticare che il

bambino, per vivere, deve adattarsi alla realtà e non vi si può adattare

senza l’impiego degli strumenti intellettuali richiesti per la soluzione di

problemi. (Ibidem, pp. 190-191):

Ogni rappresentazione grafica, per quanto possa essere fedele alla

realtà, è sempre un’interpretazione, una finzione, un tentativo di

spiegazione della realtà stessa.

Massironi avverte che nella storia dell’arte e dei processi

rappresentativi si sia spesso verificato un equivoco: ritenere che il

fine di tali processi consistesse in una riproduzione veridica, fedele

ed equivalente alla realtà raffigurata, piuttosto che nell’elaborazione

di un suo sostituto235.

235 «Nella comunicazione grafica-disegnativa si può notare sovente che un atteggiamento del fruitore è quello d’impegnarsi nei confronti dell’immagine in maniera analoga a ciò che avverrebbe nei confronti degli oggetti rappresentati, qualora fossero presenti.

E ciò che più colpisce è il fatto che questi comportamenti si esplicano nonostante tutti i fruitori siano pienamente coscienti che non dell’oggetto si tratta, ma di una sua apparenza fantasmatica, che però viene assunta in funzione suppletiva e utilizzata come una protesi cognitiva utile a riempire il vuoto dovuto alla mancanza dell’oggetto. Elenchiamo allora di seguito alcune condizioni in cui il comportamento del fruitore della rappresentazione concreta diventa simile a quello del fruitore dell’oggetto; oppure si pone nei confronti del sistema di rappresentazione in posizione o critica o benevola, vedendo in tale sistema quasi un metodo di produzione degli oggetti e non delle loro immagini.

323

Dalle affermazioni di Giotto alla nascita della prospettiva, dalla scoperta

della fotografia a quella dello stereoscopio, l’equivoco si è ripetuto.

Oggi nessuno crede più nella pretesa oggettività dei mezzi di

comunicazione e ciò non per subdolo comportamento dell’emittente, ma

per un fatto intrinseco al processo: ogni messa in codice esige delle

scelte. (Massironi, 1982, p. 55).

Il disegno si situa nell’ordine della rappresentazione. Per disegnare

occorre elaborare un equivalente strutturale delle qualità di un

“oggetto” nelle caratteristiche del medium proprio di questa attività.

La prima scelta consisterà nel privilegiare le qualità visive e nel

1. Se, mostrando un’illustrazione ad una persona, le si chiede: Questo che

cosa è?, la risposta sarà: “E’ un cavallo” o “un uomo” e non “Questo è il disegno” o “la foto” o “la pittura” di un cavallo o di un uomo, rispettivamente

2. A volte i bambini si divertono a metterci in imbarazzo con domande del tipo: “Esiste un cane azzurro?” Ed alla nostra risposta negativa, ribattono “Sì che esiste, perché io te lo disegno”. Per loro fra oggetto e sua rappresentazione non c’è molta differenza.

3. Non c’è molta differenza nel passaggio dal vivo all’immagine sostitutiva in certe pratiche magiche o religiose.

4. Tutte le regole religiose collegate all’iconoclastia nascono dal concepire le immagini come blasfeme in quanto rappresentano una forma di concorrenza alla divinità nell’atto creativo di una realtà concreta.

5. Spesso nei manifesti pubblicitari, per le strade, si trovano scritte o interventi di passanti […] che fanno intuire una manipolazione, non nei confronti dell’elemento concreto – un foglio di carta – ma nei confronti della cosa raffigurata […].

6. Mitologie, leggende, racconti, o poesia nelle culture dei più lontani popoli della terra parlano di immagini create da artisti che, per qualche ragione, diventano realtà: è esemplare a questo proposito il mito di Pigmalione.

7. Diversi artisti nei loro scritti hanno sottolineato la facoltà evocatrice derivante dal loro potere di costruire immagini: facoltà che permette loro di dar vita in modo potente e concreto a realtà strane o buffe o lontane […].

8. E’ invalso nella pubblicità l’uso di far dialogare la rappresentazione in forma diretta con il possibile fruitore: uso del “tu” confidenziale, indicazioni minacciose, ammiccamenti.

9. Va menzionato anche l’impiego che viene fatto dell’immagine nelle operazioni di dimostrazione – o persuasione – scientifiche, religiose, ecc. in cui l’immagine funziona come sostituto o come evocazione dell’oggetto o del fatto di cui si parla. In questi casi, il fatto che si usino immagini di sostegno rende più credibile la proposizione verbale» (Massironi, 1982, pp. 58-59).

324

trascurare le altre. Nel rappresentare una tartaruga ci si dovrà

concentrare sulla forma del guscio, sulla forma delle zampe e non

sulla viscosità che le è propria; ma per rendere informativo

l’elaborato si dovranno effettuare delle scelte anche tra le qualità

visive: «l’accettabilità dell’immagine di un oggetto dipende dal criterio

del disegnatore e dallo scopo della raffigurazione» (Arnheim, 1954,

p. 147).

Studiare il disegno significa prendere in considerazione la capacità

umana di significare, quella capacità per cui un semplice cerchio può

rappresentare un bambino, un albero, un occhio e tante altre cose.

La costruzione delle rappresentazioni concrete tiene conto dei

processi percettivi e produce elaborati che favoriscono

nell’osservatore impressioni simili a quelle prodotte dagli oggetti

raffigurati.

Nasce allora l’equivoco della equivalenza dei due momenti. Ma quando

diciamo che un’immagine sembra vera, con la locuzione “sembra”

affermiamo due vissuti contrastanti: siamo cioè coscienti di trovarci di

fronte ad informazioni visive molto convincenti, dello stesso tipo di quelle

forniteci dal mondo reale, ma nello stesso tempo siamo sicuri che sono

fittizie, provenienti cioè da una parziale illusione di realtà. Ciò avviene

per effetto di una trasposizione materiale di dati. La materia molteplice e

variabile delle cose rappresentate, viene trascritta in un’altra materia che

è quella del segno sulla superficie, nella molteplicità e variabilità del

segno. (Massironi, 1982, pp. 55-56).

Come ha opportunamente precisato Arnheim

indiscutibilmente i bambini vedono più di quello che disegnano; all’età in

cui già riescono facilmente a distinguere tra persona e persona e notare

la più piccola alterazione in un oggetto familiare, i loro disegni restano

del tutto indifferenziati e le ragioni di ciò sono da ricercarsi nella natura e

nella funzione del processo rappresentativo. (Arnheim, 1954, p. 147).

325

Dallo studio psicologico dell’arte Arnheim argomenta che l’attività

artistica è una forma di ragionamento236.

L’immagine disegnata non è copia dell’oggetto, né replica esatta

dell’immagine mentale237 di quell’oggetto; anzi, nel disegnare,

l’immagine mentale “c’è e non c’è”.

236 Abbiamo precedentemente visto che cosa intenda Arnheim con arte, ovvero «ciò che rende visibile la natura di un oggetto». Secondo l’autore «pensare esige immagini, e le immagini contengono pensiero. Perciò, le arti visive costituiscono un terreno familiare del pensiero visuale […]. Trattare l’arte come una forma di pensiero visuale può apparire indebitamente unilaterale. L’arte adempie ad altre funzioni, spesso considerate primarie. Crea la bellezza, la perfezione, l’armonia, l’ordine. Rende visibili cose invisibili, o inaccessibili, o del tutto fantastiche. Dà espressione alla gioia o alla tristezza. Nulla di tutto ciò si nega qui; ma per adempiere a tali funzioni, occorre compiere un vasto lavoro di pensiero visuale. La creazione della bellezza pone problemi di selezione e di organizzazione. Similmente, rendere visibile un oggetto significa coglierne i tratti essenziali […]» (Arnheim, 1969, p. 299). 237 Nella concezione di Arnheim, l’immagine mentale viene ad occupare un posto di primo piano. «Un atto percettivo non è mai isolato; esso non è che la fase più recente di un flusso di innumerevoli atti consimili, svolti nel passato e sopravvissuti nella memoria. Similmente, le esperienze del presente, immagazzinate ed amalgamate con la sollecitazione del passato, precondizionano i percetti del futuro. Pertanto la percezione, nel suo senso più ampio, deve includere la capacità mentale di produrre immagini». Non solo perché «pensare esige immagini» ma anche perché «i concetti sono immagini e le operazioni del pensiero sono il trattamento di tali immagini» (Ibidem, rispettivamente, pp. 96, 299 e 267).

Il riconoscimento del valore delle immagini è uno sviluppo recente in neuropsicologia, frutto della rivoluzione cognitiva che ha fatto seguito al dominio del comportamentismo. «Si afferma sovente che il pensiero è fatto di immagini e di molto altro, che è fatto anche di parole e di simboli astratti non figurativi. Certo, nessuno può negare che il pensiero comprenda anche parole e simboli arbitrari; ma a quella affermazione sfugge che sia parole sia simboli arbitrari sono basati su rappresentazioni topograficamente organizzate e possono diventare immagini. In massima parte, le parole che usiamo nel nostro discorso interno, prima di pronunciare o di scrivere una frase, esistono nella nostra coscienza come immagini visive o uditive; se non diventassero (per quanto fugacemente) immagini, non sarebbero alcunché di conoscibile. Questo è vero anche per quelle rappresentazioni topograficamente organizzate che non vengono seguite alla chiara luce della coscienza, ma che sono attivate in modo celato […]. Sembra che non vi sia possibilità anatomica di avere informazioni sensoriali complesse nella corteccia di associazione che fa da base alle rappresentazioni disposizionali senza che prima si formino nelle cortecce sensitive di ordine inferiore […].

I commenti appena fatti si applicano altrettanto bene ai simboli che si usano nella soluzione mentale di un problema matematico. Se quei simboli non fossero esprimibili in immagini, noi non li conosceremmo, e non saremmo capaci di manipolarli in modo cosciente». Damasio argomenta portando esempi di matematici e fisici (tra i quali Einstein) che dichiarano come il loro pensiero sia dominato dalle immagini, spesso visive. «Quindi il punto è che le immagini sono, probabilmente, il contenuto principale dei nostri pensieri, a prescindere dalla modalità sensoriale nella quale esse sono generate e dal fatto che riguardino una cosa o un processo implicante cose, o che riguardino parole o altri simboli – di un

326

La situazione può essere illustrata dall’esempio di un artista che disegni

a memoria qualcosa che conosce. Se ne sta nel suo studio e disegna un

elefante. Se gli chiedete in base a quale modello stia disegnando, può

negare nel modo più convinto di avere, nella propria mente, qualcosa di

simile ad una figurazione esplicita dell’animale. Eppure, mentre lavora,

giudica costantemente la correttezza di quanto sta producendo sulla

carta, correggendone e modificandone di conseguenza le forme. Con

che cosa le confronta? […]

E’ facile evadere al problema, perché l’operazione sembra aver luogo

nel mondo esterno percepito, sul tavolo da disegno: quando appaiono le

linee e i colori, appaiono esatti o errati a chi li disegna, e sembra siano

essi a determinare da soli che cosa egli debba farne. Alcuni aspetti del

suo giudizio possono in realtà dargli l’impressione di dipendere dal solo

percetto, ad esempio i fattori formali dell’equilibrio e la buona

proporzione. In realtà, tuttavia, anch’essi sono inseparabili dal problema

“è questa la mia nozione di un elefante?”, e a tale problema si può

rispondere soltanto facendo riferimento a qualche standard nella mente

del disegnatore. (Arnheim, 1969, pp. 116-117).

Si osservi a questo proposito l’interpretazione grafica che Alessandro

(5,4) da di un elefante in figura 120, p. 77.

L’immagine mentale può dunque essere considerata «una

configurazione di forze visive che determina il carattere dell’oggetto

visivo», «uno scheletro strutturale» che, in quanto tale, «può essere

rivestito da una grande quantità di forme» (Arnheim, 1954, pp. 90-

91). Essa è necessaria per spiegare il modo di procedere del

disegnatore, ma non è “un disegno interno” che viene copiato sulla

carta: con il disegno si entra nel campo delle “immagini espresse”

che non è quello delle immagini mentali. dato linguaggio – che corrispondono a una cosa o a un processo. Celati dietro quelle immagini, mai o molto di rado conoscibili da parte nostra, vi sono svariati processi che guidano la produzione e il dispiegamento delle immagini nello spazio e nel tempo; essi utilizzano regole e strategie incorporate nelle rappresentazioni disposizionali. Sono essenziali per il nostro pensare, ma non sono il loro contenuto dei nostri pensieri» (Damasio, 1994, pp. 163-164).

