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RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013 Piccole imprese dentro e oltre la crisi. Un’indagine nei settori della manifattura, a Torino. A cura di Salvatore Cominu, Cristiana Cabodi, Brigida Orria, Giovanna Spolti, Alessia Toldo. UN PROGETTO DI CON IL SOSTEGNO DI

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RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

Piccole imprese dentro e oltre la crisi.

Un’indagine nei settori della manifattura, a Torino.

A cura di Salvatore Cominu, Cristiana Cabodi, Brigida Orria, Giovanna Spolti, Alessia Toldo.

UN PROGETTO DI CON IL SOSTEGNO DI

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

Introduzione

La piccola impresa a Torino 10

La crisi 12

Impostazione della ricerca e struttura del rapporto 15

1. Il profilo delle imprese e degli imprenditori

1.1 Settore economico delle imprese 19

1.2 Forma giuridica 20

1.3 Anzianità aziendale 20

1.4 Dimensioni 21

1.5 Il profilo dei titolari 21

Distribuzione per età 21

Sesso del titolare 22

Titolo di studio 23

2. Struttura e mutamento del mercato

2.1 Il profilo del mercato 24

2.2 Assetto commerciale 26

Imprese che commercializzano con marchio proprio 26

Imprese che producono componenti su commessa 26

Imprese di lavorazioni conto terzi 27

2.3 Distribuzione del fatturato per raggio di mercato 28

2.4 Il turn-over dei clienti 31

2.5 Le relazioni inter-impresa nella sub-fornitura 34

Integrazione 35

Svalorizzazione 35

Burocratizzazione 35

HIGHLIGHTS 36

3. La composizione della forza lavoro 37

3.1 Il lavoro nella piccola impresa industriale 39

3.2 Le assunzioni recenti 42

HIGHLIGHTS 44

4. Cambiamenti e innovazione

4.1 I cambiamenti riguardanti il prodotto delle imprese 46

4.2 I cambiamenti riguardanti i processi produttivi 49

4.3 Investimenti nei servizi terziari specialistici 51

4.4 Il rapporto con i fornitori e la rete distributiva 57

4.5 Gli investimenti futuri 59

HIGHLIGHTS 61

5. Crisi e performance delle imprese

5.1 La performance economica 62

5.2 La reazione alla crisi 69

5.3 Relazioni tra performance e caratteristiche dell’impresa, del mercato delle iniziative intraprese 72

Fattori esplicativi delle performance nel periodo 2008-2011 74

Fattori esplicativi delle performance nel 2012 75

Fattori esplicativi della performance in base alle dimensioni 76

HIGHLIGHTS 78

Osservazioni conclusive 79

APPENDICI – TRACCIA INTERVISTA 84

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Introduzione

Tra le vittime della grande crisi globale apertasi nel biennio 2007-2008 e giunta oggi, nell’alternanza

tra fasi acute e apparenti attenuazioni, al sesto anno, c’è forse anche la narrazione che aveva accompagnato

le trasformazioni del sistema produttivo italiano tra gli anni Settanta e la fine del secolo scorso: la centrali-

tà riconosciuta delle PMI del settore industriale nei processi generativi di ricchezza e competitività

dell’economia nazionale. Questa prospettiva analitica, a suo tempo affermatasi con la “scoperta” di regioni

che avevano seguito un pattern di crescita basato sull’industria, ma differente nelle forme di organizzazio-

ne e coordinamento dal modello dominante fordista, aveva alimentato un dibattito sovente restituito con

la banalizzazione, tuttavia estremamente efficace, dello slogan per cui “piccolo è bello”. Il dibattito sulla

questione dimensionale del capitalismo italiano e sulla duplicità delle vie allo sviluppo industriale è fin

troppo conosciuto da non richiedere in questa sede che un breve richiamo, utile però a situare nel tempo e

nello spazio la ricognizione realizzata sulle piccole imprese industriali torinesi ai tempi della crisi.

Il ruolo delle piccole imprese nello sviluppo economico italiano, come noto, emerge per la prima volta

negli anni Settanta e ha come osservatorio privilegiato le regioni dell’Italia Centrale e Nord-Orientale

(NEC) che, com’è stato osservato1, erano rimaste in una specie di penombra, tra un Nord-Ovest in cui

erano localizzati i centri forti della produzione di massa e un Mezzogiorno che arrancava nonostante

l’impegno di politiche per il suo sviluppo. Le regioni del NEC, negli anni Settanta, crescevano a tassi so-

stenuti, ma la loro economia, che aveva al centro la produzione industriale, era basata su sistemi diffusi di

piccole imprese, sviluppatisi per proliferazione anziché per concentrazione, e in particolare di quelli che

saranno poi denominati distretti industriali – localizzati sovente in centri minori, al centro di territori ru-

rali caratterizzati da rapporti proprietari di tipo mezzadrile o con contadini autonomi, in grado di fornire

manodopera flessibile, oltre che di piccole accumulazioni di capitale da investire in una nuova direzione

produttiva. Il loro successo venne all’epoca spiegato spostando il fuoco dell’osservazione dall’impresa al

sistema locale. Le imprese non avevano infatti risorse da investire in ricerca e sviluppo né capitali impor-

tanti da mobilitare; il loro successo si basava su una combinazione di fattori economici, sociali, regolativi

che convergevano nella rilevanza del territorio, inteso come sistema di relazioni sociali, istituzioni locali,

risorse culturali sedimentate, a partire da quella cruciale dell’imprenditorialità. Per stilizzare questa diffe-

renza è utile recuperare una distinzione, formulata a suo tempo da Giacomo Beccattini, tra imprese come

molecole di capitale e imprese come progetti di vita (un’impresa, in questo tipo di capitalismo, è sempre

“personale”, ha sempre una famiglia, nasce sempre dalla mobilitazione di capitali locali, di reti fiduciarie,

di un network locale di supporto).2

Da tempo, nei suoi stessi territori di incubazione (vale la pena ricordare che anche nel Nord-Ovest

della produzione di massa più sistemi produttivi locali hanno seguito un percorso di crescita simile), que-

sto modello di industrializzazione diffusa ha mutato profondamente modalità organizzative. In particola-

1 Bagnasco, A., Tre Italie, la problematica territoriale dello sviluppo economicoitaliano, Il Mulino, Bologna, 1977.

2 Beccattini, G., Per un capitalismo dal volto umano, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.

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re, la configurazione “orizzontale” con cui si sono a lungo rappresentati i distretti industriali, è stata pro-

gressivamente sostituita da forme di divisione “verticale” del lavoro e gerarchiche tra imprese capofila e

reti localizzate di fornitori, a loro volta sottoposte a tensione nel nuovo ambiente competitivo emerso alla

fine degli anni Novanta.

Convenzionalmente, si situa l’inizio della fase dura della globalizzazione a cavallo del secolo, con

l’esplosione della bolla della new economy, l’ingresso della Cina nel WTO e l’assorbimento delle valute na-

zionali europee nell’Euro. Già a partire dagli anni Novanta, infatti, e con sempre maggiore intensità nel

decennio successivo, nel corso del quale l’industria perde l’ombrello protettivo della moneta nazionale,

l’apertura internazionale dei mercati sottopone a tensione anche i distretti e le filiere del made in Italy. È

in questo mutato ambiente che parte delle imprese distrettuali transitano dalla piccola alla media dimen-

sione. Ciò consente ad esse di sviluppare leve competitive inaccessibili alle imprese minori: le filiere si a-

prono a monte (fornitori di conoscenze, componenti, materiali, lavorazioni, servizi immateriali) e a valle

(rete commerciale e presidio in un numero crescente di mercati esteri).

Sono questi i processi alla base della crescita delle medie imprese industriali o di quelle medio-grandi

industrie che alcuni studiosi, nel passato decennio, avevano definito “quarto capitalismo”3. Trasformazioni

che hanno prodotto un recentrage del dibattito sulla media impresa, a lungo relegata al ruolo di “ceneren-

tola dell’economia italiana”4; la crisi del fordismo da una parte e dei distretti industriali dall’altra ha sem-

brato infatti produrre una convergenza sulla loro centralità negli assetti produttivi del paese, cui ancorare

di conseguenza visioni dello sviluppo e correlate scelte di policy. Le medie imprese affermatesi come leader

di filiere localizzate, specializzate soprattutto nei settori leggeri del made in Italy, hanno contribuito signi-

ficativamente al riposizionamento competitivo di parte del tessuto diffuso della piccola impresa, agendo

da collettore e distributore di saperi, innovazioni, processi. Nel contempo, la svolta internazionale di que-

sta nuova élite industriale, in un paese ormai privo (con pochissime eccezioni) di veri global player, ha in-

dotto significative trasformazioni nell’organizzazione delle filiere territoriali. Il loro alzarsi dal locale, da

una parte, si è accompagnato ad una diffusa e sovente caotica modernizzazione, nel tentativo di dotare i

sistemi produttivi di reti lunghe per la competizione: banche adeguate, infrastrutture per la mobilità di

lungo e medio raggio, centri di produzione di conoscenze e di trasferimento tecnologico, luoghi per la

rappresentazione e la promozione delle qualità produttive. Dall’altra ha prodotto una qualificazione selet-

tiva e una contestuale rarefazione delle piccole imprese operanti in regime di fornitura, produttrici di se-

milavorati, componenti, accessori, sempre più esposte alla competizione di produttori di paesi favoriti dal

basso costo dei fattori produttivi.

Questo, a grandi linee, il percorso evolutivo del capitalismo industriale alle soglie della grande crisi del

2008-2009. Gli anni successivi si incaricheranno di polarizzare il quadro. Il crollo verticale della domanda

internazionale nel 2009 ha colpito principalmente le imprese orientate all’export, costringendole al mas-

siccio ricorso agli ammortizzatori sociali, a ristrutturazioni organizzative, alla ricerca dei mercati che man-

3 Tra gli altri, cfr. Colli, A., Il quarto capitalismo. Un profilo italiano. Marsilio, Venezia, 2002; Turani, G. I sogni del

grande Nord, Il Mulino, Bologna, 1996; Coltorti, F., Investire nella crisi, Impresa e Stato.

4 Sapelli, G., Storia economica dell’Italia contemporanea, Bruno Mondadori, Milano, 1997.

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tenevano elevata la domanda di beni e tecnologie (i brics e tra questi soprattutto la Cina). Tuttavia, a par-

tire dal 2010 e con maggiore evidenza negli ultimi due anni, segnati dalla crisi del mercato domestico,

dalle politiche di austerity che hanno prodotto l’effetto di ridimensionare la domanda pubblica, gli inve-

stimenti in opere di interesse collettivo e il potere di acquisto delle famiglie, le imprese aperte ai mercati

esteri hanno tenuto le posizioni, mentre nei sistemi produttivi volti a soddisfare la domanda interna re-

gnano spaesamento e impoverimento. Lo spettro del declino, che ha accompagnato il dibattito

sull’economia italiana per tutto il primo decennio del nuovo secolo, sembra dunque essersi materializzato;

non passa giorno senza aggiornamenti che impietosamente svelano l’impatto della crisi sui redditi, sulle

performance delle imprese, sulla produzione industriale e sull’occupazione, nel quadro ormai strutturale di

differenziali sfavorevoli con le economie di quasi tutti i paesi avanzati.

Per venire all’oggetto specifico della ricerca è opportuno compiere un piccolo passo indietro, e situare

la riflessione nell’acceso dibattito che per un decennio ha opposto declinisti e difensori del modello italiano,

basato appunto sulla grande diffusione di piccole imprese nel settore industriale. Gli anni Duemila, infat-

ti, sono stati accompagnati da una pervasiva “retorica del declino” avente per bersaglio i deficit strutturali

del sistema paese, ma che in ultima istanza ha quasi sempre individuato nei limiti dimensionali delle im-

prese il problema per definizione. Come è stato opportunamente rilevato in un documentato contributo

sull’argomento5, la questione del declino ha ampiamente superato i confini del confronto su basi tecniche

e cognitive, per assumere una veste politico-ideologica. Ciò non significa che molti degli argomenti avan-

zati dai retori del declino non fossero empiricamente osservabili: come negare, con Luciano Gallino, che

la “scomparsa dell’Italia industriale” abbia avuto pesanti responsabilità politiche e che la fine delle maggio-

ri realtà industriali abbia prodotto un ritardo sistemico e un posizionamento di seconda schiera

dell’industria italiana nella divisione internazionale del lavoro?

Le tesi dei declinisti più conosciuti 6 sono note e in larga parte centravano (e centrano) il bersaglio

nell’individuare tra i limiti del sistema produttivo italiano l’elevata frammentazione, la scarsa rilevanza de-

gli investimenti in ricerca e sviluppo, l’inconsistenza di quelli terziari in conoscenza e risorse qualificate, il

limitato accesso ai mercati dei capitali e i vincoli dimensionali che limitano un più strutturato accesso ai

mercati mondiali. Aggiungiamo a ciò che settori non marginali di questo “capitalismo tascabile” sia stato

poco incentivato a battere nuove strade anche in virtù di alcune protezioni regolative, tra cui sono da ri-

marcare almeno l’eccezione – sul mercato del lavoro – della soglia dimensionale dell’articolo 18, e

l’implicito scambio tra benign neglect fiscale e limitato accesso al welfare previdenziale, che ha costituito a

lungo la base di stabilizzazione dei rapporti tra piccola impresa e Stato centrale.7

A queste tesi quelli che si sono definiti difensori del modello italiano hanno opposto argomenti altret-

tanto inoppugnabili e pragmatici. Le politiche industriali e per lo sviluppo, questo il realistico richiamo di

molti contributi, si devono tarare sulle imprese che esistono, non su quelle desiderabili. È utile a questo

5 Preti, P.-Puricelli, M., L’impresa forte, Egea, Milano, 2007.

6 Si rinvia al saggio di Marina Puricelli, Le posizioni in campo, in Preti-Puricelli, cit., per una disamina più completa ed

esaustiva delle posizioni e degli argomenti espressi dai due “schieramenti”, qui esposti in modo sintetico.

7 Ranci, C. (a cura di), Partite Iva, Il lavoro autonomo nella crisi italiana, Il Mulino, Bologna, 2012.

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proposito richiamare una tesi espressa a suo tempo da Enzo Rullani e Aldo Bonomi 8, attinente ai caratte-

ri peculiari del modello industriale italiano nella divisione internazionale del lavoro – che è insieme, giova

ricordare, divisione tecnica e cognitiva. Il capitalismo italiano nelle sue componenti modali e maggioritarie,

secondo i due autori, si differenzia tanto dai sistemi neofordisti, basati sulla produzione di beni di consumo

standardizzati (che ha trovato condizioni localizzative favorevoli nei brics), quanto da quelli basati su

grandi imprese nei settori high tech, supportate da rilevanti investimenti in ricerca e sviluppo e da sistemi

formativi di eccellenza e ben finanziati, nonché da amministrazioni pubbliche efficienti e capaci di ripro-

durre beni collettivi in maniera sistematica. La storia economica degli ultimi trent’anni ha portato vicever-

sa il sistema industriale italiano a specializzarsi in nicchie e settori a media complessità tecnologica, in un

intreccio fecondo tra risorse imprenditoriali e ambientali (dei territori), capaci di assicurare per lungo pe-

riodo forme di integrazione e inclusione allargata e finanche di redistribuzione di ricchezza. Questo è il

capitalismo italiano, concludono i due autori,9 hic Rhodus, hic salta.

Definite sinteticamente le coordinate del dibattito, tutti gli studiosi (di qualsiasi “schieramento”) con-

vergevano nell’auspicare per le PMI il consolidamento dimensionale, il rafforzamento delle logiche di rete,

la capacità di incorporare conoscenza e tecnologia sofisticata, di fare più ricerca e sviluppo, di investire sul-

la qualità della forza-lavoro. Come più autori hanno sostenuto10, nelle pieghe della globalizzazione e in

assenza di un disegno strategico accompagnato dalle istituzioni politiche, negli anni Duemila una parte

del capitalismo minore era stato protagonista di una “trasformazione” nella direzione auspicata, generando

numerosi success case che tuttavia non producevano effetti aggregati (e l’Italia infatti scivolava nelle gradua-

torie internazionali della produttività e della competitività), ma che testimoniavano vitalità, capacità di

adattamento, permanenza di risorse sociali sul territorio. Per dirla in altre parole, una parte del sistema

industriale ce l’ha fatta nonostante e non grazie alle risorse che il sistema poneva a disposizione.

La grande crisi in cui siamo immersi da sei anni ha contribuito a disarticolare ulteriormente scenario e

rappresentazioni discorsive. La crisi ha impattato pesantemente sul mercato e sulle performance della

composizione imprenditoriale minore, senza peraltro risparmiare le realtà industriali più strutturate. A ri-

schio, secondo gli allarmati appelli periodicamente lanciati dagli imprenditori e dalle loro associazioni,

non è più un particolare profilo di impresa, ma la stessa industria italiana. I dati forniti dagli istituti di sta-

tistica e dagli osservatori istituzionali sulle performance delle imprese lasciano poco spazio a fraintendi-

menti, così come le ricerche svolte da osservatori specifici, territoriali o settoriali. Archiviata da tempo

l’epopea del “piccolo è bello”, anche il dibattito sulla questione dimensionale che ha caratterizzato il passa-

to decennio sembra ormai invecchiato. Le piccole imprese, ma soprattutto il mondo sociale di cui sono

espressione, sono tra le grandi vittime della crisi mondiale, aggravata dalla traballante posizione dell’Italia

tra i paesi sviluppati. Oggi permangono pochi dubbi sulla necessità di tutelare, riqualificare, innovare il

8 Bonomi, A. - Rullani, E., Il capitalismo personale. Vite al lavoro, Einaudi, Torino, 2005.

9 Si cita questa posizione, ma con alcune varianti tesi convergenti sono state sostenute da numerosi altri studiosi, tra

cui Giuseppe Berta, Corbetta, Marco Fortis, Giuseppe De Rita, Andrea Colli e altri.

10 Cipolletta, I. - De Nardis, S., L'Italia negli anni duemila: poca crescita, molta ristrutturazione, Economia Italiana, U-

nicredit Reviews, 1-2012.

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patrimonio industriale e le competenze di cui è portatore. E trovare le basi per frammenti di politica indu-

striale e policy territoriali in grado di accompagnare i percorsi d’innovazione che possono essere osservati,

al riparo sia da logiche al ribasso sia da attese eccessive verso il ruolo taumaturgico delle start up innovati-

ve, fenomeni chiaramente importanti e da seguire nelle evoluzioni future ma che oggi costituiscono solo

una ridotta frazione del composito mondo della piccola impresa.

Anche in questo quadro perennemente in movimento, emergono nondimeno narrazioni che più o

meno aggiornano il dibattito tra fautori e detrattori del capitalismo basato sulla piccola dimensione. A da-

re la cornice e fare, per così dire, da sfondo a questa indagine sono alcune immagini che, a chiusura di

questa introduzione generale, è utile tenere presenti.

L’evidenza dei numeri della crisi, in apparenza, sembra fornire una amara conferma alle previsioni a

suo tempo avanzate dai declinisti. In questi anni nessuna economia avanzata è stata risparmiata dalla crisi

ma l’Italia ne ha subito gli effetti in misura più radicale, entrando stabilmente in recessione dopo un de-

cennio di stagnazione o crescita rallentata. Nessun settore produttivo è stato risparmiato, ma la struttura

diffusa del capitalismo molecolare risulta particolarmente in difficoltà. Ciononostante, proprio nella crisi,

emerge il ruolo trainante e positivo di quelle componenti industriali che hanno saputo agganciare in tem-

po la domanda internazionale o che, per altre vie, hanno rinnovato le produzioni rivolgendosi ai segmenti

di clientela più sofisticati e alla ricerca di contenuti distintivi (tipico esempio, il settore enogastronomico o

l’artigianato di qualità con contenuti fortemente personalizzati).

Se è fuorviante, in questo contesto, vaticinare la fine prossima delle piccole imprese industriali (nono-

stante il ridimensionamento del volume di affari, restano una presenza cruciale del nostro sistema produt-

tivo), appare condivisibile l’opinione di quanti, nella crisi, vedono il definitivo collasso dell’organizzazione

societaria che aveva accompagnato il take off del capitalismo basato sulla piccola impresa.11 Non già le pic-

cole imprese, secondo questo punto di vista, ma il modello di sviluppo imperniato sul loro ruolo e su quel-

la specifica soggettività imprenditoriale, appare dietro le spalle. Altri analisti hanno posto al centro della

riflessione la necessità di una profonda revisione delle basi tecnologiche e organizzative della produzione.

Con la nozione di modernità sostenibile, ad esempio, l’economista Enzo Rullani fa riferimento (più che ad

un improbabile decollo di una mitizzata green economy che ancora attende una declinazione operativa) alla

necessità di una rottura con il modello di crescita seguito negli ultimi decenni, imperniata su un’idea di

sviluppo insostenibile e dissipativa. Occorre, di conseguenza, agire per ripersonalizzare e rendere sostenibile

la modernità, laddove sostenibilità significa cura nel ripristino delle premesse che reggono i processi molti-

plicativi di conoscenza e valore propri della modernità: ambiente, ma anche cultura, paesaggio, assetti ur-

bani, commons cognitivi, estetici, relazionali, significati e senso.12

È in questa prospettiva si collocano anche quanti, paradossalmente, proprio nella crisi globale vedono

lo spazio – culturale ed economico – per una reindustrializzazione su basi completamente rinnovate delle

stesse economie occidentali. È a questo che allude la narrazione sulla nuova artigianalità, che meriterebbe

una trattazione meno episodica di quanto forzatamente necessario nell’economia di questo contributo.

11 È questa la tesi, ad esempio, del più recente testo di Aldo Bonomi, Il capitalismo In-finito, Einaudi, Torino, 2013.

12 Rullani, E., Modernità sostenibile, Marsilio, Venezia, 2010.

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L’aspetto rilevante, e che merita qui di essere richiamato, è che proprio nell’economia più avanzata del

mondo (gli Stati Uniti), dove più intensi sono stati i processi di trasformazione in direzione dell’economia

della conoscenza e più spinti quelli di delocalizzazione della produzione manifatturiera, si sono affermati –

anche in reazione alla crisi – nuove visioni che pongono al centro la cultura materiale e artigiana. Esaurita

la spinta propulsiva verso un’economia dell’immateriale, ma anche quella della classe creativa che aveva ac-

compagnato il rilancio delle città a cavallo del secolo, si affermano oggi pratiche sociali diffuse, che assu-

mono talora i caratteri di un vero e proprio movimento di nuovi makers 13, che pongono al centro un rin-

novato primato della produzione materiale, dell’autonomia dei produttori, della cultura del lavoro “ben

fatto”, della personalizzazione del prodotto e della sua cura. In altre parole, dell’artigianalità. L’uomo arti-

giano 14 descritto dal sociologo Richard Sennett, è da precisare, è un profilo culturale e antropologico che

si afferma nella critica dello spirito del nuovo capitalismo, basato sull’indifferenza verso la cultura materia-

le, la spersonalizzazione che, lungi dal connotare l’esperienza storica dell’industria fordista, caratterizze-

rebbe ormai da tempo proprio i settori del terziario avanzato e della knowledge based economy.15 Non corri-

sponde alla nostra impresa artigiana, poiché l’uomo artigiano, esattamente come auspicato da Enzo Rul-

lani, è anzitutto una individualità – che taglia l’intera produzione di beni e servizi – interessata a riappro-

priarsi del senso e del significato del produrre. Entro queste coordinate si muove il fenomeno dei Makers,

come è stato definito il movimento di produttori orientati alla industrializzazione dell’etica Do It Your-

self, che affonda le sue radici nel mondo della creatività digitale e della controcultura, ma che oggi conqui-

sta sempre nuovi adepti anche tra i professional che la crisi ha ridotto a eccedenze del ciclo economico.

L’aspetto di maggiore interesse, ai nostri fini, è che queste pratiche apparentemente marginali, sono rite-

nute alla base di una possibile “terza rivoluzione industriale” guidata da una nuova generazione di piccole

imprese “a cavallo tra alta tecnologia e artigianato”, abilitata da una “nuova classe di tecnologie per la pro-

totipazione rapida, come stampanti 3D e laser cutter” 16 (Anderson) e da logiche di produzione e circola-

zione dell’innovazione e della conoscenza secondo logiche di condivisione e open source. È importante se-

gnalare che “nuovo artigianato digitale”, nella logica Maker, significa nuovo “materialismo culturale” e

non piccola impresa. Solo in Italia, in realtà, le tematiche dell’artigianato e la questione dimensionale delle

imprese si sovrappongono fino a confondersi. Questo scenario futuribile, da cui siamo tuttavia molto di-

stanti e che non necessariamente assumerà direzioni e modi auspicati dai suoi narratori di oggi, riapre una

prospettiva per la produzione industriale organizzata in piccole unità anche nel nostro paese, che in realtà

dai maker – senza che nessuno così li definisse – ha tratto il principale carburante per il proprio sviluppo.

Piccoli sì, ma digitali e innovativi; questo anche il nostro futuro? Difficile rispondere al quesito, anche se

13 Anderson, C., Makers. Il ritorno dei produttori, Rizzoli, Milano, 2013; Micelli, S., Futuro artigiano, Marsilio, Vene-

zia, 2011.

14 Sennett, R., L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano, 2012.

15 Micelli, S., Futuro artigiano, cit.

16 Anderson, C., Makers, cit.

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nel mondo i paesi i più dinamici si stanno attrezzando per la realizzazione di nuovi makerspace per favorir-

ne la crescita e la diffusione, e anche nel nostro paese emergono esperienze pionieristiche. 17

Sospesa tra il grande passato dei distretti del made in Italy e della subfornitura di qualità e una futuribi-

le rivoluzione che promette, con l’ausilio delle tecnologie informatiche non più applicate al web ma alla

produzione di “cose”, di ridare spazio alla creatività e alle abilità artigianali dei produttori, la piccola im-

presa industriale vive un presente denso di incognite e parco di soddisfazioni. Sottraendo il dibattito e la

riflessione agli schieramenti che hanno opposto a lungo declinisti e difensori, sul territorio restano le im-

prese e i loro lavoratori, e continuano ad avere un ruolo di rilievo nel sistema produttivo italiano.

Secondo i più recenti dati dell’Archivio Statistico delle Imprese Attive (ASIA) dell’Istat, risalenti al

2010, sono presenti in Italia, nel settore manifatturiero, 442.000 imprese, pari al 10% circa del totale delle

aziende attive, che impiegano 4.310.000 addetti, il 26% circa degli occupati nel settore privato. Di questi,

oltre la metà (53,5%) lavora in aziende con meno di 50 addetti, il 23,6% in microimprese fino a dieci ad-

detti. Il 34,6% del valore aggiunto realizzato dal settore privato, nel 2010, è stato realizzato da attività

manifatturiere in senso stretto. Sotto il profilo dimensionale, il 39,8% del valore aggiunto è realizzato dal-

le imprese con più di 250 addetti, nelle medie imprese (50-249 addetti) il contributo alla creazione di va-

lore aggiunto è pari al 24,4%, mentre quello delle piccole imprese è del 35,8%. Il contributo dell’industria

in senso stretto al valore aggiunto nazionale, nel corso degli anni, è risultato in costante calo, raggiungen-

do il 18,6% nel 2011, minimo storico (era del 24,3% nel 1995). Nonostante la quota di export sia risultata

in costante aumento negli ultimi anni, l’incidenza delle esportazioni italiane negli scambi mondiali è risul-

tata in deciso calo, passando tra il 2003 e il 2010 dal 4% al 2,9%.

Senza entrare nel merito dei diversi possibili indicatori di performance, è evidente che l’industria ita-

liana è in sofferenza. Tra il 2007 e il 2011 l’industria in senso stretto ha perso 650.000 posti di lavoro e a

partire dal 2010 anche i dati sulla demografia aziendale evidenziano un calo: -3.137 il saldo tra iscrizioni e

cessazioni nel 2011, -6.515 nel 2012 (pari al -1,05% in termini relativi), 5.342 imprese in meno nel primo

trimestre del 2013. La larga maggioranza delle imprese, però, è rimasta sul mercato, pure a fronte di con-

dizioni più gravose, minori possibilità di effettuare investimenti, forte contrazione della domanda. È sulle

loro condizioni competitive e sulle loro strategie di riposizionamento che questa indagine intende focaliz-

zarsi.

17 È interessante, oltre che esemplificativo degli ambienti che alla cultura maker hanno fatto da incubatori, che uno

dei leader carismatici di questo “movimento” provenga dal torinese. È il caso del progettista e designer informatico

canavesano Massimo Banzi, inventore del microprocessore open source Arduino, presente oggi nella maggior parte del-

le stampanti 3D.

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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La piccola impresa a Torino

Date alla riflessione alcune coordinate cronologiche occorre ora provincializzare il discorso, calandolo

nella specifica situazione del Nord-Ovest e, più in specifico, della provincia di Torino.

Non si tratta solo di restringere l’obiettivo. Assumendo l’ipotesi per cui ciascuna versione del capitali-

smo è stata associata a specifiche modalità di organizzazione di economia e società nello spazio (e quindi a

specifici “territori”), parlare di piccole imprese industriali nel torinese implica uno scostamento significati-

vo dal percorso descritto nelle pagine precedenti. Le vie dello sviluppo industriale con cui sono stati stiliz-

zati i pattern di crescita delle regioni italiane hanno avuto spazi emblematici: le company town della produ-

zione di massa, la campagna urbanizzata della specializzazione flessibile. Con qualche semplificazione,

questi spazi coincidevano con l’ex triangolo industriale e il Nord-Est-Centro (la Terza Italia).

Il capitalismo industriale fondato sul ruolo trainante delle PMI non ha mai avuto nel torinese un baci-

no di incubazione. Per contro, erano qui abbondanti le risorse societarie ed economiche alla base del take

off industriale fordista del Novecento. Nonostante Torino abbia storicamente rappresentato, sotto il pro-

filo dell’organizzazione industriale, l’antitesi del modello a economia diffusa affermatosi in altre regioni

del Centro-Nord, le piccole imprese manifatturiere costituivano (e costituiscono) un tassello importante

del sistema produttivo. La presenza delle due maggiori imprese italiane del dopoguerra, Olivetti e Fiat,

aveva favorito la nascita di filiere produttive lunghe e di un ampio numero di subfornitori che – nonostan-

te la diversità dei presupposti economici rispetto al Nord-Est – nel declino del fordismo hanno impresso

al sistema un’evoluzione per taluni aspetti convergente con il resto del Centro-Nord.

