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Unità di ricerca Università di Milano-Bicocca
I confini della violenza
Giovani, vita di relazione e rappresentazioni della violenza
Équipe di ricerca:
Ilenya Camozzi; Maria Grazia Gambardella; Sveva Magaraggia
Responsabile scientifica:
Carmen Leccardi
Stato di avanzamento dei lavori, giugno 2012
Premessa. Gli obiettivi dell’indagine
Richiamiamo qui sinteticamente gli obiettivi generali dell’indagine, così come già
indicati in precedenti documenti. Il gruppo di ricerca dell’Università di Milano-Bicocca
ha scelto di concentrare l’attenzione sulla definizione (e ridefinizione) dei ‘confini della
violenza’ nel vissuto giovanile contemporaneo. Le domande di ricerca dell’équipe, nel
contesto di un consolidato interesse per le trasformazioni sociali e culturali della fase di
vita giovanile, si sono focalizzate in primo luogo sulle caratteristiche delle azioni ed
interazioni considerate violente dai soggetti giovanili; in secondo luogo, sugli
specifici contesti che quelle azioni ed interazioni ospitano, con particolare attenzione
all’istituzione scolastica e familiare. Centralità è stata attribuita, in questa cornice, alle
dinamiche inter-generazionali (insegnanti/studenti, ma anche genitori/figli-e),
ipotizzate come incapaci non solo di favorire forme di dialogo e di socialità improntate
al rispetto e al riconoscimento reciproco, ma anche inadatte a far nascere forme di
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conflitto riflessivamente gestite in particolare da parte delle generazioni più giovani
(quelle in oggettiva posizione di svantaggio sotto il profilo delle relazioni di potere).
La presenza di azioni e interazioni a carattere violento fra le due generazioni -
sebbene raramente in senso fisico - è stata ipotizzata come uno degli esiti della
sommatoria di due diverse condizioni soggettivamente elaborate nei termini di
marginalità sociale, quella degli insegnanti e quella dei loro utenti. Per quel che
riguarda i primi è ben noto (a livello europeo, e non solo in Italia, dove le condizioni
professionali di svantaggio sotto il profilo economico e di prestigio risultano
particolarmente acute) il loro prevalente stato d’animo di disagio e frustrazione,
collegato non solo al degrado dell’ambiente scolastico, ma anche all’estrema difficoltà
di coltivare con i loro utenti rapporti improntati al dialogo e allo scambio, alla base
della relazione educativa.
A proposito dei secondi, i giovani, si può affermare che un numero crescente di
soggetti si percepisce distante dalle istituzioni storiche della nostra società, a partire
dalla scuola, e lontano da un rapporto positivo con la vita pubblica (che, virtualmente,
la scuola dovrebbe favorire). Il sentimento dominante verso il mondo sociale e verso le
generazioni che si considera ne incarnino i principi e i valori prevalenti è piuttosto la
sfiducia. Il mondo adulto, in questa cornice, è percepito come ‘freddo’,
emozionalmente privo di spessore, non animato da convinzioni profonde, ma guidato
da convenienze. Per questo per molti giovani è essenziale, come atteggiamento di base
nelle relazioni con questo mondo, evitare coinvolgimento e impegno, non mostrare
entusiasmo e interesse personale qualsiasi cosa accada. Ai loro occhi la scuola non
costituisca più una leva strategica per l’apprendimento personale. L’assenza di
motivazione allo studio intrecciata al disinvestimento sulla relazione con il corpo
insegnante e alle pratiche routiniere di frequenza scolastica in un ambiente chiuso
come quello della classe possono generare – questa una delle ipotesi che hanno guidato
il lavoro empirico – comportamenti violenti da parte dei giovani. Tali comportamenti
(verbali e non) potrebbero essere elaborati come risposta a forme di relazione con
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l’istituzione scolastica percepite e vissute come improntate all’assenza di
riconoscimento e, per ciò stesso, violente. Di questa forma di violenza istituzionale il
corpo insegnante verrebbe, a torto o a ragione, considerato il primo portatore.
Il particolare focus sulle relazioni intergenerazionali come possibile sorgente di
comportamenti segnati da forme di violenza (e non solo da parte delle generazioni più
giovani) è stato comunque accompagnato dall’attenzione per gli aspetti di violenza
intra-generazionale (violenza tra pari).
