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Università degli Studi di Genova Facoltà di Lettere e Filosofia Scuola di dottorato in Culture classiche e moderne Corso di Filologia, interpretazione e storia dei testi italiani e romanzi (XXIV ciclo) Direttore della Scuola: Prof. Giorgio Bertone Coordinatore del Corso: Prof. Quinto Marini Bibliografia degli scritti di Giovanni Ansaldo (1913-2012) Tutor: Prof. Franco Contorbia Candidato: Diego Divano Anno Accademico 2010/2011

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  • Università degli Studi di Genova

    Facoltà di Lettere e Filosofia

    Scuola di dottorato in Culture classiche e moderne

    Corso di Filologia, interpretazione e storia dei testi italiani e romanzi

    (XXIV ciclo)

    Direttore della Scuola: Prof. Giorgio Bertone

    Coordinatore del Corso: Prof. Quinto Marini

    Bibliografia degli scritti

    di Giovanni Ansaldo

    (1913-2012)

    Tutor: Prof. Franco Contorbia Candidato: Diego Divano

    Anno Accademico 2010/2011

  • III

    INTRODUZIONE

    I

    1895-1926

    Una sera del 1920, autunno, passavo in piazza De Ferrari a Genova. A tutto pensavo, allora

    fuorché a fare il giornalista: ero tutto preso da generosi propositi di tentare la carriera universitaria.

    Una libera docenza in diritto pubblico mi appariva una meta possibile e prossima, aureolata di

    gloria. Ma, per l’appunto quella sera memorabile, d’un tratto, là in piazza De Ferrari, dov’era il

    carosello dei tram, mi sentii chiamare. Era l’onorevole Giuseppe Canepa, deputato

    socialdemocratico, che allora dirigeva «Il Lavoro», e che mi conosceva fin dal tempo della guerra.

    Sì; egli, vedendomi, e avendo in animo di invitarmi ad accompagnarlo al giornale, mi chiamò. Mi

    chiamò più volte con quel suo vocione, per nome. E qui posso applicare a me la frase semplice e

    tremenda con cui il Manzoni fissa il momento decisivo nella vita della Monaca di Monza:

    «L’infelice rispose»1.

    L’aneddoto con il quale Giovanni Ansaldo, in uno dei quotidiani Mosconi comparso sul

    «Mattino» di Napoli, fissava il punto di partenza di una carriera professionale destinata a

    protrarsi per un cinquantennio esatto, individua in modo tutt’altro che effimero, ben al di là

    delle banali circostanze proprie dell’accenno biografico, le profonde ragioni psicologiche

    dell’avviamento a un “mestiere” in cui egli seppe raggiungere un livello di assoluta eccellenza

    nella storia del giornalismo italiano del Novecento, interpretandolo con uno stile, nella

    scrittura quanto nel contegno personale, del tutto peculiare.

    E pazienza se, all’atto della frettolosa rievocazione di un ricordo ormai sbiadito, Ansaldo

    posticipava di un anno l’appuntamento decisivo della sua vita, che risaliva invece all’autunno

    1919: reale era infatti l’incontro con Giuseppe Canepa, fondatore e direttore del foglio

    d’ispirazione socialista «Il Lavoro», come effettivamente compiuta, si deve supporre, la

    1 *, Il monaco di Monza (rubrica Mosconi), in «Il Mattino», LXIV, 199, 19 luglio 1961, p. 8 (ora in Giovanni Ansaldo, Orenapoletane, Napoli, Fiorentino, 1996, pp. 138-139).

  • IV

    passeggiata, non proprio lunga per la verità, che da piazza De Ferrari porta alla ripida salita Di

    Negro, al culmine della quale si trovava, sin dalla nascita (1903), la redazione del quotidiano

    genovese; vi è, in effetti, una percezione più sottile nel parallelo con il tormentato

    personaggio manzoniano, quasi il riconoscimento del primo di una lunga serie di

    “tradimenti”, delle proprie idee non meno che del proprio milieu di appartenenza, da cui

    l’esistenza del giornalista finirà fatalmente per essere contraddistinta.

    La famiglia nella quale Giovanni Ansaldo era nato il 28 novembre 1895 apparteneva a

    quella che oggi si definirebbe l’alta borghesia cittadina: il nonno, suo omonimo, aveva

    fondato nel 1852 i cantieri navali Ansaldo, mentre il padre, Francesco, nato nel 1857, si era

    impegnato in una lunga carriera di navigante marittimo che, cominciata sulle navi a vela, lo

    vide affrontare difficili traversate alla guida dei transatlantici diretti in Estremo Oriente, in

    Sudamerica e in Nordamerica, facendolo giungere sino al grado di comandante di armamento

    della «Navigazione generale italiana». Nonostante le forzate assenze del padre, l’educazione

    ricevuta dal giovane si caratterizzò per l’assoluto rigore imposto dall’austero zio Luigi

    Ansaldo, dalla madre, dalle devote zie e da altri componenti di un nucleo familiare assai

    nutrito (personalità raffigurate, negli anni della maturità, in ritratti giornalistici

    indimenticabili): nasceva in quel periodo, e in quel piccolo mondo di stampo ottocentesco, il

    rigido sistema di valori al quale Ansaldo avrebbe fatto costante riferimento, non giungendo

    mai, pure nelle temperie storiche più differenti, a un aperto contrasto con i suoi principi.

    Va da sé che la professione del giornalista, ancora non completamente codificata e

    impossibilitata a reggere il confronto, per prestigio personale e riconoscimento economico,

    con le più rispettabili attività svolte dai giovani della buona borghesia, non potesse costituire

    l’approdo più soddisfacente per le aspettative e gli sforzi compiuti dal clan familiare; un

    ambiente che, anzi, nello scorgere il proprio nome stampato a grandi caratteri su un foglio di

    giornale, ravvisava un’infrazione al decoro di un galantuomo e un esibizionismo poco

    dignitoso. Eppure, fu proprio la vanità, così soddisfatta nello scorgere la propria firma in calce

    alle sue prime prove pubblicistiche, a farlo cadere, inerme, nel vortice di un mondo al quale

    egli si sarebbe altrimenti accostato in forme più occasionali2.

    Sebbene gli esordi di Ansaldo siano unanimemente ricondotti all’appuntamento col

    «Lavoro», va ricordato che quella presso il quotidiano genovese non fu la sua prima

    esperienza giornalistica: seppure in circostanze e in modalità molto intermittenti e rapsodiche

    il nome di Giovanni Ansaldo era già apparso in alcune pubblicazioni, di spiccato carattere

    2 «Errai – si legge in una annotazione diaristica risalente al 30 marzo 1950 – poiché non feci mio l’insegnamento dei vecchiAnsaldo: “Mai sui giornali; il nome di una persona dabbene comparire sui giornali solo in occasione della nascita e dellamorte”. Precetto genovesamente ristretto. Coagulo di previdenza e di piccineria borghese» (Giovanni Ansaldo, Anni freddi.Diari 1946-1950, Bologna, il Mulino, 2003, p. 437).

  • V

    locale, sin dagli anni precedenti alla Prima guerra mondiale. Sul finire del 1913, anno a cui

    risale il suo primo scritto a oggi conosciuto, Genova settecentesca. Appunti storici3, stampato

    sulla «Rivista ligure di scienze lettere ed arti» (sorta attorno alla Società di letture e

    conversazioni scientifiche di piazza Fontane Marose, la cui biblioteca era frequentata

    assiduamente dal giovane studente, oltre che, qualche anno più tardi, da Eugenio Montale), si

    data anche una breve collaborazione al quotidiano «Il Cittadino. Gazzetta di Savona»,

    costituita da sei articoli compresi tra il 23 dicembre 1913 e il 23 maggio 1914; e se altri pezzi

    di Ansaldo comparvero tra il 1914 e l’inizio del 1915 su periodici quali «La Liguria

    Illustrata» e la “storica” «Gazzetta di Genova» di Giovanni Monleone, sarà dalle colonne del

    quotidiano «Caffaro» diretto da Luigi Dameri che l’aspirante pubblicista saluterà l’entrata in

    guerra dell’Italia con tre scritti usciti tra l’aprile e il giugno 1915, tutti informati del vivace e

    generoso interventismo proprio della generazione che si apprestava a vivere nella drammatica

    esperienza bellica la suprema prova della propria maturità fisica e intellettuale.

    A diffondere la sua firma al di fuori dell’angusta realtà provinciale fu però la

    collaborazione, limitata a una sola circostanza nel periodo immediatamente prebellico, ma

    proseguita in forma più stabile nel biennio 1919-1920, al settimanale «L’Unità», fondato e

    diretto da Gaetano Salvemini: e ciò non soltanto perché gli articoli di Ansaldo incontrarono in

    questo contesto l’attenzione di quella cerchia di intellettuali progressisti che avevano già

    costituito, ma con interessi più genericamente culturali che politici, il pubblico privilegiato

    della «Voce» di Giuseppe Prezzolini, ma anche perché il rapporto instaurato con l’illustre

    storico meridionalista – le cui lezioni presso l’Istituto Superiore di Firenze il giovane

    genovese aveva ascoltato con un’ammirazione pari soltanto alla profonda impressione che

    aveva destato in lui la lettura della sua prosa asciutta e nitida assaporata sui numeri

    dell’«Unità» avidamente compulsati alla Biblioteca Popolare «Giuseppe Mazzini» di via

    Garibaldi4 – gli consentì di stringere quella rete di rapporti umani e professionali che avrebbe

    costituito il retroterra politico e civile delle sue attività giornalistiche almeno fino al 1926.

    Tantopiù che fu proprio Salvemini a segnalare Ansaldo a Giuseppe Canepa, allo stesso

    modo in cui, qualche anno più tardi, lo avrebbe introdotto presso lo studioso e politico lucano

    Giustino Fortunato, favorendo un altro dei sodalizi fondamentali della formazione culturale

    del giovane giornalista. Le figure di Salvemini e Canepa, l’uno massimalista, l’altro

    riformista, si erano sovrapposte anche in merito all’atteggiamento assunto allo scoppio della

    3 Giovanni Ansaldo, Genova settecentesca. Appunti storici, in «Rivista ligure di scienze lettere ed arti», XL, 4, luglio-agosto1913, pp. 207-215 (ora in La cultura del sapere. Antologia della «Rivista Ligure» (1870-1917), Genova, Costa & Nolan,1991, pp. 415-423).4 Ansaldo rievocherà il suo rapporto con Gaetano Salvemini nell’articolo «Coi piedi per aria». Lettera al professorSalvemini, in «il Borghese», V, 45, 31 dicembre 1954, pp. 873-875.

  • VI

    primo conflitto mondiale, per la comune vocazione con la quale, rare voci discordi nel

    sostanziale pacifismo professato dagli esponenti del socialismo italiano (Benito Mussolini

    escluso), sostennero, seppure da posizioni differenti, l’intervento dell’Italia in guerra. In

    quell’occasione «Il Lavoro» si era schierato accanto al «Popolo d’Italia», garantendosi una

    riconoscenza che il futuro duce del fascismo avrebbe in parte ricambiato consentendo al

    quotidiano genovese di proseguire le pubblicazioni, benché completamente allineato sulle

    posizioni fasciste, anche oltre il drastico giro di vite imposto agli organi di stampa dopo

    l’attentato di Bologna del 31 ottobre 1926.