327

Non ripeterò mai troppo fermamente né troppo spesso che la creazione

di immagini, artistica o altro, non consiste semplicemente nella

proiezione ottica dell’oggetto rappresentato ma è un equivalente, reso

tramite le proprietà di un mezzo espressivo particolare, di quanto si vede

nell’oggetto238.

Il concetto visivo d’un oggetto, possiede tre importanti proprietà:

«concepire l’oggetto come tridimensionale, di configurazione

costante, e non limitato ad alcun aspetto proiettivo» (Arnheim, 1954,

p. 100). Sono queste proprietà che devono essere elaborate

attraverso il medium espressivo. La realizzazione di un’immagine

concreta comporta l’utilizzazione di strumenti, mezzi materiali che, in

parte, condizioneranno la forma del pattern di pensiero239. E, d’altra

238 Arnheim, 1954, p. 94. «La dottrina illusionistica [quella che secoli fa sosteneva, e tutt’ora sostiene, che l’arte mira ad un’illusività ingannatrice e che ogni deviazione da questo ideale meccanico va spiegata, scusata, giustificata] si genera da una duplice applicazione di quello che in termini filosofici ci è noto come “realismo ingenuo”. Secondo tale punto di vista non esiste differenza alcuna tra l’oggetto fisico e l’immagine dello stesso percepita dalla mente. La mente vede l’oggetto come esso è. Analogamente l’opera dello scultore, o pittore, viene considerata semplicemente come una replica del percetto. Proprio come si suppone che la tavola vista dall’occhio sia identica alla tavola in quanto oggetto materiale, così pure la tavola dipinta dal pittore sulla tela non è che la ripetizione della tavola da lui vista. Al massimo, l’artista può “migliorare” la realtà o arricchirla mediante l’intervento della fantasia, trascurando, cioè, o aggiungendo dettagli, scegliendo esempi adatti, ridisponendo a suo piacimento il normale ordine delle cose […].

Il procedimento riduce l’arte ad una sorta di chirurgia plastica. Gli “illusionisti” dimenticano la basilare differenza tra il mondo della realtà e l’immagine di esso come viene riprodotta mediante i colori o nel marmo» (Ibidem, pp. 94-95). 239 «Ogni medium prescrive il modo migliore di rendere le caratteristiche di un modello. Per esempio, un oggetto rotondo può essere rappresentato da una linea circolare mediante la matita. Il pennello, che produce larghe macchie, può riprodurre l’equivalente dello stesso oggetto con una chiazza di colore in forma di disco. Quando il medium sia la creta o la pietra, avremo l’equivalente della rotondità nella sfera. Un danzatore lo potrà creare tracciando un movimento circolare, ruotando attorno al suo asse d’equilibrio, o disponendo un gruppo di danzatori in cerchio. Quando si tratti di un medium che non consente la forma curva, la rotondità può venir espressa mediante delle linee diritte […].

Una forma che esprime ottimamente la rotondità in un determinato medium può non esser più tale per un altro medium. Il cerchio p il disco può rappresentare la soluzione perfetta per la pittura sulla superficie piana. Nella scultura, che è tridimensionale, per contro, il cerchio e il disco, essendo una combinazione di

328

parte, l’immagine espressa è il risultato finale che può esser frutto di

uno o più tentativi e di una ricerca più o meno laboriosa.

Il lessico grafico utilizzato dai bambini nella rappresentazione di

figure umane, animali, piante e di tutti gli altri soggetti, trae la propria

origine dagli scarabocchi, dai diagrammi, dalle associazioni, dagli

aggregati, dai soli, dalle radiali e dai mandala che i bambini hanno

precedentemente sperimentato, e di cui hanno apprezzato nel corso

dello sviluppo l’equilibrio formale; da qui deriva uno stile personale

(che corrisponde all’uso ripetuto di determinate unità grafiche) e un

senso estetico riconoscibile nelle diverse rappresentazioni.

Attraverso la composizione dei diversi segni, i bambini costruiscono

immagini sempre più complesse e ricche, espandendo e affinando i

concetti rappresentativi di cui dispongono.

La selezione dei concetti visuali, e l’assegnazione ad essi di compiti

specifici, comporta quel tipo di risoluzione di problemi che ho

precedentemente definito l’intelligenza della percezione. Percepire un

oggetto significa trovarvi una forma sufficientemente semplice,

afferrabile. La stessa cosa vale per i concetti rappresentativi che

occorrono per la costruzione di un quadro. Derivano dal carattere del

medium (disegnare, dipingere, modellare), e interagiscono con i concetti

percettivi. Le soluzioni del problema mostrano parecchia ingenuità.

Persino nei bambini piccoli, variano grandemente da persona a persona.

Si sono magari visti migliaia di disegni infantili, ma non si cessa mai di

restare colpiti dall’originalità inesauribile delle soluzioni sempre nuove al

problema di come disegnare una figura umana o un animale, con poche

linee semplici.

rotondità e piattezza, costituiranno un’imperfetta rappresentazione della rotondità […].

Tale traduzione dell’aspetto degli oggetti fisici nella forma appropriata a un determinato medium non è una convenzione esoterica escogitata dagli artisti. Modelli scalari, disegni alla lavagna, carte stradali, tutto ciò è ben lontano dagli oggetti che si vogliono raffigurare. Ci riesce facile scoprire e accettare il fatto che un oggetto visivo sulla carta può rappresentarne uno enormemente differente in natura, purché ne sia l’equivalente strutturale in quel determinato medium» (Ibidem, pp. 123-124).

329

Pensare esige qualcosa di più che pensare i concetti e assegnar loro

certi compiti. Esige che si svelino relazioni, che si scopra una struttura in

sé elusiva. L'attività produttrice di immagini serve a dar senso al mondo.

(Arnheim, 1969, pp. 302-303).

Sussiste una specie di continuità tra il pensare, il vedere e il

disegnare. L’attività grafica costringe il dialogo tra occhio e mano, tra

il vedere e il fare, tra la riflessione e l’azione. Mentre la percezione

rileva le componenti invarianti degli oggetti, strutturando le immagini

secondo i principi gestaltici della massima economia degli stimoli

visivi, per trasmettere un significato univoco di riconoscimento nel

minor tempo possibile240, la rappresentazione va oltre la visibilità,

perché il suo compito non è limitato al riconoscimento della forma,

240 «Possiamo far corrispondere la visione delle invarianti percettive al guardare quotidiano, nel quale noi non rileviamo le singole componenti del percetto ma cogliamo l’oggetto nella sua pienezza oggettuale, con tutto il suo portato cognitivo e operativo, con le sue affordance. Nella nostra esperienza percettiva gli oggetti vengono colti per il loro significato pratico, per come si offrono per soddisfare alcune nostre esigenze pratiche. Ragion per cui la loro visione si basa sul rilievo degli invarianti morfologici che ne consentono il riconoscimento nei diversi orientamenti. Questo tipo di visione primaria pre-attentiva, funzionale al riconoscimento immediato nel flusso continuo di proiezioni ottiche sempre diverse è una visione di tipo sintetico, in cui l’insieme, il tutto prevale sulle qualità e sulle proprietà delle singole componenti. Essa in buona sostanza risponde a un principio gestaltico. Il compito della percezione visiva è quello di raccogliere informazioni provenienti dal flusso ottico su quanto del nostro ambiente si presenta come persistente, stabile, rispetto a quanto continua a mutare […].

L’atto grafico fondamentale da cui ha origine ogni disegno è, per Gibson, la registrazione progressiva del movimento con cui la mano impugnando uno strumento imprime una traccia su una superficie; questo movimento viene sia sentito sia visto dal soggetto che disegna, è il segno di una cinestesia visiva. Disegnare non è mai copiare, perché copiare un pezzo di ambiente è impossibile, solo un altro disegno può essere copiato, quindi non esiste una ri-presentazione letterale di un precedente assetto ottico. Si può solo preservare qualche sua invariante così come fa la fotografia, perché le informazioni presenti in un dato ambiente sono illimitate. Inoltre “la separazione della struttura invariante dalla struttura prospettica è il cuore del problema. Gli invarianti mostrano un mondo in cui non c’è nessuno, ma la prospettiva mostra dov’è l’osservatore in quale momento”. Il bambino, precisa Gibson, quando disegna un piano rettangolare e quattro piedi agli angoli ha disegnato i quattro invarianti del tavolo che ha rilevato […]. Ogni cosa, in virtù dei fenomeni di costanza percettiva, si mostra sempre uguale a se stessa, per lo sguardo ecologico, e sempre diversa per forma, colore, dimensione, orientamento, per lo sguardo del disegnatore» (Di Napoli, 2004, pp. 309-311).

330

ma alla costruzione di quella particolare visibilità attraverso quel

particolare medium.

Attraverso i loro disegni i bambini non creano un linguaggio

completamente arbitrario; scoprono invece stimoli che sono in

qualche modo simili ai tratti in base a cui il sistema visivo

normalmente codifica le immagini degli oggetti nel campo visivo e

tramite i quali guida le azioni241.

Quando si traversa un museo e si osserva la configurazione data alla

testa umana dagli scultori di età e di culture diverse, ci si rende conto

che lo stesso semplice prototipo si può riflettere in un’infinità di

rappresentazioni ugualmente valide […]. Ciascuna ha la sua validità,

ciascuna ottiene il risultato voluto.

Questa capacità di inventare un pattern incisivo, soprattutto quando è

applicata a forme familiari come la testa o la mano, è nota come

immaginazione artistica, che non è in primo luogo l’invenzione di un

soggetto nuovo e nemmeno la creazione di una qualsiasi nuova

configurazione: più correttamente la si può definire come il fatto di

trovare una forma nuova ad un vecchio contenuto, o, - se non si vuole

usare la comoda dicotomia tra forma e contenuto – un nuovo concetto

per un vecchio soggetto. In effetti, l’invenzione di nuove cose o

situazioni è valida soltanto in quanto esse valgono ad interpretare un

vecchio – ossia universale – elemento dell’umana esperienza […].

241 «Il disegno, pur non avendo nessuna proprietà dell’oggetto e non essendo simile allo stesso, funziona come se lo fosse. I dati sulle condizioni che devono realizzarsi perché il disegno sia facile da comprendere (e il disegno schematico è più facile da comprendere del disegno realistico) impongono di riflettere sulla differenza tra percepire un disegno e produrre un disegno, distinzione occultata dal continuo confronto col linguaggio parlato per il quale, anche se in certe condizioni (prime fasi di sviluppo del linguaggio, uso delle lingue straniere, mutismo), la comprensione supera la produzione, parlare e ascoltare è un processo integrato. Per percepire un disegno “semplice” il nostro sistema visivo funziona come per percepire e codificare il mondo stesso. Perciò tutti, in linea di massima, siamo in grado di “leggere” un disegno nella misura in cui siamo in grado di percepire e codificare gli oggetti. Fare un disegno, viceversa, significa inventare un equivalente bidimensionale dell’oggetto tridimensionale rispettando “quei tratti in base a cui il sistema visivo normalmente codifica le immagini degli oggetti” […]. Fare disegni allora, è più difficile che percepire disegni, soprattutto se il percepire si riduce al riconoscimento e i tratti grafici sono organizzati in modo da facilitare quest’ultimo» (Pizzo Russo, 1988, pp. 118-119).

331

L’immaginazione visiva è un dono della mente umana, dono che nel

soggetto medio si manifesta fin dai primi anni d’età. (Arnheim, 1954, pp.

124-125).

Così come il vedere non si può risolvere nel disegnare, il disegno

non può riprodurre tutto ciò che si vede242. Mentre la visione riguarda

la produzione di concetti visivi, attraverso il disegno, il bambino

elabora concetti rappresentativi in grado di esprimere i contenuti del

suo pensiero visivo.

E’ evidente che l’oggetto di per sé stesso determina soltanto un minimo

di tratti strutturali, richiedendo sempre l’intervento dell’immaginazione,

nel senso letterale della parola, ossia di quell’attività che permette di

tradurre le cose in immagini […]. La mente, quando per qualche ragione

è libera dalla consueta sottomissione alla molteplicità della natura,

organizza le forme secondo le tendenze che governano il proprio

funzionamento. Possediamo ampie prove che in questo caso essa tende

verso la strutturazione più semplice, cioè verso la configurazione più

regolare, più simmetrica, più geometrica possibile nelle circostanze date.

