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http://www.fupress.com/adf ISSN 0394-5073 (print) ISSN 1824-3770 (online) © 2011 Firenze University Press Annali del Dipartimento di Filosofia (Nuova Serie), XVI (2010), pp. 5-38 Una quaestio-limite: «Utrum anima separata pati possit ab igne». Alcune riflessioni sulla q. 11 delle Quaestiones in III de anima di Sigieri di Brabante SERENA MASOLINI When 13th century scholars tried to inquire about how a soul separated from the body may suffer from the infernal hellfire, they found themselves facing a very convoluted theme, strad- dling the borders between theology and philosophy. This paper analyses Siger of Brabant’s position compared with that of Thomas Aquinas and the coeval theological tradition, and shows how this topic may provide a key to further understanding the Parisian Condemnations of 1270 and 1277, as well as the artistae’s epis- temological program. Keywords: soul, hellfire, latin averroism, censure, historiography. Elevans oculos suos cum esset in tormentis, videbat Abraham a longe et Lazarum in sinu eius, et ipse clamans dixit: pater Abraham miserere mei et mitte Lazarum ut intinguat extremum digiti sui in aqua, ut refrigeret linguam meam, quia crucior in hac flamma. Lc 16, 23-24 I teologi del XIII e XIV secolo ritenevano che i passi della Scrittura che identificavano la pena infernale con la pena del fuoco non dovessero essere intesi in senso metaforico. Per quanto offrissero diverse interpre- tazioni nel definirne la natura, le proprietà ed il modo d’azione, erano concordi nel sostenere che i dannati sarebbero stati tormentati dalle fiam- me di un fuoco reale, che costituiva una causa oggettivamente separata rispetto alla semplice sofferenza spirituale del punito per l’impossibilità di partecipare all’eterna beatitudo 1 . 1 Per una sintesi del pensiero teologico cristiano sull’inferno e sulla natura del fuoco infernale, cfr. M. Richard, Enfer, in Dictionnaire de théologie catholique (DTC), t. V/1,

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http://www.fupress.com/adfISSN 0394-5073 (print) ISSN 1824-3770 (online)

© 2011 Firenze University Press

Annali del Dipartimento di Filosofia (Nuova Serie), XVI (2010), pp. 5-38

Una quaestio-limite: «Utrum anima separata pati possit ab igne». Alcune riflessioni sulla q. 11 delle Quaestiones in III de anima

di Sigieri di Brabante

Serena MaSolini

When 13th century scholars tried to inquire about how a soul separated from the body may suffer from the infernal hellfire, they found themselves facing  a very convoluted theme, strad-dling the borders between theology and philosophy. This paper analyses Siger of Brabant’s position compared with that of Thomas Aquinas and the coeval theological tradition, and shows how this topic may provide a key to further understanding the Parisian Condemnations of 1270 and 1277, as well as the artistae’s epis-temological program.

Keywords: soul, hellfire, latin averroism, censure, historiography.

Elevans oculos suos cum esset in tormentis, videbat Abraham a longe et Lazarum in sinu eius, et ipse clamans dixit: pater Abraham miserere mei et mitte Lazarum ut intinguat extremum digiti sui in aqua, ut refrigeret linguam meam, quia crucior in hac flamma.Lc 16, 23-24

I teologi del XIII e XIV secolo ritenevano che i passi della Scrittura che identificavano la pena infernale con la pena del fuoco non dovessero essere intesi in senso metaforico. Per quanto offrissero diverse interpre-tazioni nel definirne la natura, le proprietà ed il modo d’azione, erano concordi nel sostenere che i dannati sarebbero stati tormentati dalle fiam-me di un fuoco reale, che costituiva una causa oggettivamente separata rispetto alla semplice sofferenza spirituale del punito per l’impossibilità di partecipare all’eterna beatitudo1.

1 Per una sintesi del pensiero teologico cristiano sull’inferno e sulla natura del fuoco infernale, cfr. M. Richard, Enfer, in Dictionnaire de théologie catholique (DTC), t. V/1,

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Nella distinctio 44 del IV libro delle Sentenze, Pietro Lombardo aveva fatto emergere tre dei temi su cui la riflessione patristica aveva maggior-mente concentrato la sua attenzione. Il primo riguardava la capacità del fuoco infernale di ardere per l’eternità i corpi dei reprobi senza consumar-li; il secondo l’azione del fuoco sui demoni; il terzo – e più delicato – la possibilità delle anime nello stato di separazione, ovvero nell’intervallo tra la morte individuale e la resurrezione dei corpi, di esperire (sentire) il fuoco corporale ed esserne bruciate, così come rivelava l’exemplum di Lazzaro e del ricco epulone narrato nel vangelo di Luca.

Data dunque per acquisita la realtà del fuoco infernale, che dopo il Giudizio Universale avrebbe tormentato nello stesso modo i corpi solidi degli uomini dannati e quelli aerei dei demoni, per i maestri che si trovavano a commentare quello che era il testo base dell’insegnamento nelle facoltà di teologia, il problema fondamentale diventava chiarirne la modalità d’azione nei confronti delle anime separate, ovvero spiegare come potesse una realtà spirituale patire per una causa materiale2. Si trattava quindi di condurre un’indagine razionale sull’anima e sulle sue funzioni e mostrare come il fuoco potesse farsi causa strumentale della giustizia divina ed esercitarvi un effetto reale.

Che l’effetto fosse descritto come reale obiective – ovvero meramente appartenente all’ordine della conoscenza intellettuale (a) perché oggetti-

Letouzey et Ane, Paris 1939, coll. 28-120; A. Michel, Feu de l’Enfer, in DTC, V/2, coll. 2196-2239. Per un approccio che guardi più alle narrazioni letterarie ed all’immaginario collettivo che alla storia del dogma, si segnalano: M.P. Ciccarese, Le visiones dell’aldilà nel cristianesimo occidentale. Genere letterario e tematiche predantesche, in La fine dei tempi. Storia ed escatologia, a cura di M. Naldini, Nardini, Fiesole 1994, pp. 101-115; Id., L’an-ticipazione della fine: l’immaginario dell’aldilà nei primi secoli cristiani, in «Millennium»: l’attesa della fine nei primi secoli cristiani, Celid, Torino 2002, pp. 183-208; F. Saracino, Lineamenti e retroterra dell’immaginario infernale neo-testamentario, in Archeologia dell’inferno, a cura di P. Xella, Essedue, Verona 1987, pp. 231-262.

2 Sul corpo dei demoni lo stesso Agostino aveva manifestato delle riserve; poco più avanti rispetto al passo utilizzato da Pietro Lombardo (De civitate dei, XXI, c. 10, PL 41, coll. 724-725) scrive infatti: «Nisi quia sunt quaedam sua etiam daemonibus corpora, sicut doctis hominibus visum est, ex isto aere crasso atque umido, cuius impulsus vento flante sentitur. Quod genus elementi si nihil igne perpeti posset, non ureret fervefactus in balneis. Ut enim urat, prior uritur facitque cum patitur. Si autem quisquam nulla habere corpora daemones adseverat, non est de hac re aut laborandum operosa inquisitione aut contentiosa disputatione certandum. Cur enim non dicamus, quamvis miris, tamen veris modis etiam spiritus incorporeos posse poena corporalis ignis affligi». Tommaso ne sosterrà l’immaterialità, cfr. S. Tommaso d’Aquino, Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo e testo integrale di Pietro Lombardo, trad. it. R. Coggi, t. X, ESD, Bologna 2001 (d’ora in poi: Th-InIVSent), IV, dist. 44, q. 3, a. 3, sol. 3, p. 253: «quod ignis Inferni non sit metaphorice dictus, nec ignis imaginarius, sed verus ignis corporeus; oportet dicere, quod anima ab igne corporeo poenas patietur, cum dominus ignem illum Diabolo et Angelis ejus paratum esse dicat Matth. 25, qui sunt incorporei, sicut et illa».

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vamente riconosciuto dall’anima come nocivo senza che tuttavia essa ne venisse fisicamente colpita (Alberto Magno, Bonaventura, Egidio Romano); (b) perché percepito come nocivo e tale da fissare l’intelletto del reprobo in quella percezione, come in un incatenamento spirituale (Riccardo di Mediavilla, Guglielmo d’Ockham, Duns Scoto); (c) perché ricorda ai reprobi la felicità eterna perduta (Durando di San Porziano) – o che esso si presentasse effective come una modificazione dell’anima separata – (d) incatenandola fisicamente (Tommaso e la scuola tomista); (e) andando a colpire la parte ‘materiale’ dell’anima, che anche nello stato di separazione continua a mantenere un rapporto di inclinatio e di appetitus verso il suo corpo (Matteo d’Acquasparta) – fornire una risposta soddisfacente dal punto di vista filosofico e compatibile con il dato scritturistico non era semplice.

La pericolosità del tema non era sfuggita alla campagna di censura in-trapresa dal vescovo Tempier che, tanto nell’intervento del 1270 quanto in quello del 1277, aveva inserito la tesi «quod anima post mortem separata non patitur ab igne corporeo»3 fra le proposizioni da mettere al bando.

Nella sua analisi della condanna del 1277, Hissette ha individuato l’obiettivo polemico degli articoli 135 (113) «quod anima separata non est alterabilis secundum philosophiam, licet secundum fidem alteretur»4 e 219 (19) «quod anima separata nullo modo patitur ab igne»5 nel Sigieri delle Quaestiones in III de anima (qq. 10-11) e del De anima intellectiva (cap. VI), ed ha presentato le tesi dell’inalterabilità dell’anima separata e della sua impassibilità al fuoco come conseguenze del monopsichismo averroista sostenuto dal maestro brabantino6. Allo stesso modo, a proposito della con-danna del 1270, Van Steenberghen aveva sostenuto che l’articolo 8 fosse uno dei quattro direttamente rivolti ad attaccare gli insegnamenti di Sigieri, al pari della tesi secondo le quali (1) l’intelletto degli uomini è numericamente uno e lo stesso, (5) il mondo è eterno, (6) non è esistito un primo uomo7.

3 Così nella lista del 1270 (ottava proposizione), cfr. Chartularium Universitatis Parisiensis, ed. H. Denifle, A. Chatelain, Delalain, Paris 1889, n. 432, pp. 486-487.

4 La condamnation parisienne de 1277. Nouvelle édition du texte latin, traduction, introduction et commentaire, ed. D. Piché, C. Lafleur, Vrin, Paris 1999, p. 112.

5 Ivi, cit., p. 84.6 R. Hissette, Enquête sur les 219 articles condamnés à Paris le 7 Mars 1277, Publi-

cations Universitaires – Vander-Oyez, Louvain – Paris 1977, pp. 214-215 e 311-312. I due testi di Sigieri sono stati editi da Bazán (Siger de Brabant, Quaestiones in tertium de anima, De anima intellectiva, De aeternitate mundi, Publications Universitaires – Beatrice-Nauwelaerts, Louvain – Paris 1972) e recentemente tradotti in italiano, sulla base di quell’edizione, da Antonio Petagine (Sigieri di Brabante, Anima dell’uomo, Bompiani, Milano 2007); le citazioni riportate in questo lavoro seguono quest’ultimo volume (da ora: QTD per Quaestiones in tertium de anima, DAI per De anima intellectiva).

7 F. Van Steenberghen, La philosophie au XIIIe siècle, Publications Universitaires – Beatrice-Nauwelaerts, Louvain – Paris 1966, p. 456, n. 83; Id., Maître Siger de Brabant,

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Confrontata con alcuni studi più recenti, questo tipo di spiegazione appare quanto meno parziale.8 Per dare una visione più articolata della q. 11, tanto all’interno del pensiero del maestro brabantino quanto nella ricezione da parte dei suoi contemporanei, è necessario fare entrare in gioco altri fattori: l’atmosfera alla Facoltà delle Arti di Parigi negli anni ’70 e la figura dell’artista, dei suoi scopi e strumenti operativi, della sua ‘coscienza professionale’; un’indagine sul sillabo parigino che guardi non solo al contenuto dottrinale degli articoli condannati, ma anche al senso generale dell’intervento di Tempier nelle sue implicazioni pastorali, etiche ed epistemologiche; il confronto con Tommaso; la consapevolezza della mutabilità dei paradigmi interpretativi alla luce di una considerazione sull’avventura storiografica che ha vissuto la categoria ‘averroismo’ tra il XIX e XX secolo9.

Publications Universitaires, Louvain – Paris 1977, pp. 76-77; si veda anche J.F. Wippel, The Condamnations of 1270 and 1277 at Paris, «Journal of Medieval and Renaissance Studies», 7, 1977, p. 179.

8 A. de Libera, L’Unité de l’Intellect. Commentaire du De unitate intellectus contra averroistas de Thomas d’Aquin, Vrin, Paris 2004, pp. 512-521; K. Flasch, Die Seele im Feuer. Aristotelische Seelenlehre und augustinisch-gregorianische Eschatologie bei Albert von Köln, Thomas von Aquino, Siger von Brabant und Dietrich von Freiberg, in Albertus Magnus & der Albertinismus. Deutsche philosophische Kultur des Mittelalters, a cura di M.J.F.M. Hoenen, A. de Libera e E.J. Brill, Leiden – New York – Köln 1995, pp. 107-131; R.A. Gauthier, Notes sur Siger de Brabant, I. Siger en 1265, «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 67, 1983, pp. 201-232; ed in particolare: L. Bianchi, Guglielmo di Baglione, Tommaso d’Aquino e la condanna del 1270, «Rivista di storia della filosofia», 39, 1984, pp. 503-520; A. Petagine, Aristotelismo difficile. L’intelletto umano nella prospettiva di Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e Sigieri di Brabante, Vita e Pen-siero, Milano 2004, pp. 146-150 e 189-196; S. Piron, Olivi et les averroïstes, «Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie», 53-1, 2006, pp. 251-309.