In sintesi: la ricerca ha ipotizzato che i giovani entrino quotidianamente in
contatto, in ambiente scolastico (e anche familiare), con azioni riconducibili in
modo diretto e/o indiretto a forme di violenza - materiale e/o morale, agita e/o
subita - che non vengono abitualmente rilevate dagli studi e dalle ricerche
sociologiche sulla condizione giovanile perché non espresse tra pari. Forme che,
tuttavia, possono risultare di grande interesse per rendere visibili alcune delle
modalità di rielaborazione, da parte di adolescenti e giovani, delle specifiche
condizioni di incertezza esistenziale e sociale che connotano la loro fase di vita.
1. Attività svolte
In accordo al progetto presentato, l’attività del gruppo di ricerca dell’Università di
Milano-Bicocca si è concentrata principalmente intorno ai seguenti aspetti:
1. la ricognizione della letteratura sulle tematiche al centro dell’indagine;
2. la raccolta dei materiali autoprodotti dagli studenti/dalle studentesse nelle
scuole (i due gruppi di ricerca di Milano-Bicocca e di Pavia hanno utilizzato il
medesimo documento);
3. l’osservazione partecipante in una classe scolastica;
4. la raccolta di 30 interviste a carattere narrativo.
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La raccolta di documenti autoprodotti nelle scuole
Questa fase della ricerca è stata realizzata nell’autunno inverno 2010-2011. Sono
stati raccolti, all’interno di 5 diverse scuole (un liceo scientifico, un classico, un
liceo linguistico e delle scienze umane, un istituto tecnico industriale e un istituto
professionale) 349 documenti autoprodotti. I documenti, già esaminati dai singoli
componenti l’equipe, verranno ora analizzati attraverso il ricorso ad un software a
carattere qualitativo (una procedura, questa, che riguarderà anche i materiali
raccolti dall’équipe di Pavia-Parma).
L’osservazione partecipante in una classe scolastica
Dopo aver individuato l’istituto in cui condurre un periodo di osservazione
partecipante (l’Istituto tecnico industriale ‘Ettore Conti’, via De Vincenti, Milano) e
avere presentato il progetto ai docenti della classe coinvolta, una terza della sezione
elettronica e telecomunicazioni, il 7 marzo 2011 ha avuto avvio il lavoro sul campo.
La scelta di un istituto tecnico come ambito di osservazione ovviamente non è
stata casuale. Gli istituti tecnici e, soprattutto, quelli professionali registrano, negli
ultimi anni, il più elevato numero di iscritti, il più alto tasso di presenza di migranti
di seconda generazione e, al contempo, elevati tassi di dispersione scolastica.
Inoltre, sono proprio gli istituti tecnici e professionali ad essere, almeno nella
rappresentazione mediatica, i luoghi di maggiore espressione di disagio (compresi
gli episodi di bullismo).
La classe è risultata composta da 22 studenti (21 ragazzi e 1 ragazza) di età
compresa fra i 16 e i 18 anni, metà dei quali giovani migranti di seconda
generazione. Per tre settimane una ricercatrice dell’équipe, presentata agli alunni
come tirocinante, ha partecipato a tutte le attività scolastiche (in classe e nei vari
laboratori, oltre che in palestra) condividendo con gli studenti spazi, tempi e
relazioni quotidiane.
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Inoltre, seguendo l’équipe di un’associazione milanese (l’Associazione ALA) che,
proprio nello stesso periodo, stava realizzando nel medesimo istituto un progetto-
intervento intorno al tema ‘Giovani e violenza di genere’ ha avuto modo di
confrontarsi su questi temi con altri studenti/studentesse della scuola. Il progetto
ha infatti coinvolto tutte le classi terze e quarte dell’Istituto Conti.
Infine, nei momenti di pausa (ricreazione; cambio d’ora) o nel percorrere i
corridoi che portavano dalle aule ai laboratori o alla palestra, a conferma del
proprio ruolo ufficiale di tirocinante la ricercatrice si è spesso accostata ai docenti.
In questi (ed altri) momenti è stato possibile raccogliere le loro confidenze rispetto
all’esperienza scolastica che stanno vivendo.
La raccolta delle interviste
Tra novembre 2010 e aprile 2012 sono state raccolte le 30 interviste previste dal
progetto rimodulato. Gli intervistati sono stati individuati mediante una
procedura a snow ball.
Le interviste, della durata media di un’ora, registrate e successivamente trascritte
in modo accurato, sono risultate così suddivise:
- 15 tra giovani donne di età compresa tra i 16 e i 24 anni:
* 4 studentesse di scuola media superiore;
* 5 studentesse universitarie;
* 3 lavoratrici1;
* 3 studentesse (universitarie) - lavoratrici2
- 15 tra giovani uomini, sempre di età compresa tra i 18 e i 24 anni:
* 4 studenti di scuola media superiore;
* 4 studenti universitari ;
1 Abbiamo definito lavoratori/lavoratrici coloro che ritengono concluso il proprio iter formativo.
2 Abbiamo definito studenti lavoratori coloro che, pur frequentando l’università, hanno contratti di lavoro a
carattere determinato o indeterminato:
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* 4 lavoratori (che ritengono concluso il proprio iter formativo)
* 3 studenti(universitari)-lavoratori.