(Arnheim, 1954, pp. 125-127).

Interessante ed eloquente ci sembra a questo proposito il disegno di

Martina (5,11) in figura 121, p. 77. Si tratta di alcune prove di “copia

242 «La prima ragione riguarda la natura selettiva dei mezzi di comunicazione […]. La seconda ragione è connessa con i punti di riferimento, che si radicano nella memoria a lungo termine. Ogni nuova informazione viene subito riferita a tali punti, sebbene noi siamo raramente consci che stiamo facendo tali riferimenti. Noi ci consideriamo come se prendessimo atto di nuovi dati nella loro propria costituzione, ignorando che le percezioni di oggi sono inevitabilmente modificate da quelle di ieri […]. Il terzo punto è legato alla natura della percezione. La maggior parte delle persone sono pronte a riconoscere che la percezione è il prototipo, l’unità di base, dell’esperienza, in modo che la struttura dell’atto percettivo ha probabilità notevoli di riflettersi in attività mentali più complesse, compresi gli atti di comunicazione. Si è anche generalmente d’accordo che l’apprendimento svolge un ruolo importante nella percezione e che, quando l’apprendimento si è realizzato, gli abiti rientrano nella riattivazione della percezione in modo che la nostra consapevolezza degli oggetti famigliari si colora sempre di ciò che noi crediamo che siano; in altre parole la percezione residua che agisce come segno o strumento dell’esperienza originaria finisce per restare erosa e impoverita» (Parry, cit. in, Massironi, 1982, p. 57).

332

dal vero” del naso visto allo specchio. Nella rappresentazione la

bambina si limita all’enumerazione di alcuni tratti particolati e usa

delle forme geometriche e ben definite per identificare il più

esattamente possibile la qualità, la funzione, l’importanza e i rapporti

reciproci tra i tratti che ha individuato. Come abbiamo

precedentemente visto gli stadi iniziali di evoluzione del linguaggio

grafico producono forme fortemente astratte «perché lo stretto

contatto con la molteplicità del mondo fisico non è, o almeno non

ancora, pertinente ai compiti della pittura» (Arnheim, 1954, p. 128).

Nel corso dello sviluppo gli usi della cultura implicano processi di

espansione e raffinamento del codice grafico, definendo le

operazioni “lecite” o “comprensibili” possibili243.

In questo, come in altri casi, è possibile sostenere che il disegno

svolga la funzione di produrre visione, e quindi conoscenza: la

messa in codice del percetto promuove la sua visibilità, evidenziando

caratteristiche, proprietà, aspetti che soltanto quando sono disegnati

possono essere ri-visti.

Quando disegniamo il contorno di un oggetto, sia pure in maniera

estremamente impacciata, creiamo per il senso della vista qualcosa che

243 «Per la lettura delle rappresentazioni pittoriche dello spazio esistono modalità corrette e scorrette, e la modalità giusta è determinata in ogni caso dallo stile di un dato periodo o stadio di sviluppo».

«La forma è determinata non soltanto dalle proprietà fisiche del materiale, ma anche dallo stile di rappresentazione proprio di una specifica cultura o di un singolo artista. Una chiazza di colore piatta può costituire una testa umana nel mondo pittorico essenzialmente bidimensionale di Matisse: ma la stessa chiazza apparirebbe piatta invece che rotonda in uno dei dipinti fortemente tridimensionali di Caravaggio […].

Si nota che in determinate condizioni culturali un’arte più realistica non servirebbe meglio allo scopo dell’artista, ma al contrario l’ostacolerebbe. Le immagini primitive, ad esempio, non sorgono né da una curiosità distaccata, né da un’attività “creativa” fine a se stessa; non sono certo fatte per produrre piacevoli illusioni. L’arte primitiva, invece, è uno strumento pratico per molti importanti compiti della vita giornaliera: dà corpo a poteri sovrumani così da renderli attivi in concrete azioni; rimpiazza oggetti reali, animali o uomini, e in tal modo si addossa i loro compiti; registra e trasmette informazioni; rende possibile l’esercizio di “influssi magici” su creature e cose lontane» (Arnheim, 1954, rispettivamente pp. 118, 123 e 128).

333

non potremmo creare per quello del tatto: produciamo qualcosa che

mostra la visibilità di un oggetto, e facendo questo, creiamo qualcosa di

diverso e di nuovo rispetto a ciò che prima costituiva la conclusione del

nostro processo di percezione visiva […]. Dovremo riconoscere che

anche nel più impacciato tentativo di rappresentazione figurativa c’è

qualche cosa che sorpassa la semplice percezione visiva […]. V’è in

essa qualcosa di nuovo: la mano che traccia un segno compie uno

svolgimento ulteriore dell’attività del senso visivo, cominciando

esattamente dal punto in cui l’occhio aveva raggiunto il culmine della

propria attività […].

Per quanto la cosa possa sembrare paradossale, bisogna dire che l’arte

comincia solo quando cessa la visione. (Fiedler, cit. in, Di Napoli, 2004,

p. 292).

E’ il tipo di informazione aggiuntiva richiesta al pensiero affinché sia

possibile “mettere in forma” le sue immagini percettive, che consente

al bambino di fare esperienza del mondo attraverso il medium grafico

e di rendere comprensibile ad altri e a se stesso la propria

esperienza:

vedere per disegnare significa attivare un processo visivo conoscitivo

autentico della cosa in visione. L’occhio del disegnatore, a differenza di

quello del pescatore, della sentinella, che guardano sapendo già che

cosa devono vedere, e che hanno affinato il loro sguardo al ri-

conoscimento di quanto dà loro da vedere il visibile; lo sguardo del

disegnatore vede quel che ancora non conosce, ciò che ancora non sa

cosa sia autenticamente.

Il pescatore e la sentinella hanno cura del cristallino, il pittore e il

disegnatore hanno cura della retina, i primi vedono sostantivi, cose e

oggetti noti, mentre i secondi vedono colori e forme singolari. (Di Napoli,

2004, p. 280).

La raffigurazione di ogni soggetto comporta una re-visione

concettuale. Rappresentare ad esempio un re, significa ri-percorrere

334

i tratti che caratterizzano la figura umana, il suo abbigliamento, il suo

ruolo; messo a fianco di una regina sarà caratterizzato da altri tratti e

pensato attraverso altre modalità.

Queste ed altre “conoscenze” sono implicite nel concetto di “re”, di

“regina” e “di re e di regina”. Ad un’unica parola, corrispondono e

vengono esplicitate nella rappresentazione grafica una serie di

conoscenze aggiuntive, sulle quali il bambino opera materialmente.

Allo stesso modo, rappresentare un principe a cavallo significa

trovare sia le forme più appropriate per ognuno dei due soggetti, che

risolvere il problema della loro interazione (e non solo della loro

relazione). Si tratta di un problema aggiuntivo, che deve trovare una

soluzione attraverso la rappresentazione grafica; si tratta di un

problema conoscitivo che implica una riflessione aggiuntiva sulle

conoscenze precedenti.

La rappresentazione grafica presuppone un atto ricettivo del quale

costituisce la restituzione, la ri-presentazione: viene restituito al mondo

ciò che del mondo era stato percepito, la percezione prima, e la

restituzione poi, si pongono come i due movimenti-momenti

(antecedente-seguente, interno-esterno), attraverso cui l’oggetto riferito

viene sottoposto ad un processo di selezione, enfatizzazione, astrazione

e simbolizzazione delle sue proprietà fenomeniche. L’atto del

rappresentare implica l’istituzione di una doppia distanza rispetto al

rappresentato, sia spaziale (dislocazione), sia temporale (successione);

impone cioè una netta differenziazione tra ciò che costituisce il soggetto

e ciò che costituisce l’oggetto […].

L’atto stesso del rappresentare essenzialmente significa ri-presentare,

produrre cioè una seconda presenza, ma con mezzi e segni

materialmente diversi dalla materia di cui è fatta la cosa che si vuole

rappresentare; dunque letteralmente significa ri-produrre il medesimo

con il diverso. La relazione tra l’immagine e la cosa si basa sul rapporto

di rassomiglianza che le unisce e che tuttavia le distingue. (Ibidem, pp.

319-321).

335

In un paragrafo precedente abbiamo visto come “creare una

somiglianza” significhi evidenziare i tratti più rilevanti di un soggetto,

e di quanto apprendimento sia richiesto al bambino per arrivare a

comprendere quali siano “i tratti più rilevanti” secondo gli usi propri

della cultura cui appartiene.

Il disegnatore finisce per funzionare come un operatore che favorisce il

processo percettivo del soggetto. Egli seleziona in funzione del modo di

vedere che gli è dettato dalle proprie propensioni e dal consenso della

società cui appartiene. Come il sistema percettivo del soggetto filtra gli

stimoli visivi, li organizza e sceglie, fra le infinite possibilità di senso,

quale significato realizzare, così opera preventivamente il disegnatore.

Per fare questo deve attuare scelte radicali, proporre enfatizzazioni

coinvolgenti, erigere ampie parentesi entro cui rinchiudere ciò che per il

momento potrebbe confondere o far venire dubbi; deve in sostanza

innescare quel processo di conoscenza che è tale proprio perché egli

opera delle scelte interpretative direzionate; deve proporre dei punti di

vista che spesso diventano dei filtri convenzionali di osservazione, ma

che a loro volta saranno in altri casi negati. Nel momento che si

configura come visivamente legittima, una trascrizione grafica tende ad

escludere tutte le altre possibili trascrizioni e le altre interpretazioni. Ma

tale negazione è la porta aperta attraverso cui si potrà fare avanti una

nuova proposta, una nuova dizione, un nuovo significato. (Massironi,

1982, p. 61).

Non esiste un solo modo di rappresentare un oggetto; come non

esiste un solo modo di guardarlo; così, la scelta operata dal bambino

nella rappresentazione di determinati tratti visivi a scapito di altri

corrisponde ad un momento d’interpretazione, di conoscenza, di

comunicazione.

Si trova allora che smontare il significante non ci porta a scoprire il

significato, ma a costruire altri significanti; così il disegno che

rappresenta un oggetto, mentre ci da delle informazioni su quell’oggetto,

336

si propone come nuovo oggetto che necessita di spiegazione e così di

seguito. Allora la rappresentazione funziona come una produzione, anzi,

[…] è la progettazione che sta a monte della produzione: il lay-out è

quell’oggetto che come un universo di oggetti racchiude in sé non solo

“lo schema di un funzionamento”, ma “la dinamica di un comando”, “la

trasmissione di un’ideologia”, “la condizione di un rapporto”, “l’imporsi

della prevaricazione”, “l’inverarsi della valorizzazione”, “il programmarsi

dell’appropriazione”, “l’organizzarsi dell’insubordinazione”, e così avanti.

(Ibidem, pp. 70-71).

Le ricerche psicologiche sperimentali hanno fornito varie

interpretazioni dei processi percettivi, evidenziando come essi non

costituiscano una mera registrazione degli stimoli esterni: la

percezione presiede e innesca attività complesse di elaborazione,

comprensione, trasformazione, completamento, adattamento ad

esigenze individuali, attribuzione di qualità… agli stimoli esterni (o

interni) che, attraverso quest’attività, vengono compresi e “visti”. Non

esistono invece ricerche che riguardano la produzione di stimoli visivi

fatti in funzione dell’osservatore di quelle immagini.

Nasce quindi il problema di che cosa il disegnatore consideri utile, in

maniera più o meno cosciente, per la resa visiva del suo elaborato;

che cosa assuma come aspettativa del fruitore da soddisfare. Queste

sono, presumibilmente, le condizioni che determinano le scelte degli

indici che concorrono alla sua realizzazione finale.

Dovendo definire la nuova condizione prodotta dal testo grafico, ci si

trova di fronte ad un meccanismo complesso.

Infatti il contenuto cognitivo dell’emittente-disegnatore, viene da questi

codificato utilizzando alcuni stimoli visivi e alcune procedure conosciute

della dinamica percettiva che egli sa manipolare. Tali stimoli saranno

vissuti da un soggetto percipiente come informazione elaborata; quindi

come riproposizione di seconda istanza degli stimoli dell’oggetto

rappresentato. Egli si troverà così ad interpretare il nuovo oggetto

costituito dal materiale grafico e si renderà conto che il referente di ciò

337

che sta osservando non è l’oggetto rappresentato, ma una sua

interpretazione per così dire primaria.