9 Vista l’ampiezza della letteratura su questi temi, ci limitiamo qui segnalare: a) sulle istanze dei maestri della Facoltà delle arti: F.-X. Putallaz, R. Imbach, Professione filosofo. Sigieri di Brabante, trad. it. A. Tombolini, Jaca Book, Milano 1998; O. Boulnois, Le chiasme: la philosophie selon les théologiens et la théologie selon les artiens de 1267 à 1300, in Was ist Philosophie im Mittelalter, W. De Gruyter, Berlin – New York 1998, pp. 595-607; L. Bianchi, «Velare philosophiam non est bonum». A proposito della nuova edizione delle «Quaestiones in Metaphysicam» di Sigieri di Brabante, «Rivista di storia della filosofia», 2, 1985, pp. 255-270; L. Bianchi, E. Randi, Le verità dissonanti, Laterza, Roma – Bari 1990; J.F. Wippel, Siger of Brabant: What It Means to Proceed Philosophically, in Was ist Philosophie, cit., pp. 490-496; b) sulle condanne del 1270-1277: L. Bianchi, Il vescovo e i filosofi. La condanna parigina del 1277 e l’evoluzione dell’aristotelismo scolasti-co, Lubrina, Bergamo 1990; Id., 1277: A Turning Point in Medieval Philosophy?, in Was ist Philosophie, cit., pp. 90-110; La condamnation parisienne de 1277, cit., pp. 151-288 (Troisième Partie – Commentaire Historico-Philosophique); A. de Libera, Philosophie et censure. Remarques sur la crise universitaire parisienne de 1270-1277, in Was ist Philosophie, cit., pp. 71-89; F.-X. Putallaz, Insolente liberté. Controverse et condamnations au XIIIe siècle, Éditions universitaires – Éditions du Cerf, Paris-Fribourg 1995; J. Verger, «Rector

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9Una quaestio-limite: «Utrum anima separata pati possit ab igne»

Prima tuttavia, è opportuno partire dal testo di Sigieri, riassumendo i risultati delle quaestiones precedenti ed esponendo i contenuti della quaestio di cui ci vogliamo occupare, riservandoci un secondo momen-to per focalizzare l’attenzione sui passi più interessanti e per appellarci alle circostanze esterne che potrebbero fare luce sulla Weltanschauung dell’autore e dei suoi avversari.

1. Dentro la quaestio

Le Quaestiones in III de anima sono il frutto delle lezioni tenute da Sigieri di Brabante alla Facoltà delle Arti di Parigi tra il 1265 ed il 1270 e costituiscono il primo testo in cui un autore latino cristiano abbia presentato la tesi dell’unicità dell’intelletto come quella filosoficamente più convincente. Non è certo se il manoscritto a noi pervenuto sia una reportatio di uno studente o una raccolta di appunti preparata dal maestro stesso, se rappresenti la totalità dell’insegnamento di Sigieri sul terzo libro del De anima o se sia solo una silloge delle questioni più importanti10.

La quaestio «utrum anima separata pati possit ab igne» viene esa-minata da Sigieri in apertura alla quarta parte del suo commento al controverso libro aristotelico – quella dedicata alle virtù dell’intelletto, ovvero all’intelletto possibile ed agente – subito dopo averne trattato il problema della passibilità tout court.

Nelle prime nove quaestiones Sigieri si era chiesto in cosa differisse l’intelletto dalle altre parti dell’anima, cosa fosse l’intelletto in sé ed in che relazione stesse col corpo, concludendo che:

non est caput universitatis». Pouvoir et hiérarchie à l’université de Paris au Moyen Âge, in Vaticana et medievalia. Études en l’honneur de Louis Duval-Arnould, a cura di J.M. Martin, B. Martin-Hisard, A. Paravicini Bagliani, Sismel, Firenze 2008, pp. 457-472; c) su Averroè e l’averroismo latino: E. Coccia, La trasparenza delle immagini. Averroè e l’averroismo, B. Mondadori, Milano 2005; R.A. Gauthier, Notes sur les débuts (1225-1240) du premier «averroïsme», «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 67, 1983, pp. 321-374; R. Imbach, L’averroïsme latin du XIIIe siècle, in Gli studi di filosofia medievale fra Otto e Novecento, a cura di R. Imbach, A. Maierù, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1991, pp. 191-208; e rimandiamo per maggiori approfondimenti alla selezione bibliografica presentata in B.C. Bazán, Radical Aristotelianism in the Faculties of Arts. The case of Siger of Brabant, in Albertus Magnus und die Anfänge der Aristoteles-Rezeption im lateinischen Mittelalter: Von Richardus Rufus bis zu Franciscus de Mayronis, Aschendorff, Münster 2005, pp. 585-629.

10 Petagine, Introduzione a QTD, pp. 34-64. Per uno studio generale sul maestro brabantino, oltre agli studi già citati di Van Steenberghen e Imbach-Putallaz, cfr. T. Dodd, The Life and the Thought of Siger of Brabant, Thirteenth-Century Parisian Philosopher. An Examination of His Views on the Relationship of Philosophy and Theology, E. Mellen, Lewiston – Queenston – Lampeter 1998.

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(q. 1) l’intelletto, immateriale e proveniente ab extrinseco, forma un’unità composita con l’anima vegetativo-sensitiva, edotta dalla potenza della materia11;

(q. 2) seguendo coerentemente i principi delle fisica aristotelica si deve affermare che l’intelletto è prodotto ma è prodotto come qualcosa di eterno («non est novo factum, sed factum aeternum»), derivando dalla Causa Prima, semplice e immutabile; in quanto creatura, tutta-via, l’intelletto è totalmente dipendente dalla volontà del suo creatore. Essendo tale volontà impossibile da investigare, poiché la Causa Prima agisce rispondendo solo a se stessa («voluit quia voluit»), la soluzione di Aristotele è da considerarsi possibile ma non necessaria, sebbene più probabile di quella di Agostino12;

(q. 3) se si accetta che l’intelletto è factus de novo, la creazione deve essere avvenuta in un istante non riducibile al tempo continuo, né all’eter-nità, ma in un tempo non continuo, «composito ex ipsis nunc», sebbene secondo la sua sostanza non stia in nessun tipo di tempo, ma nell’aevum13;

(q. 4) l’intelletto non è generabile; (q. 5) l’intelletto non è corruttibile; (q. 6) l’intelletto è composto, ma è composto da due atti: uno svolge

la funzione della materia, l’altro della forma14; (q. 7) l’intelletto non è la forma sostanziale del corpo, altrimenti

sarebbe qualcosa di organico e non potrebbe ricevere gli intelligibili; l’in-telletto non comunica direttamente con il corpo, ma attraverso le facoltà che comunicano con esso; il suo rapporto con il corpo è paragonabile a quello del pilota alla nave15;

(q. 8) essendo l’intelletto perfezione del corpo non secondo la sua sostanza ma secundum potestatem, è operans in corpore come motore (muovendo il totum per se e le singole parti per accidens) e come pro-duttore dell’atto dell’intelligere: non si trova quindi in nessuna parte del corpo, perché astrae e riceve gli intelligibili lavorando sulle intentiones imaginatae senza entrare in contatto diretto con gli organi corporei16;

(q. 9) non essendo virtus in corpore ed essendo immateriale, secun-dum se, l’intelletto è unico e – inquantum copulatur nobis – diventa, in un certo senso, intelletto dell’individuo, a seconda delle sue particolari intentiones imaginatae17.

11 QTD, q. 1, p. 82.12 Ivi, q. 2, pp. 88-92.13 Ivi, q. 3, p. 96. 14 Ivi, q. 6, p. 122.15 Ivi, q. 7, pp. 126-128.16 Ivi, q. 8, pp. 128-130.17 Ivi, q. 9, pp. 132-138.

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11Una quaestio-limite: «Utrum anima separata pati possit ab igne»

Arrivato alla decima quaestio, il maestro si chiede dunque «utrum intellectus sit passibilis». Secondo Aristotele, risponde Sigieri, l’intelletto non può essere passibile in senso stretto, dal momento che è immate-riale e che «omnis passio fit per naturam materiae». Come ha notato il Commentatore, tuttavia, l’intelletto partecipa in un certo modo della natura delle virtù passive: l’intelletto è possibilis, dunque è passibilis. Se si legge Aristotele attentamente, si può vedere che il filosofo aveva fornito chiaramente le argomentazioni «super quae debemus nos fundare»: per quanto non sia passibile di per sé, l’intelletto è potenzialmente ricettivo nei confronti della specie.

Il termine passio, infatti, non è univoco, ma può essere inteso in due sensi: la prima accezione è quella di «receptione cum alicuius abiectione», ed è propria della materia che, soggetta ad un atto, non può contem-poraneamente riceverne un altro contrario senza l’allontanamento del primo. Questo tipo di passio è quello che definisce il rapporto tra senso e sensibile, dal momento che ogni percezione sensibile cancella la per-cezione precedente, ma non può essere attribuita all’intelletto, che non subisce alcuna alterazione materiale durante il processo conoscitivo ed è capace, quando viene informato da un intelligibile in atto, di continuare a pensare senza che gli altri intelligibili vengano espulsi18. L’altro modo è per «sola receptione» e non è proprio della materia ma dell’intelletto, in quanto ricettivo della specie in potenza: «hoc intellexit Aristoteles cum dixit: susceptiva tamen speciei est huiusmodi potentia. Unde intellectus de natura passionis solum habet receptionem et non abiectionem alicuius sicut materia, eo quod, cum intellectus actu informatur aliquo intelligibili, potest adhuc intelligere sine abiectione alicuius intelligibilis»19.

Come diceva Aristotele, in poche parole, la conoscenza è quodam-modo pati: ricevendo e accogliendo le forme intelligibili, l’intelletto è ricettivo e dunque, in un certo qual modo, patisce.

La decima questione pone i presupposti filosofici per quella che Sigieri stesso riconosce essere una «quaestio non multum philosophi-cam»: se la receptio delle specie in potenza è l’unico tipo di passibilità a cui l’intelletto è sottoposto, è ammissibile il fatto che l’anima separata patisca l’azione di un fuoco corporeo?

Seguiamo adesso l’articolazione della quaestio. Le argomentazioni quod non sono riconducibili al fatto che il fuoco, a causa della sua na-

18 Ivi, q. 10, pp. 142-144: «Unde quantum ad talem dicit Aristoteles quod oportet intellectum esse impassibilem. Hoc satis innuit cum dicit quod intellectus non patitur ab intelligibili sicut sensus a sensibili, eo quod sensibilia aliquam transmutationem possunt inducere in sensum, quoniam intensio sensibilium corrumpit sensum».

19 Ibid.

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12 Serena Masolini

tura elementare, non agisce sull’anima separata perché essendo questa immateriale non può essere soggetta a qualitates materiali: (i) Aristotele afferma che l’agente deve essere sempre più nobile del soggetto su cui agisce, ma il fuoco, così come ogni corpo elementare, non può essere più nobile dell’anima separata; (ii) tutto ciò che patisce, patisce per natura della materia, ma l’anima separata è immateriale; (iii) l’anima non patisce da un corpo, se non da quel corpo a cui è unita, ma l’anima separata non è unita al fuoco, «ergo ab igne non potest pati passione vel tristitia»20. Sigieri considera quindi un’altra strada. Alcuni affermano che l’anima non «patitur ab igne» nel senso di essere bruciata da questo nella sua sostanza, ma soffre «quia videt se in igne». Questa posizione tuttavia contraddice Aristotele, che nei libri dell’Etica aveva sostenuto che il piacere deriva dalla contemplazione intellettiva. Quando l’anima si vede nel fuoco, essendo immateriale, non si vede con una visione pro-dotta dall’immaginazione, ma attraverso una «visione intellectiva». Non vedendosi dunque per mezzo di una visione materiale non può patire per una passione o per una tristezza materiale21.

Sigieri presenta quindi un’argomentazione quod sic. Dal momento che la pena deve corrispondere alla colpa, e che l’anima ha peccato unita al corpo ed attraverso il corpo, ne consegue che anche nello stato di separazione dovrà essere castigata con una punizione corporale. Non essendoci una realtà corporea che può fare questo se non il fuoco, «ergo ab igne debet pati».

Eccoci dunque al momento della solutio. Sigieri confessa che Aristo-tele non ha mai affrontato il problema – «non videmus quod Aristoteles aliquid dixerit de ista quaestione, quia non invenimus quod ipse alicubi determinaverit de statu separationis»22 – la risposta andrà dunque cercata in altri passi dove il filosofo si è occupato di qualcosa di simile, o costruita, tentando di comprendere cosa scaturisca dai presupposti aristotelici.

Lo Stagirita non ha detto niente sullo stato di separazione, ma ha riportato e confutato la dottrina pitagorica dell’inferno. Pitagora – af-ferma Sigieri sulla scorta del testo aristotelico – riteneva che il fuoco fosse al centro della terra, perché essendo l’elemento più nobile doveva stare nel luogo più nobile, nel medium appunto, così come il cuore che è l’organo più nobile si situa in medio animalis: quel fuoco al centro della terra era il carcere nel quale i condannati di Giove venivano tormentati.