Obiettivo principale delle interviste è stato quello di cogliere il punto di vista di
chi, pur non essendo necessariamente coinvolto in prima persona in episodi
specifici di violenza né come attore né come vittima (né, eventualmente, come
osservatore/osservatrice), sente di vivere in contesti sociali segnati da forme più o
meno esplicite e quotidiane di violenza. Le osservazioni e le analisi dei giovani
uomini e delle giovani donne intervistate ci hanno così permesso di allargare e
meglio definire la mappa delle rappresentazioni giovanili della violenza,
coinvolgendo anche post-adolescenti.
2. Attività ancora da svolgere
L’équipe di ricerca deve completare le attività programmate con la conduzione di
tre focus groups: il primo formato da giovani di entrambi i sessi di età compresa tra
i 16 e i 18 anni (studenti); il secondo formato da giovani di entrambi i sessi di età
compresa tra i 21 e i 24 anni (studenti e lavoratori); il terzo, che è stato
recentemente aggiunto, destinato agli insegnanti dell’Istituto tecnico industriale in
cui è stata svolta l’osservazione partecipante. La loro realizzazione costituirà il
momento finale del lavoro, in cui sottoporre ai giovani le principali tematiche
portate alla luce dall’analisi dei materiali raccolti.
3. Prime analisi dei materiali autoprodotti nelle scuole
E’ ampio lo spettro della definizione di violenza fornito all’interno di questi materiali:
sono molti anzitutto i ragazzi e le ragazze che distinguono la violenza fisica da quella
psicologica. Ci si divide tra chi è convinto che quella psicologica sia peggiore: “A volte
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le parole fanno più male di qualche livido” (ragazzo, 18 anni, Conti); “Si tratta di
violenze assolutamente non fisiche, ma che comunque possono fare del male da un
punto di vista psicologico, producendo danni irreversibili”(ragazza, 17 anni, Gadda) e
chi invece è convinto/a che quella fisica sia maggiormente temibile e disumana.
Quest’ultimo aspetto è ben esemplificato dalla diffusa testimonianza dell’ “utilizzo
delle mani” come limite oltre il quale una relazione diventa violenta.
La violenza è identificata dai più come un’offesa e una ferita all’altro, come una
sottrazione di rispetto che sfiora la rappresentazione reificante del soggetto (“Non si
pensa al partner come ad una persona ma come un oggetto”, ragazzo, 18 anni, Conti) e
impedisce un rapporto dialogico con l’altro: “Non si riesce più ad avere un dialogo”
(ragazzo, 18, Conti).
Ma la violenza nelle rappresentazioni dei giovani intervistati è anche la mancata
comprensione o peggio la non volontà deliberata di porsi sullo stesso piano e provare
ad ascoltare (“Quando non vengo capito, quando continuano a ribattermi sopra,
quando non rilasciano sfogare e di conseguenza cercano di tagliarmi le ali”, ragazzo, 16
anni, Conti).
Qual è la cerchia sociale a cui i giovani si riferiscono nel delineare la violenza? I più
ne parlano in termini generali, in riferimento alle relazioni interpersonali. Molti invece
mettono a fuoco il rapporto di coppia: si tratta di una precisazione soprattutto operata
dalle ragazze intervistate ma che non esclude i ragazzi (“Nel rapporto, nella coppia,
non c’è più complicità e di solito prevale il maschio che inizia con atteggiamenti
violenti verso l’altra persona”, ragazzo, 17, Conti).
La violenza, ai loro occhi, vede chiaramente un attore ‘bulletto’ ‘ignorante’,
‘prevaricatore’, ‘spesso maschio’ che impone con la forza il proprio volere sullo
‘sfigato’ (termine utilizzato molto all’interno dei materiali autoproddotti), su quello che
non appartiene a gruppi specifici (“si prendono di mira gli elementi più deboli, quelli
ritenuti ‘sfigati’ per il semplice fatto che non reagiranno in quanto non hanno alle
spalle un folto gruppo di amici che reagiranno per difendere il membro del gruppo”,
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ragazza, 17, Gadda)3 , sulla persona che ha difetti fisici (‘le orecchie a sventola’, è in
‘sovrappeso’) e in generale non soddisfa i canoni di bellezza, soprattutto per le ragazze.
