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Dipartimento di Scienze Politiche Dottorato di ricerca in STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE E FILOSOFIA DELLA POLITICA CICLO XXV Tesi di Dottorato UNA POLITICA A FONDAMENTO TEOLOGICO LOCKE E IL CRISTIANESIMO Direttori di tesi Dottoranda Prof. Andrea Bixio (Coordinatore) Alessia Affinito Prof. Paolo Armellini

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Dipartimento di Scienze Politiche

Dottorato di ricerca

in

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE E FILOSOFIA DELLA POLITICA

CICLO XXV

Tesi di Dottorato

UNA POLITICA A FONDAMENTO TEOLOGICO

LOCKE E IL CRISTIANESIMO

Direttori di tesi Dottoranda

Prof. Andrea Bixio (Coordinatore) Alessia Affinito

Prof. Paolo Armellini

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INDICEINDICEINDICEINDICE

Introduzione VII

Capitolo primo: Premesse e riferimenti teologici del pensiero lockiano Capitolo primo: Premesse e riferimenti teologici del pensiero lockiano Capitolo primo: Premesse e riferimenti teologici del pensiero lockiano Capitolo primo: Premesse e riferimenti teologici del pensiero lockiano 1

a) Il contesto inglese e la Riforma 7

a.1. Il calvinismo radicale e la resistenza legittima: Ponet, Goodman,

Buchanan 12

b) Law of Nature e tolleranza in Hooker 16

c) Il latitudinarismo inglese 29 c.1. The Tew Circle 36

d) Il platonismo di Cambridge 42

d.1. Fede e ragione in Whichcote 50

d.2. L’opposizione all’ateismo e all’arbitrarismo etico in Cudworth 53

d.3. «One Light does not oppose another»: l’anti-innatismo di Culverwell 57

Capitolo secondo: «Capitolo secondo: «Capitolo secondo: «Capitolo secondo: «A Christian I amA Christian I amA Christian I amA Christian I am»»»» 62

a) Un Locke radicale? 68

b) Un esame della conoscenza: limiti del sapere e rifiuto dell’innatismo 81

b.1. Una dimostrazione dell’esistenza di Dio 90

b.2. Faith e Reason: delle loro province distinte 107

c) «Considering wherein the Christian Faith consists» 114

c.1. Il trattato lockiano sul cristianesimo 123

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II

Capitolo terzo: L’accusa di socinianesimo e il sospetto di eterodossia Capitolo terzo: L’accusa di socinianesimo e il sospetto di eterodossia Capitolo terzo: L’accusa di socinianesimo e il sospetto di eterodossia Capitolo terzo: L’accusa di socinianesimo e il sospetto di eterodossia 158

a) La controversia con John Edwards: A Vindication of the Reasonableness

of Christianity 159

a.1. A Second Vindication of the Reasonableness of Christianity 171

a.2. Locke sociniano? 184

b) Knowledge, Faith e Trinitarian Controversy: un esame delle risposte ad Edward Stillingfleet 204

c) I rapporti con il deismo: continuità e divergenze 239

Capitolo quarto: Una dottrina pCapitolo quarto: Una dottrina pCapitolo quarto: Una dottrina pCapitolo quarto: Una dottrina politica a fondamento teologico olitica a fondamento teologico olitica a fondamento teologico olitica a fondamento teologico 254

a) «We are all the property of him who made us»: uguaglianza e creaturalità 257

b) Legge di natura e volontà divina 275

c) Lo stato di natura tra storia e morale 293

d) Autoconservazione e proprietà: comandi divini 302

d. 1. La dottrina dei doveri 305

e) L’appello a Dio nel cielo: obbligo politico e limiti del potere 321

e. 1. «This is only a fiduciary power»: il patto politico come relazione fiduciaria 327

e. 2. «The common escape that God has provided for all men» 338

f) Tolleranza e urgenza soteriologia 350

Conclusione 372

Bibliografia 382

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III

AbbreviazioniAbbreviazioniAbbreviazioniAbbreviazioni

Si danno di seguito le abbreviazioni dei titoli di alcune delle opere citate con maggiore frequenza,

indicando l'edizione utilizzata.

Scritti di John LockeScritti di John LockeScritti di John LockeScritti di John Locke WorksWorksWorksWorks The Works of John Locke, I-X, A new edition corrected, printed for Th. Tegg,

London 1823 (edizione anastatica: Scientia Verlag, Aalen 1963). SaggioSaggioSaggioSaggio Saggio sull’intelligenza umana [An Essay concerning Humane Understanding,

London 1690, 16942; 16953, 17004], trad. di C. Pellizzi, rivista da G. Farina, con Introduzione di C. A. Viano, Laterza, Roma-Bari (1988) 2006, sull’edizione critica di P.H. Nidditch (Clarendon, Oxford 1975; 1979 con correzioni) che segue l’edizione del 1700. Si indicano libro, capitolo e paragrafo. La pagina è dopo il segno [;] solo per i passi citati.

Due Trattati Due Trattati Due Trattati Due Trattati Due Trattati sul governo e altri scritti politici [Two Treatises of Government,

London 1690] a c. di L. Pareyson, UTET, Torino (1948, 19823) 2010. L’abbreviazione è T1 (Primo Trattato) o T2 (Secondo Trattato), seguita da sezione e pagina (solo per i passi citati).

SLNSLNSLNSLN Saggi sulla legge naturale [Essays on the Law of Nature, c. 1660-1664], trad. a

cura di M. Cristiani, con introduzione di G. Bedeschi, Laterza, Roma-Bari (1996) 2007. Sono indicati il saggio e la pagina.

ST ST ST ST Saggio sulla tolleranza [An Essay concerning Toleration, 1667], in Scritti sulla

tolleranza (1977), a c. di D. Marconi, UTET, Torino 2005, pp. 89 – 127. LTLTLTLT Lettera sulla tolleranza [Epistola de Tolerantia, Gouda 1689], in Scritti sulla

tolleranza, cit., pp. 131 – 183. WRWRWRWR Writings on Religion (2002), ed. by V. Nuovo, Clarendon, Oxford 2004. SERSERSERSER Scritti etico-religiosi, a c. di M. Sina, UTET, Torino 2000.

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IV

RCRCRCRC The Reasonableness of Christianity: as Delivered in the Scriptures [London 1695], in WR, pp. 89-210; La ragionevolezza del cristianesimo, trad. it. di I. Cappiello, Introduzione di A. Sabetti, John Locke: la religione tra «ragione» e «rivelazione», La Nuova Italia, Firenze 1976, pp. VII – CXXI. Si indicano la pagina dell’edizione inglese e dopo il segno [;] quella della traduzione italiana.

DMDMDMDM A Discourse of Miracles [London, 1706], in WR, pp. 44-50; trad. it. Discorso sui

miracoli, in SER, pp. 585 – 597. Si indicano la pagina dell’edizione inglese e dopo il segno [;] quella della traduzione italiana.

CorrCorrCorrCorr. The Correspondence of John Locke, ed. E. S. de Beer, I-VIII, Clarendon,

Oxford, 1976 –1989. Si indicano numero della lettera, volume e pagina. VINVINVINVIN Vindications of the Reasonableness of Christianity, edited with an introduction,

notes, critical apparatus by V. Nuovo, Clarendon, Oxford 2011. VRCVRCVRCVRC A Vindication of the «Reasonableness of Christianity etc. » from Mr. Edwards’s

Reflections [London, 1695], in WR, pp. 211- 225; trad. it. Difesa della «Ragionevolezza del Cristianesimo» dalle riflessioni di Mr. Edwards, in SER, pp. 437 – 459. Si indicano la pagina dell’edizione inglese e la pagina della traduzione italiana dopo il segno [;].

SVSVSVSV A Second Vindication of the «Reasonableness of Christianity etc.» by the

Author of the «Reasonableness of Christianity etc. » [London, 1697], in VIN, pp. 27 – 233.

LBWLBWLBWLBW A Letter to the Right Rev. Edward, Lord Bishop of Worcester, concerning some

Passages relating to Mr. Locke’s “Essay of Humane Understanding”: in a late Discourse of His Lordship’s, in Vindication of the Trinity [London, 1697], in Works, IV, pp. 3-96; trad. it. Lettera al Reverendissimo Edward Stillingfleet, in SER, pp. 467- 577. Si indicano la pagina dell’edizione inglese e dopo il segno [;] quella della traduzione italiana.

RBWRBWRBWRBW Mr. Locke’s Reply to the RR. The Lord Bishop of Worcester’s Answer to his

Letter Concerning some Passages relating to Mr. Locke’s “Essay of Humane Understanding” in a late Discourse of His Lordship’s, in Vindication of the Trinity [London, 1697], in Works, IV, cit., pp. 97 – 185.

RBW2RBW2RBW2RBW2 Mr Locke’s Reply to the RR. The Lord Bishop of Worcester’s Answer to his

Second Letter, wherein, besides other incident matters, what his Lordship has said concerning certainty by reason; the resurrection of the body; the immateriality of the soul; the inconsistency of Mr. Locke’s notions with the articles of the Christian faith, and their tendency to scepticism; is examined [London, 1699], in Works, IV, pp. 191 – 498.

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V

PEPEPEPE Pensieri sull’educazione [Some Thoughts concerning Education, London, 1693],

a c. di T. Marchesi, Introduzione di A. Guzzo, La Nuova Italia, Firenze (1932) 1963. Si indicano il paragrafo tra [ ] e la pagina.

Testi su John LockeTesti su John LockeTesti su John LockeTesti su John Locke

REDREDREDRED S. G. Hefelbower, The Relation of John Locke to English Deism, University of Chicago Press, Chicago 1918.

RORORORO H. McLachlan, The Religious Opinions of Milton, Locke, and Newton,

Manchester University Press, Manchester 1941. PPPPPPPPLLLL J. Dunn, Il pensiero politico di John Locke (1969), Il Mulino, Bologna 1992. RRR RRR RRR RRR J. Marshall, John Locke: Resistance, Religion and Responsibility, Cambridge

University Press, Cambridge 1994. CACACACA R. Ashcraft (ed.), John Locke: Critical Assessments, I-IV, Routledge, London

and New York 1991. LLLLLLLL M. Zuckert, Launching Liberalism: on Lockean Political Philosophy, University

Press of Kansas, Lawrence 2002.

AltriAltriAltriAltri

RTRTRTRT J. Tulloch, Rational Theology and Christian Philosophy in England in the

Seventeenth Century (1874), I-II, Olms Verlagsbuchhandlung, Hildesheim 1966.

PARPARPARPAR G. R. Cragg, From Puritanism to the Age of Reason (1950), Cambridge

University Press, New York 1966.

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VII

INTRODUZIONEINTRODUZIONEINTRODUZIONEINTRODUZIONE

Ricevendo nel 2001 il premio Schlarbaum assegnato dal Ludwig von Mises Institute, Antony Flew

ha voluto dedicare il suo discorso al «più grande filosofo inglese»1. «Per me, come credo per i Padri

fondatori della Repubblica americana, la filosofia della libertà politica è stata sviluppata per la

prima volta nei Due Trattati sul governo pubblicati nel 1690, quasi un secolo esatto prima

dell’adozione della Costituzione americana»2.

Con i suoi scritti John Locke ha esplorato un’ampia varietà di questioni e di argomenti. In un

arco temporale ristretto, dal 1689 al 1695, apparvero le sue pubblicazioni più note; in seguito, negli

ultimi anni di vita, egli si trovò al centro di polemiche che avrebbe volentieri evitato, costretto a

dividere il proprio tempo tra la difesa dagli attacchi dei suoi critici, la revisione delle edizioni di un

testo in particolare – il Saggio sull’intelletto umano3 - e la stesura degli ultimi scritti a carattere

prevalentemente religioso.

Nel Novecento tre date, in particolare, hanno segnato l’evoluzione degli studi lockiani: nel

1948 la Bodleian Library di Oxford ha acquistato i manoscritti del filosofo dalla collezione del

Conte di Lovelace4; nel 1954 Wolfgang von Leyden ha pubblicato, con una dettagliata

1 A. Flew, Locke Versus Rawls on Equality, http://mises.org/schlarbaum/flew.asp. 2 Ibid. (traduzione mia). 3 An Essay concerning Humane Understanding. In Four Books, London, Printed for Th. Basset, London 1690 (16942 «with large Additions», 16953, 17004 «with many large Additions», tutte edizioni pubblicate «for A. and J. Churchill» a Londra ). Nel 1700 fu pubblicata la traduzione francese a cura di Pierre Coste, condotta sotto la guida di Locke, che in alcuni punti chiarì il suo pensiero: Essai philosophique concernant l’Entendement humain; où l’on montre quelle est l’étendue de nos connaissances certaines, et la manière dont nous y parvenons (H. Schelte, Amsterdam). Nel 1706 sarà pubblicata un’edizione postuma del Saggio – la quinta, ma considerata da Locke come la sesta se si tiene conto di quella francese - con correzioni dello stesso autore. L’edizione critica del Saggio è stata curata da P. H. Nidditch (Clarendon, Oxford 1975), ristampata con alcune correzioni nel 1979, che segue la IV edizione del 1700, ritenuta la più vicina al pensiero di Locke. 4 Cfr. W. von Leyden, Notes Concerning Papers of John Locke in the Lovelace Collection, in «Philosophical Quarterly», 2 (1952), pp. 63-69; P. Long, A Summary Catalogue of the Lovelace Collection of the Papers of John Locke in the Bodleian Library, Oxford University Press, Oxford 1959.

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VIII

introduzione, l’edizione critica dei Saggi sulla legge naturale (1660-1664)5, per la prima volta a

disposizione degli studiosi, e nel 1987 è stata curata la pubblicazione della Parafrasi delle Epistole

di San Paolo6 sui manoscritti inediti della Lovelace Collection, mentre giungeva a termine negli

stessi anni l’edizione dell’epistolario lockiano a cura di Esmund de Beer7.

Notevole interesse hanno destato tra gli studiosi i contributi di Locke in ambito epistemologico,

morale, politico, semiotico, economico e pedagogico. Meno attenzione ha ricevuto la fede

dell’anglicano Locke, almeno fino alla seconda metà del secolo scorso8. Eppure, secondo James

Tully, «se vi è un solo leitmotiv che collega le opere di Locke è sicuramente una filosofia della

prassi religiosa [religious praxis]»9, mentre Richard Ashcraft ha osservato che per il filosofo inglese

non vi era materia più importante della religione; in particolare con riferimento alla legge di

natura10.

Nella quasi totalità degli scritti di Locke sono presenti riferimenti di carattere religioso o

teologico11, anche se soltanto nella tarda maturità egli si dedicò, pressoché esclusivamente, allo

5 Essays on the Law of Nature. The Latin Text with a Translation, Introduction and Notes, together with Transcripts of Locke’s Shorthand in his Journal for 1676, ed. W. von Leyden, Clarendon, Oxford 1954, [Introduction] pp. 1-92. Si veda inoltre W. von Leyden, John Locke and Natural Law, in «Philosophy», 31 (1956), pp. 23-35; trad. it. John Locke e la legge naturale, in F. De Michelis Pintacuda, Locke negli scritti di W. von Leyden, J. Yolton, P. Laslett, R. Polin, E.J. Hundert, M. Mandelbaum, R. Armstrong, N. Kretzmann, R. Ashcraft, ISEDI, Milano 1978, pp. 13-29. 6 A Paraphrase and Notes on the Epistles of Saint Paul, I-II, Printed for A. and J. Churchill, London 1705-1707; ed. A. W. Wainwright, Clarendon, Oxford 1987. 7 The Correspondence of John Locke, I-VIII, ed. E. S. De Beer, Clarendon, Oxford 1976-1989. 8 Con qualche eccezione: H. Acton, Religious Opinions and Examples of Milton, Locke, and Newton, R. Hunter, London 1833; F. Milhac, Essai sur les idées religieuses de Locke, Impr. de Rivera, Genève 1886; V. Delbos, La philosophie religieuse de Locke, in «Archivio di filosofia», 3 (1933), pp. 88- 99; H. McLachlan, The Religious Opinions of Milton, Locke and Newton, Manchester University Press, Manchester 1941, pp. 69-114; 175-217; Id., Socinianism in Seventeenth-Century England, Oxford University Press, Oxford 1951, pp. 325-330. 9 J. Tully, A Discourse on Property: John Locke and his Adversaries, Cambridge University Press, Cambridge 1980, p. 174 (trad. mia). 10 Cfr. R. Ashcraft, Introduction, CA, II, p. VII. 11 Il primo degli otto Saggi sulla legge naturale comincia con l’affermazione che «la presenza di Dio ci appare dovunque e, per così dire, si impone ormai allo sguardo degli uomini nella regolarità del corso della natura», e per tale ragione «credo non si troverebbe nessuno disposto a sostenere l’inesistenza di Dio, purché riconosca che la nostra vita deve avere una ragione […]». (SLN, I, p. 3). Analoghi riferimenti compaiono in diversi luoghi delle sue opere. Nel Saggio sull’intelletto umano si afferma che è Dio «l’Autore del nostro essere» il quale ha posto gli uomini «in condizione di scoprire da soli ciò è loro necessario per i bisogni di questa vita» e «di distinguere ciò che per loro è di assoluta importanza sapere» (Saggio, I, I, 5; pp. 23-24). Vi sono dunque dei doveri, dei compiti da assolvere in quanto uomini, una «via che [essi] dovrebbero prendere» (Saggio, IV, XX, 3; p. 806. Cfr. anche IV, XII, 11). Le menti umane sono costantemente occupate ad interrogarsi, ma «non è affar nostro in questo mondo conoscere tutte le cose, bensì quelle che riguardano la condotta della nostra vita» (Saggio, I, I, 6; p. 25). Tra queste vi è il culto al «sovrano Ordinatore di tutte le cose» dal momento che «di tutti i nostri pensieri, il principale, e la più propria occupazione di ogni essere dotato d’intelligenza, è la conoscenza e l’adorazione di questo Essere supremo» (Saggio, II, VII, 6; p. 129). Locke osserva che «siamo provvisti di facoltà (per quanto deboli e opache esse siano) sufficienti a scoprire nelle creature quanto basta a condurci alla conoscenza del Creatore, e alla conoscenza dei nostri doveri; e siamo sufficientemente provveduti di capacità per sopperire alle esigenze del vivere; e tali sono i compiti nostri in questo mondo» (Saggio, II, XXIII,12; p. 332). Certamente vi sono molti problemi e affari ma «nessuno è così interamente preso dalle cure per procurarsi i mezzi di vivere da non avere mai tempo libero per pensare all’anima sua, e informarsi delle cose della religione» (Saggio IV, XX, 3; p. 806). Nella Condotta dell’intelletto, con riferimento alla religione, si dice che «in nessun altro campo egli [l’uomo] ha

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IX

studio approfondito delle Scritture12 e alla definizione di un cristianesimo ragionevole ridotto ai

suoi elementi essenziali - secondo l’insegnamento di quell’indirizzo teologico, manifestatosi nella

Chiesa anglicana tra il XVII e il XVIII secolo, conosciuto come latitudinarismo - attraverso la

stesura di un testo che costituisce anche uno dei riferimenti della presente ricerca: La

Ragionevolezza del cristianesimo13.

Locke d’altra parte aveva ricevuto una solida formazione teologica ed era estremamente familiare

con le Scritture Sacre: egli completò il tradizionale percorso di studi superiori incentrato sulla

filosofia Scolastica, dal quale ricavò probabilmente la tendenza a ricercare una conciliazione tra

ragione e fede. Per Locke, tuttavia, l’interesse per la Bibbia crebbe con il passare degli anni,

soprattutto in ambito etico.

Tale profondo interesse - come emerge ad esempio, oltre che dalle opere più celebri, dalle dense

pagine sul peccato originale14 o sulla risurrezione dai morti15, dai manoscritti sulla chiesa16 o sul

sacerdozio17, dagli appunti su Sacra Scrittura e altri temi teologici18 o dal breve saggio

un interesse maggiore a comprendere e a ragionare rettamente» (VIII) e che Dio «non richiede che gli uomini per lui cadano in errore o facciano un uso sbagliato delle loro facoltà, né richiede che ingannino gli altri o se stessi» (XIV). Riferendosi poi alla teologia, Locke ne parla come di una «scienza […] incomparabilmente al di sopra delle altre […] quel nobile studio cui dovrebbe dedicarsi ogni uomo, e di cui è capace chiunque possa attribuirsi l’appellativo di creatura ragionevole» (XXIII). Of the Conduct of the Understanding, in The Posthumous Works of Mr. John Locke, Printed for A. and J. Churchill, London 1706; in Works, III, pp. 203-289; trad. it. La Condotta dell’intelletto, in SER, pp. 637-725, qui 659; 670; 680. 12 È anche la testimonianza del primo biografo di Locke, l’amico olandese Jean Le Clerc, cfr. Éloge de feu Mr. Locke, in « Bibliothèque Choisie», 1705, VI, art. V, pp. 342-411; trad. it. Elogio [storico] del defunto Signor Locke, in SER, pp. 733-777, qui 769-770. 13 Cfr. The Reasonableness of Christianity: as Delivered in the Scriptures, Printed for A. and J. Churchill at the Black Swan in Pater-Noster-Row, London 1695 (16962); edited with an introduction, notes, critical apparatus and transcriptions of related manuscripts by J. C. Higgins-Biddle, Clarendon, Oxford 1999. 14 Peccatum originale [1692], Adversaria 1661, pp. 294-295; in WR 229-230; Homo ante et post lapsum [1693?-1694], Ms Locke c. 28, fo. 113v, in J. Locke, Political Essays, ed. M. Goldie, Cambridge University Press, Cambridge 1997, pp. 320-321; ora in WR, p. 231. Cfr. anche RC, pp. 91-92; pp. 4-5. 15 Resurrectio et quae sequuntur [1699?] - Ms Locke c. 27, ff 162-177; in P. King, The Life of John Locke, with Extracts from his correspondence, journals, and common-place books, I-II [H. Colburn-R. Bentley, London, 1829; 18302]; Thoemmes, Bristol 1991, II, pp. 139 – 151; ora in WR, pp. 232-237. Si veda sull’argomento anche RBW2, pp. 301 – 334. Sulla redenzione cfr. Redemption – Death [1697] - Ms Locke c.27, ff. 112-113, in M. Sina,Testi teologico-filosofici lockiani dal Ms. Locke c. 27 della Lovelace Collection, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», 64 (1972), pp. 400-427, qui 400-403. 16 Ecclesia [1682], Ms Locke d. 10, Lemmata Ethica, pp. 43-44; in P. King, The Life of John Locke, cit., II, pp. 99 – 101, ora in WR, p. 80; trad. it. Ecclesia, in Due Trattati, pp. 508-509. Si vedano inoltre: Error [1698] Adversaria 1661, pp. 320-321, in P. King, The Life of John Locke, cit., II, pp. 75-81; ora in WR, pp. 81- 83; Essay on Infallibility [1661-62] Public Records Office 30/24/47/33, ed. with an introduction and translation by J. C. Biddle, in «Journal of Church and State», 19 (1997), pp. 301 –327 (poi, con nuova traduzione, in WR, pp. 69-72). La traduzione italiana è a c. di R. Russo, È necessario che ci sia, nella Chiesa, un infallibile interprete della Sacra Scrittura? No, in «Archivio di storia della cultura», 25 (2012), pp. 471-478. 17 Sacerdos [1698] Adversaria 1661, p. 93, in P. King, The Life of John Locke, cit., II, pp. 82 – 92 (parz. in WR, pp. 17-18); trad. it., Sacerdos, in Due trattati, pp. 502 – 507. E sul sacerdozio di Cristo: On the Priesthood of Christ: Analysis of Hebrews, [insert in Locke’s interleaved New Testament] LL 2864-BOD Locke 9.107, in WR, pp. 238-241. 18 Cfr. Superstitio [1682] Ms Locke d. 10, p. 161 in P. King, The Life of John Locke, cit., II, p. 101; Traditio [1682] Ms Locke d. 10, p. 163, in P. King, The Life of John Locke, cit., II, pp. 101-102. Cfr. anche De S. Scripturae Authoritate

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X

sull’interpretazione di San Paolo19 - rinviava non solamente ad una fede pensata o ad

un’educazione, di estrazione puritana, capace di influenzare uno sguardo sulle cose umane. Il

latitudinarismo del filosofo non riguardava cioè un ambito di mera speculazione o di ricerca

teorica20, ma svelava istanze anche profondamente differenti tra loro che trovarono sbocco in una

riforma e politica e religiosa21.

In primo luogo, la base di una fede protestante che giustifica - quale era anche la faith di Locke,

anche se opportunamente corretta dal valore salvifico attribuito al pentimento, alle opere e ad una

good life22 - conduceva di necessità a ricercare una definizione quanto più precisa, e priva di

errore, di che cosa si dovesse credere per conseguire la salvezza23. L’urgenza soteriologica che fa da

sfondo ai quarant’anni di riflessione sulla tolleranza, dagli scritti giovanili fino a quelli della

maturità24, arrivò così a tradursi in una ricerca, a tratti scrupolosa, di una definizione essenziale di

cristianesimo. Questa sarà anche la ragione che condurrà Locke, nella parte conclusiva della sua

vita, a rispondere ai suoi critici con numerose e articolate precisazioni25.

[1685] - Ms Locke c 27, ff. 69-72 in M. Sina,Testi teologico-filosofici lockiani dal Ms. Locke c. 27 della Lovelace Collection, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», 64 (1972), pp. 66-68; Scriptura Sacra [1692] Ms. Locke d. 1, p. 177, in P. King, The Life of John Locke, cit., II, pp. 96-98; ora in WR, pp. 42-43. 19 An Essay for the Understanding of St. Paul’s Epistles, by consulting St. Paul himself [1703], Printed for A. and J. Churchill, London 1705-1707; ora in WR, pp. 51- 66. Il primo draft del testo (MS. Locke c. 27, ff. 217-220), pubblicato poi come prefazione alle Paraphrase and Notes on the Epistles of St. Paul, è presente in M. Sina, Testi teologico-filosofici lockiani dal Ms. Locke c. 27 della Lovelace Collection, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», 64 (1972), pp. 419-424. Lo scritto della prefazione è comparso in prima traduzione italiana come Saggio su l’intendimento delle Epistole di San Paolo, a c. di F. Ferrari, Carabba, Lanciano 1919; più recentemente tradotto anche dallo stesso Sina: Saggio per la comprensione delle Epistole di San Paolo consultando lo stesso San Paolo, in SER, pp. 605-629. 20 Cfr. A. W. Wainwright, Introduction, J. Locke, A Paraphrase and Notes on the Epistles of Saint Paul,, cit., I, p. 51. Come ha scritto Le Clerc nel suo Éloge, «in Locke si vedrà una vita cristiana e uno studio profondo del Nuovo Testamento, uniti ad una finezza di spirito e ad una esattezza di ragionamento straordinarie, e si comprenderà che la più solida pietà si trova unita soltanto con la ragione più pura». J. Le Clerc, Elogio [storico] del defunto Signor Locke, cit., pp. 733 - 734. 21 È quanto sostiene ad esempio Norberto Bobbio, individuando qui una differenza tra la filosofia di Locke e quella di Descartes: cfr. Id., Studi lockiani, in Da Hobbes a Marx, Morano, Napoli 1965, pp. 75-128, qui 123. 22 Cfr. LT, p. 133; RC, p. 99; p. 14; RC, p. 110; p. 30; RC, p. 169; p. 113. 23 Cfr. M. Zuckert, Locke and the Problem of Civil Religion, in R.H. Horwitz (ed.), The Moral Foudations of the American Republic, University Press of Virginia, Charlottesville 1986, pp. 181- 203, qui 185. 24 Two Tracts on Government (1660-1661), edited with an introduction, notes and translation by P. Abrams, Cambridge University Press, Cambridge 1967; An Essay Concerning Toleration (1667), in H.R. Fox Bourne, The Life of John Locke (Henry King, London - Harper & Brothers, New York 1876), I-II; ora Thoemmes, Bristol 1991, I, pp. 174-194; Epistola de Tolerantia ad Clarissimum Virum T.A.R.P.T.O.L. A. scripta a P.A.P.O.I.L.A., apud Justum ab Hoeve, Goudae 1689; A Second letter concerning Toleration, Printed for A. and J. Churchill, London 1690; A Third Letter for Toleration, Printed for A. and J. Churchill, London 1692; A Part of a Fourth Letter for Toleration (1704), in The Posthumous Works of Mr. John Locke, cit. [due pagine mancanti integrate da P. King, The Life of John Locke, cit., II, pp. 229-230]. 25 La giustificazione per fede con la “sola Scrittura” come suo fondamento sono temi protestanti, e non v’è dubbio che Locke considerasse il suo lavoro nel solco della Riforma, se con questo intendiamo non una sovrapposizione alla tradizione riformata (di Lutero e di Calvino), ma nel senso di una continuazione della Riforma. Cfr. V. Nuovo, Introduction, WR, p. XLV.

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XI

Il protestantesimo, come sistema centrato sul concetto rivoluzionario della giustificazione per

fede, esaltava in modo particolare l'idea di credenza26, e il protestantesimo radicale della

rivoluzione inglese la rendeva una questione di importanza anche pratica, come base di un

programma di azione politica: «Questo aspetto più di qualsiasi altro diede al protestantesimo - e

soprattutto al puritanesimo - l'appellativo di ideologia: cioè di un sistema di idee che crea la

propria realtà»27.

In secondo luogo, l’ispirazione latitudinaria rappresentava per Locke la strada di un metodo di

governo, il fondamento cioè di un ordine economico e civile pacifico: egli comprese abbastanza

presto che un Paese lacerato, quale era l’Inghilterra del tempo, aveva bisogno di stabilità come

pure della massima inclusione dei dissenzienti per il loro apporto, anche semplicemente in termini

economici e commerciali; per realizzare cioè quel benessere civile che uno Stato deve perseguire se

intende assicurare la pace28. E per conseguire l’inclusione non si poteva che cercare una

convergenza su pochi – essenziali - elementi di fede, in un’epoca di profonda spiritualità quale era

il XVII secolo29.

In terzo luogo, l’impronta latitudinaria del cristianesimo lockiano si adattava perfettamente alla

possibilità di una religione civile30.

Accanto alle interpretazioni del pensiero di Locke che tra gli anni Cinquanta e Sessanta del

secolo scorso hanno avanzato Leo Strauss31 e Crawford B. Macpherson32 - i quali hanno visto in lui

una sostanziale continuità con Hobbes, rintracciabile in particolare nella dottrina del diritto

26 Secondo la dottrina della giustificazione per fede a colui che crede nel Vangelo la fede viene accreditata come giustizia, che compensa una vita non perfettamente giusta o non pienamente conforme alla legge divina. La fede, in questo senso, va a completare una deficienza morale. Tale nozione, come si vedrà, risulterà centrale per la distinzione lockiana tra Law of Works mosaica e Law of Faith evangelica: cfr. RC, pp. 98 - 100; pp. 13-15. Cfr. anche SV, p. 169. 27 S. Baskerville, Not Peace but a Sword: The Political Theology of English Revolution, Routledge, London 1993, p. 8 (trad. mia). 28 Cfr. ST, p. 121. Sul legame tra tolleranza religiosa, pace civile e prosperità economica si veda: D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza (1977), UTET, Torino 2005, pp. 33-34. 29 Un saggio di Amos Funkenstein ha evidenziato che il XVII secolo conobbe una fusione tra pensiero religioso e scientifico maggiore di quella verificatasi in qualunque epoca precedente. Cfr. A. Funkenstein, Teologia e immaginazione scientifica dal Medioevo al Seicento, Einaudi, Torino 1996. Si veda inoltre: R. Kroll, R. Ashcraft, P. Zagorin (eds.), Philosophy, Science and Religion in England 1640-1700, Cambridge University Press, Cambridge 1992. 30 È la tesi di Michael Zuckert, cfr. Launching Liberalism: On Lockean Political Philosophy, University Press of Kansas, Lawrence 2002, in part. pp. 147 – 168 (per l’illustrazione di questa tesi cfr. il capitolo conclusivo della presente ricerca). 31 L. Strauss, Natural Right and History, University of Chicago Press, Chicago 1953; trad. it. Diritto naturale e storia, a c. di N. Pierri, Neri Pozza Editore, Venezia 1957, pp. 167-168; 200-245 (per la cui esposizione v. infra, pp. 305 ss.). 32 C.B. Macpherson, The Political Theory of Possessive Individualism: Hobbes to Locke , Clarendon, Oxford 1962; trad. it. Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke, ISEDI, Milano 1973, pp. 225 – 296. Macpherson, la cui posizione sarà illustrata nell’ultima parte della presente ricerca (pp. 314 ss.), intitola il capitolo su Locke “La teoria politica dell’appropriazione” e sostiene che l’obiettivo del filosofo fosse quello di trasformare l’appropriazione illimitata da lacuna morale in diritto naturale, addirittura in virtù, così da fornire un fondamento etico alla teoria che riflette la nascita della società borghese e del moderno capitalismo. In questo

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XII

naturale e improntata al primato del soggettivismo e dell’edonismo-, dagli anni Settanta-Ottanta

del Novecento si è sviluppato un filone di studi che ha profondamente rivoluzionato la

comprensione e la ricezione delle opere del filosofo whig, fino ad allora incentrate

prevalentemente sullo studio della sua gnoseologia33, dell’empirismo e della proprietà. In questo

rinnovamento, orientato soprattutto su temi etico-religiosi e politici, un ruolo di impulso decisivo

è stato quello della “Scuola di Cambridge”, che annovera studiosi come Peter Laslett, che ha curato

l’edizione critica dei Due Trattati34, John Dunn e il citato Tully.

Secondo Strauss35 e Richard Cox36, Locke avrebbe rotto con la tradizione cristiana quanto alla

nozione di legge di natura per collocarsi piuttosto agli albori di una linea di pensiero che avrebbe

stabilito una sovranità assoluta dell’uomo, come signore e proprietario della natura; tutto ciò a

discapito anche del ruolo di Dio, il quale, in un quadro filosofico di questo tipo, sarebbe stato poco

più che strumentale37. La controversa interpretazione straussiana ha dato quindi impulso ad un

filone interpretativo (Zuckert38, Rabieh39) che, nell’accentuare la discontinuità del pensiero

quadro, anche la teoria costituzionale di Locke avrebbe avuto semplicemente il ruolo di garantire la proprietà e la sua acquisizione illimitata, e non i diritti naturali degli individui dallo Stato. 33 Si veda l’opera fondamentale su Locke di Armando Carlini che ha fatto testo per diversi decenni in Italia: La filosofia di G. Locke, I-II, Vallecchi, Firenze 1920-21. Nei secoli precedenti in Italia si ricordano la critica alla filosofia lockiana di Paolo Mattia Doria nella Difesa della metafisica degli antichi filosofi contro il Signor Giovanni Locke, ed alcuni altri moderni autori, I-II (Venezia, 1732-33); le riflessioni contenute in La filosofia morale esposta e proposta a i giovani da Lodovico Antonio Muratori Bibliotecario del Serenissimo Sig. Duca di Modena (Verona, 1735); le osservazioni su Locke di Pasquale Galluppi nelle sue Lettere filosofiche su le vicende della filosofia, relativamente a' principj delle conoscenze umane da Cartesio sino a Kant inclusivamente (Messina, 1827) e l’esame che Antonio Rosmini dedicò al pensiero del filosofo inglese dal titolo Del mancamento della filosofia lockiana, presente nel terzo capitolo della prima sezione del Nuovo Saggio sull’origine delle idee (Salviucci, Roma 1830), insieme alla parte presente nel primo capitolo della terza sezione. 34 Cfr. Two Treatises of Government. In the Former the False Principles and Foundation of Sir Robert Filmer, and his Followers, are Detected and Owerthrown. The Latter is an Essay concerning the True Original, Extent and End of Civil Government, Printed for A. and J. Churchill, London 1690 (16942,16983); a critical edition with an introduction and apparatus criticus by P. Laslett, Cambridge University Press, Cambridge 1960, 19672. 35 Strauss confermerà la propria lettura di Locke alla fine degli anni Cinquanta, spiegando che l’insegnamento hobbesiano era «troppo ardito per essere accettabile. Anche esso aveva bisogno di essere mitigato. La mitigazione fu opera di Locke. Egli prese lo schema fondamentale di Hobbes e lo cambiò solo in un punto. Capì che ciò di cui l’uomo aveva bisogno primariamente per la sua autoconservazione non era tanto un’arma quanto il cibo o, più generalmente, la proprietà. Così il desiderio di autoconservazione si trasforma in quello di proprietà, di acquisizione, e il diritto all'autoconservazione diventa quello all'accumulazione illimitata». Ad avviso di Strauss «qui abbiamo una passione completamente egoista, la cui soddisfazione non richiede alcun versamento di sangue e il cui effetto è il miglioramento di tutto». L. Strauss, Che cos’è la filosofia politica? (1959), trad. it. a c. di D. Cadeddu, Il Melangolo, Genova 2011, pp. 57-58. 36 R. H. Cox, Locke on war and peace, Clarendon, Oxford 1960. 37 Su questo aspetto si veda in particolare W. T. Bluhm, N. Wintfeld, S. H. Teger, Locke’s Idea of God: Rational Truth or Political Myth?, in «The Journal of Politics», 42 (1980), pp. 414 - 438. Anche Ernst Troeltsch, nell'evidenziare lo spirito illuministico del pensiero lockiano, riteneva il quadro religioso di scarsa importanza o comunque non legato a quello che definì un «mobilissimo razionalismo di una mondanità meramente utilitaria», slegata dai nessi religiosi della sua teoria. E. Troeltsch, Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani (1923), I-II, La Nuova Italia, Firenze 1969, II, p. 345. 38 La posizione di Michael Zuckert è singolare, dal momento che egli concorda con Strauss quanto all’interpretazione esoterica della scrittura di Locke mentre se ne distacca quanto al collegamento tra Hobbes e Locke stabilito dallo studioso: cfr. M. Zuckert, Of Wary Physicians and Weary Readers: The Debates on Locke’s Way of Writing, in

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XIII

lockiano con la tradizione, rinvia ad una dottrina lockiana autentica di carattere esoterico, nascosta

ai più dalla superficie degli scritti del filosofo, e propria di un pensatore razionalista

profondamente moderno.

Gli studiosi che hanno seguito Strauss hanno quindi sostenuto che la vera dottrina di Locke non

sia emersa in tutta la sua chiarezza, che il suo pensiero fosse a ben vedere sostanzialmente secolare

e non religioso - rivolto a interessi pratici e non a diritti astratti - e hanno preso a considerare il

suo cristianesimo più che altro funzionale ad una moralità per la cui definizione la sola ragione

non era sufficiente.

Diversamente, l’indirizzo che ha posto al centro della propria indagine il ruolo dell’elemento

teologico nel pensiero di Locke ha collocato invece quest’ultimo, e la sua opera, nel contesto di una

società complessa e profondamente religiosa, quale era quella inglese del XVII secolo. In questo,

più che in altri casi, sembra valido l’invito di Massimo Firpo a «capire la crisi e le incertezze di un

establishment ecclesiastico, che nel corso degli ultimi cinquant’anni era passato attraverso due

rivoluzioni, aveva assistito a traumatici rovesciamenti dell’assetto istituzionale dello stato e della

chiesa, aveva visto il dilagare delle istanze spesso rivoluzionarie del mondo settario, aveva

conosciuto il drammatico dilemma, e le fratture interne, circa l’atteggiamento da assumere di

fronte alla cacciata di un legittimo sovrano»40.

È in un tale contesto di guerra civile e di persecuzioni - nel corso di quel rivolgimento spirituale

di straordinarie proporzioni costituito dal «passaggio, compiuto nel Seicento, dalla tradizionale

teologia cristiana al sistema di una scientificità “naturale”»41 - che Locke elaborò la propria dottrina

teologica insieme a quella politica.

Studiosi come John Yolton42 e Peter Laslett43, in particolar modo, hanno rivolto un’articolata

critica alle tesi di Strauss e di Macpherson. Philip Abrams, nell’introduzione ai Two Tracts on

«Indipendent Journal of Philosophy», 2 (1978), pp. 55-66; ora in LL, pp. 82 – 106. Di quest’ultimo testo, per una introduzione alla prospettiva di Zuckert, cfr. in part. pp. 1-21. Si veda inoltre il confronto ospitato da Review of Politics: J. Stoner Jr., Was Leo Strauss Wrong about John Locke?, in «The Review of Politics», 66 (2004), pp. 553-563; M. P. Zuckert, Perhaps He Was, ivi, pp. 565-569. 39 M. S. Rabieh, The Reasonableness of Locke, or the Questionableness of Christianity, in «The Journal of Politics», 53 (1991), pp. 933-957. 40 M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, in «Rivista storica italiana», 92 (1980), pp. 35-124, qui 94. D’altra parte lo stesso comportamento di Giacomo II che aprì la strada alla Rivoluzione del 1688, e che provocò il risentimento e la sfiducia del Paese, rappresentò agli occhi del clero e del popolo inglese non soltanto un problema politico ma innanzitutto religioso, dal momento che egli rappresentava un pericolo tanto per le libertà costituzionali quanto per il protestantesimo che intendeva sovvertire. 41 C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, in Id., Le categorie del ‘politico’, a c. di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino Bologna 1972, p. 176. 42 Cfr. J. W. Yolton, Locke on the Law of Nature, in «Philosophical Review», 67 (1958), pp. 477-498; ora in CA, II, pp. 16-33; trad. it. Locke a proposito della legge di natura, in F. De Michelis Pintacuda, Locke negli scritti di W. von Leyden, J. Yolton, P. Laslett, R. Polin, E.J. Hundert, M. Mandelbaum, R. Armstrong, N. Kretzmann, R. Ashcraft, cit., pp. 30 – 55.

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XIV

Government44, ha sostenuto che sulla legge di natura quella lockiana era una posizione originale,

frutto di una personale sintesi di fonti differenti. Se per un verso egli avrebbe seguito Richard

Hooker nella dottrina tradizionale (la legge naturale considerata espressione della volontà divina)

per un altro se ne sarebbe distaccato (evitando di dichiarne il contenuto). Abrams tende tuttavia a

respingere l’idea che il filosofo abbia costruito il suo pensiero su premesse hobbesiane45. La legge di

natura, nella visione lockiana, costituiva un ponte tra la sfera religiosa e quella politica, ovvero tra

l’obbligazione morale e civile46. Anche se Locke non smise mai di considerarla una legge di

ragione, mostrò tuttavia un’incoerenza affermando prima la possibilità di una dimostrazione

razionale dell’etica e rifugiandosi in seguito nell’ambito della fede, dopo aver preso atto che i suoi

princìpi fondamentali potevano essere rintracciati nella loro totalità soltanto nel Nuovo

Testamento, dunque per rivelazione. Un’“ambivalenza” che Abrams riconduce da un lato

all’integrità intellettuale del filosofo e dall’altro ad un impulso, originato dalla sua educazione, per

una spiegazione razionale e consensuale della società e della politica: egli «rimase legato agli ideali

della visione di un mondo cristiano conservatore e razionalista nel quale fu educato»47.

La fecondità dell’indirizzo di studi che ha esaminato con attenzione la rilevanza della

dimensione teologica nel pensiero di Locke ha cominciato ad essere chiara nelle sue implicazioni a

partire dalla pubblicazione di un saggio di Dunn48, il quale, riferendosi all’interpretazione che

proponeva, notava che «l’elemento di novità più importante in questa lettura è probabilmente

Di John W. Yolton si vedano inoltre: John Locke and the Way of Ideas, Clarendon, Oxford 1956; (ed.), John Locke: Problems and Perspectives, Cambridge University Press, Cambridge 1969; Locke and the Compass of Human Understanding, Cambridge University Press, Cambridge 1970; Locke: An Introduction, Basil Blackwell, Oxford- New York 1985; trad. it. John Locke, il Mulino, Bologna 1990; A Locke Dictionary, Blackwell, Oxford - Cambridge, Mass. 1993. 43 Cfr. P. Laslett, Market Society and Political Theory, in «Historical Journal», 7 (1964), pp. 150-154. Cfr. anche Id., Introduction, Two Treatises of Government, cit., pp. 1-120. Nel 1965 Laslett ha curato con John Harrison la catalogazione dei libri presenti nella biblioteca personale di Locke. Quanto ai generi, il filosofo possedeva più libri di teologia (870) che di altri argomenti. Secondo il Leyden Locke aveva letto l’Aquinate, la cui citazione nel primo dei Saggi giovanili poteva essere tuttavia una parafrasi tratta da Hooker. Secondo Ashcraft, invece, non c’è prova a sostegno di quanto sostiene il Leyden e la somiglianza tra i Saggi e le opere di Tommaso si doveva a parafrasi di autori che Locke aveva letto. È inoltre possibile che Locke avesse letto Agostino. Quanto ai testi di argomento politico, Locke possedeva, tra gli altri, quelli di Grozio, Machiavelli e Pufendorf, il trattato di Spinoza sulla filosofia cartesiana e il suo Trattato teologico-politico. Il filosofo possedeva anche la prima edizione del Leviatano che prestò all’amico James Tyrrell, e conosceva inoltre le opere di Henry More, Filmer, Selden, Milton e Giustiniano. Cfr. J. Harrison, P. Laslett, The Library of John Locke (1965), Clarendon, Oxford 19712; R. Ashcraft, John Locke’s Library: Portrait of an Intellectual, in «Transactions of the Cambridge Bibliographical Society», 5 (1969), pp. 47-60; ora in CA, I, pp. 17 – 31. 44 Introduction,Two Tracts on Government, cit., pp. 3-111. 45 Cfr. ivi, pp. 77-79. 46 Cfr. ivi, p. 85. 47 Ivi, p. 98 (trad. mia). 48 J. Dunn, The Political Thought of John Locke, Cambridge University Press, Cambridge 1969; trad. it. Il pensiero politico di John Locke, Il Mulino, Bologna 1992.