In questa catena (oggetto rappresentato-interpretazione dell’oggetto

ritratto) egli non si trova allontanato, estraniato dal significato di

quell’oggetto, anzi quell’interpretazione e trascrizione rendono la cosa

rappresentata più consona alle sue aspettative, o carica di altri e nuovi

significati, o più chiara in quanto meno ambigua. (Ibidem, p. 137).

La capacità di rendere visibile una conquista percettivo-conoscitiva,

oltre che nella rappresentazione di oggetti esterni si manifesta anche

nel riuscire ad organizzare segni grafici per comunicare i risultati di

un ragionamento.

In figura 122-127, da p. 78 a p. 80, troviamo alcune riproduzioni di

modelli ipotetici di funzionamento “dei pensieri”. Dopo una

conversazione guidata a piccolo gruppo con domande stimolo quali:

cosa sono i pensieri, a che cosa servono, dove sono; è stato chiesto

ai bambini di rappresentarli.

In figura 122, p. 78, Linda (6,3) colloca il cervello nella pancia; Dieu

Anh (6,8) e Alina (6,10), rispettivamente in figura 123, p. 78 e 124, p.

79, paragonano i pensieri a dei “biglietti” (“zeltel”). Alina in particolare

differenzia i pensieri “giusti” e “sbagliati” collocandoli in zone diverse

della “grande scatola” che contiene i pensieri all’interno del cervello.

Joël (7 anni) in figura 127, p. 80, fa uscire i suoi pensieri dalla testa

trasformandoli in lettere e verbalizza “qualche volta penso con parole

e qualche volta con immagini”.

I bambini si sono trovati a dover rappresentare qualcosa di poco

noto. Ciò che viene espresso visivamente è, in questo caso, non la

forma di un oggetto ma una forma che rende conto di come possono

stare insieme ed interagire gli elementi di un ragionamento alla luce

delle conoscenze che essi hanno (si noti la stereotipia di alcuni

cervelli) e di quelle acquisite durante la conversazione guidata.

Potremmo dire che si tratta di un modello ipotetico di funzionamento

338

che ha lo scopo di chiarire e comunicare il comportamento supposto

degli elementi interagenti presi in considerazione.

I bambini hanno costruito un’ipotetigrafia, ovvero un prodotto grafico

che contribuisce a dare forma visiva alle ipotesi che essi hanno

formulato per spiegare il comportamento dei pensieri nella loro vita.

Si tratta di un prodotto grafico che anziché tendere al massimo di

economia e semplicità, tende piuttosto al massimo di chiarezza e

logicità. Si tratta di uno sforzo immaginativo notevole in cui una parte

importante viene giocata anche dalla parola, necessaria a definire la

cosa rappresentata e i legami intercorrenti tra i segni grafici e i

contenuti da essi veicolati.

Pur partendo da una condizione percettiva, in questo caso è evidente

come l’impegno dei bambini in questa attività si sposti velocemente

sul piano del ragionamento, della comprensione, dell’attenzione,

dell’individuazione di relazioni logicamente accettabili; e ciò

diversamente da quanto si verifica, ad esempio, nella copia dal vero

di un soggetto in cui si riscontra quasi una messa tra parentesi di

quel particolare tipo di attività intellettive.

Le difficoltà circa la causa della rappresentazione scaturiscono dal fatto

che la rappresentazione di origine sensibile dipende al contempo da una

elaborazione significante operata dal soggetto e dall’effettiva

sottomissione di questi a un contenuto percettivo venuto dall’esterno

[…]. Nella rappresentazione interviene il sistema pensiero-linguaggio: la

rappresentazione è una percezione interpretata, un sensibile e al

contempo (mediante dei concetti) una descrizione. (Gil, cit. in, Massironi,

1982, p. 56).

339

4.4 Raffigurazione dell’oggetto e funzione comunicativa

del disegno

Lasciare una traccia, costruire rappresentazioni attraverso il disegno

e creare immagini, sono mezzi utilizzati dal bambino per esplorare

oggetti e situazioni. Le forme create possono riprodurre oggetti reali,

immaginari, ipotesi, situazioni vissute o fantastiche.

Via via che il bambino cresce e diventa più esperto attraverso la

pratica con il codice grafico, si scontra con problemi nuovi ed elabora

strategie di risoluzione.

L’attività grafico-pittorica conferisce il potere di fare e disfare, di

conoscere l’oggetto e se stessi più intimamente, cosa a cui i bambini

sono molto appassionati. Il loro coinvolgimento nel “fare arte” è in gran

parte diretto all’interiorità e tende verso una sempre maggiore

articolazione: disegnare e dipingere sono enunciazioni espressive a

proposito di ciò che si conosce, si prova e si vuol capire. È un dialogo

con se stessi che, come qualsiasi attribuzione di significato, è

intrinsecamente espressivo. È un’attività di problem solving sovente

permeata di emozioni intense e di interessi che sono vicine al cuore

dell’artista.(Golomb, 2002, p. 45).

Golomb distingue, a proposito dell’intenzione e della motivazione dei

bambini al disegno, due tendenze: una narrativa e una espressiva.

La tendenza narrativa è motivata dal desiderio di raccontare una storia,

di trasmettere informazioni relative alla natura e alla funzione degli

oggetti, alla disposizione di una scena e alle azioni e intenzioni dei

protagonisti. Il desiderio di essere competenti dal punto di vista narrativo

governa, con lo scopo di trasmettere in modo efficace il messaggio la

differenziazione e la coordinazione tra i vari elementi della

composizione. La tendenza espressiva si manifesta nella scelta di forme

e colori che trasmettono un messaggio affettivo, nell’esagerazione della

340

dimensione e dei cromatismi di alcune parti del corpo, e nel piacere

estetico della decorazione. (Ivi).

L’autrice sottolinea come a volte sia possibile leggere negli elaborati

dei bambini la tensione tra le due tendenze: il desiderio di rendere

meno ambigua la rappresentazione (per motivi narrativi) e «la

tendenza giocosa a utilizzare l’espressione fine e se stessa» (ivi).

Queste tendenze condurrebbero, secondo Golomb, allo sviluppo di

stili differenti di rappresentazione e comporterebbero diversi tipi di

soddisfazione per il bambino.

A titolo esemplificativo possiamo vedere come in figure 128 e 129, p.

81, l’aspetto espressivo prevalga su quello narrativo nelle grafiche di

Emily (6,1) e Linda (4,5) rispettivamente.

In figura 130, p. 82, tutta l’esperienza vissuta in palestra da Jonny

(5,8), il gioco del fare canestro, viene ri-trascritta attraverso una vera

e propria narrazione grafica244: il tema è completamente rielaborato

attraverso una narrazione mista di elementi fantastici (la stanza

dell’operatrice, Katia, nel soffitto della palestra; una macchina

fotografica nascosta; una specie di meccanismo che, messo sulla

testa dei bambini, fa fare loro canestro, “il satellite”… non a caso

Liam “ce l’ha rotto”) e realmente vissuti. In Jonny, la tendenza

narrativa sembra dominare anche le altre produzioni grafiche [fig. 54,

p. 34; 60, p. 37; 64, p. 39].

244 La consegna dell’adulto, dopo una conversazione a grande gruppo sulle attività svolte il giorno precedente, in cui i bambini, a turno, elencavano e spiegavano tutte le attività proposte dalla conduttrice del laboratorio era di disegnare l’attività che era piaciuta di più tra quelle di cui si era parlato. Jonny ha scelto l’attività in cui i bambini, in fila indiana, davanti ad un canestro, dovevano cercare di fare centro. I bambini avevano a disposizione solo alcuni palloni: il primo della fila, dopo un tentativo di canestro, aveva il compito di raccogliere il pallone che aveva utilizzato, mettersi in coda alla fila e passarlo al bambino che aveva davanti (l’ultimo della fila) che a sua volta lo dava a quello davanti a lui e così via. In questo modo i primi bambini, con il pallone in mano, potevano tentare il canestro, raccogliere il pallone, accodarsi e far avanzare la fila in modo scorrevole. Tra i bambini della sezione, Liam era quello che si arrabbiava di più, perché non riusciva mai a fare canestro, e spesso la rabbia si trasformava in drammatiche scenate di pianto.

341

Le figure 50, p. 32 e 2-a, p. 6, possono invece essere considerate

come esempi di grafiche in cui coesistono le due tendenze. Nella

prima Linda (5,4) si attiene alla consegna: disegnare la sorpresa

dell’uovo di pasqua, ma poi riempie il disegno con motivi decorativi

che non hanno valore rappresentativo, quanto, piuttosto, espressivo;

in figura 2a (Giulia 5,7) la torta si stacca dalla composizione e risalta

per la meticolosità con cui vengono riempiti di colore i diversi strati

che la compongono e per le dimensioni, mentre rimane sullo sfondo

il tema del disegno (“un disegno per il papà”).

Interessante confrontare la grafica di Jonny (5,8) con quella di

Salvatore (5,4) e di Glenis (6,3), in figura 130, p. 82; 63, p. 39; e 84,

p. 52 rispettivamente. Si tratta di disegni della stessa attività, esegui

da tre bambini diversi dopo la stessa conversazione a grande

gruppo.

La loro comparazione evidenzia la dialettica tra enfatizzazione ed

esclusione del processo rappresentativo e il suo costituirsi come

codice parallelo a quello orale. In ogni immagine alcuni tratti,

elementi, caratteristiche sono evidenziati in modo che risultino ben

leggibili, altri vengono completamente trascurati, volutamente

ignorati, cancellati, come se non esistessero oppure, al contrario,

sono trasformati e trasfigurati.

Così sia Jonny che Salvatore “ci dicono” che Liam non è stato in

grado di fare canestro, ma mentre Jonny ricorre ad una modalità

fantastica di argomentare (sia attraverso il disegno che attraverso la

verbalizzazione che lo esplicita), Salvatore documenta il fatto

attraverso una grafica simmetrica in cui si vede “Liam che non riesce

a fare canestro” e “io che faccio canestro” rispettivamente a sinistra e

a destra del foglio; mentre la distanza tra le due diverse esperienze è

sottolineata graficamente da “il cerchio dove ci si siede” posto tra i

due bambini. Questo disegno è interessante perché evidenzia un

altro problema che nella rappresentazione deve essere risolto: la

rappresentazione del “movimento nel tempo” ovvero la traduzione

342

mediante un disegno, i cui elementi sono simultanei ed invariabili, di uno

spettacolo in cui elementi si sostituiscono gli uni agli altri mentre altri

restano invariati, senza che sussista una relazione di continuità tra i vari

momenti. (Luquet, 1927, p. 181).

La soluzione cui ricorre Salvatore è quella di disegnare la sequenza

degli spostamenti del pallone nello spazio245. Anche questa

immagine rappresenta una rielaborazione grafica “fantastica”

dell’accaduto: il fine comunicativo, ossia il messaggio che Liam, a

differenza dell’autore, non è riuscito a fare canestro, trova una sua

modalità espressiva attraverso una grafica che “tradisce” il reale

svolgimento dell’evento; in realtà, i bambini erano in fila indiana e

ognuno aspettava il proprio turno246.

245 «Fatti, cose e personaggi sono colti dal bambino nello spazio e nel tempo, in modo che si dovrebbe sempre parlare di raffigurazioni spazio-temporali. Secondo l'opinione corrente, invece, un disegno o un dipinto fisserebbero soltanto un momento del tempo. Ma in realtà non è così» (Piantoni, 1992, p. 30). 246 Nell’analizzare quali livelli di conoscenza possono essere perseguiti e trasmessi dalla notazione grafica da un lato e dal linguaggio-scrittura dall’altro, Massironi dichiara che «la notazione grafica ha una funzione solo assertiva. Non può esprimere una negazione. Non si può rappresentare un oggetto come “non alto”, può essere rappresentato solo come “basso”, la definizione di “non alto” o “non basso” hanno un senso solo nell’enunciato verbale, non in una stesura iconica.

Non si può rappresentare una superficie come “non rossa”, ma solo come “verde” o “nera” o “gialla” ecc.

L’immagine iconica non pertiene alla logica formale, non può rientrare nella dinamica del “vero” versus “falso”. L’immagine presentata o rappresentata è sottratta alla determinazione di “verità”. Si possono costruire figure indecidibili o incongrue o ambigue, ma nel momento che vengono mostrate esse rendono presente l’indecidibilità, l’incongruità, l’ambiguità.

Il dilemma vero-falso non riguarda l’immagine perché non può essere rappresentato il “falso”. La condizione di “falso” può risiedere soltanto in un legame posto dall’esterno fra un’immagine e un’asserzione verbale che la riguardi […].