20 Ivi, q. 11, p. 146.21 Ibid. Per la frase: «Dicit Aristoteles in Ethicis quod delectatio est a contemplatio-

ne» abbiamo seguito l’edizione di Bazán. Il testo del manoscritto è corrotto e riporta «Dicit Aristotiles in Ethicis quod delectatione que est a contemplatione». Vedremo poi come Gauthier, ricorrendo all’originale tommasiano, proponga un’altra lettura (cfr. infra, n. 44).

22 Ibid.

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13Una quaestio-limite: «Utrum anima separata pati possit ab igne»

Coerentemente con la sua teoria dei luoghi, Aristotele replica che quella non può essere la posizione del fuoco. Medium, infatti, può dirsi in due modi: medium naturae e medium magnitudinis. Il medio di natura è effettivamente il luogo più nobile, ma questo non vale necessariamente per il medio secondo grandezza: il medium magnitudinis corrisponde al nobilior locus solo se e in quanto coincidente con il medium naturae. Negli animali i due media sono gli stessi, ma nel cerchio, ad esempio, il centro è solo medium magnitudinis poiché il medium naturae è da identificarsi con la circonferenza. La conclusione dello Stagirita è dunque che il fuoco non si trovi al centro della terra, ma la questione se esso possa colpire o meno i condannati non viene affrontata23.

Sigieri deve quindi costruire la sua risposta, e lo fa cominciando a demolire due teorie tradizionali:

(a) Prende di nuovo in considerazione la tesi che l’anima soffra per il fatto di vedere se stessa nel fuoco, facendo notare che se l’anima avesse solo una visio del fuoco, senza la percezione che esso possa farle del male, non sarebbe chiaro in che modo possa patirne.

(b) A coloro che paragonano la visio dell’anima separata a quella che proviamo durante i sogni, e che quindi l’anima soffrirebbe per il fuoco così come il dormiente che sogna di essere bruciato («sicut somnians aliquando multum patitur ab igne, quia videtur sibi per somnium quod sit in igne et quod comburatur»), Sigieri risponde che la loro non è un’ar-gomentazione («sed hoc nihil est»). In questo caso infatti l’anima non soffrirebbe per via di una causa reale, ma di un’immagine («non patitur ab igne, sed a specie ignis»), e tale passione sarebbe solo un’illusione («item passio non esset passio, sed deceptio»). Come dice Aristole, l’intelletto svincolato dalla materia non può sbagliarsi, perciò conclude Sigieri: «si iste intellectus non decipitur, nec anima separata decipitur»24.

La terza probabile solutio è già più interessante. (c) Alcuni ritengono che il fuoco debba venire considerato dupliciter:

«modo in se et absolute» – e così non può influire sull’anima immateriale – oppure «in quantum est instrumento divinae ultionis». Il fuoco non funzionerebbe quindi da pena infernale in quanto tale, ma in quanto strumento scelto dalla giustizia divina25.

Così esposta la tesi risulta però insufficiente, poiché non dice niente sul modo in cui il fuoco svolge la sua funzione, in particolare su come

23 Ivi, p. 148.24 Ivi, q. 11, 54-63, p. 33. Per quanto riguarda l’argomento «quod intellectus ille,

qui est sine materia, non est falsus, sed semper verus», nell’Aristotele filologicamente corretto, cfr. Gauthier, Notes sur Siger de Brabant, I, cit., pp. 223-224.

25 Ivi, p. 150.

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possa bruciare continuamente l’anima senza che essa si consumi. Ancora la risposta viene da Aristotele, stavolta attraverso il richiamo al classico argomento della convenientia tra ars e instrumentum: «non quaelibet ars utitur quolibet instrumento, sed solum instrumentum sibi conveniente». Lo strumento deve avere una qualche comunicazione con ciò che è sog-getto alla sua azione, ma il fuoco non sembra avere nullam convenientiam con l’anima senza corpo. Affinché possa avvenire la passio nello stato di separazione, l’anima deve essere unita al fuoco in qualche modo; e tale modo risulta essere lo stesso attraverso il quale, quando era sulla terra, si trovava unita al corpo in suis passionibus: «quare, ut videtur, non poterit esse instrumentum suae punitionis nisi ab eo cui unitur in principio. Sicut anima corpori in suis passionibus uniebatur, ita post separationem unitur et ideo poterit ab eo pati»26.

La questione adesso è filosofica al cento per cento: in quale modo l’anima si unisce al corpo? La risposta al problema teologico va cercata sul terreno della psicologia razionale. Come abbiamo visto, Sigieri la sua risposta l’ha già trovata, e l’ha esposta nelle quaestiones 7 e 8: «dico quod unietur ei non sicut forma materiae, sed sicut locatum unitur loco, quia operatur in eo»27.

L’anima, ribadisce, non è forma sostanziale del corpo. L’intelletto immateriale non può comunicare con ciò che è organico, ma si relaziona ad esso attraverso mediazioni, secundum potestatem, ed è operans in cor-pore così come il timoniere guida la nave; aggiunge qui: come il locato al luogo. Lo stesso accade all’anima separata nei confronti del fuoco: l’anima è costretta dalla giustizia divina a stare nel fuoco ed operare in esso, sof-frendo per l’impossibilità di soddisfare il suo desiderio di operare altrove.

Unietur ergo anima igni, quia erit operans in eo. Nunc autem ignis bene potest esse instrumentum divinae iustitiae quantum ad hoc quod ipse deter-minat locum suum ita quod ipsa non possit alibi esse operans, sed solum in ipso igne. Anima ergo ita detinetur ab igne, detenta tristatur, et in hoc patitur, cum ipsa desideret alibi operari, et non possit. Dicit enim Averroes quod om-nis voluntas est delectabilis. Quod ergo impedit voluntatem animae ei unire, in quo quidem delectaretur, si eam compleret, facit eam tristari, et sic anima patitur ab igne28.

L’inferno non è tanto un forno quanto un carcere, e la causa di tor-mento per l’anima consiste nel sentirsi frustrata nella sua voluntas, vedersi negata la libertà di azione, essere impedita nell’esercizio di quella che è

26 Ibid.27 Ibid.28 Ivi, pp. 150-152.

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la sua operazione propria, ovvero l’intelligere. Il processo di conoscenza, infatti, comincia solo quando l’anima intellettiva è messa in condizione di ricevere le species elaborate dai sensi: unicamente a quel punto l’in-telletto si attiva, astraendo dalle intentiones imaginatae gli intelligibili e depositandoli nell’intelletto possibile. Costretta ad operare in un corpo come il fuoco che non permette di costruire le intentiones imaginatae, l’anima del dannato si trova priva del materiale di partenza: l’intellectus senza species è fermo. L’unico modo in cui l’anima potrebbe svolgere la sua funzione conoscitiva dopo la morte sarebbe per una visione diretta degli intelligibilia (tale è appunto la visio beatifica), ma alle anime tratte-nute nell’inferno non è concesso saltare le mediazioni e vedere faccia a faccia: ecco dunque la tristitia.

L’andamento della quaestio sembra a questo punto effettuare uno scarto. Sigieri pone due domande – se l’anima opera nel fuoco, dov’è collocata? se si colloca nel fuoco stesso, quale operazione compie in esso? – ma le lascia senza risposta, dopodiché non nomina più l’inferno e torna a far parlare Aristotele ed Averroè: «forte, si quaeretur ab Aristotele utrum anima intellectiva esset passibilis, ipse responderet quod ipsa intellectiva separata impassibilis est, et forte ipse cum Commentatore eius diceret quod ipsa inseparabilis est, et si separetur ab hoc corpore, non tamen ab omni corpore simpliciter separatur»29.

In una prospettiva puramente aristotelica l’anima separata è impas-sibile, e se si volesse dire che viene separata, tale separazione deve essere intesa solo per quanto riguarda un determinato corpo, non ogni corpo simpliciter. Per quale motivo? L’intelletto è unico secondo la sostanza per tutta la specie umana, solo gli uomini si collegano ad esso, perché solo il corpo umano è capace di costruire i phantasmata di cui si serve per operare. Questo intende Aristotele quando, criticando la tesi pitago-rica della trasmigrazione, afferma che «non quaelibet anima ingreditur quodlibet corpus»: «debet intelligi per hoc quod ipse velit dicere quod intellectus, licet non sit nisi unus in substantia, non numeratus substan-tialiter secundum numerationem hominum, tamen ita appropriat corpus hominis quod non se inclinat ad corpus, id est, brutorum».

L’intelletto non può mai stare separato absolute, altrimenti sarebbe totalmente impotente: deve essere sempre unito al corpo di uno dei mol-teplici individui della specie umana, in modo da poter continuare la sua attività, grazie alle loro immagini; immagini che finiscono per appartenere, in un certo senso, ad un’unica ragione: «unde, cum intellectus in potentia se habeat ad intentiones imaginatas, determinate respicit intentiones imaginatas hominum, eo quod omnes intentiones imaginatae hominum

29 Ivi, p. 152.

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unius rationis sunt. Ideo intellectus unicus in omnibus est secundum substantiam suam et secundum suam potestatem»30.

Da questo punto di vista, porsi la questione dell’anima separata e della punizione infernale non ha assolutamente senso.

2. Intorno alla quaestio

L’ultimo paragrafo della q. 11 presenta la posizione che Sigieri sviluppa nel capitolo VI del De anima intellectiva, quando ritorna ad indagare – «secundum documenta philosophorum» – in che modo essa sia separabile dal corpo e quale condizione abbia quando è separata31.

Il capitolo si apre nuovamente con una presa di coscienza della difficoltà della materia: l’argomento non è stato affrontato da Aristo-tele, dunque il magister in artibus può solo tentare di ricostruire la sua opinione, che sembra appunto essere quella secondo cui l’anima può separarsi da un determinato corpo, una volta che questo si è corrotto, ma mai in senso assoluto dal mondo corporeo, poiché sarà sempre atto di un qualche altro corpo.

Vale la pena soffermarsi sul quarto argomento. Per poter affermare che l’anima possiede uno stato separato, si deve dimostrare che svolge delle operazioni indipendentemente dal corpo di cui è atto, e questo lo si può fare osservando le attività che compie mentre è legata al corpo, o quando ne è separata. L’operazione propria esercitata dall’anima quan-do è nel corpo – ovvero il pensare – non può avere luogo «sine corpore et phantasmata». Delle eventuali azioni che potrebbe compiere in uno stato di separazione non si può sapere invece niente, poiché, per quanto ‘alcuni’ si ostinino a volerle studiare, agli uomini non è dato di esperire alcun effetto che sia frutto delle attività dell’anima separata32.

Questo è dunque ciò che si può ricavare dallo studio della filosofia aristotelica circa la separabilità dell’anima. A coloro che sostengono che è erroneo e contrario alla giustizia credere che le anime non si separino totalmente dai corpi e che non vengano punite o premiate proporzional-mente al loro merito, Sigieri risponde che il suo intento non era indagare la verità circa l’anima, ma l’opinione del Filosofo al riguardo33.

30 Ibid.31 DAI, VI, pp. 278-288.32 Ivi, p. 282: «nec etiam potest videri totaliter separata a corpore per effectus

apparentes de ea a corpore separata, cum hominibus communiter, immo etiam ad hoc studere volentibus, non appareant opera animae talem statum habentis».

33 Ivi, p. 284: «Quod si quis dicat hoc esse erroneum animas a corporibus totaliter non separari et eas poenas et praemia recipere secundum ea quae gesserunt in corpore, quod enim non ita fiat, hoc est praeter rationem iustitiae, dicendum, sicut et a principio

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Il magister artium difende il suo punto di vista nei confronti della Rivelazione: i filosofi non possono avere esperienza di attività dell’anima separata e nel XII libro della Metafisica Aristotele non ha incluso l’anima intellettiva tra le sostanze separate. Nulla vieta che alcuni uomini dotati di profezia abbiano conosciuto delle verità inaccessibili all’umana ragione, ma tali verità debbono essere indagate, appunto, in altra sede («alibi videre debit»)34.

La chiusa della q. 11 ed il capitolo VI presentano la logica con-seguenza di una posizione monopsichista, soluzione che Hissette e la storiografia tradizionale hanno considerato come l’opinione definitiva di Sigieri e l’obiettivo polemico della condanna di Tempier35.

È necessario, tuttavia, porsi due domande:

(I) Nella q. 11 Sigieri acconsente incondizionatamente ed unicamente alla via aristotelica dell’inseparabilità dell’anima dal mondo corporeo o lascia in piedi come possibilità filosoficamente valida, seppure da chiarire in modo ulteriore, la tesi dell’anima separata come unita al fuoco sicut locatus in loco?

Come avevamo accennato, prima dell’ultima parte della quaestio – quella che comincia con l’ipotetica risposta di Aristotele – si avverte come uno scarto nell’esposizione. In parte la cesura è limata dalle due domande lasciate in sospeso, che rivestono una sorta di funzione-ponte: «Si tu dices: cur anima operaretur in igne, ubi locatur? Propter hoc enim locatur alicubi, quod ipsa velit determinare <ubi> operetur. Si ergo anima locatur in igne, quam operationem operatur in igne?»36.

Secondo Gauthier, il Sigieri-averroista sta qui lasciando intrave-dere il suo scetticismo37. «Il prend philosophiquement une position de

dictum est, quod nostra intentio principalis non est inquirere qualiter se habeat veritas de anima, sed quae fuerit opinio Philosophi de ea».