A monte delle trasformazioni del paesaggio manifatturiero di Torino c’è naturalmente il lungo ciclo di

deindustrializzazione, proceduto attraverso l’alternanza di fasi “ordinate” e repentine accelerazioni, che ha

interessato il territorio a partire dai primi anni Novanta. Torino, che pure ha ancora un peso delle attività

industriali tra i più elevati in Italia, è stato negli anni Duemila il sistema urbano che ha conosciuto il più

intenso ricambio, per composizione del valore aggiunto e degli occupati, tra industria e servizi - il più for-

te incremento dei servizi e la più forte contrazione dell’industria. A fine 2011 solo il 10,3% delle imprese,

a livello provinciale, era ancora un’azienda manifatturiera. Anche per distribuzione degli occupati, la quota

di lavoro industriale è fortemente ridimensionata. È da rimarcare tuttavia che, nel confronto con gli altri

sistemi metropolitani, si parla di una percentuale ancora significativa, pari al 27% del settore privato (solo

Bologna, tra le grandi città, ha un’incidenza simile). Sul futuro manifatturiero pesano l’incertezza sugli

sviluppi della presenza Fiat sul territorio (la produzione di Mirafiori è ai minimi storici - nel 1993 a Tori-

no erano fabbricate 570.000 auto, meno di 70.000 nel 2011, poco più di 40.000 nel 2012), nonostante il

recente rilancio della produzione nell’ex stabilimento Bertone, gli effetti di un eventuale ulteriore ridimen-

sionamento della maggiore industria sul sistema della componentistica, il susseguirsi di crisi e sostanziali

fallimenti di imprese che hanno contribuito, negli ultimi anni, ad assottigliare ulteriormente il comparto.

Per ciò che concerne gli obiettivi della ricerca, non meno importante del radicale ridimensionamento

di uno dei più importanti apparati industriali europei, è la profonda riconfigurazione tecnologica e orga-

nizzativa del comparto. Rispetto anche solo a venti anni prima, il settore industriale appare oggi caratte-

rizzato da una minore rilevanza (in termini occupazionali e di volumi produttivi) delle grandi concentra-

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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zioni che facevano di Torino una delle capitali della produzione di massa. Lo snellimento delle grandi im-

prese e l’accentuato ricorso all’outsourcing negli anni novanta del secolo scorso aveva favorito una redistri-

buzione di attività e occupati a favore delle aziende di più piccole dimensioni. Come si può osservare dalla

tabella sottostante, tuttavia, il travaso di occupati dalle imprese di maggiori dimensioni alle classi dimen-

sionali inferiori è avvenuto quasi per intero nel corso degli anni Novanta. Nel decennio successivo il dato

più eclatante è consistito nella forte riduzione di occupati industriali in tutte le classi dimensionali, con

una distribuzione rimasta relativamente stabile. Nell’arco di venti anni l’occupazione industriale nelle mi-

croimprese, diminuita in valore assoluto, ha incrementato la sua incidenza sul totale, dall’11,3 al 15,3%.

Nella classe della piccola industria (10-50 addetti), l’incidenza degli occupati sul totale è cresciuta di cin-

que punti tra il 1991 e il 2001, per stabilizzarsi negli ultimi dieci anni. Il processo di frammentazione

sembra in altre parole essersi arrestato, ma è da porre in rilievo che venti anni addietro metà degli occupati

dell’industria torinese lavorava in imprese con oltre mille addetti, quota che oggi ridotta al 36% del totale,

mentre l’occupazione nelle piccole imprese, complessivamente, è cresciuta dal 26,4 al 34,6%.

Occupati industria in senso stretto per classe di addetti in provincia di Torino (1991,2001, 2010)

CLASSE DI ADDETTI 1991* 2001* 2010**

V.A. % V.A. % V.A. %

1 5.830 1,4 7.112 2,2 5.423 2,3

2-5 24.215 5,7 21.184 6,7 17.302 7,4

6--9 17.736 4,2 15.583 4,9 12.851 5,5

< 10 addetti 47.781 11,3 43.879 13,8 35.576 15,3

10-19 30.409 7,2 29.347 9,2 21.745 9,3

20--49 33.402 7,9 34.248 10,8 23.131 9,9

10-49 addetti 63.811 15,1 63.595 20,0 44.876 19,3

50-249 57.182 13,5 53.549 16,8 39.054 16,8

250--499 21.045 5,0 19.652 6,2 12.004 5,2

500--999 21.811 5,2 24.080 7,6 17.932 7,7

1000 e più 210.398 49,9 113.053 35,6 83.636 35,9

Totale 422.028 100,0 317.808 100,0 233.078 100,0

* Istat: Censimento Intermedio Industria e Servizi

** Istat: Archivio Statistico Imprese Attive

La disamina dell’occupazione industriale per classe di addetti rivela un relativamente contenuto peso

quantitativo delle medie imprese, che in altre aree del paese occupano il centro della scena produttiva. Il

loro ruolo è tuttavia cresciuto nel corso degli anni, anche sotto il profilo qualitativo. Occorre nondimeno

sottolinearne gli elementi distintivi. Sono più frequentemente, rispetto alla media nazionale e delle regioni

del Nord-Est e della Lombardia, imprese del settore meccanico (52% delle medie imprese piemontesi,

contro una media nazionale del 42%) e meno frequentemente specializzate nei beni per la persona e per la

casa (17% contro il 23%). Si discostano dunque dal profilo modale, che vede una maggiore presenza nelle

“produzioni tradizionali a tecnologia bassa e medio-bassa dove i punti di forza, oltre che tecnologici, sono fonda-

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mentalmente di natura commerciale (tecniche e reti di vendita, pubblicità, design) e immateriali (marchi e bre-

vetti)”.18 Più spesso, inoltre, operano come partner o fornitori specialistici di componenti, moduli e siste-

mi per altre imprese industriali. Lo spunto che in questa sede interessa in modo particolare, però, deriva

dai risultati di una ricerca qualitativa realizzata nel corso del 2011 su un gruppo di medie e medio-grandi

imprese dell’area torinese,19 che aveva raccolto indizi e argomenti a favore dell’ipotesi di un possibile sradi-

camento dalle filiere locali. L’ipotesi è che l’espansione internazionale di cui sono protagoniste non de-

termini solo un ampliamento del perimetro del mercato, ma produca nuove mappe informative converti-

bili anche in nuovi perimetri di produzione.

Al livello che qui interessa, gli anni antecedenti alla crisi hanno costituito anche una fase di intensi

mutamenti e di radicale selezione nelle legioni diffuse di piccole e microimprese industriali. Una parte di

esse è riuscita a inserirsi con efficacia nelle filiere dei settori tradizionalmente forti dell’economia del terri-

torio, riuscendo ad accedere a commesse internazionali; un’altra parte opera autonomamente sul mercato,

con propri marchi, nell’ambito di produzioni di nicchia o di serie limitate; altre sono rimaste confinate alla

periferia del sistema, sopravvivendo in condizioni di scarsa redditività. Riepilogando, sotto la pelle del

fordismo nel torinese è sempre esistita una realtà diffusa e dinamica di piccole imprese, vitale ma incapace

di imporre un proprio “regime di verità” nella ritirata della grande industria. Non è mai solo un problema

di numeri, ma del posto occupato nella formazione delle leadership territoriali e nella capacità di fare ege-

monia culturale e fornire le rappresentazioni della società.

La crisi

È del tutto superfluo dilungarsi, a introduzione dei risultati della ricerca, sull’analisi degli effetti della

crisi sul sistema industriale torinese, di cui tutte le ricerche realizzate in questi anni e le stesse cronache

economiche quotidiane certificano lo stato di profonda difficoltà. Nel prendere atto della situazione, sa-

rebbe tuttavia superficiale affermare che l’intero comparto industriale abbia vissuto un lustro di recessione

senza prestare attenzione ai segnali in controtendenza o alle differenti fasi della crisi stessa. Il drastico

crollo delle esportazioni del 2009 si rifletteva in una pesante contrazione del valore aggiunto industriale (-

17,5% rispetto al 2008, che a sua volta aveva già visto un atterraggio duro), dopo un periodo che – pure

nell’alternarsi di congiunture di segno opposto – si era nel complesso caratterizzato, secondo i punti di vi-

sta, come stagnazione o moderato declino.

I due anni successivi si erano tuttavia caratterizzati per un parziale rilancio, seppure incapace di ripri-

stinare i livelli produttivi anteriori alla crisi. Per contro, il 2012 è stato segnato da una nuova fase recessiva,

che tutti i dati disponibili sul primo trimestre e le previsioni relative all’anno, confermano anche per il

2013.

18 Unioncamere/Mediobanca, Le medie imprese industriali, Rapporto 2010.

19 Torino Incontra/Torino Nord Ovest, Fra territorio e globalizzazione. Imprese e filiere di imprese a Torino, rapporto di

ricerca 2011.

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L’andamento dell’economia in Piemonte. Tassi di variazione medi annui, su valori anno riferimento 2000

2001-2007 2008 2009 2010 2011 2012

Pil 0,8 -2,0 -7,7 2,0 0,5 -2,0

Consumi famiglie 0,9 -2,2 -1,4 1,6 0,3 -3,3

Investimenti fissi lordi 0,3 -4,8 -18,1 2,0 -1,1 -7,0

Consumi collettivi 2,2 2,4 1,7 -0,8 -0,8 -1,5

Domanda interna 1,0 -2,0 -4,3 1,2 -0,2 -3,6

Valore Aggiunto

Industria -1,0 -5,6 -17,5 7,5 2,0 -5,6

Totale 0,8 -2,1 -7,9 2,4 0,8 -1,9

Esportazioni 0,5 -1,1 -19,7 13,0 7,4 2,0

Fonte: I-Trend, gennaio 2013)

Diversi sono tuttavia i caratteri della nuova fase recessiva, che avviene nella cornice di una tenuta delle

esportazioni a fronte di un vistoso arretramento di tutte le altre componenti del prodotto interno regionale

(consumi delle famiglie, investimenti fissi, domanda interna nel complesso). Le stesse indagini congiuntu-

rali più recenti segnalano che le imprese legate alla domanda interna subiscono gli effetti del netto calo del

reddito disponibile del consumatore, mentre le imprese legate alla domanda estera riescono a mantenere

migliori performance, soprattutto se la domanda proviene dai paesi di nuova industrializzazione. In altre

parole, “le imprese legate alla domanda interna continuano ad essere in crisi, mentre quelle legate

all’export riescono (sebbene non tutte) a recuperare i livelli di produzione e occupazione pre-crisi” 20. Que-

sta polarizzazione si riflette anche in una asimmetria in base alla struttura dimensionale degli operatori,

poiché le piccole imprese sono di norma meno orientate all’export (sebbene operino spesso come fornitrici

di realtà industriali fortemente internazionalizzate) e hanno nel mercato domestico un riferimento impre-

scindibile. Nonostante tutto, in termini di variazione rispetto al periodo precedente, le performance più

negative hanno riguardato soprattutto le imprese della fascia dimensionale intermedia. 21

Gli effetti occupazionali della crisi nel settore industriale sono stati finora significativi ma non deva-

stanti, attutiti soprattutto dal considerevole ricorso agli ammortizzatori sociali che fanno di Torino, assu-

mendo come indicatore il rapporto tra ore autorizzate e numero degli addetti, la provincia italiana con il

più intensivo ricorso alla CIG. Rispetto al 2008, gli occupati dell’industria nella media del 2012 sono di-

minuiti di circa 19.000 unità (-7,6%). Il calo più consistente era stato registrato nel 2009 (-23.600 unità);

le rilevazioni Istat avevano evidenziato una inversione di tendenza nel 2010, confermata nel corso del

2011, mentre hanno rilevato una significativa nuova contrazione nel 2012, di quasi 11.000 unità.

20 Regione Piemonte, Direzione Attività Produttive, I-trend, monitoraggio sull’andamento delle imprese piemontesi,

Marzo 2013.

21 CCIAA di Torino, Torino Congiuntura, n. 49, settembre 2012.

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Occupati nell’industria e occupati totali in provincia di Torino (serie 2008-2012)

MEDIA

2008 2009 2010 2011 2012

Occupati totali 972.400 943.200 929.300 950.800 947.100

Occupati dell’industria 249.700 226.100 239.000 241.400 230.700

Fonte: Istat, Forze di Lavoro, medie annuali

In una prospettiva di lungo periodo, tuttavia, la contrazione è un processo in corso da decenni, non

certo una novità. Il dato preoccupante, semmai, è la natura ingannevole del dato, poiché il numero degli

addetti rilevato è al lordo della cassa integrazione, in un quadro incerto sulle possibilità di un rifinanzia-

mento su larga scala degli ammortizzatori sociali. Complessivamente, nel quinquennio 2008-2012 al set-

tore industriale sono state autorizzate dall’Inps quasi 353 milioni di ore di CIG, l’85% circa del totale pro-

vinciale.

Ore di CIG autorizzate dall'Inps in provincia di Torino (serie 2008-2012)

CASSA INTEGRAZIONE 2008 2009 2010 2011 2012

Ordinaria 10.189.958 71.185.914 33.117.148 13.580.318 29.683.566

Straordinaria 8.370.987 19.272.399 63.290.590 57.139.416 39.716.518

Deroga 1.764.501 6.445.155 24.732.134 21.508.165 15.777.253

Totale 20.325.446 96.903.468 121.139.872 92.227.899 85.177.337

Metalmeccanico 15.025.518 72.459.996 84.131.404 59.153.674 50.688.300

Totale industria 18.713.942 88.568.181 101.301.232 76.839.750 67.171.701

Incidenza Industria 92,1 91,4 83,6 83,3 78,9

Anche in merito a questo indicatore sono da mettere in conto le asimmetrie distributive. Nonostante

l’estensione dell’istituto della CIG in deroga, a partire dal 2009, a tutte le imprese di qualsiasi dimensione

e settore abbia ampliato significativamente la platea dei beneficiari di ammortizzatori sociali, non c’è dub-

bio che siano state soprattutto le imprese grandi e medie ad avere assorbito la parte più rilevante delle ore

autorizzate. È del tutto conseguente, pertanto, che le riduzioni occupazionali più consistenti, in termini

percentuali, si stiano registrando oggi tra le microimprese e tra le imprese della fascia 10-49 addetti (Pie-

monte Congiuntura, CCIAA di Torino). È da considerare però che i dati sull’occupazione ricavati in base

alle rilevazioni sulle forze di lavoro, nonché da altre indagini campionarie, corrispondono a stime. La più

attendibile fonte rappresentata dall’Archivio Statistico delle Imprese Attive dell’Istat (ASIA), disponibile

limitatamente al 2010, evidenzia nel periodo 2008-2010 un calo occupazionale nell’industria in senso

stretto più consistente di quello registrato nel medesimo periodo dalla rilevazione sulle forze di lavoro, pa-

ri a circa 36.000 unità (13,4%) anziché 23.600. Il calo, in secondo luogo, aveva riguardato tutte le classi

dimensionali, per quanto nel complesso in termini percentuali le fasce più colpite siano state la piccola

impresa tra 10 e 49 addetti (-20,3%) e la medio-grande (250-499 addetti, con un calo del 20,4%).

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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Occupati in senso stretto per classe di addetti nelle imprese industriali della provincia di Torino (2008 e 2010)

2010 2008 VAR. 08-10 (V.A.) VAR. 08-10 (%)

1 5.423 6.177 -754 -12,2

2-5 17.302 20.790 -3.488 -16,8

6--9 12.851 14.989 -2.138 -14,3

< 10 addetti 35.576 41.957 -6.381 -15,2

10-19 21.745 27.516 -5.771 -21,0

20--49 23.131 28.804 -5.673 -19,7

10-49 addetti 44.876 56.319 -11.444 -20,3

50-249 39.054 43.505 -4.451 -10,2

250--499 12.004 15.084 -3.080 -20,4

500--999 17.932 20.600 -2.668 -13,0

1000 e più 83.636 91.638 -8.002 -8,7

Totale 233.078 269.103 -36.026 -13,4

Fonte: elaborazione su dati Istat - Asia

Impostazione della ricerca e struttura del rapporto

Nelle coordinate definite dalle tendenze di lungo periodo descritte e dalla situazione in cui versa il set-

tore industriale da un lustro, è stata implementata una ricognizione esplorativa volta ad approfondire im-

patto della crisi e modalità di reazione delle piccole imprese manifatturiere della provincia di Torino. Non

si tratta della prima indagine con queste finalità, poiché nel corso degli ultimi anni, a livello regionale, so-

no state compiute altre ricognizioni orientate, di volta in volta, ad approfondire i cambiamenti indotti dal-

la crisi nel settore industriale, piuttosto che ad analizzare aspetti specifici o filiere produttive particolari;22

le periodiche rilevazioni congiunturali realizzate da diverse associazioni di rappresentanza delle imprese23,

dalla Camera di Commercio, Industria, Agricoltura e Artigianato di Torino 24 nonché quelle istituzionali

prodotte dalla Direzione Attività Produttive sull’Industria e sull’Artigianato,25 hanno assicurato un co-

stante monitoraggio delle performance e dell’andamento delle imprese.

22 Di particolare rilievo l’attività svolta dall’Istituto di Ricerche Economiche e Sociali del Piemonte; tra gli altri si ve-

dano i rapporti Le piccole e medie imprese al tempo della crisi - Politiche per le PMI, impatto della crisi e ruolo della forma-

zione continua (Settembre 2011), la ricerca realizzata con il Sistema Informativo delle Attività produttive della regione

Piemonte, Nuovi scenari e strategie dell’industria piemontese (Agosto 2012), e quella relativa all’Impatto della crisi sul si-

stema produttivo regionale (Settembre 2011).

23 Rientrano in questo campo l’Indagine trimestrale di Confindustria Piemonte e quelle semestrali realizzate da CNA

Torino, Confartigianato Piemonte e Confapi Torino.

24 Riferimento necessario, per i temi qui affrontati, la pubblicazione periodica Torino Congiuntura, oltre naturalmen-

te alle differenti istituzionali attività di Osservatorio, in particolare sulla Filiera Autoveicolare, sulla natimortalità delle

imprese e sull’Economia reale, condotto in partnership con il Comitato Torino Finanza.

25 Si segnalano la pubblicazione periodica I-Trend e i rapporti congiunturali e annuali sull’Industria e sull’Artigianato.

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L’indagine realizzata da Torino Nord Ovest, da una parte, si pone in continuità con le attività di ricer-

ca condotte negli ultimi anni sul sistema produttivo torinese, che hanno già prodotto nel 2011 una rileva-

zione qualitativa sulla realtà delle medie e medio-grandi imprese e nel 2012 un approfondimento sul tema

della business attractiveness dell’area metropolitana torinese; dall’altra si propone come contributo esplo-

rativo complementare all’attività istituzionale di ricerca e monitoraggio condotta dagli enti di cui sopra.

Obiettivo esplicito di questa ricognizione non è stato tanto verificare gli effetti della crisi tra le piccole

imprese industriali della provincia, che avrebbe prodotto esiti ridondanti rispetto alle attività di monito-

raggio e ricerca precedentemente citate – e ad altre che per brevità non si richiamano, quanto puntare

l’obiettivo sui mutamenti e sulle pratiche poste in essere dagli imprenditori per reagire alla situazione. La

ricerca, più in particolare, ha inteso analizzare le strategie di adattamento e di reazione degli imprenditori,

al fine di individuare buone pratiche e percorsi d’innovazione, eventualmente da sostenere attraverso

l’implementazione di specifici interventi.

Crisi non significa infatti solo perdita di competitività, erosione della base di ricchezza prodotta, di-

struzione di capitali e di posti di lavoro, impoverimento; significa anche cambiamento, “passaggio di fase”,

schiusura di scenari. Come hanno reagito le piccole imprese industriali alla crisi? Quali strategie hanno

messo in campo al fine di superare le fasi più negative e riposizionarsi sul mercato? In quali termini si è

modificata la loro formula imprenditoriale in questi tre anni di crisi? Esistono tentativi di rilancio che me-

ritano di essere sostenuti, anche attraverso interventi di policy focalizzati? Nella crisi, accanto agli inevita-

bili fenomeni di selezione, sono emersi orientamenti innovativi? Sono queste alcune delle domande alla

base dell’indagine realizzata da Torino Nord Ovest, nell’ambito della più generale ricognizione sulle tra-

sformazioni degli assetti produttivi del territorio che l’istituto sta conducendo, attraverso la ricerca empiri-

ca, l’osservazione diretta e il coinvolgimento degli attori economici.

Al fine di fornire risposta ai quesiti esposti o acquisire spunti analitici in grado di consentire la formu-

lazione di alcune ipotesi per il futuro prossimo, è stata dunque realizzata una indagine empirica, condotta

attraverso la somministrazione telefonica di un questionario approfondito, ai titolari di circa trecento im-

prese estratte con criteri casuali, sulla base di un piano campionario prestabilito, all’interno della popola-

zione di imprese manifatturiere della provincia di Torino.26 In specifico, la popolazione di riferimento è

costituita da tutte le imprese del ramo manifatturiero della provincia di Torino, di dimensioni comprese

tra un minimo di cinque e un massimo di quarantanove addetti (dipendenti e indipendenti). Tale opzione

deriva dalla scelta di focalizzare l’attenzione su un profilo di piccola impresa o di microimpresa che pre-

senti una relativa strutturazione e una benché minima “divisione del lavoro” tra funzioni imprenditoriali,

gestionali ed esecutive. L’esperienza maturata attraverso l’osservazione nel tempo delle performance delle

piccole imprese iscritte all’Albo dell’Artigianato, suggerisce infatti di operare, a livello analitico, una di-

stinzione abbastanza netta tra la realtà della piccola impresa e quella del lavoro autonomo o delle realtà

particolarmente destrutturate che rappresentano tuttavia, sotto il profilo numerico, la maggioranza delle

26 Si ringrazia la dott.ssa Barbara Barazza, responsabile del Centro Studi della CCIAA di Torino, per la solerte ed

efficiente disponibilità nella messa a disposizione delle informazioni presenti nei registri camerali.

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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“partite iva” presenti nei registri camerali. 27 Non considerare le differenze sostanziali tra profili così diffe-

renti (per formula imprenditoriale, modelli di business, modalità organizzative, rapporto con il mercato) è

fonte, secondo l’opinione dei conduttori di questa indagine, di numerosi fraintendimenti e di effetti di-

scorsivi. La soglia dei cinque addetti, del tutto convenzionale, trae origine dalle analisi realizzate in questi

anni sulla realtà delle imprese artigiane dagli osservatori settoriali e consente di limitare, entro certi limiti,

l’impatto sulle variabili osservate derivanti dalla natura “pulviscolare” delle imprese di dimensioni inferiori.

Al netto delle imprese di dimensioni inferiori ai cinque addetti o superiori ai cinquanta, l’universo esami-

nato, in provincia di Torino, si compone (estrazione compiuta su archivio imprese attive della CCIAA di

Torino a fine giugno 2012) di 4.545 unità, corrispondenti ad altrettante imprese, con le seguenti caratteri-

stiche dimensionali e settoriali, tenuto conto delle aggregazioni compiute ai fini del campionamento.

Dimensioni

Fino a 15 addetti 3.285 (72,3%)

Da 16 a 49 addetti 1.260 (27,7%)

Settore

Meccanica, Mezzi di trasporto 1.848 (40,7%)

Macchine e impianti 1.034 (22,7%)

Alimentari e bevande 326 (7,2%)

Chimica, gomma e plastica 360 (7,9%)

Tessile abbigliamento, Mobili arredi, Orafo,

Lavorazione marmi, pietre e granito (Made in Italy)

381 (8,4%)

Altre manifatture varie 586 (12,9%)

Da questa popolazione è stato estratto un campione stratificato non proporzionale, avente come varia-

bili di classificazione il settore merceologico e la classe dimensionale le quali, in virtù dei risultati emersi

da altre indagini, risultano – tra quelle disponibili – maggiormente esplicative delle performance azienda-

li. La scelta di operare con criteri non proporzionali si motiva con l’esigenza di sovrastimare, rispetto alla

distribuzione reale, il gruppo delle imprese di maggiori dimensioni, nonché alcuni ambiti merceologici

(alimentari, settori del Made in Italy) che in base ad una scelta proporzionale sarebbero stati poco rappre-

sentati. Alcune difficoltà incontrate in sede di rilevazione nel contatto con gli imprenditori, tuttavia, han-

no consentito di rispettare solo in parte la distribuzione settoriale prestabilita. Si rinvia dunque al primo

capitolo del rapporto per la descrizione del campione effettivo. In virtù del carattere esplorativo e sottratto

ad obiettivi statistici della ricognizione, si è ritenuto, in sede di elaborazione, di non procedere alla ponde-

razione dei dati raccolti, anche in considerazione che la presentazione dei medesimi prevede quasi sempre

la distribuzione per classe dimensionale – variabile che effettivamente differenzia significativamente le

modalità di risposta fornite ai differenti item.

27 Si rinvia, per approfondire il tema alle numerose pubblicazioni del Sistema Informativo delle Attività Produttive

della Regione Piemonte, in particolare alle analisi compiute sul settore dell’artigianato.

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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Per la presa visione dei temi si rinvia al questionario in allegato al rapporto. In sede introduttiva, sarà

sufficiente richiamare le aree di approfondimento considerate dalla rilevazione, corrispondenti anche ai

capitoli con cui è stata strutturata la presentazione dei risultati.

• Profilo delle imprese e degli imprenditori. Caratteristiche settoriali, dimensionali, localizzative, relati-

ve agli assetti proprietari, delle imprese. Età, sesso e titolo di studio degli imprenditori.

• Struttura e cambiamenti del mercato delle imprese. Caratteristiche e trasformazioni relative alla collo-

cazione nella filiera produttiva, al tipo di clientela (business o consumer), al raggio commerciale e alla

distribuzione territoriale delle vendite, alle caratteristiche dei clienti di riferimento, alla qualità dei

rapporti con i maggiori clienti/committenti.

• Composizione della forza lavoro. Composizione degli occupati per gruppo professionale e tendenze

in relazione alle nuove assunzioni.

• I percorsi d’innovazione. Presenza nel periodo convenzionalmente indicato come crisi (dal 2008 ai

giorni nostri) di cambiamenti e innovazioni riguardanti il prodotto, ovvero i processi produttivi e/o

l’organizzazione della produzione; presenza di investimenti in aree di attività knowledge intensive

come la ricerca e sviluppo, il design e la progettazione, le attività di engineering, la comunicazione

pubblicitaria e il marketing; presenza di cambiamenti e innovazioni nell’area approvvigionamenti o

inerenti alle strategie di commercializzazione adottate; investimenti ritenuti prioritari per il futuro.

• Crisi e performance. L’ultima sezione del questionario (e del rapporto) è stata dedicata alla disamina

delle performance economiche e alla individuazione di alcune possibili “spiegazioni” delle stesse.

Le performance sono state quindi poste in relazione sia con le caratteristiche strutturali delle impre-

se, ma anche con le altre variabili osservate attinenti al mercato, alla forza lavoro impiegata, alla

presenza di pratiche innovative.

Non sfuggirà, infine, che in questo rapporto non si parlerà – per scelta esplicita – di molti temi “caldi”

attinenti alla politica industriale e alle scelte degli esecutivi in materia fiscale e contributiva. Agli impren-

ditori non si sono poste all’attenzione variabili che attengono alle policy, al problema dei crediti verso

l’amministrazione, al fisco, ai problemi di accesso ai capitali, e a tanti altri punti del robusto cahier de do-

léance che ha visto negli ultimi tempi un moltiplicarsi dei claims da parte di singoli imprenditori e delle

organizzazioni di rappresentanza delle imprese, anche con manifestazioni pubbliche e accorati richiami

alla politica. Non si è inteso con ciò porsi certamente al di fuori del quadro politico e regolativo, quanto di

sganciare la riflessione dagli aspetti più legati all’attualità, cui non mancano peraltro impliciti richiami, per

focalizzare l’attenzione sui fattori competitivi controllabili dalle imprese, sulle scelte compiute e sulle rela-

zioni tra queste ed esiti economici. I mercati, tuttavia, non sono mai astratte arene regolate esclusivamente

da variabili economiche, dai prezzi, dalle capacità imprenditoriali, dal “merito”. Mai come oggi, scelte re-

golative, politiche, azione delle banche centrali e degli istituiti di credito sono variabili decisive del gioco.

Se si è scelto di mantenerle sullo sfondo, non è per sottostimarne l’importanza, ma per la precisa volontà

di adottare uno sguardo “decentrato” e attento alla dimensione micro. Nella consapevolezza che difficil-

mente, senza interventi appropriati a livello macro, sarà possibile disegnare un futuro industriale con tinte

meno fosche di quelle autorizzate dalla fase.

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1. Il profilo delle imprese e degli imprenditori

La base empirica del rapporto è costituita da 281 questionari compilati in modo valido, esito di altrettante

interviste telefoniche a titolari di piccole imprese industriali e imprese artigiane del ramo manifatturiero

della provincia di Torino, di dimensioni comprese tra i cinque e i cinquanta addetti, selezionate in base ai

criteri di stratificazione, settoriali e dimensionali, individuati in sede d’impostazione metodologica. Di se-

guito sono illustrate alcune caratteristiche strutturali delle imprese incluse nel campione e degli imprendi-

tori intervistati.

1.1 Settore economico delle imprese

Per effetto dei criteri di estrazione adottati e delle disponibilità riscontrate nel corso della rilevazione

dai titolari delle medesime, il campione finale è costituito per il 45,2% da imprese metalmeccaniche (lavora-

zioni metalliche, prodotti in metallo, componenti di mezzi di trasporto), imprese del ramo chimico e della

gomma plastica per il 13,5%, per il 12,5% da imprese operanti in settori variamente ascrivibili al campo

che per comodità espositiva sarà definito made in Italy (tessile, abbigliamento, mobili, arredi, gioielli,

ecc.), per il 7,1% nel ramo alimentari e bevande, il restante 18,9% ad altre industrie manifatturiere (lavo-

razione del legno, carta, stampa, lavorazione minerali non metalliferi, oggetti vari, ecc.).