Il timore molto diffuso di ‘essere preso in giro’ (un timore particolarmente diffuso fra
gli studenti/le studentesse dei professionali) sottolinea la labilità delle relazioni
intersoggettive di questi ragazzi e la fragilità della loro formazione identitaria.
Chi subisce angherie spesso quotidiane (“Dover misurare continuamente le proprie
parole, le proprie azioni, può rendere infernali anche le situazioni più quotidiane e
apparentemente normali”, ragazzo, 18, Carducci), nello spazio sociale deputato alla
formazione, tende a non reagire e a nascondere le violenze per vergogna e paura (“il
partner che riceve violenza non lo dichiara perché ha paura dell’altra persona, perché
nega l’accaduto, e ci sono altre situazioni in cui l’aggredito teme per la propria vita”,
ragazza, 18, Gadda)
Si ravvisa una scarsa presenza degli adulti nei racconti prodotti e, laddove presenti,
l’immagine è generalmente negativa: non comprendono i giovani, li mettono a tacere
(“[Una relazione diventa violenta] quando gli adulti non credono in te e non ripongono
la loro fiducia in te”, ragazzo, 18 anni, Conti; “Quando i professori non mi fanno dire la
mia opinione riguardo a fatti specifici”, ragazzo, 17 anni, Conti). Non solo. Gli adulti
hanno una rappresentazione inadeguata dei giovani anche rispetto alla violenza (“Per
me una relazione diventa violenta quando gli adulti possono pensare che i giovani
siano d’accordo sull’uso della violenza, cosa del tutto sbagliata!”, ragazzo, 18 anni,
Gadda). Il rapporto con i professori è spesso difficile: “Mi sono sentita non rispettata in
diverse occasioni: a scuola, una volta, quando un professore mi ha detto ‘fai schifo’
perché avevo preso 5 in un compito, demoralizzandomi”, ragazza, 17 anni, Gadda4. Il
rapporto violento con gli adulti non si limita alla scuola, ma si estende anche alla
3 Da sottolineare qui la solitudine della persona che subisce.
4 Vedi in particolare la testimonianza seguente “A scuola, quando so fermamente di avere ragione e i prof rigirano
il tutto perché sono loro che devono avere ragione. Tipo, in un’interrogazione sentirsi dire che hai un’esposizione realmente TRAGICA (e sentito dire sempre e solo a te quando c’è qualcuno che parla uno slang da ghetto) è una cosa che mi fa incazzare ma che di certo non mi invoglia a continuare in maniera migliore; perché anche se riesco sempre abbastanza bene nella maggior parte delle cose la mia autostima non è ad un livello molto alto”, ragazza, 17 anni, Gadda.
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famiglia: “[Una relazione diventa violenta] nel momento in cui si è succubi dell’altra
persona, molto più probabile l’uomo, quando si dipende dalle decisioni del
compagno. Un esempio palese: in casa mia si litiga sempre e costantemente per il
denaro”, ragazza, 16 anni, Gadda). In aggiunta, fa notare una ragazza diciottenne del
Gadda “non viene mai accettata la mia opinione, soprattutto da parte dei miei genitori,
perché se io ribatto e chiedo ‘spiegami il motivo del perché non vuoi’, mi rispondono
‘perché no!’”. E ancora un ragazzo diciassettenne del Carducci a proposito di un
episodio scoperto dai genitori5 “Ad oggi i miei non si fidano di me: pur essendo loro
figlio, e come tale dovrei essere accettato, loro mi hanno ripudiato e questo a mio
parere è stata una forte mancanza di rispetto nei miei confronti, ma la pagheranno
molto cara”.
Vanno infine menzionate le differenze che emergono tra i diversi istituti scolastici
coinvolti nell’autoproduzione di materiali: alla profondità di contenuti dei materiali
prodotti dai ragazzi e delle ragazze dei licei Gadda e Carducci si contrappone la
superficialità degli elaborati dei ragazzi e delle ragazze degli istituti professionali
Dudovich e Marelli.6.
4. La relazione con le istituzioni scolastica e familiare: le tematiche emerse
dall’osservazione partecipante e dalle interviste
La scuola e gli insegnanti
Come si è in precedenza ricordato, oltre ad analizzare le dinamiche relazionali tra
i giovani inseriti nell’ambiente scolastico l’osservazione condotta ha inteso
indagare la rappresentazione che essi costruiscono dell’altra generazione, quella
degli adulti, che con loro condivide questo spazio. In particolare, ha consentito di
5 Forse la scoperta della sua omosessualità, lascia intendere il ragazzo. 6 I pochi riferimenti a violenza e razzismo compaiono nei professionali e negli istituti tecnici, dove in effetti è più
consistente la presenza di studenti di origine straniera.