34 Ivi, pp. 286-288.35 Hissette, Enquête sur les 219 articles, cit., p. 312:«La source de la proposition se

trouve dans les Q. in tertium de anima de Siger de Brabant. […] Question peu philoso-phique, constate Siger. Après avoir critiqué diverses solutions émanant de théologiens, il reconnaît la possibilité d’une détention de l’âme dans le feu, où elle serait condamnée à agir. Mais il ajoute que, si l’on interrogeait Aristote sur la question, il répondrait peut-être (forte) que l’âme séparée est impassible: ipsa (anima) intellectiva separata impassibilis est. Peut-être ajouterait-il avec son Commentateur que l’âme, unique pour tous les hommes, n’est jamais séparée de tous les individus. Siger est certainement disposé à accepter ces vues, puisque, tout au long des Quaestiones, il défend le monopsychisme».

36 QTD, q. 11, 89-91, p. 34.37 Gauthier, Notes sur Siger de Brabant, I, cit., pp. 226.

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philosophe», afferma de Libera38. Per Petagine, l’intento del magister è chiudere la questione lasciandola in sospeso, ovvero «mettendo in evi-denza la difficoltà di coniugare l’escatologia cristiana, che presuppone una reciproca e biunivoca appartenenza tra l’intelletto e il singolo corpo umano, con la psicologia razionale indicata da Aristotele e da Averroè, a cui i teologi Alberto e Tommaso pur intendevano ispirarsi a livello filosofico»39. Probabilmente è così, ciò non toglie che, pur con i suoi aspetti oscuri, la prospettiva secondo cui l’anima che patisce sia operans in igne sembri assai compatibile con la psicologia e la noetica sigieriana.

(II) Ammettendo che Sigieri riconosca una certa validità teoretica anche a questa soluzione, quale delle due intendeva colpire Tempier nelle condanne del 1270-1277?

La domanda non è oziosa perché chiama in causa un terzo autorevole protagonista, altra vittima, seppure indiretta, della censura: Tommaso d’Aquino.

Come è stato ampiamente mostrato da Gauthier in un noto artico-lo, Sigieri aveva strutturato la sua q. 11 attingendo a piene mani dalle pagine del commento tommasiano al IV libro delle Sentenze, seguendo puntualmente la dist. 44, q. 3, a. 3, qla 340 e riprendendo alla lettera – o meglio, quasi alla lettera – la sua tesi dell’alligatio41. Sigieri segue infatti Tommaso fino a prima della formulazione dei due dubbi-ponte, dopo-diché lo abbandona.

Gauthier si è impegnato in un’analisi accuratissima, quasi chirurgica, sezionando il testo e ricongiungendolo in ogni proposizione alla sua fonte diretta, che è sempre l’Aquinate, anche quando sembra che Sigieri voglia far parlare Aristotele.

La prima quod non di Sigieri è la seconda che usa Tommaso, anche se quest’ultimo la riferisce ad Agostino e non ad Aristotele42, così come la

38 De Libera, L’Unité de l’Intellect, cit., pp. 517.39 Petagine, Aristotelismo difficile, cit., p. 150.40 Th-InIVSent, dist. 44, q. 3, a. 3, qla 3, pp. 240-244 e dist. 44, q. 3, a. 3, sol. 3,

pp. 252-256. Tommaso ha affrontato lo stesso tema in: Contra Gentiles, IV, c. 90; De anima, a. 21; De veritate, q. 26, a. 1; Quodlibet II, q. 7, a. 1; Quodlibet III, q. 10, a. 1; Compendium theologiae, c. 180.

41 Gauthier, Notes sur Siger de Brabant, I, cit., pp. 217-226, cfr. ivi, p. 217: «Siger emprunte à peu près tous les éléments de sa question à celle de S. Thomas, avec des remaniements de pure forme».

42 Th-InIVSent, dist. 44, q. 3, a. 3, qla 3, p. 242:«Praeterea, Augustinus in eodem lib. [De gen. ad litt., XII, XVI, 33; PL 34, 467], dicit, quod agens semper est nobilius patiente. Sed impossibile est aliquod corporeum esse nobilius anima separata. Ergo non potest ab aliquo corpore pati». Tommaso aveva comunque in precedenza segnalato anche

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seconda ricalca la terza, e la terza ricalca la quinta43. È da Tommaso che il brabantino ricava la citazione dall’Etica aristotelica «quod delectatio est a contemplatione»44 e l’argomento quod sic45. Confrontando le tre ipotesi che entrambi i maestri utilizzano per aprire la sezione della solutio il pa-rallelismo è ancora più evidente. Ecco qui, per intero, il testo di Tommaso:

(aTh) Quidam enim dixerunt, quod hoc ipsum quod est ignem videre, sit animam ab igne pati; unde Gregorius in 4 Dial. [c. 29; PL 77, 368A] dicit: «Ignem eo ipso patitur anima quo videt». Sed istud non videtur sufficere; quia quodlibet visum ex hoc quod videtur, est perfectio videntis; unde non potest in eius poenam cedere inquantum est visus; sed quandoque est punitivum vel contristans per accidens, inquantum scilicet apprehenditur ut nocivum; unde oportet quod praeter hoc quod anima illum ignem videt, sit aliqua comparatio animae ad idem, secundum quam ignis animae noceat.

(bTh) Unde alii dixerunt, quod quamvis ignis corporeus non possit animam exurere, tamen anima apprehendit ipsum ut nocivum sibi; et ad talem apprehen-

il passo aristotelico e secondo Gauthier è da lì che Sigieri ha preso letteralmente la sua citazione, invece che rifarsi all’originale del De anima, cfr. ivi, dist. 1, q. 1, a. 4, qla 1, arg. 3: «Nobilius est agens patiente, secundum Augustinum in XII De Genesi ad litteram et secundum Philosophum in III De anima».

43 Ivi, dist. 44, q. 3, a. 3, qla 3, p. 242.44 Ibid.: «Si dicatur, quod hoc ipso anima punitur ab igne quod ignem videt, ut

videtur dicere Gregorius in 4 Dialog. [c. 29; PL 77, 368A]: contra. Si anima videt ignem inferni, non potest videre nisi visione intellectuali, cum non habeat organa quibus visio sensitiva vel imaginaria perficitur. Sed visio intellectualis non videtur quod possit esse causa tristitiae: delectationi enim quae est in considerando, non est tristitia contraria, secundum Philosophum [Top., I 15, 106a36-b1]. Ergo ex tali visione anima non punitur». Gauthier interpola dunque così la proposizione di Sigieri: «Dicit Aristotiles in Ethicis quod <delectatio que est a sensu differt specie a> delectatione que est a contemplatione [Ethic. Nic., X, 1175a21-28]». La sua lettura è certamente sensata, anche se ne dà una giustificazione alquanto macchinosa, cfr. Gauthier, Notes sur Siger de Brabant, cit., p. 218: «cette majeure [cioè, così come è stata resa nell’edizione di Bazán] permet seule-ment de conclure: “or, la vision du feu est contemplation; donc elle est source de joie”» attraverso la fonte tommasiana si può concludere invece «que la contemplation du feu est source de joie sans tristesse». L’argomento che «la contemplation est une source de joie sans mélange de tristesse» viene usato da Tommaso come citazione dai Topici, ma si può trovare anche nell’Etica Nicomachea, ecco così che Gauthier si sente autorizzato a rendere quella frase coerente con il successivo discorso di Sigieri, ricorrendo ad un altro argomento sviluppato proprio nell’Etica Nicomachea: «Mais Siger, dans sa conclusion, met en vedette une autre idée:la contemplation du feu ne peut être source d’une tristesse matérielle: il faut donc qu’il ait pris comme majeure la distinction spécifique des plaisir et des peines telle que l’établit Aristote: à une opération matérielle suivent des plaisir et des peines matériels, à une opération spirituelle des plaisirs et des peines spirituels. D’où la restitution que j’ai proposée (et qui a en outre l’avantage de garder les mots du ms.)» (cfr. supra, nota 21).

45 Il passo ripreso è il secondo sed contra, cfr. Th-InIVSent, dist. 44, q. 3, a. 3, qla 3, p. 244.

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sionem afficitur timore et dolore, ut in eis impleatur quod dicitur Psalm. 13, 5: «Trepidaverunt timore, ubi non erat timor». Unde Gregorius in 4 Dial. [c. 29; PL 77, 368A] dicit, quod quia anima cremari se conspicit, crematur. Sed hoc iterum non videtur sufficere; quia secundum hoc passio animae ab igne non esset secundum rei veritatem, sed secundum apparentiam tantum: quamvis enim possit esse vera passio tristitiae vel doloris ex aliqua falsa imaginatione, ut Augustinus dicit 12 super Genes. ad litteram [XXXII 60-61; PL 34, 480-481]; non tamen potest dici quod secundum illam passionem vere patiatur a re, sed a similitudine rei quam concipit. Et iterum iste modus passionis magis recederet a reali passione quam ille qui ponitur per imaginarias visiones; cum ille dicatur per veras imagines rerum esse, quas anima secum defert; iste autem per falsas conceptiones quas anima errans fingit. Et iterum non est probabile quod animae separatae, vel daemones, qui subtilitate ingenii pollent, putarent ignem corpo-reum sibi nocere posse, si ab eo nullatenus gravarentur.

(cTh) Unde alii dicunt, quod oportet ponere animam etiam realiter ab igne corporeo pati; unde etiam Gregorius in 4 Dial. [c. 29; PL 77, 368A] dicit: «Col-ligere ex dictis evangelicis possumus quia incendium anima non solum videndo, sed etiam experiendo patiatur». Sed hoc tali modo fieri ponunt. Dicunt enim, quod ignis ille corporeus potest considerari dupliciter. Uno modo secundum quod est res quaedam corporea; et hoc modo non habet quod in animam agere possit; alio modo secundum quod est instrumentum divinae iustitiae vindicantis; hoc enim divinae iustitiae ordo exigit ut anima quae peccando se rebus corporali subdit, eis etiam in poenam subdatur. Instrumentum autem non solum agit in virtute propria, sed etiam in virtute principalis agentis, ut supra, dist. 1, quaest. 1, art. 4, dictum est; et ita non est inconveniens, si ignis ille, cum agat in vi spi-ritualis agentis, in spiritum agat hominis vel daemonis, per modum etiam quo de sacramentis dictum est, dist. 1, quod animam sanctificant. Sed istud etiam non videtur sufficere: quia omne instrumentum in id circa quod instrumentaliter operatur, habet propriam actionem sibi connaturalem, et non solum actionem secundum quam agit in virtute principalis agentis; immo exercendo primam actionem oportet quod efficiat hanc secundam; sicut aqua lavando corpus in baptismo sanctificat animam, et sera secando lignum perducit ad formam domus. Unde oportet dare igni aliquam actionem in animam quae sit ei connaturalis ad hoc quod sit instrumentum divinae iustitiae peccata vindicantis46.

Le differenze dalla versione di Sigieri? Ovviamente l’ampiezza con cui vengono trattate le solutiones e lo sviluppo armonico delle argomentazioni. Al confronto, i passi del brabantino sembrano brutali riassunti47. Tom-maso estende inoltre l’indagine alla sorte dei demoni, che sono destinati, in quanto spirituali, a soffrire le stesse pene delle anime umane dannate.

46 Th-InIVSent, dist. 44, q. 3, a. 3, sol. 3, pp. 252-254. 47 Gauthier, Notes sur Siger de Brabant, cit., p. 222: «le résumé est brutal et en fin

de compte peu intelligible: on aime à croire que le ms. ne nous a conservé qu’un canevas que Siger dans son cours dépeloppait».

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Ma soprattutto si può osservare la citazione esplicita delle auctoritates: Tommaso non manca mai di riferire le opinioni alle relative fonti, ovvero Gregorio e Agostino, così come ne dava notizia il testo di Pietro Lombardo.

Segnalando i passi dei due Padri, il Dottore Angelico – seguito da Sigieri – muoveva in realtà una critica ai teologi passati e contemporanei, che da quei testi avevano sviluppato delle teorie sul fuoco dell’inferno tali da svilirne l’efficacia reale nei confronti dell’anima dannata. L’idea di una pena tutta spirituale, paragonabile alla dimensione onirica, era già stata infatti denunciata nel secondo articolo della stessa quaestio, ed attribuita ad Avicenna, colpevole di aver dato un’interpretazione metaforica dei castighi riducendoli alla sola poena damni, ovvero al dolore spirituale, al rimorso, al desiderio insoddisfatto per l’allontanamento da Dio, ridu-cendo la poena sensus ad una sofferenza immaginaria: «sicut in somnis propter similitudines praedictas in imaginatione existentes videtur homini quod torqueatur poenis diversis»48. All’idea di un’apprehensio mediante la quale le anime potevano soffrire per il fuoco, senza che tuttavia questo le colpisse o le alterasse fisicamente era ricorso Bonaventura49. Anche Alberto Magno aveva seguito Agostino nel parlare di similitudines degli organi corporei attraverso le quali le anime dannate potevano percepire il fuoco, così come colui che sogna vede se stesso camminare o sedere50. Ed è di Alberto una delle più celebri formulazioni della tesi (c), ovvero che il fuoco infernale non deve essere inteso come elementum corporeum ma come instrumentum divinae justitiae, dotato da essa di una vis incorporea tale da permettergli di affliggere anche le realtà spirituali51.