Distribuzione imprese per settore di attività

Al fine di agevolare le analisi successive, le imprese sono state successivamente raggruppate in tre am-

biti settoriali:

Metalmeccanica (metalmeccanica e macchine) 48,0 %

Manifatture Leggere (alimentari e Made in Italy) 19,6 %

Altre industrie (chimica, gomma plastica e manifatture varie) 32,4 %

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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Le imprese sono distribuite sul territorio in modo relativamente equilibrato tra la città di Torino

(27%), l’area metropolitana28 (36%) e il resto della provincia (37%). La localizzazione, in base alle elabora-

zioni compiute, è risultata nel complesso non significativa ai fini delle analisi. Pertanto nel seguito del

rapporto non si troveranno riferimenti a questa variabile.

1.2 Forma giuridica

Il 35% è costituito da società di persone (12% Sas e 23,3% Snc) e il 65% circa da società di capitali

(9,8% Spa e 54,9% Srl). Non sono presenti viceversa ditte individuali. È utile segnalare il dato poiché de-

linea ulteriormente il campo di indagine; se il campione fosse stato rappresentativo del mondo

dell’artigianato, infatti, si sarebbe dovuto considerare che l’80% circa delle imprese iscritte al relativo Albo

è composto da ditte individuali. La ricognizione ha intercettato dunque una composizione imprenditoriale

decisamente più strutturata, divisa tra élite artigiana e piccola industria.

Al fine di verificare il grado di diffusione del modello organizzativo “a gruppo” nel mondo della picco-

la industria, si è inoltre indagata la consistenza numerica delle realtà facenti parte di gruppi d’impresa (in

qualità di controllate o controllanti); solo il 7,5$ delle aziende esaminate è partecipata o controllata da al-

tre imprese – italiane o estere – e solo l’1% è capogruppo. Una quota troppo contenuta per essere oggetto

di analisi dedicate. Anche questa variabile, dunque, non è stata considerata ai fini delle elaborazioni suc-

cessive.

1.3 Anzianità aziendale

Secondo i dati Istat al 2010 in Piemonte 29 il 33% circa delle imprese del settore industriale aveva me-

no di dieci anni, il 60% meno di venti. Il numero delle nuove iscrizioni è da alcuni anni in calo: già nel

2011 evidenziano il valore più basso dell’ultimo decennio (-4,9% rispetto al 2010). Il tasso di crescita, se

calcolato al lordo delle cessazioni di ufficio, aveva già assunto nel 2011 un valore negativo (-0,22%). Il da-

to è stato confermato nel 2012, quando – per la prima volta - il numero di imprese che hanno cessato la

loro attività nell’anno (16.091) è risultato superiore a quelle che invece l’hanno avviata (15.728): proprio

gli avvii hanno registrato il valore più basso dal 2003.30 È proprio il ramo manifatturiero a evidenziare una

evidente staticità sul piano demografico. Solo il 10% delle imprese registrate nel 2012 opera nel settore,

mentre il saldo iscrizioni-cessazioni (al netto di quelle d’ufficio) è stato di 500 imprese, con un calo dello

28 Tra le varie definizioni, si è adottata quella stabilita dalla Conferenza Metropolitana, che include 38 Comuni: Alpi-

gnano, Baldissero Torinese, Beinasco, Borgaro Torinese, Brandizzo, Bruino, Cambiano, Candiolo, Caselle Torinese,

Castiglione Torinese, Chieri, Collegno, Druento, Gassino Torinese, Grugliasco, La Loggia, Leinì, Moncalieri, Ni-

chelino, Orbassano, Pecetto Torinese, Pianezza, Pino Torinese, Piossasco, Rivalta di Torino, Rivoli, Rosta, San Gil-

lio, San Mauro Torinese, San Raffaele Cimena, Settimo Torinese, Trofarello, Venaria Reale, Villarbasse, Vinovo,

Volpiano, Volvera.

29 Archivio Statistico delle Imprese Attive 2010, Istat, 2012.

30 CCIAA di Torino, Natimortalità delle imprese in provincia di Torino nel 2012.

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stock complessivo pari al 2,4% rispetto al 2011, il più consistente tra i vari settori. Quando i “saldi natura-

li” sono negativi o vicini allo zero la popolazione invecchia!

Le imprese del campione, dal punto di vista dell’anzianità, si situano coerentemente a questo quadro.

Il 27% ha più di quarant’anni, il 50% da venti a quaranta, solo il 23%ne ha meno di venti. Si tratta, dun-

que, di imprese relativamente longeve che hanno già attraversato, superandole, diverse crisi industriali.

Distribuzione imprese per anzianità aziendale

1.4 Dimensioni

Nel campione, sulla base dei criteri di campionamento adottati, sono presenti in maniera equamente

distribuita aziende che impiegano da 5 a 15 addetti (49,4%) e tra i 16 e i 50 addetti (50,6%). In molte del-

le analisi successive si è fatto tuttavia ricorso ad una classificazione a tre: il 26% è costituito da microim-

prese (meno di 10 addetti), mentre il resto si divide in parti eguali (37% ciascuna) tra imprese della classe

intermedia (10-19 addetti) e aziende più strutturate (20 addetti e oltre).

1.5 Il profilo dei titolari

Distribuzione per età

Anche il tessuto imprenditoriale italiano “invecchia”. Come rileva l’Osservatorio Unioncamere

sull’imprenditorialità giovanile, da anni l’incidenza delle imprese giovanili 31 è in costante calo e anche nel

2011, rispetto al 2010, è calata dall’11,8% del totale all’11,4%. La riduzione si spiega sia con il superamen-

to della soglia dei 35 anni da parte di un cospicuo numero di imprenditori, sia, parallelamente, con un ral-

lentamento delle iscrizioni di imprese giovanili, che è stato accentuato soprattutto nella seconda metà

dell’anno. Il 2011, comunque, si chiude con 135mila giovani che, pure in uno scenario economico non

favorevole, hanno deciso di avviare una nuova iniziativa imprenditoriale. Le imprese giovanili in provincia

31 Si intendono giovanili le ditte individuali il cui titolare abbia meno di 35 anni ovvero le società di persone in cui

oltre il 50% dei soci abbia meno di 35 anni oppure le società di capitali in cui la media dell’età dei soci e degli ammi-

nistratori sia inferiore allo stesso limite d’età.

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di Torino a fine 2011 ammontavano a 27.290,32 pari all’11,5% del totale. Il 90,8% di queste contava al suo

interno solo under 35 (“presenza giovanile esclusiva”).

Nel campione in esame l'età media del titolare è 57 anni, quella mediana 52 anni. Solo il 23,6% ha

meno di 45 anni (il 9% meno di 35 anni), mentre il 34,3% ne ha più di sessanta. Dati che confermano la

progressiva senilizzazione del ceto imprenditoriale nel settore manifatturiero, composto perlopiù da titola-

ri d’impresa maturi alla guida d’imprese altrettanto mature, che hanno fondato nella larga maggioranza

dei casi da oltre venti anni, o che hanno ereditato dai genitori.

Distribuzione imprese per età del titolare

Sesso del titolare

A fine 2011 in provincia di Torino erano registrate 56.344 imprese femminili (+0,8% rispetto al 2010)

che rappresentano poco più della metà (50,2%) delle imprese in rosa della regione e il 3,9% del totale na-

zionale. L’89% delle imprese femminili torinesi è caratterizzato da una presenza esclusiva di imprenditrici

(sono il 90% a livello piemontese e l’87% nazionale), mentre le imprese con una forte presenza femminile

sono l’8%.

Il campione rispecchia la composizione provinciale: il 24% dei titolari intervistati è infatti di sesso

femminile, una quota significativa se riferita al settore manifatturiero, storicamente connotato per una

quasi esclusiva (se si eccettuano pochi settori) presenza di imprenditori maschi e regolato, nelle fasi di tra-

smissione dell’impresa alle generazioni entranti, da una tacita legge “salica”, da tempo tuttavia in chiara

fase di superamento. Anche in un settore maschile come la metalmeccanica, la quota di imprese guidate da

donne ha raggiunto il 18%, mentre nel ramo alimentari è del 25%, nelle manifatture varie del 28% e nella

chimica, gomma e plastica, addirittura del 38% (su una base numerica tuttavia poco consistente).

32 Dati CCIAA Torino, 2012.

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Titolo di studio

Gli ultimi dati nazionali 33 sul grado di istruzione della nuova imprenditoria indicano che il titolo di

studio più diffuso è il diploma di scuole superiori (48,9%).34 Questa soglia è però ampiamente superata

nelle regioni meridionali (53,6%), mentre nel Nord-Est l’istruzione professionale e la formazione media

inferiore paiono indirizzi particolarmente diffusi (40,5%) tra i neo-imprenditori.

Complessivamente, nel 26,7% dei casi il nuovo imprenditore ha solo assolto l’obbligo scolastico, il

12,6% ha una formazione professionale e l’11,9% ha la laurea.

Nel campione il titolo di studio più diffuso è il diploma di scuola secondaria superiore, seguito dalla

laurea e dal diploma professionale. Il 63% dei titolari d’impresa, dunque, possiede un titolo d’istruzione

almeno intermedio, il 23% una laurea. Dati che evidenziano un livello d’istruzione nettamente superiore

alla media dell’imprenditoria italiana – e certamente di quella dell’artigianato piemontese e torinese. Il da-

to non è ininfluente ai fini delle elaborazioni successive poiché, come si vedrà, la scolarità del titolare inci-

de significativamente su molte delle variabili osservate.

Titolo di studio degli imprenditori

Scuola dell’obbligo 17,7 %

Diploma professionale 19,6 %

Diploma scuola media superiore 39,5 %

Laurea (anche triennali) e titoli post-laurea 23,2 %

33 Dati rapporto Unioncamere 2012.

34 Dati rapporto Unioncamere 2012.

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2. Struttura e mutamento del mercato

Nel capitolo che segue al centro dell’osservazione si è posta la struttura del mercato delle imprese. Nello

specifico, sono stati oggetto di analisi: il tipo di bene prodotto con relativi assetti di commercializzazione e

composizione del mercato per caratteristiche della clientela (business o consumer); il raggio commerciale; i

mutamenti intervenuti negli ultimi anni nella distribuzione territoriale delle vendite; per le sole imprese di

subfornitura, il mutamento nella composizione dei clienti di riferimento e la qualità delle relazioni con i

clienti/committenti.

2.1 Il profilo del mercato

La maggioranza delle imprese presenti nel campione si rivolgono soprattutto al mercato business, ven-

dendo i loro prodotti finiti o semilavorati ad altre imprese. Esse sono il 73,7%, mentre le imprese che si

rivolgono al mercato finale, quello delle famiglie, sono il 26,3%.

A seconda del settore di appartenenza la distribuzione tra i due tipi di mercato si differenzia sensibil-

mente: tradizionalmente il ramo metalmeccanico, cui afferisce anche la maggioranza delle imprese di com-

ponentistica della filiera automotive, in provincia di Torino è orientato al mercato del sub-fornitura

(82,8%); si rivolgono prevalentemente ad un mercato di sub-fornitura anche le imprese dei settori chimi-

co-farmaceutico (78,9%) e quelle del settore alimentare (70%); la quota di mercato rivolta alle famiglie

risulta invece prevalente, anche se di poco, nei settori delle altre manifatture (62,7%) e nelle imprese del

“Made in Italy” (51,4%).

Tipo di mercato per settore di attività dell'impresa

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Dalla tabella sottostante si osserva che il mercato di subfornitura è spesso anche un “mercato di filiera”,

che coinvolge imprese dello stesso settore. Come facile dedurre per la natura dei loro prodotti si osserva

che le imprese alimentari vendono quasi esclusivamente (94%) ad altre imprese alimentari, inoltre si evi-

denzia una sostanziale continuità della tradizionale appartenenza delle imprese metalmeccaniche all'inter-

no di una filiera legata alla componentistica auto. La metà (43%) della imprese sub-fornitrici dichiara di

vendere ad altre imprese collocate nel settore automotive, il 23,9% vende a imprese del settore metalmec-

canico/macchinari. Per i restanti rami, il chimico e gomma-plastica, il Made in Italy (peraltro caratterizza-

to da un superiore orientamento al mercato consumer) e le altre manifatture, la produzione per la filiera non

è così evidente: i clienti sono distribuiti più uniformemente in diversi settori e la produzione si rivolge ad

un mercato più diversificato.

Settore delle imprese sub-forntitrici e dei loro maggiori clienti (%)

Settore imprese subfornitrici

Settore di appartenenza

dei clienti dell’impresa

sub-fornitrice

METALMECCANICA ALIMENTARI CHIMICA

GOMMA

PLASTICA

MADE

IN ITALY

ALTRE

MANIFATTURE

Automotive/Ferroviario/Navale 43,0% - 33,3% 34,8% 12,5%

Edilizia 4,9% - 11,1% 8,7% 7,5%

Alimentari e bevande 1,4% 94,1% 2,8% - 2,5%

Tessile 0,7% - 2,8% 26,1% 7,5%

Chimica/Petrolchimica 9,2% - 13,9% ,0% 2,5%

Elettronica 4,9% - 5,6% 8,7% 5,0%

Metalmeccanica/Macchine 23,9% - 13,9% - 22,5%

Grafica/Pubblicità 2,8% - 8,3% - 15,0%

Medicale 2,8% - 5,6% - 7,5%

Energia 1,4% - - 8,7% 2,5%

Arredo 1,4% - - - 5,0%

Altro 3,5% 5,9% 2,8% 13,0% 10,0%

Oltre al settore di appartenenza, procedendo con l'analisi, i dati raccolti evidenziano l’assenza di diffe-

renze significative, nella composizione del mercato in base alla natura del cliente, tra micro e piccole im-

prese. Infatti in tutte le classi dimensionali analizzate la quota di imprese di sub-fornitura si aggira intorno

a percentuali simili, 70-75%, quella rivolta al mercato delle famiglia intorno al 25-30%. I risultati confer-

mano che, come facilmente intuibile, la determinazione del mercato di destinazione dei prodotti non di-

pende tanto dalle dimensioni ma piuttosto da altri elementi legati alle strategie di produzione e di com-

mercializzazione, oltre che alle specificità del “mondo di produzione” dell’ambito merceologico di riferi-

mento (suo grado d’integrazione, complessità tecnologica, primato delle logiche di mercato piuttosto che

gerarchiche, e via di seguito).

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2.2 Assetto commerciale

Le imprese presenti nella rilevazione commercializzano i prodotti con canali diversi e strategie diverse.

Possono essere imprese con un proprio brand e catalogo, imprese che producono componenti e accessori

su commessa, e imprese che realizzano lavorazioni per conto terzi.

Consapevoli che questi tre assetti non sono reciprocamente esclusivi (una singola impresa può operare

con tutte e tre le modalità indicate), si è richiesto di indicare il tipo più importante dal punto di vista del

fatturato. L’assetto commerciale delle imprese coinvolte dall'indagine è rappresentato nel grafico sotto-

stante, da cui si osserva come nel complesso il campione sia distribuito, con una leggera prevalenza di im-

prese che commercializzano prodotti con marchio proprio.

Tipo di commercializzazione dell'impresa

Per chiarire il significato dell'analisi successiva e i risultati che ne derivano è opportuno descrivere, sin-

teticamente, le caratteristiche dei tre assetti considerati.

Imprese che commercializzano con marchio proprio

Sono imprese che hanno un proprio catalogo di prodotti che commercializzano, con ampia autonomia

del determinare politiche di produzione che spesso è in serie e per grandi quantità, con strategie autonome

di progettazione del prodotto, organizzazione dei processi produttivi, di posizionamento, commerciali, e

di prezzo.

Imprese che producono componenti su commessa

Sono imprese che ricevono specifiche di realizzazione della produzione (quantità, modelli, progetti,

brevetti ecc.) da parte del cliente/committente ma che posseggono di norma buona autonomia organizza-

tiva, con strategie proprie da attuare nella produzione, talvolta anche nella determinazione del prezzo e dei

termini commerciali che di volta in volta possono essere contrattati e negoziati con il committente.

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Imprese di lavorazioni conto terzi

Sono imprese che si collocano spesso nella sub-committenza. Producono per lo più semi-lavorati inse-

rendosi nel processo produttivo fornendo soprattutto lavoro. Spesso ricevono “ordini” di lavorazione e di

produzione con pochissimo margine di autonomia in quanto il loro ruolo è quasi meramente di tipo ese-

cutivo. Quantità, modalità, tempi, prezzi vengono decisi prevalentemente dai clienti, che spesso fornisco-

no anche i materiali per le lavorazioni.

Il tipo di mercato cui si rivolgono i tre tipi di imprese è ovviamente differente. Le imprese che produ-

cono con un marchio proprio (con catalogo) e vendendo prodotti propri si posizionano su un mercato che

è rivolto in quote simili sia alle imprese sia al mercato finale. Le imprese che producono su commessa e

ancor più quelle che effettuano lavorazioni per conto terzi vendono prevalentemente ad altre imprese, la-

sciando al mercato finale una quota residuale del proprio mercato.

Tipo di commercializzazione dell'impresa per tipo di mercato (%)

La collocazione all'interno dei tre tipi non presenta distribuzioni con differenze significative né per

classe dimensionale né per settore di appartenenza anche se vale la pena osservare che le imprese apparte-

nenti alle manifatture leggere sono quelle che maggiormente commercializzano un marchio proprio

(64,8%) una percentuale equivalente a più del doppio di quella osservata nel settore metalmeccanico

(23,7%) e decisamente più elevata anche di quella registrata per le altre imprese manifatturiere (42,7%).

Con marchio proprio Producendo componenti

su commessa

Effettuando lavorazioni

in conto terzi

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2.3 Distribuzione del fatturato per raggio di mercato

Il raggio di mercato è un indicatore di capacità strategica e robustezza dell'impresa. Affermare le pro-

prie vendite lungo un raggio di mercato che guarda altrove ed esportare i propri prodotti significa fare i

conti con economie spesso più floride e posizionamenti più concorrenziali. I dati regionali dicono che in

Piemonte la quota di imprese che esporta è mediamente del 60%. Tra le imprese con meno di 50 addetti

questa percentuale scende in media al 47,4%.

Imprese che esportano i prodotti per classe dimensionale in Piemonte (%)

CLASSE DIMENSIONALE QUOTA DI IMPRESE

CHE ESPORTANO

2-9 34,6

10-49 60,3

50-249 85,2

250 92,1

Totale 60,4

(Fonte Unioncamere, 2011)

Per quantificare la quota di piccole imprese che esportano e conoscere in che misura l'export incide

sull'ammontare totale dei ricavi, alle imprese esaminate è stato chiesto di quantificare le quote di fatturato

dell'ultimo anno (2011) destinate al mercato: locale/regionale, nazionale e estero. Le imprese che affer-

mano di esportare sono il 50,1%. Il 68% delle imprese che esportano si rivolgono a paesi della zona UE

15, il 15,5% ad altri stati europei, l'8,3% al Far East, e il residuale 8% è suddiviso tra Medio Oriente,

Nord Africa e America Latina.

La percentuale di imprese che esportano risulta in linea con i valori medi regionali della piccola impre-

sa visti poc'anzi. A questo dato inerente il livello di diffusione dell'export, grazie alla modalità con cui è

stata posta la domanda, possiamo aggiungere una riflessione sulla reale incidenza del mercato dell'export.

In media il fatturato derivante dalle esportazioni è pari al 17,2% del fatturato totale, ma osservando i

valori relativi alla distribuzione delle quote per ciascuna area di mercato, si constata che la quota destinata

all'export è per la maggioranza delle imprese residuale: il 50% non raggiunge una quota pari al 2% e solo il

25% delle imprese esporta per una quota superiore al 30% dell'ammontare totale del fatturato. Per contro

la quota determinata dal mercato locale e regionale che è mediamente pari al 55,6% del fatturato delle im-

prese, continua ad essere la più incisiva e di maggior gettito; il 50% delle imprese afferma che la quota di

mercato locale/regionale ammonta al 70% del fatturato.

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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Quota media di fatturato per raggio di mercato (%)

MERCATO

LOCALE / REGIONALE

ALTRE REGIONI

ITALIANE

MERCATO

ESTERO

Imprese a prevalente mercato locale 89,1 7,3 3,6

Imprese a maggiore proiezione esterna 11,1 53,7 35,1

Totale 55,6 27,2 17,2

Quota export sul fatturato 2011

Fino al 5% 57,0

Dal 5% al 25% 16,7

Oltre il 25% 26,3

Attraverso una analisi di cluster applicata per la riduzione dei dati relativi alla distribuzione del fattura-

to per raggio di mercato, si sono ottenuti i seguenti due gruppi di imprese: le imprese che hanno un mer-

cato prevalentemente locale/regionale, che ammontano al 57% del totale, e quelle che hanno invece una

maggiore proiezione esterna (nazionale e internazionale), che ammontano al restante 43%.

Quota media di fatturato rivolta alle aree di mercato dai due cluster di imprese (%)

MERCATO

LOCALE / REGIONALE

ALTRE REGIONI

ITALIANE

MERCATO

ESTERO

Imprese a prevalente mercato locale 89,1 7,3 3,6

Imprese a maggiore proiezione esterna 11,1 53,7 35,1

Totale 55,6 27,2 17,2

Nella tabella successiva è illustrata la distribuzione dei due profili di impresa per caratteristiche struttu-

rali. L'appartenenza ad uno o all'altro gruppo di impresa è associata significativamente al tipo di commer-

cializzazione: le imprese con marchio proprio che appartengono al gruppo con maggiore proiezione ester-

na sono il 58,9% contro il 21% di quelle che lavorano per conto terzi. Anche la dimensione aziendale si

associa significativamente e tra le imprese a maggiore proiezione esterna figura il 62% delle imprese più

grandi e solo il 19% di quelle con meno di 10 addetti. Interessante è anche la significativa associazione

con il titolo di studio del titolare: al crescere del titolo di studio cresce la quota di imprese che apparten-

gono al gruppo proiettato all'esterno (63% di titolari laureati contro 23,70% di titolari con scuola dell'ob-

bligo).

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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Caratteristiche delle imprese appartenenti a ciascun cluster (%)

% IMPRESE CON PREVALENTE

MERCATO LOCALE

% IMPRESE A MAGGIORE

PROIEZIONE ESTERNA

Commercializzazione dell’impresa *

Marchio proprio 41,1 58,9

Componenti su commessa 55,7 44,3

Lavorazioni in conto terzi 78,8 21,2

Mercato dell’impresa

Mercato finale 56,5 43,5

Altre imprese 57,3 42,7

Settore

Metalmeccanica 53,8 46,2

Manifatture Leggere 48,9 51,1

Altre 66,2 33,8

Dimensione *

da 5 a 9 addetti 81,0 19,0

da 10 a 19 addetti 53,2 46,8

da 20 a 50 addetti 37,7 62,3

Titolo di studio del titolare *

Scuola dell’obbligo 76,3 23,7

Diploma professionale 70,5 29,5

Diploma scuola media superiore 52,8 47,2

Laurea e titoli post-laurea 36,7 63,3

Media totale imprese 57,0 43,0

* Relazione statisticamente significativa

Si è successivamente richiesto ai titolari delle imprese che esportano di esprimere una valutazione

sull'evoluzione dei mercati locale, regionale e internazionale dal 2008 ad oggi. Le risposte fornite sembra-

no confermare che il mercato estero sia oggi più stabile dei mercati locale e nazionale. Dai dati emerge

una riduzione del mercato interno, particolarmente quello locale, mentre il mercato estero risulta addirit-

tura in crescita.

Evoluzione del raggio di mercato: dal 2008 a oggi, in valore assoluto,

come sono risultati i ricavi per ciascun ambito territoriale?

DIMINUZIONE

%

STABILE

%

CRESCITA

%

SALDO

CRESCITA-

DIMINUZIONE

Mercato locale/regionale 55,5 35,4 8,2 -47,3

Altre regioni italiane 56 32,1 11,9 -44,1

Mercato estero 30,5 33 36,5 6

Dato relativo alle sole imprese con quota di mercato estero >=1%

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

31

In conclusione rispetto all'analisi sul raggio di mercato si può affermare che per la piccola impresa il

processo evolutivo favorevole all'ampliamento degli orizzonti operativi e dei confini di mercato sia in cor-

so. Si tratta di un processo che vede protagoniste in primis le imprese più competitive commercialmente,

con più addetti e più preparate in termini di strategie. Si tratta di imprese inserite in reti dell’economia

internazionale e spinte ad aggredire mercati diversi e diversificati, per rispondere alle contrazioni che ren-

dono agonizzante il mercato interno.

2.4 Il turn-over dei clienti

Come osservato nel presente capitolo quasi tre imprese su quattro vendono i propri prodotti ad altre

imprese. Alle sole imprese rivolte al mercato della sub-fornitura si è chiesto di descrivere come dal 2008

sia mutata la composizione dei loro maggiori clienti. In breve, hanno perso clienti importanti? Chi erano?

Ne hanno acquisito di significativi? Chi sono?

Il 52% afferma che dal 2008 ha perso uno o più clienti importanti, e il 55% di averne acquisiti. La

combinazione di queste due situazioni propone quattro tipi, la cui distribuzione è rappresentata nel grafi-

co sottostante.

Situazioni di mutamento del mercato delle imprese di sub-fornitura (%)

Il 34% delle imprese di sub-fornitura in questi quattro anni si è trovato in una situazione di turn-over

dei maggiori clienti, dove è presente flusso simultaneo di acquisizione e di perdita. Seguono le imprese

che hanno mantenuto i maggiori clienti senza acquisirne di nuovi. Una impresa su cinque (20,6%) afferma

di avere acquisito clienti nuovi senza perdere i vecchi, collocandosi quindi nella situazione migliore. Per

contro la posizione più critica è rappresentata dal 18,1% di imprese che hanno perso uno o più dei mag-

giori clienti senza averne acquisiti di nuovi.

Non ha perso e non ha acquisto clienti

Ha acquisito e non ha perso clienti

Ha perso e non ha acquisto clienti

Ha perso e ha acquisto clienti

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Situazioni di mutamento del mercato delle imprese di sub-fornitura per caratteristica di impresa (%)

TURN-OVER PERDITA ACQUISIZIONE STABILITÀ

Commercializzazione dell'impresa

Marchio proprio 42,9 19,6 25,0 12,5

Componenti su commessa 33,8 14,9 20,3 31,1

Lavorazioni in conto terzi 26,5 20,6 17,6 35,3

Dimensione

da 5 a 9 addetti 27,3 25,0 9,1 38,6

da 10 a 19 addetti 34,7 24,0 21,3 20,0

da 20 a 50 addetti 41,4 8,6 27,1 22,9

Raggio di mercato

Imprese a prevalente mercato locale 29,2 28,1 9,0 33,7

Imprese proiezione esterna 42,2 9,4 29,7 18,8

Media totale imprese 34,2 18,1 20,6 27,1

Osservando le caratteristiche delle imprese che si trovano in ciascuna di queste quattro situazioni si

notano differenze significative tra imprese che commercializzano a marchio proprio e quelle che vendono

su commessa e per conto terzi: le prime, che dispongono di iniziativa commerciale e strategie di vendita

più strutturate, sono più frequentemente in una situazione di turn-over, dove la perdita di alcuni clienti

trova una compensazione nella possibilità di acquisirne altri. Si osserva inoltre che un quarto delle imprese

a marchio proprio si colloca in una situazione acquisitiva di nuovi clienti senza perdita di quelli consolida-

ti. In una situazione opposta si trovano le imprese che realizzano lavorazioni per conto terzi. La rigidità

del loro mercato data dai limitati margini di autonomia portano queste imprese ad una prevalente situa-

zione di stallo, dove i clienti non si perdono ma neppure si acquisiscono, mentre il 20% ha subito

l’abbandono di grandi committenti. Le imprese che producono componenti e accessori su commessa sono

in una situazione ibrida, senza una situazione evolutiva prevalente.

Osservando l'analisi della situazione evolutiva in base alla dimensione aziendale si nota tra le imprese

che hanno acquisito nuovi importanti clienti una maggiore presenza delle imprese più grandi (27,1%) e

una più ridotta delle micro imprese (9%); una distribuzione inversa e quasi speculare si osserva invece tra

le imprese che hanno perso clienti senza acquisirne di nuovi: il 9% sono imprese sopra i 20 addetti e il

25% di imprese con meno di 10 addetti.

Nettamente discriminante sembra l'orientamento al raggio di mercato. Le differenze di evoluzione del

mercato tra imprese proiettate all’esterno (prevalentemente all'estero o in altre regioni italiane) e quelle

orientate al mercato locale (regionale) è notevole. Considerando sia la situazione di turn-over della clien-

tela sia quella di espansione come situazioni di evoluzione positiva si nota che più del 71% delle imprese a

proiezione esterna si situano in questo campo, contro il 38% delle imprese rivolte ad un mercato prevalen-

temente locale, che invece per il 61% sono collocate in un area di evoluzione negativa, di stallo o perdita di

uno o più tra i maggiori clienti.

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33

I nuovi clienti si trovano prevalentemente negli stessi settori dei vecchi, con alcune eccezioni rilevanti:

i saldi tra clienti persi e acquisiti evidenziano che nei settori dell'aerospazio (+15,5%) e in quello dell'ener-

gia (+7,2%) la percentuale di clienti acquisiti supera quella dei clienti persi, segno che in queste due settori

si sono aperti oggi spazi ed opportunità di mercato di filiera interessanti.