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approfondire l’ipotesi, già in parte confermata dall’analisi dei materiali
autoprodotti, circa la presenza di forme di conflitto - più o meno latenti - con la
generazione adulta, qui rappresentata dagli insegnanti. Si tratta di una generazione
adulta rispetto alla quale non esistono forme di mediazione affettiva, come accade
per la famiglia. Come risultato, il confronto può essere anche estremamente duro,
talvolta espresso in modo diretto (ad esempio attraverso il lancio di oggetti in
classe), oppure indiretto (ad esempio attraverso l’uso di espressioni ironiche nei
confronti degli insegnanti). In ogni caso, raramente nella cornice della classe il
rapporto fra le due generazioni appare improntato al dialogo e al riconoscimento
reciproco. Entrando maggiormente nel merito, si è voluto comprendere se gli
adolescenti e i giovani - e in caso affermativo in che misura - valutino come
‘violente’ nei propri confronti una serie di azioni quotidianamente messe in atto da
soggetti istituzionali che rivestono nella scuola ruoli gerarchici (docenti, presidi) e
con cui essi intrattengono relazioni di routine.
La scuola, viene sottolineato ancora da recenti ricerche, rappresenta una
istituzione complessa, specchio dell’incertezza sociale; un’istituzione sempre più
densa di ambivalenze e di contraddizioni. Al tempo stesso, essa continua a
costituire un ambito di riferimento centrale nei processi di costruzione dell’identità
sociale giovanile. Nonostante questa oggettiva centralità, come anche il lavoro sul
campo ha messo in luce, i giovani manifestano apertamente intensa delusione nei
confronti della scuola, considerata sempre meno capace di offrire chance di
mobilità sociale e possibilità per una positiva costruzione del futuro. Le conoscenze
che essa offre si manifestano infatti come generalmente inefficaci nel momento
dell’incontro con il mercato del lavoro. Il diritto/obbligo all’educazione sembra
essere divenuto, per numerosi giovani, un onere sgradevole di cui vorrebbero
volentieri sbarazzarsi.
Oggi che i giovani sono sicuramente più competenti in molti campi, non è dalla
scuola che queste competenze sembrano derivare. Anche da qui, da tale
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consapevolezza diffusa, pare prendere forma il vissuto della scuola come sorgente
di una delle forme di violenza che i giovani ritengono di subire - una violenza
rivestita da una patina istituzionale, oltre che ‘coperta’ da modalità di relazione
burocratiche e formali che gli insegnanti, ai loro occhi, incarnano in modo perfetto.
Il non riconoscimento dell’autorità dell’adulto-docente, a cui in più occasioni
l’osservatrice si è trovata di fronte all’interno della classe7, esprime bene questa
rappresentazione.
In taluni casi sono emerse, nel corso dell’osservazione, anche ‘dinamiche di
contropotere’ finalizzate all’affermazione della propria soggettività in un ambiente,
come quello scolastico, rappresentato come particolarmente ostile. Da un lato i
giovani sembrano rifiutare ogni forma di autoritarismo, i formalismi e i vari
modelli di impegno; dall’altro tendono ad esprimere il proprio potenziale
soggettivo attraverso la ricerca del divertimento, nell’uso dell’ironia come
strumento di difesa, nella cura (quasi ossessiva per molti) del proprio corpo e
nell’attenzione per il look8. Nell’un caso come nell’altro chiedono riconoscimento,
esigono di essere considerati soggetti non periferici, domandano antidoti
all’incertezza dominante e all’impossibilità di costruire progetti per il futuro. Agli
insegnanti in particolare chiedono di essere riconosciuti nella, e per la, propria
differenza e unicità. Domandano loro competenza professionale9 e disponibilità
alla relazione, voglia di mettersi in gioco e passione.
Nella routine quotidiana queste domande inevase concorrono a generare
un’agitazione continua tra gli/le studenti, il fatto che non ascoltino, che non
seguano, mancanza di rispetto e forme di (più o meno minute) offese e
7 In un caso, per esempio, uno dei ragazzi della classe decide di andare in bagno nonostante il parere
contrario del docente poiché ritiene quella decisione assolutamente priva di senso. In un altro, i ragazzi
rifiutano di svolgere alcuni esercizi di una verifica adducendo come motivazione lo scarso
approfondimento dell’argomento da parte del docente. 8 Nel raccontare della cura per il proprio stile uno dei ragazzi della classe ha affermato: “Non immagini
quando sia importante vestirsi bene, essere alla moda per essere accettati, per non essere uno sfigato”.