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XV

l’insistenza sulla centralità teorica delle preoccupazioni religiose di Locke attraverso tutto il suo

lavoro»49.

Lo studioso britannico lamentava altresì l’assenza di una seria sintesi che riesaminasse la vita

intellettuale di Locke a partire dalle sue idee religiose50 e, rilevando che il tentativo di collocare la

rivelazione divina nell'ordine dell'esperienza storica umana era stata una delle maggiori imprese

intellettuali del filosofo inglese, osservava che la maggioranza dei suoi argomenti «sono per lo

meno comprensibili, se non plausibili, soltanto in relazione ad una serie di vincoli teologici»51.

Quel che affascinava Dunn, alla luce dei richiami a questo razionalista ed empirista cristiano da

parte di personalità tanto diverse tra loro e delle opposte interpretazioni che differenti studiosi

hanno dato del suo pensiero, era «quel peculiare equilibrio di audacia e vigliaccheria, quietismo e

radicalismo, astuzia e sicerità che è alla radice di tutte le imprese di Locke ed è al tempo stesso la

condizione necessaria del suo successo e la pecca che inficia tutti i suoi sforzi»52. Un intreccio di

motivi che sembra caratterizzare tutta la vita di una delle personalità più brillanti della scena

intellettuale europea agli albori della modernità, e che Dunn cerca di spiegare a partire da un

unico assioma teologico: «L’assioma è semplicemente l’esistenza di un Dio benevolo che fornisce

un insieme di regole sufficienti a guidare gli esseri umani nel corso della loro vita»53.

L’eredità più rilevante, per le generazioni successive di studiosi, è stata la collocazione della

filosofia lockiana in una “cornice teocentrica” di impianto fondamentalmente calvinista (sebbene

ritenuta da Dunn pressoché irrilevante ai nostri giorni), la quale aveva finito inevitabilmente per

plasmare anche una visione dei diritti e dei doveri dell’individuo:

Soltanto in una relazione che liberasse così completamente ed esplicitamente gli uomini dalle pressioni della società contemporanea, sarebbe stato possibile, nell’Inghilterra del diciassettesimo secolo, conferire all’individuo uno statuto morale che lo mettesse in grado di porre in discussione la legittimità morale della società stessa. Non era come produttore economico, padrone del proprio lavoro, ma come recipiente dei comandi di Dio che Locke poteva considerare l’uomo in questo modo al di sopra della sua famiglia e società. Nella relazione con Dio ogni uomo si trovava ad avere un punto archimedeo, al di fuori del dominio della contingenza umana, a partire dal quale l’individuo razionale poteva giudicare il mondo ed agire su di esso54.

L’individualismo religioso del filosofo inglese, fondato sulla natura personale del rapporto di fede

tra il singolo e Dio, e sulla necessità di una convinzione interiore, insieme al presupposto secondo

49 PPL, p. 10. 50 Cfr. PPL, p. 228 n. 28. Su questo aspetto cfr. anche F. De Michelis Pintacuda, Introduzione, Locke negli scritti di W. von Leyden, J. Yolton, P. Laslett, R. Polin, E.J. Hundert, M. Mandelbaum, R. Armstrong, N. Kretzmann, R. Ashcraft, cit., p. 12. 51 PPL, p. 9. Si veda inoltre J. Dunn, Locke, Oxford University Press, Oxford 1984. 52 PPL, p. 20. 53 PPL, p. 21.

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XVI

cui gli uomini nascono liberi e con menti come “fogli bianchi” sui quali scrive l’esperienza55,

poggiava innanzitutto sul dovere e sulla responsabilità per le proprie credenze e azioni56, alle quali

si sarebbe trovata risposta definitiva solo al momento di un Giudizio finale da parte di Dio.

La strada aperta da Dunn - e in parte anche da Raymond Polin in Francia57 - è stata percorsa

negli anni successivi da Geraint Parry58, James Tully59 ed Alan Ryan60, i quali hanno riflettuto in

particolare sulla dottrina lockiana della proprietà, tracciando nuove linee interpretative.

Mentre per Strauss e Cox il costituzionalismo lockiano muoveva da premesse hobbesiane per

giungere ad una soluzione differente da Hobbes (un governo limitato subordinato al consenso di

una maggioranza61), per l’indirizzo alternativo il liberalismo lockiano riposava su una visione

tradizionale della natura umana come opera di Dio e su un generale accordo a vivere secondo una

legge di natura di origine divina. Come Yolton, studiosi quali Martin Seliger, von Leyden e

Ashcraft, per citare solo i più noti, hanno opposto obiezioni alle tesi e al metodo di Strauss,

sostenendo che Locke era un cristiano che credeva nell’esistenza di Dio e riteneva che questa

potesse essere persino provata dalla ragione, e che in considerazione di ciò la legge di natura

rivestiva un ruolo centrale nella sua filosofia dal momento che riceveva una divina sanzione62.

54 PPL, pp. 298-299. 55 Cfr. Saggio, I, III, 22. 56 Decisiva, come si vedrà, la questione del peccato originale per Locke, il quale a propria volta si pone come erede di una tradizione umanistico-rinascimentale. Sul risorgere dello spirito del pelagianesimo, e il declino della concezione agostiniana di una radicale corruzione umana, a partire dall’umanesimo e dal suo universalismo religioso fino a giungere all’illuminismo cfr. E. Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo (1932), trad. it. E. Pocar, La Nuova Italia, Firenze 1936, pp. 195 ss. 57 Cfr. R. Polin, Sens et fondement du pouvoir chez John Locke, in R. McKeon (a c. di), Annales de philosophie politique - Le pouvoir, Presses Universitaires de France, Paris 1956-1957, vol. I, pp. 53-89; trad. it. John Locke: senso e fondamento del potere, a c. di A. Zanini, Pellicani, Roma 1990. Di Polin si vedano inoltre: La politique morale de John Locke, Presses Universitaires de France, Paris 1960; John Locke's Conception of Freedom, in J. W. Yolton (ed.), John Locke: Problems and Perspectives, cit., pp. 1 – 18. 58 G. Parry, John Locke, Allen and Unwin, London 1978. 59 J. Tully, A Discourse on Property, cit. Si vedano inoltre: Id., A Reply to Waldron and Baldwin, in «Locke newsletter», 13 (1982), pp. 35-46; Id., Locke, in J. H. Burns, M. Goldie (eds.), The Cambridge History of Political Thought, 1450-1700, Cambridge University Press, Cambridge 1991, pp. 616- 652; Id., Placing the ‘Two Treatises’, in N. Phillipson, Q. Skinner (eds.), Political Discourse in Early Modern Britain, Cambridge University Press, Cambridge - New York 1993, pp. 253-280. 60 A. Ryan, Property and Political Theory, Basil Blackwell, Oxford 1984. 61 Su questo preciso aspetto resta fondamentale lo studio di Willmore Kendall del 1941 pubblicato nella serie «Illinois Studies in the Social Science» (v. XXVI, n. 2) e ristampato dopo la Seconda Guerra mondiale come: John Locke and the Doctrine of Majority-Rule, University of Illinois Press, Urbana 1959. 62 Cfr. M. Seliger, The Liberal Politics of John Locke, Allen and Unwin, London 1968, in part. pp. 32-36; 45-49; 54-62; W. von Leyden, Hobbes e Locke. Libertà e obbligazione politica (1982), trad. it. il Mulino, Bologna 1984, pp. 198-204; R. Ashcraft, Locke’s State of Nature: Historical fact or moral Fiction?, in «American Political Science Review», 62 (1968), pp. 898-915; Id., Faith and Knowledge in Locke’s Philosophy, in J. Yolton (ed.), John Locke: Problems and Perspectives, cit., pp. 194-223; trad. it. Fede e conoscenza nella filosofia di Locke, in F. De Michelis Pintacuda, Locke negli scritti di W. von Leyden, J. Yolton, P. Laslett, R. Polin, E.J. Hundert, M. Mandelbaum, R. Armstrong, N. Kretzmann, R. Ashcraft, cit., pp. 224-267.

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XVII

Ha preso quindi consistenza un solido indirizzo di studi lockiani al quale si sono aggiunti via via

prestigiosi contributi, come quelli del citato Ashcraft63, di Mario Sina64, John Colman65, David

Snyder66, William Spellman67 e John Simmons68.

Successivamente, tra la fine degli anni Novanta e il nuovo secolo, il dibattito sul cristianesimo di

Locke è stato ampliato dagli studi di Ian Harris69, Joanne Tetlow70 - entrambi impegnati nello

sviluppo della Theology of Covenant lockiana e delle implicazioni, anche politiche, di una certa

interpretazione del peccato originale -, Jeremy Waldron71 e Kim Parker72; tutti studiosi che hanno

consentito una ricostruzione unitaria del pensiero di Locke collegandone i differenti ambiti

intellettuali. Ed è in particolare lo straordinario paradigma egualitario elaborato dal filosofo,

stabilito su un quadro metafisico di carattere teologico - poiché assunto a partire dall’uguaglianza

creaturale di tutti gli uomini -, ad essere visto come il momento di rottura con il paradigma non

ugualitario del suo tempo e con il contesto socio-economico nel quale Locke visse73.

Meritano una menzione a parte, in sede introduttiva, gli studi di Victor Nuovo, il quale si è

dedicato in diverse occasioni ad un esame dettagliato della filosofia della religione di Locke74, e il

saggio di John Marshall che negli anni Novanta ha preso in esame lo sviluppo intellettuale del

63 Ashcraft ha posto in particolare l’accento sul radicalismo di Locke come membro di un movimento politico rivoluzionario e sui Due Trattati come manifesto di questo, cfr: Id., Revolutionary Politics and Locke’s Two Treatises of Government: Radicalism and Lockean Political Theory, in «Political Theory», 8 (1980), pp. 429-486, ora in CA, I, pp. 50- 99; Id., Revolutionary Politics and Locke’s Two Treatises of Government, Princeton University Press, Princeton 1986; Id., Locke’s Two Treatises of Government, Allen and Unwin, London 1987. 64 M. Sina, Il problema della “Faith and Reason” nel pensiero lockiano, in Id., L’avvento della ragione. “Reason” e “above Reason” dal razionalismo teologico inglese al deismo, Vita e Pensiero, Milano 1976, pp. 284 – 438. 65 J. Colman, John Locke’s Moral Philosophy, Edinburgh University Press, Edinburgh 1983. 66 D. Snyder, Faith and Reason in Locke’s Essay, in «Journal of the History of Ideas», 47 (1986), pp. 197-213. 67 W. M. Spellman, John Locke and the Problem of Depravity, Oxford University Press, Oxford 1988. 68 J. A. Simmons, The Lockean Theory of Rights, Princeton University Press, Princeton 1992. 69 Cfr. I. Harris, The Mind of John Locke, Cambridge University Press, Cambridge 1994. Di Harris si veda inoltre: The Politics of Christianity, in G.A.J. Rogers (ed.), Locke’s Philosophy: Content and Context, Clarendon, Oxford 1994, pp. 197- 215. Il volume collettaneo, del quale fa parte il saggio di Harris, raccoglie i contributi dei maggiori studiosi viventi di Locke per la celebrazione, nel settembre 1990, del trecentesimo anniversario dalla pubblicazione dei suoi maggiori scritti. 70 J. Tetlow, John Locke’s Covenant Theology, in «Locke Studies», 9 (2009), pp. 167 – 199. 71 J. Waldron, God, Locke, and Equality, Cambridge University Press, Cambridge 2002. 72 K. I. Parker, The Biblical Politics of John Locke, Canadian Corporation for Studies in Religion -Wilfrid Laurier University Press, Waterloo 2004. 73 È la tesi del saggio di Virginia McDonald, A Guide to Interpretation of Locke the Political Theorist, in «Canadian Journal of Political Science», 6 (1973), pp. 602-623. 74 Cfr. V. Nuovo (ed.), John Locke and Christianity: Contemporary Responses to The Reasonableness of Christianity, Thoemmes, Bristol 1997; Id., Locke’s Theology, 1694-1704, in M.A. Stewart (ed.), English Philosophy in the Age of Locke, Clarendon, Oxford 2000, pp. 183 – 215; Id., Introduction, J. Locke, Writings on Religion (2002), Clarendon, Oxford 2004, pp. xv- lvii; Id., Introduction, J. Locke, Vindications of the Reasonableness of Christianity, Clarendon, Oxford 2011, pp. xvii-cxi; Id., Christianity, Antiquity, and Enlightenment: Interpretations of Locke, Springer, Dordrecht 2011.

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XVIII

filosofo inglese ricostruendone l’ispirazione teologica e riaffermandone l’identità di membro della

Church of England75.

Il Dio di Locke era prima di tutto ragionevole e la salvezza recata da Cristo stava nel valore e nel

significato della sua predicazione e dei suoi insegnamenti morali, nei miracoli che ne garantivano

l’autenticità e nella sua risurrezione. Nella Terza Lettera per la Tolleranza Locke scrive in maniera

inequivoca a Jonas Proast: «Per voi e per me la religione vera è la religione cristiana, che, per non

citare gli altri suoi articoli di fede, si fonda su ciò, che Gesù Cristo fu messo a morte in

Gerusalemme, e risuscitò dai morti»76; per poi aggiungere: «Sono anche d’accordo che la vera

religione, necessaria alla salvezza, è insegnata e professata nella Chiesa d’Inghilterra»77.

Locke era un uomo dalla profonda spiritualità78, che credeva nell’esistenza di Dio e chiamava

peccati [sins] determinate azioni umane, fornendone anche un breve elenco79. Egli restò inoltre un

membro della Chiesa di Inghilterra80.

Nel solco del filone di studi che ha insistito sulla rilevanza del tema religioso nel pensiero

lockiano, la presente ricerca intende porre in relazione il profilo teologico del filosofo con i motivi

e i concetti fondamentali della sua dottrina politica. Una tale ispirazione proviene dall’esigenza di

una lettura che tenga conto “anche” degli interessi religiosi di Locke non solamente per la

comprensione del suo testo politico più celebre - i Due Trattati sul governo -, ma per la fondazione

degli elementi che agiscono da presupposti della sua teoria politica: nozioni come quella di

uguaglianza, di trust, di tolleranza, la formulazione di diritti fondamentali come quello alla vita e

alla proprietà81, insieme al riferimento all'annuncio evangelico come messaggio di liberazione

anche storica e veicolo di una Natural Law universalmente valida, formano quella rete di concetti

che costituisce il nucleo etico-politico irriducibile dell’eredità lockiana. Ancora una volta è stato

Dunn a descrivere quale fosse l’essenza di questo liberalismo:

75 J. Marshall, John Locke: Resistance, Religion and Responsibility, Cambridge University Press, Cambridge 1994. Si veda inoltre il saggio che sarà considerato nel terzo capitolo: Id., Locke, Socinianism, “Socinianism” and Unitarianism, in M.A. Stewart (ed.), English Philosophy in the Age of Locke, cit., pp. 111 – 182. 76 Terza Lettera per la tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, cit., p. 274. 77 Ivi, p. 476 (cfr. anche ivi, nota n. 181). Si parla di «vera chiesa » e di «vera religione» anche in LT, p. 131. 78 Cfr. A. Ravà, Le Dottrine del Secolo Decimosettimo in Inghilterra e in Olanda, CEDAM, Padova 1932, p. 176; J. Dunn, The Politics of Locke in England and America in the eighteenth century, in J.W.Yolton (ed.), John Locke: Problems and Perspectives, cit., pp. 45-80, qui 51; M. Cranston, John Locke: A Biography (1957), Longmans, Green & Co., London 1966, p. 124. 79 Cfr. Saggio, I, III, 19; LT, p. 161; T1, 42. 80 Cfr. R. Aaron, John Locke, Clarendon, Oxford 19552, pp. 292 ss. 81 Nella Epistola de Tolerantia Locke parlerà di «diritti che Dio e la natura hanno […] concesso» agli uomini. Cfr. LT, p. 178. Questo riferimento all’origine divina dei diritti scompare tuttavia nella traduzione inglese dell’Epistola, a cura del

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XIX

Locke credeva nel Dio cristiano e nella propria intelligenza; e quando questo universo cominciò a sgretolarsi e le due parti si separarono, ciò in cui mostrò di credere più profondamente fu Dio, e non l’intelligenza. Non è cosa, evidentemente, di cui congratularsi intellettualmente, ma è di grande importanza ai fini di una comprensione storica del liberalismo. Dio, il Creatore, aveva fissato dei limiti all’uomo, sua creatura; e tutti i valori che Locke difendeva erano valori difesi in quanto veicoli dei progetti di Dio82.

Alla luce di questa avvertenza, con la quale anche Rawls si trova d’accordo83, dopo un richiamo

introduttivo al contesto inglese della Riforma, si prenderanno in esame nel primo capitolo i motivi

principali dell’indirizzo teologico latitudinario a partire dal contributo di quei pensatori

indipendenti, determinati ad esercitare il proprio diritto al giudizio privato e alla libera indagine,

che animarono il Tew Circle84. Ad essi si richiameranno anche gli esponenti del più noto

platonismo di Cambridge.

Ai protagonisti di questo indirizzo del XVII secolo, e agli aspetti essenziali del loro pensiero

filosofico e teologico, sarà dedicata una riflessione alla luce degli studi di Gerald Cragg85 e di Ernst

Cassirer86. Vedremo più avanti come questi esponenti della teologia latitudinaria differissero dalla

maggioranza degli anglicani in parte per il favore accordato alla tolleranza, e principalmente per la

loro fiducia in una ragione in grado di giustificare «soltanto un numero molto limitato di dogmi»87.

Entrambi aspetti che convergeranno nella filosofia di Locke, debitore tanto allo spirito

latitudinario quanto al puritanesimo88. Questo senza dimenticare il ruolo svolto dal teologo

anglicano Richard Hooker nella formazione del suo pensiero.

mercante di fede unitaria William Popple. Sulla paternità lockiana dell’idea che l’uomo abbia per natura dei diritti che nessuno può sottrargli cfr. N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, pp. 21-22 e 27. 82 J. Dunn, La teoria politica di fronte al futuro, Feltrinelli, Milano 1983, pp. 53 – 73, qui p. 70. 83 «Quando mi riferisco alla legge di natura la intendo come ho appena spiegato, ossia come la legge di Dio così com’è conosciuta dalla nostra ragione naturale. Questo è il senso tradizionale in cui Locke la usa, ed è anche centrale per lui; così, quando egli parla della legge di natura o dei diritti di natura, c’è un riferimento, diretto o indiretto, alla legge di natura fondamentale intesa come la legge di Dio che è conosciuta dalla ragione» ; «Concludo osservando che il pensiero di Locke che sta sullo sfondo di tutto questo è che apparteniamo a Dio come sua proprietà; che i nostri diritti e doveri derivano dalla proprietà di Dio su di noi, così come dai propositi per cui sono stati creati, i quali propositi sono per Locke chiari e intelligibili nella stessa legge di natura fondamentale». Cfr. J. Rawls, Lezioni di storia della filosofia politica, a c. di S. Freeman, Feltrinelli, Milano 2009, p. 120; pp. 129-130 (corsivo mio). 84 Cfr. J. Tulloch, Rational Theology and Christian Philosophy in England in the Seventeenth Century, (Edimburgh-London 1874), I-II, Olms Verlagsbuchhandlung, Hildesheim 1966, I, pp. 45 – 75. 85 G. R. Cragg, From Puritanism to the Age of Reason 1660 – 1700 (1950), Cambridge University Press, Cambridge 19662. 86 E. Cassirer, La rinascenza platonica in Inghilterra e la scuola di Cambridge (1932), trad. di R. Salvini, La Nuova Italia, Firenze 1947. 87 M. Cranston, John Locke: A Biography, cit., p. 125. 88 Si pensi all’argomento della Covenant Theology, al tema della vocazione (cfr. PPL, pp. 281 ss.) oppure all’intreccio di motivi teologico-filosofici calvinistici nella concezione lockiana di chiesa e salvezza individuale (cfr. D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., p. 44). Anche Troeltsch nota che la teoria del costituzionalismo lockiano «si collega senza dubbio col diritto naturale cristiano di concezione calvinistica e scolastica». E. Troeltsch, Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani , cit., II, p. 343. Tuttavia su una differenza tra Locke e i latitudinari si veda J. Coffey, Persecution and Toleration in Protestant England 1558-1689, Longman, Harlow-London 2000, p. 12.

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XX

Si noterà, tra l’altro, come la teoria lockiana si allontani in maniera significativa dal pensiero

luterano con riferimento ad esempio alle limitazioni che pone al potere sovrano o all’affermazione

della capacità della ragione di conoscere una legge di natura o di arrivare da sola a cogliere

compiutamente Dio. Paradossalmente, qui, Locke è assai più vicino al pensiero cattolico, alla

concezione di una ragione che avvicina a Dio, all’idea di una “alleanza” tra ragione e fede, come

pure alle tesi della Seconda Scolastica su consenso, sovranità popolare e resistenza89.

Nella ricerca di una definizione del profilo teologico lockiano sono state prese in considerazione

le opere del filosofo inglese, dalle più note – quali la Lettera sulla tolleranza e il Saggio

sull’intelletto umano – fino agli appunti manoscritti editi, presenti nella Bodleian Library, e ciò a

conferma di come l’identità cristiana di Locke costituisca lo sfondo comune dei suoi scritti e una

chiave interpretativa di alto valore.

Come ha scritto Samuel Pearson, nel Saggio sull’intelletto umano non meno che nella

Ragionevolezza l’interesse di Locke è quello di un anglicano latitudinario imbevuto di fede

cristiana - una fede concepita in primo luogo come credenza nella messianicità di Cristo, i cui

insegnamenti morali erano normativi -, profondamente influenzato da nuove correnti scientifiche

e intellettuali, ed in lotta per stabilire un fondamento ragionevole alle richieste della fede90.

Il secondo capitolo sarà dedicato all’esame del cristianesimo lockiano: a partire dalla posizione

anti-innatista del filosofo si passerà a presentare la dimostrazione dell’esistenza di Dio, come

sviluppata nel decimo capitolo del quarto libro del Saggio sull’intelletto umano. In quest’opera,

nata dal tentativo di «esaminare le nostre stesse capacità, e vedere quali oggetti siano alla portata

della nostra intelligenza, e quali invece siano superiori alla nostra comprensione»91, Locke pone le

basi di un'alleanza tra faith e reason di derivazione scolastica, un’ispirazione che nel XVII secolo

andava ormai scomparendo per far posto al meccanicismo di Descartes e di Bacon. Sotto questo

rispetto - come nella formulazione di un potere sovrano che trova il suo limite nell'uomo creatura

di Dio e nei suoi diritti naturali, e il suo fine nel bene comune - si ravvisa nella posizione lockiana

un tomismo di fondo92, verosimilmente giunto al filosofo attraverso la mediazione di Hooker93.

89 Su questi aspetti si veda il cap. IV. 90 Cfr. S. Pearson Jr., The Religion of John Locke and the Character of his Thought, in «Journal of Religion», 58 (1978), pp. 244-262, ora in CA, II, pp. 133-150, qui 142- 143. 91 Epistola al lettore, Saggio, p. 7. 92 Nel De Regimine Principum Tommaso d’Aquino ribadisce l'esigenza di un principio direttivo per una comunità - quindi di uno Stato retto da un'autorità - e la necessità, affinché tale autorità sia esercitata in modo giusto, che i governanti abbiano come scopo il bene comune. Tommaso precisa inoltre che il bene di una moltitudine consociata è precisamente la conservazione della sua unità, ovvero la pace. Cfr. De Regimine Principum (I, I-II), a c. di A. Meozzi, Carabba, Lanciano 2010, pp. 87-96.

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XXI

Ma il testo che più direttamente restituisce l’interesse di Locke per le tematiche religiose, la sua

opera «più radicale»94, è La Ragionevolezza del cristianesimo95. Qui, sin dalle prime righe, egli

combatte tanto coloro che facevano derivare dal peccato di Adamo l’incapacità dell’uomo di

operare il bene (i teologi calvinisti), quanto coloro che ritenevano che si potesse fare a meno della

redenzione e vedevano in Cristo il predicatore di una religione naturale (i deisti), proponendosi di

chiarire la differenza tra "cose indifferenti" e nucleo essenziale della fede cristiana.

Il trattato lockiano difende la necessità della rivelazione contro l'ateismo e contro l'idea di una

religione che ne possa fare a meno, presentando al medesimo tempo l'insegnamento di Cristo - la

cui messianicità viene argomentata con prove scritturistiche e storiche - come il compimento e la

spiegazione della legge di natura. La ragione umana da sola non può scoprire tale legge nella sua

integralità, ma può solo confermarla.

Come ha notato Marshall, Locke – che già negli anni Ottanta aveva letto scritti sociniani e

antitrinitari - dal 1690 in avanti stava considerando il contenuto della fede cristiana per se stesso,

e verificando in che modo alcune tesi teologiche potevano collegarsi alle proprie96.

Nella sua riflessione sul cristianesimo, Locke persegue un doppio obiettivo. Da una parte egli si

propone di dimostrare, proseguendo sulla via aperta dal Saggio, la conformità della fede cristiana

alla ragione: le verità cristiane sono sì oggetto di belief, ma di una credenza in accordo con le

esigenze della reason. Dall’altra, egli aveva come finalità una precisa definizione di questo nucleo

minimo ragionevole, ovvero dell’essenziale del cristianesimo. Da questo punto di vista la

Ragionevolezza rappresentava la risposta alle controversie religiose del tempo e Locke si decise a

scriverla anche per un'insoddisfazione personale verso le tradizionali confessioni di fede, che

riteneva troppo elaborate da comprendere e da accogliere ai fini della salvezza personale. Ci si

soffermerà inoltre sui controversi rapporti tra il deismo e Locke, il quale, se da un lato se ne

distaccava in maniera radicale quanto alla necessità della rivelazione e alla critica epistemologica

dell’innatismo, dall’altro condivideva con i deisti l’opposizione ai dogmi del suo tempo.

93 David Snyder paragona la posizione di Locke su fede e ragione a quella di Tommaso d’Aquino ma ritiene altresì che Locke non potesse rendere conto della fede che pretendeva di sostenere, e in questo senso le accuse del Vescovo di Worcester, Edward Stillingfleet, potevano essere fondate nel ritenere che Locke indebolisse la certezza della fede religiosa. La sua filosofia insomma mostrerebbe più di una incoerenza, pur professando Locke una fede autentica. Cfr. Id., Faith and Reason in Locke's Essay , cit., p. 211. Sull’influenza di Hooker su Locke, in particolare con riferimento alla legge di natura e al passaggio dal volontarismo proprio dell’etica puritana al razionalismo della maturità, ha insistito Guido Fassò, cfr. Storia della filosofia del diritto: L’età moderna, a c. di C. Faralli, Laterza, Roma-Bari 2001, II, pp. 152- 179, in part. 154- 159. 94 R. Ashcraft, Fede e conoscenza nella filosofia di Locke, cit., p. 260. 95 Per una presentazione generale dell’opera e dei motivi ispiratori si veda l’accurata Introduction di J. C. Higgins-Biddle a The Reasonableness of Christianity: as Delivered in the Scriptures, cit., pp. xv –cxv. 96 Cfr. RRR, pp. 140-141.

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XXII

La Ragionevolezza è più di un esame di carattere speculativo sul nucleo del cristianesimo, è «una

delle opere più importanti di teologia cristiana scritte durante l’illuminismo»97, ma soprattutto

rappresenta l’impegno di un credente «che si sforza di tenere insieme il mondo e la propria

mente»98 e che mostra di avere a cuore, più che in tutti gli scritti precedenti, il problema della

salvezza. L’attesa soteriologica che restava sottotraccia negli scritti sulla tolleranza diventa ora

esplicita: se davvero il cristianesimo è la via per la salvezza, e la rivelazione è degna di fede non

perché against reason ma in quanto above reason99, occorreva allora studiare la sola Scrittura - e

studiarla con attenzione - per “ricavare” ciò che era necessario professare100. Si spiega in questo

modo la dura critica rivolta a coloro che avevano piegato la Bibbia a supporto di affermazioni di

carattere dogmatico e sbarrato così l’accesso alla verità; come pure la schietta rivendicazione di

aver proceduto attraverso un esame attento e spassionato [attentive and unbiassed] delle Sacre

Scritture101, le quali costituivano il centro vitale del suo pensiero morale102.

Locke assume questo impegno in prima persona perché ci si salva in prima persona, mentre

rivendica di non aver subìto l’imposizione di interpretazioni o opinioni di fede altrui, un

atteggiamento «which, I think makes me of no Sect»103. Il settarismo, appunto, era il nemico da

combattere, l’ostacolo alla diffusione dello spirito evangelico autentico, che da una certa fase della

sua vita diventerà l’obiettivo ostinatamente perseguito, insieme al tentativo di contribuire a porre

un termine alle divisioni nel mondo cristiano originate da dogmi, da interminabili questioni

dottrinali e dalla moltiplicazione di articoli considerati necessari, ma in realtà utili soltanto a

giustificare l’esistenza di sette differenti104. In questo senso la Ragionevolezza è in perfetta

97 V. Nuovo, Introduction, John Locke and Christianity: Contemporary Responses to The Reasonableness of Christianity, cit., p. ix (trad. mia). 98 PPL, p. 22. 99 Cfr. Saggio, IV, XVIII, 7 e 9. 100 Tra le numerose letture di carattere teologico di Locke vi era anche l’opera pubblicata anonima The Naked Truth (1674) del Vescovo di Hereford, Herbert Croft, la quale sollecitava un miglior trattamento per i dissenzienti anglicani e offriva una base latitudinaria a ciò che era necessario credere, centrata sul Credo degli Apostoli più che sul Credo trinitario di Atanasio. Cfr. RRR, p. 139; H. Kamen, Nascita della tolleranza, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 205. 101 Cfr. RC, p. 89; p. 3. 102 Cfr. R. Ashcraft, Fede e conoscenza nella filosofia di Locke, cit., p. 254. Si noti peraltro che Locke indica la lettura del Nuovo Testamento per la conoscenza piena della «true morality». Cfr. Some Thoughts concerning Reading and Study for a Gentleman [1703] in A Collection of Several Pieces of Mr. John Locke Never Before Printed, or not Extant in His Works, ed. by A. Collins and P. Desmaizeau, printed for R. Franklin, London 1720, pp. 231-245; ora in The Educational Writings of John Locke, ed. with introduction and notes by J. Axtell, Cambridge University Press, London 1968, pp. 397-404, qui 400. 103 SV, p. 179. 104 Cfr. Terza lettera per la tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, cit., pp. 385-386.

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XXIII

continuità con la svolta della Lettera sulla tolleranza, espressione della ricerca di una pax religiosa

prima che politica, e politica perché religiosa105.

Ad avviso di Locke l'articolo fondamentale per essere cristiani era la fede in Gesù come Messia e

Figlio di Dio (Son of God). Certamente a tale articolo altri erano correlati, come la risurrezione e la

fede nella sua seconda venuta, e al credente era richiesto un sincero pentimento e l’obbedienza alle

leggi secondo una Law of Works. Ma in definitiva il cristianesimo lockiano è un’unica professione

di fede radicata in una raffinata cristologia106. E questa strada per l’immortalità - rivelata dal Cristo

- era intelligibile a tutti ed in perfetto accordo con la ragione, sebbene le sue verità non fossero alla

portata della sola ragione: «Così Locke si dissocia da coloro la cui adorazione di Dio è solamente il

prodotto della paura che ne hanno»107.

Questo sforzo eremeneutico si rivelò sufficiente per coinvolgere il filosofo in polemiche violente,

estenuanti, dalle quali fu costretto a difendersi con vigore.

Nel terzo capitolo si esamineranno le due Vindications che Locke indirizzò al teologo John

Edwards108 – il quale impugnava il suo credo “minimo” per muovergli le accuse più infamanti,

quella di ateismo e di socinianesimo - e le risposte del filosofo al vescovo Edward Stillingfleet, il

quale scorgeva nell’epistemologia del Saggio una minaccia diretta alla fede nella Trinità e

nell’Incarnazione109; una via che unitariani e freethinkers privi di scrupoli come John Toland non

avrebbero mancato di percorrere.

Gli aspetti costitutivi della dottrina politica lockiana - l’uguaglianza, il dovere di

autoconservazione e il diritto alla vita, le nozioni di patto e di trust, la legittimità della resistenza,

la necessità della tolleranza - saranno quindi esaminati nel quarto ed ultimo capitolo con

riferimento ai Due Trattati, un’opera che nasce da una articolata ermeneutica delle Scritture in

105 Sull'obiettivo, perseguito da Locke, di risolvere la principale controversia del tempo sulla giustificazione e procedere con un'esposizione dei contenuti della fede cristiana attraverso un impegno di tipo ermenenutico si veda: H. G. Reventlow, Storia dell'interpretazione biblica (2001), I-IV, Piemme, Casale Monferrato (AL) 2004, IV, pp. 65-82. 106 Cfr. V. Nuovo, Locke’s Christology as a Key to Understanding his Philosophy, in P. R. Anstey (ed.), The Philosophy of John Locke: New Perspectives, Routledge, London and New York 2003, pp. 129 – 153 (d’ora in avanti citato come: Locke’s Christology). 107 R. Ashcraft, Fede e conoscenza nella filosofia di Locke, cit., p. 244. 108 A Vindication of the «Reasonableness of Christianity & c.» From Mr. Edward’s Reflections, Printed for A. and J. Churchill, London 1695; A Second Vindication of the «Reasonableness of Christianity». By the Author of the «Reasonableness of Christianity», Printed for A. and J. Churchill, London 1697; edited with an introduction, notes, critical apparatus by V. Nuovo, Clarendon, Oxford 2011. 109 A Letter to the Right Rev. Edward, Lord Bishop of Worcester, concerning some Passages relating to Mr. Locke’s “Essay of Human Understanding”: in a late Discourse of His Lordship in Vindication of the Trinity , Printed for A. and J. Churchill, London 1697; Mr. Locke’s Reply to the Right Rev. The Lord Bishop of Worcester’s Answer to his Letter Concerning some Passages relating to Mr. Locke’s “Essay of Human Understanding” , Printed for A. and J. Churchill, London 1697; Mr. Locke’s Replay to the Right Rev. The Lord Bishop of Worcester’s Answer to his Second Letter, Printed for A. and J. Churchill, London 1699.

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XXIV

risposta alle tesi di Sir Robert Filmer e del suo Patriarcha110 (Primo Trattato) e come formulazione

di una dottrina politica ad esso alternativa (Secondo Trattato). Come ha scritto David Wootton,

Locke nella sua opera attaccò non soltanto le posizioni che Filmer aveva difeso, ma difese

sistematicamente le tesi che Filmer aveva attaccato: rovesciando la prospettiva si potrebbe

affermare che «Filmer, non Locke, inventò il liberalismo»111.

Ad un primo livello, il contributo della presente ricerca si può considerare come il tentativo di

dare rilevanza al background teologico all’interno del quale Locke si muoveva e pensava, con

particolare riferimento alle correnti di ispirazione latitudinaria del tempo, e insieme uno sforzo di

ricostruzione degli elementi caratterizzanti il suo cristianesimo, sulla base dei riferimenti presenti

nelle sue opere a Dio, alla figura e al messaggio di Cristo, all'immortalità dell'anima, ad una vita

dopo la morte e ad un giudizio finale. E ciò in considerazione del fatto che «la comprensione

religiosa è indispensabile per intendere la tormentata e drammatica storia inglese del Seicento, e il

germinare in essa delle idee liberali, destinate a trionfare con la “gloriosa rivoluzione” (1688-

89)»112.

Ma tutto questo vale come premessa di un discorso più ampio. . . . Provare un’applicazione delle tesi

di Carl Schmitt - relativamente alla derivazione teologica dei concetti più pregnanti della moderna

dottrina dello Stato113 - alla teoria politica di Locke, almeno con riferimento ai suoi presupposti e

aspetti costitutivi; e ciò per favorire un ripensamento di interpretazioni ottenute al prezzo di

depurare tale dottrina da un cristianesimo interpretato sin nei dettagli, e vissuto con autenticità114.

Interpretazioni come quella che tende a fare del filosofo inglese il “teorico dell’individualismo”115,

o quella che lo vede precursore di un illuminismo artefice di una laicizzazione della vita pubblica

110 R. Filmer, Patriarcha, or the Natural Power of Kings, in Patriarcha and Other Political Works (1680), edited with an introduction by P. Laslett, Basil Blackwell, Oxford 1949: trad. it. Patriarca o il potere naturale dei re, in Due Trattati, cit., pp. 591- 664. 111 D. Wootton, Introduction, J. Locke, The Political Writings of John Locke, Penguin, New York – London 1993, p. 15 (trad. mia). 112 G. Bedeschi, Locke e le origini del costituzionalismo, in Il pensiero politico: idee, teorie, dottrine, I-II, a c. di A. Andreatta, A. E. Baldini, UTET, Torino 1997, II, pp. 257 – 287, qui 259. 113 Cfr. C. Schmitt, Teologia politica: Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Id., Le categorie del ‘politico’, cit., p. 61. 114 Cfr. A. R. Chafuen, Religione, politica ed economia nel pensiero di John Locke, in «Incipit, etica della scienza e della società», 1 (2007), pp. 15 – 23. 115 Vaughan vede in Locke il “principe degli individualisti”. Cfr. C. Vaughan, Studies in the History of Political Philosophy Before and After Rousseau, I-II, Russel & Russel, New York (1925) 1960, I, pp. 130-203; in part. pp. 164; 171-172; 200-203. Si vedano anche: C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, cit., pp. 253; 263 ss.; G. Parry, Individuality, Politics and the Critique of Paternalism in John Locke, in «Political Studies», 12 (1964), pp. 163-177, ora in CA, III, pp. 27-42; J. W. Gough, John Locke’s Political Philosophy, Clarendon, Oxford (1950) 19732, in part. pp. 27 – 51; R. I. Aaron, Authority and the Rights of Individuals, in G. J. Schochet (ed.), Life, Liberty, and Property: Essays on Locke’s Political Ideas, Wadsworth Publishing Company, Belmont (California) 1971, in part. pp. 165-167.

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XXV

che rifiuta la religione come sua norma, per relegarla a scelta personale riferita alla sola salvezza

dell’anima116, o il teorico di posizioni che finivano per sfociare nel relativismo117.

Al contrario, si ritiene opportuno in questa sede fare memoria di quel che già Carlini aveva

compreso, e cioè che «se illuminismo volle dire, per molti, incredulità, Locke non fu

illuminista»118.

Il cristianesimo non era un ambito separato, o vissuto solo in rapporto alla ricompensa di una vita

futura, ma ha informato tutta la riflessione di Locke. La sua dottrina politica, come il suo

giusnaturalismo, non potevano restare ad esso estranei. È stato Bobbio, d’altra parte, il quale vede

Locke come un «classico del giusnaturalismo moderno»119, ad osservare che «la dottrina filosofica

che ha fatto dell’individuo e non più della società il punto di partenza per la costruzione di una

dottrina della morale e del diritto è il giusnaturalismo, che può essere considerato, sotto molti

aspetti, e fu certamente nelle intenzioni del suoi creatori, la secolarizzazione dell’etica cristiana

(“etsi daremus non esse deum”)»120.

Certamente Locke è alieno da una pretesa di verità del cristianesimo che avrebbe potuto

trasformarsi in intolleranza politica; meno ancora era interessato ad affermare un carattere

religioso del diritto pubblico o dell’origine della sovranità. Sotto questo profilo, anzi, il suo

tentativo è stato quello di liberare la civitas terrena dal condizionamento religioso ed ecclesiastico,

di chiarire cioè che l’ambito degli affari civili non si sovrapponeva a quello dei culti religiosi, ma

doveva essere restituito alla ragione e alla natura.

Tuttavia la ragione che sorregge anche la dimensione politica – ed è esattamente qui la differenza

lockiana - non precipita nel razionalismo. Non è una ragione chiusa in se stessa ma una ragione

costantemente aperta alla rivelazione, che ha bisogno di essa, in costante dialogo con la fede, come

il XVIII capitolo del IV libro del Saggio chiarì inequivocabilmente. È in fondo questa la chiave

interpretativa anche della sua dottrina politica, come la presente ricerca intende argomentare.

Locke non conosce frattura tra sapere e credere ma una loro distinzione nella continuità, e ciò

perché la ragione secondo il filosofo resta sovrana in entrambi gli ambiti, è sempre la medesima ed

è una luce che proviene da Dio.

116 Cfr. C. A. Viano, Dal razionalismo all’illuminismo, Einaudi, Torino 1960, in part. pp. 277 - 418; Id., L’individualismo introvabile e la teoria lockiana della tolleranza, in G. Chiodi, R. Gatti ( a c. di), La filosofia politica di Locke, FrancoAngeli, Milano 2005, pp. 11 – 31, qui 14. 117 Cfr. D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, in part. pp. 62-75. 118 A. Carlini, John Locke, in: Enciclopedia filosofica, Centro di Studi Filosofici di Gallarate, Edipem, Roma 1979, V, pp. 138-160, qui 159. 119 N. Bobbio, Studi lockiani, in Da Hobbes a Marx, cit., p. 128. 120 N. Bobbio, L’età dei diritti, cit., pp. 57-58.

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XXVI

Le appartiene inoltre la sfera politica. Se la ragione umana ha bisogno della rivelazione per

restare se stessa e operare in modo efficace, anche per una teoria politica ragionevole non è

pensabile fare a meno di un fondamento cristiano, che in Locke come vedremo agisce tanto da

presupposto degli elementi caratterizzanti il suo pensiero politico quanto da dispositivo che rende

possibile un ethos, una virtù, in assenza della quale non si dà vita civile né sopravvivenza del

genere umano121.

Dalle pagine che seguono si vedrà come il costituzionalismo moderno che si profila nel XVII

secolo inglese, proprio a ridosso della Gloriosa Rivoluzione, ed edificato sui pilastri del consenso e

della sovranità popolare – la cui sostanza sono i diritti naturali della persona che ineriscono la sua

dignità ed unicità, a cominciare dall’inviolabilità della vita e dalla libertà religiosa – abbia insomma

una radice eminentemente teologica.

I diritti – i quali sono indivisibili, né possono contraddirsi - si danno per il filosofo inglese in

relazione a dei valori etici: quelli che egli aveva in mente erano radicati nella rivelazione cristiana,

erano parte della sua normatività e convergevano attorno al nucleo fondamentale della dignità

umana, di un uomo cioè creato a immagine di Dio. E la stessa convivenza civile e politica si

fondava su questi princìpi etici, che non hanno come loro origine il consenso ma la natura umana.

Quel che rinvia al consenso, invece, è una certa forma politica, una certa forma di organizzazione

del potere.

Da una lettura ragionata del corpus lockiano il cristianesimo emerge come cornice di una

dottrina capace di avviare a risoluzione il dilemma di come tenere insieme un Dio creatore - e in

quanto tale sovrano assoluto del creato122 -, uomini uguali tra loro, cioè naturalmente privi di un

superiore comune sulla terra, e la necessità di un governo civile che garantisca la loro

conservazione. La soluzione lockiana alla coesistenza problematica di questi tre dati è un governo

limitato che protegga i diritti naturali degli uomini e risolva al contempo l’uguaglianza nel

consenso e nella rappresentatività.

Deve essere tuttavia ben chiaro, in sede introduttiva, che quella di Locke non è stata una

politica a fondamento teologico nel senso di una giustificazione religiosa di un certo ordine

politico o della sua legittimità. Da questo punto di vista Locke desacralizza l’attività politica per

121 Wolfgang von Leyden ha parlato con riferimento alla teoria lockiana di tre premesse teologiche: gli uomini sono creazione e proprietà di Dio, il quale ha dato loro la terra in comune, ed hanno una tendenza ad entrare in società per migliorare le proprie condizioni. Cfr. Id., Hobbes e Locke, cit., pp. 148 e 206. Ian Harris ritiene che al cuore della teoria lockiana della giustizia vi sia la relazione dell’uomo con Dio e, a partire da questa, si possano comprendere tanto i diritti che Locke difende quanto la sua concezione dell’autorità politica. Cfr. I. Harris, Locke on Justice, in M. A. Stewart (ed.), English Philosophy in the Age of Locke, cit., pp. 49-85. 122 Cfr. Saggio IV, X, 19.