    Nel giugno 1915 – il suo primo articolo sull’«Unità» era uscito il 28 maggio sull’ultimo

    numero della rivista precedente all’interruzione causata dall’arruolamento di Salvemini5 –, un

    anno dopo l’inizio degli studi universitari nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università

    degli Studi di Genova, intrapresi al conseguimento della maturità classica presso il Liceo

    Ginnasio «Cristoforo Colombo», giunse l’attesa chiamata alle armi: nominato sottotenente del

    125° Reggimento Fanteria «Spezia», nel mese di ottobre era stato inviato al fronte (dove

    aveva preso il posto dello scrittore Giosuè Borsi, morto durante un assalto a Zagora il 10

    novembre 1915) e poi trasferito in Francia, dove svolse servizio logistico a supporto delle

    truppe italiane ottenendo due promozioni (guadagnò i gradi di tenente il 25 maggio 1916,

    quelli di capitano il 6 giugno 1918) e due alti riconoscimenti come la Medaglia della Vittoria

    e quella francese per meriti di guerra6. Collocato in congedo nel 1919, gravato da

    un’invalidità al ginocchio fratturatosi in conseguenza del calcio di un mulo, Ansaldo concluse

    gli studi laureandosi alla fine del 1919 e apprestandosi, in accoglimento delle aspirazioni

    paterne, a intraprendere la carriera accademica.

    Rieccoci, dunque, all’incontro con Giuseppe Canepa in piazza De Ferrari, e all’inizio di un

    rapporto di collaborazione destinato, nei suoi alti e bassi, a segnare in profondità i successivi

    quindici anni della vita di Ansaldo. Un incontro, quello tra il giovane intellettuale e

    l’“anziano” uomo politico e giornalista che lo sopravanzava di trent’anni esatti – era nato a

    Diano Marina nel 1865 –, realizzatosi in un clima di piena bagarre elettorale: presentata sulla

    prima pagina del quotidiano genovese il 19 ottobre 1919, la lista del Partito del Lavoro (in

    competizione tra le file socialiste con quella dei socialisti ufficiali nel collegio di Genova-

    Porto Maurizio), composta da Francesco Abba, Ferruccio Ancilotti, Gino Arias, Pietro

    5 Giovanni Ansaldo, Austria e Germania, in «L’Unità», IV, 22, 28 maggio 1915, pp. 690-691.6 Le informazioni sulla carriera militare di Ansaldo sono illustrate con grande dovizia di particolari da Marcello Staglienonell’introduzione, intitolata Un conservatore tra antifascismo e fascismo, a Giovanni Ansaldo, L’antifascista riluttante.Memorie del carcere e del confino 1926-27, a cura di Marcello Staglieno, Bologna, il Mulino, 1992, pp. 9-104, in particolarep. 14. Al di là dello specifico richiamo, il saggio è ancora oggi il testo critico più competo ed esaustivo, seppur incentratosoprattutto sugli anni del «Lavoro», attorno alla vita e alla carriera giornalistica di Ansaldo. Sulla sua esperienza bellica siveda poi la raccolta di articoli Grigioverde, prefazione di Francesco Perfetti, Firenze, Le Lettere, 2011.

  • VII

    Bernier, Mario Bettinotti, Giuseppe Canepa, Lodovico Erasmi, Ubaldo Formentini, Luigi

    Gallo, Giuseppe Giulietti, Giovanni Lerda, Andrea Mangini, Augusto Mombello, Carlo Nardi

    e Luigi Uttini, si proponeva di svolgere un ruolo da protagonista alle elezioni per la XXV

    legislatura del 19 novembre 1919, le prime tenute con il sistema proporzionale; socio della

    sezione genovese dell’Associazione Radicale, Ansaldo, che aveva già incontrato Canepa al

    fronte, tenente del 90° Fanteria, inviò al «Lavoro» una lettera aperta pubblicata il 29 ottobre

    1919 con la quale, respingendo come guidato da ragioni sentimentali e non politiche l’ordine

    del giorno votato il 24 ottobre dall’assemblea dei radicali in cui si formalizzava l’appoggio

    all’Associazione dei Combattenti, ufficializzava il proprio sostegno alla lista di Canepa,

    partecipando altresì alla sottoscrizione per le spese elettorali con un contributo di 25 lire7.

    L’articolo che comparve il 29 novembre 1919 sotto il titolo Il Mezzogiorno e la vittoria del

    Socialismo sulla prima pagina del «Lavoro» mostra in tutta evidenza come l’aspirante

    giornalista, al quale erano state immediatamente concesse le luci della ribalta senza alcuna

    necessità di profondersi in lunga e faticosa opera di apprendistato, lasciasse già intravvedere

    qualità non comuni. Dal canto suo Canepa, pur accorgendosi subito delle capacità del nuovo

    arrivato, non gli concesse consistenti soddisfazioni economiche, invitandolo a far parte della

    redazione soltanto a partire dal 1921, salvo nominarlo poco dopo, il 1° gennaio 1922,

    redattore capo; fin dagli esordi Ansaldo fu spronato a fornire una collaborazione sempre più

    assidua (che già nel 1920 ammontava a una media di quattro articoli mensili), e, al di là

    7 Vale forse la pena di riportare alcuni passaggi di questo documento poco noto, come poco nota è la partecipazione almovimento radicale di Ansaldo – non esattamente sovrapponibile alle frequentazioni politiche del padre, che si candidò alleelezioni amministrative del 7 novembre 1920 nella lista del blocco demo-combattente (nata dall’unione tra Associazionenazionale combattenti e Comitato liberale democratico) e fu chiamato a ricoprire la carica di consigliere comunale nellagiunta insediatasi il 27 novembre 1920 sotto la guida di Federico Ricci ultimo sindaco di Genova prima della riforma fascista–, la quale dovette comunque protrarsi soltanto per pochi mesi. Vi si scorge infatti una consapevolezza politica matura, giàsviluppata in senso liberal-conservatore, ma soprattutto capace di considerare i problemi politici al di sopra delle divisionipartitocratiche: «Caro Canepa, Il Lavoro di domenica ha pubblicato, senza fare seguire alcun commento, il comunicato dellaSezione Genovese del Partito Radicale, contenente la decisione di dare il proprio appoggio pieno e incondizionato alla listadella Associazione dei Combattenti. […] Il comunicato in questione consta di due parti: le premesse, e l’ordine del giornovotato. Importanti, obbligatorie, impegnative per tutti i soci, sono soltanto le premesse: e cioè l’Assemblea convenne nelritenere che condizione precipua per una affermazione vittoriosa delle forze democratiche, debba essere quella di una sanaconcentrazione loro contro il prevalere di estremismi rossi e neri e contro il non meno dannoso assenteismo delle classi medieed intellettuali, nelle lotte che decidono del governo della cosa pubblica. In queste parole è espresso veramente il pensierodirettivo e fondamentale del nostro partito: ogni affermazione diversa sarebbe incompatibile col nome e colla qualità diinscritti al Partito Radicale. L’ordine del giorno vero e proprio, invece, non è, a mio parere, una dichiarazione di pensieropolitico, ma bensì di tendenze sentimentali. E ragioni sentimentali furono quelle svolte dagli egregi consoci, che sostenneroed acclamarono la adesione alla lista dei combattenti. […] Quando io, non sono molti mesi, mi iscrissi nella Radicale, credettidi entrare in una associazione politica: e che tale essa sia, nonostante distrazioni transitorie, lo credo tuttora. Perciò ritengoche la mia qualità di socio attivo della Radicale sia perfettamente compatibile col proposito, da parecchi altri consocicondiviso, di votare, e di aiutare negli altri modi che mi sono possibili la Lista del Lavoro. Mi pare che la lista del lavoro siavvicini, meglio di ogni altra, a dare la realizzazione completa di tale programma: perciò io, come radicale, le darò il miovoto. Non ritengo – e tale mia opinione forse esorbita dall’esame di un ristretto gruppo politico, e considera tutto uno statod’animo assai diffuso e assai sfruttato – non ritengo che il mezzo più adatto per dare una prova di riconoscenza a chi hacombattuto, sia quello di mandarne in Parlamento i candidati. […] Abbia pazienza, caro Canepa, di questa non brevespiegazione. Essa vuole essere soltanto una testimonianza (spero non sgradita a Lei e ai suoi amici) indicante che anche inquesta benedetta democrazia radicale vi è chi si preoccupa della concreta realtà politica, e non si arresta e non si limitaall’espressione di una fede e di un entusiasmo, nobili finché si vuole, ma politicamente vuoti» (Giovanni Ansaldo, Letteraaperta di un radicale genovese, in «Il Lavoro», XVII, 296, 29 ottobre 1919, p. 3).

  • VIII

    dell’effettiva assegnazione degli incarichi, il direttore finì per promuoverlo, complici le

    forzate assenze da Genova che la sua nomina a deputato al Parlamento comportava e le

    insistenze dell’amministratore Carlo Bordiga8, a suo alter ego in redazione, nonostante le già

    percepibili divergenze di indirizzo politico che, criptiche e insondabili nei primi anni di

    sodalizio, sfoceranno in aperti momenti di contrasto tra il 1927 e il 1935, conducendo il loro

    rapporto a una lunga fase di convivenza forzata e mal tollerata, sfociata nella insanabile

    rottura avvenuta alla fine del 1935.

    Appare in effetti sin dall’inizio singolare la posizione di Ansaldo, il quale, redattore di un

    giornale a esplicita vocazione socialista, coinvolto con tutte le sue forze nelle convulse fasi

    politiche dei primi anni Venti destinate a sfociare nel definitivo consolidamento del partito

    fascista sigillato dalla marcia su Roma del 28 ottobre 1922, mai si iscrisse al partito socialista,

    né prese parte a iniziative di ordine politico in cui non fosse ravvisabile una ben definita

    impronta intellettuale9. Meno singolare, però, se si pensi che la stessa vocazione incarnata dal

    «Lavoro», eminentemente rappresentata da Giuseppe Canepa, sempre negata e comunque

    sotterraneamente contrastata da Ansaldo, risentiva poi degli stessi limiti – nel suo essere cioè

    più di stampo teorico che legata all’attuazione di concrete misure di emancipazione delle

    classi subalterne – da cui l’intera storia del socialismo riformista sembra nel suo complesso

    essere gravata.

    Un equivoco che traspariva fin dalla fondazione del quotidiano, prospettata il 26 aprile

    1903 al congresso costitutivo dell’Unione Regionale Mutue, Leghe e Cooperative, e arrivata a

    compimento il 7 giugno 1903 con l’uscita del primo numero sotto la direzione di Canepa:

    formalmente indipendente dal Partito Socialista e finanziato da una forma di azionariato

    popolare in cui spiccavano le leghe dei facchini e degli scaricatori di carbone del porto di

    Genova – che con la cooperativa di consumo l’Emancipazione versavano circa il 50% delle

    60.000 lire previste come capitale iniziale – il giornale si trovava a essere gestito, nella

    pratica, dai primi componenti del Consiglio di amministrazione, i sindacalisti Lodovico

    Calda, Gino Murialdi e Pietro Chiesa10. All’epoca dell’ingresso di Ansaldo in redazione erano

    cambiate alcune delle figure di riferimento (Chiesa era morto nel 1915, Murialdi nel 1920),

    8 Membro del Partito Socialista Italiano dalla sua fondazione, Giuseppe Canepa in occasione delle elezioni del 19 novembre1919 era stato costretto a rinunciare al suo seggio in Parlamento in favore del potentissimo capitano marittimo GiuseppeGiulietti, segretario della Federazione della Gente di Mare e forte azionista del «Lavoro», unico eletto della lista del Partitodel Lavoro in quella circostanza, ma ne rientrò in possesso a seguito delle elezioni del 15 maggio 1921, come capolista delPartito Socialista Autonomo.9 Le stesse iniziative, di cui si dirà in seguito, promosse da Piero Gobetti e da altri intellettuali antifascisti alle quali Ansaldopure aderirà con convinzione (e tra queste spicca senz’altro l’apposizione della firma in calce al Manifesto degli intellettualiantifascisti del 1925), furono infatti prive di connotazioni legate alle tradizionali formazioni politiche.10 Sulle origini del «Lavoro» si veda in particolare l’esaustivo saggio di Luca Borzani, Per la storia di un quotidianosingolare. Nacque coi soldi dei portuali «Il Lavoro» riformista, in «Problemi dell’informazione», XIV, 1, gennaio-marzo1989, pp. 77-98.