Settori dei clienti persi e acquisiti

% CLIENTI PERSI % CLIENTI ACQUISITI SALDO ACQUISIZIONE/PERDITA

Automotive 33 33,3 0,3

Macchine e impianti 27,4 30 2,6

Editoria 15,1 3,3 -11,8

Alimentare 6,6 4,4 -2,2

Edilizia 5,7 6,7 1

Cura della casa e della persona 5,7 4,4 -1,3

Aerospazio 0 15,5 15,5

Energia 2,8 10 7,2

Chimica 4,7 7,8 3,1

Mobili e Arredo 1,9 5,6 3,7

Elettrodomestici 0,9 5,6 4,7

Tessile 0,9 4,4 3,5

Anche la localizzazione dei clienti persi e acquisiti propone alcune riflessioni. Il mutamento in corso

sembra descrivere una percorso di spostamento dei confini di mercato: i clienti che si perdono sono clienti

collocati prevalentemente sul territorio, tra quelli che si acquisiscono c’è una superiore presenza di imprese

estere o extra-locali.

Le imprese rivolte prevalentemente al mercato locale ovviamente perdono soprattutto clienti locali,

mentre le imprese con maggiore proiezione esterna perdono clienti in tutti gli ambiti spaziali: in maggio-

ranza nel mercato interno (35,9% locale e 43,6% nazionale) un po' meno (20%) anche all'estero.

Localizzazione dei clienti persi per cluster di mercato delle imprese (%)

SEDE DEI PRINCIPALI

CLIENTI PERSI

TOTALE IMPRESE IMPRESE A PREVALENTE

MERCATO LOCALE

IMPRESE A MAGGIORE

PROIEZIONE ESTERNA

A Torino o in Piemonte 54,7 72,2 35,9

In altre regioni italiane 35,0 27,8 43,6

All'estero 10,3 - 20,5

Totale 100,0 100,0 100,0

Guardando alle nuove acquisizioni, la distribuzione tra locali e esterni è ribaltata. I nuovi clienti risie-

dono prevalentemente all'estero o in altre regioni (56% vs. 44%). Le imprese orientate prevalentemente al

mercato locale continuano a muoversi prevalentemente su di esso. Tuttavia anche tra loro c’è un 20% di

imprese che trova grandi clienti in altre regioni o addirittura all'estero. Al contrario, in modo speculare, le

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imprese con un mercato rivolto prevalentemente all'esterno acquisiscono per 80,4% nuovi clienti collocati

fuori regione e solo per il 19,4% con sede locale.

Localizzazione dei clienti acquisiti per cluster di mercato delle imprese (%)

SEDE DEI PRINCIPALI

CLIENTI ACQUISITI

TOTALE IMPRESE IMPRESE A PREVALENTE

MERCATO LOCALE

IMPRESE A MAGGIORE

PROIEZIONE ESTERNA

Sede a Torino 44,0 80,0 19,6

Sede estero o altre regioni italiane 56,0 20.0 80,4

2.5 Le relazioni inter-impresa nella sub-fornitura

Ai titolari delle imprese sub-fornitrici è stato chiesto di fornire indicazioni sui mutamenti in corso nel-

le relazioni con i principali clienti. La domanda intendeva verificare se negli anni di crisi (dal 2008 ad og-

gi) siano intervenuti mutamenti qualitativi rispetto all'approccio e alle modalità di regolazione del rappor-

to committente-fornitore (procedure di selezione, documentazione richiesta, volumi richiesti, tempi, costi

ecc) e nelle relazioni tra imprese.

I cambiamenti maggiori sono legati ai prezzi di vendita e ai tempi di consegna. Si tratta di richieste di

riduzioni dei costi unitari per l'80% delle imprese e di riduzioni dei tempi di consegna per il 67%. Segue

con il 63% una maggiore richiesta di documentazione tecnica. Minore è l’incidenza dei cambiamenti “po-

sitivi”, improntati ad una maggiore collaborazione o al coinvolgimento, da parte delle imprese committen-

ti, nelle attività di progettazione (che comunque è stato indicato da un terzo dei subfornitori). Il dato che

emerge è di un appesantimento delle relazioni aggravato dalla percezione di un crescente peso del carico

burocratico richiesto per accedere alle commesse.

Fattori di cambiamento nelle relazioni con i clienti (%)

Maggiori procedure di selezioni formali e impersonali

Maggiore collaborazione nella progettazione del prodotto

Maggiori azioni di sostegno (distaccamento tecnici, formazione personale)

Maggiore richiesta di certificazioni e documentazione tecnica

Richiesta di riduzione dei tempi di consegna

Richiesta di riduzione del costo unitario del prodotto

Maggiore trasparenza/informazione su politiche di prodotto

Richiesta di maggiori volumi di produzione per singola commessa

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35

Al fine di sintetizzare la logica sottostante ai cambiamenti descritti e per meglio definire le dimensioni

esplicative delle risposte fornite è stata realizzata un analisi fattoriale che ha consentito di estrarre tre fat-

tori, corrispondenti ad altrettante logiche dominanti nelle relazioni cliente-fornitore. I tre fattori sono di

seguito sinteticamente illustrati.35

Integrazione

I marcatori di questo fattore sono: la collaborazione nella progettazione del prodotto; azioni di soste-

gno come l’invio di tecnici e la formazione; la trasparenza e l’informazione sulle politiche del prodotto da

parte dei clienti più importanti; a fronte di una richiesta di maggiori volumi produttivi per singola com-

messa.

Svalorizzazione

I marcatori sono la contestuale tendenza alla riduzione dei prezzi e alla riduzione dei tempi richiesti

per la consegna.

Burocratizzazione

Il terzo fattore, meno rilevante, è definito dal costante incremento della richiesta di certificazioni e do-

cumentazione tecnica, nel quadro di procedure di selezione sempre più formalizzate

Il fattore denominato svalorizzazione coinvolge una percentuale assai più elevata di imprese, mentre

quello riguardante i processi di integrazione/collaborazione ne coinvolge una minoranza. Non si dispone di

altri elementi descrittivi di queste tendenze, che sarebbe utile approfondire anche al fine qualificare e dare

un “segno” ai processi osservati. L’ambito svalorizzazione non richiede probabilmente ulteriori dettagli,

semmai una verifica della consistenza dei fenomeni di pressione sui prezzi e sulle condizioni di fornitura,

mentre I processi di integrazione potrebbero parimenti alludere ad un progressivo coinvolgimento delle

imprese subfornitrici in una partnership più strutturata con i clienti/committenti, come ad un mero avan-

zamento dei confini organizzativi delle imprese dominanti e la sostanziale sussunzione dei subfornitori

negli assetti produttivi dei committenti, o ancora alla compresenza dei due fenomeni.

35 Per approfondimenti si rinvia alla nota tecnica in allegato.

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36

HIGHLIGHTS

• La larga maggioranza delle piccole imprese industriale rifornisce altre imprese; meno di un quarto

si rivolge direttamente al mercato finale. È però elevata la quota di aziende che commercializza i

prodotti attraverso un proprio marchio.

• Oltre metà delle imprese non esporta. Solo per poco più di un quarto, inoltre, la quota export su-

pera il 25% del fatturato. La quota di export è funzione delle dimensioni aziendali, ma non manca-

no imprese piccole presenti sui mercati internazionali. Tuttavia, il cleavage più significativo non è

tra imprese che esportano e non esportano, ma tra aziende con forte prevalenza del mercato locale

e imprese con maggiore proiezione esterna (all’estero, ma anche in altre regioni italiane, partico-

larmente del Nord).

• I ricavi derivanti da attività estere sono rimasti stabili, quelli da attività nazionali e soprattutto loca-

li in forte diminuzione. Ciò costituisce incentivo a forzare l’orizzonte commerciale e alla ricerca di

clienti internazionali.

• Molte imprese, in questi anni, hanno perso clienti importanti ma altrettante, spesso le stesse, ne

hanno acquisiti di nuovi altrettanto rilevanti. La dinamica, in breve, è più di sostituzione che di

perdita generalizzata del mercato. Il confronto tra clienti persi e acquisiti non evidenzia significati-

vi spostamenti di filiera o shift merceologici, se si eccettua l’accresciuta importanza, per molte im-

prese, del settore aerospaziale. Piuttosto, i nuovi clienti sono più frequentemente di quelli persi

imprese multinazionali – senza sede locale. L’analisi conferma tuttavia l’importanza del mercato lo-

cale.

• La maggioranza delle imprese fornitrici di componenti, accessori, semilavorati, denuncia un pro-

gressivo deterioramento delle relazioni con i maggiori clienti, con accresciute pressioni sui tempi di

realizzazione e sui costi di vendita. Ci troviamo, in altre parole, nel contesto di un peggioramento

dei livelli di collaborazione e ad un allentamento del clima di fiducia all’interno delle filiere. Una

minoranza non marginale, però, negli ultimi anni ha incrementato il grado di cooperazione e

d’integrazione con le imprese clienti, nell’ambito di rapporti caratterizzati da maggiore trasparenza

e dal coinvolgimento nelle stesse fasi di progettazione, che in alcuni casi si è sostanziata anche in

azioni di “crescita guidata”.

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37

3. La composizione della forza lavoro

Ulteriore tema indagato dalla ricerca è la “composizione” del lavoro delle piccole imprese industriali. In

prima approssimazione, l’approfondimento si proponeva di acquisire informazioni in grado di fornire e-

lementi di verifica di alcuni processi di lungo periodo.

Anzitutto, nelle imprese industriali, tra funzioni direttamente trasformative (“operaie”) e funzioni, va-

riamente articolate, di gestione, coordinamento, ovvero tecniche, progettuali o di servizio alla produzione,

la composizione della forza-lavoro tende – sia pure in misura variabile, in base a fattori tecnologici, orga-

nizzativi, attinenti al business model delle imprese, che contribuiscono a differenziare notevolmente la

composizione professionale – da tempo a un relativo equilibrio. Nelle piccole imprese industriali si osser-

vano gli stessi processi di crescita delle funzioni “terziarie”? A questo fine si è utilizzato come indicatore il

rapporto tra operai e le figure sganciate dalla produzione diretta, che per brevità saranno definiti “colletti

bianchi” (senza alcun riferimento forte all’immagine storica del white collar, decisamente inattuale).

In secondo luogo, al di là del più o meno elevato rapporto tra addetti alla produzione diretta e alle altre

funzioni, si è focalizzata l’attenzione su un nucleo più circoscritto di figure specialistiche, corrispondenti ai

quadri e ai tecnici specializzati; in altre parole a coloro che sono addetti, in teoria, a funzioni cognitive (ri-

cerca, progettazione e sviluppo prodotti, qualità, marketing, ecc.) di supporto o di predisposizione dei

cambiamenti - tecnologici, organizzativi, di prodotto e di mercato; con qualche approssimazione, questa

percentuale può essere fatta coincidere con la nozione di “agenti di cambiamento” proposta da alcuni autori

(Carter, 1994), che hanno utilizzato tale dato come indicatore del grado di innovazione e conoscenza in-

corporato nell’industria manifatturiera.

Terzo, all’interno dei lavoratori direttamente impiegati in produzione, si è osservata la distribuzione

tra operai specializzati e operai generici, come proxy di un generale orientamento verso attività più ricche

di abilità e conoscenza tecnica; intuitivamente, la connotazione artigiana o la specializzazione in produ-

zioni di serie limitate o nicchie produttive, dovrebbe lasciare emergere una prevalenza netta, tra gli operai

delle imprese in esame, di specializzati.

È utile, prima di addentrarsi nell’analisi delle risposte, fornire sui temi suesposti alcuni elementi di

scenario o misure comparative. La distribuzione degli occupati nel settore industriale per profilo profes-

sionale in Piemonte, al 2011, rivelava una ancora larga prevalenza di operai (62% circa del totale), appena

inferiore a quella di quindici anni prima e nettamente superiore a quella indicata dalla rilevazione sulle

forze di lavoro dell’Istat nel 2007. Il rapporto tra operai e colletti bianchi, negli ultimi anni, è cresciuto in

virtù principalmente della crescita dell’incidenza degli operai non specializzati, il cui peso percentuale è

rimasto relativamente immutato nel corso degli ultimi quindici anni. Un quarto circa degli occupati indu-

striali è costituito da figure a elevata qualificazione, perlopiù tecnici (18,5%). Il loro peso percentuale, tut-

tavia, coerentemente a quanto accaduto negli stessi anni all’intera forza-lavoro a livello regionale e nazio-

nale, è risultato in forte calo. In altre parole, tenuto conto della necessità di confermare queste osservazio-

ni nel medio periodo affinché si possa parlare di una vera e propria inversione di tendenza, sembrerebbe in

corso un processo di ri-socializzazione della forza-lavoro industriale, a svantaggio dei “colletti bianchi”, la

cui crescita fino a qualche anno addietro pareva ineluttabile.

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Distribuzione degli addetti all’industria per professione in Piemonte (1997, 2007, 2011) (%)

2011 2007 1997

Imprenditori, Manager 3,6 4,5 3,5

Professionisti 2,9 4,9 1,5

Tecnici 18,5 25,1 16,0

Impiegati e altre professioni intermedie di servizi 13,3 11,1 16,0

Operai specializzati e Artigiani 26,4 25,6 28,7

Addetti macchina, conducenti e operai non qualificati 35,4 28,8 34,2

Totale 100,0 100,1 100,0

Totale prof qualificate 24,9 34,5 21,1

Totale Operai 61,8 54,4 62,9

Totale Colletti bianchi 38,2 45,6 37,1

Rapporto Operai/Colletti bianchi 1,62 1,19 1,70

Rapporto specializzati/Non specializzati 0,75 0,89 0,84

Incidenza Tecnici + Professionisti 21,4 30,0 17,5

(Fonte: nostra elaborazione su dati Istat, RCFL)

Le grandi imprese impiegano ancora molti lavoratori direttamente nella produzione. Prima della

grande crisi e delle nuove strategie sull’asse Torino-Detroit, nelle sedi Fiat il 67% del personale era impe-

gnato in mansioni manufacturing, l’8% nelle fasi di engineering and design, il 10% in marketing e attività

commerciali, il 6% nel controllo qualità, l’1% nel servizi finanziari (Volpato, 2008). La situazione non

cambiava nel sistema della componentistica: una ricerca realizzata nel 2007 dal Gruppo Dirigenti Fiat con

Torino Internazionale nel settore automotive mostrava che i quattro quinti dello stock di occupati (dalle

73 aziende incluse nel campione) era addetto a funzioni legate alla produzione diretta (72% operai e 7%

impiegati), contro il 6% di addetti alla progettazione, il 4% alla qualità, il 3% al commerciale, l’8% ad altre

funzioni. Un dato che trova riscontro anche nell’analisi per titolo di studio: il 64% degli addetti disponeva

della sola scuola dell’obbligo, laddove la quota di personale laureato era assestata intorno al 6%..

Un’indagine esplorativa promossa dall’Osservatorio Provinciale del Mercato del Lavoro di Torino, tentava

di offrire alcune indicazioni relative alla composizione del lavoro all’interno di un piccolo campione di im-

prese industriali di medie dimensioni dell’area torinese. Limitata ampiezza (60 imprese avevano risposto

all’iniziativa, per circa 10.000 addetti complessivi) e carattere esplorativo dell’indagine sconsigliavano di

generalizzare le indicazioni di quella rilevazione. Le medie imprese incluse nel campione impiegavano una

quota molto elevata (superiore al 40%) di operai generici, mentre il 22% circa era costituito da specializza-

ti; la componente tecnico-professionale, nel complesso si aggirava intorno al 20% complessivo degli ad-

detti; La quota di addetti alle attività di manufacturing era lievemente minore che nella citata indagine del

Gruppo Dirigenti Fiat sul settore automotive, ma parimenti elevata (72% circa del totale).

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Una ulteriore indagine realizzata nel 2011 su un gruppo di medie e medio-grandi imprese industriali

della provincia di Torino (Torino Incontra/Torino Nord Ovest, 2011) osservava viceversa una profonda

differenziazione del quadro; da una parte imprese in cui il rapporto tra operai e colletti bianchi era 5 a 1,

dall’altra aziende senza produzione diretta o focalizzate sulle attività progettuali e di sviluppo prodotto, in

cui si raggiungeva a fatica il rapporto di un operaio ogni quattro colletti bianchi.

3.1 Il lavoro nella piccola impresa industriale

Complessivamente, le imprese esaminate impiegano poco più di 4.700 addetti, di cui il 65% operai, il

25% impiegati, il resto diviso tra tecnici specialisti, quadri, dirigenti e imprenditori direttamente impegna-

ti in azienda.

Numero totale addetti delle imprese esaminate per qualifica professionale

V.A. %

Dirigenti e manager 255 5,4

Quadri e tecnici qualificati 233 4,9

Impiegati e assimilati 1.158 24,5

Operai specializzati 1.640 34,7

Operai generici 1.437 30,4

Totale 4.723 100,0

Operai (% su totale) 3.077 65,1

Rapporto Operai/Colletti bianchi - 1,9

Rapporto operai Specializzati/Non specializzati - 1,1

Più utile del dato complessivo, tuttavia, è osservare i valori medi nelle imprese. L’analisi propone le se-

guenti evidenze.

Il rapporto tra operai e coletti bianchi è mediamente pari a 2,7, una quota decisamente più elevata del-

la media del settore industriale nel complesso. Per quanto la situazione sia decisamente articolata – in ol-

tre metà delle imprese, infatti, il rapporto non supera il valore di due operai ogni colletto bianco e nel 30%

sia pari o addirittura inferiore a uno – il dato conferma la vocazione manufacturing della piccola impresa

industriale.

La distribuzione tra blue collar e white collar non sembra variare significativamente nei settori, né tutto

sommato al variare delle dimensioni aziendali, tenuto conto della differente scala delle imprese.

L’incidenza media dei colletti bianchi, pari all’incirca al 35%, è significativamente più alta tra le imprese

che commercializzano i prodotti con un proprio marchio o catalogo e tra le aziende con maggiore proie-

zione sui mercati extra-locali, nazionali o esteri. Quest’ultimo dato, in particolare, è correlato positiva-

mente con la quota di fatturato realizzato attraverso l’export.

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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Percentuale colletti bianchi per alcune caratteristiche delle imprese

MODALITÀ DI PRODUZIONE E COMMERCIALIZZAZIONE %

Ha un proprio catalogo di prodotti 38,1

Non ha un catalogo proprio 21,2

RAGGIO MERCATO %

Locale 29,3

Esterno 38,8

Totale 35,2

In altre parole, l’articolazione delle figure produttive varia soprattutto in relazione alla complessità tec-

nologica del prodotto e alla necessità d’incorporare nelle aziende skill progettuali e commerciali, a monte e

a valle della produzione diretta, che domandano figure specialistiche o tecniche o funzioni di coordina-

mento superiori. Non mancano aziende praticamente prive di lavoro operaio in senso stretto; il 10% circa

del totale, infatti, ha un rapporto tra operai e altre figure inferiore a 1 a 5; di queste, distribuite in tutti i

settori, la metà circa impiega più di quindici addetti. È indicativo, inoltre, che mostrino, come sarà illu-

strato in seguito, una maggiore propensione all’innovazione e che, nel complesso, abbiano realizzato in

questi anni performance “migliori” rispetto alla media.

In breve, l’analisi della composizione del lavoro nella piccola impresa industriale, nella cornice di una

chiara maggioranza d’imprese a prevalente composizione manufacturing, mostra una certa varietà di for-

mule, con una minoranza non marginale d’imprese di trasformazione composte prevalentemente da “col-

letti bianchi”. Fa capolino, dunque, un profilo di piccola manifattura specialistica focalizzata su funzioni

intelligenti in cui la componente trasformativa o è decentrata a imprese esterne, o è realizzata attraverso

tecnologie che richiedono un contenuto apporto di lavoro vivo.

La percentuale di figure tecniche specialistiche e di quadri sul totale della forza-lavoro impiegata, me-

diamente piuttosto contenuta (4% del totale addetti) parrebbe smentire l’ipotesi di una compensazione in

corso tra operai e profili specialistici e cognitivi, ma il dato è sicuramente da situare nella specificità delle

singole aziende e richiede probabilmente spiegazioni che la base empirica disponibile non autorizza.

Rapporto operai/colletti bianchi e incidenza dei tecnici e quadri specialistici

RAPPORTO

OPERAI/COLLETTI BIANCHI

% QUADRI

E TECNICI SPECIALISTI

Media 2,7 4,0

Primo quartile 0,8 -

Mediana 2,0 -

Terzo quartile 3,5 5,8

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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È probabile, in ogni caso, che le funzioni tecnico-specialistiche o cognitive di livello superiore cui ci si

intendeva riferire indicando il numero di quadri e tecnici specialistici, in molti casi siano in capo o diret-

tamente al titolare o alle figure manageriali (presenti, complessivamente, in misura pari a quella di quadri

e tecnici), piuttosto che svolte da personale genericamente indicato come impiegato.

Mediamente il 34,7% degli addetti è costituito da operai specializzati, il 30,4% da operai generici o

semi-qualificati. La quota di specializzati sul totale degli operai è pari al 72%, dato che conferma il preva-

lente orientamento delle imprese “minori” verso produzioni specializzate nelle quali competenza e profes-

sionalità operaie assolvono ancora una funzione importante. Ciò non significa tuttavia che non sia presen-

te una quota niente affatto marginale di lavoratori poco qualificati. L’incidenza degli specializzati sul tota-

le della popolazione operaia è associata significativamente ad alcune caratteristiche delle imprese. In alcu-

ni settori, particolarmente nelle attività variamente rientranti nel made in Italy (tessile, altre manifatture

leggere, orafo), raggiungono l’86%; per contro, risultano sensibilmente inferiori al dato medio nel ramo

alimentari e bevande (57%) e tra le imprese del ramo chimico, della gomma e della plastica (65%).

Occorre considerare, in secondo luogo, che la quota di operai specializzati è sensibilmente superiore

tra le microimprese con meno di dieci addetti (dove è mediamente dell’87%) che nelle imprese più strut-

turate, dove appare bilanciata da una quota, di minoranza ma superiore al 30%, di operai generici (un dato

meno distante, dunque, dalla percentuale media generale del settore industriale piemontese). Le differen-

ze su basi dimensionali rinviano ovviamente alla natura del prodotto e della formula competitiva: le picco-

le imprese industriali, più frequentemente di quanto non accada nelle imprese artigiane, operano su pro-

duzioni di scala superiore e non solo su piccole serie. Le imprese con base operaia specializzata, più fre-

quentemente, appaiono più orientate all’innovazione e realizzano, come si illustrerà in seguito, performance

economiche meno negative.

Incidenza operai specializzati su totale operai per settore e classe di addetti

OPERAI SPECIALIZZATI SU TOTALE OPERAI %

Metalmeccanica/mezzi di trasporto 69,7

Alimentari e bevande 57,4

Chimica gomma plastica 65,4

Made in Italy 85,6

Altre manifatture 78,9

OPERAI SPECIALIZZATI SU TOTALE OPERAI PER CLASSE DI ADDETTI %

da 5 a 9 addetti 86,8

da 10 a 19 addetti 69,0

da 20 a 50 addetti 68,7

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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3.2 Le assunzioni recenti

Passato in esame la composizione della forza lavoro al momento della rilevazione, coerentemente con

gli obiettivi dell’indagine, è utile soffermare brevemente l’attenzione sul flusso recente delle assunzioni, al

fine di osservare eventuali scostamenti tra la distribuzione per professione dei nuovi assunti e lo stock de-

gli occupati attuali.

Agli imprenditori si è infatti richiesto d’indicare se, a partire dal 2008, avessero effettuato nuove as-

sunzioni e contestualmente d’indicare la qualifica professionale dei nuovi assunti. L’arco temporale osser-

vato, come noto, non è stato certo un periodo caratterizzato da dinamismo del mercato del lavoro. Si con-

sideri che – come sarà illustrato nel paragrafo dedicato all’impatto della crisi – il 40% delle imprese pre-

senti nel campione ha ridotto il numero di dipendenti e solo il 13% lo ha incrementato; più in generale,

secondo i dati dell’Osservatorio Regionale del Mercato del Lavoro, gli occupati dell’industria tra il 2008 e

il 2011, a livello provinciale, erano calati di circa settemila unità; le procedure di assunzione nel settore

industriale, tra 2011 e 2012 in calo di circa tremila unità.

Coerentemente con questo quadro, una percentuale pari al 42,4% delle imprese, nel periodo sotto os-

servazione, non ha effettuato alcuna assunzione. Non necessariamente, tuttavia, la presenza di assunzioni

indica una espansione dell’occupazione. Il 41,3% delle imprese che nel triennio 2008-2011 ha diminuito il

numero di dipendenti, nello stesso periodo ha effettuato assunzioni; avviamenti al lavoro, peraltro, si ri-

scontrano anche dal 62,3% delle imprese che hanno mantenuto stabile il numero degli addetti e, va da sé,

tutte quelle che nel periodo sono cresciute sotto il profilo dimensionale.

Quali sono le variabili (caratteristiche dell’impresa) che incidono più significativamente sulla probabi-

lità di avere effettuato assunzioni nel periodo considerato? L’analisi non fornisce indicazioni sorprendenti.

Le associazioni più significative rivelano che tra le aziende di maggiori dimensioni la percentuale di im-

prese che negli ultimi quattro anni hanno effettuato assunzioni è sensibilmente più elevata che tra le a-

ziende più piccole; in quelle con performance positive più alta che nelle aziende con performance negati-

va; quelle con maggiore proiezione esterna più di quelle con solo mercato locale. In breve, ad aver assunto

di più sono le imprese che nel complesso hanno una struttura più solida, un mercato più ampio, che han-

no patito meno il calo della domanda. È rilevante osservare inoltre che più frequentemente operano nel

ramo delle manifatture leggere, e soprattutto che presidiano il canale commerciale attraverso un proprio

marchio.

Il profilo delle imprese che negli ultimi quattro anni ha effettuato assunzioni

IMPRESE CHE ASSUMONO IMPRESE CHE NON ASSUMONO

Settore Manifatture leggere (70,9%) Varie (46,5%)

Dimensioni 20-50 addetti (72,4%) 5-9 addetti (37,9%)

Performance economiche In crescita (81,8%) In calo (43%)

Commercializzazione Marchio proprio (66,7%) Lavorazione conto terzi (51,9%)

Raggio di mercato Esterno (64,6%) Locale (46,5%)

Quota export >25% del fatturato (69,5%) 0-5% (46,9%)

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Il quesito qui posto al centro, però, consisteva nella composizione professionale dei nuovi assunti. Gli

intervistati hanno indicato, nel corso dell’intervista, i profili prevalenti tra gli avviamenti al lavoro. Sulla

base di questa indicazione, si ricava che il 46% delle imprese che hanno effettuato assunzioni si è orientata

verso operai specializzati e il 39 % verso operai generici. L’ipotesi di mutamento della composizione pro-

fessionale a favore dei colletti bianchi, anche se l’affermazione andrebbe supportata da informazioni certe

e più dettagliate, trova limitato conforto nei dati raccolti; in ogni caso, il fatto che oltre un terzo abbia pri-

vilegiato l’inserimento di impiegati e l’11% di quadri o tecnici specialisti lascia supporre che una parte del-

le imprese abbia proseguito la via della “terziarizzazione” impegnata negli anni precedenti. Tra le imprese

con rapporto tra operai e colletti bianchi inferiore o uguale a uno (ossia, le meno caratterizzate in senso

operaio), la quota di imprese che hanno assunto prevalentemente quadri o tecnici è risultata pari al 17%.

Assunzioni effettuate dal 2008 ad oggi: figure prevalenti

% SU AZIENDE CHE HANNO

EFFETTUATO ASSUNZIONI *

Dirigenti/ Manager 1,2

Quadri o tecnici ad alta qualificazione 11,2

Impiegati 33,8

Operai specializzati 46,2

Operai non specializzati 38,8

* Totale superiore a cento poiché alla domanda era possibile fornire due risposte

Merita infine una citazione il fatto che il 58,5% delle aziende, tra il 2008 e oggi, abbia intrapreso ini-

ziative volte a qualificare o riconvertire il proprio personale, attraverso corsi di formazione o incentivando

la formazione autonoma. Seppure spalmata nell’arco di quattro anni, è una percentuale elevata, che par-

rebbe smentire l’idea ricevuta di piccole imprese poco orientate a investire nella formazione dei dipenden-

ti. I dati raccolti non consentono di effettuare sull’argomento, certamente degno di essere approfondito,

ulteriori analisi. È probabile che una parte della formazione attivata sia costituita da adempimenti obbli-

gatori (es. corsi sulla sicurezza); il dato appare in ogni caso meritevole di essere sottolineato.

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HIGHLIGHTS

• Le imprese hanno prevalentemente una chiara connotazione manufacturing, con una incidenza

media degli operai sul totale degli occupati del 65% e un rapporto tra operai e colletti bianchi di

2,7 a 1. Tuttavia, in molte aziende, l’incidenza del personale non impiegato in mansioni diretta-

mente produttive è elevata. Una certa “terziarizzazione” del lavoro industriale, dunque, emerge an-

che dall’analisi della composizione professionale.

• Sono nel complesso poco presenti figure specialistiche di tipo tecnico e personale inquadrato ai li-

velli superiori. Le funzioni specialistiche, nelle imprese di minori dimensioni, sono spesso svolte

direttamente dal titolare.

• Prevalgono, tra gli operai, le figure specializzate ma la presenza di operai generici è tutt’altro che

residuale.

• Il profilo professionale dei nuovi assunti lascia intuire orientamenti volti a un moderato rafforza-

mento delle componenti non manufacturing.

• Il 58,5% delle imprese, negli ultimi quattro anni, ha intrapreso iniziative di formazione del perso-

nale.

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4. Cambiamenti e innovazione

Nella quarta sezione al centro dell’osservazione sono i cambiamenti e le pratiche innovative poste in

atto dalle imprese per rispondere alle sollecitazioni determinate dalla crisi della domanda. È quindi questa,

per molti aspetti, il cuore dell’esplorazione conoscitiva. In breve, i temi oggetto di verifica sono stati:

• la presenza nelle imprese, nel periodo convenzionalmente indicato come crisi (dal 2008 ai giorni

nostri), di cambiamenti e innovazioni riguardanti il prodotto, o i prodotti, proposti sul mercato;

• la presenza di cambiamenti e innovazioni riguardanti i processi produttivi e/o l’organizzazione del-

la produzione;

• la presenza di investimenti, nel medesimo periodo, in aree di attività knowledge intensive (o attra-

verso l’insourcing di funzioni specialistiche o mediante l’acquisto di servizi o lo sviluppo di

partnership con soggetti esterni – imprese terziarie, centri di ricerca, ecc.), come la ricerca e svilup-

po, il design e la progettazione, le attività di engineering, la comunicazione pubblicitaria e il mar-

keting;

• la presenza di cambiamenti e innovazioni nell’area approvvigionamenti;

• limitatamente alle imprese che vendono i loro prodotti sul mercato finale, la presenza di cambia-

menti inerenti alle strategie di commercializzazione e ai canali di distribuzione dei prodotti.