L’immagine per se stessa può essere assunta e viene sempre assunta come “vera” e ciò in conseguenza del suo essere per molti versi sempre e solo “falsa” (vale a dire presentazione fantasmatica di qualcosa di possibilmente esistente, ma che della cosa esistente ha solo l’aspetto) e così essendo troppo complicato assumere come frequente la falsificazione di una falsificazione, si è portato ad accogliere quel “falso” come “vero” pur nell’indifferenza di fatto della figura nei confronti di questi due poli.

L’impossibilità di decidere se è “vero” o “falso” quanto rappresentato in un’immagine ci porta ad usare frequentemente, a cercare, e a leggere sempre con avidità, la didascalia che accompagna l’immagine. Anche in una fotografia

343

Quest’ultimo fatto è invece rappresentato nel disegno di Glenis (6,3)

in figura 84, p. 52, che si presenta come più “lineare”: i bambini solo

in fila indiana, “girati” verso il canestro, tutti con il pallone in mano,

tranne lui, che ha “fatto canestro con la palla”.

L’attività dei canestri viene ri-presentata in modalità e forme dettati

da un’intenzione comunicativa specifica, intenzionale e volontaria

che determina la scelta degli elementi strutturali che costituiscono le

diverse grafiche. Questi esempi sono sì collegati al linguaggio

verbale (nel senso che riproducono anche le conoscenze dei bambini

emerse durante la conversazione a grande gruppo), ma si

presentano altresì come una

forma di scrittura nel senso tecnico e generale della parola […]. Il

legame che unisce il linguaggio all’espressione grafica è coordinativo e

non subordinativo, come invece succede con la scrittura lineare, in cui

l’espressione grafica è completamente subordinata all’espressione

fonetica. (Squillacciotti, 1995, p. 148).

Nell’analisi condotta da Massironi sull’immagine come equilibrio tra

enfatizzazione ed esclusione l’autore sottolinea come

osservando attentamente un’immagine grafica, da essa emerga con una

certa facilità quanto vi è di sottolineato, prescelto e rinforzato, mentre

riesce più difficile elencare un certo numero di elementi tralasciati, anche

se solitamente questi ultimi sono in numero assai maggiore. Ciò dipende

dalle qualità coinvolgenti ed assorbenti dell’immagine, che si propone

sovente dal punto di vista cognitivo come un surrogato molto

convincente della realtà. andiamo a cercare quel breve tratto verbale che ci aiuti nella nostra decisione cognitiva […].

Ma l’uso della didascalia ci rassicura perché contribuisce a far rientrare i dati percettivi acquisiti nella meccanica di una logica conseguente. Le registrazioni sensoriali sono il mezzo attraverso cui il mondo che è fuori di noi viene a far parte della nostra coscienza; ogni stimolazione quindi, di qualsiasi genere sia, mette in moto un’intrinseca disposizione ad assumere come reale quanto verificato sensibilmente» (Massironi, 1982, p. 95).

344

Nel momento in cui le stimolazioni offerte dal disegno mimano quelle

provenienti da un’ipotetica realtà parimenti congruente con

quell’immagine, siamo trascinati dalla logica serrata della

rappresentazione.

Osservando un’immagine, di tal genere, non si ha quasi mai

l’impressione di mancanza. Pur avendo coscienza di essere intenti ad

osservare una rappresentazione, non si percepisce quanto

rappresentato come mero sostituto, ma, di solito, come una realtà a sé

stante, in qualche modo completa e buona, non carente.

Si può interpretare questo fatto dicendo che il lavoro di enfatizzazione

tende a non lasciare vuoti. (Massironi, 1982, pp. 56-57).

La parte che viene enfatizzata nel processo rappresentativo è

sempre convincente, anche quando ciò che viene proposto (come

nel disegno di Jonny, ma ancor più in quello di Salvatore) non è ciò

che è effettivamente accaduto247. Essa è così attraente e informativa

da non farci sentire “la mancanza” di ciò che è trascurato e questo è

valido non solo per il contenuto della rappresentazione, ma anche

per gli elementi che fanno parte della scena che si vuole

rappresentare.

Lo stesso fenomeno si verifica nel processo percettivo quando la

messa a fuoco del nostro sguardo su un oggetto o un evento, ci fa

trascurare, non vedere, tutto il resto.

K. Koffka (1935) definisce con i termini “cosa” e “non cosa” la gerarchia

di qualità che esiste fra le diverse parti del campo percettivo.

Da queste indicazioni risulta intuibile che il primo fenomeno che

involontariamente ma necessariamente trascuriamo nella

rappresentazione concreta è lo sfondo, e quello che enfatizziamo è la

figura. Si può vedere come nei disegni dei bambini e nelle arti primitive

in genere, non venga praticamente trattato lo sfondo relativo

247 Anche la grafica di Glenis non ci dice “la verità”. Tutti i bambini, nel suo disegno, hanno il pallone; anche Glenis ha dovuto “piegare” l’accaduto affinché il suo messaggio risultasse chiaro e non ambiguo.

345

all’ambiente in cui sono inseriti i protagonisti rappresentati. Ma anche il

disegnatore più avveduto attua automaticamente una cernita degli

elementi da fare risaltare o da trascurare nella stesura del suo elaborato,

e tale cernita è determinata solitamente dalla tecnica appresa, dalle

convenzioni stilistiche e dai condizionamenti correnti. (Ibidem, p. 60).

In particolare il processo di enfatizzazione/esclusione non è un

processo solipsistico che il bambino attua isolatamente. Si tratta di

un atto comunicativo “situato” in un contesto specifico, la scuola, in

cui hanno un importante valore per il bambino, le richieste del

“lettore” del messaggio grafico, ovvero quelle dell’insegnante, il cui

obiettivo è quello di far sì che il bambino sviluppi un codice grafico

specifico.

Rappresentare iconicamente l’oggetto significa allora trascrivere per

mezzo di artifici grafici (o di altro genere) le proprietà culturali che gli

vengono attribuite. Una cultura, nel definire i propri oggetti, si rifà ad

alcuni codici di riconoscimento che individuano tratti pertinenti e

caratterizzanti del contenuto. Un codice di rappresentazione iconica

stabilisce quindi quali artifici grafici corrispondono ai tratti del contenuto,

ovvero agli elementi pertinenti fissati dai codici di riconoscimento. La

maggior parte delle rappresentazioni iconiche schematiche verificano

letteralmente questa ipotesi (il sole come cerchio con raggi, la casa

come quadrato sormontato da un triangolo eccetera). Ma anche nei casi

di rappresentazione più “realistica” si possono individuare blocchi di

unità espressive che rinviano non tanto a ciò che dell’oggetto si vede ma

a ciò che si sa, o a ciò che si è imparato a vedere. (Eco, 1975, pp. 272-

273).

Gli “scolari”, nel processo di rappresentazione grafica, dovranno

dunque enfatizzare ed escludere elementi grafici specifici sia in

funzione del significato che intendono esprimere che delle richieste

dell’insegnante che a sua volta nel processo di lettura-valutazione

dei prodotti dei bambini, fa riferimento, più o meno consapevolmente,

346

ad un codice iconico248 specifico, che è quello, nella scuola, di tipo

“artistico”.

Accade spesso che il prodotto grafico cambi in relazione alla

situazione comunicativa che si verifica tra adulto e bambino durante

la sua realizzazione, alle reciproche relazioni interpersonali, alle

richieste di “approfondimento” dell’adulto rispetto ad un soggetto o di

aiuto del bambino rispetto ad un problema grafico. Tutto ciò non “si

vede” nel disegno in cui sono simultaneamente visibili soltanto gli

elementi che esso contiene. Le “mancanze” si avvertono solo

durante l’operazione del fare, quando la necessità di costruire

un’immagine soddisfacente porta il bambino (e l’insegnate) ad

osservare in maniera analitica le indicazioni fornite dalla grafica. Solo

allora è possibile constatare la mancanza di un particolare,

l’ambiguità di una relazione, la non leggibilità di alcuni elementi.

Ma queste mancanze sono determinate dal fatto che il sapere del lettore

del disegno non può supplire in maniera soddisfacente la loro assenza,

perché il suo sapere, la sua conoscenza non sono sintonizzati con

quella del progettista. Si crea un vuoto, un buco nell’informazione, per

evitare il quale il progettista è costretto a dettagliare il suo disegno in

maniera sempre più particolareggiata (Massironi, 1982, pp. 67-68).

Come le narrazioni verbali, i disegni possono essere letti come co-

produzioni tra interlocutori:

nel disegno, come nel linguaggio c’è un adattamento del messaggio al

contesto, che indirizzerebbe tanto la selezione di cosa rappresentare e

come rappresentarlo, quanto la scelta della prospettiva e la

coordinazione tra gli elementi considerati. (Donsì – Parrello, 2005, p.

10).

248 «Si può allora parlare di codice iconico come del sistema che fa corrispondere a un sistema di veicoli grafici unità percettive e culturali codificate, ovvero unità pertinenti di un sistema semantico che dipende da una precedente codifica dell’esperienza percettiva» (Eco, 1975, p. 274).

347

In generale i temi che i bambini ritraggono attraverso le loro

narrazioni grafiche riflettono esperienze vissute e costituiscono

descrizioni (spontanee o indotte) di eventi sociali cui hanno preso

parte: compleanni, vacanze, momenti di vita scolastica o familiare,

uscite domenicali con la famiglia, episodi divertenti o momenti

“drammatici”, messaggi per amici o insegnanti…

Attraverso il disegno il bambino da ordine alle proprie esperienze e le

rende “pubbliche”. Nel disegnare seleziona ciò che per lui è rilevante

comunicare di un vissuto, affinché la sua comunicazione risulti

efficace ed esteticamente piacevole.

Per David Olson «i campi esecutivi o media di maggiore rilievo per lo

sviluppo percettivo dei bambini sono quelli che hanno un rapporto

con l’attività nei vari media culturali quali disegnare, parlare e

contare» (Olson, 1979, p. 49). L’esperienza con i media del disegno

e del linguaggio «dà alla mente le sue proprietà peculiari», perché

sviluppa ed articola la percezione proprio «in rapporto ai nuovi

compiti o requisiti richiesti dai nuovi media» (ibidem, p. 59). Lontano

dall’esserne copie, disegno e linguaggio sono modi organizzativi e

strutturanti la realtà e la struttura della conoscenza è data dai vari

media culturali.

«Ciascun medium o forma di attività, o “linguaggio” ha le proprie

caratteristiche, e codificare l’informazione in tale linguaggio significa

dare una particolare impronta a quell’informazione» (ibidem, p. 218).

Se la conoscenza e il modo in cui può essere espressa sono

interdipendenti, ciò non significa che sia possibile identificare il

pensiero con uno degli strumenti semiotici, né tantomeno che sia

possibile codificare tutta la realtà attraverso uno dei media (sia esso

linguaggio verbale o grafico).

«Nessun sistema di rappresentazione può esaurire quella realtà»

(ibidem, p. 219); né la conoscenza elaborata attraverso l’esercizio di

un medium è completamente traducibile in un altro medium. Come

348

ha evidenziato Marshall McLuhan «tutte le parole del mondo non

bastano a descrivere un oggetto come un secchio, ma ne bastano

poche per dire come si fa un secchio» (McLuhan, 1964, p. 169).

Olson, critico nei confronti dell’indifferenza per i media da parte della

psicologia e della pedagogia, cita Arnheim e Gombrich come studiosi

che hanno saputo mettere in risalto il valore formativo dei media249.

Abbiamo visto come per Arnheim e Gombrich, il concetto di copia o

di imitazione fosse inadeguato a spiegare una rappresentazione

grafica di qualunque tipo. Il disegno è per questi autori elaborazione,

creazione, invenzione, costruzione di equivalenti o sostituti nelle

proprietà del medium.

Attraverso gli studi della Callaghan, sappiamo che il bambino molto

piccolo è in grado di cogliere la somiglianza strutturale tra un oggetto

e l’immagine che lo rappresenta, capacità «elementarissima» per

Arnheim. Di fatto non solo i bambini, ma anche «le scimmie

249 «Benché molti scrittori trattino il tema della psicologia dell’arte, furono in particolare Gombrich (1960) e Arnheim (1954), ad insistere per primi sugli effetti variabili dei diversi media; McLuhan (1962, 1964) dimostrò per primo, in un senso generale, l’importanza del medium sulla struttura del mondo percettivo indipendentemente dal contenuto specifico del medium stesso. La sua scoperta è stata spesso utilizzata per scopi polemici in psicologia perché non è stato possibile fare nessuna congettura sul modo in cui i media possono avere questo effetto. Quanto è stato detto nelle pagine precedenti dimostra come siano possibili gli effetti differenti dei media; l’informazione è selezionata per scegliere fra le alternative; pertanto, la padronanza di un nuovo medium richiede la selezione di una nuova informazione […].