  • IX

    ma non era per nulla mutata l’impressione di un quotidiano più orientato a rispecchiare le

    opinioni politiche e gli interessi dei suoi patrocinatori (a Calda e Canepa, si aggiungeva anche

    la figura di Luigi Uttini) che a rispondere alle effettive esigenze delle rappresentanze operaie.

    Ma in questa fase ad Ansaldo, praticante appassionato e volenteroso, queste trame

    dovevano sembrare poco interessanti. Proprio in quegli anni, la trasformazione delle

    prospettive editoriali di un giornale che, al pari degli altri quotidiani di provincia, cominciava

    a vedersi garantita la possibilità di aumentare in pianta stabile il numero di pagine stampate da

    due a quattro o sei11, doveva aprire spazi tali da consentire una trattazione tematica più ampia

    di quella sinteticamente cronachistico-politica fino a quel momento esercitata e la definitiva

    affermazione della terza pagina quale capillare strumento di informazione e promozione

    culturale: e un giovane ambizioso come lui non poteva non individuare, nello schiudersi di

    queste nuove opportunità, lo strumento per fare del «Lavoro» un foglio autorevole, moderno,

    politicamente impegnato ma decisamente alleggerito delle scorie attivistiche e

    propagandistiche proprie dei bollettini di partito.

    La spinta innovatrice con la quale Ansaldo concepiva la composizione del quotidiano

    contribuisce ad arricchire il profilo di un giornalista che non fu soltanto un duttile e

    straripante “produttore” di articoli, ma seppe altresì occuparsi della preparazione delle pagina

    stampata in tutta la sua interezza, prestando attenzione tanto ai contenuti quanto alla compiuta

    realizzazione tipografica e osservando analiticamente anche le coeve esperienze

    giornalistiche, con l’intento di realizzare un prodotto sempre appetibile in ottica commerciale.

    Vale la pena, a questo proposito, riportare alcuni passi di una lunga lettera indirizzata da

    Ansaldo a Natalino Sapegno, allora collaboratore della «Rivoluzione Liberale» alla ricerca di

    informazioni propedeutiche alla stesura di una serie di articoli dedicati a illustrare il panorama

    della stampa quotidiana delle principali città italiane12, nella quale si offre un quadro chiaro e

    molto dettagliato del milieu genovese dei primi anni Venti:

    Credo che il pubblico genovese sia uno dei più misoneisti in materia di giornali. Testimonio

    l’«Azione» che, nel primo anno di vita fu uno dei giornali più intellettuali d’Italia, con

    collaborazione abbondante e varia (c’erano i soliti frati zoccolanti A. Crespi, E. Fabietti, R. Murri,

    ecc. ma c’erano anche Prezzolini, Folgore, e altri buoni): e che sempre finché si pubblicò fu il

    meglio giornale di Genova: eppure non riuscì mai a toccare le 10.000 copie di tiratura durante

    11 Le organizzazioni operaie, interamente proprietarie del giornale a partire dal 9 aprile 1920, arrivarono a finanziare neldicembre 1920 l’acquisto, presso la Vogtländische Maschinenfabriche di Plauen, di una potente rotativa capace di stamparesedici pagine alla velocità oraria di quarantamila copie, permettendo la stampa di numeri di sei o più pagine. Il nuovomacchinario entrò in funzione il 10 giugno 1921.12 Sapegno pubblicò a conclusione della sua inchiesta soltanto tre articoli firmati con l’iniziale «S.», nessuno dei tre aventeper oggetto i quotidiani genovesi: Del giornalismo in Italia, in «La Rivoluzione Liberale», II, 20, 26 giugno 1923, p. 82;Torino e «La Stampa», in «La Rivoluzione Liberale», II, 24, 28 agosto 1923, pp. 99-100; Il padre nobile del giornalismoitaliano, in «La Rivoluzione Liberale», II, 25, 4 settembre 1923, p. 103 (su Luigi Albertini e il «Corriere della Sera»).

  • X

    quattro anni. Il pubblico borghese continuava a comperare il «Caffaro» o il «Secolo XIX». […] Il

    pubblico genovese continuava a leggere il “XIX” fatto, allora come oggi, coi piedi. Si può certo

    affermare che esso è il giornale fatto peggio d’Italia: lo è talmente che io certe volte dubito che il

    pubblico, in fondo, abbia una preferenza per i giornali fatti male, con le notizie che ignorano ogni

    tentativo di coordinamento, con i titoli messi a pie’ di colonna e il corpo del pezzo che gira per

    conto suo: oppure con titoli che si ripetono di fila tre o quattro giorni come: La situazione politica

    parlamentare (testuale); oppure: la situazione internazionale, il momento internazionale: mai tre

    parole che richiamino il lettore sull’avvenimento del giorno, che riassumano in una frase il succo

    di un decreto legge o di un Consiglio dei Ministri. […] Bisogna tener presente che il Secolo XIX

    spaccia le sue 30-40.000 copie nella piccola borghesia di piazza Banchi della borsa merci,

    bottegai: lo si trova sempre dai parrucchieri, nei vagoni di 2ª classe che portano i mariti in

    campagna al sabato sera, ecc. […] Il «Caffaro» (qualche migliaia di copie: non arriva a 10.000) è,

    prima di tutto, un giornale livragato dal titolo, ricordo dei tempi per cui i mille lettori di un

    quotidiano erano tutti dottori, e sapevano tutti perfettamente che Caffaro fu un annalista genovese

    del XII secolo. Oggi non lo sanno più, e chissà cosa credono che voglia significare quella parola

    bizzarra. Si rivolge, forse, ad un pubblico borghese un tantino più eletto di quello del «XIX»: ed è,

    tipograficamente, assai meno male insaccato. […] Ho detto giornali borghesi, ma badi che il

    «Lavoro», per quanto letto molto dal popolino, va anche nella borghesia, e poi è tutt’altro che

    socialista. Non commetta, la prego, l’errore di chiamarlo tale. Il «Lavoro» vivacchiò dal 1905 al

    1918 come giornale personale dell’on. Canepa, esponente del movimento cooperativo portuario:

    nel ’19 si costituì una anonima fra le Cooperative portuarie, la Banca Ligure e la Federazione

    Gente di Mare. Cominciò dopo la guerra la sua diffusione più vasta, sopratutto per la cronaca,

    abbondante, curata nei fattacci, con buoni capocronaca, abbondanza di titolame, fotografie di

    delinquenti illustri, ecc. Non si può negare che anche allora era, dal punto di vista delle

    informazioni politiche, immensamente superiore agli altri giornali cittadini, tranne «L’Azione»: e

    anche come collaborazione cercò di avere qualcheduno e ebbe difatti, saltuariamente, Salvemini,

    Prezzolini, Zibordi, Rigola, De Falco, Pietro Silva, e soprattutto gli articoli di Canepa, giornalista

    principe. […] Oggi «Il Lavoro» è il più diffuso giornale di Genova, tira sulle 80.000 copie: ha una

    quasi esclusività di vendita nel triangolo Sampierdarena-Voltri-Pontedecimo e delle 80.000,

    40.000 copie sono vendute nella città. Ma nessuno vuol credere ad una tale diffusione:

    apparentemente il più diffuso giornale di Genova è il «XIX». […] Restano a Genova ancora il

    «Cittadino» e il «Corriere Mercantile» che esce nel pomeriggio: il primo sedicente popolare, in

    realtà accetta dietro sovvenzioni articoli per il protezionismo dei cuoi, inserzioncelle dell’avv.

    Gigetto Parodi, cioè dei Perrone, insomma quello che porta il mercato d’ogni giorno. Il «Corriere

    Mercantile» proprietà dei fratelli Piaggio, armatori, a tinta nazionalista13.

    Pur gravata da inevitabili aspirazioni autopromozionali, la dichiarazione di Ansaldo è

    comunque sintomatica di un contesto editoriale multiforme e ad alto tasso concorrenziale, per

    tali ragioni destinato a essere sottoposto, negli anni successivi, a una nutrita serie di

    13 Lettera di Giovanni Ansaldo a Natalino Sapegno, databile alla prima metà del luglio 1923, edita in Natalino Sapegno, Lepiù forti amicizie. Carteggio 1918-30, a cura di Bruno Germano, Torino, Aragno, 2005, pp. 123-128.

  • XI

    mutamenti. Proprio di lì a pochi giorni, il 1° agosto 1923, un momento di svolta assai

    significativo sarebbe arrivato con l’irruzione sul mercato del primo quotidiano genovese

    dichiaratamente fascista, il «Giornale di Genova», posto da Mussolini sotto la direzione dei

    gerarchi Giovanni Pala e Ferruccio Lantini – incarico che avrebbero ricoperto fino al 1927 –

    con l’obiettivo di conquistare la supremazia cittadina: a dimostrazione dell’impermeabilità del

    tradizionalismo ligure, il giornale, nonostante i copiosi finanziamenti ricevuti dal partito e da

    cordate di industriali e armatori locali, avrebbe varcato di rado la soglia delle 30.000 copie

    (raggiungerà le 43.000 soltanto nelle ultime fasi della guerra), impensierendo la redazione del

    «Lavoro» più per motivi di ordine pubblico che per ragioni di rivalità commerciale; alla sua

    causa valse poco l’assorbimento dello storico «Caffaro», che chiuse le pubblicazioni il 1°

    gennaio 1930, mentre qualche risultato in più fu ottenuto con l’arrivo alla direzione nel 1930

    di Giorgio Pini, che a partire dal 1° agosto 1931 divenne congiuntamente responsabile anche

    del più antico foglio genovese ancora in vita, il pomeridiano «Corriere Mercantile», appena

    ceduto dalla famiglia Piaggio alla società editrice del quotidiano fascista. «Il Secolo XIX», di

    proprietà dei Perrone, molto letto nelle famiglie della buona borghesia, e «Il Lavoro», di

    impronta più popolare, continuarono comunque a contendersi il primato di vendite

    assestandosi per tutto il Ventennio su una tiratura doppia rispetto a quella dell’ultimo nato. Va

    da sé che il più filofascista «Secolo» finì per imporsi cavalcando con maggiore entusiasmo le

    vittorie del regime negli anni Trenta e approfittando anche del ridimensionamento del

    quotidiano cattolico «Il Cittadino» (riapparso il 1° gennaio 1929 dopo un semestre di

    interruzione con la testata mutata in «Il Nuovo Cittadino»)14.

    Sono tuttavia gli anni tra il 1923 e il 1926, di poco precedenti all’inesorabile processo di

    omologazione messo in atto da Mussolini nel settore della stampa, a restituire con maggiore

    vivacità quel senso di appartenenza a movimenti politici o ideali, quella volontà di

    rappresentare le istanze di specifiche categorie sociali, che si riverberano nelle accese

    polemiche scoppiate tra le redazioni delle varie testate. Si tratta di un’impostazione editoriale

    espressa sia sul piano della cronaca politica, dove si esercitano senza esclusione di colpi le

    rispettive fedi, sia sul côté culturale, ingaggiando una strenua lotta per favorire l’afflusso al

    proprio giornale delle collaborazioni più prestigiose.