Obiettivo di questa parte dell’indagine dunque, prima che l’innovazione in senso stretto, era il cambia-

mento. In altre parole, a fronte del deteriorarsi delle condizioni del mercato e del venire meno, con la crisi

della domanda, dei vantaggi competitivi sedimentati, le imprese hanno reagito attraverso nuovi investi-

menti o soluzioni organizzative o hanno ripiegato adottando un atteggiamento attendista o di semplice

adattamento?

Il cambiamento promosso e agito direttamente, si può dire, è sempre innovazione; è utile tuttavia di-

stinguere i due termini, considerando il secondo un sottosistema – sia pure molto importante – del primo,

poiché non necessariamente la reazione degli imprenditori (il cambiamento) si concretizza nella realizza-

zione di nuovi prodotti piuttosto che nell’introduzione di tecnologie in grado di rendere più efficiente e

produttiva l’organizzazione della produzione; in altre parole, nelle azioni e pratiche convenzionalmente

identificate con l’innovazione. Nel contempo, l’analisi compiuta consente di distinguere tra diversi tipi di

cambiamento introdotti nelle formule imprenditoriali e isolare una componente più propriamente defini-

bile come innovazione.

Tale termine è da acquisire senza cedere a visioni mistiche, come talvolta accade nel dibattito sui limiti

del sistema industriale italiano, particolarmente quando si parla di piccole imprese. La presenza di innova-

zione, nel senso “decentrato” inteso in questo documento, non allude necessariamente al tipo ideale di

impresa con forti investimenti in ricerca e sviluppo, che utilizza tecnologie d’avanguardia, che sviluppa

prodotti in grado di produrre rotture nel mercato. L’indagine, per limiti intrinseci alla tecnica di rilevazio-

ne adottata, non consente in realtà di chiarire in cosa consista l’innovazione nelle imprese esaminate, né se

il termine può essere sempre utilizzato in modo appropriato.

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Non era tuttavia questo l’obiettivo perseguito. Ciò che interessava, in questa sede, era verificare la pre-

senza e la diffusione di strategie di rilancio improntate al cambiamento, al fine anche di valutarne

l’impatto sulle performance economiche (aspetto che sarà trattato nel capitolo conclusivo).

4.1 I cambiamenti riguardanti il prodotto delle imprese

Ai titolari si è richiesto d’indicare se, a partire dal 2008, avessero introdotto cambiamenti riguardanti i

prodotti venduti dall’azienda. Più in specifico, se avessero

i) sviluppato nuovi prodotti rispetto a quelli proposti in precedenza, distinguendo tra prodotti orienta-

ti allo stesso settore o rivolti a nuovi settori;

ii) migliorato/innovato i prodotti tradizionalmente offerti, attraverso l’introduzione di nuovi elementi

funzionali, un nuovo design o l’utilizzo di nuovi materiali;

iii) se, rispetto al periodo precedente, si fossero orientati in direzione di un arricchimento o amplia-

mento della gamma delle produzioni, piuttosto che in una riduzione con conseguente focalizzazio-

ne su uno o pochi prodotti core; iv) infine, di indicare esplicitamente l’assenza di innovazioni o

cambiamenti attinenti al prodotto.

Imprese che hanno effettuato cambiamenti e innovazioni riguardanti i prodotti

Le risposte fornite dagli imprenditori sono per molti aspetti sorprendenti, se è vero che nel 62,6% dei

casi le imprese, negli ultimi quattro anni, hanno realizzato cambiamenti e – di conseguenza – solo poco

più di un terzo ha attraversato questi anni senza modificare le proprie politiche di prodotto.

Per circa metà delle imprese esaminate, cambiamento equivale a innovazione, sia attraverso lo sviluppo

di nuovi prodotti (segnalati dal 41,6% degli imprenditori) sia mediante il restyling o il miglioramento di

prodotti già offerti, attraverso l’inserimento o il cambiamento di elementi funzionali, l’utilizzo di altri ma-

teriali o un nuovo design, indicato dal 22,1% dei rispondenti, sia infine combinando le due strategie. Per

quanto attiene le aziende che hanno dichiarato, negli ultimi quattro anni, di avere sviluppato e proposto al

mercato nuovi prodotti rispetto a quelli realizzati in precedenza, in larga parte tale innovazione è stata di-

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retta al settore di pertinenza (34,2% del totale), mentre per una minoranza l’innovazione è stata funzionale

alla ricerca di nuovi mercati in settori differenti.

È probabile che il riferimento all’innovazione dei prodotti ricomprenda pratiche e significati differenti

e che in molti casi tanto lo sviluppo di nuovi prodotti quanto il restyling di prodotti già presenti nel “cata-

logo” delle imprese consistano in semplici aggiustamenti incrementali, senza che il cambiamento abbia

implicato una trasformazione delle formule imprenditoriali o delle politiche di prodotto.

Tenuto conto di questi fattori, che certamente suggeriscono di ridimensionare la portata altrimenti

sorprendente dei findings ottenuti attraverso questo set di domande, il ritratto emergente

dall’approfondimento sull’innovazione di prodotto non è allineato alla narrazione più diffusa della piccola

impresa, che privilegia la focalizzazione sugli elementi di immobilismo indotti dalla crisi.

Le imprese, in realtà, non sono ferme e perlopiù non subiscono passivamente i fendenti della recessio-

ne; questo è il dato con cui misurarsi. Poi, è lecito e doveroso chiedersi fino a quale misura tali movimenti

si qualifichino come vera innovazione, quali esiti abbiano prodotto i cambiamenti di prodotto, quali inve-

stimenti si siano resi necessari per realizzarli, e via di seguito. Domande non eludibili cui l’indagine pre-

sente non può che fornire risposte molto parziali o del tutto insufficienti. Nondimeno è utile soffermarsi

ulteriormente su questi dati, almeno per fornire un profilo di riferimento delle imprese che nella crisi han-

no “rinnovato le produzioni” e suggerire qualche ipotesi supplementare, a partire dalla base empirica di-

sponibile.

Anzitutto, quali sono le associazioni tra orientamento all’innovazione dei prodotti e caratteristiche

dell’impresa? Risalta in primo luogo l’intuitiva associazione tra orientamento all’innovazione e struttura

dimensionale. La probabilità di avere rinnovato i prodotti o di averne sviluppato di nuovi cresce sensibil-

mente al crescere della classe di addetti. Confermata la rilevanza del fattore dimensionale, occorre fornire

adeguato risalto anche alla presenza di aziende di minore “taglia”, tra quelle presenti nel campione, che

hanno sviluppato nuovi prodotti o rinnovato i prodotti esistenti. L’analisi non evidenzia viceversa alcuna

relazione significativa con il settore di attività. Le imprese che hanno innovato dunque, sono relativamen-

te distribuite nei vari rami economici.

E con le caratteristiche degli imprenditori? Non c’è associazione significativa tra innovazione ed età

del titolare dell’impresa. L’idea per cui l’orientamento innovativo sia necessariamente correlato all’età gio-

vane non trova, in questa sede, robuste evidenze empiriche. Come non si riscontrano relazioni con il sesso

del titolare. Rilevante è viceversa il livello d’istruzione.

C’è una relazione con la struttura del mercato? In altre parole, stabilita la relativamente ampia diffu-

sione di atteggiamenti proattivi sarebbe utile capire se prevalgono innovazioni auto dirette o etero dirette

– imposte dai clienti o dal mercato. Non emergono, anzitutto, differenze significative correlate al tipo di

mercato; contrariamente a quanto sarebbe forse intuitivo, non si rileva un superiore orientamento

all’innovazione dei prodotti tra le aziende che si rivolgono al mercato consumer piuttosto che tra le subfor-

nitrici. Sono viceversa significative altre variabili. Le imprese detentrici di un proprio marchio, in partico-

lare, esprimono un più spiccato orientamento ad innovare i loro prodotti, che commercializzano “a catalo-

go”, rispetto alle imprese che producono su commessa.

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Infine, esiste una correlazione tra innovazione di prodotto e struttura dell’occupazione? Esiste!

Presenza di cambiamenti, rinnovamento e creazione di nuovi prodotti hanno una significativa

associazione con le imprese che al loro interno hanno una più alta quota di personale sganciato da compiti

direttamente produttivi.

Imprese che hanno attuato cambiamenti, rinnovato i prodotti o creato nuovi prodotti

per alcune caratteristiche dell’impresa e dell’imprenditore (%)

CAMBIAMENTI INNOVAZIONE NUOVI PRODOTTI

Classe addetti

da 5 a 9 addetti 53,6 37,7 34,8

da 10 a 19 addetti 60,2 46,9 37,8

da 20 a 50 addetti 77,6 63,3 53,1

Totale 64,9 50,6 42,6

Titolo di studio

Scuola dell'obbligo 47,9 35,4 33,3

Diploma professionale 56,6 41,5 34,0

Diploma scuola media superiore 72,0 58,9 49,5

Laurea (anche triennali) e titoli post-laurea 65,1 54,0 47,6

Totale 63,1 50,2 43,2

Modalità di commercializzazione

marchio proprio 79,0 62,9 54,3

componenti su commessa 62,6 53,8 45,1

lavorazioni in conto terzi 42,7 28,0 23,2

Raggio di mercato prevalente

Locale 43,1 33,1 28,5

Esterno 77,6 66,3 57,1

Quota di fatturato realizzato all'estero

Fino al 5% del fatturato 45,4 35,4 29,2

5-25% del fatturato 73,7 50,0 42,1

Oltre il 25% del fatturato 75,0 71,7 65,0

Dinamica mutamento maggiori clienti

Ha acquisito e non ha perso clienti 80,5 70,7 63,4

Ha perso e ha acquisito clienti 63,2 48,5 38,2

Non ha perso e non ha acquisito clienti 51,9 35,2 35,2

Ha perso e non ha acquisito clienti 41,7 33,3 22,2

Rapporto Operai/”Colletti bianchi”

Inferiore o pari a 1 80,9 63,2 61,8

Compreso tra 1 e 3 65,8 54,1 42,3

Superiore a 3 45,8 34,4 28,1

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4.2 I cambiamenti riguardanti i processi produttivi

Ai titolari d’impresa si è richiesto in secondo luogo d’indicare i cambiamenti e le innovazioni

riguardanti i processi produttivi. Analogamente a quanto descritto a proposito dei mutamenti del

prodotto, si è intesa l’innovazione di processo in un’accezione ampia, che include anche scelte

organizzative, come il ricorso al mercato piuttosto che alla gerarchia nell’organizzazione del ciclo

produttivo, oltre alla più tradizionale innovazione tramite investimenti tecnologici. Innovazioni

organizzative e tecnologiche hanno l’obiettivo di rendere più efficiente il ciclo produttivo, recuperare

margini di produttività dei fattori (capitale fisso e capitale variabile), attraverso un incremento dei

rendimenti tecnologici e un contenimento dei costi di coordinamento, amministrativi, logistici, ecc. ecc In

ambito manifatturiero ciò implica investimenti tecnologici a livello di produzione diretta, come la

sostituzione di macchinari obsoleti con macchinari più efficienti e avanzati, piuttosto che la rottura degli

assetti con l’inserimento di tecnologie più evolute.

Tra il 2008 e oggi le imprese hanno effettuato innovazioni riguardanti

i processi produttivi o l’organizzazione del lavoro?

Nel 61,6% dei casi ci sono stati cambiamenti nei processi produttivi o nell’organizzazione della produ-

zione. Per oltre il 40% l’innovazione dei processi è da intendersi in senso stretto, attraverso il cambiamento

tecnologico (macchinari o impianti di produzione più efficienti e produttivi) o l’informatizzazione di una o

più aree aziendali, per quasi un terzo viceversa si fa riferimento a cambiamenti organizzativi. Più precisa-

mente, il 18% circa ha dichiarato di avere effettuato interventi o adottato soluzioni di razionalizzazione

degli impianti o degli spazi (formula che indica chiaramente la ricerca attiva di una riduzione dei costi a-

gendo sui volumi o eliminando sacche improduttive), mentre il 12,5% ha affidato in outsourcing parte del

ciclo di produzione, percentuale quasi bilanciata però dall’8,5% di imprese che ha dichiarato di avere re-

internalizzato alcune parti del ciclo produttivo. Sul versante tecnologico dell’innovazione, il 35,6% delle

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imprese negli ultimi quattro anni ha introdotto macchinari o impianti più efficienti e produttivi, mentre

l’11,7 % ha provveduto ad informatizzare una o più aree dell’azienda.

Qual è il grado di interdipendenza tra queste differenti soluzioni e interventi di razionalizzazione? Le

due vie (ristrutturazione organizzativa e innovazione tecnologica) presentano aree di sovrapposizione, nel

senso che vi sono imprese che hanno fatto ricorso ad entrambe, ma non si riscontrano però relazioni si-

gnificative e nel complesso si può dire che siano relativamente indipendenti. Più in generale, non si rile-

vano particolari associazioni tra le differenti modalità di innovazione organizzativa e di processo esamina-

te. Analogamente a quanto osservato in precedenza a proposito dell’innovazione di prodotto, quali sono le

caratteristiche delle imprese, degli imprenditori, del mercato, e dell’occupazione maggiormente associate

all’innovazione organizzativa e dei processi di produzione?

Non si riscontrano associazioni significative con le caratteristiche degli imprenditori: né l’età né il tito-

lo di studio del titolare sembrano incidere sull’orientamento delle imprese. Neanche le caratteristiche set-

toriali influenzano significativamente la propensione a introdurre mutamenti nell’organizzazione e nei

processi produttivi. Importanti sono viceversa le dimensioni delle imprese, il tipo di mercato su cui opera-

no (le imprese subfornitrici appaiono più orientate a investire in tecnologia) e – limitatamente a quanto

attiene ai processi organizzativi – il raggio di mercato.

Imprese che hanno attuato cambiamenti nei processi organizzativi introdotto nuove tecnologie

per alcune caratteristiche dell’impresa e dell’imprenditore (%)

CAMBIAMENTO PROCESSI NUOVE TECNOLOGIE

Classe di addetti

da 5 a 9 addetti 46,4 23,2

da 10 a 19 addetti 61,2 40,8

da 20 a 50 addetti 76,5 56,1

Tipo di mercato

Mercato finale 52,1 34,2

Altre imprese 64,4 43,9

Quota export

Fino al 5% del fatturato 51,5 NS

5-25% del fatturato 65,8 NS

Oltre il 25% del fatturato 70,0 NS

Innovazione dei processi e dei prodotti, viceversa, hanno relazioni significative? L’analisi della correla-

zione tra cambiamenti che hanno interessato i prodotti delle imprese e mutamenti organizzativi o tecno-

logici evidenzia un’ampia area di sovrapposizione e la presenza di associazioni significative, sia

nell’accezione estesa adottata in questa analisi, ossia di innovazione come cambiamento, sia in chiave ri-

stretta, considerando cioè, per quanto attiene al campo dei prodotti, l’effettiva introduzione di nuovi

output o il miglioramento di quelli esistenti, per quanto riguarda i processi, invece, l’introduzione di nuovi

macchinari e l’informatizzazione di alcune aree industriali. È da osservare che il 36% circa delle imprese

non ha effettuato innovazioni a livello di prodotti e processi produttivi, mentre il 27 circa è intervenuta in

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entrambi i campi. Il 22% delle imprese si è focalizzata sull’introduzione di nuove soluzioni di prodotto,

mentre per il restante 15% i processi di innovazione hanno riguardato il tradizionale campo tecnologico.

Relazione tra innovazione tecnologica e innovazione di prodotto (% su totale)

4.3 Investimenti nei servizi terziari specialistici

Un terzo ambito di pratiche orientate all’innovazione è stato individuato negli investimenti compiuti al

fine d’incorporare nell’impresa asset immateriali e conoscenze specialistiche “a monte” e “a valle” della

produzione diretta. Tra i fattori di debolezza strutturali delle piccole imprese industriali, nel dibattito e

nella letteratura sulla piccola impresa, uno spazio importante – al punto da divenire un richiamo rituale di

ogni discorso sui limiti dimensionali del capitalismo italiano – è normalmente attribuito ai limitati inve-

stimenti in ricerca e sviluppo, ma anche nelle competenze specialistiche che potrebbero consentire alle

imprese di qualificare il loro business model consentendo di spostare le fonti del vantaggio competitivo in

direzione delle attività di progettazione specialistica, da una parte, e di quelle di cattura e fidelizzazione

dei clienti mediante appropriate e non estemporanee strategie comunicative e di marketing, a loro volta

basate sulla conoscenza dei mercati di riferimento.

Agli imprenditori si è richiesto d’indicare se, a partire dal 2008, avessero effettuato investimenti in

cinque aree d’innovazione “terziaria” finalizzati a rafforzare:

• le attività di ideazione, progettazione, stile e prototipazione dei prodotti: si sono individuate come

proxy dell’orientamento innovativo delle imprese l’esistenza di investimenti nel campo della i)

R&D, del ii) design o della progettazione;

• le attività di innovazione dei processi produttivi mediante spesa nel campo iii) dell’engineering, in-

teso in senso ampio;

• le attività legate alla conoscenza e alla mobilitazione dei mercati, in cui si sono incluse le spese in

iv) comunicazione e pubblicità, e quelle legate al v) marketing e all’analisi dei mercati.

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È evidente che il semplice rilevamento della presenza, in un arco temporale relativamente ampio, di

spese per investimenti in attività e servizi knowledge intensive di cui non si approfondiscano aspetti quali-

tativi e quantitativi, né la dinamica rispetto agli anni precedenti, fornisce indicazioni del tutto approssima-

tive e generiche sul reale orientamento all’innovazione delle imprese esaminate. Non è tuttavia necessario

“scoprire” ad ogni rilevazione la limitata vocazione delle piccole imprese per gli investimenti in terziario

avanzato; questa costituisce semmai premessa del discorso, vista la copiosa documentazione empirica

sull’argomento, fatto talmente risaputo da non richiedere ulteriori conferme. La formulazione delle do-

mande, inoltre, non consente di effettuare sul tema che ipotesi congetturali le quali, fondate esclusivamen-

te sulle dichiarazioni dei rispondenti, non consentono (per esemplificare) di chiarire cosa gli stessi inten-

dano per attività di ricerca e sviluppo o per spesa in comunicazione pubblicitaria. La ricerca non era indi-

rizzata ad approfondire in specifico qualità e natura degli investimenti in innovazione terziaria, che peral-

tro potrebbero insistere anche su altri ambiti e servizi qui non considerati. Tenuto conto di queste pre-

messe, le indicazioni fornite su questo tema consentono in ogni caso di “distinguere” l’approccio delle im-

prese – al di là di cosa materialmente concretizzi le attività di design o di marketing - che hanno compiuto

perlomeno azioni orientate alla qualificazione della loro formula imprenditoriale dal resto degli operatori,

al fine di porre successivamente in relazione questa indicazione con le performance realizzate.

È nel quadro stabilito da queste avvertenze preliminari che sono da situare le risposte raccolte, che

propongono un profilo altrimenti inusuale della piccola impresa industriale. Il 38% circa, infatti, ha di-

chiarato di aver effettuato negli ultimi quattro anni, investimenti in servizi knowledge intensive nell’area

dello sviluppo del prodotto (il 22,4% in attività di design e progettazione e addirittura il 28% in ricerca e

sviluppo); il 36,7% nel campo dei servizi specialistici orientati al mercato (22,4% in marketing e analisi dei

mercati, 28,1% in comunicazione pubblicitaria); il 13,2%, infine, nei servizi avanzati di engineering. Nel

complesso, quasi il 60% ha effettuato investimenti in almeno uno dei campi considerati, dato che sembra

stridere con l’immagine normalmente associata alla piccola impresa manifatturiera.

Da una parte, è evidente che le informazioni raccolte sono da decodificare; in cosa consistano le attivi-

tà di ricerca e sviluppo nelle imprese esaminate, ad esempio, è quesito di sicuro interesse. D’altra parte,

seppure da relativizzare nei termini operativi al fine di non forzarne l’interpretazione, occorre acquisire

questi dati come segnale e indizio di una possibile evoluzione, forse non generalizzata ma che coinvolge

un buon numero di imprese, verso assetti competitivi più evoluti. Nella crisi, si potrebbe congetturare, una

parte degli imprenditori trova le motivazioni e gli stimoli per realizzare un salto nella direzione di più

strutturate e moderne configurazioni produttive.

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Imprese che a partire dal 2008 hanno investito nei servizi specialistici sotto elencati (%)

È da rilevare in secondo luogo che gli investimenti nei servizi specialistici indagati sono tra loro in re-

lazione relativamente significativa, e che sono a loro volta associati ai percorsi di innovazione di prodotto e

dei processi produttivi prima indagati.

Indice di correlazione tra le differenti forme di innovazione indagate

INNOVAZIONE

PRODOTTO

INNOVAZIONE

TECNOLOGICA

INNOVAZIONE

TERZIARIA

( )

INNOVAZIONE

TERZIARIA

( )Innovazione Prodotto 1 0,261 0,358 0,139

Innovazione tecnologica 0,261 1 0,191 0,172

innovazione Terziaria (prodotto) 0,358 0,191 1 0,210

Innovazione Terziaria (mercato) 0,139 0,172 0,210 1

Correlazioni significative al livello 0.01.

Proseguendo nella disamina, si osserva che la metà circa delle imprese che hanno effettuato investi-

menti in servizi specialistici nell’area prodotto (ossia, R&D, design e progettazione) ha investito anche in

servizi market oriented (marketing, comunicazione, ecc.), e viceversa. Particolarmente intensa, poi, è la re-

lazione tra l’innovazione di prodotto (nuovi prodotti o miglioramento di quelli esistenti) e gli investimenti

in servizi specialistici legati, appunto, al prodotto; il 56% delle imprese che hanno rinnovato i prodotti,

infatti, hanno effettuato investimenti in ricerca e sviluppo (42,8%) o in design e progettazione (29,7%).

Appare in altri termini chiaramente distinguibile un nucleo, minoritario ma non così residuale, di imprese

che in questi anni ha diversificato e qualificato la dotazione di risorse che concorrono a formare il capitale

conoscitivo e tecnologico che ne alimenta la competitività sui mercati

Quali sono le imprese che più hanno investito in skill terziari specialistici? L’analisi delle relazioni tra

questi investimenti e le caratteristiche strutturali delle imprese, del loro mercato, dell’occupazione, propo-

ne un profilo di piccola impresa innovativa simile a quello già descritto nei paragrafi precedenti.

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Anche in relazione ai processi d’innovazione terziaria non emergono significative associazioni con il

settore di attività delle imprese. Si conferma, dunque, l’irrilevanza del settore di specializzazione ai fini

della presenza di pratiche e orientamenti proattivi in materia d’innovazione.

È significativa, viceversa, l’associazione tra dimensione aziendale e investimenti in ricerca e sviluppo o

in design e progettazione. In particolare, oltre metà delle imprese che superano la soglia dei venti addetti

ha dichiarato di avere effettuato investimenti in questo tipo di servizi (confermando quindi che la scelta di

ri-orientare il mercato è stata realizzata tramite un investimento strategico).

Meno evidente l’associazione tra dimensione e investimenti in servizi legati al marketing e alla comu-

nicazione pubblicitaria; le distanze tra microimprese e aziende più strutturate si accorciano, e la relazione

tra maggiore dimensione e attitudine a investire non risulta più significativa. Il dato si ripropone in rela-

zione al titolo di studio del titolare, che come già osservato in precedenza, differenzia sensibilmente la di-

sponibilità a investire in innovazione. Lo spartiacque è dato dall’istruzione secondaria superiore: gli inno-

vatori, infatti, sono prevalentemente diplomati e laureati. Anche in relazione a questa variabile

l’associazione risulta significativa con gli investimenti nei servizi specialistici “a monte” della produzione,

non con gli investimenti in marketing e pubblicità.

Investono molto più in servizi specialistici le imprese che operano con marchio proprio, mentre risulta

(per alcuni versi inaspettatamente) ininfluente il tipo di mercato (consumer piuttosto che business). È però

da osservare che, mentre per quanto attiene agli investimenti pubblicitari o legati al marketing, la distanza

che separa le imprese “con marchio proprio” (48,6%) da quelle che lavorano “su commessa” (27,5) o che

effettuano “lavorazioni conto terzi” (31,7) è consistente, gli investimenti in progettazione, design e R&D,

poco diffusi – ma non assenti – tra i contoterzisti, sono effettuati in misura quasi analoga anche dai forni-

tori “su commessa”.

Discrimina anche il raggio di mercato delle imprese: il 57% di quelle a “proiezione esterna” (che si ri-

volgono prevalentemente al mercato extra-regionale, italiano o estero) investono in servizi avanzati legati

al prodotto, il 53% in comunicazione e/o marketing. Percentuali molto inferiori si osservano viceversa tra

le imprese con raggio di mercato locale. Analoghe relazioni si registrano assumendo come variabile la

quota di fatturato export. In breve, spendono assai più in servizi innovativi le piccole imprese che hanno

ampliato gli orizzonti operativi e di mercato oltre i confini del sistema locale, sebbene a ben vedere non sia

residuale neanche la quota di aziende localiste che in questi anni hanno potenziato i loro sistemi conosciti-

vi attraverso l’iniezione di skill specialistici.

Si rileva inoltre una relazione tra investimenti e ricambio dei maggiori clienti. Hanno investito meno

in servizi innovativi sia le imprese che nel saldo tra grandi clienti persi e acquisiti sono in negativo, sia

quelle che hanno mantenuto, in questi anni, i loro maggiori clienti senza tuttavia acquisirne di nuovi. La

disponibilità a effettuare investimenti appare viceversa collegata significativamente alle situazioni di insta-

bilità e mutamento dei clienti di riferimento, ossia tra le imprese che hanno acquisito nuovi clienti senza

perdere i vecchi, sia in quelle che hanno avuto un turn over, con nuovi importanti clienti che hanno sosti-

tuito quelli persi. Correlazione non significa causalità; sarebbe interessante approfondire ed eventualmente

rilevare l’esistenza di nessi causali tra investimenti in innovazione e dinamica della clientela; verificare,

cioè, se alla base degli investimenti in servizi innovativi vi sia la perdita di qualche cliente strategico o vi-

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ceversa, se grazie ai primi l’azienda ha potuto conquistare nuovi committenti importanti. I dati a disposi-

zione non consentono di convalidare queste ipotesi, ma evidenziano comunque un nesso significativo tra

investimenti in servizi innovativi e cambiamenti della clientela.

Un'altra relazione significativa, almeno per quanto attiene ai servizi innovativi legati al prodotto (de-

sign, R&D, progettazione) è osservabile anche con la composizione della forza lavoro impiegata. Come si

è già osservato a proposito delle caratteristiche delle imprese che negli ultimi quattro anni hanno rinnova-

to i prodotti, sono gli operatori con un rapporto tra addetti operai e altre figure professionali più basso a

investire con maggiore frequenza in servizi innovativi di progettazione o di sviluppo dei prodotti (tale re-

lazione si affievolisce e perde significatività nel campo dei servizi di comunicazione e marketing). Innovare

i prodotti, oltre che investimenti dedicati in servizi di maggiore contenuto cognitivo, presuppone anche la

presenza di personale che svolga il ruolo di “agente del cambiamento”, in altre parole che operi per attrez-

zare i mutamenti e predisporre le formule operative del futuro prossimo. Scontata, infine, la correlazione

tra investimenti in servizi avanzati e presenza, nelle imprese, di strategie orientate all’innovazione dei pro-

dotti nonché delle tecnologie e degli impianti per produrre, nessi già richiamati.

Aziende che investono in servizi specialistici per alcune caratteristiche

delle imprese e degli imprenditori (%)

AREA

PRODOTTO

AREA

MERCATO

Classe addetti

da 5 a 9 addetti 26,1 30,4

da 10 a 19 addetti 36,7 36,7

da 20 a 50 addetti 52,0 39,8

Titolo di studio

Scuola dell'obbligo 14,6 29,2

Diploma professionale 24,5 30,2

Diploma scuola media superiore 51,4 42,1

Laurea (anche triennali) e titoli post-laurea 47,6 39,7

Modalità di commercializzazione

marchio proprio 49,5 48,6

componenti su commessa 44,0 27,5

lavorazioni in conto terzi 18,3 31,7

Raggio di mercato prevalente

Locale 23,8 28,5

Esterno 57,1 53,1

Quota di fatturato realizzato all'estero

Fino al 5% del fatturato 26,9 29,2

5-25% del fatturato 42,1 52,6

Oltre il 25% del fatturato 60,0 51,7

Dinamica mutamento maggiori clienti

Ha acquisito nuovi clienti senza perdere i vecchi (guadagno) 56,1 48,8

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Ha perso e acquisito importanti clienti (turn-over) 44,1 41,2

Non ha perso e non ha acquisito clienti importanti (stabilità) 24,1 25,9

Ha perso clienti importanti senza acquisirne di nuovi (perdita) 25,0 27,8

Rapporto Operai/Non Operai

Inferiore o pari a 1 48,5 39,7

Compreso tra 1 e 3 40,5 36,9

Superiore a 3 29,2 36,5

Innovazione di prodotto

Imprese che non hanno rinnovato i prodotti 21,0 30,1

Imprese che hanno rinnovato i prodotti 55,8 43,5

Innovazione tecnologica

Imprese che non hanno introdotto nuovi macchinari o tecnologie 30,3 29,7

Imprese che hanno introdotto nuovi macchinari o tecnologie 49,1 46,6

Associazione statisticamente non significativa

È utile, al termine di questa disamina volta a tracciare (e perlopiù a confermare quanto già descritto in

precedenza) un profilo dell’impresa che investe in servizi innovativi, e nel ribadire il carattere euristico di

questa esplorazione – rinnovando l’avvertenza del maneggiare con cautela i materiali empirici raccolti e

attribuire una valenza decentrata e “situata” a concetti come innovazione o ricerca – notare che la soglia di

accesso ai servizi funzionali a predisporre i cambiamenti nel prodotto o nei processi produttivi sia più ele-

vata di quella che discrimina l’accesso ai servizi di comunicazione e marketing. Certo, esistono approcci

comunicativi di differente livello e strategie di marketing sofisticate giustapposte ad altre relativamente

elementari. La ricerca non consente di distinguere, limitandosi a raccogliere la semplice presenza di spese

dedicate alla comunicazione. A questi servizi – normalmente poco considerati dalle piccole imprese, a for-

tiori se non si rivolgono a un mercato di consumatori finali da stimolare all’acquisto – accedono, come si è

appurato, anche imprese con formule competitive relativamente semplificate (mercato locale, prevalente

specializzazione nel manufacturing, lavorazioni su commessa, ridotte dimensioni). Più selettivo, viceversa,

è l’investimento in servizi avanzati che incorporano skill progettuali e conoscitivi che investono più diret-

tamente gli assetti produttivi e organizzativi interni.