Le prove di McLuhan sugli effetti psicologici dei vari media sono raccolte da fonti letterarie e storiche; per questo uno psicologo nutrirebbe dei sospetti» (Olson, 1979, p. 54-55). Il sospetto dello psicologo ha ovviamente riguardato anche gli studi e le prove relative alle arti visive. Continua poi oltre «Nelle osservazioni iniziali sullo sviluppo delle rappresentazioni concettuali, è stato sottolineato che il termine “rappresentazione” veniva impiegato da Gombrich e da Arnheim, che lo usavano come un atto esecutivo quale si ha “nell'usare un cerchio per rappresentare la testa di un uomo”, in modi diversi Piaget, Cassirer, Bruner e Gibson. Questi ultimi usano il termine rappresentazione per riferirsi a processi immaginativi, processi che si realizzano nella mente, non sulla tela o sulla carta. Secondo il punto di vista portato avanti in questo capitolo, il primo uso è giustificabile sul piano psicologico. E' ridondante parlare di rappresentazioni nella mente. Si può invece dire che i tentativi di atti esecutivi nella rappresentazione artistica, nel linguaggio, e in altri media offrono l’occasione per ottenere un’informazione più ricca dal mondo percettivo. Come ho detto in precedenza, anche l’attività interiorizzata è una interpretazione errata. Non è l’attività che viene interiorizzata, ma l’attività offre l’occasione per ottenere un’informazione nuova dal mondo percettivo» (Ibidem, p. 58).

349

riconoscono quasi spontaneamente le immagini al tratto di oggetti

familiari». (Arnheim, 1954, p. 123).

Percepire un disegno, riconoscendolo come raffigurante un oggetto,

non è in nessun modo produrlo. La presenza di concetti percettivi

non assicura la comparsa di concetti rappresentativi, e lo stesso vale

per la loro espressione verbale. E questo è il motivo per cui, nelle

prime manifestazioni grafiche, i bambini sono in grado di dare il

nome alla propria produzione solo dopo averla vista: c’è

riconoscimento di un concetto percettivo nella grafica prodotta, ma

non ancora elaborazione a priori di un concetto rappresentativo

adeguato ad esprimere un atto percettivo. Così, se il riconoscimento

accomuna bambini e scimmie, la produzione li differenzia.

L’invenzione di forme grafiche è specifica della specie uomo:

disegnare non è percepire.

Per Olson, che si è soffermato sulla differenza tra percepire e

disegnare rispetto alla copia di disegni, il fallimento del bambino

piccolo nel disegno di copia è spiegabile non tanto ricorrendo ad

un’inadeguata rappresentazione mentale, quanto elaborando una

teoria percettiva adeguata. Le teorie percettive «sono

necessariamente inadeguate finché non cominciamo a precisare i

modi in cui i tentativi di esecuzione nei vari media determinano quale

informazione sarà colta percettivamente» (Olson, 1979, p. 43).

La teoria di Arnheim risponde a questa esigenza, laddove l’autore

precisa che «la differenza non è innanzitutto tra percezione e

rappresentazione, ma tra percezione dell’effetto e percezione della

forma, dove quest’ultima è necessaria alla rappresentazione»

(Arnheim, 1954, p. 149). Se è vero che il termine percezione può

essere considerato sinonimo di riconoscimento, è altrettanto vero

che «il riconoscimento non è mai completo; è sempre una funzione

delle alternative prese in considerazione» (Olson, 1979, pp. 39-40).

La differenza tra percepire (riconoscere) un disegno e copiarlo,

consiste nel fatto che il bambino, guardando un modello

350

coglie un’informazione sufficiente per scegliere il modello fra tante

alternative, ma non raccoglie un’informazione sufficiente per riprodurlo

[…]. Eseguire un atto quale copiare, fare, o parlare, richiede informazioni

percettive diverse da quelle necessarie per percepire o riconoscere un

evento fra un insieme di semplici alternative. (Ibidem, pp. 40-41).

Il bambino che rappresenta “l’omino testone” non ha ancora

sviluppato la capacità di raccogliere l’informazione percettiva

pertinente al compito della riproduzione grafica in senso figurativo.

La mente si sviluppa «non con l’interiorizzazione del medium in

forma di discorso interiore, o di attività interiorizzata, ma per la

necessità di informazioni ulteriori che possono guidare gli atti

esecutivi» (ibidem, p. 58) nei vari media culturali.

Contrariamente all’opinione che lega il concetto al linguaggio fino al

determinismo linguistico, Arnheim sostiene che il linguaggio verbale

aiuti il pensiero indirettamente, collaborando con il linguaggio visivo

che costituisce un medium più adeguato al pensiero stesso.

Il “medium” visivo è tanto enormemente superiore perché offre

equivalenti strutturali di tutte le caratteristiche degli oggetti, eventi e

relazioni. La varietà delle forme visuali disponibili è grande quanto quella

dei possibili suoni del linguaggio, ma quello che conta è che esse si

possono organizzare secondo pattern prontamente definibili, di cui le

forme geometriche sono l’illustrazione più tangibile. La virtù principale

del “medium” visuale è quella di rappresentare le forme in uno spazio

bidimensionale e tridimensionale, in confronto con la sequenza

monodimensionale del linguaggio verbale. Questo spazio

polidimensionale non soltanto offre al pensiero efficaci modelli di oggetti

fisici o di eventi, ma rappresenta pure isomorficamente le dimensioni

che occorrono al ragionamento teorico. (Arnheim, 1969, p. 273).

La polidimensionalità caratterizza ciò che Arnheim chiama la

«cognizione intuitiva», la monodimensionalità o linearità caratterizza

351

la «cognizione intellettiva»250. L’una è il procedimento del pensiero

quando tratta l’insieme nell’interazione reciproca e simultanea delle

varie componenti; l’altra quando procede all’isolamento delle diverse

componenti e relazioni ordinandoli in sequenza.

Prigioniera in un mondo quadridimensionale di continuità e di

simultaneità spaziale, la mente opera da un lato intuitivamente,

cogliendo i prodotti delle forze di campo liberamente interagenti;

dall’altro, traccia intellettivamente sentieri monodimensionali attraverso il

paesaggio spaziale. (Ibidem, p. 289).

250 «Esistono due tipi di pensiero percettivo, che distinguerò come cognizione intuitiva e cognizione intellettiva. La cognizione intuitiva ha luogo in un campo percettivo di forze liberamente interagenti. Si consideri, ad esempio, il modo in cui una persona coglie un’opera di pittura. Passando in rassegna lo spazio racchiuso nella cornice, l’osservatore percepisce le diverse componenti del quadro, le forme ed i colori e le relazioni fra di essi. Tali componenti esercitano i propri effetti percettivi l’uno sull’altro in modo tale che l’osservatore riceve l’immagine totale come risultato dell’interazione tra le componenti stesse. Tale interazione di forze percettive costituisce un complesso di campo altamente complesso, pochissima parte del quale, di norma, raggiunge la coscienza. Il risultato finale diviene conscio come il percetto del quadro, organizzato in un certo modo e consistente di forme e colori il cui carattere particolare è determinato dal loro posto e funzione entro l’insieme.

Gran parte del pensiero e dell’attività risolutrice di problemi procede nella, e per mezzo della, cognizione intuitiva […].

Ma esiste un altro procedimento, e precisamente quello della cognizione intellettiva. Supponiamo che un osservatore, anziché assorbire l’immagine del quadro intuitivamente, intenda identificare le diverse componenti e relazioni di cui l’opera consiste. Egli descrive ciascuna forma, precisa ciascun colore, e prepara una lista di tutti questi elementi. Procede poi ad esaminare le relazioni fra i singoli elementi, gli effetti, ad esempio, del contrasto, o l’assimilazione che producono l’uno sull’altro. Dopo avere raccolto tutti questi dati, cerca di combinarli, e pertanto di ricostruire l’insieme.

Che cosa ha fatto questo osservatore? Ha isolato elementi e relazioni fra elementi del campo percettivo, allo scopo di fissare la particolare natura di ciascuno. A questo modo si sviluppano concetti stabili e indipendenti dalle entità più o meno stabili e più o meno circoscritte che costituiscono il campo percettivo. Cristallizzando adeguatamente i concetti percettivi tratti dall’esperienza diretta, la mente acquista le forme stabili, che le sono utili per il pensiero coerente.

Le componenti dei processi del pensiero intuitivo interagiscono con un campo continuo. Quelle dei processi intellettivi si susseguono in successione lineare […]. Esempi rappresentativi di processi di pensiero intellettivi sono le successioni di concetti nelle sequenze verbali, il conteggio o la somma di elementi, le catene di proposizioni logiche nei sillogismi o nelle dimostrazioni matematiche». (Arnheim, 1969, pp. 274-276).

352

Se oggi la neuropsicologia, abbandonata la tesi della “dominanza

celebrale”, porta avanti quella della “specializzazione emisferica”, e

gli psicologi ci parlano di due codici, l’impostazione di Arnheim ci

mette in guardia da tutta una serie di rischiose interpretazioni, che

hanno accompagnato e che accompagnano lo sviluppo di questi

settori di ricerca. «La dissociazione tra pensiero visivo e pensiero

verbale, tra creatività (artistica e scientifica) e riproduzione verbale

richiama la specializzazione dei due emisferi»251. Ma a torto. Poiché

il funzionamento separato dei due emisferi vale solo per stimoli molto

semplici e

il processo di categorizzazione dell’emisfero sinistro si sviluppa

producendo – in collaborazione con quello dell’altro emisfero – la

comunicazione e il pensiero logici (da logos, il termine greco per

concetto, parola) e proposizionali espressi sotto forma di linguaggio. Il

processo di categorizzazione dell’emisfero destro si sviluppa

producendo invece – sempre in collaborazione con quello dell’altro

emisfero – la comunicazione e il pensiero razionali (da ratio, il termine

latino per ragione, calcolo) e apposizionali espressi nella musica e nella

matematica. (Pribram, 1985, p. 270).

Perciò disegnare con la parte destra del cervello è un titolo

fuorviante, quantomeno perché la base della sequenzialità

dell’azione del disegnare è funzione dell’emisfero sinistro252.

Gardner, che pure tiene in grande considerazione gli studi sulla

localizzazione celebrale («il cervello può essere suddiviso in regioni

specifiche, ciascuna delle quali emerge come relativamente

importante per certi compiti e come relativamente meno importante

per altri»), opportunamente precisa che

251 Mecacci, 1984, p. 120. Il periodo riportato è opportunamente criticato dall’autore. 252 Disegnare con la parte destra del cervello è il titolo di un famoso libro di Betty Edwads (1979), dal promettente sottotitolo Guida allo sviluppo della creatività e delle doti artistiche.

353

pochi compiti dipendono per intero da una sola regione celebrale. Ogni

volta che si esamina un compito ragionevolmente complesso, si trovano

invece input provenienti da un certo numero di regioni celebrali,

ciascuna delle quali fornisce un contributo caratteristico. Per esempio,

nel caso del disegno a mano libera certe strutture dell’emisfero sinistro

assumono una funzione cruciale fornendo i particolari, mentre talune

strutture dell’emisfero destro sono ugualmente necessarie a fornire la

padronanza del contorno complessivo dell’oggetto raffigurato. Una

compromissione dell’uno o dell’altro emisfero celebrale avrà come

conseguenza un qualche deterioramento della prestazione. (Gardner,

1983, p. 74).

Ciò che i disegni dei bambini “descrivono” non è una forma di

imitazione più o meno aderente a qualche immagine fantastica o

reale (l’attività stessa da cui scaturisce non è attività imitativa); ogni

disegno attesta «una mente che scopre liberamente elementi

strutturali di rilievo nel soggetto, e che trova forme adeguate ad esse

nel medium di linee tracciate su un foglio di carta» (Arnheim, 1969, p.

301).

I linguaggi sono media culturali che specificano e specializzano la

capacità umana dei diversi sensi.

Nella visione e nell’udito, le forme, i colori, i movimenti, i suoni, sono

suscettibili di organizzazione precisa ed altamente complessa nello

spazio e nel tempo. Pertanto questi due sensi sono i “media” per

eccellenza per l’esercizio dell’intelligenza. (Ibidem, pp. 23-24).