48 Th-InIVSent, dist. 44, q. 3, a. 2, sol. 1; cfr. Avicenna, Liber de philosophia prima, sive scientia divina, ed. S. Van Riet, E. Peeters-Brill, Louvain-Leiden 1980, p. 520: «Animae vero malae vident etiam poenam quam imaginaverant in hoc mundo et affliguntur ea. Forma enim imaginata non est debilior sensibili, sed est maior impressione et claritate, sicut videmus in somnis; fortasse enim si somniatum maius est pro modo suo quam sensi-bile, tunc quanto magis illud quod est in alio saeculo fortius est quam quod est in somnis propter paucitatem impedimentium et expoliationem animae et claritatem recipientis».

49 Doctoris Seraphici S. Bonaventurae s.r.e. episc. card. Commentaria in quatuor libros sententiarum magistri Petri Lombardi, IV, In quartum librum sententiarum, in Opera Omnia, ex typographia collegii S. Bonaventurae, Quaracchi, 1889, pp. 933-935.

50 D. Alberti Magni Ratisboniensis episcopi, ord. praed., Commentaria in IV Senten-tiarium, in Opera omnia, ed. A. Borgnet, t. XXX, Vivés, Paris 1894, dist. 44, F, a. 37, pp. 592-593 e a. 40, p. 598; ivi, dist. 44., G, p. 595: «profiteri animam habere posse similitudi-nem corporis et corporalium omnino membrorum quisquis renuit, potest negare animam esse quae in somnis videt vel ambulare se, vel sedere, vel huc atque illuc gressu vel etiam volatu ferri: hoc sine quadam similitudine corporis non fit. Proinde si hanc similitudinem etiam apud inferos gerit, non corporalem, sed corpori similitudinem: ita etiam in locis videtur esse non corporalibus, sed corporalium similibus sive in requie sive in doloribus».

51 Ivi, p. 593: «ignis ille corporeus potest accipi dupliciter, scilicet ut instrumentum divinae justitiae vindicantis peccatum commissum contra Deum, et ut elementum corpo-

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Prima di prendere in esame la solutio definitiva, che per Tommaso è definitiva senza dubbio, ovvero quella dell’anima che si rapporta al fuoco come il locato al luogo, soffermiamoci su un ulteriore parallelismo indi-viduato da Gauthier, che ci può offrire l’occasione per fare un accenno all’impostazione filosofica di Sigieri ed agli atteggiamenti storiografici con cui è stato letto, dalla rinascita della categoria-averroismo nelle pagine di Renan ad oggi.

La digressione sull’inferno pitagorico non è un’invenzione di Sigieri, ma è ancora ripresa da Tommaso, che a sua volta l’aveva trovata in Alberto (e poi rielaborata), che a sua volta l’aveva costruita attingendo e rima-neggiando tradizioni (e traduzioni) diverse52. Quello che è interessante notare è che Sigieri non solo ‘clona’ Tommaso, ma lo ‘clona’ prendendo un abbaglio, facendo confusione nell’interpretare la localizzazione pita-gorica del fuoco:

Aristote le dit clairement, S. Albert et S. Thomas l’avaient parfaitement expliqué, Pythagore place le feu au centre non pas de la terre, mais de l’univers, d’un univers non géocentrique […]. Or Siger lui fait dire exactement le contraire: «ignem esse in centro terre» […] Siger a-t-il fait semblant de mal comprendre la localisation pythagoricienne pour exploiter contre les théologiens, favorables à la localisation de l’enfer au centre de la terre, la critique d’Aristote ? A d’autres époques et de la part d’autres adversaires de la théologie, pareille mauvaise foi n’étonnerait pas, mais rien n’autorise à prêter à Siger cet excès de perfidie. Bien plutôt a-t-il péché par excès de naïveté: il s’est laissé entraîner par le prestige de l’hypothèse géocentrique, ou par l’imagerie populaire de l’enfer, à lire de travers un texte d’Aristote qu’Albert et Thomas avaient lu correctement53.

Per Gauthier questo errore di Sigieri è l’ennesima conferma alla sua impostazione storiografica: il maestro brabantino non è l’incarnazione dell’averroista-modello di renaniana memoria, il portavoce di una vena razionalista ed incredula, sotterranea ai ‘secoli bui del medioevo’54. Non è il servile discepolo di Aristotele descritto nelle pagine di Mandonnet55, né, come invece aveva sostenuto Van Steenberghen, quel pensatore vigoroso, indipendente e senza scrupoli che, almeno nel primo periodo della sua carriera intellettuale, aveva proposto una concezione dell’ani-

reum. Et primo quidem modum habet corporeus ignis vim incorpoream affligendi etiam naturam nobiliorem se, dummodo sit sub peccato. Secundo autem modo non habet».

52 Gauthier, Notes sur Siger de Brabant, cit., pp. 219-222.53 Ivi, p. 222 (nostro il corsivo).54 E. Renan, Averroès et l’averroïsme, in Oevres complètes, ed. H. Psichari, t. III,

Calmann-Lévy, Paris 1949.55 P. Mandonnet, Siger de Brabant et l’averroïsme latin au XIIIme siècle, Éditions de

l’institut Supérieur de Philosophie, Louvain 1908-1911.

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ma apertamente ispirata ad Averroè e contraria agli insegnamenti del cristianesimo56, dal momento che tanto Averroè quanto Aristotele erano conosciuti da Sigieri solo di seconda mano, per averli letti nelle pagine del commento alle Sentenze di Tommaso.

Averroïsme de seconde main, l’averroïsme de Siger n’est pas (comme le sera souvent plus tard l’averroïsme) un averroïsme de philologue, c’est un averroïsme de philosophe: il n’est pas né l’analyse des textes, mais d’une option rationnelle. Le Siger des Questiones in tercium de anima nous apparaît avant tout comme un logicien, rompu à la technique des «impossibilia»: sa culture est limitée, son infor-mation médiocre, sa connaissance des textes insuffisante, sa faculté d’invention nulle (on chercherait en vain chez lui une idée originale); mais, une fois qu’il a reçu d’un autre une hypothèse, il excelle à en développer jusqu’au bout les conséquences57.

Nel suo tentativo di smontare la figura eroica del Sigieri sovversivo, Gauthier finisce per sottovalutarlo. Nonostante riconosca la capacità del magister di assimilare le ipotesi degli altri e di condurle fino alle ultime necessarie conseguenze, non fa a questa capacità che un pallido e freddo elogio, un elogio di quelli che si può rivolgere ad un logico rigoroso, ma senza genio, che svolge meccanicamente a testa bassa il proprio lavoro, senza arricchirlo di nessuna idea personale. Forse anche Gauthier è caduto vittima della tendenza moderna e contemporanea a fare dell’originalità il criterio per giudicare il valore di un opera, dimentico del fatto che nel medioevo i concetti di ‘plagio’ e di ‘diritto d’autore’ avevano poco senso.

Secondo i medievisti contemporanei, l’originalità di Sigieri – con tutte le accezioni medievali del termine – risiede proprio in quella sua abilità di sviluppare con argomentazioni coerenti le conseguenze dei presupposti da cui partivano i suoi avversari, seguendoli impietosamente, nonostante potessero andare a contraddire le verità di fede58. Come vedremo, Sigieri non fa questo per amore pedissequo della forma, ma per conformità ad una sua ben precisa concezione del lavoro filosofico.

Torniamo quindi alla digressione denunciata. Siamo certamente d’accordo con Gauthier quando nega la possibilità che il filosofo avesse premeditato lo sbaglio con lo scopo di lanciare una tacita accusa contro le credenze cristiane. Neanche un sostenitore della dottrina della doppia verità avrebbe fatto ricorso ad una disonestà intellettuale del genere e, come è stato ampiamente dimostrato, la dottrina della doppia verità non solo non è imputabile a Sigieri, ma non è mai stata realmente pronuncia-ta se non da coloro che la volevano condannare. L’errore ermeneutico,

56 Van Steenberghen, Maître Siger de Brabant, cit., p. 52.57 Gauthier, Notes sur Siger de Brabant, I, cit., pp. 231-232.58 Petagine, Aristotelismo difficile, cit.; Putallaz, Imbach, Professione filosofo, cit.

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più che errore di ingenuità, potrebbe forse essere riconducibile ad un semplice errore di disattenzione, o di disinteresse. In fin dei conti, l’in-terpretazione che Sigieri dà della teoria aristotelica dei luoghi è corretta e quindi, come commentatore di Aristotele, il magister ha fatto bene il suo lavoro. È possibile che la tesi della localizzazione dell’inferno secondo l’effettivo pensiero pitagorico, invece, lo interessasse solo marginalmente. Non dimentichiamo che siamo davanti ad un commento per modum qua-estionis del terzo libro del De anima, non in un’expositio del De Caelo, e che l’intento principale di Sigieri è chiarire le contraddizioni che vanno a toccare i punti fondamentali della dottrina aristotelica (e cioè filosofica). Ora, ai fini dello scioglimento della q. 11, la digressione non è servita a niente, se non a ribadire che Aristotele non si è occupato dell’anima separata. Ha poca rilevanza accanirsi su un errore di questo tipo e in questo contesto, è importante invece far notare come questo passo riveli la tipica strategia argomentativa sigieriana.

Non disponendo di alcun insegnamento aristotelico diretto per risol-vere la questione (e come avrebbe mai potuto disporne?), Sigieri deve ‘fab-bricare’ la soluzione utilizzando altri strumenti: i presupposti aristotelici, gli adagi che riguardano altri argomenti ed anche il richiamo alla ratio ed all’esperienza individuali. Assunti i fondamentali principi dell’aristoteli-smo, ne trae inevitabilmente tutto ciò che da essi deriva. Inevitabilmente certo, ma non secondo un algoritmo preesistente, poiché è il filosofo che con le sue scelte interpretative decide l’orientamento della sua ricerca.

Un mito deve essere sicuramente abbattuto, e cioè quello mandonet-tiano. Aristotele non è l’auctoritas definitiva, poiché non ne esiste alcuna: né quella del Philosophus che «cum philosophus quantumcumque magnus in multis possit errare»59, né quella del consensum gentium60.

Nonostante il fatto che nel De anima intellectiva Sigieri aveva dichiarato di ricercare più l’opinione dei filosofi che la verità61, come afferma Bianchi,

non c’è dubbio che per lui e per tanti suoi colleghi il corpus aristotelicum co-stituiva solo il punto di partenza per un itinerario esegetico e speculativo al contempo. Essi infatti si proponevano di sviluppare criticamente la tradizione

59 Siger de Brabant, Quaestiones in Metaphysicam, ed. A. Maurer, Éditions de l’Institut Supérieur de Philosophie, Louvain–La–Neuve 1981, p. 412; Id., Quaestiones in Metaphysicam, ed. A. Dunphy, Éditions de l’Institut Supérieur de Philosophie, Lou-vain–La–Neuve 1983, p. 143: «et dicere Aristotelem hoc opinari, non est hoc asserere».

60 Ivi, p. 226: «Et ideo verum iudicare multitudine vel etiam paucitate insufficiens est, sed iudicandum est verum per rationes, non quia aliquis sic opinatur. Qui enim cre-dit opinioni alicuius propter amorem eius sive dicentis eam, non quia rationem habet, vituperandum est»; cfr. Bianchi, «Velare philosophiam non est bonum», cit., pp. 255-270.

61 Per una spiegazione della frase, cfr. Petagine, Aristotelismo difficile cit., pp. 211-214.

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nella quale si inserivano, pienamente consapevoli che Aristotele e i suoi seguaci non avevano voluto affrontare né avevano saputo risolvere tutti i problemi; che i principi sui quali si erano fondati non erano sempre evidenti e indiscutibili; e che le loro argomentazioni erano a volte errate o contraddittorie. La ‘lettura’ dei testi aristotelici, l’interpretazione e la discussione del loro contenuto erano quindi l’occasione e lo strumento per svolgere un lavoro autenticamente filosofico e teso alla conquista della verità62.

Ci resta quindi da confrontare i testi dei due autori per quanto riguar-da la soluzione che vede l’anima separata come operans in igne. Notiamo che anche in questo caso Sigieri ha saccheggiato gli argomenti di Tommaso d’Aquino, riprendendo la sua dottrina dell’alligatio63. Stavolta tuttavia la differenza è notevole e riguarda il nocciolo propriamente filosofico della questione. Ecco qui i due passi specifici a confronto:

Sicut anima corpori in suis passioni-bus uniebatur, ita post separationem unitur et ideo poterit ab eo pati. Qualiter autem unietur corpori? Dico quod unietur ei non sicut forma ma-teriae, sed sicut locatum unitur loco, quia operatur in eo. Unietur ergo anima igni, quia erit operans in eo.QTD, q. 11, p. 150

Uno modo ut forma materiae, ut ex eis fiat unum simpliciter; et sic spiritus unitur corpori et vivificat corpus, et a corpore aliqualiter aggravatur; sic autem spiritus hominis vel daemonis igni corporeo non unitur. Alio modo sicut movens mobili, vel sicut locatum loco, eo modo quo incorporalia sunt in loco […]Th-InIVSent, dist. 44, q. 3, a. 3, sol. 3, p. 254

62 Bianchi, Le verità dissonanti, cit., p. 19; cfr. Boulnois, Le chiasme, cit., p. 598: «Il ne procède pas en historien de la pensée, mais il souhaite répéter, au sens dramatique, l’acte philosophique initial. Il réactualise l’attitude des philosophes, mettant à part ses convictions personnelles, sa foi, pour se créer un espace de jeu où il imite les philosophes».