Chi, infine, non investe affatto? Per reciprocità rispetto alle imprese che hanno investito in servizi spe-

cialistici terziari, e in virtù delle elaborazioni compiute, emerge anche un profilo di impresa che non inve-

ste in alcun tipo di servizi specialistici – tra quelli previsti dallo schema d’intervista. Del tutto intuitiva-

mente, è significativamente più elevata la probabilità di rientrare in questo gruppo tra le imprese di di-

mensioni più contenute (52,5% dei casi nella classe 5-9 addetti), il cui business è rappresentato da lavora-

zioni conto terzi (53,7%), con mercato principalmente locale (54,6%) e che, in genere, non sono state atti-

ve negli ultimi anni né sul versante del rinnovamento dei prodotti, né sul quello delle tecnologie. Si tratta

di un profilo di riferimento. Ogni aziende costituisce un caso a sé, non ripetibile, e non poche con le ca-

ratteristiche sopra delineate sono in realtà presenti nel gruppo che in questi anni ha investito nei servizi

oggetto di questo approfondimento.

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Caratteristiche maggiormente associate alle imprese che non investono in servizi specialistici

DIMENSIONE ANALITICA MODALITÀ (% CHE NON INVESTE)

Classe di addetti 5-9 addetti (52,2%)

Tipo di produzione Lavorazione in conto terzi (53,7%)

Raggio di mercato Locale (54,6%)

Quota export Meno del 5% del fatturato (54,6%)

Prodotto Non ha rinnovato i prodotti (58,7%)

Tecnologie Non ha rinnovato le tecnologie e gli impianti (48,5%)

Più in generale, tenuto conto dei criteri ampi utilizzati per definire l’orientamento al cambiamento, la

ricognizione pone in luce che solo una piccola minoranza ha vissuto del tutto passivamente il passaggio di

crisi degli ultimi anni, senza tentare cioè di introdurre discontinuità né a livello di prodotto, né sotto il

profilo organizzativo o tecnologico, né infine investendo in servizi terziari avanzati. Queste imprese inerti

costituiscono in effetti appena il 14% del totale.

Si restringa ora il campo e si assuma come proxy dell’orientamento a introdurre elementi innovativi la

presenza di uno o più tra i seguenti fattori: i) aver rinnovato i prodotti; ii) aver introdotto nuovi macchi-

nari o informatizzato alcune aree aziendali; iii) aver investito in progettazione, design o in R&D; iv) aver

investito nelle attività di engineering; v) avere investito in marketing, comunicazione e pubblicità.

Adottando questo criterio, le imprese al di fuori da qualsivoglia percorso d’innovazione sono il 22% del

totale, mentre nel 25% dei casi si riscontra la presenza in uno solo dei fattori elencati (per un terzo si tratta

di macchinari e tecnologie, per il 27,5% di innovazioni del prodotto). Oltre la metà delle imprese, quindi,

è presente in almeno due fattori e il 31%, che può essere fatto coincidere con la componente più orientata

al cambiamento, in tre o più fattori. In breve, l’orientamento all’innovazione segue una logica combinatoria

e cumulativa: le imprese che hanno proceduto, in questi anni, al rinnovamento delle loro produzione, per

esemplificare, sono anche più frequentemente quelle più disponibili a investire nei servizi terziari speciali-

stici o nell’informatizzazione delle diverse aree aziendali.

4.4 Il rapporto con i fornitori e la rete distributiva

L’indagine ha previsto due ulteriori approfondimenti circa l’orientamento al cambiamento delle im-

prese esaminate.

Il primo riguarda la gestione della rete di fornitori. Il tema potrebbe apparire poco rilevante, poiché la

larga maggioranza delle imprese esaminate si caratterizza come fornitrice di componenti, semilavorati, ac-

cessori, attrezzature e macchinari per altre imprese – e quindi le relazioni interimpresa sono state analizza-

te soprattutto per ciò che attiene ai rapporti B2B con le imprese committenti o clienti. Nel campione, tut-

tavia, compare anche una quota (24%) di imprese che vende i propri prodotti sul mercato finale; inoltre,

anche le aziende fornitrici sono a loro volta acquirenti di particolari, semilavorati, materie prime, macchi-

nari, servizi. Raramente il tema dell’innovazione delle PMI si occupa di questo aspetto, considerato vice-

versa cruciale per i grandi player che governano e gestiscono supply chain complesse. Anche le piccole im-

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prese, tuttavia, possono a loro volta intervenire – o per ottenere premi di costo o vantaggi in termini quali-

tativi, di efficienza, ecc. – sulla rete dei loro fornitori.

Ai titolari d’impresa si è dunque richiesto d’indicare se nel corso degli ultimi anni avessero realizzato

cambiamenti in ordine al rapporto coi i fornitori. A fronte di un terzo di imprese che non ha introdotto

significative novità, quasi la metà dei rispondenti (il 47,3%) ha ricercato, negli ultimi anni, nuovi fornitori.

Il dato conferma che l’ambiente affermatosi in questi anni di prolungata crisi della domanda è caratteriz-

zato da estrema turbolenza e mobilità delle relazioni nelle relazioni tra imprese. L’indagine non fornisce

elementi che aiutino a comprendere la logica e gli obiettivi della ricerca di nuovi fornitori, né se tale ricer-

ca sia avvenuta nei confini del sistema locale o, parallelamente all’ampliamento degli orizzonti operativi di

parte delle imprese, abbia assunto un bacino di riferimento più ampio o addirittura internazionale. È da

osservare inoltre che non poche imprese hanno riprodotto sui loro fornitori scelte che molte di esse hanno

subito dai loro clienti business: rinegoziazione favorevole (e ovviamente svantaggiosa per il fornitore) dei

contratti e dilazione dei tempi di pagamento – pratiche, in entrambi i casi, indicate dal 20% circa dei ri-

spondenti.

Cambiamenti che hanno interessato tra il 2008 e oggi l’area approvvigionamenti (%)

Ho rinegoziato a nostro favore i contratti con i fornitori 19,9

Ho cercato nuovi fornitori 47,3

Ho procrastinato i tempi di pagamento di alcuni fornitori 20,3

Nessun cambiamento 32,4

Il secondo approfondimento è stato dedicato alle sole imprese che commercializzano i loro prodotti sul

mercato finale. Ai titolari di questo più limitato sottocampione si è richiesto d’indicare se avessero intro-

dotto cambiamenti relativi alla distribuzione dei loro prodotti. Il tema, indubbiamente stimolante poiché

insiste su un campo in forte mutamento, in virtù dell’investimento di molte imprese multinazionali - ma

anche di medie imprese specializzate in nicchie di prodotti di cui esercitano una leadership qualitativa -

nel presidio diretto del rapporto con il consumatore/cliente piuttosto che dell’emergere e affermarsi di

nuove modalità di commercializzazione e circolazione. Si pensi alla crescente rilevanza del web come spa-

zio attrezzato per l’informazione, la scelta, la contrattazione e la vendita di una quantità sempre crescente

di merci. Si tratta forse del cambiamento più spettacolare, ma le strategie di cattura e fidelizzazione della

clientela poste in atto dalle aziende produttrici di beni di consumo o titolari di brand sono sempre più va-

riegate, dai negozi monomarca alle aperture temporanee.

Di tutto ciò, come era peraltro intuibile vista la taglia delle imprese, si trova però scarsa traccia. Il 70%

circa delle imprese esaminate rientranti in questo gruppo non ha introdotto, negli ultimi quattro anni,

cambiamenti nella rete distributiva né ha sperimentato o cambiato i canali di commercializzazione. Solo

l’8,2% (si parla in valore assoluto di otto imprese) ha puntato in effetti su nuovi canali distributivi, e una

minoranza ancora più risicata è riuscita a ridurre il numero degli intermediari che lo separano dal consu-

matore finale.

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Cambiamenti inerenti alla commercializzazione dei prodotti (%)

Ha ampliato il numero degli agenti 11,0

Ha ridotto il numero degli agenti 4,1

Ha ridotto il numero degli intermediari fino al consumatore 4,1

Ha ampliato il numero degli intermediari fino al consumatore 2,7

Ha puntato su canali distributivi diversi dai precedenti 8,2

Nessun cambiamento 68,1

4.5 Gli investimenti futuri

Agli imprenditori si è infine richiesto, in caso di disponibilità di risorse, d’indicare le loro eventuali

priorità in materia d’investimenti in innovazione. Volgendo lo sguardo alle risposte valide, l’idea

d’innovazione emergente appare tuttora fortemente legata ai processi produttivi e dunque alla sfera tecno-

logica, in altre parole all’acquisto di macchinari e tecnologie in grado di rendere più efficiente l’attività (39,4%

del totale). A questa visione “macchinica” segue, a distanza, l’ampliamento degli orizzonti del mercato

(19,7%), mentre il 10,8% pensa ai mercati esteri.

Solo per una minoranza l’innovazione appare legata all’acquisizione di risorse terziarie in grado di raf-

forzare l’impresa sotto il profilo degli asset intangibili (capitale umano, ricerca, progettazione, design, co-

municazione). Non è comunque una minoranza residuale, se il 12,6% dichiara che investirebbe in comu-

nicazione, marketing e pubblicità, l’11,9% in ricerca e sviluppo, il 7,8% in tecnologie informatiche e infine

il 7,4% in formazione del personale.

Scelte di investimento prioritarie, a fronte di una ragionevole disponibilità di risorse (%)

Acquisterei nuovi macchinari in grado di rendere più efficiente la mia attività 39,4

Cercherei di ampliare il mercato in nuovi territori 19,7

Investirei in comunicazione, marketing, pubblicità 12,6

Potenzierei la rete commerciale e di vendita 12,6

Investirei in ricerca e sviluppo al fine di sviluppare nuovi prodotti o tecniche 11,9

Cercherei di vendere all'estero 10,8

Diversificherei la gamma dei prodotti attualmente offerti 8,2

Investirei in tecnologie informatiche o software applicati al ciclo produttivo 7,8

Investirei in formazione del personale 7,4

Migliorerei i prodotti attuali con nuovi elementi funzionali 5,2

Progetterei nuovi prodotti in sostituzione di quelli attuali 3,7

Farei accordi, reti, consorzi con altre imprese 3,7

Cercherei fornitori più qualificati o convenienti 2,2

Mi doterei di brevetti/registrazioni/marchi/certificazione dei prodotti 1,5

Investirei nella mia formazione personale 1,5

Non farei niente 11,2

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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I singoli item sono stati successivamente raggruppati in “aree”, al fine di rendere più agevole la lettura

e l’analisi delle intenzioni in materia di investimenti. Si sono così ottenute cinque aree:

• tecnologica, corrispondente alle imprese che hanno indicato come prioritari gli investimenti in nuovi

macchinari o in tecnologie informatiche e software applicati al ciclo produttivo;

• mercato, costituita da imprese che investirebbero prioritariamente nella ricerca di nuovi mercati e

nell’export oltre che nel potenziamento della rete commerciale e di vendita;

• knowledge, corrispondente agli investimenti in servizi avanzati, nella ricerca e sviluppo, nella for-

mazione, nei brevetti e nella certificazione dei prodotti;

• prodotto, area legata agli investimenti in nuovi prodotti sostituitivi o integrativi o nel miglioramen-

to dei prodotti attualmente in produzione;

• rapporti interimpresa, intesi sia come reti e network con altre imprese, ma anche come ricerca di al-

tri fornitori.

Aree di investimento prioritarie, a fronte della disponibilità di risorse (%)

In base a questa classificazione, gli orientamenti espressi in ordine ai possibili nuovi investimenti, evi-

denziano il primato delle aree tecnologia e mercato, verso cui si orienterebbero rispettivamente il 41% e il

39,5% dei rispondenti, ma anche la crescente importanza attribuita agli investimenti knowledge, indicati

come prioritari dal 32% del totale; per il 16,4%, il campo d’investimento prioritario sarebbe costituito

dall’innovazione dei prodotti.

C’è continuità tra le intenzioni d’investimento dichiarate e quanto le imprese hanno fatto negli scorsi

anni? A questo scopo si sono poste in relazione le prime con gli investimenti compiuti negli anni prece-

denti. Una importante indicazione proviene dalle imprese i cui titolari hanno manifestato, per il futuro, la

volontà di investire in quella che si è definita area knowledge. C’è un’associazione significativa, infatti, tra

queste imprese e quelle che negli anni passati hanno innovato i loro prodotti e con le aziende che avevano

investito in servizi terziari qualificati (design, ricerca e sviluppo, marketing).

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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HIGHLIGHTS

• Una quota elevata di imprese (49%) negli ultimi anni ha investito in innovazione di prodotto, sia

sviluppando nuove proposte sia rinnovando i prodotti esistenti. Il 41% ha rinnovato i processi pro-

duttivi mediante l’introduzione di nuove tecnologie, il 32% mediante riorganizzazioni interne.

• Il profilo delle imprese più orientate all’innovazione evidenzia il ruolo positivo, oltre che della

struttura dimensionale, degli assetti produttivi e commerciali (innovano di più le imprese che pro-

ducono con un marchio proprio), del livello di scolarità del titolare, della proiezione verso mercati

extra-locali, della presenza in azienda di personale sganciato dalla produzione diretta.

• Pure in assenza di informazioni più dettagliate sulla consistenza e sulla natura degli investimenti, è

emersa una quota significativa di imprese che hanno investito in ricerca e sviluppo, in design e pro-

gettazione, in comunicazione e marketing.

• La logica dell’innovazione e degli investimenti relativi è di tipo combinatorio e cumulativo. Emerge

in altre parole una minoranza, però robusta, di imprese che investono sia nello sviluppo del prodot-

to, sia in nuove tecnologie, sia in servizi specialistici ad alto contenuto di conoscenza.

• Le intenzioni d’investimento dichiarate per il futuro, a fronte di un’eventuale disponibilità di ade-

guate risorse, sono equamente distribuite tra area tecnologica e area commerciale, ma per un terzo

delle imprese riguardano servizi knowledge in una accezione ampia (formazione, ricerca e sviluppo,

design, comunicazione). Per il 16,4% gli investimenti auspicati riguardano l’area del prodotto.

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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5. Crisi e performance delle imprese

L’ultima sezione del rapporto sarà dedicata alla disamina degli effetti della crisi sulle performance econo-

miche delle imprese e a individuare alcune possibili “spiegazioni” della migliore tenuta di alcune rispetto

alle altre. A questo scopo le performance saranno poste in relazione sia con le caratteristiche strutturali del-

le imprese, ma anche con le “condotte”, intese come pratiche messe in campo per fronteggiare il calo della

domanda e i processi di cambiamento e innovazione. Si consideri, a introduzione dell’esposizione dei dati,

che solo il 9,7% degli intervistati ritiene di non aver subito gli effetti della crisi. Il 41,2% ritiene di averne

risentito in misura contenuta, il 49,2% in misura significativa. Al centro della crisi, il 71,2% dei rispon-

denti ha indicato il calo della domanda, il 32% i mancati pagamenti da parte dei clienti e una quota più

contenuta la difficoltà ad ottenere credito dalle banche (16%).

5.1 La performance economica

Come proxy della performance economica si sono utilizzati sette indicatori:

• ricavi delle vendite, come indicatore del livello di produzione e della domanda;

• utile, come indicatore della redditività;

• numero di clienti;

• numero di dipendenti;

• livello degli investimenti;

• la capitalizzazione;

• livello dell’indebitamento.36

Per ciascun indicatore si è richiesto agli intervistati di valutare l’andamento nel medio periodo, relativo

al triennio 2008-2011, quindi l’andamento previsto nell’ultimo anno (2012).37 Tale scelta, nelle intenzio-

ni, aveva lo scopo di distinguere l’analisi tra un primo tempo, relativamente ampio, caratterizzato dalla re-

pentina battuta d’arresto e dalla grave recessione del biennio 2008-2009, seguito da una incerta e parziale

ripresa della produzione nel 2010 e nella prima parte del 2011, e un secondo tempo, caratterizzato da una

nuova contrazione produttiva e da recessione, con caratteristiche relativamente differenti rispetto al 2009.

Nelle ipotesi formulate in sede d’impostazione della ricerca, la differente morfologia delle due fasi (la pri-

ma caratterizzata da un crollo di tutte le componenti della domanda, particolarmente di quella estera, la

36 L’indebitamento, in linea generale, non costituisce in sé un indizio di criticità. Ogni sviluppo si basa su un certo

livello d’indebitamento. Nel caso in questione, tuttavia, l’indicatore denota senza dubbio una situazione di difficoltà

(come è stato peraltro chiarito in sede di intervista telefonica).

37 Agli intervistati si è richiesto di esprimere una previsione relativa ai risultati finali del 2012. A rigore, l’andamento

al 2012 costituisce una stima previsionale, espressa d’altra parte nel corso degli ultimi due mesi dell’anno e quindi

molto attendibile. Per comodità espositiva, nel prosieguo dell’esposizione si farà riferimento semplicemente alla per-

formance 2012, trattando la previsione come un dato definitivo.

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seconda da una prolungata e acuta contrazione del mercato domestico) avrebbe potuto riflettersi in impat-

ti selettivi, in base alle caratteristiche dei mercati delle imprese; da qui l’utilità di un approccio finalizzato

a monitorarne separatamente gli effetti. Le indicazioni raccolte scontano il limite di tutte le autovaluta-

zioni: non esiste una convenzione che consenta di distinguere tra un andamento in moderata o forte dimi-

nuzione, se non la percezione che ne ha il rispondente. Ne consegue che le analisi proposte sono basate su

misure soggettive, non necessariamente corrispondenti alla “reale” performance delle imprese.

Come si può osservare nella tabella sottostante, per la larga maggioranza delle imprese il periodo

2008-2011 ha visto un netto peggioramento di quasi tutti gli indicatori prescelti. Particolarmente negati-

vi, in una prospettiva a medio termine (che prescinde quindi da possibili evoluzioni congiunturali di segno

differente), risultano gli indicatori di performance in senso stretto, i ricavi delle vendite e gli utili, risultati

in calo, rispettivamente, per il 67,4% e 68,7% delle imprese. Il 36% circa delle imprese ha visto una cresci-

ta dei livelli d’indebitamento, mentre nello stesso periodo è risultato in calo – 38,4% – il livello degli inve-

stimenti. È inoltre da rimarcare il 40% circa di imprese che hanno ridotto il numero dei dipendenti, seb-

bene nella maggior parte dei casi si tratti di “diminuzione moderata”. Il panorama, in breve, vede una lar-

ga prevalenza di zone d’oscurità e non si discosta da quello restituitoci in questi mesi e anni dalle cronache

economiche e dalle periodiche indagini svolte da istituti di ricerca e associazioni di rappresentanza. Tra le

poche “zone di luce”, la tenuta dei livelli di capitalizzazione delle imprese, probabilmente da porre in rela-

zione alla diffusa mobilitazione di risorse proprie immesse nelle imprese negli scorsi anni.

Performance nel periodo 2008-2011 (%)

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Il quadro del 2012 non presenta sostanziali differenze rispetto al triennio precedente. Il saldo tra an-

damenti positivi e negativi è lievemente meno critico, ma è da considerare che per molte imprese la situa-

zione era già peggiorata negli anni precedenti. Non si sono colti i segnali di una qualche inversione di

tendenza e le considerazioni spendibili sui dati illustrati nella tabella sottostante replicherebbero i com-

menti appena esposti.

Performance nel 2012 (%)

Il prospetto che segue, corredato dai saldi tra aumento e diminuzione, fornisce un quadro riepilogativo

della situazione. Scopo della ricognizione, si ribadisce, non era misurare l’impatto della crisi sulle perfor-

mance; in piccolo, comunque, la ricerca conferma su questo terreno quanto purtroppo risaputo.

Performance (%) delle imprese e saldi aumento-diminuzione (2008-2011 e 2012)

Andamento 2008-2011 DIMINUZIONE

%

STABILE

%

AUMENTO

%

SALDO

Ricavi delle vendite 67,4 15,8 16,8 -50,5

Utile 68,7 19,1 12,2 -56,5

Numero dei clienti 34,1 52,5 13,4 -20,7

Numero dei dipendenti 39,7 47,7 12,6 -27,1

Livello degli investimenti 38,4 37,7 23,9 -14,5

Livello dell’indebitamento 12,5 51,3 36,3 23,8

Capitalizzazione 12,2 73,4 14,4 2,2

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Previsione 2012 rispetto al 2011 DIMINUZIONE

%

STABILE

%

AUMENTO

%

SALDO

Ricavi delle vendite 52,9 29,9 17,3 -35,6

Utile 57,3 29,4 13,3 -44,1

Numero dei clienti 25,1 62,4 12,5 -12,5

Numero dei dipendenti 21,9 72,8 5,4 -16,5

Livello degli investimenti 32,8 53,3 13,9 -19,0

Livello dell’indebitamento 11,9 63,5 24,5 12,6

Capitalizzazione 8,9 80,4 10,7 1,8

Preso atto dell’assenza di soluzioni di continuità nel clima economico tra il primo e il secondo tempo

della crisi, emergono differenze nella popolazione colpita? In altre parole, vi sono imprese che nel passag-

gio di fase sono transitate da una condizione all’altra?

Per brevità, si è limitata l’osservazione all’indicatore che, sulla base di verifiche empiriche, influenza

tutti gli altri, ossia i ricavi delle vendite.38

Il confronto tra l’andamento dei ricavi nei due periodi pone in rilievo, soprattutto, elementi di conti-

nuità. Il 78,2% di chi ha accusato un calo nel 2012 aveva ricavi in diminuzione anche nel triennio prece-

dente. Il 35,4% della minoranza che nel 2012 ha incrementato i ricavi, era in crescita anche negli anni

prima. Non mancano, tuttavia, ristrette percentuali di imprese che nel 2012 hanno invertito la rotta, tor-

nando a crescere dopo anni di calo, così come non sono assenti transizioni di segno contrario.

Andamento dei ricavi nel 2012 per andamento dei ricavi 2008-2011 (%)

RICAVI DELLE VENDITE 2012

DIMINUZIONE STABILE AUMENTO TOTALE

RICAVI DELLE VENDITE

2008-2011

DIMINUZIONE 61,8 22,6 15,6 100,0

78,2 51,2 60,4 67,1

STABILE 31,8 63,6 4,5 100,0

9,5 34,1 4,2 15,9

AUMENTO 38,3 25,5 36,2 100,0

12,2 14,6 35,4 17,0

Totale 53,1 29,6 17,3 100,0

100,0 100,0 100,0 100,0

Chi ha peggiorato e chi ha migliorato i ricavi nel 2012, rispetto al periodo precedente? Osservando i

saldi aumento-diminuzione dei ricavi, si evince che il 2012 sia stato un anno assai negativo soprattutto per

le imprese del ramo alimentare, del tessile, degli arredi e delle altre attività rientranti nel made in Italy,

nonché per le altre industrie, tutto sommato di tenuta per la metalmeccanica. La dimensione delle imprese

incide in misura evidente sui saldi aumento-diminuzione (d’ora innanzi, semplicemente saldi), in chiave

38 È questo l’esito di un’analisi di classificazione ad albero compiuta sulle sette variabili considerate. Confronta nota

tecnica in allegato.

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sfavorevole alle imprese più piccole. Le aziende specializzate nella produzione “su commessa” hanno tenu-

to molto più di quelle detentrici del marchio e delle lavorazioni in conto terzi. Il dato è in forte relazione

con le differenze rilevabili tra imprese che riforniscono clienti business e quelle che vendono i prodotti sul

mercato finale, a sfavore delle seconde. Le imprese con maggiore proiezione esterna (non necessariamente

internazionale) esprimono un saldo aumento-diminuzione largamente migliore di quelle a base locale.

In breve, nel quadro di una prevalenza di andamenti in continuità con gli anni precedenti, il 2012 ha

colpito soprattutto le imprese maggiormente orientate al mercato domestico, dato che emerge dall’analisi

per settore, per raggio di mercato, per tipo di cliente, per modalità di commercializzazione.

Andamento dei ricavi delle vendite nel 2012, per alcune caratteristiche delle imprese

% % %

Settore DIMINUZIONE STABILE CRESCITA SALDO

Metalmeccanica/Macchine 28,2 46,8 25,0 -3,2

Manifatture Leggere/Made in Italy 51,9 40,4 7,7 -44,2

Altre industrie 44,8 41,4 13,8 -31,0

Dimensioni DIMINUZIONE STABILE CRESCITA SALDO

da 5 a 9 addetti 56,3 26,6 17,2 -39,1

da 10 a 19 addetti 33,0 48,4 18,7 -14,3

da 20 a 50 addetti 28,3 51,1 20,7 -7,6

Modalità di produzione e commercializzazione DIMINUZIONE STABILE CRESCITA SALDO

Marchio proprio 45,5 37,4 17,2 -28,3

Componenti su commessa 27,6 49,4 23,0 -4,6

Lavorazioni in conto terzi 40,8 46,1 13,2 -27,6

Mercato di riferimento DIMINUZIONE STABILE CRESCITA SALDO

Mercato finale 47,8 42,0 10,1 -37,7

Altre imprese 34,9 44,3 20,8 -14,1

Raggio di mercato DIMINUZIONE STABILE CRESCITA SALDO

Locale 47,1 40,5 12,4 -34,7

Esterno 30,1 50,5 19,4 -10,8

Mutamento della clientela DIMINUZIONE STABILE CRESCITA SALDO

Ha perso e ha acquisito clienti importanti 34,9 33,3 31,7 -3,2

Ha perso e non ha acquisito clienti importanti 66,7 30,3 3,0 -63,6

Ha acquisito e non ha perso clienti importanti 20,0 60,0 20,0 0,0

Non ha perso e non ha acquisito clienti importanti 26,0 58,0 16,0 -10,0

Una conferma esplicita proviene dal confronto delle performance nel medio periodo e nel 2012 tra

imprese B2B e imprese che vendono sul mercato consumer. Se nel triennio precedente, i saldi relativi ai

ricavi, all’utile, al numero di clienti e anche dei dipendenti, non proponeva significative difformità, quelli

del 2012 pongono in risalto una evidente divaricazione tra le imprese subfornitrici e quelle operanti sul

mercato finale, con le seconde che accusano un forte ritardo dalle prime – che certamente non godono di

buona salute.

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67

Andamento imprese subfornitrici e operanti sul mercato finale (2008-2011 e 2012)

% % %

Andamento 2008-2011 DIMINUZIONE STABILE AUMENTO SALDO SALDO TOT

Ricavi delle vendite Mercato Finale 69,4 11,1 19,4 -50,00

-50,5 Altre imprese 66,8 17,6 15,6 -51,22

Utile Mercato Finale 68,1 19,4 12,5 -55,56

-56,5 Altre imprese 69,1 19,1 11,8 -57,35

Numero dei clienti Mercato Finale 36,6 49,3 14,1 -22,54

-20,7 Altre imprese 33,5 54,2 12,3 -21,18

Numero dei dipendenti Mercato Finale 40,3 51,4 8,3 -31,94

-27,1 Altre imprese 39,4 46,8 13,8 -25,62

Andamento 2012 (rispetto al 2011) DIMINUZIONE STABILE AUMENTO SALDO SALDO TOT

Ricavi delle vendite Mercato Finale 61,6 26,0 12,3 -49,32

-35,6 Altre imprese 49,3 31,5 19,2 -30,05

Utile Mercato Finale 61,6 28,8 9,6 -52,05

-44,1 Altre imprese 55,4 29,9 14,7 -40,69

Numero dei clienti Mercato Finale 32,9 64,4 2,7 -30,14

-12,5 Altre imprese 18,1 75,5 6,4 -11,76

Numero dei dipendenti Mercato Finale 32,9 64,4 2,7 -30,14 -16,5

Al fine di verificare l’esistenza e l’intensità dell’associazione tra le performance e le diverse variabili at-

tinenti alla struttura dell’impresa, alle caratteristiche personali dell’imprenditore, alla struttura del mercato

e dell’occupazione, nonché alle azioni materialmente intraprese negli ultimi anni descrivibili in termini

d’innovazione (Capitolo 4), sono stati costruiti due indici sintetici di performance, successivamente stan-

dardizzati e normalizzati in modo da variare tra un valore minimo pari a zero e un valore massimo pari a

uno: 39

• il primo, denominato indice di performance 2008-2011, relativo al primo periodo (in caso di indica-

zione di stabilità per tutti gli indicatori, valore indice=0,550)

• il secondo denominato indice di performance 2012, relativo all’andamento nell’ultimo anno (in caso

di indicazione di stabilità per tutti gli indicatori, valore indice=0,550)

In considerazione dell’elevata correlazione tra i due indici, si è proceduto alla creazione di un terzo in-

dice, denominato indice di performance generale (valore relativo a stabilità=0,550). L’indice di performance

generale è stato quindi posto in relazione con una serie di variabili relative alle caratteristiche dell’impresa,

dell’imprenditore, del mercato, del personale, e via di seguito. Di seguito sono riportate le associazioni si-

gnificative tra indice e variabili considerate (non sono viceversa riportate le variabili senza associazione si-

gnificativa).