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XXVII

ricollocarla nell’orizzonte umano: un governo non si legittima attraverso l’intervento di Dio ma

attraverso un vincolo fiduciario, un accordo tra uomini razionali - quindi attraverso quell’attività

precipuamente umana che è la ragione in azione –; né i fini di un governo devono essere di natura

religiosa, bensì puramente secolari, come la Lettera sulla tolleranza afferma con decisione.

Ma questo accordo stipulato da uomini liberi ed eguali (che sono tali in quanto fattura e

proprietà di un unico Creatore123); la libera e personale adesione ad esso tramite il consenso; la

natura fiduciaria del potere politico; la necessità dello Stato per ottemperare al dovere di

conservare l’umanità; il diritto di proprietà come corollario di questa conservazione e come mezzo

per assicurare la pace; come pure l’idea di una sovranità limitata e di una conformità della società

civile ad una legge naturale di origine divina, sono a ben vedere tutti aspetti di derivazione

teologica124.

Locke resta, sotto tale profilo, pienamente invischiato in un amalgama tra religione e politica, già

semplicemente perché non può fare meno di ricorrere nel suo argomentare ad un Dio creatore

onnisciente, saggio e onnipotente125 - in ultima analisi «incomprensibilmente infinito»126 - che è al

medesimo tempo autore di una legge di natura, garante del patto fiduciario che fonda la società

politica e giudice di ultima istanza nel caso di una sua violazione; come pure giudice di una

condizione futura di premi o di punizioni nella quale trova compimento l’amministrazione della

giustizia in questa vita127. Egli, d’altra parte, «ha stabilito il governo onde reprimere la parzialità e

la violenza degli uomini»128.

Questa apertura alla trascendenza è la reale garanzia delle libertà nella prospettiva di Locke. E

diventa inconcepibile, la sua dottrina, quando si tenta di farne a meno. Al magistrato è chiesto di

123 Cfr. T2, 6. 124 Può essere utile richiamare a tal proposito una distinzione tracciata da Leo Strauss: «Per teologia politica intendiamo gli insegnamenti politici fondati sulla rivelazione divina. La filosofia politica si limita a quanto è accessibile alla sola mente umana». L. Strauss, Che cos'è la filosofia politica?, cit., p. 14. 125 Sull’onnipotenza di Dio cfr. SNL, IV, p. 43; VI; p. 63; Saggio, III, VI, 9; IV, XVI, 13; La Condotta dell’intelletto, XXXVIII, ed. cit. pp. 708-709; T1, 85; T2, 6 e 67; A Discourse of Miracles, in The Posthumous Works of Mr. John Locke, cit.; trad. it. a c. di M. Sina, Discorso sui Miracoli, in SER, p. 594. Si veda inoltre J. Locke, An Examination of P. Malebranche’s Opinion of Seeing all things in God, in The Posthumous Works of Mr. John Locke, cit.; trad. it. Malebranche e la visione in Dio, a c. di L. Simonutti, ETS, Pisa 1995, p. 102. 126 Saggio II, XVII, 1; p. 222. 127 «One reason why some seventeenth-century philosophers saw fidelity as a morally and epistemically decisive foundation for human relations was their confidence in the existence of an effective sanction for that virtue independently of the wills or mental processes of any human beings whatever. The Law of Nature was not merely a set of humanly beneficial precepts. It was also an authoritative, and the in last instance an effectively enforced command of Nature's omniscent and omnipotent Creator». J. Dunn, Trust, in R. Goodin, P. Pettit (eds.), A Companion to Contemporary Political Philosophy, Basil Blackwell, Cambridge (MA) 1993, p. 641. 128 T2, 13; p. 236. Si veda anche il secondo dei giovanili Two Tracts on Government sul magistrato, nel quale si afferma che a questi «è demandata da Dio la cura della società» e, poco dopo, che «Dio volle che tra gli uomini ci fossero società, ordine e governo, ciò che chiamiamo stato». Se il magistrato civile possa accogliere cose indifferenti nei riti del culto divino e imporle al popolo. Si risponde affermativamente, in Due Trattati, p. 486 e p. 493.

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XXVIII

realizzare certi fini che sono la ragione del governo, ma se i suoi comandi saranno ritenuti

illegittimi dai suoi sudditi il giudice della sua azione sarà Dio129.

La presente ricerca intende dunque sviluppare tale analogia tra concetti teologici e concetti

giuridici nell’ambito di un pensiero capace di distinguere, e per questo di integrare, l’ambito

morale, politico e religioso. Ma per fare ciò occorre aver presente un’importante distinzione, a

partire dalla quale rileggere Locke oggi: quella, da un lato, tra la giustificazione di un ordine

politico sulla base di un riferimento teologico o la ricerca di un accordo politico su base religiosa –

opzioni che Locke chiaramente rifiuta – e, dall’altro, l’impostazione sostanzialmente teologica del

quadro logico-argomentativo nel quale la dottrina lockiana si inscrive. Si pensi già soltanto

all’analogia tra la natura di Dio, come emerge dal teismo delineato nel Saggio, nella

Ragionevolezza e nei Due Trattati, e la teoria politica delineata in quest’ultima opera. Tale teismo

esclude l’arbitrio e la contraddizione dalla natura di Dio, il quale non esercita un potere arbitrario,

né gode di una libertà assoluta: Egli ad esempio non ha il potere di mentire130 né può errare131; è

inoltre vincolato da promesse e giuramenti132 e agisce sempre in vista del bene133. Ma, quel che ha

più importanza, Egli non salva gli uomini contro la loro volontà134.

Da questa concezione teista - risultato di una interpretazione razionalistica delle Scritture - si

possono ricavare osservazioni di carattere anche politico: di fronte ad una sovranità divina limitata

- poiché Dio agisce secondo una legge - quale uomo potrebbe legittimamente rivendicare un

potere assoluto? Anche i sovrani terreni, che ricevono il potere dal popolo, debbono allora

vincolarsi a leggi giuste (conformi cioè alla legge di natura) e servire il solo fine possibile del potere

civile: il bene comune.

La dottrina di Locke si rivela teologicamente fondata nella misura in cui fa propri elementi ed

episodi tratti dalla Sacra Scrittura integrandoli in un corpus di filosofia politica e trasformandoli in

concetti di diritto pubblico - si pensi soltanto alla condizione creaturale che fonda l’uguaglianza,

alla nozione di trust o all’episodio biblico di Iefte e del suo appello al Cielo (Giudici XI, 27), e

chiama Dio come garante di un ordine la cui alterazione legittima una rivoluzione. Ed è questo

vincolo di natura etico-teologica che argina il potere sovrano e costituisce anche il tratto essenziale

129 Cfr. LT, p. 169; T2, 241. 130 Cfr. Saggio, IV, XVIII, 5. 131 Cfr. Saggio IV, XVIII, 8. 132 Cfr. T1, 6 e T2, 195. 133 Cfr. Saggio, II, XXI, 50. Si veda inoltre il manoscritto lockiano sull’idea di Dio e la sua bontà, in cui Locke ragiona sull’onnipotenza, limitata da saggezza e bontà, di un Dio che non può cambiare la sua stessa natura: cfr. On the Idea of God (o The Idea We Have of God) - MS. Locke f. 4, pp. 145-151 [1° agosto 1680], in P. King, The Life of John Locke, I, pp. 228-230; ora in D. Wootton, John Locke: Political Writings, cit., pp. 237-238. 134 Cfr. LT; p. 148.

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XXIX

della dottrina di un governo limitato: i princìpi della legge di natura, come antecedenti e

indipendenti rispetto al patto e allo Stato, non sono a disposizione della politica né del sovrano.

Anch’egli, infatti, in quanto creatura, è subordinato alla legge data agli uomini da Dio135. E solo in

quanto Dio ne è autore, questa costituisce il livello irriducibile che erige il limite effettivo

all’assolutismo e sottrae gli uomini all’arbitrio136.

I princìpi della libertà e dell’uguaglianza naturale degli uomini, del mero carattere terreno e

utilitario dello Stato, del diritto all’appropriazione per mezzo del lavoro, come le riflessioni sulla

sovranità riposta nel popolo, su una politica della tolleranza e della cura dell’anima assegnata alla

responsabilità individuale, tutte tesi che costituiscono le principali acquisizioni dell’età moderna,

non nascono insomma da una riflessione contingente di carattere teoretico, priva di presupposti e

di prospettive, ma sono l’esito di un orientamento il cui presupposto è di ordine spirituale.

Come ha sostenuto Steven Dworetz, «il liberalismo lockiano non emerge da una specie di vuoto

secolare, ma è stato plasmato e ispirato da “preoccupazioni religiose” e da “interessi teologici”

simili a quelli del clero del New England; come nel caso della relazione tra ragione e rivelazione,

analogamente per la natura di Dio»137.

L’ipotesi di ricerca iniziale – se e come una dottrina religiosa, e precisamente un cristianesimo

colto, riformato, biblico, influenzato dal latitudinarismo e contaminato dal socinianesimo, è in

grado di modellare una dottrina politica fornendole un lessico, un apparato concettuale e

fissandone i presupposti – si è sviluppata attraverso l’esame delle convinzioni di un whig prudente,

collaboratore di uno degli statisti più in vista del suo tempo e ideatore del primo partito politico

135 Cfr. T2, 195. 136 Il legame essenziale tra dottrina politica lockiana e legge di natura è stato messo in evidenza dal Sabine il quale, con riferimento al processo di eliminazione del giusnaturalismo portato avanti da Hume, ha notato che «la struttura interna della filosofia politica di Locke fu così totalmente distrutta». G. H. Sabine, Storia delle dottrine politiche (1951), Edizioni di comunità, Milano 1953, p. 434. 137 Cfr. S. Dworetz, The Unvarnished Doctrine: Locke, Liberalism, and the American Revolution, Duke University Press, Durham and London 1990, in part. pp. 30-33; 135-183, qui p.153 (trad. mia). Dworetz ha voluto restituire a Locke un ruolo preminente tra padri politici della fondazione degli Stati Uniti, insistendo in particolare sul suo teismo e in polemica con alcune interpretazioni (quelle di Bernard Bailyn e di J. G. A. Pocock in particolare) che facevano del filosofo il teorico dello spirito del capitalismo. Dworetz ha individuato un legame non trascurabile tra i sermoni del clero tenuti ai primi coloni americani del New England e i princìpi della filosofia lockiana. Questo legame, ad avviso di Dworetz, era fondato su una comune base teistica dalla quale fu possibile ricavare idee sul governo civile e trovò un importante sviluppo in senso radicale nel pensiero rivoluzionario americano. Al di là della controversa questione circa l’influenza di Locke sul pensiero rivoluzionario americano del XVIII secolo, in questa sede è importante considerare Dworetz tra coloro che ritengono l’interesse religioso di Locke la chiave per la comprensione della sua filosofia politica. Si veda inoltre: T. Pangle, The Spirit of Modern Republicanism: The Moral Vision of the American Founders and the Philosophy of Locke, University of Chicago Press, Chicago 1988.

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moderno, a tal punto interessato alla rivelazione, al suo messaggio, al suo valore per l’umanità, da

aver scoperto «il vero fondamento dell’esegesi storico-critica»138.

Sul piano politico l’affermazione dei diritti naturali dell’uomo presupponeva un fondamento, e

Locke lo individuò in una legge naturale della quale Dio è autore, al cui centro egli colloca il

valore assoluto dell’uomo creato a sua immagine139.

L’opera di Locke allora non soltanto può essere letta a partire da un'età di persecuzioni e di

durissimi scontri tra cattolici e riformati, calvinisti e arminiani, trinitari e unitariani, ortodossi e

sociniani, in un secolo, come ha scritto Carl Schmitt, «saturo fino alla disperazione e alla nausea di

lotte religiose e teologiche, di dispute e di guerre sanguinose»140, straordinariamente ricco «di vani

conflitti teologici nei quali ciascun partito diffamava l’altro e nessuno era capace di prevalere»141,

ma richiede un’indagine che prenda sul serio – come ha invitato a fare un attento studioso di

Locke142 - la personale coscienza religiosa del filosofo, certamente problematica e non priva di

complessità, o persino di ambiguità, sollecitata dalla ricerca di «un terreno neutrale sul quale ci si

potesse intendere e trovare almeno un accordo, almeno tranquillità, sicurezza e ordine»143.

Ciò è necessario, afferma John Rawls, «perché spesso Locke è discusso prescindendo dal suo

sfondo religioso» e altrettanto spesso «sono dette ‘lockeane’ molte visioni che in realtà hanno ben

pochi legami con Locke»144, mentre per lui «e per i suoi contemporanei questo sfondo religioso è

fondamentale, e dimenticarlo significa rischiare di fraintendere gravemente il suo pensiero»145. Vi

è in questo un presupposto originario di carattere teologico con il quale occorre confrontarsi, che il

filosofo tuttavia precisa e sviluppa con maggiore impegno solo nella fase conclusiva della propria

esistenza.

Locke è stato inoltre il veicolo di idee trapiantate nel Continente americano e nella sua

legislazione da James Madison o da Thomas Jefferson; idee in grado di ispirare le rivoluzioni del

138 L. Salvatorelli, Da Locke a Reitzenstein. L’indagine storica delle origini cristiane, in «Rivista Storica Italiana», 45 (1928), pp. 341-369 e 46 (1929), pp. 5-66; trans. From Locke to Reitzenstein: the Historical Investigation of the Origins of Christianity, in «Harvard Theological Review», 22 (1929), pp. 263- 369, qui 264. 139 Sul significato dell’essere immagine di Dio, e sulle implicazioni di questo assunto, cfr. J. Waldron, God, Locke, and Equality, cit., in part. pp. 68-82. 140 C. Schmitt, Sul Leviatano, a c. di C. Galli, Il Mulino, Bologna 2011, p. 77. 141 Ibid. 142 Cfr. G. Forster, Taking Locke Seriously, 27/06/2011, www.firstthings.com/blogs/firstthoughts/2011/06/27/taking-locke-seriously/ 143 C. Schmitt, Sul Leviatano, cit., p. 77. 144 J. Rawls, Lezioni di storia della filosofia politica, cit., p. 129. 145 Ivi, p. 130. Rawls ritiene invece che nel caso di Hobbes non sia necessario il ricorso ad assunti teologici - poiché «la religione […] non giocava alcun ruolo essenziale» nella sua visione - e che pertanto «tutte le nozioni usate da Hobbes […] possono essere definite e spiegate indipendentemente da qualsiasi retroterra teologico». Ivi, p. 31.

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XXXI

XVIII secolo146. L’idea di un governo costituito per proteggere le vite e le proprietà dei suoi

membri, o la tesi che non si possa trasferire un potere maggiore di quello che si ha nella propria

persona, la difesa della libertà religiosa, oltre naturalmente alla nozione di trust, sono corollari di

una dottrina rivoluzionaria che già all’inizio del XVIII secolo cominciava a prevalere nelle colonie

americane e che troverà una nuova formulazione in Francia nei decenni pre-rivoluzionari147.

In questo quadro concettuale Dio non è solo la causa efficiente e primordiale da cui tutto ha

avuto origine, il principio primo che il Saggio si impegnava a dimostrare, è anche Autore buono148

di creature razionali libere ed eguali - chiamate a conservare loro stesse e i propri simili attraverso

il lavoro e il prodotto che da esso deriva -, e di una natura posta come loro dimora e fonte di

sostentamento, secondo quanto affermato dalla Scrittura. Ma è soprattutto un sovrano che non può

volere se non il bene, il cui potere non è arbitrario ma limitato da una legge eterna e immutabile,

in base alla quale anche le sue creature sono giudicate.

La visione religiosa di Locke continua ad essere oggetto di discussione e di approfondimenti149:

prova di come la sua opera abbia svolto un ruolo non trascurabile anche nello scenario teologico

occidentale, ma soprattutto del carattere essenziale di una filosofia dove «nulla è assolutamente

necessario, tranne Dio»150.

146 Sull'eredità lockiana nel XVIII secolo, in una prospettiva differente ad esempio da quella di Steven Dworetz, alla quale si faceva riferimento, si veda: J. Dunn, The Politics of Locke in England and America in the Eighteenth Century, in J. W. Yolton (ed.), John Locke: Problems and Perspectives, cit., pp. 45-80. Cfr. inoltre G. H. Sabine, Storia delle dottrine politiche, cit., p. 434. 147 Cfr. J. Kelly, Storia del pensiero giudirico occidentale, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 276; 338-339. 148 Cfr. Saggio I, I,5. 149 Si veda il recente contributo di John W. Tate, critico nei confronti delle tesi di Jeremy Waldron, dal titolo: Dividing Locke from God: The limits of theology in Locke’s political philosophy, in «Philosophy Social Criticism», 39 (2013), pp. 133-164. 150 Terza Lettera per la tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, cit., p. 300.

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Capitolo primoCapitolo primoCapitolo primoCapitolo primo

Premesse e riferimenti teologici del pensiero lockiano Premesse e riferimenti teologici del pensiero lockiano Premesse e riferimenti teologici del pensiero lockiano Premesse e riferimenti teologici del pensiero lockiano

La diffusione della Riforma protestante in Europa promosse una nuova elaborazione teorica anche

in ambito politico1. Le implicazioni più rilevanti in tal senso, originate dalla Riforma avviata da

Martin Lutero2, riguardavano l’origine della sovranità e una nuova concezione di Chiesa3.

Il teologo della sola fide, sola Scriptura4, e i suoi discepoli, consideravano la Chiesa non come un

regnum ma come una congregatio fidelium, priva dunque di propri poteri giurisdizionali.

L’identità della Chiesa veniva considerata esclusivamente in termini spirituali, con conseguente

richiesta di abolizione del diritto canonico5.

Della sfera temporale, ritenuta dai luterani ordinata da Dio, era parte la coercizione, assente

invece nel regno spirituale di Cristo, proprio dell’ambito interiore. Dal momento che la concezione

luterana riconduceva tutti i poteri coattivi alla sfera secolare, dove l’uso della spada è lecito per il

1 Per un quadro generale del protestantesimo, della sua teoria sociale e del concetto di Chiesa si vedano: E. Troeltsch, Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani , cit., II, pp. 1 – 108; H. Kamen, Nascita della tolleranza, cit., pp. 22 – 55; J. M. Kelly, Storia del pensiero giuridico occidentale, cit., pp. 205 – 256; G. Alberigo, La Riforma protestante, Garzanti, Milano 1959; R. H. Bainton, La Riforma protestante, Einaudi, Torino 1958; M. Villey, La formazione del pensiero giuridico moderno, Jaca Book, Milano 1986; M. Ormas, La libertà e le sue radici: l’affermarsi dei diritti della persona nella pastorale della Chiesa dalle origini al XVI secolo, Effatà, Cantalupa 2010; M. D’Addio, Le origini dello Stato moderno: da Machiavelli a Vico, ECIG, Genova 1975; H. A. Oberman, The Dawn of the Reformation. Essays in the Late Medieval and Early Reformation Thought, Clark, Edinburgh 1986. 2 Per un dettagliato profilo biografico di Lutero e della sua opera si veda il volume di Hartmann Grisar, Lutero: la sua vita e le sue opere, Società editrice internazionale, Torino 1934. Sul luteranesimo e il suo fondatore si vedano inoltre: E. Troeltsch, Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani, cit., II, pp. 108 – 223; R. H. Bainton, Lutero, Einaudi, Torino 1972; J. Osborne, Lutero, Einaudi, Torino 1975; H. A. Oberman, I maestri della Riforma, Il Mulino, Bologna 1982; F. De Michelis Pintacuda, Tra Erasmo e Lutero, Ed. di storia e letteratura, Roma 2001; G. Cotta, La nascita dell’individualismo politico: Lutero e la politica della modernità, Il Mulino, Bologna 2002; M. Gillespie, The Theological Origins of Modernity, University of Chicago Press, Chicago and London 2008, pp. 101 – 128. 3 Sul concetto di Stato e la teoria politica di Lutero si vedano: E. Troeltsch, Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani , cit., pp. 167 – 180; F. Oakley, Christian obedience and authority, 1520-1550, in J.H. Burns-M. Goldie (eds.), The Cambridge History of Political Thought, 1450-1700, cit., pp. 159 – 186, in part. pp. 163 – 182. 4 Cfr. F. De Michelis Pintacuda, Onnipotenza divina e libertà umana in Lutero: la salvezza e l’etica, in G. Canziani, M. A. Granada, Y. C. Zarka (a c. di), Potentia Dei. L’onnipotenza divina nel pensiero dei secoli XVI e XVII, FrancoAngeli, Milano 2000, pp. 45 – 62, qui 47. 5 Cfr. M. Lutero, Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca, in Scritti politici, a c. di L. Firpo, trad. G. Panzieri Saija, UTET, Torino 19592, pp. 125-224, in part. 180-188; 208-210.

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mantenimento della pace civile, ogni pretesa del Papa, o della Chiesa, di esercitare una

giurisdizione di tipo temporale veniva ritenuta un’usurpazione dei diritti delle autorità secolari6.

Da questo punto di vista si può osservare che «Lutero si impegna ad una difesa ancor più radicale

delle autorità secolari» e dichiara risolutamente che tutte le loro leggi «debbono essere trattate

come espressione diretta e dono della provvidenza divina»7.

Ciò si traduceva in una dilatazione del potere secolare, il cui raggio d’azione finiva per estendersi

anche alla Chiesa visibile, posta sotto il controllo del “principe devoto”, al quale si attribuiva il

compito di promuovere il Vangelo e di difendere la vera fede8. Come ha osservato Quentin

Skinner, «la posizione assunta da Lutero era una conseguenza diretta di una sua concezione

teologica fondamentale: l’intera struttura esistente dell’ordine sociale e politico è un riflesso diretto

della volontà e della provvidenza di Dio»9.

Il riferimento del monaco agostiniano era ancora una volta al Nuovo Testamento e alle Epistole

di San Paolo; la tesi luterana di un’autorità terrena preordinata da Dio trovava in particolare il

proprio fondamento teologico nel capitolo XIII della Lettera ai Romani (1-7); anche se la posizione

paolina veniva interpretata nel significato di un compito che il principe riceveva insieme alla sua

sovranità: quello di cercare il bene dei sudditi, di tenere a freno i malvagi e di proteggere i buoni10.

L’immediata, e più rilevante, conseguenza di una tale dottrina era la delegittimazione di una

resistenza attiva contro il sovrano, e pertanto l’affermazione di una sottomissione pressoché

completa alle autorità secolari: «[…] Lutero afferma la stretta identità di origine e di finalità

dell'autorità ecclesiastica e di quella civile, l'una e l'altra gerarchia è direttamente istituita da Dio e

come tale pienamente regolare, il potere anche male impiegato conserva la sua intera legalità ed

esige dal suddito, in ogni caso, sottomissione totale, attiva e fervida, nella particolare sfera pratica

cui esso sovrintende»11.

Tuttavia, sulla base della medesima dottrina e in considerazione del dovere in capo al sovrano di

difesa della fede, ogni qual volta questi avesse mostrato di corrompere i propri sudditi e ordinato

6 Cfr. M. Lutero, Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca, in Scritti politici, cit., pp. 133 – 136; 161 – 166; 170-173. 7 Q. Skinner, The Foundations of Modern Political Thought, I-II, Cambridge University Press, Cambridge 1978; trad. it. Le origini del pensiero politico moderno, il Mulino, Bologna 1989, II, p. 27. 8 Cfr. F. Oakley, Christian obedience and authority, 1520-1550, cit., pp. 163 – 175. 9 Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 32. Sulla religiosità di Lutero cfr. anche G. Borgonovo, Soggetto morale e Chiesa: Lutero, Erasmo, Newman e Guardini a confronto, Piemme, Casale Monferrato 2000, pp. 27 – 50. 10 Cfr. M. Lutero, Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca, in Scritti politici, p. 221 – 224; Id., Sulla guerra dei contadini, ivi, p. 510. 11 L. Firpo, Introduzione, Scritti politici di Lutero, cit., p. 7. Un aspetto notato anche dal Sabine, il quale sottolinea anche come il rispetto di Lutero fosse indirizzato all’ufficio in sé e non alle persone dei sovrani: cfr. Storia delle dottrine politiche, cit., pp. 286-289.

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azioni malvagie, o preteso troppo senza averne diritto, non avrebbe meritato obbedienza, e questo

poiché nelle Scritture è scritto di obbedire a Dio invece che agli uomini (Atti 5,29)12.

Nella concezione luterana si verificava pertanto una sorta di singolare coesistenza tra un “dovere

della sottomissione” e un “dovere della disobbedienza”, originati rispettivamente dalla convinzione

che tutti i poteri fossero ordinati da Dio - perfino nel caso di un tiranno - e dalla legittimità della

disobbedienza verso il governante empio.

Sulla formulazione di una tale sottomissione passiva all’autorità secolare svolse certamente un

ruolo il timore – comune tra i Riformatori - che la svolta religiosa appena avviata potesse venire

associata all’estremismo politico, o persino all’anarchia, e in tal modo screditata. Posto che ogni

governante è voluto da Dio, il problema che a questo punto si poneva era la spiegazione

dell’esercizio del comando da parte dei tiranni e degli empi.

Lutero comprese bene questa difficoltà e nell’opuscolo sulle Genti di guerra propose una

soluzione compatibile con la sua teoria della sottomissione passiva e ripresa da Sant’Agostino,

secondo la quale la ragione per cui i governanti malvagi e tirannici sono a volte consacrati da Dio

deve essere ricercata nei peccati del popolo. Il malvagio, in altre parole, quando regna lo fa a causa

del comportamento di quest’ultimo13.

Nel negare la Chiesa come istituzione con un proprio potere giurisdizionale e una propria

sovranità, le dottrine politiche dei primi luterani conferivano l’esercizio di tutta l’autorità al

sovrano e ai magistrati, e in tal senso fornirono sostegno alle monarchie assolute emergenti

nell’Europa settentrionale. Una tale posizione conduceva inoltre i luterani a respingere uno dei

maggiori e tradizionali limiti all’autorità del sovrano secolare, la tesi ortodossa del cattolicesimo

secondo la quale un tiranno poteva essere giudicato e deposto dalla Chiesa: «L’importanza data da

Lutero all’interiorità pura dell’esperienza religiosa inculcava un atteggiamento di quietismo e di

acquiescenza di fronte al potere terreno, per cui la religione guadagnò forse in spiritualità, ma lo

stato guadagnò certo in potenza»14.

L’umanista Filippo Melantone, in particolare, fornì nel 1521 la prima sistematica formulazione

della dottrina luterana nei Loci communes rerum theologicarum15. Nel discutere i doveri del

principe devoto egli sviluppò la dottrina degli adiafora, o cose indifferenti, elaborata a partire dalla

distinzione tra legge divina e legge umana: accanto a leggi divine essenziali per la salvezza, le quali

12 Cfr. M. Lutero, Sull'autorità secolare. Fino a che punto si sia tenuti a prestarle obbedienza, in Scritti politici, cit., pp. 395 – 442; in part. 431- 442. 13 Cfr. Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 33. 14 G. H. Sabine, Storia delle dottrine politiche, cit., p. 289. 15 Su Melantone: cfr. H. Grisar, Lutero: la sua vita e le sue opere, cit., pp. 111-12; 194-196; 311 ss .

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devono essere fatte sempre osservare, vi sono leggi umane non indispensabili a questo fine, le quali

perciò neppure devono essere comandate come necessarie. Melantone muoveva dal presupposto

che primo dovere del sovrano fosse quello di punire l’eresia e di promuovere la vera religione. Nel

caso però in cui il principe fosse venuto meno ai propri doveri, i discepoli di Lutero aprivano a due

possibilità: nel caso di ordini in contrasto con la coscienza dei sudditi veramente religiosi, la

disobbedienza era legittima dal momento che «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini»

(Atti 5,29); restava fermo, tuttavia, il divieto rivolto ai sudditi di resistere in modo attivo, e l’invito

a non opporsi con violenza o con la spada al sovrano, sopportando la tirannide nel proprio corpo e

proprietà. Al potere, insomma, per un suddito non era mai giustificabile resistere; cosicché in caso

di ordine contrario alla legge, o di oppressione della fede, la scelta era tra l’obbedienza o la fuga16.

La ragione di questa posizione si doveva alla tesi secondo la quale combattere i superiori

equivaleva a resistere a Dio, e chi opponeva resistenza avrebbe ricevuto come ricompensa la

dannazione.

Per il resto, in Lutero scompare anche l'idea del patto sociale, del conferimento del potere

mediante consenso dei governati, come pure ogni diritto di resistenza e di rivoluzione che esorbiti

dal libero biasimo, e ogni concezione ugualitaria dei rapporti collettivi umani, dal momento che il

mantenimento dell'ordine non era considerato possibile se non per mezzo del potere positivo, che

il peccato aveva comunque associato alla malvagità e all'egoismo.

In questo modo i luterani, sul piano politico, ottenevano di rimuovere i limiti tradizionali al

potere del sovrano: da un lato svuotando la Chiesa come comunità visibile e giuridica, con il

relativo potere di deposizione, dall’altro presentando i governi come “voluti da Dio” e rifiutando di

utilizzare il diritto naturale come criterio per giudicare, o mettere in questione, il comportamento

dei superiori17. Le dottrine luterane, attraverso tali premesse, finivano per sancire l’irresponsabilità

di qualsiasi governante verso i sudditi, e, in ultima analisi, per appoggiare un diritto divino del re.

16 Cfr. E. . . . Troeltsch, Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani , cit., II, pp. 134-135. 17 Sul diritto naturale e l'etica del luteranesimo si veda in particolare: E. . . . Troeltsch, Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani , cit., II, pp. 131 – 153. In un suo studio sull’argomento, Yves Bizeul ha spiegato come i Riformatori avessero fornito una nuova interpretazione della legge e del diritto naturale, insistendo sulla loro funzione soteriologica e pratica. Lo studioso francese ricorda che per Lutero – contrariamente a quanto sostenuto da Tommaso d’Aquino - la corruzione dell’uomo dopo la Caduta aveva sottratto a questi la recta ratio e, di conseguenza, gli impediva la conoscenza dei principi della divina giustizia. Bizeul, che iscrive il monaco agostiniano nella tradizione volontaristica, ritiene quindi che per Lutero il diritto naturale avesse una funzione secondaria, ma non subalterna, nel piano di salvezza divino. Egli ne mise in luce la funzione soteriologica pur notando, a differenza degli Scolastici, che esso non si lasciava dedurre dalla lex aeterna, ossia dall’essere stesso di Dio concepito come il logos universale. Quel che invece implicitamente Lutero contestava era la sua iscrizione in un sistema metafisico e ontologico immutabile. Seguendo Troeltsch, Bizeul ritiene perciò che la nuova interpretazione del diritto naturale finì per rivelarsi più feconda sul piano teologico-politico soltanto nella tradizione neo-calvinista. Cfr. Y. Bizeul, Le Droit Naturel dans la tradition protestante, in «Revue d’Historie et de Philosophie Religieuses», 79 (1999), pp. 445 – 461, in part. 445-447.

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Fu solo a partire dal 1530 che la posizione luterana prese a modificarsi, in occasione della Dieta

di Augusta18. La Confessione di Augusta, redatta da Melantone allo scopo di raggiungere un

compromesso con i prìncipi cattolici, venne respinta in agosto, quando Carlo V ordinò la lettura di

una Confutazione all’assemblea della Dieta, la quale si chiuse con l’accordo dei prìncipi cattolici su

una lega in difesa dell’Impero; una mossa che minacciava militarmente i protestanti. Il più

militante dei principi luterani, Filippo d’Assia, evocò a questo punto un’alleanza difensiva, aprendo

alla possibilità di contrastare legittimamente l’Imperatore 19.

Di fronte alla minaccia portata nei confronti della Riforma, Lutero, Melantone e Osiander presero

in considerazione la possibilità di una opposizione legale ad un governante in caso di dispotismo, o

qualora si fosse rivelato un principe ingiusto o avesse tentato di imporre il proprio giudizio in

materia di fede:

Alla fine del 1530, Lutero e gli altri leaders della Riforma tedesca si trovarono così di fronte a due distinte teorie che asserivano la legittimità di opposizione all’Imperatore – la teoria costituzionale di Filippo d’Assia e la teoria privatistica dei giuristi sassoni. Si trovarono inoltre spinti da tutte le parti a riconsiderare i propri scrupoli sull’idea di resistenza con la forza 20.

Al termine dell’ottobre 1530 Lutero, Melantone, Jonas e altri importanti teologi luterani si

dichiararono disposti a sottoscrivere la teoria della resistenza come delineata dal cancelliere

dell’elettore Giovanni di Sassonia, Gregorio Brück, il quale in una sua memoria aveva fatto ricorso

ad argomenti di diritto privato21. Nella memoria - fondata su una classica dottrina del diritto

canonico circa la legittimità della resistenza ad un giudice ingiusto - si sosteneva che in talune

circostanze l’uso della violenza non costituiva un’offesa. Perché fosse possibile applicare una tale

dottrina anche al caso in questione era necessario in effetti sostenere che lo status dell’Imperatore

fosse quello di un giudice. Il problema di questa posizione era però rappresentato dal fatto che,

alludendo alla condizione dell’individuo in un regime di diritto privato, se ne poteva inferire che

fosse legittimo per un privato cittadino - e quindi per l’intero corpo popolare - partecipare ad atti

di violenza politica: una implicazione che i luterani erano ansiosi di evitare22.

18 Sulla Dieta di Augusta cfr. H. Grisar, Lutero: la sua vita e le sue opere, cit., pp. 353 ss. 19 Cfr. Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., pp. 282-283. 20 Ivi, p. 285. 21 Nella memoria Iudici procedenti ingiuste ad licitum sit resistere veniva affermato che l’imperatore, il quale non aveva giurisdizione in materia di fede, non poteva essere un giudice in simili faccende e nel caso in cui egli avesse inflitto “offese notorie” era legittimo resistere all’autorità di governo. Sul cosiddetto “voltafaccia” di Lutero circa la questione della resistenza armata cfr. H. Grisar, Lutero: la sua vita e le sue opere, cit., pp. 378 – 384. 22 Cfr. Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 287.

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Pertanto il filone del luteranesimo che legittimava la resistenza politica, nel caso in cui un

governante avesse travalicato i limiti della propria carica, non divenne mai dominante, nonostante

l’appoggio fornito da Lutero con l’Esortazione ai suoi cari tedeschi del 1531. Più tardi, anche nei

suoi Discorsi a Tavola, egli tornò più volte sulla riduzione allo status di privato criminale di un

magistrato che avesse oltrepassato i limiti della propria carica, aprendo così ad una resistenza

legittima allo stesso modo in cui era consentito resistere a privati che avessero fatto uso di

violenza23.

Accanto a tale dottrina, tuttavia, si collocava l’altra teoria sviluppata da numerosi luterani, i

quali erano sospettosi nei confronti dell’appello di Brück al diritto canonico: la teoria

costituzionale avanzata dai giuristi dell’Assia nel 1529, che Brück e i giuristi sassoni non avevano

accolto. Il teologo luterano che fornì una teoria costituzionale della resistenza legittima, sulla base

di una nuova interpretazione della Lettera di San Paolo ai Romani, è stato Andreas Osiander:

Se un magistrato superiore dovesse mancare di adempiere ai doveri per i quali è stato ordinato – e che egli può aver perfino giurato di eseguire, come l’Imperatore giura nei capitolari dell’elezione – può egli legittimamente subire l’opposizione dei magistrati inferiori, i quali sono “non meno ordinati da Dio”, onde assicurare che la suprema necessità di bene e di governo religioso sia fermamente sostenuta 24.

Secondo questa dottrina una resistenza sarebbe stata legittima soltanto da parte dei magistrati

inferiori, e non di singoli o del popolo. Ciò che si auspicava era dunque un originale sforzo di

sintesi tra la tesi privatistica e quella costituzionale: «Lungi così dal capitolare alle tesi

privatistiche, i luterani furono veramente in grado di integrarle entrambe ed evitare in tal modo

l’implicazione allarmante che fosse lecito a un singolo cittadino resistere al proprio magistrato»25.

La dottrina luterana della resistenza, anche se minoritaria, riuscì comunque ad esercitare una

qualche influenza sulle teorie radicali degli ultimi calvinisti e sulle ideologie rivoluzionarie della

seconda metà del Cinquecento, dal momento che fondava la propria validità sull’argomentazione

della liceità per un individuo di opporsi ad una forza ingiusta. Il movimento che diede origine alla

cosiddetta “Riforma radicale” ricevette un impulso precisamente da quei radicali che non potevano

accettare l’atteggiamento passivo proposto da Lutero e la dipendenza del luteranesimo dalle

autorità secolari26.

23 Cfr. M. Lutero, Discorsi a tavola, trad. e introduzione di L. Perini, Einaudi, Torino 1969, pp. 120 e 295-97. 24 Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 293. 25 Ivi, p. 292. 26 Una corrente che faceva capo al pastore riformato tedesco Thomas Müntzer, ad esempio, rifiutava la passività politica a favore di una crociata che annientasse i miscredenti, in nome del dovere in capo ai prìncipi di essere combattenti della fede con il compito di sconfiggere i nemici. Se invece i prìncipi fossero venuti meno a questo dovere, la spada sarebbe

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a)a)a)a) Il contesto inglese e la RiformaIl contesto inglese e la RiformaIl contesto inglese e la RiformaIl contesto inglese e la Riforma

In Inghilterra si trovavano le radici più profonde dell’ostilità nazionalistica al papato. Qui il codice

di diritto romano non era mai entrato in vigore e le rivendicazioni papali e dei canonisti erano

ritenute in conflitto con i dettami della Common Law e con le leggi del Parlamento27.

Nel XIII secolo il diritto consuetudinario fu difeso dal giudice ed ecclesiastico Henry di Bratton

(o Bracton, c.1210-1268), autore del primo trattato sulla legge inglese: De legibus et

consuetudinibus Angliae28, e, quasi due secoli dopo, dal giurista John Fortescue (c.1394 – c.1476) il

quale riaffermando le espressioni di ostilità nei confronti di canonisti e civilisti, ed esaltando la

costituzione d'Inghilterra come una forma di monarchia limitata, eserciterà una notevole influenza

nell’elaborazione delle dottrine costituzionalistiche moderne29.

In Inghilterra, sin da tempi precedenti la Riforma, il diritto civile era stato oggetto di numerose

critiche mentre venivano intenzionalmente ignorate le tesi dei canonisti, come pure i diritti e le

giurisdizioni speciali rivendicati dal Papa in qualità di capo della Chiesa. Nel trattato del Fortescue

De laudibus legum Angliae30, scritto tra il 1464 e il 1470 ma pubblicato sotto Enrico VIII, al

principe che domandava al suo cancelliere se fosse necessario studiare il diritto civile veniva

risposto che il diritto romano era estraneo alla natura “politica” della costituzione inglese e veniva

stata loro tolta dal popolo sovrano, cfr. Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 114. Si veda inoltre: E. Bloch, Thomas Münzer teologo della rivoluzione, a c. di Stefano Zecchi, Feltrinelli, MIlano 2010. Vi era poi un altro gruppo, anabattista e di carattere anarchico, che faceva capo a Konrad Grebel (capo spirituale degli evangelici radicali) e Felix Mantz. Essi consideravano le autorità secolari istituite a causa della necessità di reprimere i peccatori; coloro che erano invece illuminati dallo Spirito Santo non ne avevano bisogno e non dovevano prendere parte all’apparato del potere secolare. Il credo anabattista presentava un evidente carattere antipolitico e pacifista, e coloro che vi appartenevano rifiutavano di versare tasse per la guerra o di riconoscere le leggi sulla proprietà. Cfr. Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., pp. 118 ss. 27 Cfr. Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., pp. 85 ss. 28 Bracton, De legibus et consuetudinibus Anglie (On the Laws and Customs of England), I-IV, ed. G. Woodbine, trans. and notes S. Thorne, Belknap Press/Selden Society, Cambridge (Mass.) 1968. La lettura di Bracton viene consigliata da Locke in una lettera del 25 agosto del 1703 a Richard King che lo interrogava sul modo di istruire un giovane gentiluomo inglese. Cfr. Corr., n. 3328, VIII, pp. 56-59. Su Bracton cfr. C. McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno (1947), a c. di N. Matteucci, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 89-113. 29 Sulla figura di Fortescue si vedano: A. Passerin d’Entréves, San Tommaso d’Aquino e la costituzione inglese nell’opera di Sir John Fortescue, in «Atti della Regia Accademia delle Scienze di Torino», 62 (1926-1927), pp. 261-285; G. Fassò, Storia della filosofia del diritto: L’età moderna, a c. di C. Faralli, Laterza, Roma-Bari 2001, II, pp. 10-12; S. Lockwood, Sir John Fortescue: On the Laws and Governance of England, Cambridge University Press, Cambridge 1997. 30 J. Fortescue, De laudibus legum Angliae, ed. S. B. Chrimes, Cambridge University Press, Cambridge 1949. Del Fortescue cfr. inoltre The Governance of England: Otherwise Called the Difference Between an Absolute and a Limited Monarchy (1471-76), ed. C. Plummer, Clarendon, Oxford 1885. Sia Bracton sia Fortescue vengono citati da Locke nel Secondo Trattato, cfr. T2, 239.

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consigliato esclusivamente lo studio delle consuetudini e delle leggi inglesi, come pure di trattare

tutte le leggi umane come consuetudini o leggi, se non erano manifestamente leggi di natura31.

Le leggi consuetudinarie venivano considerate perfettamente adatte al particolare contesto

inglese, ragione per la quale queste soltanto dovevano essere riconosciute, mentre venivano

rivendicati i poteri del Parlamento; luogo nel quale, al momento della promulgazione di una legge,

ogni cittadino inglese era rappresentato:

Ciò implica che tutti i tentativi di difendere qualsiasi altro tipo di giurisdizione devono essere condannati come casi d’interferenza straniera32.

I medesimi sentimenti di ostilità erano diffusi anche all’inizio del XVI secolo. Nell’opera The Tree

of Commonwealth (1510), in cui lo Stato veniva descritto come un albero rigoglioso con cinque

radici (amore di Dio, giustizia, fedeltà, concordia e pace), Edmund Dudley affermava che la radice

dello Stato era l’amore di Dio. Al principe veniva demandato il compito di garantire il

mantenimento della buona disciplina nella Chiesa, sia contrastando il pericolo di simonia sia

vigilando affinché la radice della concordia non fosse danneggiata dai tentativi della Chiesa di far

osservare propri privilegi giuridici. Al re veniva raccomandato di ridurre ogni ambizione terrena

delle autorità ecclesiastiche, e di assicurarsi che esse si dimostrassero veri sacerdoti della Chiesa di

Cristo, predicando in modo veritiero e semplice la parola di Dio ai sudditi secolari33.

Alla vigilia della rottura con Roma da parte di Enrico VIII, anche gli avvocati inglesi di diritto

comune mostrarono la medesima ostilità. Uno dei più famosi giuristi dell’età enrichiana,

Christopher St. Germain (1460–1540), pubblicò una serie di attacchi contro le giurisdizioni

ecclesiastiche e, nel difendere la tendenza inglese a privilegiare il diritto razionale al diritto

naturale, esaltò sulla base di tale preferenza la ragionevolezza storica del diritto inglese mentre

respingeva quello romano34.

Nel Dialogus de fundamentis legum Anglie et de conscientia, scritto in latino tra il 1523 e il

1528, e tradotto successivamente in inglese, St. Germain espose le differenti graduazioni giuridiche

– legge eterna, legge di natura, leggi divine – in rapporto alle leggi inglesi. Come Fortescue, egli

sostenne che il diritto consuetudinario inglese doveva essere considerato la legge suprema del

Paese. In seguito, con riferimento alla divisione tra l’autorità spirituale e l’autorità temporale, St.

Germain iniziò un duro scambio polemico con Thomas More:

31 Cfr. Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 86. 32 Ibid. 33 Cfr. ivi, p. 87. 34 Cfr. N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà, UTET, Torino 1988, p. 65.

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A questo punto St. Germain era pronto a mettere in discussione non solo il diritto dei tribunali ecclesiastici a perseguire presunti eretici, ma l’intera struttura dei poteri giuridici della Chiesa. Il suo appello basilare nel Treatise è rivolto alla supremazia della legge, e quindi al diritto primario del re nel Parlamento, di rimuovere qualsiasi “usanza dannosa” sostenuta dalle autorità ecclesiastiche 35.