63 Th-InIVSent, dist. 44, q. 3, a. 3, sol. 3, p. 254: «Et ideo dicendum, quod corpus in spiritum naturaliter agere non potest, nec ei aliquo modo obesse vel ipsum gravare, nisi secundum quod aliquo modo corpori unitur; sic enim invenimus quod “corpus quod corrumpitur, aggravat animam”; Sap. 9, 15. Spiritus autem corpori unitur dupliciter, Uno modo ut forma materiae, ut ex eis fiat unum simpliciter; et sic spiritus unitur corpori et vivificat corpus, et a corpore aliqualiter aggravatur; sic autem spiritus hominis vel dae-monis igni corporeo non unitur. Alio modo sicut movens mobili, vel sicut locatum loco, eo modo quo incorporalia sunt in loco; et secundum hoc spiritus incorporei creati loco definiuntur, ita in uno loco existentes quod non in alio. Quamvis autem res corporea ex sua natura habeat quod spiritum incorporeum loco definiat, non tamen habet sua natura quod spiritum incorporeum loco definitum detineat, uta ita alligetur illi loco quod ad alia divertere non possit, cum spiritus non ita sit in loco naturaliter quod loco subdatur. Sed hoc superadditur igni corporeo, inquantum est instrumentum divinae iustitiae vindicantis, quod sic detinet spiritum, et ita efficitur ei poenalis, retardans eum ab executione propriae voluntatis, ne scilicet possit operari ubi vult, et secundum quod vult».

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Mentre Tommaso ribadisce la differenza tra l’unione dell’anima al corpo – unione della forma sostanziale alla materia – e l’unione dell’ani-ma separata al fuoco – relazione del tipo movente-mosso/locato-luogo – Sigieri ammette la possibilità della passio da parte dell’anima separata ad opera del fuoco materiale proprio perché tale processo rispecchia quello che, sulla terra, permetteva all’anima intellettiva di rapportarsi al corpo. Il modo con cui l’anima intellettiva in vita si univa al corpo è lo stesso con cui l’anima separata dei dannati si unisce allo strumento della sua punizione.

Non solo Sigieri ha preso l’insegnamento di Tommaso e lo ha caricato di un significato ben distante da quello di partenza, ma l’alligatio stessa risulta molto più coerente con la sua impostazione psicologica che con la dottrina tommasiana dell’anima come forma sostanziale del corpo.

Forse questa è una ragione per cui nel 1270 Tommaso non ha man-cato di reagire, con tutta la veemenza peculiare del De unitate intellectus contra averroistas, anche nei confronti di tale argomento.

Dopo aver enunciato la serie di errori in cui erano caduti gli aver-roisti, l’Aquinate chiude il De unitate con una critica aggressiva verso coloro che oltrepassano i limiti di pertinenza del discorso filosofico – occupandosi, ad esempio, del fuoco dell’inferno – ed osano contraddire le sentenze dei Padri: «non caret etiam magna temeritate, quod de his quae ad philosophiam non pertinent, sed sunt purae fidei, disputare praesumit, sicut quod anima patiatur ab igne inferni, et dicere sententias doctorum de hoc esse reprobandas. Pari enim ratione posset disputare de Trinitate, de Incarnatione et de aliis huiusmodi, de quibus nonnisi caecutiens loqueretur»64.

Le accuse sono due e vanno bene distinte. La prima è di tipo di-sciplinare: alcuni philosophi hanno sconfinato in un terreno che non li compete; la seconda è contenutistica: parlando dell’anima nell’inferno hanno sostenuto che le sentenze dei dottori debbano essere respinte.

Lasciando per il momento da parte la prima accusa, che avrà una singolare fortuna anche a livello istituzionale – sia negli articuli di Tem-pier che negli statuti universitari del 1272 – per il fatto di rispecchiare forse il volto più autentico della crisi parigina degli anni ’70, osserviamo invece la seconda critica.

C’è qualcosa che stona: Sigieri non ha contestato le soluzioni dei Pa-dri più di quanto non lo abbia fatto Tommaso stesso che, come abbiamo visto, ha sempre citato esplicitamente le auctoritates alla base delle tesi da rifiutare, salvo poi chiarirle e reinterpretarle secondo il metodo scolastico

64 Tommaso d’Aquino, Unità dell’intelletto contro gli averroisti (d’ora in avanti DUI), trad. it. A. Ghisalberti, Bompiani, Milano 20082, V, 119, p. 184.

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negli ad obiecta65. La polemica, da questo punto di vista, sembra poco congruente alla q. 11.

È così scontato che l’obiettivo polemico qui sia proprio il brabantino? Gli studiosi contemporanei sono generalmente concordi nel ritenerlo, anche se Petagine manifesta i suoi dubbi, considerando che tra la serie di proposizioni averroiste condannate prima di quella riguardante l’anima e il fuoco, alcune sono sicuramente non imputabili a Sigieri66.

Ammettendo che l’invettiva sia destinata a Sigieri, da dove proviene tut-ta questa violenza? Vediamo cosa ne ha ricavato la storiografia più recente.

Bazán ha ripreso la risposta tradizionale: ha visto nel passo di Tom-maso soltanto la condanna al monopsichismo averroista, aggiungendo tuttavia una considerazione ulteriore. Tommaso si era già occupato della quaestio «utrum anima separata possit pati poenam ab igne corporeo», con tono molto pacato, nella q. 21 delle Quaestiones disputatae de anima, datate gennaio 1269; essendo il De unitate del ’70, è possibile datare le Quaestiones in III de anima di Sigieri nel periodo che separa le due ope-re tommasiane, proprio in virtù della nuova violenza con cui nella sua seconda opera l’Aquinate attacca la q. 1167.

Secondo Flasch il punto non crea problemi: mettendo l’accento sull’impassibilità dell’intelletto, teoria aristotelica condivisa dagli stessi Alberto e Tommaso, Sigieri aveva costretto ad un ripensamento della tradizione escatologica da Agostino a Gregorio; da qui la wütenden Re-plick di Tommaso esposta alla fine del quinto capitolo del De unitate68.

65 Th-InIVSent, dist. 44, q. 3, a. 3, ao., p. 256.66 Petagine, Aristotelismo difficile, cit., pp. 192-193: «allora la discussione dello stato

dell’anima nel fuoco dell’inferno non risulta affatto uno dei segni in cui il riferimento a Sigieri diventa palese, come [invece] ripetono anche Putallaz e Imbach, bensì un luogo che lo rende, al contrario, problematico.»

67 Siger de Brabant, Quaestiones in tertium de anima, De anima intellectiva, De aeternitate mundi, cit., pp. 70, 72-73: «[…] la discussion est menée sans passion, sur un ton académique; aucune mention n’est faite d’un ‘philosophe naturel’ qui, dépassant les limites de sa science, aurait voulu trancher ce problème de nature théologique; aucune connexion n’est établie entre ce problème et la doctrine averroïste. Or, dans les Quaestiones in III De anima, Siger aborde ce problème, tout en reconnaissant qu’il s’agit d’une quaestio non multum philosophicam, et il la traite dans une perspective purement naturelle. Chose plus grave, il conclut en déclarant que, du point de vue philosophique, le problème est sans objecte, car selon la doctrine averroïste l’âme intellective, immatérielle et unique, ne revêt jamais la condition d’âme separée; l’espèce humaine est éternelle et il y aura toujours des individus auxquels elle pourra être unie. C’est bien cette position qui justifie l’indignation de Thomas dans le De unitate intellectus. […] Le changement de ton (et la liaison aperçue entre le monopsychisme et le problème qui nous occupe) ne s’explique que si on intercale les Quaestiones in III De anima entre les deux écrits du saint Docteur».

68 Flasch, Die Seele im Feuer, cit., p. 122.

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Putallaz e Imbach hanno fatto derivare la rabbia dell’Aquinate dal vedere le proprie pagine usate per dire altro: «mentre Tommaso, pur riconoscendo i problemi che si pongono, tenta di salvare il senso della questione del fuoco dell’inferno, Sigieri suggerisce che, dal punto di vista filosofico, la questione è senza oggetto»69.

I due studiosi non hanno accennato però, almeno in quella sede, allo stravolgimento – filosoficamente corretto – portato da Sigieri alla teoria dell’alligatio tommasiana, ipotesi che abbiamo riscontrato per ora solo in Petagine70.

Anche de Libera non parla delle conseguenze sul piano escatolo-gico delle differenze nell’impostazione psicologica dei due maestri, ma inserisce la dottrina dell’alligatio tra le cause dell’irruenza inaspettata del Doctor Angelicus in un’accezione efficace e molto utile al nostro discorso71.

I motivi della dura condanna tommasiana, per de Libera, sono estre-mamente articolati. Prima di tutto dobbiamo osservare che Tommaso fa ricorso ad un argomento del tipo ‘pendio-scivoloso’: se i filosofi comin-ciano ad occuparsi di argomenti escatologici è probabile che continuino nella loro disgraziata opera fino a parlare della Trinità, dell’Incarnazione e così via. Il primo motivo è dunque riconducibile alla prima accusa, interna al conflitto di Facoltà.

Seconda cosa: al di là dell’antagonismo tra Facoltà di Teologia e Facoltà delle Arti, le posizioni averroiste sono pericolose per la fede, la morale e il bene della stessa società. Per quanto riguarda la fede, non dimentichiamo che il passo citato dal De unitate si trova proprio di seguito alla famosa formulazione della dottrina della doppia verità72, e che nella q. 21 delle Quaestiones disputatae de anima aveva inserito come argomenti quod non, circa la questione della pena del fuoco e della passibilità dell’a-nima separata, due proposizioni fondate sulla limitazione della potentia absoluta divina73: «c’est donc bien la collusion entre monopsychisme,

69 Putallaz, Imbach, Professione filosofo cit., p. 114-118.70 Petagine, Aristotelismo difficile, cit., pp. 146-150 e pp. 189-196.71 De Libera, L’Unité de l’Intellect, cit., pp. 512-521.72 DUI, V, 119, p. 184: «Adhuc autem gravius est quod postmodum dicit: per

rationem concludo de necessitate, quod intellectus est unus numero; firmiter tamen teneo oppositum per fidem. Ergo sentit quod fides sit de aliquibus, quorum contraria de necessitate concludi possunt. Cum autem de necessitate concludi non possit nisi verum necessarium, cuius oppositum est falsum impossibile, sequitur secundum eius dictum quod fides sit de falso impossibili, quod etiam deus facere non potest: quod fidelium aures ferre non possunt».

73 St. Thomas Aquinas, Quaestiones de anima, ed. J.H. Robb, Pontifical Institute of Mediaeval Studies, Toronto 1968, arg. 10, p. 265: «Preterea, Deus, cum sit actor naturae, nihil contra naturam facit etc…»; ivi, arg. 11, pp. 265-266: «Preterea, Deus non potest facere quod contradictoria sint simul vera etc…».

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éternité du monde et limitation de la potentia Dei opérée par Siger dans les Quaestiones in III De Anima qui fait perdre son flegme à Thomas»74.

Ma come dicevamo è la terza considerazione quella veramente interessante: il rimprovero che Tommaso fa ai filosofi impudenti, nasce dall’ambiguità della posizione che lui stesso era venuto a formulare, in modo diverso rispetto agli averroisti, ma pur sempre in nome della dot-trina aristotelica dell’anima.

Le pagine di Tommaso sulle pene infernali non erano state accolte pa-cificamente dai suoi avversari francescani, dal momento che, prospettando un’eterna assegnazione di residenza d’ordine carcerario per i dannati, l’alligatio poteva apparire più vicina ad una punizione spirituale di priva-zione della libertà, di impedimento all’anima nella realizzazione del suo movimento naturale, che ad un castigo materiale consono all’ortodossia.

Né Matteo d’Acquasparta nella q. 7 delle Quaestiones disputatae de anima separata, né Guglielmo de la Mare nel Correctorium avevano infatti risparmiato i loro attacchi alla posizione tommasiana, definendola erronea, contraria alla verità evangelica ed all’autorità dei santi75.

Sed iste modus, licet habeat aliquid veritatis, videtur tamen non minus habere intermixtum erroris. Quod enim ponit separatos in igne infernali tamquam in carcere recludi et arctari atque illi igni indissolubiliter alligari, ac per hoc eius operationes naturales et sibi convenientes impediri, et retinendo, et conando se inde absolvere nec valendo, vehementer affligi, hoc verum est. Sed quod spiritus illos omnino negat ab illo igne aliquid vere pati, videtur esse contrarium evangelicae veritati. Nam secundum Veritatis testimonium, anima divitis epulonis vere cruciabatur in flamma et ardebat, et ideo ad refrigerium stillam aquae petebat. Super quo dicit Ambrosius quod non tantum est parabola, sed vera narratio. Rursus, si non ponitur seu patitur nisi per illam detentionem et impeditionem nec aliquem sentit ardorem, non punitur in igne quia ignis, sed quia locus. […] Si igitur, secundum sententiam evangelicam, spiritus separati puniuntur ab igne quia ignis, iste modo non sufficit, immo alium modum ne-gando iste modus est erroneus. […] Unde iste modus est contrarius evangelicae veritati et sanctorum auctoritati76.

74 De Libera, L’Unité de l’Intellect, cit., pp. 517.75 Matteo d’Acquasparta, Quaestiones disputate de anima separata (QAS), ed. G.

Gàl, ex typographia collegii S. Bonaventurae, Quaracchi 1959, q. 6, pp. 93-119 Per uno studio delle qq. 6-7 di Matteo d’Acquasparta sull’anima separata come fonte per il realismo delle pene – in particolare quella del verme – nell’Inferno dantesco, cfr. L. Cappelletti, Dante e Matteo d’Acquasparta. Note per una (possibile) fonte teologica di Inf. III 66-69, «Studi Danteschi», 74, 2009, pp. 149-178.