9 “Signorina se, dopo il suo tirocinio, riuscirà a diventare un’insegnante, non diventi mai come il prof. X.
A lui non interessa niente di noi. Lo vede, fa lezione con i suoi appunti vecchi di almeno vent’anni”
(F. unica ragazza della classe osservata).
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trasgressioni. Queste forme di delegittimazione, che si riproducono giorno dopo
giorno, tendono a disorganizzare il mondo scolastico suscitando negli/nelle
insegnanti un profondo disagio personale e professionale e un mal-essere diffuso.
Sempre più insegnanti, tra l’altro, coltivano sentimenti di paura (anche di forme di
violenza fisica) nei confronti degli studenti.
Più di un insegnante, nel corso dell’osservazione, ha raccontato di condotte
delegittimanti da parte degli utenti: interruzioni delle lezioni; abbandono della
classe senza permesso; rifiuto dichiarato di partecipare alle attività; rumori
provocati ad arte; risate. Ma anche vere e proprie azioni di opposizione e di
violenza verbale10. Hanno, quindi, espresso la sensazione di avere davanti dei
ragazzi “fuori portata”, che non possono “toccare” o che non si “lasciano toccare”
(nel senso di coinvolgere). Privi di autorevolezza, nelle situazioni più ‘leggere’
rischiano quotidianamente di subire il chiasso e/o il rifiuto degli studenti. La
fragilità della loro posizione tende a renderli spesso aggressivi; al tempo stesso il
mal-essere che essi vivono finisce per inquietare ulteriormente i loro studenti.
L’adulto (l’insegnante) viene messo costantemente alla prova. Solo se si dimostra
‘innamorato’, pieno di passione per la disciplina che pratica, e se gli studenti
sentono che è al servizio della loro crescita, allora e solo allora gli offrono
attenzione e riconoscimento. Nelle parole di una studentessa intervistata: <<La
scuola non deve essere solo deputata all’insegnamento di teorie; la scuola dovrebbe
essere in grado di creare legami e di farsene responsabile>>.
• La famiglia e la mancanza di comunicazione
10 In accordo agli esiti dell’osservazione i potenziali conflitti che si sviluppano tra insegnanti e
utenti nel contesto della classe possono essere raggruppati in tre distinte categorie:
1. quelli che hanno alla base un giudizio scolastico;
2. quelli che hanno alla base le modalità con cui il docente fa valere la propria autorità (sanzioni
disciplinari, modi di fare e di dire dell’insegnate per ristabilire l’ordine in classe);
3. quelli che riguardano gli studenti (scontri fra ragazzi per i motivi più diversi), ma che
l’insegnante deve sedare per evitare che la situazione precipiti.
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Nella ‘famiglia negoziale’ in cui adolescenti e giovani si trovano oggi a vivere -
caratterizzata appunto dalla continua negoziazione nel rapporto genitori/figli e
dove ciò che è possibile contrattare si modifica, per contenuti e forme, a seconda
dell’età dei figli/delle figlie - la comunicazione con la generazione adulta non di
rado risulta ridotta al minimo. Le generazioni presenti nello spazio della casa
tendono infatti a condurre esistenze separate (complici anche le nuove tecnologie,
che costruiscono mondi generazionali spesso privi di contatto). In questo contesto,
i bisogni di auto-affermazione, ma anche di confronto e di contatto, che le
generazioni più giovani esprimono tendono a restare lettera morta.
Anche le frequentazioni amicali dei ragazzi risultano svincolate dal consenso
familiare, sono cioè sfere di autonomia e libertà in cui i genitori non entrano.
L’eccessiva permissività dei genitori (spesso interpretata dai giovani come semplice
indifferenza) è un tema più volte sottolineato dai nostri intervistati/e. Distacco e
mancanza di comunicazione appaiono dunque più la norma che l’eccezione (“Con i
miei non parlo. Non sanno quello che faccio, come vivo. A loro basta che io faccia
gli esami all’università. Non sanno niente neppure del mio aborto”, Federica, 20
anni, studentessa universitaria). I figli sono dunque fisicamente vicini ai genitori
(anche grazie alla ‘famiglia lunga’, al protrarsi delle convivenze fra genitori e figli
sotto lo stesso tetto fino a costruire vite in comune, non sempre frutto di scelta, di
due generazioni adulte), ma appaiono anche emozionalmente distanti dagli adulti.