    14 Per ulteriori notizie sulle testate liguri nella prima metà del Novecento segnalo, oltre alle note generali contenute nelsempre valido lavoro di Paolo Murialdi, La stampa quotidiana del regime fascista, in La stampa italiana nell’età fascista, acura di Valerio Castronovo e Nicola Tranfaglia, Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 31-257 (poi riproposto in un’edizioneaggiornata e accresciuta con il titolo La stampa del regime fascista, Roma-Bari, Laterza, 1986, al quale d’ora in poi sirinviano le citazioni), il saggio di Stefano Verdino, La cultura tra le due guerre, in La letteratura ligure. Il Novecento,Genova, Costa & Nolan, 1988, vol. I, pp. 269-379, in particolare al par. 2, Giornali e terza pagina, pp. 290-302. Sulla storiadel «Secolo XIX» si veda Ombretta Freschi, «Il Secolo XIX». Un giornale e una città (1886-2004), Roma-Bari, Laterza,2005.

  • XII

    Emblematico il caso del «Lavoro», segnalatosi in quello specifico arco temporale come

    uno dei giornali di opposizione più agguerriti dell’intero panorama nazionale, capace di

    attirarsi le rimostranze degli avversari tanto per il suo esibito anticlericalismo quanto per il

    suo strenuo antifascismo (e in tal caso le rimostranze varcarono spesso la soglia della pagina

    scritta), un quotidiano nel quale appare difficile individuare una netta linea di confine tra

    direttive politiche e orizzonte culturale. Mai come in quel breve volgere di anni, infatti, le due

    istanze apparivano fuse, mai la risposta civile degli intellettuali, coagulatasi attorno a pochi

    centri di irradiazione, era stata, di fronte alle violenze fasciste, così ferma a dispetto del

    clamoroso vuoto politico che di quello stato di emergenza era stato uno delle principali

    concause: a leggere le pagine del foglio genovese ci si imbatte così non solo negli scritti dei

    maggiori esponenti del socialismo riformista italiano, da Filippo Turati a Claudio Treves, da

    Arturo Labriola a Camillo Prampolini, ma anche nelle più importanti firme del panorama

    culturale antifascista, come Gaetano Salvemini, Giustino Fortunato, Piero Gobetti, Giuseppe

    Rensi, Pietro Silva, Mario Vinciguerra, Santino Caramella e – per un breve periodo –

    Giuseppe Prezzolini, uomini con i quali Ansaldo aveva stabilito una consuetudine che andava

    ben oltre il formalismo dei rapporti tra un redattore capo e la nutrita pattuglia dei collaboratori

    del suo giornale.

    Limitata a pochi articoli di critica teatrale e all’attività di traduttore, la collaborazione di

    Piero Gobetti alle sorti del «Lavoro» dice poco dell’importanza che l’incontro con il torinese,

    ben testimoniato dal carteggio oggi a disposizione degli studiosi nella sua forma completa e

    definitiva15, ebbe nella maturazione di Ansaldo, un’importanza tale da ingenerare un vero e

    proprio sconvolgimento nel suo rigido sistema di pensiero, contribuendo – senza arrivare a

    sovvertirne fino in fondo le convinzioni politiche – a consolidare attorno alla sua figura

    un’immagine pubblica e un profilo giornalistico profondamente innestati nella battaglia

    condotta dagli intellettuali antifascisti. Invitato a scrivere per «Energie Nove» già nel gennaio

    1919, Ansaldo, pur non figurando nel novero dei collaboratori della prima rivista gobettiana,

    entrò immediatamente nel vortice delle iniziative promosse dal giovane intellettuale

    partecipando alla fondazione della «Lega democratica per il rinnovamento della politica

    nazionale», costituitasi in occasione del Congresso degli unitari svoltosi a Firenze dal 17 al 19

    15 Giuseppe Marcenaro, che tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta ha utilizzato in diversi articoli giornalisticile lettere inviate da Gobetti a Ansaldo, è pervenuto nel 1982 a una loro complessiva sistemazione (Lettere di Piero Gobetti aGiovanni Ansaldo (1919-1926), presentazione di Giuseppe Marcenaro, edizione e note a cura del C.[entro] S.[tudi] P.[iero]G.[obetti] e di G.[iuseppe] M.[arcenaro], in «Mezzosecolo», 3, 1978-1979 [finito di stampare: marzo 1982], pp. 55-109);soltanto quindici anni più tardi il carteggio si è completato con le lettere di Ansaldo a Gobetti, pubblicate a cura di MarcoScavino (Lettere di Giovanni Ansaldo a Piero Gobetti (1923-1925), in «Mezzosecolo», 11, 1994-1996 [finito di stampare:novembre 1997], pp. 73-122); le lettere scritte da Gobetti a Ansaldo dal 1919 al 1922 hanno poi trovato spazio nel Carteggio1918-1922, a cura di Ersilia Alessandrone Perona, Torino, Einaudi, 2003.

  • XIII

    aprile dello stesso anno quale ideale proseguimento dei «Gruppi di azione degli amici

    dell’Unità» sorti attorno al periodico salveminiano.

    È però tra la fine del 1921 e l’inizio del 1922 che Ansaldo stringe un rapporto ancor più

    stretto con Gobetti, avallando, seppur dopo molte insistenze, la proposta di uno scambio di

    abbonamenti tra «Il Lavoro» e i periodici dell’amico, acconsentendo alla sua richiesta di

    scrivere un paio di articoli mensili per il quotidiano genovese e, infine, facendo il suo ingresso

    sul terzo numero della «Rivoluzione Liberale» nel dibattito – generatosi attorno al Manifesto

    con il quale il 12 febbraio 1922 la nuova rivista settimanale aveva inaugurato le pubblicazioni

    – cui presero parte anche Filippo Burzio, Ubaldo Formentini e Domenico Giuliotti. Da quel

    momento, e pur su posizioni ideologiche ben distinte, Ansaldo divenne un ineludibile punto di

    riferimento per le ferventi attività editoriali dell’amico, svolgendo una metodica opera di

    consigliere, e adoperandosi per fornire contributi di carattere pratico: oltre a un rilevante aiuto

    finanziario con il quale partecipò alla nascita del periodico (il nome di Ansaldo comparve

    infatti come primo e più munifico dei sottoscrittori con la ragguardevole somma di 500 lire

    nell’elenco stampato sul primo numero, una pubblicità di cui egli si dolse, al punto da far

    dubitare dell’autenticità del contributo16), il giornalista profuse un grande impegno insieme a

    Santino Caramella per reperire sulla piazza genovese un consistente quantitativo di abbonati e

    inserzionisti.

    Quanto alla collaborazione strictu sensu, è dal giugno 1922, con il trittico di articoli

    dedicati alla Conferenza di Genova, che Ansaldo si impose come la «colonna diplomatica»

    della rivista, incarnando alla perfezione una definizione che dice, insieme, le sue qualità di

    cronista politico e la sua abilità nello sferzare sarcasticamente il potere senza assumere

    atteggiamenti di aperta opposizione. Per Genova (al di là dell’aneddoto che vuole

    l’appuntamento originariamente destinato a Ginevra), per «Il Lavoro», per Ansaldo stesso, la

    Conferenza economica europea svoltasi tra il 10 aprile e il 19 maggio 1922 rappresentò, con

    la sua capacità di catalizzare all’ombra della Lanterna l’attenzione dell’intera comunità

    internazionale, un evento di importanza fondamentale: già presenti alla Conferenza di Cannes

    del gennaio 1922, nella quale si era prospettata l’organizzazione di un successivo consesso di

    carattere economico, Canepa e Ansaldo seguirono passo passo i lavori della Conferenza,

    16 «Caro Ansaldo, il tuo rimprovero è giusto. Ma anch’io ho ragione. La Riv. Lib. ha bisogno di soldi. Per stimolare asottoscrivere nulla meglio dell’esempio – perciò l’Elenco. Ti pare che se non si fosse trattato di ciò avrei messo anche la miaquota? Comunica la spiegazione a Caramella che era anche lui seccato» (lettera di Piero Gobetti a Ansaldo del 16 febbraio1922, edita in Lettere di Piero Gobetti a Giovanni Ansaldo (1919-1926), cit., p. 66).

  • XIV

    dall’arrivo delle delegazioni straniere allo svolgimento effettivo degli incontri ai quali prese

    parte il gotha della politica europea, da Lloyd George a Barthou, da von Rathenau a Cicerin17.

    Se dell’esperienza di Ansaldo alla Conferenza è rimasto celebre soprattutto il burrascoso

    incontro con Giuseppe Ungaretti, destinato a sfociare in una lite ricompostasi al limite della

    vertenza cavalleresca per alcune frasi irriguardose del giornalista che il poeta credette rivolte a

    Gabriele d’Annunzio, la cui effige era stata stampata in un volantino propagandistico avverso

    allo svolgimento dell’appuntamento internazionale (e che erano indirizzate non già al vate, ma

    all’anonimo promotore dell’iniziativa)18, la partecipazione a un evento di questa portata

    consentì al giovane pubblicista di proiettarsi in un orizzonte ben più ampio di quello offerto

    da un panorama cittadino che, pur amato nei caratteri legati alle sue tradizioni e al suo

    paesaggio, appariva fin da quegli anni assai angusto per il compiuto spiegarsi delle sue

    ambizioni.

    Non per nulla è proprio in questi primi anni di professione che Ansaldo compie i più lunghi

    viaggi della sua carriera come corrispondente all’estero, esercitando la propria conoscenza

    delle lingue francese e tedesca e prendendo visione in prima persona dei fermenti politici

    determinati dal trattato di Versailles: già nel febbraio 1921, da poco membro effettivo della

    redazione del giornale, partiva per Berlino iniziando un lungo giro nelle principali città

    tedesche conclusosi soltanto alla fine del mese di maggio. La fitta serie di articoli inviati dalla

    Germania, comprendenti anche alcune interviste raccolte con personalità politiche di primo

    piano, comparvero, a testimonianza dell’ormai acquisita riconoscibilità della sua firma a

    livello nazionale, non soltanto sul «Lavoro» ma anche sul «Popolo Romano», al quale

    Ansaldo inviò molte delle sue corrispondenze grazie al probabile tramite di Piero Gobetti, che

    del quotidiano capitolino era assiduo collaboratore.

    Due anni dopo, all’inizio del 1923, Ansaldo avrebbe trascorso in Germania altri mesi,

    tornando ad assumere l’incarico di corrispondente estero quando in Italia si era appena

    determinata una svolta decisiva nella vita politica nazionale. La fiammata prodotta dalla

    marcia su Roma, consegnando il paese nelle mani di un movimento politico ancora lontano

    17 Le tre puntate dedicate all’evento pubblicate sulla «Rivoluzione Liberale», con il titolo La Conferenza di Genova (I, 17, 11giugno 1922, pp. 63-64; I, 18, 18 giugno 1922, pp. 67-68; I, 19, 25 giugno 1922, pp. 73-74), nonché un quarto lunghissimoarticolo (La diplomazia italiana a Genova, I, 26, 10 settembre 1922, pp. 95-97) incentrato sull’analisi del contegno degliuomini politici italiani nei lavori della Conferenza, compendiavano i quotidiani resoconti cronachistici usciti anonimi sul«Lavoro». Nell’impossibilità di stabilire con certezza quali di questi “corsivi” notati da Gobetti all’atto della formulazionedella sua offerta («Caro Ansaldo, dopo 40 giorni di “corsivo”, vuoi continuare le tue “insinuazioni” sulla RL sino atrasformarle in un processo alle psicologie politiche (Loyd George, Cicerin, Schanzer, Barthou, ecc.) e agli spiritinazionali?», si legge in una lettera del 19 maggio 1922, edita in Lettere di Piero Gobetti a Giovanni Ansaldo (1919-1926),cit., p. 70) fossero realmente usciti dalla penna di Ansaldo, si è scelto di escluderli dal regesto bibliografico.18 Del curioso episodio avvenuto nei giorni della Conferenza presso Palazzo Patroni, dove si era stabilita la «Casa dellaStampa», Ansaldo, riconciliatosi con Ungaretti, avrebbe fornito qualche anno più tardi un divertito resoconto nell’articolo Lasfuriata di un poeta (rubrica Calendarietto), in «Il Lavoro», XXXI, 160, 7 luglio 1933, p. 3 (ristampato in «pietre», IX,luglio-agosto-settembre-ottobre 1983, p. 45).