Con una serie di Atti del 1489, 1491 e 1496, prorogati da Enrico VIII nel 1512, ebbe inizio la

lotta alle “immunità del clero”, un sistema che aveva garantito agli ecclesiastici l’immunità dai

procedimenti giudiziari nei tribunali ordinari.

Alla Chiesa cattolica, in Inghilterra come in Germania e in altri Paesi d’Europa, si contestavano

non solo le imposte versate dal popolo ma anche il modo in cui le giurisdizioni pontificie erano

usate per violare i diritti delle autorità secolari. E così, quando la Riforma cominciò ad acquistare

un certo slancio, la maggior parte di questi laici si trovò sempre più attratta dalla causa luterana. In

numerosi Paesi le autorità secolari mostravano ormai una esplicita volontà di rottura con la Chiesa

di Roma.

In seguito al rifiuto di Clemente VII della petizione di divorzio da Caterina d’Aragona, avanzata

da Enrico VIII nel 1527 per sposare Anna Bolena, i ministri del re incoraggiarono i sentimenti

anticlericali del sovrano, laddove nell’Europa settentrionale i governanti secolari contribuivano a

far progredire la causa della Riforma, anche se in gran parte indifferenti alle dottrine religiose di

questa. Facevano eccezione le sue implicazioni politiche, da impiegare come arma nelle lotte per il

controllo delle ricchezze e del potere della Chiesa. Come osserva Skinner,

Alcuni governanti (particolarmente Enrico VIII) non mostrarono mai alcuna propensione a divenire luterani, mentre altri che si convertirono (come Gustav Vasa) sembra abbiano accettato la religione luterana semplicemente come mezzo per secondare i propri fini personali. […] Il problema principale delle autorità secolari consisteva nel legittimare le loro campagne contro i poteri ecclesiastici. Quando decisero di sconfessare le giurisdizioni del papato, ciò li costrinse a cercare qualsiasi argomento tendente a dimostrare che la Chiesa non aveva alcun diritto ad esercitare questi poteri giurisdizionali. Questa tendenza a sua volta li portò a far causa comune con i luterani36.

La svolta nel processo di diffusione della Riforma si ebbe quando, nelle città tedesche, in Svezia e

in Inghilterra, il concetto luterano secondo cui la Chiesa era semplicemente una congregatio

35 Nondimeno St. Germain, nel libello Answer to a Letter (1535), sosteneva che il Papa non avesse diritto di esercitare alcun potere giurisdizionale in Inghilterra e quindi che il nuovo livello di controllo di Enrico VIII sulla Chiesa andava considerato semplicemente come la riesumazione di una serie di diritti che i suoi predecessori dovevano aver scelto invece di delegare. La pretesa del re ad essere “capo supremo” della Chiesa di Inghilterra, in altre parole, non implicava alcun nuovo potere che non possedesse già in precedenza sui suoi sudditi. St. Germain definiva in questo modo l’autorità suprema del re sulla Chiesa e sosteneva che dovesse coprire l’intera potestas jurisdictionis, compreso il potere di rivelare ed interpretare la Scrittura, e di determinare la dottrina in fatto di fede. Cfr. Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., pp. 89-90. 36 Ivi, p. 99.

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fidelium cessò di essere considerato un’eresia per essere accolto come presupposto di una nuova

concezione dei rapporti tra potere ecclesiastico e politico.

La Riforma divenne movimento popolare in Germania (anche se in molte città la sua diffusione

dipendeva dal principe), mentre negli altri Paesi fu imposta dall’alto. I luterani, inizialmente

perseguitati, vennero protetti e incoraggiati a divulgare le loro idee. In ogni paese l’appello era alla

concezione luterana di chiesa come corpo spirituale, il cui solo dovere era quello di predicare il

Verbo di Dio, senza avanzare alcun diritto ad altri poteri.

L’inglese William Tyndale comincia il suo The Obedience of a Christian Man37 del 1528 lodando

l’ordine istituito da Dio con la creazione e presentando l’obbedienza dovuta ai governanti come

simmetrica a quella dovuta dai figli ai genitori, dalle mogli ai mariti, dai servi ai padroni38. Colui

che regnava, invece, in quanto istituito da Dio per i propri fini, era tenuto a governare il popolo

non a proprio piacimento ma secondo il volere divino. In tal modo Tyndale ricordava che il popolo

apparteneva a Dio, non ai governanti, e che la legge era modellata su quella di Dio, non del

sovrano39.

Passi decisivi in direzione dell’annientamento della giurisdizione della Chiesa furono intrapresi

in Inghilterra dal 1532. Durante la rivoluzione degli anni Trenta del secolo XVI furono stabilite le

basi di quella politica virtualmente destabilizzatrice propugnata due secoli dopo dall’oligarchia

whig al potere e sottoscritta, sempre in quel periodo, da alcuni esponenti ecclesiastici del

liberalismo lockiano, come Benjamin Hoadly.

L’Atto della Proibizione degli Appelli a Roma del 1533 sanciva il trasferimento delle

giurisdizioni ecclesiastiche alla corona: il preambolo della legge, redatto da Thomas Cromwell,

dava per acquisito che la Chiesa non fosse in alcun modo un regnum separato dall’interno del

corpo politico, in quanto era soltanto un corpo di credenti. Stava semplicemente ad indicare quella

parte del corpo politico un tempo denominato clero ed in seguito chiamato Chiesa d’Inghilterra40.

Il Regno di Inghilterra veniva denominato imperium ed era governato da un capo supremo, il

37 The Obedience of a Christian Man and how Christian Rules ought to govern, in The Works of the English Reformers, I, Thomas Russel Edition, London 1831 [l’opera è consultabile al seguente indirizzo: http://onthewing.org/Classics.html]. Su Tyndale cfr. C. McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno, cit., pp. 116-117. 38 Cfr. The Obedience of a Christian Man and How Christian Rules ought to Govern, cit., pp. 4-14. 39 Tyndale, in particolare, considerava tutti i governanti dono di Dio e scelti da Lui; i governanti cattivi erano dunque un segno della collera divina. Egli, come Lutero, concludeva che poteva essere particolarmente sbagliato resistere ai governanti dispotici, inviati proprio per affliggere il popolo e si richiamava al divieto imposto da Cristo a Pietro (Mt 26,52) di resistere con la spada al potere temporale. Resistere infatti equivaleva per il popolo al rifiuto della giusta punizione imposta da Dio. Nella sua opera molto gradita a Enrico VIII, Tyndale sosteneva che le giurisdizioni del Papa e della Chiesa erano da considerare illegali; un passo scritto contro John Fisher che nel 1521 aveva difeso le giurisdizioni del Papa dagli attacchi di Lutero. Tyndale riteneva che le richieste della Chiesa fossero causa di discordia e condannate dalle leggi di Dio, quindi che dovessero essere abolite, oltre a giudicare “falso” il potere del papa. Cfr. ivi, pp. 15-21. 40 Cfr. Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 132.

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quale esercitava un potere completo ed intero. La premessa ereticale di tali rivendicazioni

consisteva quindi nella pretesa che il re fosse anche capo della Chiesa.

A questo documento seguì l’Atto di Successione del 1534 che confermava il diritto nella

successione ad Elisabetta, figlia di Anna Bolena. Accettare una tale linea di successione significava

riconoscere il divorzio concesso l’anno precedente al sovrano dal nuovo arcivescovo di

Canterbury, Thomas Cranmer, ed equivaleva a ripudiare i poteri indipendenti rivendicati

tradizionalmente dal papato e dalla Chiesa. Ad essere respinta era la concezione cattolica dei

rapporti tra regnum e sacerdotium.

L’Atto di Supremazia promulgato sempre nel 1534, che proclamava per il sovrano il diritto di

fregiarsi del titolo di “Capo supremo della Chiesa di Inghilterra”41, completava la separazione della

Chiesa inglese da Roma e la sua sottomissione alla monarchia. Il credo politico di Cromwell

costituiva un orientamento politico del tutto nuovo. Con lo Statuto degli Appelli veniva

definitivamente rifiutata l’idea secondo cui la Chiesa inglese era semplicemente un ramo della

Chiesa cattolica facente capo a Roma (la Chiesa in Inghilterra si trasforma in Chiesa “di”

Inghilterra) e prendeva forma un concetto moderno di impegno politico: da questo momento

diventava legittima per le autorità secolari la rivendicazione di fedeltà politica dei sudditi.

Con la proclamazione del sovrano come capo della Chiesa al posto del Papa, e il conseguente

trasferimento alla corona di tutti i poteri giurisdizionali esercitati precedentemente dalla Chiesa, si

apriva una nuova fase nell’Europa settentrionale, la cui fase successiva – la vera e propria

imposizione della Riforma – si verificò quando le autorità secolari chiesero ai sudditi l’accettazione

della nuova struttura della Chiesa stabilita42.

41 Cfr. M. Firpo, Il problema della tolleranza religiosa nell’età moderna, Loescher, Torino 1978, pp. 182 ss. 42 Nel governo inglese, l’opposizione a Enrico VIII venne da Thomas More il quale, in seguito all’Atto di sottomissione del clero del 1532, si dimise da Lord Cancelliere rifiutando, come il vescovo di Rochester John Fisher, di sottoscrivere il giuramento accluso all’Atto di Successione del 1534. La Chiesa non era più vista come regnum di pari importanza, ma come subordinata alle autorità secolari; e sia More che Fisher consideravano l’indipendenza della Chiesa inviolabile. Tra i parenti del sovrano, invece, l’opposizione maggiore venne da Reginald Pole (trasferitosi in Italia dopo la prima disputa avuta con il re), il quale, sostenendo l’impossibilità del re di essere anche capo della Chiesa, affermava che questa è dono di Dio mentre il regnum una creazione dei suoi stessi sudditi. Pertanto il re non poteva essere a capo della Chiesa. Inoltre Cristo aveva dato le chiavi di essa a Pietro, e queste dovevano essere custodite dal suo successore il Papa. Per aver avanzato i medesimi dubbi, More e Fisher furono imprigionati nel 1534 e giustiziati. Nel loro caso vi fu anche la difesa di una legge cristiana universale alla quale la legge dell’uomo deve conformarsi, in opposizione al tentativo di Cromwell di giustificare i poteri della legge su base totalmente positivista. Cfr. D. Sargent, Tommaso Moro, Morcelliana, Brescia 19782.

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a. 1. Il calvinismo radicale e la ra. 1. Il calvinismo radicale e la ra. 1. Il calvinismo radicale e la ra. 1. Il calvinismo radicale e la resistenza legittima: Ponet, Goodman, Buchananesistenza legittima: Ponet, Goodman, Buchananesistenza legittima: Ponet, Goodman, Buchananesistenza legittima: Ponet, Goodman, Buchanan

Intorno alla metà del Cinquecento non era stata definita una dottrina, in ambito protestante e

calvinista, circa il concetto di resistenza.43 Lo stesso Calvino era rimasto nei suoi scritti piuttosto

ambiguo sul tema, quanto alla possibilità che questa fosse o meno legittima e in quali casi, dal

momento che il magistrato era ritenuto vicario di Dio44.

In Scozia un rilevante contributo allo sviluppo della teoria della rivoluzione e della resistenza

venne da John Ponet e Christopher Goodman, attraverso un’enunciazione di tesi privatistiche che

lasciava poco spazio a fraintendimenti45.

Ponet, vescovo di Winchester e di Rochester, era fuggito in esilio a Francoforte dopo aver

lasciato la propria carica quando la cattolica Maria Stuarda salì al trono ed espose le sue tesi nello

scritto Short Treatise of Politic Power del 155646, riprese e sviluppate da Goodman in How

Superior Powers Ought to Be Obeyed of Their Subjects del 155847.

La premessa, per entrambi, era in linea con le tesi luterane secondo le quali i governanti sono

ordinati da Dio per svolgere una funzione, quella di garantire la pace, la tranquillità e la protezione

dei sudditi. Goodman insiste sull’obbligo che essi hanno di conservare e difendere la vera fede,

Ponet sottolinea che i decreti non devono essere in contrasto con la legge di Dio e quella della

natura.

Citando sia il codice civile sia il diritto canonico, Ponet sostiene che i crimini di un governante il quale ecceda i limiti del suo incarico non sono di fatto diversi – e non dovrebbero essere trattati differentemente – dagli stessi crimini commessi da un normale cittadino48.

I calvinisti Ponet e Goodman difesero dunque la legittimità della resistenza. Secondo Ponet era

lecito perfino a dei privati, in talune circostanze, opporsi alla forza ingiusta di coloro che operano

il male (anche se magistrati) nei casi seguenti: quando il governante si scaglia con la spada contro

43 Per un quadro generale sul calvinismo cfr. E. Troeltsch, Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani , cit., II, pp. 223 – 462; H. Kamen, Nascita della tolleranza, cit., pp. 46 – 52; 74-80; R. M. Kingdon, Calvinism and resistance theory, 1550-1580, in J.H. Burns-M. Goldie (eds.), The Cambridge History of Political Thought, 1450-1700, cit., pp. 193 - 218. 44 Cfr. J. Jullien, P. L’Huillier, J. Ellul, I cristiani e lo Stato, Ave, Roma 1967, pp. 129 – 136. Si veda inoltre G. H. Sabine, Storia delle dottrine politiche, cit., pp. 289 – 294. 45 Cfr. D. H. Wollman, The Biblical justification for resistance to authority in Ponet's and Goodman's polemic, in «Sixteenth Century Journal», 13 (1982), pp. 29-41. 46 Cfr. B. Peardon, The Politics of Polemics: John Ponet’s Short Treatise Of Politic Power, and Contemporary Circumstance, 1553–1556, in «Journal of British Studies», 22 (1982), pp. 35–49. 47 Cfr. Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., pp. 318–322. 48 Ivi, p. 320.

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un innocente; se insidia la moglie altrui o tradisce il suo paese consegnandolo agli stranieri. Il

dovere di ciascuno, in questi casi, è di resistere e di allontanarli dalle loro cariche49.

In Goodman troviamo una più chiara esplicitazione della teoria privatistica, fondata sulla

distinzione tra la funzione e la persona del magistrato. Alla luce del XIII capitolo della Lettera ai

Romani, egli sosteneva che i governanti non fossero solo ordinati da Dio, ma ciò al fine di

assicurare la giustizia, aggiungendo che in caso di trasgressione delle leggi divine i magistrati

dovevano essere considerati dei privati criminali: era lecito opporsi ad essi come ci si oppone a un

qualsiasi malfattore; essi diventavano tiranni o assassini, non erano più pubbliche persone, e non

dovevano più essere considerati veri magistrati.

Dalla metà del Cinquecento il dilemma riguardava quindi la distinzione tra la carica e la persona

del magistrato. Quando i sovrani venivano considerati globalmente poteri ordinati da Dio, non vi

era possibilità per una legittima resistenza. Se invece questi venivano considerati come ordinati per

compiere il bene e non il male – ed erano considerati veri magistrati solo finché assolvevano i

doveri del proprio ufficio – la resistenza ad essi trovava uno spazio e una sua legittimità.

Con riferimento al problema se considerare o meno come potere effettivamente ordinato quello

di un magistrato che mancava di far fronte ai suoi obblighi, la posizione dei luterani in seguito alla

Dieta di Augusta era stata, come si è visto, quella di ammettere un contrasto al re e agli altri

magistrati supremi solo da parte di “altri” poteri costituiti, dei magistrati inferiori, nel tentativo di

conciliare in questo modo la teoria privatistica della resistenza con quella costituzionale. I luterani

presero a non sostenere più la tesi tradizionale dei magistrati assegnati dalla provvidenza di Dio

quando fu chiaro che di fronte al problema della tirannia si rischiava di sostenere l’empietà che

portava a ritenere Dio autore del male. Per la medesima ragione, Lutero e Melantone evitarono

prudentemente di affrontare dopo il 1530 l’argomento sulla tirannia, o empietà, del magistrato nei

loro scritti 50.

Si comprende dunque l’importanza della riflessione di calvinisti radicali scozzesi quali Ponet,

Goodman e John Knox51 che risiedeva appunto in una spiegazione logica, e soddisfacente, in

risposta alla questione del potere tirannico52. Per Ponet e Goodman occorreva abbandonare la tesi

agostiniana che considerava tutti i governanti ordinati da Dio, anche nel caso in cui fossero venuti

meno ai loro doveri (Dio non poteva infatti ordinare la tirannide e l’oppressione), e in casi simili la

49 Cfr. B. L. Beer, ‘John Ponet’s Shorte Treatise of Politike Power reassessed’, in «Sixteenth Century Journal», 21 (1990), pp. 373–383. 50 Cfr. Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno , cit., p. 324. 51 Su Knox si veda E. Troeltsch, Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani , cit., II, pp. 335-337. 52 Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno , cit., pp. 337 ss.

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resistenza non era da considerarsi disubbidienza a Dio. Certamente un popolo veramente devoto

avrebbe sempre eletto dei magistrati prescelti da Dio.

Ma il punto dirimente della questione riguardava “chi” avrebbe dovuto opporsi al dominio dei

magistrati tirannici. In alcuni scritti calvinisti radicali degli anni Cinquanta si arrivava a sostenere

che, in determinate circostanze, non solo ai magistrati poteva essere lecito partecipare legalmente

ad atti di violenza politica, ma anche a singoli uomini e all’intero corpo popolare. Non si trattava

tuttavia di una tesi sostenuta in maniera esplicita - Ponet e Goodman continuavano a ritenere i

magistrati inferiori leader idonei alla resistenza -, ma cominciava a farsi largo in ambito calvinista.

Anche Goodman muoveva dall’assunto in base al quale i magistrati sono ordinati per adempiere

il loro ufficio, e Dio non li ha posti al di sopra delle sue leggi. Quando cessa di compiere il proprio

dovere, il governante viene ad essere un delinquente privato e può essere legalmente contrastato

da uno o da tutti i suoi sudditi. Dio “consegna la spada nelle mani del popolo” e diventa a questo

punto dovere del popolo provvedere ad estirpare l’eresia, in assenza di collaborazione da parte dei

superiori.

I calvinisti più rivoluzionari degli anni Cinquanta arrivarono alla medesima conclusione

impiegando la nozione di patto. Il riferimento di Calvino ad una successione di patti - il primo dei

quali stipulato tra Dio e Abramo, e i successivi ratificati da Noè, Abramo, Mosè e Cristo, che

consistevano nell’impegno da parte del popolo di Dio a rispettare i dieci comandamenti – approdò

al concetto calvinista di “comunità contrattuale”, espresso nel giuramento dei ginevrini nel 1537 di

attenersi ai dieci comandamenti. In una prospettiva di questo tipo, diventava lecito per un gruppo

di uomini riconfermare, quando necessario, il rapporto contrattuale con Dio.

La resistenza veniva dunque teorizzata dai calvinisti radicali come un dovere imposto da Dio a

ciascun cittadino: quando i magistrati tradiscono le leggi di Dio, è un dovere di ciascuno

mantenere e difendere queste stesse leggi contro i propri magistrati, e opporsi così alla tirannide.

In Scozia, paese divenuto a maggioranza calvinista – dove nel 1557 i nobili scozzesi si allearono

per resistere ai dominatori cattolici, dando vita alla prima rivoluzione calvinista in Europa

coronata da successo - proseguì in modo vivace il dibattito sul diritto del popolo di rinnegare un

principe legittimo; dibattito che aveva alle spalle i fondamentali contributi di Knox e di Goodman.

Tuttavia la svolta nella direzione della legittimazione di una rivoluzione secolarizzata, e affidata

al corpo popolare, si verificò con la pubblicazione nel 1579 del trattato De iure regni apud Scotos53,

53 G. Buchanan, A Dialogue on the Law of Kingship Among the Scots, ed. and translation of De iure regni apud Scotos Dialogus by R. A. Mason and M. S. Smith, Ashgate, Aldershot 2004.

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condannato nel 1584 e bruciato nel 1683, dell’umanista e poeta scozzese George Buchanan (1506-

1582)54.

Pervaso di spirito biblico protestante e di classicismo umanistico, Buchanan era stato allievo del

teologo cattolico John Major (dettaglio che avvalorava un possibile collegamento tra la tradizione

cattolica e quella calvinista circa la sovranità e il diritto di resistenza), diventando in seguito

precettore del futuro Giacomo VI di Scozia e I di Inghilterra.

In quest’opera, davvero decisiva per l’evoluzione del pensiero rivoluzionario, si attuava

definitivamente il passaggio da un dovere di resistenza (come teorizzato sino ad allora) al diritto di

resistere. Buchanan rompeva con la tradizione aristotelico-scolastica (il carattere sociale della

condizione naturale degli uomini) per avvicinarsi da umanista alla posizione degli stoici e di

Cicerone (la condizione originaria dell’uomo era simile a quella di una bestia selvatica, nomade e

solitaria, priva della guida della ragione). Come ha osservato Skinner:

Al pari degli ugonotti e dei loro predecessori della scolastica, il motivo che spinge Buchanan a partire da questa raffigurazione delle condizioni naturali dell’uomo è di sostenere che le società politiche non sono state ordinate direttamente da Dio, ma sorgono naturalmente da una serie di decisioni prese dagli uomini stessi 55 .

Ma Buchanan si allontanava anche dalle posizioni ugonotte, affermatesi durante le guerre di

religione, rifiutando di citare il patto religioso come momento fondativo da cui uno Stato legittimo

ha origine, e limitandosi a considerare esclusivamente il patto politico. Mentre gli ugonotti

avevano sostenuto la teoria rappresentativa della sovranità (il popolo trasferisce ai magistrati la

propria autorità di scegliere e controllare i governanti), Buchanan

mette in chiaro che quando il popolo nomina un governante, lo fa per mezzo di un contratto diretto, senza intermediari, in cui un firmatario è il futuro governante, e l’altro “l’intero corpo popolare” 56 .

Il popolo non alienava, secondo Buchanan, la propria sovranità originale ma delegava la sua

autorità ad un governante, il cui status era quello di un minister che continua ad essere vincolato

dalle leggi positive dello Stato. Il suo potere, di conseguenza, non sarebbe stato assoluto ed aveva

come fine quello di custodire il pubblico interesse.

54 Buchanan studiò a Parigi e, dopo il ritorno in Scozia, fuggì in un primo tempo a Londra e poi in Francia a causa della sua polemica anticattolica. Insegnò a Bordeaux, ove ebbe allievo il Montaigne, quindi a Parigi (1544-47) e a Coimbra. Una volta tornato in patria da calvinista accusò duramente Maria Stuarda. Oltre alla sua opera più nota, ha lasciato altri scritti tra i quali la Rerum Scoticarum Historia del 1582. Cfr. P. H. Brown, George Buchanan humanist and reformer: a biography, Davis Douglas, Edimburgh 1890; H. R. Trevor-Roper, George Buchanan and the ancient Scottish Constitution, Longmans, London 1966. 55 Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 488. 56 Ivi, p. 490.

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La più importante implicazione di questa tesi riguardava naturalmente la resistenza. Partendo

dalla concezione stoica della condizione prepolitica e solitaria degli uomini, Buchanan è stato in

grado di sviluppare una concezione altamente individualistica del diritto alla resistenza politica,

che arrivava a sfociare nell’anarchia.

Giacché l’intero corpo popolare è d’accordo nell’istituire un governo legittimo, ne consegue […] che tutta la popolazione, e non solamente i suoi rappresentanti eletti, deve conservare il diritto corrispondente di resistenza. […] Inoltre, sostiene Buchanan, siccome si può immaginare che ogni individuo approvi la formazione dello Stato per la propria maggior sicurezza e beneficio, ne consegue che il diritto di uccidere o deporre un tiranno va sempre conferito “non solo a tutto il popolo (universo popolo)”, ma “anche ad ogni singolo cittadino (singuli etiam)” 57.

Il popolo, nella versione di Buchanan, restava più potente di qualsiasi governante eletto e

conservava la possibilità di destituirlo quando lo avesse considerato necessario. Egli si opponeva di

conseguenza alla filosofia politica ortodossa della Riforma evangelica che si richiamava

tradizionalmente al capitolo XIII della Lettera ai Romani, sostenendo, da umanista, la prevalenza

delle ragioni del diritto e della filosofia su una singola affermazione delle Scritture.

Con Buchanan – diventato il filosofo della Riforma scozzese - veniva quindi affermata, in modo

esplicito e definitivo, una teoria rivoluzionaria della resistenza in termini di diritto e non più di

dovere, che assegnava tale facoltà di deposizione all’intero corpo popolare, e ai singoli, sulla base di

una struttura teorica che poggiava su argomentazioni di tipo secolare.

b)b)b)b) Law of NatureLaw of NatureLaw of NatureLaw of Nature e tolleranza in Hooker e tolleranza in Hooker e tolleranza in Hooker e tolleranza in Hooker

Accanto all’influenza dei rimostranti olandesi e del calvinismo, vi sono almeno due riferimenti di

rilievo per lo sviluppo del pensiero lockiano, e più in generale per la teologia del XVII secolo in

Inghilterra. Il primo di essi è il teologo inglese Richard Hooker58. Dei Platoni di Cambridge ci

occuperemo più avanti.

57 Ivi, pp. 491-492. 58 Hooker (1554-1600) studiò ad Exeter e ad Oxford, nel 1581 prese gli ordini religiosi. Ad Oxford insegnò ebraico dedicandosi a studî politici e giuridici. Per un profilo di Hooker e del suo pensiero si vedano: F. Ruffini, Corso di diritto ecclesiastico italiano: la libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, Bocca, Torino 1924, pp. 315 - 318; G. H. Sabine, Storia delle dottrine politiche, cit., pp. 350 – 354; A. Passerin d’Entréves, La teoria del diritto e della politica in Inghilterra all’inizio dell’età moderna, in Id., Saggi di storia del pensiero politico, FrancoAngeli, Milano 1992, pp. 268 - 271 (in part. nota 18); F.J. Shirley, Richard Hooker and contemporary political ideas, S.P.C.K., London 1949; S. S. Wolin, Richard Hooker and English Conservatism, in «The Western Political Quarterly», 6 (1953), pp. 28 – 47; G. Fassò, Storia della filosofia del diritto: L’età moderna, cit., II, pp. 96-98; A. Marongiu, Lo Stato moderno: Lineamenti storico-istituzionali, Edizioni Ricerche, Roma 1976, pp. 21-25; H. Lloyd, Hooker, in J.H. Burns-M. Goldie (eds.), The Cambridge History of Political Thought, 1450-1700, cit., pp. 279 – 283; RT, I, pp. 49 ss.; D. B. Forrester, Richard Hooker, in L.

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Di colui che è stato uno degli intelletti più raffinati della letteratura cristiana59, e tra i principali

esponenti della teologia anglicana quanto al primato della ragione nelle questioni del governo

ecclesiastico, si deve ricordare in primo luogo la riflessione sulla “legge di ragione”60. In due modi,

per Hooker, l’uomo è condotto alla verità: per rivelazione e per mezzo della ragione, attraverso la

quale è possibile all’uomo distingue il bene dal male.

L’opera maggiore dell’Hooker è un trattato di carattere politico-ecclesiastico della fine del

Cinquecento – senza rivali, quanto a pregi speculativi, letterari e spirituali61: Of the Laws of

Ecclesiastical Polity, in otto libri, dei quali i primi quattro pubblicati nel 1594 e il quinto nel

159762. Nel corso del XVII secolo (tra il 1648 e il 1662) vennero pubblicati i rimanenti tre,

probabilmente non autentici63.

Circa l’influenza del «padre della teologia liberale anglicana»64 su Locke, Troeltsch ha osservato

che quest’ultimo «amava richiamarsi allo Hooker, la cui Ecclesiastical Polity nella sua prima parte

è un riassunto del diritto naturale cristiano, mentre nella seconda parte in onore dell'anglicanismo

elisabettiano si piega ad ammettere una delegazione della sovranità popolare e dell'avvocatura e

conformità ecclesiastiche alla corona, in grande contrasto con la maggioranza dei teorici politici

anglicani, i quali sono invece rappresentati nel modo più deciso dall'assolutismo patriarcalistico del

Filmer, affine alla teoria luterana della potenza; [...]»65 .

Strauss, J. Cropsey (a c. di), Storia della filosofia politica, Il Melangolo, Genova 1995, pp. 85 – 97; G. M. Bravo, Alessandro Passerin d'Entreves e il "giudizioso" Richard Hooker, in «Teoria Politica», 21 (2005), pp. 73-87. Si vedano inoltre: R. Faulkner, Richard Hooker and the Politics of a Christian England, University of California Press, Berkeley 1981; S. Archer, Richard Hooker, Twayne, Boston 1983. 59 RT, I, p. 52. 60 Hooker torna spesso sulla “legge di ragione”, “luce di ragione “ e “retta ragione”. La legge eterna non è espressione di una volontà arbitraria di Dio ma è ragionevole, in tal senso Hooker respinge il volontarismo dei nominalisti e dei riformatori. Le leggi che governano il creato derivano dalla legge eterna. Cfr. H. McLachlan, Socinianism in Seventeenth-Century England, cit., pp. 53 ss. 61 Cfr. RT, I, pp. 52- 53. 62 Of the Laws of Ecclesiastical Polity (London, 1594), riedito: The Folger Library Edition of the Works of Richard Hooker, ed. W. Speed Hill, I-VII, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1977 ss. Delle edizioni più importanti del testo una è di John Keble del 1836, più volte ristampata nel corso dell’Ottocento (le citazioni qui presenti sono tratte dall’edizione a cura dello stesso Keble: Clarendon, Oxford 1876). Particolarmente rilevante per la filosofia del diritto è il libro primo dell’opera, apprezzato anche da papa Clemente VIII. In Italia il primo studio dedicato al pensiero di Hooker è stato quello di Andrea Galante [A. Galante, La teoria delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa secondo Riccardo Hooker (1554 – 1600), Tip. Sociale, Faenza 1908], come riferisce Francesco Ruffini [Id., Corso di diritto ecclesiastico italiano, cit., p. 316], seguito dalle riflessioni di Alessandro Passerin d’Entréves, il quale dedicò il suo dottorato allo studio del teologo inglese, circa i rapporti tra questi e Locke. Cfr. A. Passerin d’Entréves, Riccardo Hooker: Contributo alla teoria e alla storia del diritto naturale, Istituto giuridico della R. Università, Torino 1932; Id., Hooker e Locke. Un contributo alla storia del contratto sociale, in Id., Saggi di storia del pensiero politico, cit., pp. 301 – 324; Id., La teoria del diritto e della politica in Inghilterra, cit., p. 284. 63 Sulla questione si veda: W. Speed Hill, Hooker’s “Polity”. The Problem of the “Three Last Books”, in «Huntington Library Quarterly», 34(1971), pp. 317 – 336; H. F. Woodhouse, The Authenticity of Hooker’s Book VII, in «Church History», 22 (1953), pp. 3-7. 64 H. McLachlan, Socinianism in Seventeenth-Century England, cit., p. 53. 65 E. Troeltsch, Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani , cit., II, p. 343.

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Una continuità che è stata sottolineata anche da Leo Strauss, il quale osserva che Locke «nella sua

difesa della sistemazione rivoluzionaria, si appellava, quanto più spesso poteva, all’autorità di

Hooker, uno degli uomini meno rivoluzionari che mai siano esistiti. Egli trasse ogni profitto dal

suo parziale accordo con Hooker, ed evitò gli inconvenienti che potevano venirgli dal parziale

disaccordo con lui, tacendo praticamente su di esso»66, mentre Sabine nota che «attraverso Hooker,

Locke si ricollegava alla lunga tradizione del pensiero politico medievale fino a S. Tommaso, in cui

la realtà delle restrizioni morali al potere, la responsabilità dei reggitori dinanzi alle comunità che

governano e la subordinazione del governo alla legge erano fatti assiomatici» 67.

L’opera dell’Hooker68, concepita «come un attacco di vasta portata alla posizione dei Puritani

calvinisti contemporanei dell’autore»69, rappresentava una reazione al radicalismo biblico dei

calvinisti, i quali – non senza forzature e variazioni all’insegnamento politico di Calvino – avevano

fatto delle Sacre Scritture un manuale di buongoverno e di condotta morale, adatto a guidare in

modo infallibile ogni aspetto della vita umana:

Questa trasformazione rese quasi inevitabile il sorgere di pretese teocratiche. La Chiesa è custode della Parola di Dio ed è dovere dei suoi ministri proclamarla. Inoltre, poiché la Parola rappresenta l’unica guida sicura, in politica come in ogni altra cosa, re e magistrati devono sottomettersi in tutto alle direttive della Chiesa e dei suoi ministri70.

La deriva così inaugurata si accompagnava ad una parallela svalutazione della ragione, che Hooker

si era impegnato a contrastare riprendendo e sviluppando la dottrina tomista. Tomista era infatti -

come sottolinea Strauss, che la allontana da Locke - la sua concezione del diritto naturale, la quale

a propria volta risaliva ai Padri della Chiesa fino agli Stoici, i quali erano allievi di Socrate71.

Hooker difese la legge di natura come espressione della ragione divina, alla quale ogni uomo può

accedere con la propria. Egli infatti, contrariamente agli ugonotti francesi o al Knox, non riteneva

che la Scrittura presentasse tutto quel che occorreva fare ma considerava necessario un ricorso alla

ragione, specialmente nell’ambito del governo civile ed ecclesiastico. Di conseguenza Hooker «si

trova perfettamente a suo agio nell’invocare liberamente contro i suoi oppositori l’autorità degli

antichi, soprattutto dei Padri e degli Scolastici, in particolare Tommaso D’Aquino»72.

66 L. Strauss, Diritto naturale e storia, cit., p. 205. 67 G. H. Sabine, Storia delle dottrine politiche, cit., p. 421. 68 Si vedano inoltre: The Sermons of Richard Hooker. A Modern Edition, ed. P.B. Secor, SPCK, London 2001. 69 D. B. Forrester, Richard Hooker, cit., p. 85. 70 Ivi, p. 86. 71 Cfr. L. Strauss, Diritto naturale e storia, cit., p. 167. 72 D. B. Forrester, Richard Hooker, cit., p. 87.

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Quanto alla volontà di inclusione, i platonici cantabrigensi furono i successori di Hooker, il quale

aveva stabilito l’autorità della Chiesa sui pilastri della Scrittura, della Tradizione e della ragione.

Con riferimento alla Chiesa istituzione, essa era da difendere ad avviso di Hooker non a partire

dalla sua esistenza, ma perché era in se stessa un bene, un ordine razionale di governo, fondato

sulla ragione divina ed espresso nella coscienza nazionale73, e in questo senso essa poteva vantare

un diritto divino. Tuttavia la chiesa restava per il teologo «a spiritual order, capable of diverse

forms, and tolerantly comprehensive of all Christian gifts and activities»74.

Ad Hooker, del resto, si doveva quel fecondo incontro tra ragione e rivelazione che i platonici

porranno al centro del loro impegno intellettuale: una ragione che interpella, ed interpreta, la

Scrittura e le leggi di natura che Dio ha stabilito; una rivelazione non autosufficiente e non in

contraddizione con la ragione75. Un’ispirazione evidente in un testo la cui principale caratteristica

era una «elevated calmness of luminous and reasonable thought»76.

L’intento polemico dell’opera di Hooker non ha tuttavia impedito che venisse considerata «la

prima grande opera filosofica e teologica scritta in lingua inglese»77 e un monumento ai princìpi

più alti del razionalismo cristiano78, né ha oscurato il suo valore agli occhi dei posteri.

L’Hooker era il filosofo dei realisti e il teologo degli anglicani: Giacomo I lo aveva esaltato sugli altri, Carlo I l’aveva raccomandato al figlio, il futuro Carlo II, come un autore da posporre soltanto alla Bibbia, Giacomo II riconosceva di dovergli la sua conversione al cattolicesimo. I realisti cercavano in ogni pagina della sua Politica ecclesiastica una conferma alle loro idee politiche79.

Il fondamento metafisico del pensiero di Hooker, nel quale sono presenti molti dei princìpi

fondamentali del giusnaturalismo, come «l’uguaglianza naturale tra gli uomini, la preminenza della

volontà individuale nella costituzione del corpo politico e i diritti originali e inviolabili di

questo»80, è largamente debitore – come si accennava - al pensiero di Tommaso d’Aquino (e, prima

di lui, ad Aristotele): si pensi al riferimento ad una legge naturale, al presupposto di uno stato di

natura originario, all’armonia tra ordine naturale e soprannaturale (e dunque tra ragione e fede) o

alla società politica come luogo per il perseguimento del bene comune81.

73 Cfr. RT, I, p. 52. 74 Ivi, p. 52. 75 Cfr. G. P. H. Pawson, The Cambridge Platonists and Their Place in Religious Thought, Burt Franklin Reprints, New York 1974, pp. 13-14. 76 RT, I, p. 53. 77 D. B. Forrester, Richard Hooker, cit., p. 88. 78 Cfr. RT, I, p. 53. 79 L. Pareyson, Introduzione, Due Trattati, p. 16. 80 A. Passerin d’Entrèves, La teoria del diritto e della politica in Inghilterra all’inizio dell’età moderna, cit., p. 271. 81 Cfr. S. Tommaso d'Aquino, De Regimine Principum, I, I e X; ed. cit. pp. 87-94; 126-132.

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Tale debito si esprime nell’Hooker in primo luogo nella concezione di un mondo nel quale ogni

cosa tende ad un fine, che a propria volta costituisce un mezzo per un altro fine, e dove Dio,

Sommo Bene, è il fine ultimo82. Dalla legge che Egli stabilisce, la legge eterna, derivano secondo

Hooker tutte le altre, ed essa è ragionevole dal momento che la ragione è propria di Dio. Hooker

teorizza quindi una legge naturale suggerita dalla ragione83: in questo senso la morale è immutabile,

poiché fondata su una Natural Law, opposta ad una Positive Law.

La legge naturale, secondo il teologo elisabettiano, costituisce a propria volta il fondamento delle

leggi morali e politiche:

Il diritto naturale non è altro per Hooker che il principio di ragione: ritorna, con lui, la concezione tradizionale e la visione gerarchica in cui natura e sopra-natura, ragione e rivelazione, non si contrappongono ma si armonizzano in un trapasso graduale: “gratia non tollit naturam, sed perficit” 84.

Hooker muoveva da un’analisi dei princìpi essenziali e fondamentali di governo: posto che le leggi

divine sono la sola guida immutabile per gli uomini nella disposizione della chiesa, esse non sono

divine solo perché fondate sulle Scritture. Tutta la legge è nondimeno divina, in quanto

espressione della legge originale – o di ragione – dell’universo. Non era rilevante se tale legge era

rivelata dalle Scritture oppure rintracciabile nella costituzione razionale della natura umana.

Secondo Tulloch, era proprio tale unità di natura, vita e Scrittura – tutte egualmente vere e

manifestazioni della divina volontà – a costituire il fondamento della riflessione del teologo

anglicano85.

Mentre la legge celeste è riferita agli angeli, la legge naturale riguarda tutto il creato, ed in

quanto legge di ragione vincola tutte le creature razionali86, soggette inoltre alla legge divina

conosciuta attraverso la rivelazione. Ma tutte le leggi alle quali l’uomo è soggetto derivano dalla

legge eterna, e sono pertanto leggi divine, con la differenza che «in alcuni casi l’autorità di

82 «Iddio soltanto adunque è quello che può quietare l' umano desiderio, renderlo beato e rappresentare conveniente premio al re. Di più l'anima umana è conoscitrice dell'universal bene per mezzo dell'intelletto, e desiderativa (di esso) per mezzo della volontà. Ma l'universal bene non si trova se non in Dio; nulla adunque, se non Dio, può far beato l'uomo soddisfacendo appieno le sue ispirazioni. […] In questo adunque (nell'ultima felicità: Dio) il re deve far consistere il premio suo». S. Tommaso d’Aquino, De Regimine Principum, I, VIII, cit., p. 120. 83 Cfr. Of the Laws of Ecclesiastical Polity, ed. cit., in part. I, II, 1 [p. 200]; I, III, 1- 2 [pp. 204-207]; I, VIII, 7-9 [pp. 230-234]; I, X, 8 [pp. 245-246]. Sulla legge di natura nella riflessione di Hooker si veda: W. J. Torrance Kirby, Richard Hooker's Theory of Natural Law in the Context of Reformation Theology, in «The Sixteenth Century Journal», 30(1999), pp. 681 – 703. 84 A. Passerin d’Entrèves, La teoria del diritto e della politica in Inghilterra all’inizio dell’età moderna, cit., pp. 269-70. 85 Cfr. RT, I, pp. 51-52. 86 Of the Laws of Ecclesiastical Polity, I, III, 1-2 [pp. 204-207]; I, XVI, 5 [pp. 280-282].

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esercitarle viene delegata da Dio agli uomini o alle società, mentre in altri Dio Stesso è sia il

legislatore che l’amministratore della legge» 87 .

L’uomo, organismo fisico e creatura intelligente, appartiene per Hooker ad entrambi gli ordini

naturale e sovrannaturale, sebbene il riconoscimento di una corruzione relativa alla volontà, e non

alla ragione, costituisse la principale differenza tra il teologo Hooker e i luterani, e consentiva al

primo di affermare che seguendo la ragione l’uomo si conforma al comando di Dio e adempie ai

propri doveri, naturali e spirituali.

È la volontà umana, e non la ragione, ad essere corrotta dal peccato, poiché la ragione ambisce chiaramente ad una perfezione che l’uomo, dopo la caduta, si trova nell’impossibilità di raggiungere da solo 88.

Mentre nell’ambito naturale l’uomo conosce per mezzo della ragione i propri doveri, in quello

spirituale ha bisogno della Scrittura, dal momento che in seguito alla Caduta il peccato ha

compromesso le facoltà umane89. La ragione è dunque indispensabile all’uomo per conoscere i

propri doveri: nell’ambito morale, in quello politico e anche negli affari ecclesiastici90. In tal senso,

oltre al riconoscimento di una complementarità tra ordine naturale e sovrannaturale, come pure

tra ragione e fede91 - complementarità che ritroveremo nella scuola platonica di Cambridge e nel

Locke della Ragionevolezza, e che costituirà la maggiore lezione per il filosofo whig92 -, Hooker

relativizza l’autorità assoluta che i Puritani attribuivano alla Scrittura93. Anche Locke affermerà

con chiarezza la necessità, in ambito politico, dell’uso della ragione e non del ricorso alle Sacre

Scritture94. La derivazione di tutte le leggi da quella divina, inoltre, consentiva a Hooker di

adottare questa come paradigma tanto nella stesura quanto nella modifica di una legislazione

87 D. B. Forrester, Richard Hooker, cit., p. 90. 88 Ivi, p. 89. 89 Cfr. Of the Laws of Ecclesiastical Polity, I, X, 4- 5 [pp. 241-44] ; I, X, 10 [pp. 248-49]. 90 Cfr. ivi, I,,,, III, 1 [pp. 204-205]; I, VIII, 1-11 [pp. 225-236]; I, X, 10 [pp. 248-49]; I, XVI, 1 [pp. 277-278]; III, IX, 1- 3 [pp. 380 – 384]. 91 Esplicito qui il richiamo a Tommaso e all’armonia tra valori umani e soprannaturali. Cfr. A. Passarin d’Entrèves, Il pensiero politico di San Tommaso, in Id., Saggi di storia del pensiero politico, cit., pp. 41 – 61. 92 «As a Christian he [Locke] believed in a God who was the source of moral laws for his creatures that were evident both from reason and revelation. Natural law and the Bible taught that human beings were obliged to respect each other as “sharing all in one community of nature” (T2, 6), to recognize that there are moral constraints and social obligations that limit the pursuit of wealth, to worship God in accordance with their consciences, and to take care that the pursuit of worldly pleasures did not jeopardize their eternal salvation». P. Sigmund, Jeremy Waldron and the Religious Turn in Locke Scholarship, in «The Review of Politics », 67 (2005), p. 408. 93 Cfr. L. W. Gibbs, Richard Hooker's via Media Doctrine of Scripture and Tradition, in «The Harvard Theological Review», 95 (2002), pp. 227-235. 94 «A lot of what Locke says in the First Treatise as in the Paraphrase and Notes on the Epistles of St. Paul is that scripture has very little to offer us on the issue of appropriate political arrangements. […] Locke is not saying that scripture misleads us or points us in an inappropriate direction. Instead he says that in this matter, we have to think for ourselves (which includes thinking for ourselves about God’s business with us)». J. Waldron, Response to Critics, in «The Review of Politics», 67 (2005), p. 506.

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civile, senza tuttavia impedirgli di riconoscere alcuni ambiti indifferenti, soggetti quindi alla sola

legislazione umana95.

La medesima complementarità che sussiste tra fede e ragione Hooker la ravvisa inoltre tra

Chiesa e Stato, sebbene si discosti da Tommaso per avvicinarsi a Lutero quando afferma che nella

prima la sovranità appartiene ai suoi componenti e non al Papa o alla gerarchia ecclesiastica:

La Chiesa è complementare allo Stato, e insieme ad esso guida l’uomo verso il suo destino soprannaturale. Lo Stato si preoccupa che l’uomo viva bene e questo implica necessariamente un’attenzione per la Chiesa e per la vera religione96.