Dalle nostre interviste emerge l’approfondirsi del gap generazionale, una
comunicazione fra generazioni interrotta e spesso ambigua (i segnali che
provengono dal mondo adulto appaiono molte volte contraddittori), e il
conseguente disorientamento dei giovani. Questa modalità relazionale, agli occhi
di molti tra i nostri intervistati, appare come oggettivamente segnata da forme di
violenza. Violenza familiare non sono in tal senso soltanto i litigi, i rimproveri e le
prevaricazioni che si possono subire nel contesto della famiglia. E’ anche il silenzio
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che nasce dalle incomprensioni, è anche e soprattutto l’incomunicabilità con i
genitori e la loro generazione.
5. Un primo nodo teorico sollecitato dalla riflessione su giovani e violenza: il
rapporto identità/riconoscimento
Identità e riconoscimento intrecciano il loro percorso nello spazio sociale tout court
della definizione che ciascuno dà del proprio sé. Se è vero, infatti, che l’identità
rappresenta la soggettiva capacità di porsi la domanda chi sono? e di darvi risposta,
essa si nutre, in eguale misura, della presenza di altre soggettività in grado di definirsi
per somiglianza e differenza. Da questa angolatura, l’identità si costruisce attraverso
l’alterità in un processo riflessivo di conferma della propria unicità e differenza rispetto
all’Altro da sé (individuazione) e sulla base di una identificazione con l’Altro (Gallino).
In tale contesto, il riconoscimento appare come un’operazione speculare a quella della
costruzione identitaria, un’operazione compiuta dal soggetto che si auto-riconosce e
dagli altri dai quali egli viene riconosciuto (etero-riconoscimento) (Melucci). La sua
rilevanza, pertanto, lo porta ad essere definito come una fondamentale dimensione
dell’identità, quella che, come si è detto, rinvia all’azione sociale del soggetto e degli
altri attori.
La stretta connessione tra i due campi è evidente, sottolinea Franco Crespi, in
quanto l’identità personale e sociale ‹‹vengono costruendosi solo attraverso
l’interazione con gli altri›› (Identità e riconoscimento, Laterza, Roma-Bari, 2004, XII). Egli
mette soprattutto in luce l’aspetto della complessità e dell’ambivalenza del rapporto e,
infine, il ruolo indispensabile giocato dalla coscienza. L’importanza che il
riconoscimento assume è enfatizzata, inoltre, dal timore costante, da parte del soggetto,
dell’indifferenza dell’altro. Non solo, ma il riconoscimento dell’altro è così cruciale,
sostiene Crespi, che spesso il soggetto preferisce essere identificato da giudizi negativi
anziché risultare invisibile, come ben si evince dalle testimonianze dei giovani da noi
intervistati.
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Come noto, l’interesse sociologico per la rilevanza della dimensione del
riconoscimento è rifiorito sulla scia delle recenti riflessioni filosofico-politiche di Jürgen
Habermas, di Axel Honneth e di Paul Ricoeur. Nel contesto di tale rinnovata
attenzione si collocano anche riflessioni sociologiche come quella di Richard Sennet
che riconduce il riconoscimento al tema del rispetto e della differenza alla luce delle
profonde disuguaglianze sociali che caratterizzano le società contemporanee. E’
tuttavia il lavoro di Axel Honneth a costituire la riflessione più compiuta sul legame tra
riconoscimento e identità: lo studioso tedesco come noto ha voluto elaborare una teoria
sociale capace di restituire le esperienze in cui gli attori sociali danno conto delle
proprie istanze marginalizzate e delle proprie aspirazioni private del rispetto che ogni
società dovrebbe invece garantire sotto il profilo della giustizia sociale. La possibilità
di realizzare le proprie aspirazioni e i propri desideri come individui autonomi –
aspetto che investe la formazione identitaria – è legata allo sviluppo della fiducia di sé,
del rispetto di sé e della stima di sé. Le tre celebri sfere messe in luce da Honneth in cui
originano i livelli di riconoscimento – la sfera delle relazioni intimo-affettive, quelle
attinenti al diritto e quelle sociali in senso più ampio – si fondano inevitabilmente sulla
relazione con l’alterità. Qui si colloca a mio parere il trait d’union tra la dimensione del
riconoscimento e la violenza.
L’esercizio della violenza a livello micro-sociale e intersoggettivo ha infatti la propria
fenomenologia nella negazione dell’Altro come soggetto. L’Altro non viene
riconosciuto, viene disprezzato se non addirittura ignorato. La violenza si delinea
come una forma di diniego (Deriu) o di indifferenza morale (Bandura). In tale
direzione il rapporto intersoggettivo si presenta come persecutore/vittima (Girard;
Escobar): chi si esercita la forza, da un lato e chi la subisce, nell’altro.