  • XV

    dalla rigida organizzazione gerarchica che lo avrebbe contraddistinto negli anni a venire,

    aveva lasciato campo libero ai personali regolamenti di conti promossi dalle sezioni locali del

    partito: da tempo nel mirino degli squadristi, «Il Lavoro» non uscì per i dodici giorni

    successivi al 28 ottobre, per ripresentarsi ai lettori il 10 novembre 1922 con una lettera di

    Canepa – le cui dimissioni, accompagnate da quelle di Ansaldo, erano state giudicate

    indispensabili dal segretario del fascio genovese Giovanni Pala per la rimozione del veto alla

    pubblicazione – che annunciava di aver ceduto la direzione del giornale a Lodovico Calda19.

    Consigliato dagli avvenimenti a optare per un momentaneo allontanamento, anche in

    considerazione dell’ostinazione con la quale alcuni fascisti genovesi, probabilmente animati

    da una carica di revanscismo sociale determinato dalle sue condizioni di agiatezza economica,

    parevano averlo preso di mira, Ansaldo rielaborò gli appunti di un viaggio compiuto in

    Abruzzo nella seconda metà del mese di settembre (pubblicati in cinque puntate sulla

    «Rivoluzione Liberale» tra il 30 novembre 1922 e il 25 gennaio 1923) e si apprestò a partire

    valendosi anche di un accordo raggiunto con «La Stampa» di Alfredo Frassati. Lo ritroviamo

    dunque, tra gennaio e aprile 1923, mentre fornisce i primi resoconti dell’occupazione

    transalpina della Ruhr: le sue cronache, attente soprattutto a raccogliere le impressioni della

    popolazione locale, impegnata in una tenace resistenza passiva, e dei militari francesi in

    azione, compaiono sia sul quotidiano torinese (dove Ansaldo conservava ancora il diritto di

    firmare), sia, in misura sempre più cospicua, sul «Lavoro», dapprima presentate in veste

    anonima, successivamente accompagnate dallo pseudonimo «Ultramontano». Il soggiorno in

    Renania venne così a coincidere con un periodo di relativa tranquillità personale se si pensa a

    ciò che accadeva in Italia, dove Gobetti (con il padre, il pittore Felice Casorati e il tipografo

    Armando Pittavino) avrebbe subito l’arresto il 6 febbraio 1923, nell’ambito di un’operazione

    di polizia indirizzata contro i movimenti che animavano l’opposizione torinese20.

    19 Le annotazioni diaristiche di Ansaldo nei giorni della marcia su Roma (in data 28 e 29 ottobre 1922) sono state pubblicate,a cura di Stefano Verdino, sotto il titolo Cotesto giornale non deve essere più pubblicato. Brani inediti di Giovanni Ansaldo,in «L’indice dei libri del mese», XXI, 4, aprile 2004, p. 17.20 Appresa la notizia da una nota del «Corriere della Sera» del 10 febbraio, Ansaldo scrisse prontamente (il 12) da Colonia alpadre dell’intellettuale torinese per ottenere informazioni sulla sua sorte, ignorando come anche lui fosse stato interessato dalfermo giudiziario (Lettere di Giovanni Ansaldo a Piero Gobetti (1923-1925), cit., pp. 74-75). Interessanti in proposito sonoanche le apprensioni espresse dal giornalista in una lettera al padre Francesco del 16 febbraio (parzialmente riprodotta daMarcello Staglieno a p. 16 della sua introduzione a L’antifascista riluttante), e soprattutto la lunga missiva di SantinoCaramella che, invitando l’amico a trattenersi ancora per qualche tempo lontano da Genova, forniva un realistico quadrodella situazione personale di Ansaldo in città: «Che ci fosse per l’aria un mandato di cattura per te, credo di poter escludere:ma l’arresto di Serrati e… Nenni (l’invulnerabile) mi pare che sia un avviso a stare in guardia. Per quel che posso pensare,credo che se tu ritornassi non ti farebbero niente, ma non ti lascerebbero più il passaporto per l’estero: gente che stia fuori adir male di lui, il Governo non ne vuole. Per questo, se vuoi un consiglio, stattene ancora costì per qualche tempo, dato che cistai bene, che ti diverti, e che qui avresti poco da fare. […] Quanto a Girardi e C., sta certo che non ti dimenticano» (letteradel 7 marzo 1923 di Santino Caramella a Ansaldo, edita in Lettere al redattore capo. Dalle carte di Giovanni Ansaldo, a curadi Giuseppe Marcenaro, Milano, Archinto, 1994, pp. 28-33, in particolare pp. 29-30; il Girardi cui si allude è RemigioGirardi, che nelle fasi successive alla marcia su Roma costituì, con Giovanni Pala e Giuseppe Olivi, un “triumvirato” postoalla guida del fascio genovese).

  • XVI

    Ristabilita una parvenza di ordine pubblico con l’insediamento del primo governo

    Mussolini, Ansaldo poté riprendere la sua attività presso la redazione del «Lavoro»

    riaffacciandosi alle pubblicazioni, da questo momento in poi siglate di preferenza con le sole

    iniziali, a cominciare proprio da una recensione alla raccolta di critiche teatrali gobettiane La

    frusta teatrale edita da Corbaccio21. Non ancora giunta la fine del 1923, il giornalista accorse

    nuovamente, e ancora una volta su invito della «Stampa», in Germania, precisamente a

    Monaco, nei giorni in cui il putsch di Adolf Hitler e Erich Luddendorf si era appena concluso

    con un clamoroso fallimento e con l’arresto dei due capi nazionalsocialisti; nel corso della

    permanenza in Baviera Ansaldo ebbe modo di raccogliere una significativa intervista con la

    regina Maria Sofia di Borbone, una delle ultime rilasciate dalla “regina di Napoli” scomparsa

    il 19 gennaio 192522.

    Risale al maggio 1924, infine, un altro viaggio decisivo nella carriera del giornalista,

    quello in Corsica, che avrebbe fornito la linfa per occupare, con un lungo e documentato

    scritto, l’intero numero della «Rivoluzione Liberale» del 22 febbraio 1925, nonché, come ha

    raccontato Giuseppe Marcenaro, gli articoli dedicati negli anni successivi ai problemi

    dell’isola23.

    Il confronto con le condizioni sociali, economiche e politiche degli altri paesi europei fornì

    senza dubbio ad Ansaldo ulteriori strumenti per comprendere le storture di una realtà italiana

    21 G. A., La frusta teatrale, in «Il Lavoro», XXI, 112, 12 maggio 1923, p. 3.22 Pur senza grande precisione nella riproposizione dei riferimenti bibliografici, il colloquio (o meglio i colloqui, visto che gliincontri furono tre) con Maria Sofia di Borbone, ultima regina di Napoli, è stato più volte oggetto di considerazione da partedegli studiosi. Arrigo Petacco a p. 221 della monografia a lei dedicata (La regina del Sud. Amori e guerre segrete di MariaSofia di Borbone, Milano, Mondadori, 1992) riporta l’intervista – che trascrive a conclusione del suo volume alle pp. 258-267– datandola all’autunno 1924 e riferendosi a una pubblicazione del testo sul «Corriere della Sera» nel dicembre dello stessoanno. Un ulteriore brano dell’intervista, all’epoca «censurato per rispetto verso i sovrani regnanti» fu pubblicato da Ansaldosul «Tempo» di Roma del 12 febbraio 1950 (e Petacco ne riproduce il testo alle pp. 221-222). Ancora più sfumato efuorviante l’accenno di Giordano Bruno Guerri (Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio, Milano,Mondadori, 2010), che alle pp. 242-243 del suo libro riporta parte del passaggio pubblicato sul «Tempo», apponendo inbibliografia la nota «Ansaldo Giovanni, Intervista alla regina Maria Sofia, in «Corriere della Sera», 3 novembre 1924;pubblicata integralmente sul «Tempo» il 12 febbraio 1950». Ora, soprassedendo sulla presunta ripubblicazione integrale sulquotidiano romano (Il presagio di Maria Sofia sui beni della Casa Savoia, in «Il Tempo», VII, 43, 12 febbraio 1950, p. 3,ora, con lievi modifiche e con il titolo Il presagio di Maria Sofia, in L’Italia com’era, introduzione di Marcello Staglieno,Napoli, Fiorentino, 1992, pp. 423-426), che, come già ricordava Petacco, consiste nella riproduzione di un passaggiodell’intervista non inserito nella pubblicazione originaria, resta il problema di una pubblicazione sul giornale diretto da LuigiAlbertini che, nonostante i controlli, sembra non risultare. La prima apparizione del testo è da far risalire, in ogni caso,all’anno precedente, in particolare al 1° dicembre 1923 sulla terza pagina della «Stampa» sotto il titolo Come vive, comegiudica il mondo l’ultima regina di Napoli: Maria Sofia (segnalazione non facile a prodursi vista la lacuna da cui sono affettisia il microfilm posseduto dalle principali biblioteche italiane sia la comunque straordinaria edizione on-line del giornale);con un titolo leggermente difforme, Come e dove vive l’ultima Regina di Napoli: Maria Sofia, l’intervista, che oggi si puòleggere anche in L’Italia com’era, cit., pp. 133-142, comparve poco dopo, senza l’autorizzazione di Ansaldo, sul quotidianonapoletano «Il Giorno», XX, 296, 13-14 dicembre 1923, p. 3.23 Sulla passione di Ansaldo per la Corsica, e sulle vicissitudini giornalistiche che scaturirono da quel primo soggiornosull’isola, si veda il saggio di Giuseppe Marcenaro, Corsica “mia” isola, “mio” sogno, pubblicato come introduzioneall’antologia Corsica l’isola persa, Genova, De Ferrari, 1999, pp. 9-17. Oltre allo scritto sulla rivista di Gobetti (La Corsica,in «La Rivoluzione Liberale», IV, 8, 22 febbraio 1925, pp. 33-36, seguito dalla Bibliografia della Corsica, siglata G. A., in«La Rivoluzione Liberale», IV, 9, 1° marzo 1925, p. 39), Ansaldo pubblicò nell’estate 1924 diversi articoli sul tema sia sul«Lavoro» sia sulla «Stampa»; nondimeno, parecchi anni dopo, il giornalista si servirà nuovamente degli appunti raccoltidurante il viaggio del 1924 per una serie di fittizie corrispondenze uscite sul «Lavoro» tra novembre e dicembre 1931 firmatecon lo pseudonimo «Boswell».