Hooker affronta quindi il tema del consenso, collegato a quello dell’uguaglianza tra gli uomini e

alla loro tendenza a vivere in società97. Il potere politico deriva per Hooker da un accordo tra gli

uomini, i quali da soli non possono soddisfare i propri bisogni e danno perciò vita alla società

civile, sebbene la sua dottrina a tal proposito non si sviluppi nei termini di un contratto vero e

proprio ma piuttosto in quelli di un reciproco impegno che giustifica razionalmente l’obbligazione

politica e giuridica: «Se il diritto naturale o razionale è il fondamento e il limite del diritto positivo,

la condizione razionale della validità di questo e di qualsiasi legittima autorità è, per Hooker, il

consenso dei consociati»98.

La questione politica è sviluppata da Hooker in assenza del concetto di contratto, a parziale

differenza per esempio di Locke99: la società ha bisogno di un governo e questo sorge in seguito ad

un accordo100. Da questa prospettiva il governo è la condizione per il perseguimento della

perfezione da parte dell’uomo, che culmina nel soprannaturale. Hooker finisce così per tenere

insieme, in modo originale, la concezione tomista e quella luterana, quando afferma che i

governanti sono luogotenenti di Dio e la loro autorità rappresenta quella divina, offrendo una

95 Si tratta di un aspetto particolarmente importante per Locke, come si vedrà. Nel Saggio sulla Tolleranza del 1667 viene stabilita una distinzione tra cose che riguardano la società e cose che non la riguardano, al fine di garantire l’autorità del governo e al medesimo tempo uno spazio di autonomia per i singoli e le comunità. Mentre negli Scritti giovanili sul magistrato (1660-1662) Locke negava la separazione tra ambito civile e ambito religioso, pur distinguendo una sfera dell’interiorità (inaccessibile) da una dell’esteriorità (sottoposta all’autorità del magistrato), nel Saggio sulla Tolleranza la distinzione tra cose indifferenti civili e cose indifferenti religiose è riconducile alla distinzione tra sfera del pubblico e sfera del privato, e più in generale tra interessi sociali e interessi privati. Al magistrato sono sottratte le opinioni speculative in materia religiosa e le circostanze del culto, come pure le forme del culto, purché non in contrasto con la pace pubblica, unico criterio dell’azione del magistrato. Cfr. ST, pp. 91 – 95. 96 D. B. Forrester, Richard Hooker, cit., p. 94. 97 Cfr. Of the Laws of Ecclesiastical Polity, I, VIII, 3 [pp. 226 – 228]; I, X, 4 e 9 [pp. 241- 243; 246-248]. 98 A. Passerin d’Entrèves, La teoria del diritto e della politica in Inghilterra all’inizio dell’età moderna, cit., p. 270. 99 Cfr. A. Passerin d’Entrèves, Hooker e Locke, cit., p. 308. 100 «To take away all such mutual grievances, injuries, and wrongs, there was no way but only by growing unto composition and agreement amongst themselves, by ordaining some kind of government public, and by yielding themselves subject thereunto; that unto whom they granted authority to rule and govern, by them the peace, tranquillity, and happy estate of the rest might be procured». Of the Laws of Ecclesiastical Polity, I, X, 4 [pp. 241-242].

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originale concezione della monarchia cha collegava il diritto divino dei re e il moderno

contrattualismo101. Attraverso una tale soluzione era possibile salvaguardare il carattere sacro

dell’autorità e, allo stesso tempo, assicurare un fondamento razionale al governo civile. Questo

sorge, nella concezione di Hooker, sia per reprimere il male e dirimere i conflitti102, sia per la

ricerca del Sommum Bonum103.

Inoltre il teologo anglicano prende posizione a favore della tolleranza religiosa. Favorevole

all’Atto di Supremazia104, Hooker riteneva che il compito delle autorità civili fosse prima di tutto la

conservazione dell’ordine sociale, così da scongiurare il conflitto tra sette e fazioni contrapposte, e

a tal fine una politica di tolleranza appariva come prudente soluzione105. Ad una separazione

perpetua tra la Chiesa e lo Stato, Hooker replicava con la loro unione necessaria, dal momento che

gli uomini appartengono ad entrambe le collettività, e contro i separatisti ammetteva che il titolo

di capo della Chiesa si potesse attribuire, se correttamente compreso, anche al sovrano.

Nel pensiero di Hooker, la cui opera «era in realtà essenzialmente una difesa della ragionevolezza

contro ogni forma di rigido e intollerante dogmatismo»106, troviamo così affrontate e risolte alcune

importanti questioni riprese in seguito dai migliori esponenti del pensiero liberale e

democratico107. Locke «non doveva quindi riprodurre storicamente il pensiero di Hooker, ma

raccoglierne nuovamente gli elementi vitali e fissarli alla luce di quanto era accaduto nel secolo

d'intervallo»108.

Locke nei Due Trattati sul governo civile ricorre in modo esplicito e più volte al “giudizioso”

Hooker, attraverso lunghe citazioni, «quasi gli premesse di corroborare dell’autorità di quell’oscuro

teologo i punti più salienti della sua dottrina politica, e precisamente quel complesso di idee e di

dottrine che si possono raggruppare intorno alla teoria del contratto sociale»109.

101 Cfr. Of the Laws of Ecclesiastical Polity, I, X, 8-9 [pp. 245- 248] ; I, XV, 2-3 [pp. 273-75] . 102 Un ulteriore aspetto in comune con Locke, ribadito sia nel Saggio sulla Tolleranza (cfr. ST, pp. 89 – 90) sia nel Secondo Trattato. 103 Di nuovo il riferimento è all’Aquinate, La Somma teologica, I-VI: «perciò ogni legge è ordinata al bene comune» (I – II, q. XC, a. 2), ESD, Bologna 1996, II, p. 703; «La legge in senso proprio, primario e principale dice ordine al bene comune. Ora, indirizzare una cosa al bene comune spetta o a tutto il popolo o a chi ne fa le veci. Perciò fare le leggi spetta o all'intero popolo o alla persona pubblica che ha cura di esso» (I – II, q. XC, a. 3), cit., II, p. 704. Si veda anche II – II, XXXI, a. 3, ad. 2, cit., III, p. 267. 104 Si tratta dell’Elizabethan Settlement (1558) con cui il sovrano si dichiarava capo supremo della Chiesa di Inghilterra. 105 Cfr. A. S. McGrade, The Public and the Religious in Hooker's "Polity", in «Church History», 37(1968), pp . 404 – 422. 106 A. Passerin d’Entrèves, Hooker e Locke, cit., p. 304. 107 Cfr. A. Passerin d’Entrèves, Hooker e Locke, cit., pp. 301 – 324; F. Pollock, Introduzione alla storia della scienza politica, Fratelli Bocca, Torino 1923, pp. 98 – 110. 108 G. H. Sabine, Storia delle dottrine politiche, cit., p. 421. In una lettera a Richard King del 25 agosto 1703 Locke spiega che per acquisire un concetto esatto di legge in generale occorreva studiare a fondo il primo libro della Ecclesiastical Polity del giudizioso Hooker. Cfr. Corr., n. 3328, VIII, pp. 56-59. Cfr. anche Some Thoughts concerning Reading and Study for a Gentleman, in The Educational Writings of John Locke, cit., p. 400. 109 A. Passerin d’Entrèves, Hooker e Locke, cit., p. 302.

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Come ha osservato Viano, quelle di Locke

erano idee che ispiravano una parte dell’alto clero anglicano e che risalivano a Hooker. Questi aveva visto nella legge il fondamento di ogni società e di ogni potere e nella legge divina il fondamento del potere ecclesiastico e della chiesa come società religiosa. Hooker aveva in qualche modo cercato di trasferire alla chiesa protestante inglese i titoli di legittimità che il diritto canonico aveva escogitato per la chiesa cattolica110.

Diversi studiosi hanno posto in risalto quest’affinità con Hooker111. Passerin d’Entrèves ha colto

nell’opera di quest’ultimo «un’erudizione profonda e un dominio sicuro del pensiero classico e

cristiano, uno spirito di moderazione rifuggente dalle tesi estreme, che in ogni questione di

sforzava di seguire quella via media che divenne poi l’ideale e il simbolo dell’anglicanesimo, infine

nei problemi politici, un mirabile senso della possibilità di conciliare le necessità contingenti con

l’immutabilità dei principi»112.

La dottrina del teologo anglicano – sostenitore di una monarchia temperata dalla legge – una

volta assunti come presupposti del diritto naturale la libertà e l’uguaglianza naturale degli uomini,

insieme all’esistenza di uno stato di natura113, si sviluppava attraverso una teoria della sovranità

popolare e dell’autorità della legge superiore a tutti.

Ai medesimi argomenti farà riferimento nei Due Trattati anche Locke, per il quale si trattava «di

sostituire al concetto della monarchia assoluta, propugnata dagli Stuart, il concetto della

monarchia temperata dalla legge, sostenuto dai parlamentari e dal partito whig»114. Rivendicare

l’uguaglianza e la libertà naturale degli uomini diventava premessa centrale da cui far discendere la

sovranità popolare e la monarchia mista o limitata. Dall’Hooker, pertanto, Locke «si accinge a

trarre non tanto i motivi polemici da opporre al Filmer e quindi ai realisti, quanto piuttosto la

dottrina con cui fondare e giustificare i princìpi della rivoluzione dell’88 e della politica del partito

whig»115.

110 C. A. Viano, Introduzione, Saggio, p. IX. 111 Cfr. A. Carlini, La filosofia di Giovanni Locke, I-II, Vallecchi, Firenze 1920-21, II, pp. 148 – 149; F. Pollock, Introduzione alla storia della scienza politica, cit., pp. 98 ss.; G. Solari, Il fondamento naturale del diritto successorio in Giovanni Locke, in «Atti della Regia Accademia delle Scienze di Torino», 59 (1923-24), pp. 745-774, ora in Id., La filosofia politica, I-II, a c. di L. Firpo, Laterza, Bari 1974, I, pp. 255-256 (n. 5). 112 A. Passerin d’Entrèves, Hooker e Locke, cit., p. 304. 113 L’Aquinate nella Somma Teologica parla dello stato primitivo (o di innocenza) nel quale l'uomo non aveva un dominio sugli angeli ma dominava con i suoi comandi sugli altri animali, cioè sulle creature non fatte ad immagine di Dio, e sulle piante e sugli esseri inanimati; cfr. La Somma Teologica, I, qq. 96- 97, ed. cit., I, pp. 866-877. 114 L. Pareyson, Introduzione, Due Trattati, p. 30. 115 Ivi, p. 17.

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Nel Secondo Trattato si trovano sedici citazioni di Hooker e una spiegazione del suo ricorso

all’opera del teologo116.

Dopo un riferimento all’uguaglianza tratto dal primo capitolo di Ecclesiastical Polity (VIII, 7)117,

Locke si sofferma sullo stato di natura, e a proposito della sua esistenza cita di nuovo Hooker

quando afferma che le leggi di natura obbligano gli uomini in quanto uomini «anche quando non

abbiano né società stabilita né accordo solenne tra di loro sul da fare o da non fare» e che «per

sopperire a quelle deficienze e imperfezioni che sono in noi quando viviamo singolarmente e

isolatamente per noi stessi, siamo naturalmente spinti a cercare la comunità e la società con

altri»118. Locke aggiunge, subito dopo, che da tale stato si esce sino a che per consenso non si

diventa membri di una società politica. Qui Locke segue la tradizione che collega l’Aquinate119 a

Hooker120 e attraversa il pensiero dei tomisti del Cinquecento.

Il filosofo torna a citare di nuovo Hooker nel Secondo Trattato, in riferimento al potere paterno

sulla prole121 e, successivamente, a proposito della società politica o civile122. Per Locke, come per

Hooker, per porre termine ai danni inevitabili dello stato di natura gli uomini si accordano dando

origine alla società politica; è dunque il consenso, per entrambi, il titolo giustificativo del governo

civile123.

Inoltre, «a coronamento dell’edificio, posta l’origine e la giustificazione del potere politico, il

Locke trae dall’Hooker la dottrina dei fini e dei limiti di tale potere: che consistono nel bene

comune della società e nei dettami della legge di natura identica alla volontà di Dio, la cui assoluta

validità e priorità è affermata con espresso riferimento all’Hooker»124.

116 Locke al termine dello scritto cita un difensore della monarchia assoluta come Barclay, il quale considerava causa sufficiente di resistenza la negligenza del pubblico bene, e Thomas Bilson, vescovo anglicano, circa la possibile perdita del potere e del diritto all’obbedienza dei sudditi da parte dei prìncipi. Dopo aver citato anche Bracton e Fortescue, egli cita Hooker contro coloro che, nel tentativo di dimostrare il diritto divino, «fondandosi su di lui per la loro politica ecclesiastica, sono portati da uno strano destino a negare quei princìpi su cui egli la fonda». Cfr. T2, 239; p. 409. 117 Cfr. T2, 5. 118 T2, 15; pp. 238 -39. 119 Cfr. S. Tommaso d’Aquino, La Somma teologica, I –II, q. 90, a.3, cit., II, p. 704; II –II , q. 57, a. 2, ed. cit., III, pp. 446 – 448. 120 Cfr. Of the Laws of Ecclesiastical Polity, I, X, 4, 8 –9 [pp. 241- 243; 245-248]. 121 Nel passo di Ecclesiastical Polity (I, X, 4), citato da Locke, Hooker fa riferimento ad Aristotele circa la tesi secondo cui la persona principale in ogni famiglia era sempre, per così dire, un re. Cfr. T2, 74 ; pp. 278-79. 122 Locke ha appena affermato che la monarchia assoluta non può essere una forma di governo civile. Contro la dottrina della monarchia assoluta, avanzata da Filmer e da Hobbes, egli cita Hooker (I, XVI,5) che riflette su Romani XIII,1, brano solitamente utilizzato dai sostenitori dell’obbedienza passiva all’autorità costituita. Hooker intende sostenere invece l’autorità assoluta della legge che è superiore a tutti (“e ad ogni anima contenuta nella società stessa”) e alla quale occorre obbedire, a meno che essa si opponga alla legge di ragione o legge di Dio. In tal senso Locke contrappone tale condizione a quella dello stato di natura, dove ciascuno è giudice della propria causa e non trova un’autorità cui appellarsi. Cfr. T2, 91; pp. 289- 90. 123 Cfr. Of the Laws of Ecclesiastical Polity, I, X, 4 [pp. 241- 243]; T2, 91. 124 A. Passerin d’Entrèves, Hooker e Locke, cit., p. 305.

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Locke utilizza il termine “stato di natura”, assente invece in Hooker (e che egli invece inserisce –

caso unico, correggendo il testo originale del teologo125), per indicare lo stato in cui vivono gli

uomini in assenza di un governo costituito e di società politica126. Da tale affermazione, volta a

«significare l’assoluta priorità e indipendenza logica del diritto di fronte allo stato»127, segue - in

contrapposizione alla naturalità aristotelica della vita politica - il carattere convenzionale delle

istituzioni politiche, che è «il risultato del contrasto fra queste e un’ipotetica condizione originaria,

lo “stato di natura”»128.

Locke spiega che in una tale condizione ci si può trovare anche quando un principe accentri

tanto il potere legislativo che esecutivo e non sia possibile appellarsi ad alcuno, né ottenere

riparazione, per le sue decisioni. Coloro che gli sono subordinati sono esposti «a tutte le miserie e a

tutti i danni che si possono temere da un uomo che, già trovandosi in un illimitato stato di natura,

è per di più corrotto dall’adulazione e armato di potere»129. Di nuovo Locke ricorre a Hooker, il

quale descrive come soluzione un governo pubblico «in modo che da coloro, a cui avevano ceduto

l’autorità di reggere e governare, fosse procurata la pace, la tranquillità e la felicità di tutti gli altri.

[…] e perciò le contese e i disordini sarebbero stati senza fine, se non davano il loro comune

consenso a che tutto fosse regolato da alcune persone su cui si dovessero accordare, senza il quale

consenso non ci sarebbe ragione di tentare d’esser signore o giudice di un altro»130.

Locke evoca Hooker anche a proposito della superiorità o inferiorità del principe rispetto alle

leggi131 e nel riaffermare che «il governo non ha altro fine che la conservazione della proprietà»132;

a sostegno di tale posizione viene citato un brano di Hooker, secondo il quale è la stessa legge di

natura a rendere necessario un governo, essendo gli uomini liberi di sceglierne le modalità:

In principio, quando fu stabilito una certa specie di governo, può darsi che null’altro si pensasse sulla forma di governo, se non che permetter tutto alla saggezza e alla prudenza di coloro che dovevano governare, sino a che per esperienza non s’accorsero che ciò portava, per tutti, gravi inconvenienti, e che ciò, ch’essi avevano stabilito come rimedio, in realtà non faceva che accrescere i mali che avrebbe dovuto curare. Videro che vivere secondo la volontà di un solo uomo era la causa di tutte le miserie umane. Ciò li costrinse a istituire leggi in cui tutti potessero anticipatamente vedere il loro dovere, e conoscere le penalità per le trasgressioni di esse133.

125 Cfr. T2, 91. 126 La dottrina dello stato di natura fu ufficialmente condannata dalla Chiesa anglicana pochi anni dopo la morte di Hooker, insieme alla proposizione dell’originaria derivazione del potere dal popolo. Cfr. A. Passerin d’Entrèves, Hooker e Locke, cit., p. 319, nota 48. 127 A. Passerin d’Entrèves, Hooker e Locke, cit., p. 307. 128 Ibid. 129 T2, 91; p. 292. 130 Cfr. Of the Laws of Ecclesiastical Polity, I, X, 4 [pp. 241-243]; trad. it. in T2, 91; pp. 291-292. 131 Cfr. T2, 94. 132 T2, 94; p. 295. 133 Cfr. Of the Laws of Ecclesiastical Polity, I, X, 5 [pp. 243-244]; trad. it. in T2, 94; pp. 295-296.

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Locke torna in seguito a citare il medesimo passo di Ecclesiastical Polity a proposito dell’origine

delle società politiche134, con riferimento alla corruzione della natura umana che condusse ad

accrescere il potere, e nell’undicesimo capitolo del Secondo Trattato con riferimento all’estensione

del potere legislativo135.

Dopo aver ribadito che «il fine principale dell’entrata degli uomini in società è il godimento delle

loro proprietà in pace e tranquillità», e che a tal fine i principali strumenti «sono le leggi stabilite in

quella società»136, egli spiega che il «legislativo non soltanto è il potere supremo della società

politica, ma rimane sacro e immutabile nelle mani in cui la comunità l’ha collocato»137 . Dunque,

spiega Locke, è il popolo che elegge e designa il legislativo, dal momento che attraverso di esso

esprime il proprio consenso «assolutamente necessario ed essenziale alla legge»138.

Il passo di Hooker al quale Locke si richiama è quello in cui il teologo riflette sull’autorità delle

leggi e sulla necessità, affinché queste siano valide, che siano adottate per consenso popolare:

Il potere legittimo di far leggi che comandino intere società politiche di uomini appartiene così strettamente alle intere società medesime, che quando un principe o un potentato di qualunque genere sulla terra lo eserciti per se stesso e non per espresso mandato immediatamente e personalmente ricevuto da Dio, oppure per l’autorità derivata in principio dal consenso di quelle persone a cui impongono leggi, non v’è che mera tirannide. Non sono leggi, perciò, quelle che la pubblica approvazione non abbia reso tali139.

Con queste considerazioni, il teologo anglicano conclude:

Su questo punto, perciò, dobbiamo notare che, poiché gli uomini non hanno per natura un pieno e perfetto potere di comandare intere moltitudini politiche di uomini, perciò, se non abbiamo affatto dato il nostro consenso, possiamo in tal caso vivere senz’esser sottomessi al comando di alcuno. E consentiamo ad esser comandati quando quella società di cui facciamo parte, ha, tempo prima, dato il proprio consenso, senza revocarlo, con un accordo altrettanto universale140.

Locke osserva che la legge di natura continua a sussistere e ad essere valida anche dopo la

formazione della società politica, e questo «per tutti gli uomini, sia per i legislatori che per gli

altri»141. Egli indica così il criterio di riferimento per tutte le norme umane:

Le norme che i legislatori fanno per le azioni degli altri debbono […] esser conformi alla legge di natura, cioè a dire alla volontà di Dio di cui quella è manifestazione, e, poiché la fondamentale legge di natura è la conservazione del genere umano, non c’è sanzione umana che possa esser buona o valida contro di essa142.

134 T2, 111. 135 T2, 134. 136 T2, 134, p. 326. 137Ibid. 138 Ibid. 139Cfr. Of the Laws of Ecclesiastical Polity, I, X, 8 [pp. 245-246]; trad. it. in T2, 134; p. 326. 140 Ibid. [p. 246]; trad. it. in T2, 134; pp. 326-327. 141 T2, 135, p. 329.

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Nel paragrafo successivo viene nuovamente citato Hooker143, il quale si richiama a san Tommaso

d’Aquino che, riflettendo sulle leggi umane, le definiva “misure”144. Nel passo del teologo

anglicano, ripreso da Locke, si legge:

Le leggi umane sono misure che riguardano gli uomini, le cui azioni debbono venir guidate da esse, sebbene queste misure siano tali che hanno più alte norme a cui commisurarsi, le quali norme sono due: la legge di Dio e la legge di natura, così che le leggi umane debbono esser fatte in conformità delle leggi generali di natura e senza contraddire ad alcuna legge positiva della scrittura, altrimenti non sono ben fatte 145.

Locke evoca Hooker, e attraverso di lui Tommaso, anche allo scopo di spiegare meglio l’origine

della società civile e la necessità di un’uscita dallo stato di natura146. Finché ciascuno è giudice della

propria causa, anche se ha il diritto dalla propria parte, non ha la forza sufficiente per difendersi

dalle offese e punire i delinquenti. Solo riunendosi gli uomini riescono ad «avere la forza unita

dell’intera società a garantire e difendere la loro proprietà, e norme fisse per definirle, in modo che

ognuno sappia qual è la sua»147.

In conclusione, Locke si appella al teologo inglese per gli aspetti che riguardano in particolare

l’origine e lo scopo della società politica, la condizione dello “stato di natura”, l’origine

convenzionale del governo, come pure per l’esistenza di una legge di natura che non perde la sua

forza, ma continua ad esser valida, nella società civile, ricevendo anzi la forza coattiva della legge.

Come ha osservato Pareyson, si tratta di princìpi che Locke accoglie «indirettamente dalla

tradizione democratica del XVI secolo, o piuttosto dalla rettificazione scolastica e tomistica

apportata alla concezione aristotelica dell’ineguaglianza naturale e della naturalità dello stato»148.

142 Ibid. 143 T2, 136, p. 330. 144 «La legge è una regola o misura dell'agire […]: “legge” infatti deriva da legare , poiché obbliga ad agire». S. Tommaso d’Aquino, La Somma teologica, I - II, q. 90, a.1, cit., II, p. 701. Cfr. anche q. 91, a. 3, cit., II, pp. 708-709. 145 Cfr. Of the Laws of Ecclesiastical Polity, III, IX, 2 [p. 382]; trad. it. in T2, 136; pp. 329-330. 146 «Egli [l'uomo] è infatti agente per intelletto, proprietà appunto del quale è di agire per un determinato scopo. Ma poiché capita anche agli uomini di procedere verso di esso in diverse maniere […] così è evidente che l'uomo abbia bisogno di chi lo diriga. […] Ora se all'uomo capitasse di viver da solo, come avviene a molti animali, non ci sarebbe bisogno di alcun dirigente: ciascuno sarebbe di se stesso re e signore, sottoposto soltanto al sommo Dio o re, poiché per il lume della ragione divinitus insito in lui, potrebbe da se dirigersi nelle sue operazioni. Ma l'uomo è animale politico e socievole che vive in compagnia, anche più degli altri animali, il che dimostra ed è conseguenza di una naturale necessità. […] Se adunque il viver sociale è naturale istinto nell'uomo, è necessario alcunché da cui la moltitudine sia retta. Poiché se si trovassero insieme molti uomini ciascuno dei quali si provvedesse da sé quel che gli fa comodo, la società si disgregherebbe senza uno che si prendesse cura del bene della moltitudine […]. Occorre adunque che anche in ogni moltitudine ci sia un principio reggente». S. Tommaso d’Aquino, De Regimine Principum, I, I, cit., pp. 88-91. 147 T2, 136; p. 330. 148 L. Pareyson, Introduzione, Due Trattati, p. 30.

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c)c)c)c) Il latitudinarisIl latitudinarisIl latitudinarisIl latitudinarismo inglesemo inglesemo inglesemo inglese

Nel corso del XVII secolo si verificò – come ha notato John Tulloch - un ulteriore avanzamento

nello sviluppo intellettuale e teologico della mente inglese149. Una tendenza conservatrice, nei

differenti ambiti del sapere, si confrontava con una liberal-progressista150. La prima si

caratterizzava per una rigida difesa dell’autorità, del diritto divino del re, dell’impostazione vicina

alla filosofia Scolastica in teologia e dell’intolleranza in ambito religioso151; la seconda adottava un

approccio di tipo critico e razionalista nei confronti dell’autorità, della Scolastica e della tradizione,

nel nome della libertà di pensiero e della libera ricerca.

L’Inghilterra, pur non conoscendo ancora una compiuta libertà di pensiero, si presentava come

un luogo di libertà al confronto di altri Paesi, dove poteva sorgere una comunità di studio come la

Royal Society152. Anche se nella teologia persistevano tendenze conservatrici, e in filosofia le

nuove correnti di pensiero lottavano con la tradizionale impostazione di origine medioevale, i

princìpi del Rinascimento e della Riforma andavano ormai affermandosi.

Nelle università l’aristotelismo costituiva ancora il fondamento della teologia, della filosofia e

della scienza, ma l’autorità di Aristotele andava attenuandosi. Un nuovo capitolo si era aperto con

la filosofia di Bacon nella storia del pensiero: il concetto di natura cominciava a sostiuirsi alle

spiegazioni soprannaturali dei fenomeni e alla volontà divina.

Una severa opposizione all’entusiasmo religioso153, nella seconda metà del secolo, si accompagnò

ad un atteggiamento razionalista che tuttavia non si caratterizzò per l’abbandono del fervore

religioso: il XVII secolo restava, nonostante tutto, un’epoca di grande fede. Anche chi si dedicava

149 Cfr. RT, II, p. 1. 150 Cfr. RED, pp. 37 – 39. 151 Ivi, p. 39. 152 I soci fondatori della Royal Society, sorta il 28 novembre 1660, erano dodici e appartenenti in misura paritetica ad entrambi gli schieramenti della Guerra civile, tra i quali il reverendo John Wilkins, Robert Boyle, sir Paul Neile e William Petty. Christopher Wren scrisse il preambolo dell’atto costitutivo della Società, inserendo tra i suoi scopi quello di definire teorie filosofiche corrette con le quali servire la corona. La denominazione Royal indicava che l’Associazione era posta sotto il patrocinio di questa, così da restare immune da interferenze di altri poteri statali e godere di privilegi, come quello di stampare liberamente le proprie pubblicazioni senza temere censure e di intrattenere contatti con l’estero. Scopo principale dell’Accademia era quello di promuovere, finanziare e diffondere la ricerca e gli studi scientifici. Cfr. D. McKie, The Origins and foundation of the Royal Society of London, in «Notes and Records of the Royal Society of London», 15 (1960), pp. 1 – 37; E. Pennetta, Inchiesta sul darwinismo, Cantagalli, Siena 2011, pp. 24-26. 153 Anche Locke, nel capitolo XIX del IV libro del Saggio sull’intelletto umano, dichiara la sua opposizione all’entusiasmo descrivendolo come quell’atteggiamento che «lasciando da parte la ragione, vorrebbe stabilire la rivelazione senza di essa» e che al posto di ragione e rivelazione «mette le fantasie infondate del cervello, e le assume come fondamento sia dell’opinione che della condotta». Saggio, IV, XIX, 3; p. 794.

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al conseguimento di scoperte scientifiche si preoccupava di una conformità con le credenze

religiose ufficiali. Gli esponenti della scienza ufficiale erano credenti convinti che la propria fede

uscisse fortificata dalle loro scoperte154 e che l’umana ragione fosse incomprensibile in assenza di

una Ragione creatrice155. Ad essere in gioco era, appunto, la realtà di Dio156.

La “nuova scienza” rifiutava il procedimento di deduzione a partire da presupposti, anche se

plausibili o prestigiosi, nella convinzione che nessuna ricerca potesse prescindere dall’osservazione

e dall’applicazione. E dal momento che in nessuna area la discussione era diventata astratta quanto

nella teologia, questa cominciava a risentire di un certo discredito 157.

L'arminianesimo, movimento promosso da Giacomo Hermansz (Arminio) rappresentò in questo

senso una istanza di ulteriore rinnovamento nell’ambito della diffusione della Riforma.

Approfondendo la questione della predestinazione, la corrente arminiana aveva formulato tesi

contrapposte a quelle del calvinismo ortodosso, dalle quali derivò una controversia anche di

carattere politico. Calvino aveva proposto allo scenario europeo del secolo XVI, dalla sua città-

chiesa di Ginevra, il modello di un governo di tipo teocratico, dove società civile e società religiosa

si identificavano. Nonostante la condanna delle dottrine di Arminio da parte del Sinodo di Dort158,

154 «The issue of religion in seventeenth-century England can be analyzed in two parts. One of these is more properly the provenance of theology and concerns the related topics of doctrinal investigation, scriptural exegesis and interpretation. The other concerns the place of religion in the commonwealth and for that reason is more properly a political concern. These parts-theology and politics-are not, however, mutually exclusive; Scriptural interpretation had obvious political implications, and it was as much the issue of religious authority as it was the issue of doctrine that separated Anglican and Puritan». S. State, Hobbes and Hooker; Politics and Religion: A Note on the Structuring of Leviathan, in «Canadian Journal of Political Science / Revue canadienne de science politique », 20 (1987), p. 79. 155 Cfr. PAR, p. 87. 156 Cfr. ivi, pp. 88-91. 157 Nota Tulloch: «La teologia puritana nel XVII secolo, con tutti i suoi nobili successi, era intollerante e teoretica in alto grado. Non ammetteva rivali accanto al suo trono ed [era] intollerante anche sulla più piccola variazione nel linguaggio dell'ortodossia. Enfatizzava gli aspetti trascendenti e divini della verità cristiana, inserendoli in teorie definite e coerenti, ma del tutto incuranti delle complessità della vita pratica. I teologi più giovani guardavano da un lato a questa compatta massa dottrinale, misurando il cerchio del pensiero religioso, articolato nelle sue parti, e dall'altro allo stato del mondo religioso e della Chiesa intorno a loro. […]Cominciarono a domandarsi se la ragione e moralità non fossero in realtà elementi essenziali di tutti i dogmi religiosi». RT, II, p. 12 (trad. mia). 158 Si trattava del Sinodo convocato dalla Chiesa Riformata Olandese nel 1618-1619 a Dordrecht (o Dort) al fine di comporre la controversia sollevata dall’arminianesimo nei Paesi Bassi. Questo prese a configurarsi come confessione religiosa distinta quando Arminio (1560-1609), professore presso l’università di Leida, si dedicò a contrastare il rigorismo calvinistico in Olanda. Le sue tesi - principalmente incentrate sulla predestinazione - si contrapponevano al calvinismo ortodosso. In seguito alla morte di Arminio, i discepoli pubblicarono le obiezioni alla Confessione di fede belga e all'insegnamento di Calvino in un documento del 1610 dettola "Rimostranza" (da cui l’appellativo "Rimostranti") il quale assunse i tratti di una proposta di revisione della professione della chiesa riformata olandese. I Rimostranti insegnavano che l’elezione di Dio era basata sulla previsione circa la fede di colui che avrebbe eletto, la peccaminosità parziale, la redenzione universale e la possibilità di resistere alla grazia. Il Sinodo respinse all'unanimità la Rimostranza, in risposta alla quale elaborò i cosiddetti Canoni di Dordrecht, e ribadì le tesi calviniste, con conseguente esclusione dei Rimostranti dalla chiesa riformata calvinista dei Paesi Bassi. L’ortodossia riformata riaffermava il calvinismo in cinque punti: la depravazione totale dell’uomo, l’elezione incondizionata, la redenzione limitata, la grazia irresistibile e la perseveranza dei Santi. Cfr. N. Tyacke, Anti-Calvinists: the Rise of English Arminianism c.1590-1640, Clarendon, Oxford (1987) 1991, in part. pp. 87-105; H. Trevor – Roper, Catholics, Anglicans and Puritans: Seventeenth Century Essays, Secker & Warburg, London 1987, pp. 40-119; F. Ruffini, Corso di diritto ecclesiastico italiano, cit., p. 103. Su sociniani e arminiani

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in seguito difese dal discepolo Episcopio159, queste non mancarono di riscuotere ampi consensi.

L'arminianesimo si inseriva infatti nella domanda di tolleranza del tempo.

Mentre i calvinisti vedevano nella Scrittura non una semplice guida, seppur autorevole, ma un

potere coattivo agente sulla ragione e sulla coscienza, gli arminiani insistevano nel difendere la

libertà umana intesa come libera indagine e come assenso individuale. L’insegnamento

scritturistico si presentava ai loro occhi come un’indicazione utile, la testimonianza della divinità

nel mondo, e non come un ostacolo alla libertà di ricerca del singolo160: una posizione che finiva

per avversare l’intolleranza come il dogmatismo, e per favorire l’indagine personale. Come ha

sostenuto Mario Sina, «l’arminianesimo sostenne la fallibilità dell’insegnamento ecclesiastico nelle

cose non fondamentali ed il primato della coscienza del singolo credente»161.

In Inghilterra, nel periodo successivo alla Restaurazione, due questioni erano emerse su tutte: la

questione Stato-Chiesa e quella relativa allo status delle minoranze religiose162. Dopo la parentesi

dell’Interregno la maggior parte degli Inglesi desiderava tornare alla Chiesa ufficiale, come stabilita

prima della Guerra civile, ma gli eventi successivi, come il tentativo di Giacomo II di restaurare il

cattolicesimo romano, avevano mostrato che la Chiesa nazionale presentava alcuni svantaggi163.

Due parti stavano in opposizione: i sostenitori della chiesa ufficiale e i Dissenters164. La Chiesa dei

presbiteriani doveva essere autoritaria sull'opinione religiosa come sulla pratica e non poteva

cfr. M. Firpo, Il problema della tolleranza religiosa nell’età moderna, cit., in part. pp. 138-180 e relativa ampia bibliografia. 159 Simone Episcopio fu il successore di Arminio alla cattedra di Leida. Al Sinodo di Dort partecipò come difensore ufficiale dell’arminianesimo, e nel 1625 fondò il seminario dei Rimostranti di Amsterdam, del quale fu rettore. Le sue opere di teologia vennero pubblicate dal nipote, Philip van Limborch, professore di teologia al seminario dei Rimostranti e amico carissimo di Locke, al quale questi dedicò la celebre Lettera sulla tolleranza. Cfr. D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., pp. 45 – 46; H. Kamen, Nascita della tolleranza, cit., pp. 156-157. 160 Cfr. RT, I, p. 28. 161 M. Sina, L’avvento della ragione, cit., p. 21. 162 Come ha notato Diego Marconi, riferendosi alla politica di Carlo II, «la repressione del dissenso religioso aveva prodotto alcuni risultati non del tutto soddisfacenti. Già con la Restaurazione, molti dei vecchi “rivoluzionari” erano emigrati; ad essi si aggiungevano ora i settari colpiti dai provvedimenti del 1664 (duemila furono espulsi dal regno). Questa emigrazione, forzata o volontaria, di uomini per buona parte dediti al commercio e a varie attività produttive ebbe conseguenze economiche nefaste. D’altra parte la repressione dei non anglicani non incoraggiava certamente l’immigrazione o la permanenza degli uomini d’affari stranieri, protestanti ma, ovviamente, non anglicani. […] Insomma, la repressione messa in atto aveva ottenuto il risultato […] di accrescere la presenza e quindi l’influenza economica dei dissenzienti e di aumentare la loro ostilità nei confronti dei ceti privilegiati». Id., Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., pp. 26-27. 163 Cfr. PAR, p. 132. 164 Con l’Act of Uniformity del 1662 il Parlamento aveva imposto un rigido e ristretto anglicanesimo, senza alcuna concessione ai Puritani, in materia di culto o episcopato, imponendo una severa multa sul culto nonconformista. Questa legge fu approvata in reazione alle concessioni del 1660 di Carlo II, e quando il re cercò di mitigare la legge il vescovo Sheldon, uno degli uomini più potenti in Inghilterra, convinse il Consiglio privato ad annullarlo. Questa, e le leggi successive, che costituivano il Clarendon Code, inaugurarono due decadi di persecuzione, a volte brutale. L’Act of Uniformity venne rinforzato dalle lettere che il sovrano inviò agli Arcivescovi, contenenti precise direttive riguardanti i predicatori: lo spirito dei tempi era ormai ostile alle vecchie forme di certezza dogmatica, e anche il popolo inglese era stanco degli estremismi su ogni questione. Nelle cinque occasioni in cui il sovrano cercò di usare maggiore tolleranza con

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tollerare differenze di credo165. La distinzione tra articoli di fede (o dottrine) "fondamentali" e "non

fondamentali" - elaborata principalmente da William Chillingworth e Jeremy Taylor e radicata

nella tradizione umanistica di Erasmo166 - era ritenuta una pericolosa eresia, e il principio di

latitudine (con tutte le idee essenziali sul libero pensiero sorte da esso) giudicato non cristiano.

In nessun altro posto come in Inghilterra le idee “inclusive” erano così largamente e

sistematicamente diffuse grazie agli scritti di alcuni uomini di Chiesa del XVII secolo, a propria

volta sensibili alle istanze dell’arminianesimo:

Desiderosi di pace e di una più efficace azione di fratellanza cristiana, essi seguirono una differente direzione […].

Cercarono di attenuare (ammorbidire), piuttosto che di inasprire, le distinzioni dottrinali, di trovare punti di accordo

piuttosto che punti di differenza nel prevalente circolo di opinioni religiose. Soprattutto cercarono un centro comune di

pensiero e di azione in princìpi universali di sentimento religioso, piuttosto che in astruse conclusioni di polemica

teologica167.

Inizialmente l’appellativo di Latitudinarians venne attribuito ai platonici di Cambridge ma finì per

indicare un gruppo più esteso, fino ad identificare l’indirizzo teologico dell’ultima parte del XVII

secolo in Inghilterra168.

i dissidenti fu sconfitto dal Parlamento anglicano, che attribuiva al calvinismo la distruzione della pace civile e del Book of Common Prayer. Il sovrano, per necessità politica, capitolò davanti all’anglicanesimo parlamentare. Locke aveva dunque ragione nel ritenere che l’establishment anglicano non fosse semplicemente ausiliario alla corona: piuttosto era vero il contrario. Cfr. M. Goldie, John Locke and Anglican Royalism, in «Political Studies», 31 (1983), pp. 61 – 85; ora in CA, I, pp. 151 - 180, qui 164-165. 165 Il presbiterianesimo è la denominazione del calvinismo nel mondo di lingua inglese per indicare una tra le principali Chiese protestanti. Dopo l’approvazione dei Trentanove Articoli nel 1562, John Knox guidò la separazione della Chiesa scozzese da quella anglicana, ritenuta affine al culto cattolico. Il calvinismo, ad opera del Knox, divenne così religione nazionale. L’ordinamento della Chiesa presbiteriana – che prende il nome dal governo ecclesiastico affidato agli “anziani” della comunità – aveva origine nella Chiesa ginevrina di Calvino. I presbiteriani s'identificavano con un settore del protestantesimo anglosassone, che in Scozia costituì una solida Chiesa presbiteriana, mentre in Inghilterra condivise la sorte comune alla dissidenza religiosa, nel costituire uno dei pilastri dell'opposizione calvinista alla Chiesa inglese di Stato. I presbiteriani inglesi - posti in minoranza durante il periodo di Cromwell dall'ala più radicale del puritanesimo - nel 1689 ottennero la libertà di culto con l’Atto di Tolleranza e raggiunsero un'estensione notevole soprattutto nell'America Settentrionale. 166 Si tratta della tesi principale del latitudinarismo: in ambito religioso vi sono elementi essenziali su cui l’accordo tra le diverse confessioni cristiane è unanime, ed elementi inessenziali che non avendo un riscontro diretto nelle Scritture possono essere oggetto di posizioni differenti, senza che con ciò venga compromesso il nucleo centrale della fede. Cfr. H. Kamen, Nascita della tolleranza, cit., pp. 202-205. 167 RT, II, pp. 12-13. Si veda inoltre M. Cranston, John Locke: A Biography, cit., pp. 125 ss. 168 Come ha osservato Cragg «la maggior parte dei maggiori latitudinari erano uomini di Cambridge ed erano stati allievi di Smith, Cudworth o More ed avevano sentito i sermoni di Whichcote presso la Holy Trinity Church. […] Si trattava di Tillotson, Stillingfleet e Tenison, educati a Cambridge; secondo Burnet la principale influenza nel formare il loro pensiero fu l’insegnamento e l’esempio dei platonici di Cambridge. […] Ma vi era una genialità nei platonici che i loro successori non ebbero. In Smith e Whichcote c'era una profondità che mancava a Patrick e a Stillingfleet». PAR, pp. 63-64.

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A partire dalla restaurazione del 1660, una vocazione latitudinaria si ritrova nei sermoni e negli

scritti di Simon Patrick, Edward Stillingfleet (vescovo di Worcester), John Tillotson (teologo

latitudinario e arcivescovo di Canterbury) e Benjamin Hoadly169.

I primi studi sui Latitudinarians hanno enfatizzato il radicalismo e posto l’accento sulla riluttanza

nell’affermare la natura corrotta dell’uomo170. In realtà, sebbene lontani dalle posizioni dei

puritani, i Latitudinarians lavorarono dopo la Restaurazione per colmare la frattura tra il rigido

anglicanesimo ufficiale e le posizioni dei Dissenters, continuando a sostenere il bisogno da parte

dell’uomo della grazia divina per la salvezza171. Essi seguivano Richard Hooker nel considerare

questa come l’esito di un processo di autoriforma che cominciava dalla consapevolezza del peccato

dell’uomo, e nel quale la ragione svolge un ruolo fondamentale, pur non considerandola

sufficiente, come invece per i deisti.

I teologi liberali della Restaurazione inglese andarono al di là della disputa cristiana e reintrodussero l’idea della perfezione teleologica come intesa dai greci, una perfezione realizzata dagli uomini sinonimo della signoria dell’intelletto sulle attrattive dei sensi. La teologia sembrava loro utile solo nella misura in cui rafforzava questa convinzione di base e la morale pratica divenne la somma e la sostanza, il solo vero fine della religione organizzata 172.

Nel tentativo di superare la ristrettezza teoretica che accecava entrambe le fazioni, i latitudinari

promossero una idea di Chiesa come realtà dalla natura essenzialmente spirituale, non rituale, la

cui espressione si realizzava in una varietà di fedi e di culti, piuttosto che in verità formali di credo

e di ordine. La base genuina della comunione cristiana si trovava in un comune riconoscimento

della bontà del pensiero e della vita cristiana. La professione del credo degli Apostoli era

considerata sufficiente per un’appartenenza alla Chiesa – il cui fine era la comprensione e non

l'esclusione – mentre si proponeva una formulazione del culto tale da ammettere tutti quelli che

facevano propria questa professione.

Sovente mal compresi, attaccati per la moderazione verso i Dissenters e per la pericolosa

vicinanza alle loro posizioni, i latitudinari mostrarono di saper comprendere la loro età di

169 Cfr. J. Spurr, “Latitudinarianism” and the Restoration Church , in «The Historical Journal», 31 (1988), pp. 61-82. 170 Con riferimento ai latitudinari, e in particolare a Taylor, Croft e Bury, Nuovo ha scritto: «In other doctrinal respects, on moral and anthropological issues, they accepted that the human will was not in bondage as a consequence of the Fall, that sincere moral effort was an essential condition of salvation, and that grace, though freely offered to everyone, could be resisted. They were, in short, Arminians». V. Nuovo, Introduction, VIN, p. xxii. 171 Sul latitudinarismo come rivoluzione culturale nell’attitudine religiosa del periodo che esalta il ruolo della ragione e l’etica pratica sulla speculazione cfr.: W. M. Spellman, The Latitudinarians and the Church of England, 1660 – 1700, University of Georgia Press, Athens 1993. 172 W. M. Spellman, John Locke and the problem of depravity, cit., p. 91 (trad. mia).