6. Alcune osservazioni in merito al documento di Consuelo
Molto sinteticamente: il nodo cruciale ci sembra legato alla prospettiva in base alla
quale ci si accosta alla violenza di prossimità. Se, come nel caso dell’analisi proposta da
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Consuelo (e nella definizione di politiche di prevenzione e di supporto alle donne
vittime di violenza a cui fa riferimento Folco), la prospettiva è rigorosamente
circoscritta alla dimensione della violenza di genere, una parte almeno della
complessità della questione ‘violenza’ nel contesto contemporaneo rischia di andare
perduta. Il riferimento è alla concentrazione sull’aspetto fisico/corporeo della violenza
(dalla violenza sessuale ai tragici ‘femminicidi’ a cui stiamo assistendo) connaturato ad
un’analisi in questa chiave.
L’introduzione della dimensione generazionale nella riflessione sulla violenza tende
invece a spostare il baricentro della questione dalla violenza fisica come dimensione
prioritaria (e definitoria) del problema ad una pluralità di aspetti e di sfumature che
caratterizzano l’interazione vissuta come violenta. Tra insegnanti e studenti, tra
genitori e figli, ma anche tra pari, relazioni di prossimità violente non necessariamente
passano attraverso la dimensione della violenza fisica. Come il lavoro sul campo ha
messo bene in luce, vi può essere un elevato livello di violenza nelle relazioni di
prossimità tra le generazioni in contesti come la scuola o la famiglia senza che si sia
necessariamente in presenza di una violenza di questo tipo.
Sul piano teorico il punto di partenza è la specifica vulnerabilità umana, intesa, con
Popitz (Phänomene der Macht, 1992), come precipua possibilità per gli esseri umani
di ‘venire feriti’ (‘apertura alle ferite’). La possibilità di procurare ad altri ferite viene
utilizzata, per fini di potere, da uno o più agenti. Le ferite inferte possono essere
materiali, fisiche, ma anche intellettuali e psichiche. Il potere di ferire è dunque
pluridimensionale, così come pluridimensionali possono essere le forme di azione (e
interazione) finalizzate a produrre ferite. In tal senso una varietà di fenomeni, tra loro
eterogenei, possono essere rubricati come violenti. Tutti sono infatti in grado di
produrre danni e sofferenze (per l’antropologa Françoise Héritier può essere definita
violenza “ogni costrizione di natura fisica o psicologica che provochi danno, sofferenza
o morte in un essere animato”, Sulla violenza, Meltemi, Roma, 1997, 17).
17
Ci rendiamo conto che, per chi lavora guardando alla sociologia della violenza come
ambito disciplinare prioritario, queste riflessioni possono sembrare poco capaci di
cogliere il punto. Il riferimento alla dimensione corporea della violenza è infatti
indubbiamente strategico per chi elegga la sociologia della violenza come riferimento
privilegiato sul piano teorico ed analitico (è il caso, ad esempio, del lavoro che da anni
conduce Consuelo). Ma per chi, come è accaduto in questa ricerca alle équipe di
Milano-Bicocca e Pavia, lavora prioritariamente intorno e all’interno di altri ambiti
diciplinari (è il caso, qui, della sociologia dei giovani) la prospettiva può risultare
diversa. In questo caso, infatti, si tratta ad esempio di comprendere in che misura e
attraverso quali modalità le relazioni tra generazioni possono assumere aspetti violenti
– la violenza non necessariamente è qui materiale - come esito di una crisi profonda
delle forme contemporanee di relazione e trasmissione intergenerazionale.
E’ importante sottolineare che non stiamo discutendo qui di violenza simbolica à la
Bourdieu. La violenza a cui si fa riferimento non è né invisibile né ‘dolce’, non è
percepita come naturale né data per scontata. Non si tratta di significati imposti, di
forme di dominazione esercitate con il consenso di chi le subisce. Piuttosto, i soggetti (i
giovani non diversamente dagli insegnanti o dai genitori) hanno un’acuta
consapevolezza di essere coinvolti in forme di interazione violenta, in relazioni che
volutamente feriscono, producono un vulnus, un’offesa, una violazione dell’integrità
personale. Vivono in modo soggettivamente consapevole queste relazioni, le
rielaborano, e tentano di costruire forme di risposta (a loro volta spesso violente) per
mantenere il controllo della situazione.
In breve: per i motivi qui richiamati, ed in riferimento al fenomeno della violenza
intergenerazionale, è nostra convinzione che l’allargamento dell’analisi teorica anche
alla dimensione extra-fisica ed extra-corporea della violenza (in tutte le sue molteplici
sfumature) possa costituire un utile arricchimento del dibattito.