76 QAS, q. 6, pp. 104-105. Anche Guglielmo de la Mare, nel Correctorium Fratris Thomae, farà riferimento ad una interpretazione letterale del passo del vangelo di Luca per criticare l’inefficacia della teoria dell’alligatio, cfr. Le Correctorium corruptorii ‘Quare’, ed. P. Glorieux, Le Sauchoir, Kain 1927, p. 337: «dicta Thomae […] videntur erronea

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Ma prima di Matteo d’Acquasparta e di Guglielmo de la Mare, la tesi dell’alligatio era stata contestata da un altro influente francescano, attivo a Parigi negli anni precedenti le condanne, Guglielmo di Baglione. Titolare della cattedra francescana di teologia dal 1266 al 1267, Guglielmo di Baglione aveva prodotto una cinquantina di quaestiones indicate col titolo De symbolo, che rappresentano una delle prime testimonianze di una difesa degli articoli di fede nei confronti del dilagare di quelle tesi di matrice aristotelica avvertite come dottrinalmente pericolose. Alcuni di questi testi sono stati editi tra il 1968 ed il 1972 da Ignatius Brady, tuttavia, come hanno fatto notare tanto Luca Bianchi nel 1984, quanto Sylvain Piron nel 2006, non si sono imposti all’attenzione degli studiosi se non occasionalmente77. Una negligenza curiosa, se si pensa al fatto che l’insegnamento del maestro francescano è stato probabilmente all’origine di buona parte degli articoli condannati nel 1270. Uno studio appro-fondito dei testi che conducesse ad un’indagine sul progetto generale di Guglielmo di Baglione, ed all’individuazione del reale bersaglio a cui mirava la sua critica, sarebbe dunque auspicabile.

I pochi studiosi che se ne sono occupati sono discordi nel valutare l’oggetto polemico del suoi interventi. Sulla linea di Van Steenberghen78, Bianchi è convinto che questo non fosse, almeno direttamente, il dilagare dell’aristotelismo eterodosso alla Facoltà delle Arti, ma Tommaso, e lo dimostra – in modo assai convincente – concentrandosi soprattutto sul problema dell’eternità del mondo. Michaś ha invece ipotizzato che la critica di Guglielmo potesse essere rivolta a Sigieri, tesi che, come ha mostrato Piron in un articolo assai denso, permetterebbe di fare nuove considerazioni sulla datazione delle Quaestiones in III de Anima, sul modo in cui l’Aquinate avrebbe potuto avere accesso all’opera del maestro brabantino e sulla percezione che i contemporanei avevano della ‘corrente averroista’, categoria che nella storiografia è passata

quia sunt contra Evangelium et doctrina sanctorum […] quare enim peteret dives refri-gerari per aquam si non sentiret ignis ardorem ? Numquid aquam petiit ad dissolvendam detentionem vel ligationem eius ab igne?».

77 I. Brady, Questions at Paris, c. 1260-1270 (cod. Flor. Bibl. Naz. Conv. soppr. B.6 912), «Archivum Franciscanum Historicum», 61, 1968, pp. 434-461; Id., Background to the condemnation of 1270: Master William de Baglione O.F.M., «Franciscan Studies», 30, 1970, pp. 5-48; Id., The Questions of Master William de Baglione O.F.M., De aeternitate mundi (Paris, 1266-1267), «Antonianum», 47, 1972, pp. 362-371, 576-616. Si segnalano i seguenti studi: W. Michaś, Pierwsze antyawerroistyczne krytyki franciszkanskie, «Studia Mediewistyczne», 19, 2, 1978, pp. 3-37; Id., Pour préciser la date de In III De anima de Siger de Brabant, «Mediaevalia Philosophica Polonorum», 26, 1982, pp. 159-160; Bianchi, Guglielmo di Baglione, cit.; Petagine, Aristotelismo difficile, cit., pp. 279-288; Piron, Olivi et les averroïstes, cit., pp. 265-270.

78 Van Steenberghen, Maître Siger de Brabant, cit., p. 34.

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da un’accettazione entusiasta ed acritica, all’odierna tendenza ad un ridicolo politically correct79.

Michaś ha sostenuto che Guglielmo, nella quaestio «utrum spiritus rationalis absolutus a corpore pati ab igne corporeus»80, scagliandosi con-tro quei «philosophantes» che avevano negato che l’anima possa soffrire realmente per il fuoco, non intendeva rivolgersi ai teologi contemporanei, ma agli averroisti, ed in particolare alla conclusione aristotelica della q. 11 di Sigieri. Tale affermazione sembra confermata da un parallelo testuale a proposito dell’argomento per cui tale sofferenza è impossibile per via della mancanza di communicatio tra l’anima immateriale ed il fuoco.

Osservando la quaestio, tuttavia, bisogna prendere atto che l’accusa contro i «philosophantes»81 è collocata in un elenco di soluzioni criticabili che erano state date, a proposito del modus patiendi, dalla tradizione teologica: dopo la condanna di quelle posizioni che consideravano la passio dell’anima a causa del fuoco «ex ipsius apprehensione» o «ex ipsius spiritus aestimatione», e prima di quella dell’alligatio:

[…] propterea alii addunt et colligunt modum patiendi ex hoc quod spiritus est igni materiali inseparabiliter alligatus […]. Sed quia iste modus non videtur concludere nisi afflictione tristitiae seu displicentiae vehementis […]82.

Citando velocemente la questione sul fuoco infernale, Bianchi ave-va ribadito che, criticando la dottrina dell’alligatio, Guglielmo si stava scagliando principalmente contro l’Aquinate, e che il termine «philo-sophantes», per un francescano dell’epoca, doveva indicare i teologi83.

79 Le dispute sul nome da attribuire ai magistri della Facoltà delle Arti per sfuggire alla insidiosa categoria di averroismo (aristotelici radicali, aristotelici eterodossi?) hanno poco senso, tanto più che, come ha mostrato Piron, in una serie di questioni disputate alla fine degli anni ’70 da Pietro di Giovanni Olivi – probabile allievo a Parigi di Guglielmo di Baglione – si trovano ben cinque occorrenze del termine averroistae.

80 Brady, Background to the condemnation of 1270, cit., pp. 45-48. Sulla dipendenza della q. 6 di Matteo d’Acquasparta da questo testo, cfr. ivi, pp. 45-46, n. 3.

81 Ivi, p. 47: «quod aliqui philosophantes dicant quod scilicet spiritus separatus certus est quod ab igne pati non potest, quia vel est perturbatum iudicium merito peccati, ut scilicet trepidet ubi non est timendum, vel quamvis sciat quod spiritus non potest pati ab igne secundum ordinem naturae, conscius tamen praevaricationis suae scit quod transgressor spiritus pati potest secundum ordinem divinae iustitiae».

82 Ivi, p. 48.83 Bianchi, Guglielmo di Baglione, cit., p. 513, n. 38: «Già il nostro Guglielmo

aveva trovato nella q. “utrum spiritus rationalis absolutus a corpore possit pati ab igne corporali” […] un’ulteriore occasione di polemica antitomista, come risulta chiaro dalla chiusa della Responsio. Quanto alla precedente invettiva contro “aliqui philosophantes”, mi pare assai improbabile l’ipotesi di Brady – di recente riproposta da Michaś […] – che li identifica con Sigieri di Brabante. Sia perché la dottrina attaccata non coincide con

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Quanto al parallelo testuale a proposito dell’argomento aristoteli-co, richiamato da Sigieri e da Guglielmo, per cui è impossibile che un agente agisca su un paziente con il quale non può avere alcun contatto o comunicazione, i passi da confrontare sono i seguenti84:

(S)Item, anima non patitur a corpore nisi ab eo cui unitur; ab eo autem quod unitur sibi patitur, patitur enim corpus.Sigieri

QTD, q. 11, p. 144-146

(G)Naturalis enim philosophus probat et asserit quod inter illa in quibus non potest esse communicatio in materia nec contactus, nec contrarietas aliqua, non possit esse actio et passio, sicut plene colligitur ex verbis Philosophi, primo De generatione.Brady, Background to the condemna-tion of 1270, cit., p. 46.

Ma, come avevamo notato sopra85, l’argomento di Sigieri – terzo quod non – era stato ripreso dal quinto argomento di Tommaso:

(T) Praeterea, secundum philosophum in 1 de generatione, et secundum Boetium in Lib. de duabus naturis, illa solum agunt et patiuntur ad invicem quae in materia communicant. Sed anima et ignis corporeus non communicant in materia: quia spiritualium et corporalium non est materia communis: unde nec possunt invicem transmutari, ut Boetius in eodem Lib. dicit. Ergo anima separata ab igne corporeo non patitur.Th-InIVSent, dist. 44, q. 3, a. 3, qla 3, arg. 3, p. 242.

Il parallelo tra (S) e (G) non basta quindi a dimostrare che Guglielmo di Baglione abbia citato il testo sigieriano, anzi, sembra che l’argomento riportato dal francescano si avvicini molto di più a (T).

quella difesa da Sigieri nelle Quaestiones in tertium de anima […]. Sia perché il termine “philosophantes”, in ambiente francescano, compare in genere per designare dei teologi».

84 Michaś, Pour préciser la date de In III De anima, cit., pp. 159-160. In realtà Michaś aveva messo in parallelo il testo qui sotto indicato come (G) con il seguente: (S1) «Item Aristotelis primo huius dicit quod non quaelibet ars utitur quolibet instrumento, sed solum instrumento sibi conveniente. Instrumentum debet habere aliquam communicationem cum passo. Sed ignis nullam convienientiam videtur habere cum animae» (QTD, q. 11, p. 150). Ci sembra però che non sia un confronto adeguato. I passi aristotelici citati, in primo luogo, non sono gli stessi: (G) cita il De generatione, (S1) cita dal De anima, I, 3, 407 b 20-25. In secondo luogo, (S1) sta qui – liberamente – riprendendo Tommaso: (T1) «[…] Unde oportet dare igni aliquam actionem in animam quae sit ei connaturalis ad hoc quod sit instrumentum divinae iustitiae peccata vindicantis» (Th-InIVSent, dist. 44, q. 3, a. 3, qla 3, 3 co.); se da un confronto letterale non è evidente, guardando al contesto dei due passi il parallelismo risulta più chiaro: (S1) e (T1) sono entrambi collocati dopo la distinzione tra fuoco come elementum/fuoco come instrumentum e la presentazione della tesi dell’alligatio.

85 Supra, n. 43.

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Capire se qui Guglielmo stesse criticando Sigieri (e quale delle due soluzioni di Sigieri) o Tommaso non è semplice, non solo per la vicinanza della quaestio sigieriana alla versione dell’Aquinate, ma anche perché il testo del manoscritto fiorentino su cui ha lavorato Brady è assai corrotto in questo punto86.

Che si segua Michaś o si sostenga la posizione di Bianchi, per noi il risultato non cambia. Quello che vogliamo far notare è che:

(i) uno dei probabili ispiratori delle condanne del 1270, andando a confutare gli errori riguardanti l’anima separata ed il fuoco, non si era rivolto – o non si era rivolto soltanto – contro la conclusione averroistica della non separabilità dell’anima in senso assoluto, sostenuta da Sigieri alla fine della q. 11, ma contro la dottrina dell’alligatio, colpendo quindi – se non Tommaso – almeno il Sigieri ‘tomista’87;

(ii) Tommaso poteva avere un’ottima ragione per indirizzarsi con tanta durezza contro Sigieri, dal momento che l’artista aveva ripreso una sua dottrina, ne aveva sviluppato logicamente le conseguenze e ne aveva mostrato la maggior coerenza con il proprio modello psicologico e conoscitivo, avvalorando così i sospetti dei maestri francescani nei confronti della teoria dell’anima del maestro domenicano88.

A volerla dire con la pungente espressione di de Libera: «en matière de raison et de foi, on est toujours, quelque part, l’averroïste de quelqu’un»89.

3. Definendo i limites

Abbiamo esposto la quaestio e l’abbiamo ripercorsa da vicino tenen-do come linee-guida il confronto con i testi di Tommaso e gli approcci storiografici dell’ultimo secolo. Dobbiamo, a questo punto, riprendere la giusta distanza e cogliere con uno sguardo più ampio quello che stava succedendo a Parigi negli anni ’70 del Duecento.

86 Brady, Background to the condemnation of 1270, cit., pp. 45-46: «In point of fact, the text of the Florentine manuscript at this juncture is in very poor condition; the hand that copied the quarta pecia (ff. 24-31) does not seem to have been very intelligent. As a result we were about to give up any transcription […]».

87 Abbiamo qui preso in prestito l’espressione usata da Bianchi, cfr. Guglielmo di Baglione, cit., pp. 519-520.

88 Come scrive Bianchi, quello di Tommaso sarebbe dunque «non solo un sincero sdegno, ma anche l’irritata apprensione ed il malcelato imbarazzo di chi si sente in qualche modo responsabile», ivi, p. 519.

89 A. de Libera, Raison et foi. Archéologie d’un crise, d’Albert le Grand à Jean Paul II, Éditions du Seuil, Paris 2003, p. 224.

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Sulla ricezione dell’aristotelismo e sulla conseguente nascita della figura dell’intellettuale-filosofo di professione, così come sul conflitto tra Facoltà delle Arti, Facoltà di Teologia e partito tradizionalista guidato dal vescovo di Parigi è stato scritto molto, forse tutto, quindi ci limitiamo a ricordare alcune linee generali.