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transizione. Un contributo che dischiuse una fase inedita nel pensiero religioso, caratterizzata dal

primato della ragione e da una peculiare riflessione in ambito morale173 .

Pur non sostenendo la tesi di Hobbes, i latitudinari furono sospettati di coividerne il pensiero174,

anche se l’accusa più diffusa era di aderire alle posizioni del socinianesimo. Ma lo spirito

latitudinario era in realtà una nuova teologia per un tempo nuovo, un ritorno di umanesimo nella

teologia riformata175.

Ai Latitudinarians si deve riconoscere un’azione decisiva per la moderna libertà religiosa. Il loro

cristianesimo si avvicinava ad un insieme di princìpi voltì a rinnovare la natura umana,

governarne le azioni, frenarne appetiti e passioni, e ad elevare le menti al di sopra degli interessi

individuali176. Fino al 1660 l’atteggiamento prevalente era stato di togliere ai Dissenters uno status

nel paese, e questo era il presupposto del Clarendon Code e delle misure repressive del periodo

della Restaurazione. Gli esponenti latitudinari, con loro posizioni ispirate ad atteggiamento

ragionevole e conciliatorio verso i non confromisti, motivato da un appello alla carità cristiana,

anticiparono la soluzione del Toleration Act del 1689. Prima della Rivoluzione del 1688 erano stati

i predicatori più influenti a Londra e dopo quella data la loro influenza sugli ecclesiastici non

diminuì. Nell'intento di riappacificare sette tra loro opposte, il latitudinarismo muoveva dalla

distinzione fra ciò che nella religione è fondamentale e ciò che invece è accessorio: per la riunione

dei cristiani sarebbe stato sufficiente l'accordo sui dogmi fondamentali; quanto al resto, si sarebbe

dovuta usare la massima tolleranza vicendevole. La "Chiesa larga" o Broad Church Party, che

rappresenta la corrente più razionalista e meno ecclesiastica in seno all'anglicanesimo è, in un

certo senso, la continuazione di tale indirizzo177.

Agli esponenti del latitudinarismo – che non erano in primo luogo filosofi – toccò in sorte il

compito di fronteggiare problemi sull’identità del credo religioso, sui limiti del dogmatismo

teologico e sul ruolo dell'ortodossia: per tutti loro il solo accesso alla conoscenza religiosa rimaneva

l’esame delle Scritture, nel quale tuttavia la ragione aveva un ruolo decisivo come interprete e

173 Cfr. PAR, pp. 75-76. 174 L’arcivescovo John Tillotson (1630-92), amico e consigliere per le questioni teologiche di Locke, fu nominato primate della Chiesa di Inghilterra nel 1691 e accusato in seguito di seguire Hobbes e di ridurre Dio alla materia e la religione alla natura. 175 Cfr. ST, p. 121 nota n. 24. 176 PAR, p. 77. 177 Nel seno della Chiesa anglicana si è venuta formando una triplice distinzione: High Church o Chiesa alta (caratterizzata da una forte indipendenza rispetto allo Stato, da una particolare attenzione alle tradizioni anteriori alla Riforma e da una maggiore apertura verso il cattolicesimo); Low Church o Chiesa bassa (contraddistinta da una esaltazione dello Stato, da una forte attenzione alla Riforma e da una particolare avversione per il cattolicesimo) e Broad Church o Chiesa larga (attenta all’aspetto morale della religione e molto meno ai dogmi, al riconoscimento dell’autorità dello Stato e alla libertà per le proprie e altrui credenze, sul modello dei latitudinari). Cfr. F. Ruffini, Corso di diritto ecclesiastico italiano, cit., pp. 335-336.

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come luogo della rivelazione divina178. E fu questa difesa della ragione che li condusse ad eliminare

tutto ciò che poteva ostacolare il suo ordinato esercizio, insistendo sul bisogno di semplicità e di

una chiarezza e predicando l’abbandono di termini astrusi179.

Nella controversia con i cattolici - i quali non vedevano alternative tra l'autorità di una chiesa

infallibile o il deismo -, essi rispondevano che l'autorità della Bibbia non si racchiudeva in un solo

argomento ma in un complesso di considerazioni a fondamento di una certezza morale, ed era

compito di un'attività razionale valutare le prove e trarre conclusioni. Anche contro l'ateismo

l'appello era alla ragione e alla sua autorità180.

Dall’affermazione di una religione centrata sull’esistenza e la provvidenza di Dio, i latitudinari

ricavavano l’affermazione dell’immortalità dell’anima, un correttivo al dogmatismo, rappresentato

dalla ragione che riconosce i limiti della conoscenza, e l’opposizione a credenze e pratiche

superstiziose181:

Il culto della ragione accrebbe l’autorità della religione naturale ma i latitudinari erano ansionsi di dimostrare che la ragione si accordava con il cristianesimo rivelato. Essi tendevano a formulare un sistema ragionevole di credenze e intendevano dimostrare che era quello della fede tradizionale. […] Religione naturale e rivelata si supportavano reciprocamente e si accreditavano a vicenda182.

La centralità delle Scritture, insieme al ricorso alla ragione, erano dunque i tratti essenziali di

questo nuovo indirizzo teologico, che non tralasciava i miracoli, considerandoli come prova della

verità rivelata. L’autorità della rivelazione restava in ogni caso superiore. In tal modo il

latitudinarismo prendeva le distanze tanto dal razionalismo quanto dal fanatismo. Il grande lascito

dei latitudinari, secondo Gerald Cragg, ha riguardato proprio la autorità delle Scritture. Gli ambiti

in cui questa poteva essere sfidata erano attentamente definiti, affinché il messaggio della

rivelazione potesse restare inalterato.

Quella del latitudinarismo è stata considerata come una fase intermedia tra l’approccio

autoritario comune all’inizio del XVII secolo e lo sguardo scettico della generazione successiva183.

Da questo punto di vista i teologi latitudinari si possono considerare gli eredi del puritanesimo e gli

anticipatori del spirito religioso inglese del secolo successivo, dal momento che ignorare il

178 Samuel G. Hefelbower ha contrapposto la posizione di Hooker, dei platonici di Cambridge e di Locke, a quella dei deisti. Mentre i primi ritenevano che la rivelazione fornisse quel che la sola ragione non poteva ottenere, i secondi tendevano a negare l’esistenza di un ambito above reason. Cfr. RED, pp. 64 – 73. 179 Cfr. PAR, p. 83. 180 Cfr. ivi, pp. 64-65. 181 Cfr. ivi, pp. 66 – 68. 182 Ivi, p. 68. 183 Cfr. ivi, pp. 71-72.

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latitudinarismo significa non comprendere l’emergere del deismo né l’ortodossia del XVIII

secolo184.

c. 1. c. 1. c. 1. c. 1. The Tew CircleThe Tew CircleThe Tew CircleThe Tew Circle

Lo spirito latitudinario che invitava ad estendere i confini della Chiesa si diffuse inizialmente ad

opera di William Chillingworth e di John Hales, i quali provenivano dal versante della Chiesa alta

e realista, gravitavano intorno ad Oxford, a differenza dei platonici di Cambridge che provenivano

invece dal fronte puritano185, ed erano in rapporti di amicizia con William Laud.

Lo straordinario impulso al razionalismo religioso e l’opposizione al rigido calvinismo dominante

maturò nell’ambito del Great Tew Circle, del quale facevano parte un futuro arcivescovo, Gilbert

Sheldon, un futuro vescovo, George Morley, ed eruditi quali John Earle, Edmund Waller, oltre a

Chillingworth e Hales186. L’ideale da perseguire era quello del libero esame e del libero dibattito

sulla Scrittura, così da favorire un confronto che rifuggisse dalle posizioni dogmatiche codificate

dalla Riforma e dalla Controriforma187: i suoi membri, secondo Trevor-Roper, erano gli eredi

intellettuali di Erasmo, Philippe du Plessis-Mornay, Andrewes e Hooker188.

Falkland, che ebbe per madre la cattolica Elizabeth Cary, Lady Falkland, diede prova di uno

straordinario temperamento liberale e spirito di tolleranza189. Nell’ambito del Great Tew Circle egli

184 Cfr. ivi, p. 81. 185 RT, II, p. 7. In particolare, l’urgenza di principi teologici più conciliatori, atti a risolvere le interminabili dispute che infuriavano, e la necessità di dare risalto al lato pratico e morale della religione furono i due aspetti del latitudinarismo che passeranno direttamente ai platonici di Cambridge. 186 Lucius Cary, visconte di Falkland (1609/1610 – 1643), combatté nelle truppe realiste durante la Guerra civile. Dopo un periodo in Irlanda e in Olanda, si trasferì nella campagna di Oxford dove inaugurò il circolo di teologi, filosofi e letterati denominato Tew Circle, le cui riflessioni erano ispirate da una opposizione al calvinismo dominante. Uomo più adatto allo studio e alla vita contemplativa che alla politica e alla vita del cortigiano, Lucius Cary morì nella battaglia di Newbury. Sulla sua figura si vedano: J. A. R. Marriot, The Lifes and Times of Lucius Cary, Viscount Falkland, Methuen, London 1907; M. Sina, L’avvento della ragione, cit., pp. 24 ss..; H. Trevor-Roper, Catholics, Anglicans and Puritans: Seventeenth Century Essays, cit., pp. 166-230; K. Weber, Lucius Cary: Second Viscount Falkland, Columbia University Press, New York 1940. Sul Great Tew Circle e i suoi membri si vedano: H. J. McLachlan, Socinianism in Seventeenth-Century England, cit., pp. 63 – 95 ; M. Firpo, Il problema della tolleranza religiosa, cit., pp. 187 ss. 187 Questi princìpi ispiratori saranno i medesimi di Locke. John Marshall riferisce che il filosofo acquistò nel 1682 un’opera che chiamò The laws against heretics e scrisse un appunto sull’eresia dall’opera di Falkland. J. Marshall, Locke, Socinianism, “Socianism” and Unitarianism, cit., p. 144. 188 Cfr. H. Trevor-Roper, Catholics, Anglicans and Puritans: Seventeenth Century Essays, cit., pp. 189; 219. 189 Falkland fu anche autore di A Speech made in the House of Commons concerning Episcopacy (1641), uno scritto contro il diritto divino dell’autorità episcopale, e di un Discourse of the Infallibility of the Church of Rome (pubblicato postumo nel 1646 e ristampato nel 1650). Rimane controversa la tesi secondo la quale Falkland sarebbe stato il primo sociniano in Inghilterra. La prova della frequentazione di Falkland degli scritti di Socino è indiretta e contenuta nelle dichiarazioni della madre cattolica, che suggeriscono come egli non fosse contrario alla religione romana fino al 1633, quando incontrò un libro di Socino che gli aprì una nuova strada. L'accusa di socinianesimo era dovuta all'applicazione

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si dedicò all’esame di molte questioni di filosofia e di religione nelle quali erano impegnati alcuni

dei suoi contemporanei190.

In un clima di profonde controversie religiose il Great Tew Circle, che politicamente si

manteneva su posizioni realiste, si radicava nei principi dell’umanesimo erasmiano e non

nascondeva un certo favore nei confronti del socinianesimo, caratterizzandosi per un dotto esame

delle Scritture; l’esiguità delle dottrine fondamentali; la fiducia nella capacità morale e razionale

dell’uomo di raggiungere la salvezza, come pure per il primato della pace e della carità sulla

inflessibilità della dottrina.

Non v’è dubbio che la personalità più celebre del circolo sia stata quella del figlioccio

dell’Arcivescovo di Canterbury Laud191, il teologo William Chillingworth192, il cui abbandono della

Chiesa cattolica non si trasformò tuttavia in un’adesione completa all’anglicanesimo. Egli rifiutò

infatti di sottoscrivere i Trentanove Articoli della confessione anglicana, non giurando mai su tutti

i punti della Chiesa di Inghilterra.

Pawson ha osservato che le posizioni di Chillingworth circa l’autorità erano in massima parte le

medesime di Laud e che l’assenso era richiesto esclusivamente sugli articoli di fede fondamentali193.

In tal senso dovere dei cristiani, per Chillingworth, era di enfatizzare i punti di convergenza per la

promozione di un culto comune, dal momento che la causa degli scismi risiedeva proprio

nell’esaltazione di certe interpretazioni e nella loro imposizione194.

della ragione a questioni concernenti la rivelazione e alla riduzione degli elementi essenziali nella fede, insieme al valore attribuito alla tolleranza. Cfr.: H. J. McLachlan, Socinianism in Seventeenth-Century England, cit., pp. 67 - 68. 190 Un tratto dell’approccio del Falkland alle questioni teologiche, insieme all’abitudine di consultare le menti migliori per arrivare ad una conclusione in seguito ad attenta riflessione , era un'indagine razionale come metodo sicuro per stabilire la certezza religiosa. Cfr. : H. J. McLachlan, Socinianism in Seventeenth-Century England, cit., pp. 66 – 67. 191 Consigliere di Carlo I, Laud (1573-1645) aveva una predilezione per l'arminianesimo, ed era un razionalista in ambito teologico. Il futuro Arcivescovo di Canterbury sosteneva una teologia liberale ma idee di politica ecclesiastica conservatrici, ricoprendo un ruolo centrale per la Chiesa di Inghilterra. Animato sul piano dogmatico da uno spirito latitudinario, in opposizione alla teologia calvinista e puritana, egli preferì evitare un atteggiamento intransigente anche nei confronti della Chiesa cattolica. La posizione di Laud era infatti a metà strada tra Hooker e Chillingworth, riconosceva una libertà di opinione piuttosto ampia e non riteneva necessario l’assenso ad ogni articolo di fede, scegliendo una via media tra l’infallibilità di Roma e quella di Ginevra. Il tentativo di imporre nuovi modelli liturgici si concluse tuttavia con una rivolta parlamentare e il suo arresto. In seguito al processo per tradimento fu decapitato nel 1645. Cfr. E. Adair, Laud and the Church of England, in «Church History», 5 (1936), pp. 121 – 140; H. J. McLachlan, Socinianism in Seventeenth-Century England,,,, cit., pp. 45 ss., G. M. Trevelyan, Storia di Inghilterra, Garzanti, Milano 1962, pp. 452-456. 192 Chillingworth (1602-1644) è stato uno dei massimi esponenti dell’indirizzo latitudinario, convertitosi inizialmente al cattolicesimo per influenza dell’amico gesuita John Fisher, abbandonandolo in seguito. Tornato ad Oxford da un viaggio in Francia, intraprese una personale e intensa ricerca religiosa. Sulla figura e il pensiero di Chillingworth si vedano: M. Sina, L'avvento della ragione, pp. 24 – 40; RT,,,, I, pp. 261 – 343; H. J. McLachlan, Socinianism in Seventeenth-Century England, cit., pp. 76 – 89; R. Orr, Reason and Authority: the Thought of William Chillingworth, Clarendon, Oxford 1967; C. A. J. Coady, The Socinian Connection: Further Thoughts on the Religion of Hobbes, in «Religious Studies», 22 (1986), pp. 277-280; F. Ruffini, Corso di diritto ecclesiastico italiano, cit., pp. 320 - 321. 193 G. P. Pawson, The Cambridge Platonists and Their Place in Religious Thought, cit., p. 15. 194 Cfr. ivi, pp. 15-16.

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Chillingworth soggiornò a Tew, presso la residenza di Falkland, dal 1635 al 1637 mentre

lavorava alla sua opera più importante di carattere apologetico:The Religion of Protestant: A Safe

Way to Salvation del 1638195.

Secondo Chillingworth la Scrittura doveva costituire per il credente la sola regola di condotta,

l’unica fonte di fede, senza con ciò invitare ad un acritico fideismo, quanto al rifiuto dell’autorità

umana in tema di religione. E tale differenza emerge dall’importanza che egli attribuiva alla

ragione umana. Un’attitudine alla tolleranza e al razionalismo che autorizza per certi aspetti ad

accostare la sua teologia al socinianesimo196.

The Religion of Protestants sosteneva il divieto di imposizione di dogmi religiosi, atto che agli

occhi dell’autore si configurava come peccato imperdonabile. Imposizione che Chillingworth

vedeva all’origine di persecuzioni e discordie all’interno della Cristianità. La fede non poteva

essere intesa come costrizione né da parte dell’autorità religiosa né di quella civile poiché la

violenza avrebbe avuto come risultato solo un comportamento dissimulato e avrebbe prodotto un

ateismo interiore. Chillingworth riteneva unico dovere per il cristiano la fede in Cristo.

Come per Hales, e per Locke, l’esame delle Scritture secondo Chillingworth doveva avvenire

secondo ragione, evitando quindi la formulazione a priori di un sistema di fede o di morale197. Un

appello alla libera ricerca fondato sulla convinzione che l’uomo potesse attingere in modo diretto

alla parola di Dio e che solo nella Bibbia si trovasse delineata la religione dei protestanti.

L’opera procurò al Chillingworth accuse di ateismo e di socinianesimo, specie da parte degli

ambienti cattolici. Secondo Thomas H. Robinson, «Chillingworth stesso era chiaramente un

arminiano sacramentale»198; il suo arminianesimo si configurava come «un adattamento alle

necessità di coloro che difendevano la chiesa ufficiale della cosiddetta teologia contrattualista, che

(come dimostra la teologia di Chillingworth) non può essere identificata soltanto con il

Puritanesimo, sebbene ciò avvenga di frequente»199.

La questione del socinianesimo del Chillingworth è dibattuta, ma trova ampi consensi. Coady

sostiene che vi sono alcuni aspetti nel suo pensiero quanto meno in sintonia con il credo dei

195 W. Chillingworth, The Religion of Protestants: A Safe Way to Salvation, printed by L. Lichfield, Oxford 1638. 196 C. A. J. Coady, The Socinian Connection: Further Thoughts on the Religion of Hobbes, cit., p. 180. 197 Per una discussione delle idee religiose di Lord Falkland e Chillingworth cfr. RT, v. I, pp. 76-169; 304-343. 198 T. H. Robinson, Lord Clarendon's Moral Thought, in «Huntington Library Quarterly», 43 (1979), pp. 37-59, qui 46 (trad. mia). 199 Ivi, p. 47.

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sociniani (si pensi ad esempio all’insistenza del Chillingworth su una base minima di credenze

necessarie per la salvezza, al centro delle quali si collocava la professione di Gesù come Cristo)200.

L’indagine razionale che Chillingworth promuoveva aveva come condizione il rifiuto di ogni

dogmatica influenza autoritaria. Da un punto di vista metodologico, egli fondava il suo studio su

una distinzione preliminare - che diventerà in seguito il pilastro del razionalismo religioso della

seconda metà del XVII secolo – tra verità fondamentali e verità non fondamentali. Le prime

comprendevano tutte quelle nozioni che dovevano essere credute per la salvezza e che non

richiedevano alcuna mediazione. Tutto il resto poteva essere oggetto di opinione e di discussione, e

dunque fatto proprio dalle chiese particolari. Chillingworth intendeva in tal modo salvaguardare

un nucleo di verità che pur al di là della ragione non erano da considerare ad essa contrarie, e

potevano incontrare dunque l’assenso razionale del credente. La fede era così intesa come

personale risposta alla sollecitazione che proviene dalla Scrittura e dalla rivelazione.

È possibile ravvisare all’origine dell’impostazione del Chillingworth un’antropologia positiva che

considera l’uomo «naturalmente inclinato verso il vero»201, capace di collocarsi di fronte alla

rivelazione con la propria intelligenza, e non soggiogato dalle passioni, quando in gioco è la sua

eternità. Chillingworth apriva così la strada alla libera indagine continuamente sottoposta a

verifica, a correzione, e anche per questo in grado di condurre alla verità. Come ha osservato

Robinson, «Chillingworth di certo non voleva sembrare come colui che poneva Dio in

obbligazione verso l’uomo, ma intendeva stabilire una reciprocità ed un equilibrio tra l’opera di

Dio e quelle umane»202.

Una seconda figura dominante nell’ambito dell’esperienza razionalista del Tew Circle è stata

quella di John Hales, il quale ebbe modo di partecipare da osservatore al Sinodo di Dordrecht203.

Nella Confessio dei Rimostranti si dichiarava come scopo della teologia non una sterile

speculazione ma la salvezza, e in tal senso la prima doveva fornire quel quadro di riferimento entro

il quale l’uomo può sperare nella seconda, distinguendo le verità fondamentali da quelle accessorie.

200 Chillingworth venne accusato di socinianesimo anche dai suoi contemporanei: uno dei suoi principali oppositori, il libellista cattolico Edward Knott, nei suoi pamphlet giudicò le tesi del Chillingworth vicine alle posizioni dei sociniani. Cfr. A. J. Coady, The Socinian Connection: Further Thoughts on the Religion of Hobbes, cit., pp. 178-79. 201 M. Sina, L’avvento della ragione, cit., p. 33. 202 T. H. Robinson, Lord Clarendon's Moral Thought, cit., p. 47. 203 Dopo gli studi a Bath, Hales (1584 – 1656) completò ad Oxford la sua formazione nel 1609. Nel 1613 venne ammesso ad Eton. Per un profilo di Hales si veda: RT, I, pp. 170 – 260; H. J. McLachlan, Socinianism in Seventeenth-Century England, cit., pp. 69 - 76; F. Ruffini, Corso di diritto ecclesiastico italiano, cit., p. 320; M. Sina, L’avvento della ragione, cit., pp. 18 – 24; 40 –49; N. Scott, The Ever Memorable Mr. John Hales, in «The Harvard Theological Review», 10 (1917), pp. 245 – 271.

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Colpito dalla spietata intolleranza che regnava nel Sinodo, e convinto del «valore della carità

nella ricerca di accordo su quanto di fondamentale e di duraturo poteva essere accolto dai

cristiani»204, Hales tornò in Inghilterra optando per il culto arminiano e dedicandosi ai suoi studi

nel college di Eton, mentre stringeva contatti con Falkland e con Chillingworth205. La stima dei

suoi contemporanei può essere espressa con le parole del Conte di Clarendon, che definì Hales

«uno dei maggiori studiosi in Europa»206. Anche il Vescovo di Worcester, Edward Stillingfleet,

protagonista di una importante polemica con John Locke a proposito del Saggio sull’Intelletto

umano, parlò di Hales come di «un uomo incomparabile»207.

Al 1636 risale l’opera Tract concerning Schism and Schismaticks, che circolò manoscritta fino

all’edizione del 1642, nella quale Hales esaminava alcuni scismi occidentali e in particolare la

separazione dei cristiani. All’origine dello scisma Hales vedeva l’ambizione dei vescovi e gli abusi

delle gerarchie ecclesiastiche, che non mancava di attaccare anche per l’incapacità di proporre la

verità autentica delle Scritture208. Anche in questo caso il presupposto era la distinzione tra dogmi

fondamentali e aspetti collaterali. Egli si votò pertanto alla difesa della tolleranza, difendendo il

diritto e il dovere del potere pubblico di garantirla attraverso una vigilanza sulle cose

ecclesiastiche209.

Hales attaccò in particolare l’uso che a suo giudizio veniva fatto della Sacra Scrittura per

giustificare opinioni religiose preesistenti, portando l’attenzione sul pericolo di interpretazioni

arbitrarie del Testo sacro e individuando come rimedio ad esse un’interpretazione letterale:

Il significato letterale, puro ed incontrovertibile della Scrittura, senza nessuna aggiunta o supplemento interpretativo, è il solo che fonda quella fede alla quale noi necessariamente dobbiamo aderire210.

La Scrittura si presenta all’uomo in modo chiaro e non consente interpretazioni arbitrarie o

dubbie. Il senso letterale, secondo Hales, risulta allora garanzia di comprensione autentica della

204 M. Sina, L' avvento della ragione, cit., p. 40. 205 N. Scott, The Ever Memorable Mr. John Hales, cit., p. 267. 206 Ivi, p. 246. 207 Ivi, p. 247. 208 Cfr. M. Sina, L' avvento della ragione, cit., p. 41. 209 Per Nancy Scott la posizione di Hales circa lo stretto rapporto tra Chiesa e Stato, come pure la convinzione che il controllo di una chiesa da parte di un sovrano fosse una necessità politica, costituirono il suo principale errore, sebbene motivato dal sincero timore che assemblee religiose non autorizzate potessero rappresentare occasioni di complotti o attentati al sovrano. N. Scott, The Ever Memorable Mr. John Hales, cit., p. 252. 210 J. Hales, The Works now first collected together, R. and A. Foulis, Glasgow 1765, II, p. 36, cit. in M. Sina, L' avvento della ragione, cit., p. 42.

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parola di Dio211. Ogni credente, secondo Hales, ha il potere della comprensione, il quale è

finalizzato alla sua salvezza e va a vantaggio di quella altrui; le uniche fonti per la definizione della

verità religiosa diventavano allora la Scrittura e la ragione212. Una posizione audace dal momento

che, oltre a porre l’accento sulla libertà e l’indipendenza del singolo in materia religiosa213,

implicava un possibile rigetto dei precetti o degli usi della tradizione, dei decreti delle chiese

nazioni o dei concili, tutti espressione della sola autorità umana.

Chi rinunciava alla ricerca della verità, e si lasciava guidare passivamente da un altro uomo,

abdicava insomma ad un proprio dovere dal momento che Dio ha fornito ciascuno di coscienza e

di ragione. Quello di Hales era dunque un imperativo a ricercare motivato dalla convinzione che

«vi fossero certe fondamentali verità cristiane stabilite così chiaramente nelle Scritture che nessun

uomo di mente sana poteva fare a meno di riconoscere»214. Tutto ciò che non risultava invece

chiaramente espresso nelle Scritture, o veniva presentato in modo ambiguo, costituiva un

elemento non essenziale sul quale si poteva esercitare un potere interpretativo da parte degli

uomini, con conclusioni inevitabilmente differenti.

L’insegnamento di Hales si caratterizzava dunque come un invito a giungere alla verità salvifica

attraverso la lettura diretta del Testo Sacro, l’ascolto della Parola divina e il ricorso al lume

naturale, e pertanto come un appello deciso all’accordo tra ragione e rivelazione, anche se nel suo

caso «viene indicato un accordo fondamentale sulla scia della tradizione umanistico-rinascimentale

erasmiana, ma non si scende ad una più puntuale e complessa analisi»215.

Esattamente come in Erasmo, anche nel pensiero teologico di Chillingworth e di Hales - e più in

generale nell’indirizzo latitudinario - non si ritrova un’opposizione tra faith e reason ma uno

sforzo verso una sintesi a partire dalla tesi della loro conciliabilità. Tale visione era certamente

radicata in una forte fiducia nella ragione. Un’eredità raccolta integralmente da Locke216.

211 Anche per Locke quello letterale era il criterio di interpretazione della Scrittura, la quale doveva essere letta alla luce della Scrittura stessa e dei suoi richiami interni. Cfr. Saggio sull’intendimento delle Epistole di S. Paolo, cit., in part. pp. 87 ss.; SV, p. 104. Sul senso letterale in Locke si veda inoltre: H. G. Reventlow, Storia dell'interpretazione biblica, cit., IV, pp. 72-73. Sul rifiuto da parte di Locke dell’interpretazione mistico-allegorica della Scrittura cfr. M. Sina, Nota introduttiva, La Ragionevolezza del cristianesimo quale si manifesta nelle Scritture, cit., SER, pp. 281-284, qui 282. Sul significato letterale della parola di Dio e la necessità di ricercarne il significato più semplice cfr. anche: M. Lutero, La cattività babilonese della Chiesa, in Scritti politici, cit., p. 246. 212 N. Scott, The Ever Memorable Mr. John Hales, cit., p. 253. 213 Si trattava di un aspetto caro anche a Locke, cfr. J. M. Vienne, De la Bible à la Scienze. L’Interprétation du singulier chez Locke, in G. Canziani, Y.C. Zarka (a c. di), L’interpretazione nei secoli XVI e XVII, FrancoAngeli, Milano 1993, pp. 771 – 788. 214 Ivi, p. 254. 215 M. Sina, L' avvento della ragione, cit., p. 47. 216 Locke «fu influenzato dagli ambienti, largamente indipendenti, dei latitudinari propriamente detti (circolo di Great Tew, “platonici” di Cambridge) e dei rimostranti olandesi. Tutte queste diverse posizioni ebbero in comune la difesa della tolleranza, estesa almeno all’intero mondo protestante: se infatti le divergenze tra i cristiani riguardano elementi

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d) d) d) d) Il platonismo di Cambridge Il platonismo di Cambridge Il platonismo di Cambridge Il platonismo di Cambridge

Nel suo studio sulla Scuola platonica di Cambridge217, John Tulloch presenta il movimento

collocandolo all’interno della tradizione latitudinaria inglese del XVII secolo:

A partire da molti degli stessi pensieri di Hales e Chillingworth, il loro liberalismo [dei platonici] prese un volo più alto. Essi puntarono non solo, e non principalmente, alla inclusione ecclesiastica ma a trovare una modalità di pensiero cristiano più elevata di quanto qualsiasi scuola religiosa avesse fino ad allora tentato, e a difendere i principi essenziali di una filosofia cristiana tanto contro gli eccessi dogmatici nella Chiesa quanto contro le stravaganze filosofiche fuori di essa218.

Come ha notato Cragg, in questo secolo «tutta la filosofia conteneva dei riferimenti a problemi

teologici»219 e ai platonici va attribuito il merito principale di aver colto il nuovo spirito speculativo

del secolo. I platonici non furono i primi a manifestare quell’apertura che arrivava a considerare

cristiano chi seguiva lo spirito di Cristo anche senza averlo conosciuto. Hooker, Chillingworth,

Hales, Stillingfleet e Taylor erano i migliori rappresentanti di una politica di inclusione religiosa,

rappresentata da una chiesa nazionale allargata, e «non si può dubitare che i pensatori della Scuola

di Cambridge non abbiano conosciuto i loro scritti»220.

Come ha osservato Massimo Firpo, «uomini come More, Cudworth, Stillingfleet, Glanvill sono

tutti convinti fautori della razionalità della religione […] e ciò spiega le accuse di socinianesimo di

marginali e non necessari della religione, non è lecito alle chiese perseguitarsi reciprocamente; né lo stato difende veramente il Cristianesimo, quando impone la professione di verità non fondamentali, con cui il Cristianesimo non si identifica». D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., p. 13. 217 L’espressione “platonismo di Cambridge” designa un generico indirizzo piuttosto che una unità di dottrine o una affiliazione. Gli interessi dei platonici erano religiosi e teologici, prima che filosofici, sebbene non costituissero un gruppo con un esplicito programma intellettuale. Essi non aderivano ad un esplicito manifesto teorico, né avevano in comune le medesime dottrine. Assunsero ad esempio una differente posizione circa la tesi – sorta a Firenze con Pico della Mirandola - secondo cui Pitagora e Platone avrebbero derivato la loro saggezza da Mosè e dalla Cabala. A loro si deve anche l'avvio in Inghilterra della tradizione etica intuizionista. Sul movimento si veda: PAR, in part. pp. 37-60; AA.VV., Forme del Neoplatonismo. Dall’eredità ficiniana ai platonici di Cambridge. Atti del Convegno (Firenze, 25-27 ottobre 2001) , a c. di L. Simonutti, Olschki, Firenze 2007; E. T Campagnac, Introduction, in The Cambridge Platonists, Clarendon, Oxford 1901, pp. IX – XXXVI; E. Cassirer, La rinascenza platonica in Inghilterra e la scuola di Cambridge, cit.; G. P. H. Pawson, The Cambridge Platonists and Their Place in Religious Thought, cit.; M. Cranston, , , , John Locke, cit., pp. 127-28; D. W. Howe, The Cambridge Platonists of Old England and the Cambridge Platonists of New England, in «Church History», 57 (1988), pp. 470 – 485; H. McLachlan, Socinianism in Seventeenth-Century England, cit., pp. 96 - 102; M. Micheletti, Il pensiero religioso di John Smith, La Garangola, Padova 1976; Id., “Animal capax religionis”. Da Benjamin Whichcote a Shaftesbury, Benucci, Perugia 1984; Id., I platonici di Cambridge. Il pensiero etico e religioso, Morcelliana, Brescia 2011; A. Plebe, Il Platonismo inglese, in Grande Antologia filosofica, Il Pensiero Moderno (secoli XVII-XVIII), diretta da M.F.Sciacca, coordinata da M. Schiavone, Marzorati, Milano 1973, XIII, pp. 497 – 580; M. Sina, L'avvento della ragione, cit., pp. 64 – 146. 218 RT, II, p. 6. 219 PAR, p. 49. 220 E. Cassirer, La rinascenza platonica in Inghilterra, cit., p. 37.

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cui furono fatti oggetto, fondate su quei principi di antipredestinazionismo e tolleranza, di

accentuazione del valore della vita morale e del significato delle opere largamente recepiti

all’interno della chiesa anglicana negli anni della Restaurazione, in antitesi al puritanesimo

calvinista»221.

Le dottrine di questi platonici cristiani «furono non solo il proseguimento e l’ampliamento delle

dottrine dei teologi del circolo di Tew, ma trovarono nuova attualità ed interesse nell’esigenza di

fronteggiare la contemporanea concezione hobbesiana dell’origine della legge morale e

dell’obbligazione religiosa dall’autorità del magistrato civile» 222.

Il mutamento che ebbe luogo in Inghilterra nel 1660, con la Restaurazione della monarchia e il

regno di Carlo II, aveva portato un rinnovamento anche in ambito ecclesiastico, nella gerarchia

come nelle università. Il potere politico, sempre più presente all’interno della sfera religiosa,

approvava nuove sanzioni e procedeva con epurazioni e ricambi dall’alto. Fu in un contesto di

questo tipo che

una piccola pattuglia di brillanti insegnanti, i platonici di Cambridge, stavano affermando la dignità della ragione, e tutto il peso della loro influenza fu usato per screditare il dogmatismo. Esplicitamente e implicitamente, [essi] attaccarono tutto quel che il calvinismo aveva rappresentato223.

I latitudinari di Cambridge, senza eccezione, si possono considerare dei filosofi religiosi224. La loro

tuttavia era una posizione controcorrente225.

Armando Carlini ha osservato che il ritorno al neoplatonismo al tempo di Locke sembrava

favorire, molto più dell’aristotelismo, la fondazione di una filosofia più affine al senso religioso

cristiano, anche senza l’aiuto della rivelazione226. Per comprendere il ruolo della Scuola di

Cambridge nel XVII secolo, e l’influenza esercitata sullo stesso Locke227, occorre dunque tener

presente l’evoluzione del potere in capo al magistrato di restringere e condizionare pesantemente

il diritto alla libertà religiosa, che si manifestò in modo particolare nella seconda metà del secolo.

La controversia tra le varie correnti teologiche, e tra differenti sette, tendeva a diffondere

irrequietezza e insubordinazione anche nella vita della nazione, generando aspri conflitti. La lotta

221 M. Firpo, Recenti studi sul Socinianesimo nel Sei e Settecento, cit., pp. 125. 222 M. Sina, L'avvento della ragione, cit., p. 117. 223 PAR, pp. 3-4. 224 Cfr. RT, II, p. 13. 225 Come ha notato D. W. Howe, «erano moderati in una età di polarizzazioni; simpatizzavano con i Rimostranti olandesi, o Arminiani, dopo la loro espulsione dalla comunità riformata al Sinodo di Dort, e [erano] difensori della tolleranza in una età di conflitti religiosi». Id., The Cambridge Platonists of Old England and the Cambridge Platonists of New England, cit., p. 471 (trad. mia). 226 Cfr. A. Carlini (a c. di), Locke, Garzanti, Milano 1949, p. 16. 227 G. Von Hertling, John Locke und die Schule von Cambridge, Herder, Freiburg 1892.

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tra teologi si annunciava come una lotta tra fazioni e Carlo II non intendeva permettere che la

pace sociale fosse messa a repentaglio. Per tale ragione la regola ufficiale della Restaurazione fu

quella di non discutere in pubblico molte delle questioni care ai calvinisti.

Per quel che riguarda il rapporto fede-ragione, ad una prima fase in cui si registrò una tendenza

all’esclusione della reason e l’affermazione della sola fede (fideismo), che si accompagnò ad un

forte zelo religioso, seguì una seconda (rappresentata dall’opera di Herbert di Cherbury) nella

quale si verificò l’affermazione deistica della sola reason e l’esclusione dell’above reason. In una

terza fase si registrò quindi una convergenza tra ragione e fede per la ricerca della verità: i

platonici di Cambridge ne furono raffinati interpreti.

Questi studiosi - Benjamin Whichcote, Ralph Cudworth, Nathanael Culverwell, come pure John

Smith228 e Henry More229 - avevano come oggetto di studio privilegiato la religione230,

richiamandosi ad una docta religio di stampo platonico che fosse in grado di riunificare un mondo

cristiano drammaticamente frammentato. Il platonismo era ritenuto da costoro la sola originaria

concezione spirituale in grado di contrastare gli esiti atei e materialistici associati al pensiero

moderno:

Essi discutevano questioni e principi di carattere più profondo. Cercavano di sposare la filosofia alla religione, e di confermare l'unione sulla base indistruttibile della ragione e degli elementi essenziali della nostra più alta umanità231 .

Come ha scritto Miurhead, «per loro filosofia e teologia erano la stessa cosa, cioè l’espressione

concettuale delle idee che sono alla base dell’esperienza religiosa»232. Su questa via, quella di

conciliare cioè cristianesimo e filosofia, essi tentarono di delineare un sistema fisico e metafisico

attraverso il recupero della tradizione platonica, confrontandosi con una serie di problemi

228 Della vita di Smith (1618 – 1652) si sa molto poco, anche in considerazione della morte precoce. Entrò all’Emmanuel College nel 1636. Dopo gli studi a Cambridge, egli divenne fellow presso il Queens’ College nel 1644, la cui ammissione venne approvata dalla Westminster Assembley. Sulla figura di Smith cfr. RT, pp. 117 – 192; M. Micheletti, Il pensiero religioso di John Smith, La Garangola, Padova 1976, pp. 181 – 206; E. Cassirer, La rinascenza platonica in Inghilterra e la scuola di Cambridge, cit., pp. 31 - 36; D. W. Howe, The Cambridge Platonists of Old England and the Cambridge Platonists of New England, cit., p. 473; G. P. H. Pawson, The Cambridge Platonists and their place in religious thought, cit., pp. 33-45; A. Plebe, Il Platonismo inglese, cit., pp. 503 – 504; J. K. Ryan, John Smith, Platonist and Mistic, in «New Scholasticism», 20 (1946) pp. 1-25. 229 More (1614 - 1687) è stato il solo tra i platonici a non aver ricevuto un’educazione presso l’Emmanuel College. Studiò al Christ’s College, dove entrò nel 1631 e rimase fellow fino alla morte. Diversamente da Whichcote e da Smith, fu un lettore più che un insegnate, uno scrittore più che un predicatore e avviò una corrispondenza in latino con Descartes negli anni 1648-49. Cfr. H. More, Philosophical Writings, ed. F. I. MacKinnon, Oxford University Press, New York 1925. Su More si vedano: RT, II, pp. 303 – 409; E. Cassirer, La rinascenza platonica in Inghilterra, cit., pp. 128-139; 145 – 156; M. Sina, L' avvento della ragione, cit., pp. 131 - 146; S. Hutton, Henry More, Ficino and Plotinus: the Continuity of Renaissance Platonism, in AA.VV., Forme del Neoplatonismo. Dall’eredità ficiniana ai platonici di Cambridge, cit., pp. 281 – 296; M. Micheletti, Il pensiero religioso di John Smith, cit., pp. 163 – 181; RED, p. 143; G. P. H. Pawson, The Cambridge Platonists and their place in religious thought, cit., pp. 46 – 69. 230 PAR, p. 49. 231 RT, II, pp. 13-14. 232 H. Muirhead, The Cambridge Platonists (I), in « Mind », New Series, 36 (1927), pp. 158-178, qui 159 (trad. mia).

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filosofici e scientifici propri dell'età moderna. Il loro impegno non potè evitare tuttavia la

decadenza del platonismo come un sistema organico e autonomo di dottrine.

Tratto comune di questi eruditi era l’educazione a Cambridge, presso l'Emmanuel College (ad

eccezione di More), roccaforte del calvinismo; al calvinismo dunque essi furono educati in

gioventù e a questo si ribellarono sotto l'influenza di Erasmo, di Arminio e dei neoplatonici. Come

ha scritto Gerald Cragg, il loro «era un attacco al calvinismo dall’interno e ancor più significativo

perché da parte di uomini educati a Cambridge»233.

Il loro neoplatonismo, che enfatizzava il lato mistico di tale dottrina, riprendeva non tanto

l'insegnamento di Platone quanto le idee di Hermes Trimegisto, degli Oracoli caldei e di Pitagora,

che essi furono in grado di rintracciare tanto in Origene e in altri Padri della Chiesa quanto nelle

dottrine di Plotino, di Proclo e di Ficino234. L’obiettivo del movimento non era quello di indagare

la natura ma di comprendere in profondità la creazione; non di assecondare lo spirito puritano ma

di affermare lo spirito umanistico. Da Plotino, in particolare, proveniva l’inclinazione mistica della

Scuola platonica di Cambridge e una religione naturale dell’anima.

Una conoscenza della divinità e del mondo intelligibile è concessa soltanto a quell’anima che ha compiuto in se stessa il decisivo distacco dal sensibile e il decisivo orientamento verso l’intelligibile. L’anima contempla il divino non in forza di una Rivelazione che essa riceve dal di fuori, ma generandolo in se stessa e rendendosi, nell’atto di generarlo, simile a lui. […] Questo fondamentale pensiero della teologia plotiniana, che aveva già decisamente influito su Nicola Cusano e sul Ficino, diviene ora anche il nucleo del neoplatonismo inglese235.

Un tale uso eclettico di dottrine filosofiche rivelava un fine apologetico, la difesa della “vera

religione” dai suoi nemici. Pur nella loro varietà, infatti, le dottrine dei platonici di Cambridge

presentavano alcuni elementi di fondo che mettevano in rilievo un carattere già sostanzialmente

deistico, e riconducibili come loro centro unitario ai concetti di verità, intesa come naturale

possesso della ragione, e di virtù, come esplicazione pratica di tale verità. In primo luogo,

l’accentuazione ora razionalistica ora etica delle tematiche di questo periodo esprimeva

l'intenzione di combattere l'ateismo, considerato come pericolo incombente (il bersaglio polemico

era Hobbes236). Gerarld Cragg ha individuato in questo il principale elemento unificatore della

233 PAR p. 39. 234 Su questo aspetto cfr. R. Bondi, I platonici di Cambridge e l’antica sapienza, in AA.VV., Forme del Neoplatonismo. Dall’eredità ficiniana ai platonici di Cambridge, cit., pp. 335 – 352. 235 E. Cassirer, La rinascenza platonica in Inghilterra, cit., pp. 29 – 30. 236 I platonici «videro in esso [il sistema di Hobbes] un nemico attuale e formidabile alle loro più care convinzioni. Essi disprezzavano il suo spirito politico e speculativo. Prima ancora della pubblicazione del Leviatano nel 1651, quando la brima bozza della filosofia hobbesiana era stata stampata a Parigi e circolava, Cudworth sembrava aver compreso il suo fine e lo attaccò nelle Tesi che consegnò per il suo B.D. a Cambridge nel 1644. Le grandi opere della sua vita furono più o meno caratterizzate dal medesimo antagonismo. Ovunque i principi del Leviatano si presentavano nella linea del suo

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Scuola, che rendeva questi platonici consapevoli di tutte le distorsioni che l'ignoranza può

introdurre nel campo della fede, insieme ad una sorta di terrore della superstizione. Essi «avevano

visto quali conseguenze [essa] produceva e compresero che la reazione alla cieca incredulità

avrebbe potuto condurre gli uomini all'ateismo. Smith scriveva avendo sempre presenti due grandi

nemici: superstizione e ateismo»237.

Ma il richiamo alla ragione implicava un più sofisticato appello alla responsabilità individuale

che il cristianesimo rivolgeva238. Ogni uomo doveva applicare la propria ragione ai problemi della

fede e dell'azione. E l’avversario era ancora una volta era Hobbes, il quale nel subordinare la buona

condotta all'obbedienza al sovrano, attaccava il senso di responsabilità individuale.

Sorprendentemente, però, il Seicento inglese, che combatté per la religione cristiana tentandone

una fondazione filosofica autentica, fu lo stesso che attraverso le dispute portate avanti nel nome

della scienza o nel nome della razionalità innata pose le premesse necessarie affinché la religione

da teistica diventasse deistica239. Come ha osservato Mario Micheletti,

Quali che fossero i loro [dei platonici] intendimenti originari, e per quanto essi fossero rivolti in una direzione diversa dal completo razionalismo religioso, ci sono, certamente, connessioni storiche oggettive col prevalere della mentalità deistica240 .