I media culturali, come il linguaggio verbale e il disegno, non si

limitano a trascrivere i prodotti del pensiero ma sono “pensiero essi

stessi”, in quanto non solo possono costituire «un ausilio nel

processo di elaborazione delle soluzioni di problemi» (ibidem, p. 155)

ma, poiché qualsiasi medium possiede specifiche proprietà, struttura

il pensiero secondo peculiari modalità.

354

Allora il processo di produzione del pensiero, nel soggetto in formazione,

è innanzitutto un processo di affermazione di forme storico-evolutive che

procedono man mano che il soggetto prende possesso di sé e della

realtà circostante, in relazione con lo specifico ambiente, fisico e

culturale, in cui si trova a crescere e a operare. In questo senso il

pensiero, come grado zero, precede teoricamente il soggetto ma si

realizza concretamente, storicamente, materialmente solo attraverso il

suo stesso operare, o meglio l’operare del soggetto nella sua forma

storica determinata.(Squillacciotti, 1995, p. 153).

I vari modi della significazione ovvero le diverse forme di espressione

del pensiero sottendono una volontà di comunicazione che può

essere considerata lo scopo ultimo a cui tendono tutti i sistemi di

segni.

I sistemi di segni si diversificano non perché nascano da bisogni diversi,

ma per meglio adattarsi, a seconda delle condizioni contingenti e delle

potenzialità intrinseche ad ogni mezzo, ad un unico fondamentale

bisogno di comunicazione. Tenendo conto della complessità dei modi in

cui avviene la conoscenza umana (tenendo conto delle variabili

intrapersonali come di quelle interpersonali) si può intuire come debbano

essere inevitabilmente molteplici le forme della significazione […].

Oltre a stabilire delle graduatorie e dei primati di comunicabilità fra i vari

sistemi, e oltre a studiare separatamente i percorsi che essi seguono,

potrebbe risultare importante uno studio sistematico di tutte quelle

condizioni marginali in cui uno strumento comunicativo si arresta e cerca

aiuto in un altro, e particolarmente […] dei casi in cui il discorso verbale

si ritrae per lasciare spazio a quei modi di significazione grafica che ne

integrano e dilatano i limiti comunicativi: vedere cioè il legame fra

illustrazione e testo […].

Da questi studi potrebbe risultare che tra i vari percorsi della

significazione vi è una continuità e che il passaggio dall’uno all’altro è

estremamente sfumato e non così netto come le varie gerarchie

preposte fra i sistemi di segni, o gli esami condotti su esami separati

355

potrebbero far pensare. E ciò risulterebbe in consonanza con l’unitarietà

del sistema che produce e utilizza i sistemi di segni, l’interrelazione e

integrazione fra i diversi procedimenti cognitivi umani. (Massironi, 1982,

pp. 111-112).

356

Conclusioni

Alla luce del lungo percorso fin qui condotto sia sulla natura culturale

dello sviluppo che sulle forme espressive grafiche, in quest’ultima

parte del lavoro tenteremo una sintesi ed una trascrizione dello

sviluppo del disegno a partire dalla teoria storico-culturale, in quanto

dal confronto tra le diverse teorie esposte risulta la più portante

l’analisi di campo oggi ed in grado di tradurre nello specifico la

moderna impostazione della prospettiva etno-cognitiva. Si tratta

inoltre di verificarne l’efficacia analitica alla prova con i documenti

raccolti nella pratica di campo.

La teoria di Vygotskij si basa sul presupposto che lo sviluppo

cognitivo non possa essere compreso se non in riferimento al

contesto sociale in cui è inserito. Esso avviene grazie al supporto

sociale nell’interazione del bambino con gli altri e comprende lo

sviluppo di abilità attraverso l’utilizzo di strumenti culturalmente e

storicamente determinati, che mediano l’attività cognitiva.

Anche lo sviluppo dell’abilità grafica si configura come

“trasformazione sociale” piuttosto che come acquisizione mentale

individuale: essa è radicata in contesti di interazione con altre

persone con cui si condividono scopi, strumenti e attività.

Il concetto di abilità cui facciamo riferimento considera l’abilità come

un saper fare tacito e incorporato (embodied), non codificabile in

regole o programmi di istruzione specifici253. Esso dà luogo ad un

253 «Vorrei analizzare tre punti che credo siano cruciali per poter apprezzare le abilità tecniche. Prima di tutto, le abilità non sono, come argomentato classicamente da Marcel Mauss (1939), delle tecniche del corpo individuale, considerato come un oggetto isolato,

357

agire situato che consiste nel saper eseguire una serie di azioni in

contesti specifici, facendo riferimento alla propria passata

esperienza. Lo sviluppo dell’abilità è visto come una progressiva

“educazione dell’attenzione” in contesti di apprendimento formali,

non formali e informali.

Cosicché potremmo dire che diventiamo noi stessi attraverso gli altri, e

che tale regola si riferisce non solo alla personalità nel suo complesso,

ma anche alla storia di ogni singola funzione. In questo sta la sostanza

del processo dello sviluppo culturale, espresso in una formula

puramente logica. La persona diventa “per sé” per il fatto che è “in sé” e

attraverso il fatto che si manifesta “per gli altri”. Questo è il processo di

formazione della persona. (Vygotskij, 1930-31, p. 200).

Nel processo di sviluppo il bambino può accedere al contesto storico-

sociale attraverso l’interazione con i membri della società che hanno

maggiore dimestichezza con le abilità e gli strumenti della società

stessa. Tale interazione è essenziale per lo sviluppo cognitivo: la

mente del bambino si sviluppa in situazioni in cui egli partecipa ad

eventi “problematici” sotto alla guida di un adulto – o una persona più

competente di lui – che struttura e modella la soluzione al problema

adeguandola alle potenzialità cognitive del bambino, ovvero agendo

all’interno della sua “zona di sviluppo prossimale”. Secondo Vygotskij

come lo strumento primario della ragione culturale. Esse sono proprietà dell’intero sistema di relazioni costituito dalla presenza dell’agente (umano e non umano) in un ambiente riccamente strutturato. Perciò, lo studio delle abilità richiede un approccio ecologico, che situi l’operatore esperto, fin dall’inizio, nel contesto di un coinvolgimento attivo con i fattori costituenti il suo ambiente circostante. Secondo, la pratica abile non è semplicemente l’applicazione meccanica di una forza esterna ma comporta le qualità della cura, del giudizio e della destrezza (Pye, 1968). Questo significa che qualunque cosa un operatore esperto faccia alle cose, questo si radica in un coinvolgimento attento e percettivo con le cose. In altre parole, guarda e sente mentre è all’opera. Anzi, è precisamente perché il coinvolgimento dell’operatore esperto con il proprio materiale è attento, che l’attività abile porta con sé la sua intrinseca intenzionalità, e ciò indipendentemente da eventuali piani o progetti che essa dovrebbe porre in esecuzione.

Terzo, le abilità sono refrattarie alla codificazione in forme programmatiche quali regole e diagrammi (Dreyfus, Dreyfus 1987). Perciò, non è attraverso la trasmissione di tali programmi che si acquisisce l’abilità, ma piuttosto attraverso un miscuglio di improvvisazione e imitazione nel contesto della pratica stessa (Lave, Wenger 1991). […]. L’innovazione e l’improvvisazione sono due lati di un processo di apprendimento che potrebbe riassumersi come riscoperta guidata» (Ingold, 2001, pp. 150-151).

358

e la prospettiva storico-culturale, il funzionamento cognitivo

autonomo del bambino si sviluppa attraverso esperienze con gli

strumenti culturali in processi di attività condivise con partner più

esperti.

Il pensiero di Vygotskij si presenta in risonanza con quello di Bateson

(1972, 1979), Ingold (2001), Damasio (1994), Ehrlich (2000) e di tutti

coloro che invitano a pensare in modo unitario mente e ambiente:

sia l’organismo che l’ambiente emergono da un continuo processo di

sviluppo [e] la loro interfaccia non è un contatto estrinseco tra domini

separati e mutuamente esclusivi, poiché implicata nell’organismo stesso

è l’intera storia delle sue relazioni ambientali. (Ingold, 2001, p. 92).

La teoria storico-culturale è stata ulteriormente elaborata dalla

psicologia culturale di Cole (1996) che si è occupato del ruolo della

mediazione operata dagli artefatti nello sviluppo cognitivo, mentre la

teoria dell’attività di Leont’ev (1975) e Vygotskij è stata ripresa e

sviluppata da Engeström (1987). Gli studiosi della cognizione

distribuita, accogliendo le proposte di Vygotskij, hanno ulteriormente

sottolineato la natura sociale dell’attività e dello sviluppo cognitivo

concentrando le loro ricerche sugli ambienti particolari dell’attività

cognitiva e sul tipo di conoscenza che si accorda con questi ambienti

(Lave, 1988; Hutchins, 1991, Lave - Wenger, 1991). Per quanto

riguarda lo sviluppo cognitivo nel corso dell’ontogenesi, Rogoff

(1990) ha ripreso la metafora dell’apprendistato per sottolineare la

natura collaborativa dei processi di apprendimento.

Il concetto di apprendistato come modello per lo sviluppo cognitivo dei

bambini è affascinante perché dirige la nostra attenzione sul ruolo attivo

del bambino nell’organizzazione della crescita; sul supporto attivo e

sull’utilizzo di altre persone nelle interazioni sociali; sull’organizzazione

di compiti e attività e sulla natura – strutturata sul piano socioculturale –

359

dei contesti istituzionali, delle tecnologie e degli obiettivi delle attività

cognitive. […].

Gli apprendisti cercano attivamente di dare senso alle situazioni nuove,

e a volte svolgono un ruolo determinante nel mettere se stessi in

condizioni di apprendere. Allo stesso tempo i partner, che sono più abili

e competenti, riescono più facilmente ad individuare modi più efficaci per

entrare in sintonia con loro e aiutarli così ad ampliare le loro

conoscenze. […].

Il processo di problem solving condiviso – con un soggetto attivo che

apprende partecipando ad un’attività culturalmente organizzata insieme

a un partner più esperto – è fondamentale per l’apprendistato, tanto

quanto le caratteristiche della partecipazione guidata che mi preme

sottolineare: l’importanza delle attività di routine, la comunicazione

implicita ed esplicita, una strutturazione collaborativa delle attività e il

trasferimento della responsabilità all’apprendista. (Rogoff, 1990, pp. 44-

45)

La scuola è un contesto scandito dai compiti e dalle tappe che gli

adulti hanno selezionato in base alla propria storia culturale. Il

comportamento degli adulti struttura e organizza l’ambiente per

facilitare i processi di crescita del bambino e porre vincoli a ciò che

può fare. L’educazione scolastica formale è costituita da una serie di

pratiche (Cole, 1996; Wenger, 1998); se lo sviluppo cognitivo è

localizzabile all’interno delle pratiche culturali è possibile applicare

questo principio alle pratiche dell’educazione scolastica relative al

disegno, e trattarne lo sviluppo attraverso i comportamenti culturali

ad esso correlati. Potremmo dunque riposizionare la questione

dell’opposizione tra cambiamenti “generali” e “specifici” nella

cognizione, associandoli alle modificazioni nell’organizzazione

culturale del comportamento.

Abbiamo visto come il disegno sia un processo evolutivo e come

l’obiettivo dell’insegnamento relativo a questo tipo di attività sia

quello di procurare ai bambini un mezzo per riorganizzare la loro

attività interpretativa utilizzando il linguaggio grafico (sia a livello di

360

comprensione che di produzione). Abbiamo inoltre tentato di

dimostrare nei paragrafi precedenti che disegnare rappresenti

un’elaborazione della capacità preesistente di “leggere il mondo”

facendo uso di strumenti.

La figura che segue ripete la struttura del triangolo della mediazione

utilizzata dalla teoria storico-culturale per rappresentare la

mediazione attraverso gli strumenti, ma sostituisce il disegno

all’artefatto, e ci ricorda che disegnare, nel senso più ampio del

termine, comporta il coordinamento tra informazioni provenienti da

due percorsi. Qualunque disegnatore deve “vedere” il mondo come

se si rifrangesse attraverso il disegno; ma, poiché questo sia

possibile deve anche essere in grado di accedere al mondo

direttamente. L’acquisizione del linguaggio grafico comporta una

riorganizzazione qualitativa del comportamento “primario”, una nuova

modalità di mediazione.