All’ingresso di Aristotele in Occidente era seguito un lungo processo di assestamento: dall’arrivo delle prime traduzioni, alla difesa contro la censura della sapientia cristiana tradizionale di natura agostiniana, alla sua canonizzazione come scientia. Insieme a nuovi testi ed a nuovi linguaggi, con l’opus aristotelicum si presentavano davanti agli occhi degli studiosi un sistema di conoscenze omogeneo ed omnicomprensivo – da qui il suo successo – e soprattutto un nuovo modo di considerare l’attività intellet-tuale, operazione propria dell’essere umano e quindi via privilegiata per svolgere su questa terra una vita veramente virtuosa.

Negli anni ’70 del Duecento il corpus era già stato tutto tradotto ed inserito tra i testi obbligatori per gli studenti della Facoltà delle Arti; gli artistae, d’altro canto, avevano già cominciato a prendere consape-volezza del loro status professionale, reclamando una pari dignità per la loro categoria, ed il diritto di presentare il sapere aristotelico senza dover essere costretti a concordarlo con la tradizione. Chiedevano di fare ricerca basandosi solo sulla loro ragione naturale, secondo quella distinzione tra indagine razionale ed adesione ai dogmi della fede che aveva già sostenuto Alberto Magno. Compito del filosofo era occuparsi delle sole cause seconde, senza tenere conto di eventuali sospensioni alle leggi di natura per intervento divino: «nihil ad me de Dei miraculis cum ego de naturalibus disseram»90.

Era la prima volta che l’istanza veniva presentata da un gruppo professionalmente identificato: nell’ottica dei membri della Facoltà delle Arti, stabilire una linea di demarcazione tra la sfera di competenza della teologia e quella della libera indagine razionale, significava rivendicare l’autonomia epistemologica della filosofia. Per autonomia non si doveva intendere autosufficienza né tanto meno supremazia: i filosofi erano comunque cristiani, ed in quanto tali non negavano che la veritas simpli-citer (unica anche secondo Aristotele, poiché omnia vera vero consonant) appartenesse alle proposizioni di fede, tuttavia sostenevano la liceità delle veritates secundum quid – quindi relative ad un ambito, probabili, e non necessarie absolute – ottenute investigando ut naturalis.

90 D. Alberti Magni Ratisboniensis episcopi, ord. praed., De generatione et corrup-tione, in Opera omnia, cit., t. IV, p. 363; cfr. L. Sturlese, La filosofia tedesca nel Medioe-vo. Il secolo XIII, Olschki, Firenze 1996, pp. 69-125 (cap. 3: Il razionalismo filosofico e scientifico di Alberto il Grande).

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Questa tesi non aveva niente a che fare con la dottrina della dop-pia verità: portava avanti invece l’esigenza di riconsiderare la struttura epistemologica vigente, che vedeva, nello specifico, la filosofia asservita alle necessità della teologia, ed in senso più ampio, una moltitudine di potenziali livelli di lettura della realtà, riuniti sotto la tutela di un unico e soffocante sapere, quello della sapientia christiana in senso tradizionale.

Se il vero progetto degli averroisti non era contestare l’unità della verità, ma l’unità del sapere, allora anche il paradigma interpretativo della campagna di censura di Tempier deve essere riconsiderato. Non si tratterà più – o non soltanto – di analizzare i contenuti dottrinali degli articoli condannati, attribuendoli all’una o all’altra fonte, ma di individuare nel progetto del vescovo e della commissione di teologi che lo aveva affian-cato un tentativo di arginare le forze epistemologicamente sovversive.

Forze sovversive, inoltre, dal punto di vista etico: non tanto per la fama di libertinaggio che veniva legata, pregiudiziosamente, agli averroisti, quanto per le implicazioni dell’idea, espressa nell’Etica Nicomachea, della vita filosofica come vita migliore e propriamente umana, necessaria per raggiungere la felicità sulla terra e pre-condizione, in un certo modo, della beatitudo eterna. Quella di Tempier «era la battaglia in difesa dei diritti della grazia nei confronti delle pretese della natura; per scongiurare che ripercorrendo la strada di Aristotele ci si ritrovasse a Pelagio»91.

È il progetto non di uno studioso, ma di un pastore che per la dife-sa dell’unico ovile, la societas christiana, unita da una sola tradizione e una sola sapientia, doveva erigere delle barricate contro quelle indagini «troppo indulgenti verso una dottrina che Bonaventura aveva appena denunciato come il pilastro della Weltanschauung pagana»92.

A prescindere dall’attribuzione di questa o quella singola tesi a questo o a quel singolo autore, i destinatari delle condanne del ’70 e del ’77 devono essere identificati in blocco con Sigieri e i maestri della Facoltà delle Arti, ma anche con coloro che avevano tentato di fondare una teologia filosofica, come Tommaso.

3.1 I limites di Tempier

Magnarum et grauium personarum crebra zeloque fidei accensa insinuauit relatio, quod nonnulli Parisius studentes in artibus proprie facultatis limites excedentes quosdam manifestos et execrabiles errores, immo potius uanitates et insanias falsas […] quasi dubitabiles in scolis tractare et disputare presumunt…93

91 Bianchi, Il vescovo e i filosofi, cit., p. 168.92 Bianchi, Guglielmo di Baglione, cit., pp. 518.93 La condamnation parisienne de 1277, cit., p. 72.

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L’epistola del vescovo Stefano che introduce la lista degli articoli condannati nel 1277, si apre parlando di una linea di confine e degli uo-mini che l’hanno attraversata. Possiamo avvicinarci allo studio della crisi parigina degli anni ’70 usando come paradigma interpretativo l’idea di limes: cosa voleva dire, per Tempier, per Tommaso o per i maestri della facultas artium delimitare le sfere di competenza delle singole discipline?

Per Tempier l’unico vero sapere è la scientia christiana che spinge il suo limite fino ad inglobare tutti gli altri saperi e ad ordinarli a sé; le indagini che ne minacciano l’integrità – andando contro i suoi dogmi o semplicemente portando avanti un atteggiamento di idolatria nei con-fronti della ragione – devono essere stroncate e riportate all’interno dei limiti che ha loro assegnati la scientia christiana.

Ritornando alla q. 11, possiamo adesso rispondere alla domanda che sopra avevamo lasciato aperta: quale delle due soluzioni proposte da Sigieri voleva colpire Tempier nelle condanne del 1270-1277? Il mo-nopsichismo averroista o l’impostazione di Tommaso?

Come abbiamo anticipato a proposito della critica di Guglielmo di Baglione, Bianchi non ha incertezze: l’obiettivo dell’articolo 8 della con-danna del 1270 è Tommaso, o al massimo il Sigieri ‘tomista’. Forse, ag-giungiamo, entrambe le soluzioni, dal momento che lo scopo di Tempier era mettere a tacere quanti si opponevano all’egemonia della sapientia christiana, senza bisogno di fare sottigliezze filologiche sull’appartenenza di coloro che avevano superato il limite ad una fazione o ad un’altra.

3.2 I limites di Tommaso

Ritorniamo alla chiusa del De unitate, quando Tommaso accusa «quod de his quae ad philosophiam non pertinent, sed sunt purae fidei, disputare praesumit»94.

L’aggressività della fine del quinto capitolo è causata senza dubbio da tutte le questioni dottrinali specifiche che abbiamo esaminato; tuttavia, la prima accusa, quella del superamento dei limites della filosofia, ne può essere considerata il collante. In questa frase sembra che il problema dei confini delle competenze disciplinari si collochi sul piano dei contenuti: il poter trattare o non trattare una particolare materia.

Tuttavia, forse, il superamento dei limites più pericoloso da parte degli artistae non era quello a carattere tematico. Per un magister in artium e in sacra pagina come Tommaso, il cui intento era fondare una scientia theologica, il rimprovero maggiore da muovere agli averroisti doveva riguardare la concezione delle possibilità della filosofia.

94 DUI, V, 119, p. 184.

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La filosofia, per Tommaso, è un sapere, ed in quanto tale deve orien-tarsi alla verità simpliciter. Non è possibile per Tommaso che seguendo rettamente dei principi razionali si arrivi ad un risultato contraddittorio rispetto alla fede, dal momento che il Dio della Fede è il Dio che ha ordi-nato il mondo in modo razionale ed ha dato agli uomini i principi razionali per conoscerlo. La filosofia non può dimostrare tutto, ma ciò che riesce a dimostrare deve essere vero in modo assoluto; se l’indagine razionale arriva a una conclusione contraria alla religione cristiana, vuol dire che la ragione è caduta in errore, non che è arrivata a conoscere una veritas secundum quid. Da qui la sua formulazione della dottrina della doppia verità.

Viene spontaneo chiedersi chi, tra il Dottore Angelico e i maestri delle arti, abbia posizionato più lontano il limite della competenza – e della potenza effettiva – dell’indagine razionale secundum viam philosophorum. È più efficace una filosofia come quella intesa da Tommaso, ‘forte’ perché portatrice di verità, ma che non può allontanarsi né contraddire le risposte della fede senza considerarsi falsa simpliciter, o la visione che ne danno Sigieri e Boezio, relativistica e probabile, ma totalmente indipendente da fede, teologia, auctoritas, ed addirittura dalla verità stessa?

3.3 I limites dei filosofiGli statuti del 1272 avevano decretato che nessun maestro o baccel-

liere fosse autorizzato a determinare una questione puramente teologica, né a disputarla in sede universitaria, «tanquam sibi determinatos limites transgredientes». Coloro che incontravano passi difficili o questioni che sembrassero in qualche modo contraddire la fede erano tenuti a confu-tarli, a dichiararli «falsas simpliciter et erroneas totaliter», o almeno a non insegnarli né disputarli affatto95.

Come abbiamo visto sopra, i limites a cui si appellavano genericamen-te gli artistae non erano limiti ‘di censura’, ma un modo per specializzare e relativizzare il discorso filosofico, in modo da potersi ritagliare uno spazio d’azione al riparo delle interferenze della teologia.

Come si devono interpretare invece gli statuti del 1272? Putallaz e Imbach propongono tre possibilità96.

La storiografia tradizionale li considera come una dichiarazione della maggioranza moderata, in linea con i sermoni pronunciati da Bonaven-tura alla fine degli anni ’60 e con la condanna del ’70, contro i maestri dissidenti riuniti attorno a Sigieri, per evitare altre ‘uscite di campo’ alla stregua della quaestio sigieriana sul fuoco dell’inferno. Sigieri e Boezio quindi non li avrebbero rispettati se non accidentalmente97.

95 Chartularium Universitatis Parisiensis, cit., n. 441, pp. 499-500. 96 Putallaz, Imbach, Professione filosofo, cit., pp. 116-118.97 Van Steenberghen, Maître Siger de Brabant, cit., p. 84.

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Un’altra possibilità è che i due magistri si siano piegati agli Statuti, ma solo nella lettera e non nello spirito.

La terza ipotesi è quella proposta dai due studiosi, attraente, ma im-possibile da dimostrare, almeno per adesso: le opere di Sigieri e Boezio sono in pieno accordo con gli Statuti, promulgati come reazione generale della Facoltà delle Arti alla condanna del 1270: «contro tutti coloro che vorrebbero assoggettare la facoltà delle arti: si fanno ai ‘teologi’ le conces-sioni richieste, ma nello stesso tempo si mantiene, per quanto è possibile, l’autonomia della facoltà, dei suoi maestri e dei suoi baccellieri. Gli statuti devono essere perciò letti come un compromesso, ma un compromesso che va nello stesso senso di ciò che vogliono i maestri della facoltà delle arti»98.

Sigieri ha oltrepassato i limiti, occupandosi della q. 11? Sicuramente ha oltrepassato quelli che saranno stabiliti di lì a poco

da Tempier e dagli Statuti, indipendentemente da quale delle tre soluzioni interpretative proposte si scelga. Vedere se travalicasse i confini della sua stessa concezione di lavoro filosofico è più complicato. Non si tratta certo di andare a cercare nella quaestio eventuali proposizioni che esprimano un razionalismo antipatristico e anticristiano; e forse neanche di soffermarsi troppo sulla filosoficità del tema in sé, dal momento che Sigieri stesso ce la propone dichiaratamente «non multum philosophicam».

Potrebbe essere più sensato rispondere interrogandosi su come il discorso è stato svolto. Se la concezione di limite per Sigieri concernesse non tanto gli argomenti più o meno trattabili, quanto il modo in cui que-gli argomenti dovessero venire trattati e l’atteggiamento critico con cui dovessero essere accettate le soluzioni ottenute secundum philosophos, la q. 11 – per quanto di argomento teologico o almeno di carattere ‘misto’ – risulterebbe essere stata affrontata loquens ut naturalis. Risponde infatti ad un’esigenza di chiarimento filosofico sulla natura dell’anima intellettiva, segue nella sua argomentazione con coerenza i principi aristotelici e non fa alcuna affermazione di primato simpliciter della verità di ragione sulla verità di fede, né tanto meno richiami ad una dottrina della doppia verità.

Quanto alla conclusione aporetica della q. 11 – alligatio da una parte, inseparabilità dell’anima dall’altra – preferiamo qui lasciare il problema irrisolto, richiamando invece le parole con cui il maestro brabantino chiude il De anima intellectiva:

Ma tu vigila, studia ed esercitati […], affinché dal dubbio che ti rimane tu sia spronato a studiare e ad esercitarti nel comprendere, dato che la vita senza studi è morte e sepoltura indegna dell’uomo99.

98 Putallaz, Imbach, Professione filosofo, cit., p. 118.99 DAI, IX, p. 310.