Lo sforzo del movimento cantabrigense è stato pertanto quello di tentare una razionalizzazione

della verità religiosa affinché questa si presentasse come "naturale", e per tale ragione anche

insopprimibile nell’uomo:

Il carattere distintivo della “teologia” di Cambridge consiste in ciò, che essa assume questo principio [razionalista] anche nel campo della religione, che essa cioè assoggetta la convinzione religiosa al “principio della ragion sufficiente”. Non può e non deve esistere alcuna fede “cieca”, alcuna fede che si sottragga senz’altro all’esame e alla giustificazione da parte della ragione. Una limitazione della ragione è concepibile soltanto nel senso che la ragione umana non potrebbe penetrare la totalità delle verità religiose, né potrebbe comprenderne la piena portata senza l’assistenza della grazia divina241.

Tuttavia, come ammonisce Cassirer, ricondurre la filosofia religiosa dei pensatori di Cambridge al

semplice razionalismo teologico non è sufficiente, poiché è una classificazione che offre di essa

pensiero e influenzarono anche le argomentazioni del suo collega Henry More. Entrambi i filosofi si comprendono alla luce delle teorie di Hobbes. Il profilo platonico della loro speculazione viene fuori nella polemica contro il materialismo atomistico, che essi ritenevano lo scopo principale dei suoi scritti il propagare». RT, II, p. 29. 237 PAR, pp. 57-58. 238 Ivi, pp. 58-59. 239 «Nella convergenza dei piani filosofico, morale e religioso operata sulla base della scienza induttivo-analitica, si trovano tutte le premesse del deismo». M. A. Raschini, Storia del pensiero occidentale, cit., p. 238. 240 M. Micheletti, Il pensiero religioso di John Smith, cit., p. 10. 241 E. Cassirer, La rinascenza platonica in Inghilterra, cit., p. 41.

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solo una vaga idea. Questi teologi-filosofi furono d’altra parte molto lontani da quel razionalismo

che cominciò a prevalere nel XVIII secolo, come pure dal deismo inglese e dalla filosofia

illuminista francese e tedesca242. . . .

Per i platonici, che erano tra i principali oppositori di Hobbes, vi sono verità eterne indipendenti dal soggetto conoscente e vi sono anche standard morali immutabili e la religione deve conformarsi a norme simili 243.

Muirhead ha sintetizzato tre aspetti costitutivi del platonismo inglese244: una concezione di Dio

come unità di amore e conoscenza245; la possibilità di conoscere l’esistenza e la natura di Dio a

partire dalla conoscenza della natura dell’anima e dalle sue esperienze - «lo spirito dell’uomo è la

candela del Signore»246 ripetevano i platonici, in particolare More e Culverwell, intendendo la

mente come luce divina che guida l’uomo; la ragione umana che implica una Ragione che

trascende la realtà sensibile e insieme la fede in una provvidenza presente nella natura e nella

storia.

Nella concilizione tra fede e ragione risiedeva, come si è visto, un tratto distintivo di questo

platonismo di matrice protestante, il quale ambiva ad una sintesi feconda tra il cristianesimo e la

filosofia greca. I platonici, nel difendere il ruolo che la ragione riveste nelle questioni religiose,

intendevano preservare la "vera religione" - una visione latitudinaria della cristianità anglicana –

dai suoi numerosi nemici: il settarismo, l'entusiasmo, il fanatismo, lo spirito costrittivo del

puritanesimo e quello persecutorio che seguì la Restaurazione, l'ateismo e le eresie favorite da

certe tendenze della scienza dell'epoca (in special modo il meccanicismo e il materialismo di

Hobbes e di Descartes). Un dogma, in modo particolare, era da essi considerato inaccettabile: la

dottrina calvinista della predestinazione, ritenuta ingiustificabile moralmente e intellettualmente.

Ma l’intento dei platonici, lungi dall'essere esclusivamente apologetico, era in primo luogo di

carattere ermeneutico,

il loro sforzo essendo diretto anzitutto ad una reinterpretazione del messaggio cristiano, come compito imprescindibile di fronte sia alle controversie teologiche e dottrinali e ai contrasti religiosi del loro tempo, sia al sorgere e al prevalere

242 Cfr. ivi, p. 32. 243 RED, p. 54 (trad. mia). 244 Cfr. J. H. Muirhead, The Cambridge Platonists (I), cit., pp. 162-163. 245 Secondo John Smith «Egli non è solo la ragione eterna, ma quella bellezza indefettibile e bene supremo al quale le nostre volontà aspirano». J. Smith, Discourse of the Existence and Nature of God, VIII, cit. in J. H. Muirhead, The Cambridge Platonists (I), cit., p. 162. 246 Si tratta del passo biblico: «The spirit of man is the candle of the Lord» (Proverbi 20,27), che i Platonici interpretavano nel senso greco di psyche traducendo il termine spirit con l’inglese soul [anima] o mind, nel senso appunto di reason, ovvero “ragione”. Ciò stava ad indicare che la ragione scopre quel che è naturale e riceve quel che è soprannaturale.

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della “nuova filosofia” (the new philosophy), cioè della nuova visione scientifica, nella convinzione che solo attraverso una comprensione radicale dei fondamenti stessi della fede, questa potesse emergere nella sua purezza e autenticità 247 .

L’esistenza di Dio, la dignità e l’immortalità dell'anima, l'esistenza di uno spirito che vivifica la

natura, la libertà della volontà umana, il primato della ragione, erano gli insegnamenti che i

platonici di Cambridge andavano inserendo all’interno della graduale sostituzione della filosofia

aristotelica con quella neoplatonica che si verificò nel XVII secol; insegnamenti finalizzati ad un

rinnovamento spirituale e morale rispetto allo spirito della teologia puritana, possibile solo

attraverso una «riconversione della persona intera al suo fondamento trascendente»248.

Ed è in questa esigenza di rinnovamento spirituale che Micheletti ravvisa anche la differenza

rispetto al latitudinarismo. I platonici, secondo questa interpretazione, non intendevano

semplicemente come propria missione una sistematica riduzione delle verità fondamentali a base

di una politica di tolleranza, ma vedevano nel rinnovamento spirituale che andavano

promuovendo la «condizione necessaria per il recupero e l'approfondimento personale delle radici

stesse della fede, in cui soltanto possono trovarsi il fondamento e le scaturigini di una effettiva,

autentica unità spirituale»249.

La ragione umana, e l'intelletto in senso più ampio, era per loro la Candle of the Lord che

illumina e chiarisce il significato dei concetti, al punto che secondo Whichcote andare contro la

ragione era andare contro Dio: essa è il governo divino della vita umana; la voce di Dio250. In

questo senso non vi era scontro tra cristianesimo, vera filosofia e retta ragione.

I platonici, inoltre, erano innatisti in modo intransigente nel ritenere che la ragione umana

avesse ereditato nozioni immutabili di natura intellettuale, morale e religiosa – sorta di

"anticipazioni dell'anima" - contro le affermazioni dell'empirismo. Si mostravano scettici circa

alcuni tipi di conoscenza e riconoscevano il ruolo dello scetticismo come strumento critico in

ambito epistemologico. L’empirismo, che costituiva l’anima della cultura britannica, era quel che i

platonici combattevano pur in assenza di un proprio metodo matematico di indagine della realtà, e

per tale ragione alcune loro posizioni tendevano ad avere uno sbocco nel miracolismo e nella

magia.

È dunque possibile individuare nell’innatismo e nella luce naturale della ragione le due direttrici

della filosofia morale dei platonici inglesi del XVII secolo, i quali vedevano nelle idee eterne e

247 M. Micheletti, Il pensiero religioso di John Smith, cit., pp. 10-11. 248 Ivi, p. 11. 249 Ibid. 250 Cfr. E.T. Campagnac, The Cambridge Platonists, cit., pp. 1-75.

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immutabili di bene e di male, presenti nella mente divina, gli esemplari degli assiomi etici (o

noemata) che consentono alla mente umana di fornire giudizi morali.

Di questi studiosi, solo Patrick, More e Cudworth furono inizialmente attratti dalla nuova

scienza (e da Descartes251) per discuterla nei dettagli, mentre la corrente platonica risultò senza

dubbio influenzata dagli esponenti del latitudinarismo, avvocati della teologia razionale e critici

severi del materialismo. Nell'Inghilterra di Locke, la Scuola cantabrigense costituì un esempio di

innatismo e di filosofia non-empirica, che si contrapponeva tanto al puritanesimo quanto

all’empirismo, entrambi concordi nel rigettare la pura contemplazione e la pura speculazione252.

Secondo alcuni, ciò si doveva più in generale alla caratteristica della loro filosofia di riferimento:

Il Platonismo spesso si associa ad una tendenza alla protesta. Socrate cominciò a predicare in un’atmosfera ostile, e lo

spirito platonico è stato in parte responsabile della rottura protestante da Roma; analogamente Whichcote attaccò il

dogmatismo sterile dei calvinisti253.

Tra i platonici cantabrigensi e il Circolo di Tew vi erano due istanze comuni: la rivalutazione della

ragione in ambito religioso e un’analoga vocazione irenica, perseguita attraverso la tolleranza254.

Una tale politica era direttamente legata, come ha notato Cragg, alla loro opposizione ad una

centralizzazione nella chiesa e nello stato: nell’ambito della prima essa impediva infatti la

valutazione personale, laddove in politica poneva a repentaglio la libertà di azione255.

251 «The Cambridge Platonists were actually metaphysical dualists who were initially attracted to Cartesianism until they came to the conclusion that its sharp separation between mind and matter did not lend itself to the kind of Plotinian natural religion that interested them». D. W. Howe, The Cambridge Platonists of Old England and the Cambridge Platonists of New England, cit., pp. 475-476. Ma i platonici si distanziavano da Descartes quanto al loro modo di pensare, assai differente da quello «scettico, diretto e geometrico del pensatore francese» (RT, p. 18), e una distanza ancora maggiore li separava dalla filosofia di Bacon, la quale proclamava un divorzio tra filosofia e teologia cristiana. 252 «Quando si abbia presente questo atteggiamento intellettuale, questo stato d’animo dal quale è sorta la filosofia inglese dell’esperienza, apparirà subito stridente il contrasto che dovette sin da principio sussistere tra di essa e la Scuola di Cambridge. Questo atteggiamento feriva infatti i pensatori della scuola di Cambridge nel loro carattere più intimo, ed essi lo sentirono come la negazione assoluta, il sovvertimento e il pervertimento di tutto ciò in cui essi scorgevano il vero senso e la vera dignità della conoscenza filosofica. Tolgono essi il metro di questa conoscenza dall’ideale classico-ellenico; non conoscono come filosofi nessun altro scopo e nessun più alto valore del “pensamento del pensiero”, della νòησις νοήσεως. La stessa loro condotta di vita è votata a questo ideale. Conducono una vita di osservazione, di dotta ricerca e di meditazione filosofica, e non cercano mai di evadere da questa cerchia. A tutti i tentativi di attirarli nella vita attiva, nella vita di corte o nelle lotte per la potenza politica od ecclesiastica, essi si sono ostinatamente opposti». E. Cassirer, La rinascenza platonica in Inghilterra, cit., pp. 52 – 53. 253 G.P.H. Pawson, The Cambridge Platonists and their place in religious thought, cit., p. 11 (trad. mia). 254 Come ha spiegato Cassirer, per i pensatori di Cambridge «la diversità delle dottrine non è soltanto tollerata ma valutata anzi come un bene; poiché questo allentarsi dei vincoli dogmatici era la condizione necessaria per poter mettere a nudo il nucleo sostanziale della religione». Id., La rinascenza platonica in Inghilterra, cit., p. 39. 255 «Data una tale situazione del soggetto, la tolleranza diventava un obbligo. Se un uomo non vedeva la verità, si doveva mostrargliela attraverso la persuasione ma non era ammessa alcuna forma di coercizione. Tutta la loro posizione filosofica costituiva il fondamento della loro dottrina della tolleranza. Il ruolo della ragione nella religione e la loro idea della moralità e le sue implicazioni portava a ritenere che la tolleranza non fosse una concessione dettata dalla contingenza ma un diritto inseparabile inerente la dignità dell'uomo». PAR, p. 59.

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Con tale indirizzo è cominciata la riflessione teorica che porterà all’autonomia della ragione nel

Settecento e favorirà le idee di libertà e di tolleranza religiosa. Questi studiosi, tuttavia, a

differenza di quel che accadrà nel Secolo dei Lumi, maturarono la volontà di ricercare e di

perseguire un equilibrio tra l’ambito della reason e quello dell’above reason.

d. 1. Fede e ragione in Whichcoted. 1. Fede e ragione in Whichcoted. 1. Fede e ragione in Whichcoted. 1. Fede e ragione in Whichcote

Tillotson, Patrick e Burnet guardavano a Benjamin Whichcote, colui che è considerato il fondatore

della Scuola di Cambridge256, come ad un uomo in grado di dedicare la propria vita e i propri studi

agli oggetti più elevati, avviando i pensieri dei giovani allievi in una nuova e proficua direzione.

Egli, probabilmente più di ogni altro a Cambridge, impose il suo modo di pensare tra i colleghi e si

mostrò in grado di plasmare la nuova generazione di guide spirituali che andava formandosi.

Whichcote predicava la domenica pomeriggio presso la Holy Trinity Church di Cambridge e nel

corso della sua predicazione a Londra, nel 1668, Locke è stato un suo uditore257. Nei suoi apprezzati

sermoni258, egli insisteva sulla rivalutazione della ragione nell’ordine della fede e della

rivelazione259. Il tentativo di Whichcote era quello di salvaguardare una pietà e una religione

256 Whichcote (1609-1683) proveniva da una antica famiglia dello Shropshire. Nel 1626 giunse a Cambridge presso l’Emmanuel College (fondato nel 1584 durante il regno di Elisabetta), un luogo di teologia calvinista, dove venne seguito da Antony Tuckney di dieci anni più grande. Nel 1636 intraprese la carriera ecclesiastica e fu ordinato sacerdote da Williams, vescovo di Lincoln, diventando vice-chancellor del King’s College di Cambridge nel 1650. Non è chiaro se fece o meno una professione di Puritanesimo. Lasciò numerosi Sermons e Aphorisms, dei quali fu pubblicata postuma una selezione dal chiaro intento apologetico. Sulla figura di Whichcote si vedano: PAR, pp. 37-60.; RT, II, pp. 45 – 116; M. Sina, L’avvento della ragione, cit., pp. 69- 89; E. Cassirer, La rinascenza platonica in Inghilterra, cit., pp. 34 – 43; R. A. Greene, Whichcote, the Candle of the Lord and Synderesis, in «Journal History Ideas», 52 (1991), pp. 617-644; M. Micheletti, Il pensiero religioso di John Smith, cit., pp. 116 – 143; G. P. H. Pawson, The Cambridge Platonists and their place in religious thought, cit., pp. 18 – 32; A. Plebe, Il Platonismo inglese, cit., pp. 502 – 504. 257 Cfr. M. Sina, Introduzione a Locke, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 25. 258 Anthony Cooper - terzo Conte di Shaftesbury e nipote del politico Anthony Ashley Cooper, amico e protettore di John Locke - curò e scrisse una prefazione alla prima edizione parziale dei Selected Sermons del Whichcote (printed for A. and J. Churchill, London 1698) la cui copia è conservata al British Museum di Londra. Nel 1701-1707 furono pubblicati i 4 volumi curati da John Jeffrey. I Sermons influirono sul deismo settecentesco, che li caricò di una esclusione dell’ordine trascendente sconosciuta al Whichcote. Nella sua prospettiva emerge invece un accordo tra l’ordine naturale e quello rivelato, e anche la moralità è considerata come una risposta alla rivelazione divina. L’importanza che Whichcote attribuisce alla ragione non fa di questa il solo metro di giudizio, come invece per Toland. In E. T. Campagnac si trovano ripubblicati tre suoi discorsi, oltre ad una scelta di Moral and Religious Aphorisms: 1. The Glorious Evidence and the Power of Divine Truth; 2. The Venerable Nature and Transcendant Benefit of Christian Religion; 3.The Work of Reason. Cfr. E. T. Campagnac, The Cambridge Platonists, cit., pp. 1-75. 259 Nel Whichcote è presente una notevole fiducia nella ragione: grazie ad essa l’uomo arriva a conoscere che Dio esiste, afferra l’ordine della realtà e i propri doveri verso il prossimo. Ogni atto di empietà, in ambito etico, è anche un atto contrario a ragione. La virtù ha pertanto una fondazione razionale, e non soprannaturale. Essa si configura come un comportamento secondo ragione ed intelletto che non avrebbe giustificazione sovrannaturale, e il peccato in tale

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razionali in ambito universitario, e a Cambridge in particolare, in opposizione al fanatismo e

all’entusiasmo. Si potrebbe affermare che Whichcote ha fondato una nuova scuola di teologia

filosofica in grado esaltare la razionalità della fede260. Egli concepiva la ragione come organo

naturale di trasmissione della verità divina, a partire dalla quale sostenere una religione naturale

che aveva fondamento nei principi razionali innati del conoscere e dell'agire.

Ciò che aggiungo in secondo luogo è questo: che la prima operazione in religione è mentale e intellettuale, cioè la meditazione, la discussione, l’esame, la riflessione, che verifica la ragione delle cose sulla base della ragione della nostra mente come propria regola. […] In tutte le cose d’importanza, nei grandi casi di coscienza, nei grandi argomenti di religione, vi è una ragione nelle cose, che deve indirizzarle e congiungerle sopra di noi e ricercarle per noi. E se io sono creatura di Dio, sto in relazione con lui, e sono capace di lui; io sono naturalmente sotto un obbligo di dovere e di affetto per lui e sono vincolato a servirlo, a onorarlo e a vivere in vista di lui. Qui sta la ragione delle cose; e la ragione della vostra mente è di trovarla; cosa che una bestia non può fare, e perciò è incapace di religione261.

In un quadro di questo tipo la rivelazione non era superflua, poiché traeva la sua necessità dalla

caduta originale dell'uomo che aveva avuto come effetto l'oscuramento della luce naturale della

ragione, e la cui autenticità è provata dalla sua convergenza con la ragione stessa.

Whichcote fu peraltro protagonista di una corrispondenza polemica con il suo tutor Anthony

Tuckney, calvinista e presbiteriano, egualmente oppositore di cattolici, arminiani e

Indipendenti262. Il carteggio, che aveva per oggetto un conflitto ricorrente nell'interpretazione

della fede cristiana, quello tra una concezione scritturale e dogmatica da un lato e una concezione

umanistica della rivelazione dall’altro263, si rivela utile per comprendere lo sviluppo del platonismo

inglese cantabrigense264. Tuckney fu tra i primi infatti a cogliere la divergenza di pensiero che

prospettiva non richiede una punizione estrinseca, essendo ogni atto di violenza castigo a se stesso. Cfr. M. Sina, L'avvento della ragione , cit., p. 77. 260 «Quella che è l'altezza e l'eccellenza della natura umana, cioè la nostra ragione, non viene messa da parte o scartata, e tanto meno confusa da nessuno degli elementi della religione; bensì è esaltata, stimolata, esercitata, diretta e corretta da essi. Infatti la mente e l'intelletto dell'uomo costituiscono quella facoltà per cui l'uomo è reso capace di avere un Dio, di apprenderne l'esistenza, di essere ricettivo di lui, e capace di tornare a lui e di riconoscerlo. […] con la mente o con l'intelletto o la volontà, egli [l'uomo] ha rapporti e comunicazione con Dio e le cose invisibili; e con essi egli è in grado di indirizzare tutti gli oggetti inferiori ai fini e ai propositi celesti». B. Whichcote, The Work of Reason, in E. T. Campagnac, The Cambridge Platonists, cit., pp. 49-55; trad.it. Naturalità e razionalità della religione, in A. Plebe, Il Platonismo inglese, cit., pp. 522- 523. 261 Naturalità e razionalità della religione, in A. Plebe, Il Platonismo inglese, cit., p. 524. 262 Tuckney fu anche tutor di John Edwards, che ritroveremo severo critico di Locke. Cfr. V. Nuovo, Introduction, VIN, p. xxxvii. 263 B. Whichcote, Eight Letters Which Passed Between Dr. Whichcote and Dr. Tuckney, in Id., Moral and Religious Aphorisms, ed. S. Salter, London 1753. 264 Tuckney inviò la sua prima lettera nel 1651. Entrambi scrissero quattro lettere. La prima critica di Tuckney riguardava l’ambiguità delle Scritture e le dichiarazioni circa la libertà di interpretarle. Tuckney si rifiutava inoltre di considerare la Ragione come la Parola di Dio. A tali critiche Whichcote rispose difendendo la libertà dell’intelletto. Successivamente Tuckney gli rimproverò una serie di errori dottrinali: l’esortazione ai cristiani di limitarsi a parole ed espressioni scritturali, per evitare l’uso di parole prodotte da uomini fallibili; la libertà, difesa da Whichcote, per ogni uomo onesto di proporre differenti convinzioni; l’idea che la riconciliazione/espiazione operata da Cristo non riguardi Dio ma operi su di noi, abbia cioè fondamento nell’uomo e non nella grazia divina; l'uso di autorità filosofiche in luogo

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Whichcote stava maturando rispetto allo standard teologico del sinodo di Westminster del 1643265

e a tentare di ricondurlo al puritanesimo ortodosso. Era in questione non solo la religione ma la sua

relazione con la filosofia e l’etica.

Secondo Whichcote è l’attività di ragione che rende possibile accogliere la rivelazione:

Intendo quindi che se un uomo non ammette ciò che riceve, con soddisfazione per la ragione della sua mente, egli non lo riceve come un agente intelligente, bensì lo riceve così come un vaso riceve l’acqua; egli è continens anziché recipiens. […] Infatti il soddisfacimento e le deliberazioni della mente sono le prime cose, e le più importanti: e se noi sorvoliamo su di essa, e saltiamo ad una professione di religione priva di considerazione, discussione, disamina e riflessione di questo tipo, e senza confrontare la ragione della nostra mente con la ragione delle cose, come la loro propria regola, noi saremo impotenti nel nostro cammino e inadeguati al nostro compito. […] Di tutte le impotenze del mondo, la credulità in religione è la più grande266.

Whichcote era inoltre convinto della capacità dell’uomo di raggiungere l’ordine della realtà,

ovvero di un’adeguazione tra la razionalità umana e l’ordine del reale. Ragione e fede non erano

pertanto piani contrapposti ma contigui. Ciò rendeva necessario procedere in ambito religioso

attraverso una indagine razionale, per scongiurare i rischi dell’entusiasmo, dell’intolleranza e della

credulità, in assenza dei quali soltanto era possibile il costituirsi autentico della religione.

La vera religione esclude il pregiudizio, l’immaginazione e il fanatismo; soltanto una ricerca

razionale applicata alle sacre Scritture poteva condurre ad essa, esattamente nel solco

dell’insegnamento del Great Tew Circle. Sul piano naturale, l’uomo era considerato capace di

scoprire la verità e il suo dovere seguendo la ragione, lume del Signore267. La rivelazione nel

pensiero di Whichcote non veniva dunque negata ma considerata come un elemento che si andava

ad aggiungere, convalidandole, alla creazione e alla ragione, laddove la redenzione operata da

Cristo aveva ricostituito lo stato primitivo di osservanza morale perfetta, in quanto Egli come

Logos era stato in grado di ristabilire l’integrità della ragione che il peccato aveva corrotto.

della Scrittura, come facevano arminiani e sociniani (l’accusa era quella di una “Platonic faith”). Nelle lettere di risposta al Tuckney, Whichcote rifiuta la tesi di qualsiasi influsso sociniano o arminiano dichiarandosi un “cercatore della verità”. Per Whichcote è fondamentale che il cristiano creda avendone ragione, ovvero in seguito ad una indagine religiosa, difendendo così la libertà di ricercare il vero. Whichcote respinse inoltre l’accusa di razionalismo e di socinianesimo, conducendo una difesa parallela della fede e della ragione: richiamare gli uomini alla verità significava richiamarli alla fede nella persona di Cristo e nella sua azione salvifica. Al punto che andare contro la propria ragione – per Whichcote – equivaleva ad avversare Dio. Per una ricognizione del confronto epistolare tra Tuckney e Whichcote cfr. RT, II, pp. 52 – 80; cfr. E. Cassirer, La rinascenza platonica in Inghilterra, cit., pp. 70; 77-78; 81-82; G. P. H. Pawson, The Cambridge Platonists and Their Place in Religious Thought, cit., pp. 22-25. 265 Lo statuto del Sinodo riassumeva la confessione puritana, nella quale la dottrina della grazia occupava il primo posto. 266 B. Whichcote, Naturalità e razionalità della religione, in A. Plebe, Il Platonismo inglese, cit., pp. 524-525. 267 Whichcote fece ampio ricorso all'immagine biblica del “lume del Signore” di Proverbi XX,27 (lo spirito dell'uomo è il lume del Signore) con riferimento alla ragione. Tuckney era contrario all'uso che Whichcote faceva della frase biblica e contestava il fatto che il principio protestante del giudizio privato fosse da intendersi come superiore alla regola della Scrittura, e non come subordinato ad essa. Egli inoltre rimproverava a Whichcote la frequentazione di dotti studiosi di Platone e dei suoi discepoli, poco interessati alle Scritture.

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d. 2. L’opposizione all’ateismo e all’arbitrarismo etico in Cudworth d. 2. L’opposizione all’ateismo e all’arbitrarismo etico in Cudworth d. 2. L’opposizione all’ateismo e all’arbitrarismo etico in Cudworth d. 2. L’opposizione all’ateismo e all’arbitrarismo etico in Cudworth

Figura particolarmente rilevante nel contesto razionalista e teologico del Seicento inglese è stata

quella di Ralph Cudworth268, il quale sostenne l’incontro tra filosofia e religione sulla base di una

concezione dell’uomo come portatore dell’immagine di Dio. Egli ebbe come principale obiettivo

polemico l’ateismo e la concezione hobbesiana dell’origine della legge morale, in base alla quale la

giustificazione morale riposava sulla legge del magistrato civile e i sudditi erano obbligati a seguire

qualsiasi prescrizione dell’autorità, anche se in contrasto con la legge divina.

Tulloch definisce Cudworth «il più celebrato della Scuola di Cambridge e allo stesso tempo il suo

autore più sistematico e formale»269; secondo Pawson, egli è stato considerato dai posteri come il

maggiore dei platonici anche se i suoi scritti ricevettero, almeno inizialmente, scarsa attenzione270.

Sebbene provenisse da una famiglia rigidamente calvinista, Cudworth si oppose presto

all’intolleranza puritana, lasciandosi ispirare da un ideale religioso irenico.

La riflessione del Cudworth, secondo la lettura di Mario Sina, è stata in primo luogo una risposta

alla filosofia di Hobbes e al suo meccanicismo271, da cui scaturiva una dottrina del potere statale

interventista nelle questioni religiose. Anche secondo Cragg, si ritrova in Cudworth un serio

tentativo di esprimere in termini moderni una alternativa al naturalismo di Hobbes e al vuoto

spiritualismo cartesiano, e nel perseguire ciò egli prefigurò gli elementi essenziali dell'idealismo. Si

tratterebbe dunque, nel suo caso, di una prima forma di alleanza tra teologia e idealismo272 .

268 Cudworth (1617 - 1688) si formò presso l’Emmanuel College di Cambridge. All’Università di Cambridge tenne la cattedra di ebraico per divenire in seguito rettore di Clare Hall e nel 1654 del Christ’s College, ruolo che mantenne anche in seguito alla restaurazione stuartiana. Cudworth ebbe contatti con alte personalità politiche, fu apprezzato anche da Cromwell che ne incoraggiò la produzione, ma Tulloch ci informa che non fu mai uomo di partito e si mantenne sempre libero dall’entusiasmo di parte. Per una introduzione al suo pensiero si vedano: RT, II, pp. 193 – 302; M. Micheletti, Il pensiero religioso di John Smith, cit., pp. 143 – 162; G. P. H. Pawson, The Cambridge Platonists and Their Place in Religious Thought, cit., pp. 70 – 81; M. Baldi, La conoscenza e la vita in Cudworth, in L. Simonutti, Forme del neoplatonismo, cit., pp. 421 – 439; J.-L. Breteau, Ralph Cudworth’s reading of Ficino, ivi, pp. 335 – 352; E. Mahoney, Marsilio Ficino and Ralph Cudworth on the Hierarchy of Being, ivi, pp. 321 – 334; E. Cassirer, La rinascenza platonica in Inghilterra, cit., pp. 60 –70; 82 –85; 143 – 148; 165-167; RED, p. 69 – 71; 134; 140 – 143; J. H. Muirhead, The Cambridge Platonists (I), cit., pp. 165 – 178; J. A. Passmore, Ralph Cudworth. An Interpretation, Cambridge University Press, London 1951; A. Plebe, Il Platonismo inglese, cit., pp. 510 – 512; M. Sina, L’avvento della ragione, cit., pp. 117 - 130; L. Zani, Un platonico di Cambridge: Ralph Cudworth, in «Rivista di filosofia neoscolastica», 51 (1959), pp. 144 – 158. 269 RT, II, p. 193. 270 Cfr. G. P. H. Pawson, The Cambridge Platonists and Their Place in Religious Thought, cit., p. 70. 271 Cfr. M. Sina, L’avvento della ragione, cit., pp. 117 ss. 272 PAR, p. 57.

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Muirhead ha individuato tre punti del sistema di Cudworth - riconducibili rispettivamente ad

una filosofia della natura273, della conoscenza e ad una teologia - che fanno di lui il fondatore

dell’idealismo britannico: una visione della natura contrapposta al meccanicismo classico; una

teoria della mente, ritenuta soggetto attivo nel processo conoscitivo; l’idea di un principio

spirituale che muove la materia ed è ad essa estraneo, agente nel mondo, intesa come azione non di

una volontà arbitraria ma di una volontà concepita in termini di bellezza, giustizia e verità274.

Il pensiero ed il nome di Cudworth sono legati all’opera The True Intellectual System of the

Universe275, inizialmente pensato come un trattato sulla libertà e la necessità. Qui l’autore attacca il

fatalismo teologico che sottrae valore alle idee di bene e di male;

Il suo scopo essenziale è la difesa dell’idea della libertà morale e religiosa contro ogni forma di fatalismo. Tale fatalismo non è meno corruttore e dannoso quando si presenta in veste teologica di quando si presenta in forma e motivazione filosofica o scientifica. […] Chi considera le idee di “bene” e “male”, di “giusto” ed “ingiusto” come mere emanazioni di una illimitata volontà, le spoglia del loro significato più vero e più profondo. Esse sono invece sostanze “intelligibili” la cui natura nessuna realtà e nessuna azione reale possono mutare 276.

Ma Cudworth procede oltre nel sostenere una perfetta conformità tra l’ordine naturale e quello

rivelato: il mondo deve essere considerato come luogo dell’azione e della provvidenza divina.

Sussiste tuttavia, in tale visione, una distinzione tra Dio e la natura plastica277, la quale resta

strumento creato, finito e subordinato al primo. Al meccanismo cartesiano Cudworth opponeva

una filosofia della natura sul modello di quelle rinascimentali: poiché solo lo spirito è attività

mentre la materia è inerzia, il meccanicismo non era sufficiente a spiegare il movimento e le leggi

fisiche ma occorreva postulare l’esistenza di una natura plastica – subordinata a Dio e incorporea -

in grado di ricevere gli impulsi delle forze vitali e spirituali. L’universo veniva compreso come un

tutto, come appunto un sistema intellettuale.

Della stima di Locke per il platonico Cudworth e per il suo Intellectual System è prova la

citazione che il filosofo gli riserva nei Pensieri sull’educazione, scritto nel quale si affrontano i

principali aspetti dell’educazione di un giovane gentiluomo. Dopo aver discusso della filosofia

naturale e delle sue due parti - la metafisica e la fisica -, Locke si sofferma sull’opportunità di

273 Si veda su questo argomento: B. Lotti, La filosofia della natura di Cudworth e il platonismo di Ficino e Patrizi, in L. Simonutti, Forme del neoplatonismo, cit., pp. 381 – 419; 274 Cfr. J. H. Muirhead, The Cambridge Platonists (I), cit., pp. 166 – 167 . 275 R. Cudworth, The True Intellectual System of the Universe, R. Royston, London 1678 [rist. anast. G. Olms, Hildesheim-New York, 1977]. Il titolo fa riferimento al primato del sistema intellettuale contrapposto a quello corporeo e visibile. L’opera, considerata la summa del platonismo di Cambridge, fu apprezzata da Leibniz e da Shaftesbury ma avversata dai teologi puritani, i quali interpretarono il razionalismo dell’autore come un sostanziale agnosticismo. 276 E. Cassirer, La rinascenza platonica in Inghilterra, cit., p. 83. 277 Sul tema della natura plastica di Cudworth cfr.: B. Lotti, Ralph Cudworth e l’idea di natura plastica, Campanotto, Udine 2000; D. P. Walker, Il concetto di spirito o anima in Henry More e Ralph Cudworth, Bibliopolis, Napoli 1986.

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studiare i sistemi di filosofia naturale per leggere le varie ipotesi e i modi di dire delle diverse

scuole. E per conoscere le diverse opinioni degli antichi egli raccomandava il trattato del

Cudworth,

in cui questo dottissimo autore ha con molta accuratezza e discernimento raccolto e spiegato le opinioni dei filosofi greci, e i principi su cui essi fondarono tali opinioni. E le principali questioni su cui essi differirono si potranno veder meglio in questo libro che in un qualsiasi altro che io conosca 278.

Locke tornerà a citare «the learned and cautious» Cudworth e la sua «unquestionable authority»

nella sua terza Lettera al vescovo Stillingfleet, quanto all’uso del termine Certainty distinto da

Faith279, e, successivamente, quando affronterà l’argomento dell’immortalità dell’anima. Locke

spiega che una fede nell’immortalità dell’anima fondata sulla ragione naturale e non sulla

rivelazione – come accadeva prima del cristianesimo - non poteva che condurre a credere nella

preesistenza di un’anima antecedente all’unione con il corpo, e nella sua sopravvivenza dopo la

separazione da questo, come anche Cudworth aveva notato affermando «that there was never any

of the ancients, bifore Christianity, that held the soul’s future permanency after death, who did

not likewise assert its pre-existence (I, 1, 31)»280.

La filosofia della natura del Cudworth era a favore di una religione fondata sui principi di una

ragione innata. Tre aspetti, in particolare, venivano considerati da Cudworth essenziali alla True

Religion: : : : che tutte le cose del mondo non procedono senza governo; che essendo Dio onnipotente

essenzialmente buono e giusto, esiste un fusein kalon e dikaion - ciò che è buono e giusto per

propria natura in modo immutabile ed eterno; e, infine, che la libera volontà è necessaria alla

moralità: gli uomini sono tanto responsabili delle proprie azioni quanto capaci di giustificarsi per

loro mezzo.

Da qui Cudworth passava a confutare l’arbitrarismo etico e religioso. Per Hobbes il sovrano

esprimeva un potere assoluto, dalla sua volontà derivavano morale e giustizia, per Cudworth giusto

e ingiusto dipendono invece dall’ordine dato del reale – la vera legge, il vero nomos ha un

carattere sostanziale, è ciò che è valido in sé:

Per il Cudworth l’etica deve essere φύσει , cioè essa deve fondarsi sul fatto naturale che le azioni dell’uomo possono essere meritevoli oppure riprovevoli. E, siccome la natura, per Cudworth come in genere per tutto il platonismo

278 PE [193], p. 257. 279 RBW2, p. 281. 280 Ivi, p. 477.

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stoicheggiante del Seicento inglese, equivale alla razionalità che la governa, l’etica deve fondarsi, per Cudworth, essenzialmente sulla ragione281.

Inoltre mentre in Hobbes la volontà del sovrano – vicario di Dio in terra - determina la religione

del cittadino e non si dà distinzione fra potere spirituale e temporale, per Cudworth una

mediazione dell’autorità statale in quest’ambito era inammissibile. Questa infatti avrebbe implicato

una incapacità dell’intelletto umano di scorgere la salvezza e la verità divina282.

Cudworth separa quindi il fatto religioso dall’autorità civile. In tal senso, se per Hobbes il

sentimento dell’origine della società civile – la paura - dava luogo ad una politica che separa il

buono dal giusto, per questo atea, per Cudworth l’origine della società civile era invece un vincolo

e una giustizia naturale (Natural Justice), a propria volta fondamento dell’autorità divina ed

umana. L’uomo fa il suo ingresso nella società non perché spinto dal timore, ma perché è ciò che la

sua natura richiede: ne segue che l’autorità umana non può essere illimitata, ma vincolata dalla

giustizia stessa.

Una concezione dalle rilevanti conseguenze anche sul piano gnoseologico283 dal momento che

l’arbitrarismo, umano o divino, presentava come implicazione quella di «privare l’ordine

dell’essere di una intrinseca razionalità, lasciandolo al beneplacito di una volontà arbitraria, in altri

termini negare la possibilità dell’adeguazione dell’ordine razionale all’ordine della realtà; il che

equivale, in ultima analisi, a destituire di ogni valore l’umana ragione»284.

Cudworth, seguendo il Teeteto platonico285, rifiuta di far dipendere la conoscenza dalla mera

sensazione e da dati sensibili, opponendole una teoria della conoscenza intesa come “azione”,

attività organizzatrice; inoltre l’intelletto umano non si fermava al piano sensibile ma era in grado

di raggiungere il vero e il bene secondo natura, l’essenza immutabile delle cose e, da queste,

giungere ad una Eternal Mind. Egli dunque affermò prima l’idea di Dio, e successivamente stabilì i

fondamenti di tale credenza contro coloro che la ritenevano incomprensibile o si fermavano di

fronte alle difficoltà che l’idea di infinito presentava.

Per Cudworth – come ha osservato Cragg - l’idea di Dio non era tra i concetti che non possiamo

comprendere a causa dei limiti della nostra mente, era possibile ammetterla, ed anzi includeva la

281 A. Plebe, Il Platonismo inglese, cit., p. 511. 282 Si tenga presente che Cudworth, come altri platonici, scriveva confrontandosi con il cambio dei vertici politici ed ecclesiastici verificatosi con la restaurazione del 1660 e il regno di Carlo II, e le conseguenti sostituzioni nella gerarchia e nelle università dovute all’ingerenza del potere politico in ambito religioso. 283 Per una esposizione della teoria della conoscenza del Cudworth si veda: J. H. Muirhead, The Cambridge Platonists (I), cit., pp. 171 – 178.; J. A. Passmore, Ralph Cudworth. An Interpretation, cit., pp. 29 – 39. 284 M. Sina, L' avvento della ragione, cit., p. 126. 285 Cfr. E. Cassirer, La rinascenza platonica in Inghilterra, cit., p. 60; G. P. H. Pawson, The Cambridge Platonists and Their Place in Religious Thought, cit., p. 75.

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sua esistenza necessaria286. Nell’uomo vi è una consapevolezza di Dio che è la sua prova maggiore, e

nient’altro può spiegare l’esperienza religiosa se si esclude il senso di infinito presente nel cuore

umano287. Si trattava quindi non tanto di affermare l’esistenza di un principio spirituale, ma di

coglierne il carattere: «la gerarchia dei valori convinse Curdworth che il mondo è inintelligibile se

non nei termini di un Dio saggio e santo»288.

In tale prospettiva restava «aperta la via alla rivelazione, proprio perché l’ordine veritativo non è

completamente esaurito dalla ragione umana»289.

Nel 1647 Cudworth tenne un celebre sermone presso la House of Commons e descrisse la vita di

Cristo come il fulcro di tutta la fede290, senza la quale le diverse forme religiose non sono altro che

sogni: Egli era stato maestro di vita ed il miglior cristiano291. Era così che la riflessione teologico-

filosofica di Cudworth trovava compimento in una cristologia.

d. 3. «d. 3. «d. 3. «d. 3. «One LightOne LightOne LightOne Light does not opposedoes not opposedoes not opposedoes not oppose anotheranotheranotheranother»: l’anti»: l’anti»: l’anti»: l’anti----innatismo di Culverwellinnatismo di Culverwellinnatismo di Culverwellinnatismo di Culverwell

Nell’ambito del platonismo cantabrigense e dell’influsso su John Locke merita una menzione

anche Nathanael Culverwell292, i cui sermoni furono raccolti dopo la morte da William Dillingham

nel noto An Elegant and Learned Discourse of the Light of Nature del 1652293.

286 Per una esposizione della teologia del Cudworth si veda: J. H. Muirhead, The Cambridge Platonists (II), in «Mind», 36 (1927), pp. 326 – 335; G. P. H. Pawson, The Cambridge Platonists and Their Place in Religious Thought, cit., pp. 76 – 81. 287 PAR pp. 50 – 51. 288 Ivi, p. 51. Si trattava di un topos del platonismo di Cambridge, il quale contro l’accento puritano posto sul potere divino enfatizzava la bontà di Dio. Già Whichcote aveva insistito sulla bontà divina, affermando che la sua saggezza e il suo potere erano perfezioni solo in quanto congiunte a giustizia e bontà. E la creazione stessa è prova della sua bontà [Goodness]: «Dio non ci ha imposto alcuna legge che Egli stesso non osserva». Cfr. G. P. H. Pawson, The Cambridge Platonists and Their Place in Religious Thought, cit., p. 28. Anche Cudworth «parla con malcelato orrore di quei “tremendi decreti” (orrenda ista decreta) coi quali Dio dovrebbe poter condannare l’uomo per puro arbitrio. Una simile credenza è per lui la vera negazione e il pervertimento di ogni religione; non solo essa priva Iddio della qualità della bontà e della giustizia, ma ne annulla addirittura l’essenza e l’esistenza: è il germe dell’ “ateismo» . E. Cassirer, La rinascenza platonica in Inghilterra, cit., p. 82. 289 M. Sina, L’avvento della ragione, cit., p. 130. 290 R. Cudworth, A Sermon Preached Before the House of Commons. March 1647, Cambridge 1647, ora in G. Cragg (ed.), The Cambridge Platonists, Oxford Univ. Press, New York 1968 pp. 369-407. 291 Sulla predica alla Camera dei Comuni di Cudworth cfr. RT, II, pp. 228 ss.; G. P. H. Pawson, The Cambridge Platonists and Their Place in Religious Thought, cit., pp. 72 ss. 292 Su Culverwell (1615/1618-1650) si hanno poche notizie biografiche: entrò nel 1633 all’Emmanuel College, diventandone fellow nel 1641. Si vedano: RED, pp. 54 – 55; RT, II, pp. 410 – 426; G. Fassò, Storia della filosofia del diritto: L’età moderna, cit., II, pp. 147-148; M. Sina, L’avvento della ragione, cit., pp. 103 – 117; M. Micheletti, Il pensiero religioso di John Smith, cit., pp. 181 – 206; G. P. H. Pawson, The Cambridge platonists and their place in religious thought, cit., pp. 85 – 90. 293 N. Culverwell, An Elegant and Learned Discourse of the Light of Nature, Dillingham, Oxford 1652; ora in E. T. Campagnac, The Cambridge Platonists, cit., pp. 211 – 321.

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Anche nel suo caso risulta centrale l’alleanza tra ragione e fede, la cui origine era considerata

comune, come comune era il loro fine: la gloria di Dio294. Tuttavia Culverwell, se da un lato

condivise con i platonici la convinzione che la ragione fosse la via maestra per giungere alla

religione, dall’altro la considerava una forza viva in grado di guidare l’uomo, e non un sistema di

princìpi a priori295, polemizzando – in anticipo rispetto a Locke – con la dottrina delle notitiae

communes e l’innatismo di Herbert di Cherbury e di Smith.

Secondo Pawson, Culverwell non si sarebbe definito del tutto un “platonico” e rispetto a Smith

era senz’altro un puritano più rigoroso296. Egli dimostrò inoltre una cultura filosofica accurata:

conosceva Bacon, Descartes, Suarez, Hobbes, e discusse apertamente le tesi di Herbert.

Culverwell si oppose inoltre agli estremismi che tendevano ad esaltare la sola ragione o il

semplice fideismo; rivalutò la reason ma sempre unitamente alla rivelazione, ritenendo che non vi

fosse nulla nei Vangeli di contrario alla luce proveniente dalla ragione.

Nella sua opera Culverwell parla, come già Whichcote, di una Candle of the Lord297, di una luce

divina, la cui interpretazione è tuttavia controversa. Secondo il teologo, si tratta della “luce

naturale” o “di ragione”: Dio ha dato a tutti i suoi figli un’anima ragionevole, che li illumina e li

dirige nella ricerca e nella conoscenza di sé. Come ha scritto Hefelbower:

Nel Discourse on the Light of Nature di Culverwell abbiamo forse il più eloquente dei discorsi sulla relazione tra fede e ragione che questa Scuola di razionalisti abbia prodotto. Suo scopo dichiarato è “dare alla ragione quel che è della ragione e alla fede quel che le spetta” […]. La ragione è un dono regale del Creatore, che scopre la luce morale fondata nella luce naturale, ovvero la luce della ragione, poiché “non vi è nulla nel Vangelo che sia contrario alla ragione”. Con la ragione l’uomo conosce le leggi di Dio ma non è l’autrice. Essa trae la sua autorità dal cielo. […] Inoltre vi sono determinate questioni di fede che saranno sempre above reason ma non ad essa contrarie 298.