  • XVII

    sempre più schiacciata dalla pressione del fascismo, ormai avviato a costituirsi regime. Si è

    notato più volte come l’antifascismo di Ansaldo si delineasse già allora come un sentimento

    di natura ben diversa rispetto a quello da cui erano animate le azioni dei principali esponenti

    del movimento socialista italiano della generazione più anziana, quella dei “maestri” Canepa e

    Salvemini, ma anche dei giovani intellettuali militanti capeggiati da Gobetti e vicini al gruppo

    di «Rivoluzione Liberale» (e di «Conscentia», la rivista settimanale di ispirazione protestante

    diretta da Giuseppe Gangale, alla quale Ansaldo, al pari di Gobetti, prestò la propria

    collaborazione tra il 1924 e il 1925), la cui ribellione era sì principalmente investita di ragioni

    etiche, ma presupponeva la vocazione verso reali cambiamenti nell’ordine sociale ed

    economico: Ansaldo vedeva semmai nel fascismo un movimento atto a sovvertire la

    disciplina garantita dal vecchio regime liberale, nell’affermazione della violenza e

    nell’emergere sulla scena politica di veri e propri parvenus di dubbia moralità un inaccettabile

    sovvertimento del suo ideale di società borghese. Sotto la spinta di questa ripulsa e incitato

    dagli amici che lo avevano eletto a punto di riferimento della comune lotta contro

    l’oppressione, Ansaldo si era dunque trovato investito di un ruolo e di una responsabilità che

    lo avrebbero portato a sostenere tesi e compiere gesti ben al di là di quello che le sue reali

    convinzioni gli avrebbero intimato di fare.

    Tra i tanti legami intellettuali instaurati in quei primi anni Venti se ne scorgono alcuni che,

    oltre alla loro importanza effettiva nell’esperienza di Ansaldo, sembrano assumere (nel

    biunivoco passaggio tra simpatie e antipatie) un valore altamente esemplificativo nel suo

    percorso ideologico. Sintomatica, a questo proposito, l’altalena dei rapporti intercorsi con

    Giuseppe Prezzolini – un’amicizia che, tra alti e bassi, sarebbe durata oltre cinquant’anni –,

    ammirato per l’“invenzione” della «Voce» e poi conosciuto direttamente al fronte24, che ci

    consente di comprendere più intimamente l’evoluzione delle sue riflessioni sul significato

    della storia e degli eventi politici coevi. Assiduo collaboratore della «Rivoluzione Liberale»,

    ma anche del «Lavoro» (tra il dicembre 1921 e il novembre 1923), Prezzolini cominciò ad

    allontanarsi progressivamente dal gruppo gobettiano ancor prima che Mussolini prendesse in

    mano le redini del potere nell’ottobre 1922.

    24 Così Prezzolini annotava sul suo diario in data 17 novembre 1915 l’incontro con lo studente genovese a Dolegna:«Nell’osteria dove ho dormito è arrivato un di quei mezzi-ufficiali di cui i soldati si burlano, perché non son soldati néufficiali, e si chiamano “aspiranti”. Me lo son trovato accanto sulla paglia la mattina. Si chiama Giovanni Ansaldo. Glidomando se appartiene alla famiglia dei capitalisti. Mi ha detto che i suoi fondarono quella famosa fabbrica di cannoni, mache di loro non è rimasto che il nome. È lungo, magro, riservato e pare che abbia letto La Voce e L’Unità» (il ricordo aprel’articolo commemorativo pubblicato da Prezzolini in occasione della morte di Ansaldo con il titolo Memoriale su GiovanniAnsaldo, in «il Borghese», XX, 38, 15 settembre 1969, pp. 138-139, ristampato in Prezzolini alla finestra, Milano, Pan, 1977,pp. 87-93; il brano è riportato anche a p. 184 del Diario 1900-1941, edito da Rusconi nel 1978). Ansaldo aveva descritto ilsuo rapporto con il direttore della «Voce», dilungandosi parimenti sulla comune esperienza bellica, nella prefazione, intitolataL’uomo sulla terrazza (pp. 9-24), a Il meglio di Giuseppe Prezzolini, edito da Longanesi nel 1957.

  • XVIII

    Se l’invito alla costituzione di una Società degli Apoti rimase emblematico, al cospetto

    dell’intera compagine degli uomini di cultura progressisti, di un atteggiamento di

    opportunistico disimpegno tanto più stridente se messo a confronto con la generosità e

    l’attivismo professati dal direttore della «Rivoluzione Liberale»25, la ricaduta di quelle

    dichiarazioni nel rapporto con Ansaldo, specialmente dal momento in cui Prezzolini decise di

    abbandonare la collaborazione con «Il Lavoro» e di passare i suoi articoli al concorrente

    «Corriere Mercantile», era destinata a dare seguito a numerosi spunti polemici: nel febbraio

    1924, quando Prezzolini avanzò, in un articolo pubblicato sull’«Italia che scrive»,

    quell’azzardato paragone tra Giovanni Amendola e Benito Mussolini che avrebbe costituito il

    nucleo fondante della breve monografia dedicata all’uomo politico liberale stampata l’anno

    successivo per i tipi dell’editore Formiggini, Ansaldo, a nome degli intellettuali vicini alla

    rivista torinese, reagì con un affilato corsivo, determinando una risentita reazione epistolare

    dell’interlocutore, e si concesse un’ulteriore provocazione commentando la missiva ricevuta

    con l’accusa diretta al suo autore di andare in cerca delle gratificazioni dei potenti di turno e

    di essere uno scrittore venale adagiato sulla sbiadita gloria letteraria acquisita ai tempi della

    «Voce». Circoscrivendo la polemica nell’ambito editoriale genovese, Prezzolini, con un

    vivace articolo uscito sul «Corriere Mercantile», rivendicava con forza il diritto di elogiare

    Mussolini, un vecchio amico cui aveva fatto pubblicare un libro – Il Trentino veduto da un

    socialista, uscito per i Quaderni della Voce nel maggio 1911 – e alle dipendenze del quale era

    stato corrispondente romano del «Popolo d’Italia» e suo collaboratore dal 1915 al 1919,

    qualora egli lo avesse stimato degno di lode, non ritenendo valida la frettolosa accusa di

    servilismo indirizzata verso chiunque non si ponesse in un atteggiamento di opposizione

    perenne contro i regimi politici al potere26.

    Il contrasto era destinato a tornare di attualità esattamente un anno dopo: oggetto del

    contendere la valutazione politica da assegnare all’esperienza di governo di Giovanni Giolitti,

    25 Il manifesto di Prezzolini comparve, con il titolo Per una Società degli Apoti, in «La Rivoluzione Liberale», I, 28, 28settembre 1922, pp. 103-104. La descrizione più appropriata dell’antitesi Gobetti-Prezzolini è forse quella fissata da GiovanniSpadolini: «La divisione fra Gobetti, che impegnava la sua religione nell’azione, e Prezzolini, che raccomandava di nonscegliere, di difendere i valori della cultura in una specie di turris eburnea inaccessibile alle passioni e agli sconvolgimentidell’ora, appunto la torre di coloro che non bevono, che non subiscono le opposte intransigenze, che si rifiutano di cedere aimiti comunque deformanti, che quasi identificano l’azione con l’errore. Torino contro Firenze; un residuo protestanticocontro lo scetticismo riaffiorante dell’umanesimo; la “rivoluzione liberale” come tensione suprema dell’anima e sceltadefinitiva della coscienza morale, che è già azione civile, opposta alla versione pragmatica dell’idealismo che cercava ditrarre, dalla confusa e limacciosa storia in corso, quanto potesse riuscire a preservare i valori della dignità intellettuale nonmeno che della comprensione razionale» (Giovanni Spadolini, L’Italia della ragione. Lotta politica e cultura nel Novecento,Firenze, Le Monnier, 1978, pp. 359-360).26 Redatta in occasione dello scritto di Prezzolini (Giovanni Amendola, in «L’Italia che scrive», VII, 2, febbraio 1924, pp. 21-22), la nota anonima, ma certamente di Ansaldo (che ne vantò merito con Gobetti in una lettera del 15 febbraio 1924, edita inLettere di Giovanni Ansaldo a Piero Gobetti (1923-1925), cit., pp. 80-81), apparsa sotto il titolo La storia e la vita, in «IlLavoro», XXII, 38, 13 febbraio 1924, p. 3, fu seguita da un più lungo articolo, siglato G. A. e intitolato Il tramonto diPrezzolini, pubblicato in «Il Lavoro», XXII, 45, 21 febbraio 1924, p. 3. Prezzolini chiuse il confronto personale con Ansaldon. 1 e Ansaldo n. 2, in «Corriere Mercantile», C, 49, 26-27 febbraio 1924, p. 2.

  • XIX

    in merito alla quale Ansaldo, aprendo un primo fronte di dissidio con l’insegnamento di

    Salvemini culminato oltre vent’anni dopo con la pubblicazione del Ministro della buona vita,

    un’opera che già a partire dal titolo “parodiava” la monografia dell’antico maestro27, in un

    trittico di articoli pubblicati sul «Lavoro» nella seconda metà del gennaio 1925, aveva avviato

    un vero e proprio processo di riabilitazione28. Dal canto suo Prezzolini, istruendo una

    tassonomia di possibili “giolittiani” all’interno della quale il redattore capo del «Lavoro»

    figurava come “giolittiano canaglia”, essendo il suo plauso all’uomo di Dronero

    dialetticamente impostato a detrimento dell’azione mussoliniana, ribadiva in una lunga serie

    di interventi come le ragioni dell’ostilità di Ansaldo nei suoi confronti fossero da attribuire

    più a bassi motivi di bottega (la sua uscita dal novero dei collaboratori del giornale) che ad

    alte motivazioni ideologiche e morali29.

    Sarebbero tornati amici, Prezzolini e Ansaldo, soprattutto nel secondo dopoguerra, e ciò

    non pare casuale se si consideri il fatto che l’atteggiamento dell’intellettuale perugino di

    fronte al fascismo, vero punto nodale del dissidio con Gobetti, sarebbe stato progressivamente

    rivalutato dal giornalista genovese il quale, in particolare dopo l’amara esperienza del

    confino, avrebbe quasi finito per farlo proprio:

    Gli uomini delle mie attitudini, del mio carattere, non devono fare della politica. Essi ne vanno

    sempre di mezzo: quando va tutto bene, raccolgono messe di diffidenze e di malumori. Insomma,

    la mia polemica di anni fa col Prezzolini mi appare sballata, sballatissima: aveva ragione lui, e

    torto io. Il torto suo cominciava quando egli pretendeva di trarre dalla sua tesi principale il diritto

    di servire praticamente i potenti dell’ora; e la ragione mia quando gli negavo questo diritto, per

    ragioni di dignità, perché i Clercs non possono trahir. Non altro30.

    E a proposito della maturazione di questa convinzione, inconscio preludio a quella svolta

    progressiva che qualche anno più tardi si sarebbe concretizzata nella clamorosa adesione al

    fascismo, è curioso notare come l’unico legame intellettuale di rilievo capace di sopravvivere

    all’esperienza del confino – nelle sue memorie Ansaldo accennerà alla tiepida accoglienza

    riservatagli dagli amici genovesi che si erano compiaciuti della possibilità di un suo martirio

    come leader dell’opposizione e che ora assistevano al suo ritorno sano e salvo con una punta

    27 Giovanni Ansaldo, Il ministro della buona vita. Giolitti e i suoi tempi, Milano, Longanesi, 1949; il volume di GaetanoSalvemini, Il ministro della mala vita, aveva visto la luce nel 1911 per le Edizioni della Voce.28 G. A., L’uomo Giolitti, in «Il Lavoro», XXIII, 21, 24 gennaio 1925, pp. 1-2; Il cervello di un dominatore, in «Il Lavoro»,XXIII, 23, 27 gennaio 1925, p. 1; G. A., La tradizione subalpina, in «Il Lavoro», XXIII, 26, 30 gennaio 1925, pp. 1-2;L’elogiatore del bastone austriaco, in «Il Lavoro», XXIII, 28, 1° febbraio 1925, p. 2.29 Giuseppe Prezzolini, Energica cura d’un bilioso, in «Corriere Mercantile», CI, 25, 29-30 gennaio 1925, p. 2; GiuseppePrezzolini, Neogiolittismo, in «Corriere Mercantile», CI, 32, 6-7 febbraio 1925, p. 1; Giuseppe Prezzolini, Pillole, in«Corriere Mercantile», CI, 48, 19-20 febbraio 1925, p. 2.30 L’antifascista riluttante, cit., pp. 388-389.