Figura 3. Il triangolo della mediazione, dove “disegno” sostituisce la rappresentazione

generica soggetto-medium-oggetto.

Sappiamo che quando i bambini arrivano alla scuola dell’infanzia,

non sono ancora in grado di espandere la loro capacità di

comprendere le esperienze attraverso il disegno, e che, alla fine del

loro percorso scolastico, raggiungeranno questo importante

traguardo.

361

Secondo la “legge genetica generale dello sviluppo culturale” di

Vygotskij le funzioni che in un primo momento appaiono condivise

sul piano interpsicologico possono poi diventare funzioni

intrapsicologiche: in questo caso ciò che ci interessa è il punto finale

dell’abilità del bambino di disegnare maturata nell’interazione con

l’adulto come precondizione perché questa nuova struttura

dell’abilità, che si manifesta a partire dalla capacità di produrre

scarabocchi che, attraverso la coordinazione oculo-motoria vengono

composti in modelli di posizione, emerga come funzione cognitiva

individuale.

La figura sottostante illustra in forma grafica il fatto che, all’inizio

dell’istruzione scolastica, è possibile utilizzare sistemi di mediazione

preesistenti come risorse per creare i necessari vincoli che

consentono la possibilità di sviluppo dell’abilità grafica254.

Figura 4. I sistemi di mediazione da coordinare che emergono quando un bambino

impara a disegnare a scuola. A) Il bambino è in grado di mediare le interazioni con il

mondo attraverso un adulto. B) L’adulto è in grado di mediare le interazioni con il

mondo attraverso il disegno. C) Il rapporto bambino-disegno-mondo è l’obiettivo

dell’istruzione scolastica.

A sinistra della figura abbiamo rappresentato il dato che all’ingresso

della scuola i bambini hanno già alle spalle anni di esperienza nel

mediare le loro interazioni con il mondo esterno attraverso gli adulti.

Al centro abbiamo raffigurato il dato che gli adulti-insegnanti, siano in

grado di utilizzare il codice grafico pittorico. Da ultimo, a destra della

254 La realizzazione grafica dei processi di apprendimento di cui trattiamo di seguito, è una reinterpretazione dei modelli proposti da Cole (1996).

362

figura, troviamo rappresentato il sistema di mediazione che il

bambino deve ancora sviluppare.

Dopo qualche mese di frequenza, i bambini più piccoli iniziano a

denominare gli scarabocchi a posteriori: l’invenzione della forma

precede, da un punto di vista evolutivo, la “scoperta”255 che questa

forma possa avere delle relazioni con il mondo esterno.

Nella pratica didattica lo sviluppo del grafismo viene stimolato dalle

insegnanti attraverso attività specifiche progettate e mirate:

dall’esplorazione/sperimentazione di strumenti, tecniche e materiali a

proposte esplicite di disegno.

Solitamente l'intervento diretto dell’adulto muove da un ascolto

iniziale delle esperienze, dei desideri e delle proposte dei bambini a

una successiva elaborazione e restituzione in chiave progettuale che

tiene conto della maturazione delle capacità percettive, visive e

manipolative dei bambini. Altre volte, è l’adulto che propone, a

seguito di un’esperienza, la sua trascrizione grafica: nelle scuole di

Reggio Emilia questa è una vera e propria routine. Tra le strategie

utilizzate dall’adulto per stimolare nei bambini l’interesse per le

attività grafico, pittoriche e plastiche c’è la strutturazione di spazi

adeguati a questo genere di attività, organizzati ed attrezzati con

materiali e strumenti diversificati facilmente accessibili; arredato con

grafiche di bambini e immagini e stimoli che possono supportare la

progettazione in corso.

Nella scuola di Scandiano ogni sezione dispone ad esempio di “un

mini atelier” per le attività grafico-pittoriche e plastiche; mentre per

attività specifiche è possibile disporre del “grande atelier” (uno spazio

comune alle altre sezioni predisposto a questo genere di attività), che

255 «Qualcosa forse va detto anche a proposito dell’invenzione e della scoperta. Inventare vuol dire pensare a qualcosa che prima non c’era. Scoprire vuol dire trovare qualcosa che prima non si conosceva ma che esisteva» (Munari, 1977, p. 22).

363

si differenzia da quelli delle sezioni per la diversità dei materiali e

degli strumenti disponibili.

È attraverso lo scambio con le insegnanti, gli adulti256, i bambini più

grandi ed esperti e la frequenza a scuola che il bambino scopre che i

suoi tracciati devono essere usati per rappresentare entità esterne.

L’iniziale “in sé” degli schemi figurativi autonomamente prodotti (le

autoimmagini, nella terminologia di Arnheim), diventa disegno “per gli

altri”: il bambino “scopre” quale uso deve fare delle immagini che

produce e vi si conforma (anche se non riesce immediatamente a

modificare i suoi tracciati) cercando di rendere i suoi disegni

somiglianti, in senso adulto, agli oggetti della realtà.

La figura 5, di seguito, mostra lo stadio in cui i sistemi di mediazione

dati e quelli che si stanno sviluppando sono giustapposti, e il

momento in cui il sistema adulto preesistente vi si sovrappone a sua

volta. Il sistema di mediazione “interpsicologico” instaura,

indirettamente, un duplice sistema per il bambino: egli deve ora

coordinare le informazioni visive del suo disegno riferite alla realtà

esterna (secondo il modello adulto) con quelle fondate sulla sua

precedente esperienza visiva della realtà stessa.

256 «L’influenza degli adulti sull’attività artistica dei bambini si manifesta prima a casa e più tardi a scuola. […] I genitori influenzano l’attività artistica dei bambini prima che frequentino la scuola anche col semplice fatto di procurargli materiali adatti al disegno o trascurando di farlo oppure proibendo loro di usarli in casa. [I libri da colorare] contribuiscono a fissare nella mente del bambino determinate formule progettate dagli adulti per rappresentare gli oggetti. Conseguenze analoghe producono i libri illustrati, le illustrazioni delle riviste, i giornali, i fumetti e i cartoni animati televisivi. Immagini esposte alle pareti di casa, nelle chiese, nei negozi o nei musei che vengono mostrate e spiegate continuamente ai bambini favoriscono l’assorbimento mentale e visivo delle Gestalt fatte dagli adulti, cui sono associati determinati significati figurativi» (Kellogg, 1969, p. 169-170).

364

Figura 5. La giustapposizione tra sistemi di mediazione esistenti e in via di formazione,

che devono essere coordinati. A) I due sistemi esistenti. B) I due sistemi esistenti più il

sistema in via di formazione.

Con il tempo e la pratica i bambini sono in grado di interpretare i

simboli grafici come indicatori delle intenzioni altrui e possono

produrre intenzionalmente disegni per comunicare conoscenze,

esperienze o una particolare prospettiva.

L’acquisizione del punto di vista culturale trasforma il disegno in

codice non solo “per gli altri” ma anche e soprattutto “per sé”.

La natura collaborativa e sociale da cui nasce l’attività disegnativa

nel contesto scolastico può essere rappresentata più incisivamente

attraverso il modello esteso di mediazione proposto da Engeström.

Adulto

Disegno

Disegno

Mondo Bambino

Adulto

Bambino Mondo

365

Figura 6. il disegno come attività rappresentata nei termini del modello di sistema di

attività esteso.

Nella i singoli triangoli delle figure precedenti, focalizzati

esclusivamente su un presunto rapporto diadico tra adulto e

bambino, sono espansi per rappresentare il coinvolgimento dei

diversi partecipanti coinvolti in questo tipo di attività.

Nella parte alta del grafico abbiamo il bambino che attraverso il

disegno, conosce oggetti, eventi, situazioni (un generico “mondo”

inteso non solo come esistente materialmente, ma anche in quanto

può essere immaginato, pensato, supposto, ipotizzato, progettato).

Il disegno esiste però in quanto tale solo in relazione alla parte bassa

del triangolo dove la comunità può essere rappresentata dalla

sezione frequentata da quell’ipotetico bambino, abitata da insegnanti

e coetanei; la divisione del lavoro si riferisce ai ruoli ricoperti dalle

persone nella sezione, ovvero insegnanti e “scolari”; le regole che il

bambino dovrà rispettare sono, limitatamente alla produzione, quelle

del disegno “artistico” in senso figurativo.

In questo contesto, la competenza disegnativa si traduce

nell’acquisizione di una “tecnica di rappresentazione” specifica che

favorisce l’evocazione di un’immagine culturalmente convincente, in

senso illustrativo, della realtà.

Bambino Mondo

Divisione del lavoro verticale, (in base allo status): insegnante-scolaro

Disegno

Comunità: sezione di scuola

dell’infanzia

Regole: disegno artistico in senso figurativo

366

Ora il bambino non solo sa disegnare, ma la sua conoscenza si

accorda con quella di coloro con i quali tale conoscenza deve essere

coordinata.

Siamo usciti da una scuola il cui fine principale è il buon parlatore.

Avendo introiettato l’ideologia che la sorregge, non avvertiamo nessun

disagio nel dichiarare di non saper disegnare e nessuna seria difficoltà

per il fatto che il bambino molto presto smetta. Ci siamo formati in un

sistema educativo “fondato - come dice Arnheim – sullo studio delle

parole e dei numeri”. La nostra organizzazione mentale è perciò in

sintonia con una teoria dello sviluppo che definisce l’ultimo stadio del

pensiero come pensiero formale e la conoscenza come conoscenza

logico-matematica. Contro ciò che il disegno potrebbe significare per lo

sviluppo della personalità, lottano inveterate abitudini di pensiero che ci

impediscono di comprenderne l’importanza. (Pizzo Russo, 1988, p. 250)

Il disegno infantile si inserisce nel più ampio sviluppo della capacità

rappresentativo-finzionale del pensiero e segna un’importante svolta

nella maturazione cognitiva del bambino. Esso è legato ad altre

abilità rappresentative (linguaggio verbale e gioco simbolico in primo

luogo), ma se ne differenzia, sia per la specificità dell’attività

cognitiva che lo sottende (e del tipo di intelligenza che sviluppa) sia

per gli aspetti esecutivi che comporta.

L’atteggiamento nei confronti del disegno nella nostra cultura è

tuttavia contraddittorio: se da un lato se ne esalta lo sviluppo

“spontaneo”, se ne riconosce lo statuto di linguaggio, se ne sottolinea

l’importanza nello sviluppo del pensiero simbolico, il valore

“proiettivo” e catartico, nello stesso tempo è considerato un mezzo

espressivo elitario e appannaggio di pochi. Come ha giustamente

sottolineato Umberto Eco

una persona che sa parlare non suscita molta curiosità e non sembra

avere particolari abilità, mentre una persona che sa disegnare viene

367

vista come “diversa”: essa sa articolare secondo leggi ignote gli elementi

di un codice che il gruppo ignora. (Eco, 1975, p. 281).

La finalità assegnata al disegno infantile a scuola è, di fatto, quella

artistica. La letteratura sul disegno infantile ne ha idealizzato la

genesi, o considerandolo “arte”, o assumendo l’arte come unico

modello di confronto o approdo del disegno del bambino. Da questo

è derivato un modello pedagogiche che, nella prassi, si traduce nel

non intervento: il disegno è una questione di “talento” e non è

necessario “insegnare a disegnare”. «Il mestiere dell’artista non è

forse di quelli che si possono e si devono apprendere da sé?»

(Arnheim, 1954, p. 175). In questo modo, non solo non viene preso

seriamente in considerazione il fatto che il disegno non è solo quello

artistico, ma nemmeno il fatto che l’artista, e chi fa un uso

professionale del disegno, ha dovuto imparare a disegnare.

Una pedagogia della “spontaneità” non è inoltre supportata dai dati

della ricerca, che indicano come le direzioni dello sviluppo non siano

“naturali”, ma che, al contrario, siano definite (più o meno

consapevolmente) dalla scuola in sintonia con i valori culturali e

sociali diffusi, e perché riteniamo che i processi simbolici possano

arricchirsi e potenziarsi attraverso strategie educative

intenzionalmente predisposte.

L’andamento evolutivo del disegno infantile (il suo “spontaneo”

apparire alla scuola dell’infanzia e il suo altrettanto “spontaneo”

scomparire nella scuola primaria e secondaria) suggerisce piuttosto

un’attenta revisione dei metodi, degli strumenti e delle finalità della

pratica educativa e soprattutto un’analisi della teoria della

conoscenza che la informa.

368

369

370

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