39 Per consultare le modalità di costruzione dell’indice confronta nota tecnica allegata.

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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Indice Performance Generale per alcune caratteristiche dell’impresa (Valore medio = 0,422)

Settore

Metalmeccanica/Mezzi di trasporto 0,426

Alimentari e bevande 0,477

Chimica gomma plastica 0,455

Made in Italy 0,381

Altre manifatture 0,384

Addetti

da 5 a 9 addetti 0,352

da 10 a 19 addetti 0,428

da 20 a 50 addetti 0,482

Titolo di studio

Scuola dell’obbligo 0,363

Diploma professionale 0,412

Diploma scuola media superiore 0,438

Laurea (anche lauree triennali) e titoli post-laurea 0,449

Cluster raggio mercato

Locale 0,388

Esterno 0,463

Quota Export in classi

Meno del 5% sul fatturato 0,383

Tra il 5% e il 25% del fatturato 0,456

Oltre il 25% sul fatturato 0,480

Rapporto Operai/Non operai

Rapporto inferiore o pari a 1 0,469

Rapporto compreso tra 1 e 3 0,422

Rapporto superiore a 3 0,395

Innovazione prodotto

No 0,392

Sì 0,469

Innovazione tecnologica

No 0,401

Sì 0,470

Investimenti servizi specialistici (area Prodotto)

No 0,397

Sì 0,481

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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Il dato evidenzia, tra gli altri, tre aspetti importanti, su cui si richiama l’attenzione.

Le variabili individuate differenziano notevolmente le performance così misurate, ma in nessun caso

l’indice raggiunge il valore corrispondente ad un andamento all’insegna della stabilità, restando sempre al

di sotto della soglia corrispondente. Né l’internazionalizzazione, né l’innovazione, né la maggiore struttu-

razione, dunque, in sé assicurano performance in crescita.

Non solo le caratteristiche dimensionali e settoriali (tra cui si distinguono in positivo le imprese del

ramo alimentare) sono associate significativamente alla performance, ma anche quelle personali del titola-

re – non è però l’età a fare la differenza, quanto il livello d’istruzione.

Dove c’è innovazione (e soprattutto innovazione legata al prodotto, alle sue caratteristiche tecniche e

ai suoi contenuti progettuali) le performance salgono, soprattutto se le imprese hanno all’interno personale

che presidia i processi di cambiamento, di sviluppo tecnico-progettuale, di servizi qualificati.

Le relazioni individuate tra performance e variabili strutturali e qualitative forniscono indubbiamente

indicazioni d’interesse, che non sono però da enfatizzare. Alcune semplici analisi contro fattuali, che per

brevità non si riportano, hanno mostrato che diverse tra le imprese esportatrici hanno un indice di per-

formance inferiore alla media, così come più imprese che negli scorsi anni hanno rinnovato i loro prodotti.

Per converso, imprese non esportatrici hanno un indice di performance apprezzabile, visto il contesto, così

come diverse aziende rientranti nella classe dimensionale minore.

5.2 La reazione alla crisi

Come hanno reagito gli imprenditori alla situazione di crisi che, come suesposto, li colpisce quasi tutti,

sia pure con intensità differenti?

Agli intervistati è stato proposto un elenco di possibili azioni, integrabile con eventuali aggiunte (non

emerse), chiedendo di indicare quelle poste in atto, potendo fornire un massimo di tre risposte. Le analisi

di seguito fornite non si riferiscono pertanto all’insieme delle iniziative intraprese dall’imprenditore (che

potrebbero facilmente superare il numero di tre, tra quelle proposte), ma a quelle cui egli attribuisce mag-

giore importanza.

Prima di entrare nel merito, è bene osservare che non emergere un profilo reattivo modale. Le risposte

infatti sono relativamente disperse nei vari item. Le azioni più frequentemente intraprese rinviano alla ri-

duzione dei costi perseguita attraverso riorganizzazioni interne (33,1%), del personale (21%) o mediante la

sospensione o dilazione degli investimenti (13,5%). Il 31%, in questi anni, ha fatto ricorso agli ammortizzato-

ri sociali, ordinari e in deroga – dato che conferma il peso ricoperto dalla CIG nel preservare almeno in

parte i livelli occupazionale e il capitale umano a disposizione delle aziende. Una percentuale appena infe-

riore ha dichiarato di avere potenziato i canali di ricerca clienti; la risposta commerciale costituisce forse la

modalità di reazione più diffusa, per quanto non sia da trascurare il 12,8% che ha indicato il rilancio degli

investimenti e il 14,6% che ha fatto riferimento all’innovazione dei prodotti.

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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Iniziative adottate per fronteggiare la situazione di crisi (% sul totale dei casi)

Ridotto i costi con riorganizzazioni interne 33,1

Ridotto il personale (licenziamenti, blocco turn over) 21,0

Sospeso o ridotto gli investimenti 13,5

Nuovi investimenti per rilanciare l'impresa 12,8

Ridotto i prezzi di vendita 22,8

Modificato la rete o i canali distributivi 5,7

Richiesto credito per l’attività ordinaria/Ristrutturato debito 6,8

Utilizzato ammortizzatori sociali 31,0

Apporto nuovo capitale 6,8

Cercato nuovi soci per l’impresa/Collaborazione con altre imprese 1,1

Cercato nuovi clienti in altri settori e altri territori 30,6

Rinnovato/Migliorato i prodotti 14,6

Nessuna iniziativa intrapresa 6,0

Le iniziative di reazione alla crisi sono state oggetto di un’analisi di somiglianza (cluster analysis), fina-

lizzata a ripartire le imprese in gruppi tipologici, caratterizzati da omogeneità di comportamento al loro

interno e da eterogeneità nel confronto tra essi. Al fine di ottenere – secondo le ipotesi formulate in sede

di prima analisi dei dati – una distribuzione tra imprese caratterizzate da reazioni descrivibili in termini di

adattamento al contesto di crisi e imprese proattive e orientate al cambiamento, sono stati stabiliti un nu-

mero prefissato di gruppi.40 L’analisi ha consentito di individuare due gruppi tipologici con caratteristiche

relativamente omogenee, che sono stati definiti Adattamento (Cluster 1) e Cambiamento (Cluster 2).

Diffusione azioni intraprese (0=nessuna impresa, 1=tutte le imprese) per gruppo tipologico e totale

GRUPPO TIPOLOGICO

IMPRESE

TOTALI

IMPRESE

CLUSTER

ADATTAMENTO

IMPRESE

CLUSTER

CAMBIAMENTO

Ridotto i costi con riorganizzazioni interne 0,42 0,19 0,33

Ridotto il personale (licenziamenti, blocco turn over) 0,31 0,05 0,21

Sospeso o ridotto gli investimenti 0,21 0,02 0,14

Nuovi investimenti per rilanciare l'impresa 0,03 0,29 0,13

Ridotto i prezzi di vendita 0,32 0,08 0,23

Modificato la rete o i canali distributivi 0,01 0,14 0,06

Richiesto credito per attività ordinaria 0,09 0,04 0,07

Utilizzato ammortizzatori sociali 0,49 0,02 0,31

Apporto nuovo capitale 0,10 0,01 0,07

Cercato nuovi soci /collaborazione con altre imprese 0,01 0,02 0,01

40 Metodo non gerarchico, numero di gruppi prefissato = 2. Per l’approfondimento si rinvia alla Nota Tecnica prodot-

ta in allegato.

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

71

Cercato nuovi clienti in altri settori e altri territori 0,27 0,37 0,31

Rinnovato/migliorato i prodotti 0,03 0,33 0,15

Nessuna iniziativa intrapresa 0,00 0,16 0,06

Nel primo cluster sono raggruppate le seguenti iniziative, tra loro associate:

• riduzione costi con riorganizzazioni interne

• riduzione del personale

• riduzione o sospensione degli investimenti

• riduzione dei prezzi di vendita

• utilizzo degli ammortizzatori sociali

E ancora, ma con minore “distanza” rispetto al secondo gruppo:

• richiesta di credito per sostenere l’attività ordinaria

• apporto di nuovo capitale personale.

Nell’insieme, queste modalità forniscono le coordinate identificative di forme di adattamento e talvolta

di mera sopravvivenza, che pongono al centro il contenimento della spesa e il ridimensionamento del

capitale tecnologico e umano, che può accompagnarsi anche a una moderazione dei prezzi di vendita, 41

nonché al frequente ricorso agli ammortizzatori sociali o, in casi più rari, alla richiesta di credito

finalizzata non a sviluppare gli investimenti ma a sostenere l’attività ordinaria. Rientra in questo gruppo

tipologico il 61,6% delle imprese esaminate.

Nel secondo cluster si associano le seguenti iniziative:

• nuovi investimenti per rilanciare l’impresa

• rinnovamento o innovazione del prodotto

• cambiamento della rete distributiva

E, ma con minore “distanza” rispetto al primo gruppo:

• ricerca di nuovi clienti

Fanno parte del secondo cluster, inoltre, tutte le imprese che hanno dichiarato di non avere intrapreso

alcuna iniziativa. In breve, il secondo gruppo tipologico associa le iniziative di reazione allo stato di crisi

improntate al cambiamento, perseguito tramite nuovi investimenti, il rinnovamento dei prodotti o (per

quanto riguarda le imprese che vendono sul mercato finale) della rete distributiva, oltre che da un più fre-

quente orientamento al mercato che si traduce nella ricerca di nuovi clienti – ma su questo punto le diffe-

renze tra i due gruppi sono contenute. Rientra in questo gruppo tipologico il 38,4% delle imprese esami-

nate.

41 Ovviamente il contenimento dei prezzi di vendita è alla base di qualsiasi strategia di mercato e costituisce obiettivo

primario di ogni impresa, a fronte dei vantaggi recuperati sul versante dell’efficienza e della produttività. In molti casi,

in questi anni, le imprese hanno tuttavia ridotto i prezzi di vendita al solo scopo di stimolare la domanda, oppure di

mantenere i clienti a fronte dell’ingresso di nuovi competitor, o ancora per proporsi a nuovi clienti, senza effettivi in-

crementi di produttività.

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

72

L’appartenenza delle imprese ad uno piuttosto che all’altro gruppo appare poco correlata a

caratteristiche strutturali o del mercato. A discriminare sono qui le pratiche e le scelte concrete, che non

discendono necessariamente da caratteristiche strutturali. A titolo esemplificativo, la “taglia” delle aziende

o il loro grado d’internazionalizzazione risulta poco significativo nella distribuzione tra i due cluster. Sono

viceversa esplicite le relazioni con le performance realizzate nei due periodi esaminati, con le imprese del

cluster adattamento molto più frequentemente sul versante della diminuzione, quelle del cluster

cambiamento più frequentemente presenti nel gruppo con andamenti stabili o in crescita. Ovviamente si

parla di associazioni significative, ma occorre tenere conto della estrema variabilità delle situazioni. Per

esemplificare il concetto, basti osservare che il 31% circa delle imprese rientranti nel cluster cambiamento,

nel 2012 ha avuto performance economiche in calo (per il 47% si è registrato però un aumento).

5.3 Relazioni tra performance e caratteristiche dell’impresa, del mercato, delle iniziative intraprese

Nei paragrafi precedenti si sono illustrate le relazioni rilevate tra performance delle imprese (termine

sintetico che incorpora i significati, secondo i casi, di sviluppo, maggiore tenuta, ecc.) e alcune variabili

come le caratteristiche settoriali e dimensionali, struttura del mercato e dell’occupazione, presenza di inve-

stimenti in innovazione, e via di seguito. La presenza o assenza di associazioni statisticamente significative

e di correlazioni tra la performance e le variabili di confronto, utile per disegnare il profilo delle aziende

che più hanno sofferto, ovvero che meglio hanno retto, l’impatto della crisi, non stabilisce in sé rapporti di

causalità, né offre una “misura” della probabilità di influenzare l’andamento economico delle imprese stes-

se. Al fine di osservare più in profondità l’impatto delle diverse dimensioni analitiche indagate sulla per-

formance delle imprese, misurata nei termini descritti nel paragrafo 5.1, si è ricorso ad alcuni semplici

modelli di regressione lineare.42

L’analisi si è posta dunque l’obiettivo di esplorare i fattori predittivi delle performance. A questo sco-

po, in base alle indicazioni raccolte nelle precedenti sessioni di analisi, si sono individuati i seguenti le se-

guenti variabili indipendenti come possibili predittori:

• la dimensione dell’impresa (numero addetti)

• il settore di attività (in virtù della numerosità del gruppo, nella dummy si è attribuito valore 1 alle

imprese metalmeccaniche, 0 alle altre imprese);

• il tipo di produzione (si è attribuito valore 1 alle imprese che operano con un proprio marchio, 0 alle

altre);

• la quota di fatturato realizzata tramite esportazioni;

• la quota di fatturato realizzata sul territorio locale;

• lo score relativo alla presenza di relazioni cooperative e d’integrazione con le imprese committenti;

• lo score relativo alla presenza di un peggioramento qualitativo (svalorizzazione) delle relazioni con

le imprese committenti;

• l’incidenza dei “colletti bianchi” sul totale degli addetti impiegati;

42 Per approfondimenti si rinvia alla Nota Tecnica allegata.

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

73

• l’introduzione di innovazioni relative al prodotto nei quattro anni antecedenti l’indagine;

• l’introduzione di innovazioni tecnologiche nei quattro anni antecedenti l’indagine;

• l’introduzione di innovazioni organizzative nei quattro anni antecedenti l’indagine;

• la presenza di investimenti in servizi specialistici di R&D, design o progettazione avanzata (inve-

stimenti terziari area prodotto);

• la presenza di investimenti in servizi specialistici di marketing e comunicazione (investimenti ter-

ziari area mercato);

• infine, il gruppo tipologico di appartenenza nell’analisi di cluster relativa al tipo di reazione alla cri-

si, illustrata nel paragrafo precedente (nella dummy si è attribuito valore 1 al cluster cambiamento, 0

al cluster adattamento).

Queste variabili sono state poste in relazione con l’indice di performance generale, con quello relativo

al periodo 2008-2011 e infine con l’indice calcolato in base all’andamento nel 2012. L’analisi è stata suc-

cessivamente replicata in base alla sola popolazione di imprese con più di quindici addetti, e a quella delle

imprese di dimensione comprese tra i cinque e i quindici addetti, nell’ipotesi che la struttura dimensionale

possa modificare significativamente i fattori predittivi della performance medesima.

I fattori esplicativi risultati significativi nel modello con variabile dipendente l’indice di performance

generale (basato cioè sulla somma delle performance nei due periodi in esame, il 2008-2011 e il 2012),

sono illustrati nella tabella successiva. Il modello spiega complessivamente il 31,6% della varianza

dell’indice di performance ed evidenzia che i fattori predittivi che incidono in misura più rilevante sulle

variazioni dell’indice di performance sono, nell’ordine, l’appartenenza al cluster cambiamento (che, si

rammenta, è associato a iniziative di reazione alla crisi fondate su innovazione dei prodotti, nuovi investi-

menti, cambiamento dei canali distributivi e in misura meno influente dal dinamismo commerciale), la

presenza di un buon grado d’integrazione con i maggiori clienti (trasparenza, co-progettazione, trasferi-

mento tecnologico e conoscitivo), le dimensioni aziendali e infine una struttura occupazionale meno sbi-

lanciata sulle sole attività manifacturing, con la presenza in azienda di una quota più elevata di “colletti

bianchi” (tecnici specialisti, quadri, impiegati).

Fattori esplicativi della variabilità dell’indice di performance generale

COEFFICIENTE

DI REGRESSIONE

STANDARDIZZATO

SIGNIFICATIVITÀ

Cluster cambiamento (appartenenza) 0,402 0,000

Grado Integrazione con imprese committenti 0,218 0,005

Numero addetti 0,212 0,006

Percentuale di “colletti bianchi” 0,148 0,056

Metodo di selezione: Backward. R-quadrato= 31,6%

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

74

L’analisi è stata replicata escludendo dal modello il fattore maggiormente esplicativo, ossia

l’appartenenza al cluster cambiamento. La varianza complessivamente spiegata, in questo caso, scende al

21,2%, ma alcuni dei fattori esclusi nella prima analisi entrano in gioco, mentre risulta confermata la rile-

vanza esplicativa delle dimensioni aziendali e della composizione professionale degli occupati.

L’innovazione tecnologica, in primo luogo, quindi la maggiore presenza sui mercati esteri, mentre la pre-

senza di cambiamenti organizzativi risulta incidere negativamente sulla performance.

Fattori esplicativi della variabilità dell’indice di performance generale

COEFFICIENTE

DI REGRESSIONE

STANDARDIZZATO

SIGNIFICATIVITÀ

Introduzione innovazioni tecnologiche 0,231 0,006

Numero addetti 0,200 0,029

% export su totale fatturato 0,181 0,041

Introduzione cambiamenti organizzativi -0,189 0,029

% di “colletti bianchi” 0,185 0,028

Metodo di selezione: Backward. R-quadrato= 21,2%

L’analisi sopra presentata ha fornito alcuni elementi esplicativi dell’andamento delle imprese industria-

li riferiti a tutto il periodo in esame, senza distinguere tra performance di medio periodo e relative

all’ultimo anno. L’elevata correlazione, prima richiamata, tra le performance del triennio 2008-2011 e

quelle del 2012, legittima la scelta di considerare la stagione apertasi nel 2008 come una fase economica

unitaria, segnata dall’affermarsi di uno scenario economico globale di crisi. Tale rappresentazione, tuttavi-

a, rischia di non intercettare alcuni “passaggi di fase”; i fattori sistemici di criticità emersi a partire dal

2011, lo si è già detto, si discostano almeno in parte da quelli manifestatisi all’indomani della gelata dei

mercati finanziari del 2008.

Si è pertanto proceduto, come sopra esposto, a verificare se tra i fattori esplicativi delle performance

aziendali, tra la “prima fase” (il primo tempo della crisi) e il periodo più recente (il secondo tempo, ancora

in corso) fossero intervenuti dei cambiamenti.

Fattori esplicativi delle performance nel periodo 2008-2011

Le medesime variabili esplicative sono state utilizzate come fattori predittivi dell’indice di performance

calcolato in base all’andamento manifestato nella prima fase della crisi (Indice Performance 08-11). La

varianza della performance spiegata dal modello di regressione, si osserva anzitutto, risulta sensibilmente

più elevata (40,3% contro 31,6%). In altre parole, i fattori individuati spiegano con maggiore forza, nei

limiti stabiliti dal contesto esplorativo della ricognizione, le variazioni di performance tra imprese nel pe-

riodo 2008-2011 di quanto non facciano in generale, e quindi nella nuova fase apertasi nel 2011-2012.

Il fattore più importante rimane l’appartenenza al cluster cambiamento, mentre trova conferma la rile-

vanza delle dimensioni aziendali e quella relativa all’incidenza, nelle imprese, di lavoratori qualificati non

operai (“colletti bianchi”). Influenza positivamente l’indice di performance anche l’orientamento

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

75

all’innovazione tecnologica, mentre incide in negativo la presenza di cambiamenti organizzativi. Al fine di

non generare equivoci nell’interpretazione di questo dato, è utile ricordare con cambiamento organizzativo

ci si riferisce, nel nostro caso, a scelte operate in chiave di insourcing/outsourcing di parti del ciclo produtti-

vo, piuttosto che a interventi di razionalizzazione in senso stretto. È probabile che l’incidenza negativa

sulla performance derivi da uno stretto rapporto di causa-effetto, in molte aziende, tra situazione di crisi e

interventi organizzativi volti al recupero d’efficienza o al contenimento dei costi, i quali tuttavia non si sa-

rebbero tradotti in una crescita dei volumi produttivi o della redditività. Si tratta di una congettura, tutta-

via piuttosto verosimile.

Fattori esplicativi della variabilità dell’indice di performance 2008-2011

COEFFICIENTE DI

REGRESSIONE

STANDARDIZZATO

SIGNIFICATIVITÀ

Cluster cambiamento 0,363 0,000

Numero addetti 0,283 0,000

Introduzione innovazioni tecnologiche 0,269 0,000

Introduzione cambiamenti organizzativi -0,189 0,014

% di “colletti bianchi” 0,154 0,033

Metodo di selezione: Backward. R-quadrato= 40,3,%

Fattori esplicativi delle performance nel 2012

Si passi ora a considerare l’indice di performance del 2012, in relazione allo stesso kit di potenziali fat-

tori esplicativi. Il modello, è da osservare, “perde forza”: la variabilità dell’indice di performance spiegata

dalla combinazione degli indicatori prescelti, infatti, scende al 16,8%. In altre parole, la crisi sembra essere

entrata in una fase diversa, dove appaiono meno evidenti i fattori, sia relativi alla struttura aziendale sia al

contesto economico, che possono condizionare in un senso o nell’altro l’andamento delle imprese. Ne

consegue che le stesse contromisure appaiono più incerte. L’analisi evidenzia comunque alcuni scostamen-

ti rispetto ai fattori esplicativi della performance riferiti al periodo precedente. Resta rilevante

l’appartenenza al cluster cambiamento, ma viene meno la forza esplicativa delle dimensioni aziendali e il

ruolo dell’innovazione tecnologica, mentre acquistano una relativa capacità esplicativa il settore (essere

un’impresa del ramo metalmeccanico incrementa la probabilità di avere una performance comparativa-

mente migliore o meno negativa), la presenza sui mercati esteri e di relazioni cooperative e d’integrazione

con le imprese committenti. Nella cornice di un’accresciuta casualità, la nuova fase sembra “premiare”, in

altre parole, le imprese in qualche modo più agganciate alla domanda internazionale – o attraverso la pre-

senza diretta nei mercati esteri, o grazie a un più solido inserimento in filiere le cui “teste” (imprese capo-

fila) sono presumibilmente fortemente proiettate sui mercati esteri.

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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Fattori esplicativi della variabilità dell’indice di performance 2012

COEFFICIENTE DI

REGRESSIONE

STANDARDIZZATO

SIGNIFICATIVITÀ

Cluster cambiamento 0,265 0,002

% export su totale fatturato 0,187 0,030

Settore 0,169 0,046

Grado integrazione con imprese committenti 0,152 0,077

Metodo di selezione: Backward. R-quadrato= 16,8%

Fattori esplicativi della performance in base alle dimensioni

In virtù della rilevanza normalmente attribuita al fattore dimensionale, parzialmente confermata (sep-

pure in modo non così discriminante) anche da questa ricognizione esplorativa, si è ritenuto utile replicare

l’analisi distinguendo tra imprese “minori” (che impiegano fino a 15 addetti) e “maggiori” (oltre i 15 ad-

detti). Il modello è risultato poco esplicativo delle variazioni di performance tra le prime (varianza spiegata

15,0%), decisamente più “forte” tra le seconde (varianza spiegata 36,4%). Tra le imprese di minori dimen-

sioni sono emersi, come predittori significativi della performance, il grado d’integrazione con i maggiori

clienti, le dimensioni aziendali e, nuovamente, l’incidenza di “colletti bianchi” sul totale degli occupati.

Fattori esplicativi della variabilità dell’indice di performance generale (imprese fino a 15 addetti)

COEFFICIENTE DI

REGRESSIONE

STANDARDIZZATO

SIGNIFICATIVITÀ

Grado integrazione con imprese committenti 0,289 0,020

Numero addetti 0,250 0,051

% di “colletti bianchi” 0,217 0,088

Metodo di selezione: Backward. R-quadrato= 15,0%

Del tutto differente il quadro tra le imprese maggiori (oltre i 15 addetti), dove si individua un vasto

numero di fattori esplicativi, che agiscono sia in senso positivo sia negativo. Tra i primi, assumono parti-

colare rilevanza la presenza di investimenti in servizi specialistici nell’area legata al prodotto (in altre paro-

le, R&D, design e progettazione avanzata) e l’innovazione dei processi produttivi collegati alle nuove tec-

nologie. Incidono sulla performance, anche in questo caso, l’incidenza di personale qualificato sganciato

dalla produzione diretta (“colletti bianchi”) e la presenza sui mercati esteri. Ci troviamo, in base a queste

risultanze, in un campo dove fanno premio le linee guida da tempo condivise e socializzate per la compe-

titività del nostro sistema manifatturiero: gli investimenti in conoscenza e tecnologia e la proiezione sui

mercati internazionali. È utile considerare che tra le “under 15” le indicazioni non convergevano intorno a

questo profilo, laddove la performance appariva in più stretta relazione con la qualità delle relazioni inter-

impresa. È importante, nel dare conferma alla rilevanza degli investimenti tecnologici e cognitivi, e alla

spinta verso i mercati esteri, situare questi mot d’ordre nelle differenza strutturali tra imprese. La nozione

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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di piccola impresa industriale, in breve, delinea probabilmente un campo internamente assai più articolato

di quanto non sia normalmente rappresentato. Rimane piuttosto da interrogarsi sulla presenza, tra i fattori

esplicativi che agiscono però in senso negativo, degli investimenti in servizi specialistici legati al marketing

e alla comunicazione e della modalità di produzione e commercializzazione, in apparenza svantaggiosa per

le imprese con un proprio catalogo e marchio – che in tutte le analisi compiute in precedenza compariva

piuttosto come punto di forza. Una spiegazione parziale è del tutto intuitiva, nonché suffragata da verifica

empirica; si tratta di aziende che (assai più delle altre) si rivolgono a un mercato consumer particolarmente

depresso, poiché composto in larga parte dal mercato domestico. Non sono in tutta evidenza gli investi-

menti in comunicazione né la titolarità di un marchio a costituire fattore critico (anzi!), ma il fatto che

queste prerogative si ritrovino molto più frequentemente, appunto, nelle aziende che vendono direttamen-

te alle famiglie – che oggi risultano molto più in difficoltà, almeno per quanto riguarda alcuni profili mer-

ceologici, di quelle che, grazie al legame con i clienti business, accedono direttamente o indirettamente

alla domanda estera.

Fattori esplicativi della variabilità dell’indice di performance generale (imprese fino a 15 addetti)

COEFFICIENTE DI

REGRESSIONE

STANDARDIZZATO

SIGNIFICATIVITÀ

Investimenti servizi specialistici_area prodotto 0,315 0,018

Investimenti servizi specialistici_area mercato -0,320 0,014

Introduzione innovazioni tecnologiche 0,311 0,009

Introduzione innovazioni organizzative -0,283 0,017

Ha un proprio marchio -0,246 0,042

% di “colletti bianchi” 0,217 0,068

% export su totale fatturato 0,209 0,090

Metodo di selezione: Backward. R-quadrato= 36,4%

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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HIGHLIGHTS

• Le performance economiche realizzate tra il 2008 e il 2012, coerentemente al quadro complessivo,

sono state fortemente negative. Solo una piccola minoranza (10-15%) ha avuto ricavi in crescita. Il

confronto tra l’andamento nella prima fase della crisi (2008-2011) e quello del 2012 propone so-

prattutto elementi di continuità, ma anche alcuni cambiamenti, a svantaggio delle imprese che di-

pendono maggiormente dal mercato domestico, soprattutto da quello locale.

• Reggono meglio l’impatto della crisi, pure nel quadro di performance negative, le imprese che

hanno investito in innovazione di prodotto, in tecnologie, in servizi specialistici, che hanno una

maggiore proiezione sui mercati extra-locali, maggiori dimensioni e una struttura occupazionale

con superiore presenza di “colletti bianchi”. A livello settoriale il ramo alimentari mostra perfor-

mance comparativamente migliori.

• Le iniziative adottate dagli imprenditori per fronteggiare la situazione di crisi evidenziano la giu-

stapposizione di due gruppi: il primo, maggioritario (62%) caratterizzato dalla prevalenza di strate-

gie di adattamento basate principalmente sulla riduzione dei costi e sul sostegno pubblico, il secon-

do (38%) con logiche più orientate al cambiamento, particolarmente nell’area prodotto e nel poten-

ziamento dell’attività commerciale. I gruppi non sono a reciproca esclusione, poiché le imprese

combinano quasi sempre adattamento e cambiamento, ma le imprese del secondo cluster, nel com-

plesso, esprimono più frequentemente una migliore tenuta delle performance.

• Tra i fattori che concorrono a determinare la variazione della performance non compaiono solo la

struttura dimensionale e l’internazionalizzazione. Solo nel 2012 inoltre, si osserva un impatto di-

retto del settore merceologico di appartenenza (con le imprese metalmeccaniche che si comportano

meglio). Il predittore più significativo della variabilità delle performance è legato piuttosto alle

“pratiche”; le imprese che hanno investito in innovazione, intesa nelle sue molteplici accezioni, so-

no nel complesso “andate meglio” (per quanto non siano assenti anche indicazioni in controten-

denza rispetto a tale trend). Due fattori esplicativi rivelatisi significativi, inoltre, sono la quota di

“colletti bianchi” presente nelle imprese e la qualità delle relazioni con i maggiori clienti/fornitori,

che premia le aziende inserite in filiere caratterizzate da rapporti collaborativi e di scambio cono-

scitivo e tecnologico tra capofila e fornitori. Questo fattore assume particolare rilevanza per le im-

prese di minori dimensioni.  

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

79

Osservazioni conclusive

Considerati i limiti di ampiezza e rappresentatività del campione e tenuto conto degli inevitabili pro-

cessi di autoselezione di ogni rilevazione diretta, l’indagine offre differenti spunti degni di ulteriori appro-

fondimenti. In primo luogo, ma davvero non ce n’era bisogno, si ha una conferma di ciò che indagini e

statistiche ufficiali hanno da tempo posto in luce; la crisi per gran parte delle imprese esaminate ha avuto

un impatto significativo. Se una parziale ripresa, dopo la gelata del 2009, aveva coinvolto il sistema mani-

fatturiero della provincia di Torino, a partire dal 2011 il clima è tornato a peggiorare; il combinarsi di più

fattori negativi – l’indebitamento e le politiche di austerity, i differenziali di rendimento dei titoli pubblici

che hanno reso a lungo molto più costoso l’approvvigionamento di capitali, ma soprattutto

l’imprigionamento di liquidità nei circuiti della valorizzazione finanziaria e la crisi verticale del mercato

domestico – ha generato l’effetto di ridurre la domanda e procrastinare ulteriormente i tempi di un rilan-

cio del quale non s’intravede oggi indizio.