  • XX

    di dispetto – sia quello con il vecchio uomo politico lucano Giustino Fortunato. Curioso ma

    non sorprendente, se è vero che lo stesso senatore meridionale, agiato proprietario terriero e

    membro di quella classe di notabili che visse con imbarazzo e talvolta fastidio – ma non

    sempre senza cedimenti all’approvazione – la scalata del fascismo al potere cogliendone il

    portato sostanzialmente sovversivo degli esordi, era in fondo della stessa opinione del giovane

    giornalista nel biasimare gli eccessi di intransigenza al limite del fanatismo, specialmente se

    conditi da una visione dei rapporti tra le classi troppo protesa verso la trasformazione

    dell’ordine sociale costituito, che avevano condotto all’estero il comune amico Salvemini e

    alla morte Amendola e Gobetti.

    L’ammirazione per don Giustino, intuibile solo di rimando dagli ultimi due volumi del

    carteggio curato da Emilio Gentile nei quali le lettere indirizzate ad Ansaldo ricorrono con

    impressionante frequenza (le risposte inviate da quest’ultimo andarono infatti bruciate alla

    morte dell’insigne studioso), e confermata dalla diffusione pubblica che di alcuni passaggi

    epistolari diede lo stesso giornalista in una celebre serie di articoli pubblicati sul

    «Borghese»31, emerge in modo chiaro anche dai numerosi riferimenti agli scritti e alle parole

    del vegliardo riscontrabili in alcuni testi di Ansaldo risalenti agli anni del «Lavoro» redatti in

    parallelo con il consolidamento del loro rapporto di amicizia: ormai anziano e affetto da

    problemi di salute, Fortunato accoglieva con commozione e un pizzico di vanità le citazioni a

    lui riservate, andando a caccia delle poche copie del «Lavoro» disponibili a Napoli, dove

    viveva insieme alla sorella Anna, in occasione dell’uscita dei pezzi che lo riguardavano; e

    Ansaldo, dal canto suo, apprezzava sinceramente la nobiltà di quella figura d’altri tempi, con

    il quale condivideva l’analoga consapevolezza che i problemi del Mezzogiorno dipendessero

    della persistenza delle ragioni di una secolare arretratezza delle plebi agricole poco o nulla

    scalfita (se non acuita) dalle conquiste risorgimentali.

    Appare in proposito significativo che in occasione del suo settantacinquesimo compleanno,

    il 4 settembre 1924, Ansaldo, redigendo l’articolo Memorie ed auspici, parte del quale

    Fortunato avrebbe ristampato in appendice al secondo volume del suo Pagine e ricordi

    parlamentari pubblicato da Vallecchi all’inizio del 1927, individuasse nella prefazione alla

    sua traduzione delle Odi oraziane – uscita soltanto nel 1926 presso l’editore Cuggiani di

    Roma – una speciale affinità tra i precetti morali del poeta venosino e il solido attaccamento

    31 Dei quattro tomi che compongono il carteggio di Giustino Fortunato curato da Emilio Gentile per Laterza tra il 1978 e il1981 è appunto il caso di ricordare soltanto gli ultimi due, in cui si trovano sparse circa centocinquanta lettere (molte dellequali edite in forma parziale) perlopiù inviate da Giustino Fortunato a Ansaldo (Carteggio 1923-1926, Roma-Bari, Laterza,1981; Carteggio 1927-1932, Roma-Bari, Laterza, 1981). Buona parte di queste era già stata resa pubblica dallo stessoAnsaldo all’interno dello scritto Le lamentazioni di «Don Giustino», uscito sul «Borghese» in quattro puntate (VII, 21, 25maggio 1956, pp. 841-844; VII, 22, 1° giugno 1956, pp. 878-880; VII, 23, 8 giugno 1956, pp. 920-922; VII, 24, 15 giugno1956, pp. 955-957), e ristampato in volume con il titolo Affezionatissimo Giustino Fortunato, introduzione di Arturo Fratta,Sorrento-Napoli, Di Mauro, 1994.

  • XXI

    alle tradizioni, alle genti e alle memorie locali che solo l’alta società meridionale intrisa di

    umanesimo e poco incline al tecnicismo, di cui l’uomo di Rionero in Vulture era esimio

    rappresentante, sapeva valorizzare nelle dovute proporzioni rinfocolando la speranza di un

    possibile riscatto del Meridione postunitario32. Con analogo entusiasmo Fortunato salutò più

    di un anno dopo La votazione di Palermo, un articolo nel quale Ansaldo, dimostrando grande

    profondità di veduta, commentava la schiacciante vittoria della lista filofascista alle elezioni

    amministrative per il Consiglio comunale del capoluogo siciliano del 2 agosto 1925

    denunciando come il consenso ottenuto dal fascismo, movimento per nulla estraneo al corso

    della storia italiana, fosse reale, non indotto da mezzi coercitivi, e motivato dalla abilità di

    Mussolini nel cogliere e stimolare aspetti da sempre presenti nell’indole popolare33. Ed era

    soprattutto nella conclusione, in cui si affidavano le sorti del riscatto italiano, così come era

    avvenuto per il processo di unificazione, a una ristretta élite aristocratica e borghese di grandi

    uomini capaci di ergersi al di sopra della moltitudine, che Fortunato riconosceva le linee

    guida della sua condotta politica, ricordata senza troppa gratitudine dai suoi rozzi compaesani.

    Ansaldo, che avrebbe fatto visita a Fortunato nella sua casa napoletana agli inizi dell’ottobre

    1925, si terrà in stretto rapporto epistolare con lui fino alla morte sopraggiunta il 23 luglio

    1932.

    L’individuazione delle reali motivazioni dell’antifascismo di Ansaldo, che avrebbero

    determinato una sostanziale evoluzione del suo rapporto con il regime fino al suo totale

    sovvertimento, non deve tuttavia far sottostimare l’opera da lui tenacemente condotta tra il

    1922 e il 1925, sebbene si debba rilevare come l’impostazione dei suoi scritti fosse meno

    incline a opporre un sistema ideologico alternativo a quello vigente di quanto lo fosse a

    ironizzare sulle personalità protagoniste del nuovo corso politico: ed egli, lungi dal volersi

    considerare un “ideologo” dell’opposizione, finì soprattutto per farsi coinvolgere in occasioni

    di contrasto personale determinate dei suoi articoli, non indietreggiando di fronte a una

    reazione avversaria che, dalle forme più lievi della polemica letteraria fino alle aperte

    manifestazioni di violenza, non mancò di farsi attendere.

    L’episodio più noto, di certo quello capace di destare maggiori preoccupazioni, resta senza

    dubbio quello relativo all’uscita del n. 24 della «Rivoluzione Liberale» del 10 giugno 1924,

    immediatamente sequestrato – seppur già parzialmente diffuso – per ordine del Prefetto di

    Torino a causa dell’articolo Il re democratico accusato di contenere espressioni irriguardose

    32 Giovanni Ansaldo, Memorie ed auspici, in «Il Lavoro», XXII, 212, 4 settembre 1924, p. 1 (poi, in versione ridotta, inGiustino Fortunato, Pagine e ricordi parlamentari, Firenze, Vallecchi, 1927, vol. II, pp. 320-322).33 G. A., La votazione di Palermo, in «Il Lavoro», XXIII, 185, 5 agosto 1925, p. 1.

  • XXII

    nei confronti di Vittorio Emanuele III34. Nel suo scritto Ansaldo ricordava un incontro con

    l’automobile regale avvenuto in una giornata del 1915 quando, in qualità di sottotenente,

    marciava alla testa di una disordinata colonna militare, definendo la condotta del sovrano in

    quell’occasione «moscia e scalcinata» per non aver preteso maggiore compostezza da quei

    soldati allo sbando ed essersi limitato a incaricare un generale di “pregare” gli ufficiali di

    ripristinare l’ordine; l’aneddoto introduceva un impietoso ritratto del re, certo dileggiato per la

    sua scarsa attitudine alle esibizioni in pubblico, per le sue superficiali ambizioni di modernità,

    per l’inettitudine a indossare in modo dignitoso le divise militari, per la goffaggine con la

    quale compariva nelle retrovie munito di una gigantesca macchina fotografica, ma accusato,

    in sostanza, di aver destituito l’istituto monarchico di quella rispettabilità e autorevolezza che,

    al di là delle considerazioni più banali, erano clamorosamente venute meno anche

    nell’atteggiamento esibito nei confronti dell’avanzata fascista.

    Se il vilipendio al sovrano rendeva poco probabile lo scatenarsi di reazioni violente da

    parte di facinorosi più o meno autorizzati dalle gerarchie a reprimere il dissenso – si era, tra

    l’altro, nelle movimentate giornate del rapimento del segretario del Partito Socialista Unitario

    Giacomo Matteotti –, nondimeno apparivano alte le probabilità di incorrere in pesanti

    conseguenze legali: Gobetti, in qualità di editore, e Ansaldo, come estensore dell’articolo,

    furono citati in giudizio dal Procuratore del Re presso il Regio Tribunale di Torino il 13

    agosto e convocati in udienza per il 14 ottobre 1924. Tre mesi di ansie si risolsero quasi

    istantaneamente grazie al provvidenziale intervento dell’avvocato Cesare Festa – una figura

    che il giornalista avrebbe ricordato molti anni più tardi in un celebre articolo35 – il quale,

    vantando un’amicizia di lunga data con Vittorio Emanuele III cui lo legava anche la comune

    militanza massonica (che peraltro coinvolgeva lo stesso Ansaldo), si fece accompagnare dal

    giornalista presso la residenza estiva di San Rossore – probabilmente il 13 settembre – e

    ottenne, con il perdono del sovrano, l’immediata archiviazione del caso36.

    34 Sullo scambio di note informative tra il Prefetto di Torino, Enrico Palmieri e Benito Mussolini, in merito al sequestro delnumero della «Rivoluzione Liberale» del 10 giugno 1924 e alla connessa perquisizione dell’abitazione di Gobetti al n. 60 divia XX Settembre effettuata dalla polizia torinese senza un regolare mandato la mattina del 9 giugno 1924, si veda Renzo DeFelice, Piero Gobetti in alcuni documenti di Mussolini, in «il cannocchiale», 5-6, dicembre 1965, pp. 61-67, in particolare pp.66-67.35 Giovanni Ansaldo, Il bizzarro amico del Re, in «Storia Illustrata», II, 1, gennaio 1958, pp. 22-29 (ora in L’Italia com’era,cit., pp. 389-394).36 Circa le preoccupazioni di Ansaldo, aggravate dal fatto che all’incombente udienza giudiziaria si era aggiunta una nuovaaspra polemica scoppiata attorno a Gobetti – il quale, in un breve commento all’articolo di Guido Mazzali, Come combattereil fascismo, in «La Rivoluzione Liberale», III, 32, 2 settembre 1924, p. 131, aveva associato ad alcune dichiarazioni delmutilato di guerra Carlo Delcroix l’infelice epiteto di «aborto morale» –, si vedano le notazioni diaristiche del giornalistagenovese, riferite al mese di ottobre ma quasi certamente da far risalire a settembre, pubblicate da Giuseppe Marcenaroall’interno del saggio Gobetti e Ansaldo. Luci e ombre di un’amicizia, in «Mezzosecolo», 11, 1994-1996 [finito di stampare:novembre 1997], pp. 123-148, in particolare pp. 141-143. Per la rievocazione della felice conclusione dell’episodio,sviluppata da Ansaldo in forma lievemente romanzata, si veda invece, oltre al citato articolo su Cesare Festa, lo scrittocomparso in due puntate sull’«Europeo» (Il re dal cappello a cencio, in «L’Europeo», IV, 2, 11 gennaio 1948, p. 3; Il re dalcappello a cencio, in «L’Europeo», IV, 3, 18 gennaio 1948, p. 6). Cesare Festa, studioso di problemi mercantili e

  • XXIII

    Ben più cruenti, gli scontri in cui Ansaldo sarebbe incappato tra la fine del 1924 e la fine

    1925, un anno che si sarebbe concluso con la sua cacciata dal «Lavoro» per ordine prefettizio,

    sono sufficienti a ricostruire un clima che per gli oppositori del regime si era fatto sempre più

    incandescente. Inviato a Carrara nel dicembre 1924 per seguire la vertenza tra gli industriali e

    i lavoratori delle cave di marmo i quali, fomentati dal ras della cittadina toscana Renato Ricci

    – futuro Ministro delle Corporazioni e presidente dell’Opera Nazionale Balilla37 –, avevano

    dato vita a uno sciopero che, seppur protrattosi per ben quarantasette giorni, era parso ai

    giornalisti accorsi sul luogo imposto più dalle motivazioni personali dello squadrismo locale

    che da reali rivendicazioni sindacali, Ansaldo si trovò coinvolto nella brutale aggressione

    fascista alla quale alcuni cronisti (insieme con lui erano Giuseppe Sprovieri del «Mondo»,

    Alfredo Ceriani del «Corriere della Sera» e Ettore Soave della «Stampa») furono sottoposti la

    sera del 19 dicembre nel principale albergo del centro, l’Hotel Carrara.

    Rimessosi dalla “legnata” ricevuta, all’inizio di febbraio Ansaldo si trovò subito a

    fronteggiare una polemica con padre Ermenegildo Pistelli, professore dell’Università degli

    Studi di Firenze da lui accusato – nell’articolo Pistola ad Omero, il cui titolo alludeva allo

    pseudonimo «Omero Redi» usato dal noto papirologo per firmare la rubrica Pistole di Omero

    su una delle principali letture giovanili di Ansaldo, il «Giornalino della Domenica» di Vamba

    – di aver additato a una squadra fascista, nel corso della cerimonia di inaugurazione del

    rinnovato Ateneo il 20 gennaio 1925, alcuni studenti appartenenti alla Unione goliardica per

    la libertà da sottoporre a bastonatura. E se questa diatriba fu pazientemente ricomposta grazie

    alla mediazione di Salvemini, che smentì con forza la fonte del giornalista genovese in una

    lettera a Gobetti trascritta sul successivo numero della «Rivoluzione Liberale» proprio per

    evitare che il professore potesse rispondere con una querela per diffamazione dalle buone

    probabilità di successo38, lo stesso non accadde per la disputa con il giornalista Telesio

    Interlandi.

    dell’immigrazione e membro del Consorzio autonomo del porto di Genova, aveva conosciuto Vittorio Emanuele III nellaprimavera del 1917 ed era stato da questi scelto per comandare la compagnia speciale di mitraglieri addetta a prestareservizio attorno a «Villa Italia», la residenza del re presso Torreano di Martignacco; la leggenda, avallata da Ansaldo – checon lui aveva probabilmente condiviso l’appartenenza alla loggia massonica «Trionfo Ligure-Secolo Nuovo» –, vuole che ilFesta avesse rincuorato il sovrano in lacrime di fronte allo sbandamento delle truppe italiane nei giorni di Caporetto.37 Ansaldo, che curiosamente ritroverà Ricci nel carcere di Procida alla fine del 1945, ricorderà i tumultuosi avvenimenti deldicembre 1924 in un articolo pubblicato sul «Borghese» in occasione della morte dell’ex gerarca (Giovanni Ansaldo, Ricordodi Renato Ricci, in «il Borghese», VII, 5, 3 febbraio 1956, pp. 177-179; ora in Giovanni Ansaldo, Vecchie zie e altri mostri, acura di Giuseppe Marcenaro, Genova, De Ferrari, 1990, pp. 375-381).38 La settimana successiva all’uscita di Pistola ad Omero, pubblicato con la sigla G. A. in «La Rivoluzione Liberale», IV, 6,8 febbraio 1925, p. 27, comparve la lettera di smentita di Salvemini datata 11 febbraio 1925, sotto il titolo Rettifica alla“Pistola ad Omero” (IV, 7, 15 febbraio 1925, p. 29); a questa Ansaldo aggiunse, su sollecitazione degli amici, una personalerettifica (Ancora sulla “Pistola ad Omero”, in «La Rivoluzione Liberale», IV, 8, 22 febbraio 1925, p. 36), nella qualedichiarava di aver tratto la falsa informazione da un bollettino clandestino di propaganda antifascista di cui non svelava ilnome (e che era certamente «Non Mollare», come si evince da una lettera di Ansaldo a Gobetti del 24 marzo 1925, edita inLettere di Giovanni Ansaldo a Piero Gobetti (1923-1925), cit., pp. 111-112). La polemica avrebbe trovato conclusionesoltanto alcune settimane più tardi con la pubblicazione, inspiegabilmente ritardata da Gobetti, di una dichiarazione

  • XXIV

    Alfiere dell’ala estremista del partito fascista, il direttore del «Tevere» aveva promosso nel

    mese di febbraio una violenta campagna di stampa contro il capitano Ettore Viola, sollevato

    dall’incarico da Mussolini con l’intero vertice dell’Associazione Nazionale dei Combattenti il

    2 marzo 1925 per l’eccesso di autonomia con la quale il movimento era stato fino a quel

    momento condotto. Nel riferire la notizia, «Il Lavoro», mostrando condiscendenza verso il

    Viola, pur sempre un reduce decorato con la medaglia d’oro, rilevava con disappunto le

    intemperanze verbali del «Tevere», suscitando le ire di Interlandi, il quale, negando alla

    testata socialista il diritto di difendere quegli stessi reduci e decorati di guerra che nel 1919

    aveva, a suo avviso, provveduto a denigrare, spostava rapidamente la polemica sul piano

    personale. Indispettito per il corsivo – anonimo, ma quasi certamente vergato da Ansaldo –

    pubblicato sotto il titolo Fasolino, il direttore del quotidiano romano inveiva contro il

    redattore capo del «Lavoro», riservandogli, nella nota intitolata A viso aperto, l’epiteto di

    “canaglia”; Ansaldo decise così di inviare i propri padrini, Riccardo Raimondo e Mario Zino,

    in visita a Interlandi, sfidandolo in un duello che, svoltosi il 15 marzo 1925 nel capoluogo

    ligure, si concluse con una ferita all’avambraccio destro per entrambi i contendenti39.

    Nella primavera del 1925 l’escalation proseguiva inarrestabile: il 1° maggio 1925

    compariva sul quotidiano liberale «Il Mondo» di Giovanni Amendola un primo elenco dei

    firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce in

    opposizione al Manifesto degli intellettuali fascisti promosso da Giovanni Gentile a

    conclusione dei lavori del Congresso di cultura fascista di Bologna e pubblicato sul «Popolo

    d’Italia» il 21 aprile: Ansaldo, che dallo stesso Amendola era stato sollecitato nei giorni

    immediatamente precedenti la pubblicazione affinché raccogliesse «qualche firma genovese

    di prim’ordine», compare ovviamente tra i suoi firmatari, allo stesso modo in cui egli non

    avrebbe negato di apporre il suo nome in calce all’appello promosso in favore di Gaetano

    Salvemini, arrestato l’8 giugno 1925 in seguito alla chiusura del giornale studentesco «Non

    Mollare», finito con estrema rapidità nel mirino delle autorità prefettizie. In questa occasione

    il giornalista non si limitò a sottoscrivere il documento pubblicato sui principali quotidiani di

    opposizione al regime – e tra questi il «Lavoro», dove comparve il 27 giugno –, né a

    esprimere la propria indignazione verso gli uomini di cultura che, come Ugo Ojetti,

    congiunta nella quale alla ricostruzione formale della vicenda seguiva l’accettazione della ritrattazione di Ansaldo da parte diPistelli che, dal canto suo, ritirava la querela (Giovanni Ansaldo-Ermenegildo Pistelli, Dichiarazioni, in «La RivoluzioneLiberale», IV, 14, 5 aprile 1925, p. 60).39 Questa la successione degli articoli relativi alla polemica tra «Il Lavoro» e «Il Tevere» progressivamente sfociata in unaspro confronto personale tra i due giornalisti: Gli attacchi contro la medaglia d’oro Viola, in «Il Lavoro», XXIII, 46, 22febbraio 1925, pp. 1-2; Il truffaldino genovese, in «Il Tevere», II, 47, 24 febbraio 1925, p. 1; Fasolino, in «Il Lavoro», XXIII,49, 26 febbraio 1925, p. 1; A viso aperto, in «Il Tevere», II, 55, 5 marzo 1925, p. 1. Sullo svolgimento del duello si veda ilverbale di scontro pubblicato sul quotidiano genovese al quale seguiva una replica definitiva del giornale a proposito dellecontestazioni mosse da Interlandi su alcune frasi ingiuriose verso i combattenti tratte da articoli risalenti al 1919 (VertenzaAnsaldo-Interlandi, in «Il Lavoro», XXIII, 65, 17 marzo 1925, p. 1).

  • XXV

    assistevano raccolti in un pavido silenzio all’evolversi della vicenda, ma si produsse in una

    concreta manifestazione di solidarietà: il 13 luglio, nel giorno della prima udienza presso il

    Tribunale di Firenze conclusasi con il rinvio del processo e con la scarcerazione del suo

    “maestro”, cui era concessa la libertà provvisoria, Ansaldo si recò personalmente nel

    capoluogo toscano sfuggendo non senza qualche ammaccatura all’immancabile bastonatura

    fascista che coinvolse anche il colonnello Raffaele Rossetti e il deputato unitario Enrico

    Gonzales.

    Alle stesse convulse giornate si data, infine, la polemica sostenuta da Ansaldo con l’organo

    ufficiale del partito fascista, «Il Popolo d’Italia»: sollecitato da un editoriale, intitolato

    Francia Sud-Ovest, nel quale il redattore capo del «Lavoro» si era prodotto in un aperto

    elogio dell’opera svolta dai contadini italiani emigrati in Francia, lodando il coraggio

    mostrato nell’abbandono delle miserie del proprio ingrato paese di provenienza, il quotidiano

    diretto da Arnaldo Mussolini stampava, sotto il poco amichevole titolo Pecore rognose, un

    trafiletto nel quale Ansaldo veniva attaccato con violenza per la sua condotta palesemente

    antinazionale. Il tono della replica era tale da indurre il giornalista, ormai avvezzo alle

    pratiche cavalleresche, a inviare i propri padrini, Gerolamo Morgavi e Federico Delpino,

    presso il direttore del giornale fascista; nello svolgimento della vertenza, tuttavia, interveniva

    a rivendicare la paternità del corsivo ingiurioso il redattore Piero Parini – anche se, secondo

    quanto ha rivelato Marcello Staglieno, l’autore della nota sarebbe da individuare in altro

    giornalista ancora, Mirko Ardema