Nel contempo gli esiti dell’indagine, che vanno situati nel quadro descritto e acquisiti con prudente

sobrietà, suggeriscono che il mondo delle piccole imprese industriali è tutt’altro che inerte e imprigionato

in un limbo di attendismo fatalista – o di attesa passiva di soluzioni dall’alto che le trainino fuori dalla crisi

o contribuiscano a lenirne gli effetti. I dati raccolti autorizzano un registro che “relativizzi l’olocausto” a

favore di un approccio che, senza negare le criticità della fase e i pesanti vincoli sulle possibilità di rilancio

delle piccole imprese, ne assuma nel contempo gli sforzi di riposizionamento e le traiettorie di cambia-

mento intraprese. Coperti dalle grida sui drammi (non solo economici, vale la pena ricordare, anche se in

questa sede è di questo che ci si occupa) della crisi, ci sono anche i sussurri del cambiamento. L’insistenza

riposta su questo termine, naturalmente, non può esimersi da considerare l’eterogeneità delle sorgenti e

dei fattori che lo spingono. Non sempre le imprese governano le trasformazioni di cui pure sono spesso

protagoniste. Esistono innovazioni auto dirette ed etero dirette, cambiamenti proattivi e “must”, obbligati,

i cui effetti non sono il rinnovamento delle fonti del vantaggio competitivo ma l’adeguamento alle mutate

condizioni ambientali, e alla conseguente ridefinizione del chip di partecipazione al gioco. L’indagine non

consente di entrare nel merito di questi processi e stabilire (quantificare) in quanti casi ci troviamo in una

o nell’altra situazione, né di cogliere l’intreccio tra crisi e innovazione che pure si intuisce tra i numeri. Le

indicazioni conclusive appaiono in ogni caso coerenti con quanto rilevato da analoghe rilevazioni, che re-

gistravano tra le PMI piemontesi nella crisi “un buon livello di attivismo sotto il profilo dell’innovazione e del-

la capacità reattiva […]sul fronte di una vasta gamma di innovazioni nei prodotti, processi produttivi,

nell’organizzazione nei mercati di riferimento”.43

In secondo luogo, l’indagine conferma una delle ipotesi di partenza: nella crisi sta mutando il profilo e

la composizione materiale delle piccole imprese manifatturiere in grado di stare sul mercato, o perlomeno

di una loro parte non marginale. I pattern di cambiamento più rilevanti e in prospettiva più promettenti

consistono in i) un ampliamento degli orizzonti operativi e di mercato delle imprese, ii) in una progressiva

43 Ires Piemonte/Regione Piemonte, Nuovi scenari e strategie dell’industria piemontese (Rapporto di ricerca, Agosto

2012)

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inclusione negli asset competitivi di risorse cognitive e terziarie e iii) in una composizione della forza-

lavoro più complessa e meno appiattita sulla sola dimensione del manufacturing. Tali cambiamenti non

sono da enfatizzare, hanno tempistiche e valenze differenti, non riguardano tutte le imprese e soprattutto

non assicurano i protagonisti dal calo della domanda e dal venire meno degli assetti di mercato che distri-

buivano opportunità e profitti. Nel contempo, non riguardano solo una esigua minoranza di avanguardie

agenti, ma un nucleo allargato di imprese che appare avviata ad una riqualificazione della formula compe-

titiva e dei modi di stare sul mercato. Piccole imprese dinamiche, orientate all’innovazione e proiettate sui

mercati extra-locali sono sempre esistite. Di norma erano anche imprese di successo, circostanza che trova

oggi minore corrispondenza. L’aspetto relativamente inedito è che la conclamata difficoltà dei mercati stia

spingendo un numero assai più ampio di operatori sulla strada di più decise scelte d’investimento e mo-

dernizzazione. Sono sussurri che vanno captati e decodificati, ma anche sostenuti e accompagnati adegua-

tamente. Non si tratta più, qui, di premiare i “più meritevoli”, ma di favorire un più generale riposiziona-

mento lungo le direttrici dell’innovazione a monte (più conoscenza, più manodopera abile e istruita, più

design e progettazione, più valore immateriale che integri i contenuti tangibili della produzione) e a valle

(reti di mercato più lunghe, accesso a mercati esteri o perlomeno non locali, assistenza post vendita, ecc.)

della produzione diretta. Tenendo sempre sullo sfondo due concetti. Il primo, più urgente, è che la “pan-

cia del sistema”, la maggioranza delle imprese e particolarmente di quelle meno strutturate, non guida i

cambiamenti ma semmai li subisce, e appare oggi richiedere soprattutto condizioni di sopravvivenza meno

onerose. La seconda, per ricollegarsi ad un tema proposto in apertura, è che probabilmente solo una esi-

gua minoranza delle imprese industriali – di cui in questa rilevazione non si trova traccia – ha intrapreso

un percorso di riconfigurazione in direzione di quell’artigianato digitale preconizzato dalla narrazione sui

maker. In ogni caso, è impensabile che il futuro prossimo delle piccole imprese industriali sia immaginabi-

le come un mix di sole imprese internazionalizzate e digitalizzate. L’attenzione agli innovatori e alle punte

di diamante che un sistema con le tradizioni intellettuali, tecnologiche, scientifiche di Torino appare tut-

tora in grado di produrre non può tradursi in indifferenza verso le sorti dei più; richiede, al contrario, una

adeguata cura nel favorire l’estensione e la diffusione dei processi innovativi, coerentemente alle compe-

tenze tecnologiche e cognitive delle imprese – da forzare, ma partendo dalle basi che sono in grado oggi di

esprimere. Solo in questo modo si potrà favorire l’auspicabile coordinamento di una “sofisticata azione di

convergenza tra numerose imprese, appartenenti a una varietà di aree economiche, che mirano a riqualificare le

loro attività sia per mantenere il loro radicamento territoriale sia per incrementarne la capacità di export”44 giu-

stamente richiamata per fornire la base ad un modello d’industria basato su nicchie e produzioni di altis-

sima qualità.

Terza osservazione proposta dall’indagine: l’analisi delle performance ha mostrato che, pure nella cor-

nice di un generalizzato arretramento, emerge chiaramente un profilo d’impresa più competitivo o che

“tiene meglio le posizioni” anche in un contesto avverso. Certo, la differente esposizione ai fattori di shock

(dipendenza dal mercato domestico, orientamento ai consumi collettivi e agli investimenti fissi, legame

con alcune filiere merceologiche particolarmente depresse) hanno un ruolo importante nel determinare la

44 Berta, G., Un modello per l’era postfordista, Repubblica Torino, 12-03-2013.

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Piccole imprese dentro e oltre la crisi / RAPPORTO DI RICERCA / MAGGIO 2013

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probabilità o meno di realizzare performance accettabili. L’indagine tuttavia suggerisce, tra i fattori rile-

vanti, almeno altri quattro argomenti.

Il primo è scontato e attiene alla struttura dimensionale delle imprese. Le dimensioni hanno un peso

importante e costituiscono un predittore affidabile sia della presenza di forme d’innovazione, sia della mi-

gliore capacità di reazione delle imprese. Se il panorama osservato è disseminato di indizi non parchi da

sviluppi positivi, ciò deriva anzitutto dai criteri di selezione utilizzati per estrarre il campione. L’esclusione

della fascia dimensionale inferiore – che, non va dimenticato, sul piano strettamente quantitativo, costitui-

sce la popolazione numericamente più consistente – ha prodotto l’effetto di qualificare il tessuto impren-

ditoriale osservato. Ciò non significa, tuttavia, che non esistano anche le altre imprese, quelle in cui i con-

fini tra forma impresa e auto impiego o lavoro autonomo tendono a sfumare. Il dato conferma ancora una

volta la necessità di operare una netta distinzione tra il mondo delle imprese piccole ma con una certa base

strutturale e il tessuto diffuso di lavoratori indipendenti e famiglie-impresa che gestiscono un’attività – di

tutto rispetto, beninteso, ma che difficilmente possono essere qualificate come PMI. Anche all’interno del

campione, tra microimprese e piccole industrie le differenze non sono poche. La piccola dimensione non

costituisce tuttavia una condanna, se è vero che non mancano microimprese (meno di dieci addetti) che si

comportano esattamente come le sorelle maggiori. È utile tenere sullo sfondo queste distinzioni quando si

propone all’attenzione pubblica la contabilità demografica delle imprese, al fine di non generare frainten-

dimenti; in termini di policy implication, si conferma chiaramente la necessità di operare un distinguo nelle

diagnosi della crisi, cui devono corrispondere di conseguenza anche protocolli terapeutici differenti.

Altrettanto scontato il secondo tema, peraltro correlato alla struttura dimensionale delle imprese, che

riguarda la proiezione sui mercati esterni. Chi ha un mercato più orientato all’export, a parità di altre con-

dizioni, ha maggiori probabilità di realizzare performance positive. Il dato è ribadito dall’indagine e nel

complesso conferma che, a fronte “tanto della riduzione della spesa pubblica, quanto del minor reddito a dispo-

sizione dei consumatori locali [si pone] una maggiore necessità per le imprese di esaminare attentamente ogni pos-

sibilità di sfruttamento della domanda estera”.45 Nel contempo, è da ritenere che tale tematica non vada

stressata oltre misura e soprattutto che non diventi il solo approdo di politica industriale. Di quelle pre-

senti nel campione, oltre metà delle imprese non esporta e solo per poco più di un quarto, inoltre, la quota

esportata supera il 25% del fatturato. Certo, la proiezione internazionale delle medie imprese potrebbe

costituire un’opportunità di crescita anche per le piccole aziende fornitrici senza accesso diretto ai mercati

esteri, ma questa possibilità non trova molti riscontri empirici. Meglio sarebbe attrezzare il campo con

opportuni sostegni e incentivi che consentano loro un salto qualitativo, da compiere preferibilmente coo-

perando. Appare necessario che i “piccoli” guardino oltre Torino, se non proprio al mondo (scala inacces-

sibile ai più), almeno allo spazio del Nord Italia e dei paesi europei limitrofi, dove trovare altri clienti e

medie o medio-grandi imprese alla ricerca di fornitori.

Il terzo tema riguarda la qualità delle relazioni inter-impresa, che come si è visto giocano un ruolo im-

portante nel favorire una maggiore tenuta di fronte alla crisi. Da una parte, le imprese inserite all’interno

di giochi cooperativi con i committenti/clienti realizzano migliori performance; dall’altra, però, la maggio-

45 Regione Piemonte, I-Trend, marzo 2013.

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ranza degli intervistati segnala un imbarbarimento del mercato e vive la sensazione di un processo di sva-

lorizzazione delle proprie competenze. È un tema veramente cruciale, per le piccole imprese non meno

importante dell’accesso ai mercati internazionali. Le politiche industriali degli ultimi anni hanno incenti-

vato la promozione di reti tra imprese; i “contratti di rete” ex legge n. 33 del 2009, approdo normativo di

questo approccio, sono stati concepiti soprattutto come “contratti tra pari”, nella prospettiva di favorire un

salto dimensionale e consentire ai “piccoli” di “comportarsi come i grandi” senza rinunciare

all’indipendenza e ai vantaggi della flessibilità e della rapidità d’adattamento ai mercati che da sempre co-

stituiscono i vantaggi competitivi della piccola dimensione. Gli esiti di questo indirizzo, finora, nonostan-

te l’impegno profuso nella promozione dei “contratti” da parte delle associazioni imprenditoriali, è stato

inferiore alle aspettative. In un sistema industriale caratterizzato soprattutto da relazioni gerarchiche e

“verticali”, non meno importante della via cooperativa “orizzontale” è probabilmente la possibilità di con-

cepire queste reti secondo un disegno isomorfico rispetto agli assetti già presenti sul mercato. I contratti di

filiera, sperimentati in altri territori,46 potrebbero rappresentare per molte piccole imprese industriali tori-

nesi uno schema di aggregazione non meno interessante.

Quarto aspetto, su cui ci si è abbondantemente soffermati, il rapporto tra pratiche d’innovazione e per-

formance. Non è una regola, ma la correlazione esiste e costituisce uno dei fattori maggiormente esplicati-

vi tra quelli considerati dalla ricerca. Come già richiamato a proposito dell’orientamento all’export, stabili-

ta l’associazione non si può linearmente farne discendere indicazioni uguali per tutti, né considerare

l’innovazione di prodotto come panacea o come campo praticabile da ogni operatore. Per rinnovare il pro-

dotto occorre sapere in quale direzione operare, cosa il mercato richiede o potrebbe richiedere, e via di se-

guito. Ne è riprova che non mancano, tra i casi esaminati, imprese che pure rinnovando hanno ottenuto

pessime performance. L’innovazione e l’accesso alle risorse tecnologiche, conoscitive, di ricerca e sviluppo

costituiscono in ogni caso investimenti necessari e che da tempo sono oggetto di specifiche iniziative di

policy, come i poli d’innovazione promossi dalla Regione Piemonte nel 2008, nel quadro del programma

Fesr 2007-2013, ispirati alla logica dei cluster tecnologici e che, con risultati alterni, hanno prodotto in

alcuni casi risultati lusinghieri. Più in generale, e qualche segnale in questa direzione è stato raccolto, le

piccole imprese industriali impegnate a riposizionare le proprie competenze in produzioni qualitativamen-

46 Rientrano tra questo tipo di “rete verticale” i casi, ad esempio, della Esaote (settore biomedicale) di Genova, dove la

società capofila ha stretto in un contratto i suoi fornitori con l'obiettivo di consolidare la filiera, responsabilizzarla e

coinvolgerla in una forma di partenariato. Anche Gucci ha favorito la nascita di reti di imprese fornitrici di pelletteria

senza farne parte, ma con l'intento di renderle più strutturate e più attente al raggiungimento degli standard qualitati-

vi necessari alle sue produzioni. Gucci ha promosso poi un patto di filiera, che coinvolge Confindustria, Cna e sinda-

cati, per assicurare ai fornitori trasferimento di innovazione, miglioramento della condizioni di credito, e corsi di for-

mazione. I patti stanno gemmando anche altre azioni, come il “Tavolo Gucci”, il cui confronto ruota intorno al tema

della remunerazione dei subfornitori. Altra iniziativa è l’accordo stipulato con CrFirenze-Banca Intesa per migliorare

l’accesso e le condizioni di credito per le pmi della filiera di pelletteria. In base all’accordo, Gucci assegna ai propri

fornitori il rating qualitativo, che si basa su affidabilità del fornitore, qualità delle sue performance, capacità di rispet-

tare gli standard del contratto di filiera e appartenenza ad un indotto produttivo di rilievo. Banca Cr Firenze lo pren-

de in considerazione per attribuire, a sua volta, il rating bancario.

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te più elevate, devono incorporare stabilmente nei loro asset skill e conoscenze di area “terziaria” finora

relativamente trascurate: progettisti/designer, comunicatori, analisti, esperti di ingegnerizzazione dei pro-

cessi, e via di seguito. La ricerca ci dice che le imprese non sono state ferme e in questi anni una robusta

minoranza ha investito in questa direzione acquistando servizi ad alto contenuto di conoscenza, o assu-

mendo direttamente personale qualificato. Le imprese che più frequentemente hanno proceduto a rinno-

vare l’offerta (prodotti) o che hanno investito maggiormente in innovazione, infatti, hanno quasi sempre

un rapporto tra blue collar e white collar meno sbilanciato sulle mansioni manufacturing in senso stretto.

Favorire l’incontro tra le qualità produttive e tecnologiche consolidate delle piccole imprese industriali e i

servizi innovativi è probabilmente la strada per realizzare, in modo coerente alla configurazione reale delle

aziende, la transizione verso quell’artigianato digitale che promette di riportare o mantenere parte del no-

stro apparato industriale di qualità sul territorio.

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APPENDICI – TRACCIA INTERVISTA

A. INFORMAZIONI SULL’IMPRESA

0. Anno di costituzione dell’impresa

1. Settore di attività (una sola risposta)

1. Metalmeccanica/Mezzi di trasporto

2. Macchine

3. Alimentari e bevande

4. Chimica gomma plastica

5. Made in Italy

6. Altre manifatture

2. Numero complessivo di addetti N.

Di cui

Titolare/Soci/Coadiuvanti N.

Dipendenti* N.

Altri collaboratori stabili** N.

*Apprendisti e contratti a Tempo Determinato rientrano tra i dipendenti

**Personale impiegato con una certa continuità, anche se non assunto con contratti da lavoro subordinato

(no interinali o collaborazioni saltuarie e occasionali)

3. L’azienda è partecipata da altre imprese o fa parte di un Gruppo? (UNA SOLA RISPOSTA)

1. No

2. Sì, è controllata da parte di un gruppo italiano

3. Sì, è controllata da un gruppo estero

4. Si, è capogruppo

5. Sì, lavora su licenza per conto di un gruppo oppure in franchising per altri marchi

4. Qual è il numero e la localizzazione delle unità locali (sedi) dell’impresa?

Nella regione N.

In Italia N.

All’estero N.

Totale N.

B. INFORMAZIONI SUL TITOLARE (RISPONDENTE AL QUESTIONARIO)

5. Età (anni compiuti)

6. Sesso M F

7. Titolo di studio

1. Scuola dell’obbligo

2. Diploma professionale

3. Diploma scuola media superiore

4. Laurea (anche lauree triennali) e titoli post-laurea

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C. PERFORMANCE E CRISI

Domande per capire l’impatto della crisi apertasi nel 2008 sulla sua impresa.

8. Tra il 2008 e il 2011 qual è stato - nel complesso - l’andamento dei seguenti fattori?

In forte

diminuzione

In moderata

diminuzioneStabile

In moderato

aumento

In forte

aumento

Ricavi dalle vendite

Utile

Numero dei clienti

Numero dei dipendenti

Livello degli investimenti

Indebitamento

Capitalizzazione

9. Come prevede che chiuderà il 2012 rispetto al 2011?

In forte

diminuzione

In moderata

diminuzione Stabile

In lieve

aumento

In moderato

aumento

Ricavi dalle vendite

Utile

Numero dei clienti

Numero dei dipendenti

Livello degli investimenti

Indebitamento

Capitalizzazione

10. Riepilogando, tra il 2008 e oggi l’impresa ha mai risentito gli effetti della crisi?

1. No o in misura del tutto episodica o marginale

2. Sì, ma in misura contenuta

3. Sì, ne ha risentito significativamente

11. Per quali ragioni la sua impresa non ha mai risentito della crisi? (MAX 2 RISPOSTE)

1. Bassa esposizione con le banche si - no

2. Realizzo prodotti di primaria necessità che si vendono anche in un contesto di crisi si - no

3. Realizzo prodotti di lusso ai quali i clienti non rinunciano neanche nella crisi si - no

4. Ho una clientela molto ampia e diversificata si - no

5. Una parte importante della produzione è destinata all’export si - no

6. Altro (specificare) ___________________________________________________

7. Non so

12. Quali dei seguenti fattori è stato più rilevante nel determinare la situazione di crisi dell’azienda? (MAX 2 RISPOSTE)

1. Calo degli ordinativi interni (mercato nazionale e/o domestico) si - no

2. Calo delle esportazioni si - no

3. Mancato pagamento da parte di clienti privati si - no

4. Mancato pagamento da parte della P.A. si - no

5. Mancata concessione di credito da parte delle banche si - no

6. Eccessivo costo del credito si - no

7. Peggioramento delle condizioni richieste dai clienti (pressione sui prezzi, ecc.) si - no

8. Altro (specificare) _________________

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13. Quali iniziative ha intrapreso in seguito al manifestarsi della crisi? (MAX 3 RISPOSTE)

1. Ho ridotto i costi mediante riorganizzazioni interne si - no

2. Ho ridotto il personale (licenziamenti, mancato rinnovo contratti a termine, blocco turn over) si - no

3. Ho sospeso o ridotto significativamente gli investimenti si - no

4. Ho realizzato nuovi investimenti per rilanciare l’impresa si - no

5. Ho ridotto i prezzi di vendita per mantenere i clienti o conquistarne di nuovi si - no

6. Ho modificato la rete distributiva/I canali di distribuzione si - no

7. Ho richiesto e ottenuto credito per sostenere l’attività ordinaria/Ho ristrutturato il debito si - no

8. Ho utilizzato gli ammortizzatori sociali (CIG, CIGD) per il personale si - no

9. Ho apportato nuovo capitale si - no

10. Ho cercato nuovi soci per rafforzare l’impresa/nuovi rapporti di collaborazione con altre imprese si - no

11. Ho cercato nuovi clienti in altri settori o altri territori si - no

12. Ho rinnovato/migliorato i prodotti si - no

13. Non saprei si - no

14. Non ho fatto niente si - no

15. Altro specificare ___________________________________________________

14. Qual è stato l’esito di queste iniziative? (UNA SOLA RISPOSTA)

1. Hanno costituito la base per un pieno rilancio dell’impresa

2. Hanno consentito un parziale rilancio, seppure su livelli inferiori al passato

3. Hanno consentito di contenere i danni e garantire la sopravvivenza dell’impresa

4. Hanno consentito di guadagnare un po’ di tempo

5. Non hanno sortito effetti rilevanti

6. Non so

D. IL MERCATO – STRUTTURA E CAMBIAMENTO

15. L’impresa commercializza prodotti con un proprio marchio, produce componenti su commessa o effettua lavorazioni in con-

to terzi? (UNA SOLA RISPOSTA, LA PIÙ IMPORTANTE DAL PUNTO DI VISTA DEL FATTURATO)

1. Ha un proprio catalogo di prodotti si - no

2. Produce componenti/accessori/particolari su commessa si - no

3. Realizza lavorazioni in conto terzi si - no

16. L’impresa vende i prodotti sul mercato finale (direttamente o attraverso distributori)

o rifornisce altre imprese? (UNA SOLA RISPOSTA)

1. Solo mercato finale

2. Prevalentemente mercato finale

3. Prevalentemente imprese (o istituzioni)

4. Esclusivamente imprese (o istituzioni)

17. In quale settore operano i vostri maggiori clienti?

1.

2.

3.

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18. Indicativamente, come si sono distribuiti i ricavi dell’impresa nei seguenti ambiti territoriali nell’ultimo anno? (STIMA

INDICATIVA)

Mercato locale/regionale %

Mercato nazionale %

Può indicare la regione più importante

Mercato estero %

Può indicare il/i Paesi più importanti

Altro _________________________________________

19. Dal 2008 a oggi, in valore assoluto, i ricavi per ciascun ambito territoriale sono risultati in

Diminuzione Stabile Crescita

Mercato locale/regionale

Mercato nazionale

Mercato estero

20. L’impresa dal 2008 ad oggi ha perso uno o più clienti importanti?

1. Sì

2. No

(LIMITATAMENTE AI DUE MAGGIORI CLIENTI PERSI)

21. Può dire in quale settore operavano?

1.

2.

22. Può dire dove avevano la sede principale?

1. A Torino o in Piemonte si - no

2. In altre regioni italiane si - no

3. All’estero si - no

23. L’impresa dal 2008 ad oggi ha acquisito uno o più nuovi clienti importanti?

SI

NO

(LIMITATAMENTE AI DUE MAGGIORI CLIENTI ACQUISITI)

24. Può dire in quale settore operano?

1.

2.

25. Può dire dove hanno la loro sede?

1. A Torino o in Piemonte si - no

2. In altre regioni italiane, senza sedi sul territorio torinese si - no

3. In altre regioni italiane, con una sede sul territorio torinese si - no

4. All’estero, senza sedi sul territorio torinese si - no

5. All’estero, con una sede sul territorio torinese si - no

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26. Negli ultimi anni (dal 2008 a oggi) le relazioni con i vostri principali clienti si sono caratterizzate per i seguenti fattori?

SI NO NON SO

Maggiore presenza di procedure di selezione formalizzate e impersonali?

Maggiore richiesta, nelle procedure di selezione, di certificazioni e documentazione tecnica?

Richiesta di maggiori volumi di produzione per ogni singola commessa?

Richiesta di riduzione dei tempi di consegna?

Richiesta di riduzione del costo unitario del prodotto?

Maggiore collaborazione nella progettazione del prodotto?

Maggiori azioni di sostegno (es. distaccamento tecnici, formazionedel personale)?

Maggiore trasparenza/informazione sulle politiche del prodotto?

E. IL CAPITALE UMANO

27. Potrebbe indicare, nella sua azienda, qual è il numero di

(se non conosce esattamente il numero fornisca un’indicazione di massima)

Dirigenti/Manager N.

Quadri o Tecnici ad alta qualificazione N.

Impiegati N.

Operai specializzati N.

Operai non specializzati N.

28. Le assunzioni effettuate dal 2008 ad oggi sono state prevalentemente di … (MAX 2 RISPOSTE)

Dirigenti/Manager si - no

Quadri o Tecnici ad alta qualificazione si - no

Impiegati si - no

Operai specializzati si - no

Operai non specializzati si - no

Non abbiamo effettuato nuove assunzioni si - no

29. L’azienda dal 2008 ad oggi ha intrapreso iniziative volte a qualificare o riconvertire il proprio personale, attraverso corsi di

formazione o incentivando la formazione autonoma dei propri dipendenti?

1. Si

2. Solo saltuariamente

3. No

F. CAMBIAMENTI E INNOVAZIONE

30. Dal 2008 ad oggi quali sono stati i cambiamenti riguardanti i prodotti dell’impresa? (POSSIBILI PIÙ RISPOSTE)

1. Ha realizzato nuovi prodotti rivolti allo stesso settore in cui già operava si - no

2. Ha realizzato nuovi prodotti rivolti a settori differenti da quelli in cui operava si - no

3. Ha ampliato la gamma dei prodotti (o delle lavorazioni offerte) si - no

4. Ha ridotto il numero di prodotti (o di lavorazioni) e si è focalizzata su quello principale si - no

5. Ha migliorato i prodotti attraverso nuovi elementi funzionali oppure rinnovando il design o utilizzando nuovi materiali si - no

6. Altro ____________________________________________________________

7. Non ci sono stati cambiamenti nei prodotti

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31. Dal 2008 ad oggi quali sono stati i cambiamenti riguardanti i processi produttivi e/o l’organizzazione del lavoro? (POSSIBILI

PIÙ RISPOSTE)

1. Ha esternalizzato alcune parti del ciclo produttivo si - no

2. Ha internalizzato parti del ciclo produttivo prima affidate all’esterno si - no

3. Ha reso più efficiente il ciclo produttivo attraverso nuovi macchinari/impianti di produzione si - no

4. Ha ridotto i costi attraverso la razionalizzazione di impianti e spazi si - no

5. Ha informatizzato una o più aree aziendali si - no

6. Altro ____________________________________________________

7. Non ci sono stati cambiamenti nei processi produttivi e nell’organizzazione della produzione

32. Dal 2008 ad oggi l’impresa ha effettuato investimenti nelle seguenti aree? (POSSIBILI PIÙ RISPOSTE)

SI NO

1. Design e progettazione

2. Ricerca e sviluppo

3. Engineering

4. Marketing

5. Comunicazione e pubblicità

33. Dal 2008 ad oggi ci sono stati cambiamenti relativi agli approvvigionamenti fornitori)?

1. Ho rinegoziato a nostro favore i contratti con i fornitori si - no

2. Ho cercato nuovi fornitori si - no

3. Ho procrastinato i tempi di pagamento di alcuni fornitori si - no

4. Altro __________________________________________

5. Non ci sono stati cambiamenti

34. Dal 2008 ad oggi l’impresa ha introdotto dei cambiamenti inerenti alla commercializzazione dei prodotti? (POSSIBILI PIÙ

RISPOSTE)

1. Ha ampliato il numero degli agenti si - no

2. Ha ridotto il numero degli agenti si - no

3. Ha ridotto il numero degli intermediari fino al consumatore si - no

4. Ha ampliato il numero degli intermediari fino al consumatore si - no

5. Ha puntato su canali distributivi diversi dai precedenti si - no

6. Non ha fatto cambiamenti si - no

35. L’innovazione delle imprese è da tempo indicata come via necessaria per il rilancio delle imprese. Spesso le innovazioni sono

ostacolate dalla carenza di risorse e dalla difficoltà di accedere al credito. Se oggi avesse le risorse da investire, quali sarebbero le

sue scelte prioritarie? (MAX 2 RISPOSTE)

1. Acquisterei nuovi macchinari in grado di rendere più efficiente la mia attività si - no

2. Investirei in tecnologie informatiche o software applicati al ciclo produttivo si - no

3. Progetterei nuovi prodotti in sostituzione di quelli attuali si - no

4. Diversificherei la gamma dei prodotti attualmente offerti si - no

5. Migliorerei i prodotti attuali con nuovi elementi funzionali si - no

6. Migliorerei i prodotti attuali innovando il design o il packaging si - no

7. Mi doterei di brevetti/registrazioni/marchi/certificazione dei prodotti si - no

8. Investirei in comunicazione, marketing, pubblicità si - no

10. Investirei in ricerca e sviluppo al fine di sviluppare nuovi prodotti o tecniche si - no

11. Investirei in formazione del personale si - no

12. Investirei nella mia formazione personale si - no

14. Potenzierei la rete commerciale e di vendita si - no

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15. Cercherei di ampliare il mercato in nuovi territori si - no

16. Cercherei di vendere all’estero si - no

17. Cercherei fornitori più qualificati o convenienti si - no

18. Farei accordi, reti, consorzi con altre imprese si - no

19. Altro ___________________________________________________________

20. Non farei niente

Torino Nord Ovest srl impresa sociale è il centro fondato dall’Associazione Torino

Internazionale per svolgere attività di studio, consulenza, valutazione e proposta nel

campo della ricerca socioeconomica. Luogo di elaborazione di saperi applicabili e circo-

lazione di idee, Torino Nord Ovest si propone di accrescere l’informazione e favorire il

dibattito qualificato sui principali temi dell’agenda locale, ancorandoli a una produzione

originale di dati, analisi, visioni.

Il centro fotografa e approfondisce una pluralità di aspetti e settori – dall’economia al

lavoro, dalle reti territoriali allo sviluppo locale e urbano, dalle rappresentanze alla cultu-

ra – con due punti fermi: la specializzazione territoriale nel nordovest italiano, dove si

trovano le realtà più produttive e le forze più innovatrici del paese, e l’indagine dei fe-

nomeni sociali ed economici nella loro reciproca relazione.

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