Candle of the Lord può intendersi qui come sinonimo di ragione umana, per mezzo della quale

poter risalire alla legge di natura (un aspetto ripreso da Locke a partire dai Saggi sulla legge di

natura), oppure una legge originaria radicata nella natura stessa delle cose299.

294 Nel primo capitolo di An Elegant and Learned Discourse of the Light of Nature si afferma l’intenzione di «dare alla ragione quel che è della ragione e alla fede quel che è della fede; di dare alla fede il suo pieno scopo e la sua ampiezza, e alla ragione i suoi giusti confini e limiti». Ivi, pp. 211 ss. 295 Tale affermazione si può applicare più specificamente al Vangelo. Come ha spiegato Cassirer, nella visione dei platonici «il Vangelo non è un libro, ma una forza: una forza che tende a rinnovare e a foggiare la vita». E. Cassirer, La rinascenza platonica in Inghilterra, cit., p. 35. 296 Cfr. G. P. H. Pawson, The Cambridge Platonists and their place in religious thought, cit., p. 85. 297 Cfr. N. Culverwell, A Discourse of the Light of Nature, in E. T. Campagnac, The Cambridge Platonists, cit., pp. 214-215; 218-219. 298 RED, pp. 69-70 (trad. mia). 299 Cfr. N. Culverwell, Discourse of the Light of Nature, in E. T. Campagnac, The Cambridge Platonists, cit., pp. 241 – 262.

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Quando Culverwell dice che la legge originale ed eterna “scaturisce dalla Volontà di Dio stesso”, il quale “ha una libertà così piena e infinita da non poter essere vincolata da una legge”, questa è solo una contraddizione verbale con la tesi di Cudworth, secondo cui la moralità risiede nella bontà di Dio, e che la sua natura è tale che Egli stesso non può agire contro la legge morale300 .

Perciò il ruolo della ragione – che è una luce derivata da Dio stesso ed è comune a tutti gli uomini

– non è quello di creare, ma di scoprire, la legge di natura la quale è anteriore all’intelletto

creato301.

Anche nella dottrina di Culverwell la ragione ha un ruolo essenziale in quanto consente la

conoscenza e l’interpretazione della legge di natura - «So that Reason is the Pen, by which Nature

writes this Law of her own composing»302: essa è offerta ad ogni uomo ed è un lume sufficiente.

In primo luogo la “legge naturale” è derivata: proviene da un ordinamento stabilito da Dio stesso,

la legge divina. Questa legge è luce da luce, partecipa di un qualcosa di più splendente e glorioso: la

ragione umana partecipa dell’intelligenza divina e si identifica con la volontà di Dio303.

Culverwell, nel ritenere che i sensi siano fondamentali sul piano conoscitivo e che l’uomo nasca

solo con la facoltà di conoscere - e non con una qualche conoscenza -, anticipa la gnoseologia

lockiana e prende esplicitamente le distanze dalle idee innate, sottolineando il ruolo della

sensazione e dell’esperienza sensibile304. Per tale ragione, ha sostenuto Plebe,

di tutti i platonici di Cambridge, Culverwell è quindi quello che meno si trova in contrasto con la teologia cristiana: infatti la sua teoria che la “legge naturale” derivi da una “legge divina” permette di ritenere che anche la religione razionale e naturale, che pure Culverwell come ogni deista sostiene, sia però fondata su di una volontà divina, che può quindi meglio palesarsi attraverso la rivelazione305.

300 G.P.H. Pawson, The Cambridge Platonists and their place in religious thought, cit., p. 87 (trad. mia). 301 «There are stamp’d and printed upon the Being of Man some clear and indelible Principles, some first and Alphabetical Notions; by putting together of which it can spell out the Laws of Nature. […] Now these first, and Radical principles are winded up in some such short bottoms as these: Bonum est appetendum, malum est fugiendum; Beatitudo est quaerenda; Quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris. […] For, you must not, nor cannot think that Natures Law is confin’d, and contracted within the compasse of two, or three common Notions; but Reason, as with one foot it fixes a Center, so with the other it measures, and spreads out a Circumference, it draws several Conclusions, which do all meet, and croud into these first, and Central Principles». Cfr. N. Culverwell, Discourse of the Light of Nature, in E. T. Campagnac, The Cambridge Platonists, cit., in part. pp. 263-73, qui 255- 56. 302 Ivi, p. 268. 303 «This Law of Nature, having a firm and unshaken Foundation in the necessity and conveniency of its materials, becomes formally valid and vigorous by the mind and command of the Supreme Law-giver, so as that all the strength and nerves and binding virtue of this Law are rooted and fasten’d partly in the excellency and equity of the commands themselves. But they principally depend upon the Sovereignty and Authority of God himself, thus contriving and commanding the welfare of his Creature, and advancing a Rational Nature to the just perfection of its Being. This is the rise and the original of all that obligation, which is in the Law of Nature». Ivi, p. 267. 304 Come ha osservato Plebe, Culverwell rivolge la sua polemica contro la teoria delle idee innate di Smith, rifiutando esplicitamente le connate ideas di Herbert. Tale polemica anticipava quella contro l’innatismo di Locke, il quale proprio attraverso Culverwell venne a conoscenza di Herbert of Cherbury. Cfr. A. Plebe, Il Platonismo inglese, cit., p. 507. 305 Ivi, p. 508.

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Poiché il compito dell’uomo non è quello di ricevere passivamente il bene, ma di alimentare il

dono con la ricerca della verità, cercando di evitare l’errore e il pregiudizio, anche in Culverwell,

come già in Whichcote, il primato va alla ricerca condotta secondo ragione. La dimostrazione

razionale assumeva una chiara priorità sulla tradizione e sull’autorità, e ciò equivaleva a porre un

argine al dogmatismo delle scuole aristoteliche. Al fine di combattere l’intolleranza e l’entusiasmo,

Culverwell sosteneva che verità di fede e verità di ragione non fossero in contraddizione tra loro

ma quel che le distingueva era una diversità di origine. Le verità rivelate possiedono una luce

propria e sono comunicate direttamente da Dio all’uomo, trascendono il lume naturale.

Verità di fede e verità di ragione procedono insieme – «One Light does not oppose another.

Lumen fidei et Lumen rationis, may shine both together; though with far different brightness»306.

È dunque la ragione ad indicare l’unità di Dio, la fede la Santissima Trinità; la ragione dice

l’umanità di Gesù, la fede la sua divinità; la ragione spiega l’immortalità dell’anima, la fede la

resurrezione del corpo.

Tuttavia Culverwell era in grado di riconoscerne anche i limiti: la ragione, che pure ha il

compito di accertare che quanto viene rivelato non sia ad essa contrario, non può comprendere,

ma solo accogliere, il mistero307.

306 N. Culverwell, Discourse of the Light of Nature, in E. T. Campagnac, The Cambridge Platonists, cit., p. 313 (corsivo nel testo). 307 «Reason cannot more delight in a Common Notion or a Demonstration, then Faith does in revealed Truth. As the Unity of a Godhead is demonstrable and clear to the Eye of Reason: so the Trinity of Persons, that is, three glorious relations in one God, is as certain to an Eye of Faith. Tis as certain to this eye of Faith that Christ is truly God; as it was visible to an eye both of Sense and Reason, that he is truly Man. Faith spies out the Resurrection of the Body; as Reason sees the immortality of the Soul. I know there are some Authors of great worth, and Learning, that endeavour to mantain this Opinion, that Revealed Truths, though they could not be found by Reason; yet, when they are once revealed, that Reason can then evince them and demonstrate them. But I much rather encline to the Determination of Aquinas, and multitudes of others, that are of the same Judgment, that humane Reason, when it has stretch’d it self to the uttermost, is not at all proportion’d to them; but, at the best, can give onely some faint illustrations, some weak adumbrations of them. They were never against Reason, they were always above Reason». Ivi, pp. 319-320.

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Capitolo secondoCapitolo secondoCapitolo secondoCapitolo secondo

««««A Christian I amA Christian I amA Christian I amA Christian I am»»»»

Nel precedente capitolo sono stati individuati i principali caratteri del latitudinarismo del Tew

Circle e della Scuola platonica di Cambridge, all’origine di una raffinata riflessione, in ambito

filosofico e teologico, che ha lasciato traccia lungo tutto il Seicento inglese e nella filosofia di John

Locke1.

Una linea di continuità tra questi latitudinari e il filosofo si può individuare in primo luogo

nell’urgenza di una rivalutazione della ragione in ambito religioso da opporre al dogmatismo e al

confessionalismo2; nella tendenza a cogliere l’essenza del cristianesimo come attitudine di carattere

etico, prima che cultuale; come pure nel tentativo di individuare gli elementi essenziali di una fede

religiosa inclusiva, tollerante, su cui l’accordo delle diverse confessioni cristiane era unanime, così

da distinguerli da aspetti non essenziali, privi di un diretto riscontro nelle Scritture, sui quali il

dissenso doveva essere invece tollerato3.

Il programma teologico lockiano non deve essere tuttavia considerato come assolutamente

latitudinario4, sebbene Locke condividesse più di una preoccupazione con tale indirizzo5. Con John

1 Locke aveva letto Falkland, Hales e Chillingworth negli anni della Restaurazione. Si vedano: J. Marshall, John Locke and Latitudinarianism, in R. Kroll, R. Ashcraft, P. Zagorin (eds.), Philosophy, Science, and Religion in England, 1640-1700, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1992, pp. 253-74; RRR, pp. 11, 25-26, 119, 345, 372; S. C. Pearson Jr., The Religion of John Locke and the Character of His Thought, cit., pp. 133-150. 2 Cfr. S. P. Lamprecht, Locke's Attack Upon Innate Ideas in «The Philosophical Review», 36 (1927), p. 153. Sulla ratio lockiana e le sue caratteristiche si veda il saggio di Mario Sina che la pone in relazione alle riflessioni delle importanti personalità del suo tempo: John Locke: la Ratio come Humana Facultas, in M. Fattori – M. L. Bianchi (a c. di), Ratio - VII Colloquio internazionale (Roma, 9-11 gennaio 1992), Olschki, Firenze 1994, pp. 469- 487. 3 Come ha osservato Diego Marconi: «L’influenza del pensiero latitudinario non fu profonda soltanto su Locke […] ma su tutta la storia della Chiesa anglicana: i latitudinari contribuirono infatti a porre il problema della cosiddetta comprensione della chiesa nazionale, cioè dell’abolizione delle condizioni restrittive di appartenenza alla chiesa stessa, che tenevano lontani la maggior parte dei dissenzienti protestanti. Riforme nel senso di una maggiore della chiesa nazionale furono tentate soprattutto in seguito alla Gloriosa Rivoluzione». J. Locke, Terza Lettera per la tolleranza, in Id., Scritti sulla tolleranza, cit., p. 386, nota 113. Sulla lettura di Cudworth da parte di Locke, con particolare riferimento ai rapporti tra materia e pensiero, destino dell’anima e argomenti di carattere metafisico: C. Giuntini, Il corpo immortale: filosofia e teologia nell’ultimo Locke, in «Rivista di filosofia», 96 (2005), pp. 187-215, in part. pp. 204 ss. 4 Cfr. V. Nuovo, Introduction, VIN, p. xxxiii.

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Hales egli considerava l’approccio letterale al Testo sacro il solo unico rimedio ad interpretazioni

distorte o arbitrarie dell’insegnamento biblico6; con William Chillingworth, riteneva la Scrittura

l’unica regola di fede e insisteva sul dovere della sua conoscenza diretta7; come Benjamin

Whichcote Locke parlava di una Candle of Lord data all’uomo per governare ed illuminare la sua

comprensione e la sua vita morale8. Inoltre come Nathanael Culverwell Locke sostenne «che non

esistono idee innate o connate e che per tale ragione la legge di natura non può trovarsi impressa

nell’anima umana, ma la sua conoscenza attraverso il lume di natura, come le altre certezze

fondamentali, entra nell’animo attraverso l’influsso sulla ragione dell’esperienza sensibile»9.

La Scrittura rappresentò per il filosofo whig una fonte di costante ispirazione e di studio. In un

post scriptum alla Letter indirizzata a Stillingfleet egli scrisse:

La Sacra Scrittura è, e sempre sarà, la costante guida del mio assenso; ed io le presterò sempre ascolto, perché essa contiene l’infallibile verità riguardo a cose della massima importanza. Vorrei si potesse dire che non vi sono misteri inessa; ma devo riconoscere che per me ve ne sono, e temo che ve ne saranno sempre. Dove però mi manca l’evidenza

5 Nel catalogo della biblioteca di Locke, realizzato da Harrison e Laslett, compaiono libri che attestano l’interesse del filosofo per la tradizione latitudinaria, per Chillingworth, Taylor, Hales, Grozio ed Episcopio. Cfr. J. Harrison, P. Laslett, The Library of John Locke, cit. 6 M. Sina, Introduzione a Locke, cit., p. 116. 7 Sappiamo dal catalogo dei suoi libri che Locke possedeva copie della quarta e della quinta edizione dell’opera The Religion of Protestants. Egli cita inoltre Chillingworth in due luoghi della Terza lettera per la tolleranza con riferimento al suo abbandono della Chiesa d’Inghilterra. Cfr. Terza lettera per la tolleranza, cit., pp. 539 e 581. Il nome di Chillingworth compare inoltre in A Second Vindication of Reasonableness of Christianity, con un esplicito rinvio alla dottrina della Satisfaction operata da Cristo. Locke in particolare si riferiva ai capp. III, IV e VI dell’opera del Chillingworth. Cfr. SV, p. 91, nota 1. Locke cita inoltre Chillingworth e la sua Religion (cap. VI, §§ 2-3) nella terza lettera al Vescovo Stillingfleet: RBW2, p. 275; in Some Thoughts concerning Reading and Study for a Gentleman [1703] in The Educational Writings of John Locke, cit., p. 399, e nei Pensieri sull’educazione, raccomandandone la lettura per un giovane gentiluomo che voglia imparare a ragionare bene: cfr. PE [188], p. 247. 8 Cfr. RC, p.190; p. 143; Saggio, IV, III, 20; p. 624. Sull’argomento: G. Forster, John Locke’s Politics of Moral Consensus, Cambridge University Press, Cambridge 2005, pp. 84 – 91. Secondo Spellman, Locke fu un sostenitore di Whichcote non solo perché rifiutava la predestinazione ed era a favore di un credo minimale ma perché rinnegava l’entusiasmo ed esaltava la ragione, e ammirava i platonici perché avevano affrontato con coraggio il dramma dell’apostasia. Il punto di distanza rispetto a Locke era costituito però dalle idee innate. Per Whichcote la religione naturale – la legge eterna di Dio – era innata in ciascuno, e costituiva la trama dell’anima umana al momento della sua creazione. Una “legge scritta nel cuore dell’uomo” obbedendo alla quale gli uomini imitavano il loro creatore, e stabilivano l’ordine e il buon governo sulla terra. Ma Whichcote riteneva altresì che il dovere verso Dio si adempisse attraverso l’uso della ragione e dell’intelletto, pertanto nessuno poteva comprendere questa legge senza aver acquisito una ragione matura. Whichcote ricorreva al tema della Caduta per spiegare perché gli uomini non vi obbediscano: dopo il peccato l’unico rimedio per l’anima si trovava nella rivelazione, un aiuto gratuito di Dio, anche se la libera volontà umana restava inalterata. Dio è dunque la causa di tutte le buone azioni degli uomini. Per Whichcote vivere secondo ragione era possibile, ma solo a coloro che si sforzavano di prendere le distanze dai propri peccati. Locke apprese molto da Whichcote. Questi credeva nell’influenza formativa del costume, della tradizione e dell’educazione; come pure nella malleabilità e riconversione possibile da una educazione cristiana. Anche Locke credeva nel potere della buona educazione. Inoltre Whichcote enfatizzava la capacità della ragione di scoprire quello che è naturale e di accogliere ciò che è soprannaturale: affidarsi ad altri nelle questioni religiose significava seguire i papisti, e non si poteva abdicare alla propria responsabilità in questioni del genere. Egli giudicava irrazionale per un uomo non applicare le proprie capacità a tale ambito o affidarsi alla conoscenza di un altro. Locke manifesta posizioni simili nel Saggio. Cfr. W. M. Spellman, John Locke and the Problem of Depravity, cit., pp. 74 – 82. 9 W. von Leyden, Introduction, Essays on the Law of Nature, cit., p. 41. Su Culverwell come riferimento per Locke è d’accordo anche Fassò, cfr. Storia della filosofia del diritto, cit., II, pp. 147-148.

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delle cose, troverò un fondamento sufficiente perché io possa credere: Dio ha detto questo10 .

Questa venerazione per la Sacra Scrittura – che essendo di divina autorità deve essere creduta per

intero - Locke la mostrerà anche altrove11, manifestando un razionalismo religioso nel quale

«Scrittura e ragione s’identificano»12.

Locke inoltre, nella prima Vindication della Ragionevolezza del 1695, scritta in risposta alle

accuse del teologo John Edwards13, in un post scriptum fa riferimento all’affinità tra il messaggio

della Ragionevolezza e un’opera dell’anglicano Simon Patrick, vescovo di Chichester e poi di Ely,

vicino al platonismo di Cambridge14. Nell’ambito della medesima polemica con Edwards, inoltre,

era stato quest’ultimo ad associare Locke a due prelati della Chiesa d’Inghilterra, «uomini di

eminente pietà e dottrina»: il teologo latitudinario Jeremy Taylor, il cui pensiero aveva contribuito

al declinò del calvinismo in Inghilterra, e Herbert Croft, che come Locke si era formato presso il

Christ Church College di Oxford ed era divenuto in seguito vescovo di Hereford.

L’accento sul razionalismo che accomunava Locke e i platonici di Cambridge è stato posto da

Hefelbower:

Forse egli era meno entusiasta di Cudworth e Culverwell, ma è un portavoce [dell’accordo tra fede e ragione] come i suoi predecessori; Egli anzi dà al problema della relazione tra fede e ragione la versione più sistematica che avesse mai ricevuto. Uno scopo al quale dedicò molta fatica intellettuale, tornandovi più volte15.

Risulta difficile isolare i differenti ambiti di una riflessione, come quella lockiana, che spaziava

dall'etica all'economia, dalla teologia alla pedagogia, senza rischiare di distruggerne l’unità.

Ian Harris ha spiegato come questi ampi interessi siano confluiti nei Due Trattati , soprattutto

per quel che riguarda la teologia, e come il pensiero politico lockiano abbia incorporato una

visione assai ampia e multiforme16. Nel rilevare che ogni teoria politica include due elementi

complementari ma distinti - la visione di un autore sulla vita e la società, in relazione a ciò che è

fondamentale o meno per l’esistenza; e la sua tecnica, ovvero l’apparato attraverso il quale egli

10 LBW, p. 96; p. 577. 11 Locke possedeva nella sua biblioteca 28 copie della Bibbia in diverse lingue: Greco, latino, ebraico, inglese e olandese, in stampe del XVI e XVII secolo. Possedeva anche numerosi libri di concordanze e interpretazioni della Bibbia: «All that in reveal’s in Scripture has a consequential necessity of being believed by all those, to whom it is propos’d: Because it is of Divine Authority, one part as much another. And in this sense, all the Divine Truths in the inspired Writings are Fundamental and necessity to be believed». SV, p. 169. 12 L. Pareyson, Introduzione, Due Trattati, p. 28. 13 V. infra, pp. 160 ss. 14 Cfr. S. Patrick, The Witnesses to Christianity, or the Certainty of our Faith and Hope. In a Discourse upon I St. John V, 7-8, London 1675, pp. 10-14, cit. in J. Locke, Difesa della «Ragionevolezza del cristianesimo» dalle riflessioni di Mr. Edwards in SER, pp. 458-459. 15 RED, p. 71 (trad. mia). 16 Cfr. I. Harris, The Mind of John Locke, cit., p. xi.

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traduce tale visione in un’opera politica -, Harris afferma che la visione di Locke non è stata

studiata con l’attenzione che richiede. Per rendere ragione di essa occorre infatti cogliere il senso

profondo che lega le sue opere e la loro interdipendenza17.

Nel presente capitolo ci si soffermerà sul tentativo del filosofo di riconciliare fede e ragione, che

ha avuto una prima fondamentale tappa nel Saggio, per trovare poi compiuta formulazione

soltanto nella Ragionevolezza e nel Discourse sui miracoli, pubblicato postumo nel 1706.

***

Il filosofo whig ricevette nella sua prima infanzia un’educazione puritana. McLachlan lo presenta

come il figlio maggiore di un puritano di classe media, che servì nell’armata del Parlamento

durante la guerra civile18. Nato nel Sommerset nel 1632, Locke proseguì gli studi presso la scuola di

Westminster a Londra19 ed in seguito, con una borsa di studio, nel College Christ’s Church di

Oxford, diretto da John Owen, un Indipendente che nutriva idee ispirate ad una generale

tolleranza religiosa20.

Dunque la formazione del primo nucleo di idee politiche lockiane avvenne durante il Commonwealth e il breve periodo di anarchia che fece seguito alla morte di Cromwell, essendo ancora ben vivo il ricordo degli anni più cruenti della guerra civile. Questa è la materia storica su cui si esercitò la riflessione politica di Locke21.

17 Ivi, pp. 1-2. 18 Cfr. RO, p. 69. 19 Le biografie di Locke più note sono quelle, citate, di Lord King (1830), di H. R. Fox Bourne (1876) e di M. Cranston (1957), alle quali si è recentemente aggiunta quella assai dettagliata curata da R. Woolhouse [Cambridge University Press, Cambridge-New York 2007]. Per un ampio profilo biografico e intellettuale di Locke si vedano, in particolare: J. Tully, Locke, in J.H. Burns-M. Goldie (eds.), The Cambridge History of Political Thought, 1450-1700, cit.; W. Euchner, La filosofia politica di Locke (1969), Laterza, Roma-Bari 1976; A. Carlini, La filosofia di Giovanni Locke, cit., in part. I, pp. VII - XCIV; E. Troeltsch, Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani, cit., II, pp. 342-345; W. Schlangen, Democrazia e società borghese (1973), a c. di C. Galli, Il Mulino, Bologna 1979, pp. 211 – 227; A. Ravà, Le dottrine del secolo decimosettimo in Inghilterra e Olanda, cit., pp. 169 – 185; G. Mosca, Storia delle dottrine politiche (1933), Laterza, Bari 19424, pp. 219 – 223; G. H. Sabine, Storia delle dottrine politiche, cit., pp. 421 – 435; F. Ruffini, La libertà religiosa, cit., pp. 62 ss.; J. W. Yolton, John Locke, cit.; J.W. Gough, Locke’s Political Philosophy, cit.; W. M. Spellman, John Locke and the Problem of Depravity, cit., in part. pp. 39-103; D. Wootton, Introduction, John Locke: Political Writings, cit., pp. 16 – 122; C. A. Viano, John Locke. Dal razionalismo all’illuminismo, cit.; Id., Locke, in AA. VV., Questioni di Storiografia Filosofica, Dall’Umanesimo a Rousseau, a c. di V. Mathieu, La Scuola, Brescia 1974-78, II, pp. 435-474; J.-J. Chevallier, Le grandi opere del pensiero politico, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 109-124; V. Marzocchi, Filosofia politica, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 221 – 232. 20 I puritani si dividevano principalmente in due correnti: presbiteriani e separatisti (o indipendenti). I primi chiedevano la sostituzione dei vescovi anglicani con i sinodi dei presbiteri, scelti dai fedeli tra i più facoltosi, aprendo ad un possibile rapporto organizzativo con gli anglicani; i secondi rifiutavano invece qualsiasi rapporto con gli anglicani e anche con i sinodi presbiteriani; la loro chiesa era organizzata in una confederazione di unità autonome e indipendenti tra loro, amministrate secondo il volere della maggioranza. John Owen aveva pubblicato nel 1655 le sue Vindiciae Evangelicae, nella cui Preface to the readers tracciò un breve e documentato profilo del socinianesimo, denunciandone la diffusione nella stessa Inghilterra. 21 D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., p. 19.

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James Gibson, in un suo contributo, ha messo in evidenza come Locke sia nato e vissuto in un

mondo di violento conflitti politici ed ecclesiastici, e di rapido mutamento in quasi ogni ambito del

pensiero umano, e come solo a partire dalla fine della sua vita l’Inghilterra sia entrata nelle

condizioni relativamente stabili e tranquille del XVIII secolo22. Erano state risolte le questioni

dinastiche, mitigate le differenze teologiche, la filosofia del Medioevo aveva lasciato spazio alla

scienza moderna e alla way of ideas proposta nel Saggio, e Locke era stato influente in tutti i

campi23. Gibson sottolinea inoltre i due principali interessi che dominarono la vita del filosofo:

quello puramente scientifico e quello politico - religioso.

Un nuovo modo di considerare i problemi della scienza e della filosofia, basato esclusivamente

sul possesso di idee chiare e distinte, aveva trovato dimora ad Oxford, dove Locke apprese

l’interesse per la filosofia24. Anche se non sembra che il clima puritano gli fosse particolarmente

congeniale, egli accolse tutto sommato con favore la Restaurazione del 1660, dichiarandosi in

alcune confidenze ai suoi amici insoddisfatto degli studi universitari ad Oxford25. Ciononostante

seguì con profitto, tra le altre, le lezioni di ebraico di Edward Pococke e si interessò allo studio

delle scienze naturali e della medicina, preferendola alla carriera ecclesiastica26. Ad Oxford Locke

strinse inoltre amicizia con lo scienziato Robert Boyle, fervente cristiano e studioso della Bibbia, il

quale era solito incoraggiare tra gli studenti l’incontro tra la riflessione teologica e la ricerca

scientifica27.

22 Cfr. J. Gibson, John Locke, in «Proceedings of the British Academy», (1933), pp. 29-51, ora in CA, I, pp. 1 – 16. 23 Cfr. ivi, p. 2. 24 «Insieme con la Bibbia, il punto di riferimento della formazione religiosa dei giovani studenti di Oxford restava lo studio dei Trentanove Articoli della Chiesa Anglicana, e dei principali loro commentari. Tra i testi di teologia ad Oxford erano particolarmente letti le opere di Hooker, la Religion of the Protestants del Chillingworth, il Pratical Cathechism dell’Hammond e, dal 1659, l’Expositio of the Creed del Pearson. Anche il De Veritate Religionis Christianae del Grozio era noto; esso anzi era destinato a diventare uno dei libri più attentementi letti nel secolo successivo». M. Sina, Introduzione, SER, p. 12. 25 La delusione di Locke riguardava in particolare le dispute accademiche pubbliche che giudicava poco interessate alla ricerca della verità e adatte solo a litigare; anche successivamente, nell’esilio olandese, egli si lamentò con Jean Le Clerc di non aver avuto un valido indirizzo nell’apprendimento della filosofia e di aver perso molto tempo all’inizio dei suoi studi. Cfr. J. Le Clerc, Elogio del defunto Signor Locke, cit., pp. 737-38. William Costello ha mostrato come le università del tempo fossero impregnate di un vecchio scolasticismo sistematico: «Il regno del sapere era diviso in quattro settori (ogni settore riguardava qualche grado dell’essere): la metafisica (l’essere in generale), la fisica (l’essere in particolare), la matematica (l’essere quantificato), e la cosmografia (l’essere di questo nostro mondo geografico). La accurata precisione di un ordinamento del genere comportava anche una sua rigorosa osservanza e pareva esimere i dottori di Cambridge e troppi altri accademici scolastici da ogni obbligo a ripensare il vecchio corso di studi alla luce dei ritrovati, sempre più innovativi, che si avevano da parte dei cultori di una nuova matematica e di nuove scienze. […] La mentalità vigente nel Seicento era erede di un sistema così rigido, che l’unico modo per liberarsene era il tentativo di erigere una nuova sintesi che includesse le nuove scoperte; oppure bisognava abbandonare la lotta e volgersi in una nuova direzione». W. T. Costello, The Scholastic Curriculum at Early Seventeenth Century Cambridge, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1958, p. 11 cit. in Ch. Hill, Le origini intellettuali della Rivoluzione inglese, Il Mulino, Bologna 1976, p. 423. 26 Cfr. Yolton, Locke and Compass of Human Understanding, pp. 44 – 103. 27 M. Cranston, John Locke, cit., pp. 76-77.

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Al seguito dell’ambasciatore Sir Water Vane, Locke si recò nel 1664 a Clèves in missione

diplomatica. Risalgono a questi anni i citati Saggi sulla legge naturale, scritti in latino e mai

pubblicati dall’autore. Locke approfondì anche lo studio della medicina dopo avere ottenuto una

dispensa reale che gli consentiva di conservare un ruolo al Christ Church senza prendere gli ordini

sacri.

L’incontro con le posizioni del platonismo di Cambridge avvenne a Londra, dove Locke

partecipava come uditore ai sermoni di Benjamin Whichcote (trasferitosi in città nel 1668)28, e

grazie alla frequentazione di John Tillotson, Simon Patrick e Thomas Fowler.

Nel 1672 Anthony Ashley Cooper diventava intanto conte di Shaftesbury, presidente dell’organo

di controllo di tutta la politica economica e cancelliere dello Scacchiere per volere del re.

Nominato segretario presso il Council of Trade and Foreign Plantations, Locke era il suo

consigliere per le questioni ecclesiastiche. Shaftesbury lavorava al progetto di una riforma

economica inglese fondata sulla collaborazione di uomini alla ricerca di un comune benessere,

capeggiava il partito whig favorevole ad una monarchia limitata e tentava una politica di tolleranza

religiosa per realizzare in Inghilterra quella solidarietà protestante non conseguita sul piano

europeo29.

Richard Ashcraft ha fatto osservare che Locke - prima della Gloriosa Rivoluzione - non era noto

come filosofo ma come membro del circolo di Shaftesbury e come suo leale consigliere30. Secondo

lo studioso sarebbe stato sottovalutato il legame tra Locke e il Conte di Shaftesbury.

Maurice Cranston ha cercato tracce del liberalismo lockiano prima del suo incontro con

Shaftesbury nel 1666, ma senza successo. Non sappiamo se Locke lo acquisì da Shaftesbury, ma è

certo che questo non lo apprese da Locke31. Gough conferma che le simpatie politiche di Locke,

28 Secondo Cranston, Locke divenne membro della congregazione di Whichcote. M. Cranston, John Locke, cit., p. 124. 29 «Il commercio doveva diventare lo strumento principale della grandezza e del benessere dell’Inghilterra. […] l’incremento del commercio doveva essere connesso con l’aumento della produzione e della popolazione, ché solo un aumento di popolazione produttiva poteva aumentare le fonti di esportazione. A questo punto la politica economica si saldava con i progetti di tolleranza religiosa e di larga ospitalità concessa agli stranieri come mezzi per favorire l’accrescimento indisturbato di una popolazione produttiva. Queste idee e questi programmi politici stanno sullo sfondo degli scritti economici lockiani». C. A. Viano, John Locke. Dal razionalismo all’illuminismo, cit., p. 189. 30 Cfr. R. Ashcraft, Revolutionary Politics and Locke’s Two Treatises of Government: Radicalism and Lockean Political Theory, in “Political Theory”, 8 (1980), pp. 429-486; ora in CA, I, pp. 50 – 99; Id., Revolutionary Politics and Locke’s Two Treatises of Government, Princeton, 1986. 31 Cfr. M. Cranston, The Politics of John Locke, in «History Today», September 1952, p. 620. Sulla possible influenza di Shaftesbury su Locke si veda anche PPL, pp. 42-43.

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nella maturità, erano whig e a favore della tolleranza religiosa, ma prima della sua amicizia con

Ashley Cooper la sua visione era più conservatrice32.

L’opposizione di Shaftesbury ai progetti volti a rafforzare il potere del re - per difendere la

Camera dei Lords e il diritto del Parlamento di discutere le istituzioni senza impegnarsi

preventivamente - costituiva la prospettiva ideologica degli argomenti teorici affrontati nei

numerosi trattati politici del tempo: era «la difesa della costituzione contro un regime che tende a

trasformarsi in assoluto, eliminando ogni possibilità di critica e di controllo e rifiutando la

divisione della sovranità con il Parlamento»33.

Nel 1675, dopo la chiusura del Parlamento e del Council of Trade and Foreign Plantations di cui

era segretario, Locke soggiornò per quattro anni in Francia, pur rimanendo in ottime relazioni con

Shaftesbury. In questo periodo il filosofo curò la sua salute malferma, approfondì la filosofia di

Descartes, riprese il lavoro preparatorio del Saggio, tradusse gli Essais de Morales di Pierre Nicole34.

Al suo rientro in Inghilterra le fortune di Shaftesbury, nominato nel 1679 presidente del Consiglio

del re - il Privy Council -, sembravano di nuovo in ascesa35.

a)a)a)a) Un Locke radicale?Un Locke radicale?Un Locke radicale?Un Locke radicale?

L’approccio storico di Peter Laslett ha promosso negli anni Sessanta una nuova comprensione della

genesi dei Due Trattati: lo studioso ha sostenuto che la redazione del Secondo avrebbe preceduto

quella del Primo36 e che entrambi i testi furono concepiti e scritti, nella loro forma quasi definitiva,

durante la crisi parlamentare nota come Exclusion Crisis (1679-1682) - e probabilmente completati

in Olanda intorno al 1687 - e non dieci anni dopo, ovvero in occasione della Gloriosa

Rivoluzione37. In tal senso l’opera poteva presentarsi come un “manifesto radicale” con l’intento di

32 Cfr. J. W. Gough, James Tyrrell, Whig historian and friend of John Locke, in «The Historical Journal», 19 (1976), p. 582. Per un profilo della dottrina politica lockiana come modello di teoria liberale si veda: R.W. Grant, John Locke’s Liberalism, University of Chicago Press, Chicago-London, 1991. 33 C. A. Viano, Dal razionalismo all’illuminismo, cit., p. 200. 34 Sul periodo trascorso da Locke in Francia si vedano: J. Lough (ed.), Locke’s Travels in France, as related in his Journal, Correspondence and other Papers, Cambridge University Press, Cambridge 1953; M. Cranston, John Locke, cit., pp. 160 – 183; R. Hutchison, Locke in France 1688-1734, Voltaire Foundation, Oxford 1991. 35 Cfr. M. Cranston, John Locke, cit., pp. 184 ss. 36 Cfr. P. Laslett, Introduction, John Locke: Two Treatises of Government, cit., pp. 45-66. 37 Secondo Laslett la gran parte del Secondo Trattato fu scritta nell’inverno del 1679-80. Solo dopo la pubblicazione del Patriarcha di Filmer nel gennaio 1680 venne aggiunto il Primo Trattato. Nell’estate del 1681 Locke rivide il Secondo Trattato, e dopo aver acquistato il testo di Hooker nel mese di giugno vi aggiunse riferimenti e citazioni dalla sua opera. Vi furono poi revisioni nel 1682, 1683 e nel 1689 (quando Locke potrebbe aver aggiunto alla luce della Rivoluzione i capp. I, IX, XV). Gli studi di Laslett hanno consentito due importanti conclusioni: i Due Trattati non erano stati scritti

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promuovere una rivoluzione, e non di fornire invece una giustificazione a posteriori di

un’invasione da parte del principe d’Orange. Come ha scritto Pareyson

Locke è il whig che polemizza contro i tories di qualsiasi colore, che difende la rivoluzione interpretandola secondo lo spirito del proprio partito, e che, trovandosi ad esser filosofo, pone la propria scienza a servizio della tesi del partito a cui

appartiene38.

Dallo scioglimento del Parlamento nel febbraio 1679 fino al 1681 (anno in cui viene sciolto

l’ultimo Parlamento) la lotta politica si concentra sulla successione al trono di Inghilterra e sui

tentativi di scongiurare una monarchia cattolica39. Da quando Carlo II aveva sciolto il parlamento

whig e assicurato la vittoria ai tories, l’opera Patriarcha, or the Natural Power of Kings di Robert

Filmer40 - risalente probabilmente al 1635 ma pubblicata postuma soltanto nel 168041 - riscuoteva

consensi tra i sostenitori dell’obbedienza passiva al sovrano42. Shaftesbury, per realizzare il suo

progetto, aveva dunque bisogno di «una dottrina della sovranità popolare come fondamento ed

origine di ogni autorità politica»43. In tal senso i Due Trattati avrebbero espresso una filosofia al

servizio della politica, la giustificazione filosofica degli atti di un uomo di partito44.

Sia Laslett che Cranston sostengono che i Due Trattati furono scritti in relazione all’impegno

politico di Shaftesbury: Laslett li ha ricollocati nel loro contesto storico, evidenziando che Locke

iniziò nel 1679 a lavorare sui temi del governo cominciando dal Secondo Trattato45. Cranston ha

come “giustificazione” della Gloriosa Rivoluzione e non rappresentavano una risposta di Locke a Hobbes, poiché il bersaglio polemico del filosofo era Filmer, la cui opera fu oggetto di diffusione e di riscoperta durante la crisi parlamentare di quegli anni. Cfr. P. Laslett, Introduction, John Locke: Two Treatises of Government, cit., pp. 45-67 e 75; Id., The English Revolution and John Locke’s Two Treatises of Government, in «Cambridge Historical Journal», 12 (1956), pp. 40-55; ora in CA, I, pp. 32-49. Sull’argomento si veda inoltre: C. D. Tarlton, The Exclusion Controversy, Pamphleteering and Locke’s Two Treatises, CA, III, pp. 138-160; D. Wootton, Introduction, John Locke: Political Writings, cit., pp. 50 ss. 38 L. Pareyson, Introduzione, Due Trattati, p. 10. 39 I whigs erano impegnati in una campagna di petizioni rivolte a Carlo II con le quali si chiedeva la convocazione del Parlamento. Tale campagna di pressione, tra il 1679 e il 1680, costituiva il progetto di Shaftesbury finalizzato a convincere il sovrano ad escludere il Duca di York (il fratello Giacomo, fervente cattolico e futuro Giacomo II) dalla successione al trono. Da qui il nome di Exclusion Crisis. Cfr. R. Ashcraft, Revolutionary Politics and Locke’s Two Treatises of Government: Radicalism and Lockean Political Theory, cit., pp. 57-58; G. Trevelyan, Storia di Inghilterra, cit., pp. 531 ss. 40 Patriarcha, or the Natural Power of Kings, Davis and Chiswell, London 1680. L’edizione delle opere politiche di Robert Filmer è stata curata da Peter Laslett nel 1949 con il titolo Patriarcha and Other Political Works, cit. Sull’opera si veda inoltre l’introduzione dello stesso Laslett a: J. Locke, Two Treatises of Government, cit., pp. 57 – 59. Su Filmer si vedano: A. Ravà, Le dottrine del secolo decimosettimo in Inghilterra e in Olanda, cit., pp. 154 – 160; PPL, pp. 75-95; J. Daly, Sir Robert Filmer and English Political Thought, Toronto University Press, Toronto 1979. 41 Si veda la nota di L. Pareyson, Due Trattati, pp. 589-590. 42 Locke stesso accenna nella Prefazione ai Trattati ad un “pulpito” che si era «pubblicamente appropriato della sua dottrina» e ne aveva « fatto la teologia di moda al giorno d’oggi ». Due Trattati, p. 74. 43 C. A. Viano, John Locke. Dal razionalismo all’illuminismo, cit., p. 207. 44 Cfr. L. Pareyson, Introduzione, Due Trattati , p. 28. 45 Cfr P. Laslett, Introduction, John Locke: Two Treatises of Government, cit., pp. 45 ss., in part. p. 59; Id., The English Revolution and John Locke’s Two Treatises of Government, cit., pp. 35-36.

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evidenziato che non si trattava di un’opera di filosofia ma di partito: quello di Locke sarebbe stato

un testo di propaganda volto a promuovere gli obiettivi politici di Shaftesbury e dei whigs46.

Secondo Richard Ashcraft la questione della datazione dipende invece dal modo in cui si

interpretano gli obiettivi politici di Shaftesbury, dopodiché è possibile comprendere per quale

finalità l’opera di Locke è stata scritta. Lo studioso ha sostenuto che lo sforzo di Shaftesbury di

promuovere una rivoluzione, con cui Locke era associato, portò alla formazione di un gruppo

relativamente esiguo di radicali che, per composizione sociale e obiettivi politici, si distinguevano

da quei whigs che si trovarono a gestire in seguito la Gloriosa Rivoluzione, i quali, trovandosi al

vertice della struttura sociale e politica inglese, desideravano evitare – piuttosto che promuovere -

cambiamenti radicali47.

In tal senso, la teoria politica lockiana sarebbe stata più affine al radicalismo della Guerra civile.

Ashcraft ha insistito sul lato nascosto del radicalismo di Locke, oscurato invece dalla fama

rasserenante di colui che avrebbe anticipato il trionfo del moderatismo whig del XVIII secolo.

Secondo l’interpretazione di Ashcraft è possibile comprendere i Due Trattati solo inserendoli in

un’atmosfera fatta di congiure e di repressione politica: Locke e i suoi Due Trattati sarebbero stati

parte di una cospirazione portata avanti da un movimento rivoluzionario di tipo radicale, il cui

significato emerge alla luce del tentativo di Shaftesbury di organizzare una rivoluzione negli anni

1681- 1682.

Secondo Ashcraft gli storici avrebbero trascurato il significato di una partecipazione di Locke ad

un movimento rivoluzionario, come se la sua fama avesse impedito di comprenderne l’attività

politica, ed ha tentato di mettere in luce un coinvolgimento attivo dovuto alla sua vicinanza con

Shaftesbury, sfatandone una presunta innocenza “politica”. Locke viene descritto come personalità

riservata e prudente, le cui lettere furono in buon numero distrutte lasciando così nell’oscurità una

parte importante dell’effettiva relazione con Shaftesbury.

Quest’ultimo «benché per altro fosse assai moderato, non accettava ragione a favore della

religione romana, per la quale nutriva un’avversione invincibile, la stessa che nutriva per il potere

arbitrario e tirannico»48. I (falliti) tentativi whig di far passare in Parlamento l’Exclusion Bill e di

appoggiare la successione del figlio illegittimo di Carlo II, il duca di Monmouth, come pure la

richiesta al re di porre nelle mani del Parlamento la successione dinastica, erano indizi di un

tentativo di carattere rivoluzionario, che mirava ad un nuovo assetto costituzionale:

46 Cfr. M. Cranston, The Politics of John Locke, in «History Today», September 1952, p. 622. 47 R. Ashcraft, Revolutionary Politics and Locke’s Two Treatises of Government: Radicalism and Lockean Political Theory, cit., pp. 51-52. 48 J. Le Clerc, Elogio storico del defunto Signor Locke, cit., p. 748.

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La richiesta parlamentare non solo era in contrasto con il principio del diritto divino del re, ma anche con le consuetudini costituzionali dell’Inghilterra. Era, in nuce, una richiesta rivoluzionaria, perché poneva nelle mani del Parlamento (non del popolo) la successione dinastica49 .

In considerazione delle ricerche di Laslett,e della retrodatazione da lui proposta, Locke potrebbe

aver scritto il Secondo Trattato nel 1679 al fine di sostenere la politica whig dell’esclusione dal

trono del Duca di York, fratello di Carlo II, e non per appoggiare i complotti di Shaftesbury, dal

momento che questi in quell’anno non preparava alcuna rivoluzione. In alternativa, se si associa

l’opera agli obiettivi rivoluzionari di Shaftesbury, la sua composizione va fissata in un periodo

successivo - e precisamente in occasione della dissoluzione dell’Oxford Parliament nel marzo 1681

- quando cominciarono ad essere formulati i piani di un tentativo rivoluzionario, del quale

Shaftesbury venne accusato nel 168250.

Se assumiamo che l’Exclusion crisis del 1679-80 era vista dai whigs, da Locke e da Shaftesbury

come una crisi da risolvere con mezzi costituzionali, cioè attraverso dibattiti parlamentari e

petizioni, diventa effettivamente problematico spiegare le intenzioni di Locke nella stesura di un

trattato rivoluzionario51. Nell’ottobre 1679 il re licenziò Shaftesbury da presidente del Privy

Council e prorogò il Parlamento fino al 1680.

Ashcraft ha ritenuto dunque che il Secondo Trattato risalisse ad una data successiva a quella

assegnatagli da Laslett, non condividendo l’interpretazione fornita da questi sulla sua genesi, anche

per l’assenza di prove che il filosofo avesse letto o acquistato la letteratura dell’esclusione nel 1679,

come invece accadde nei due anni successivi.

Lo studioso statunitense ha quindi cercato di provare che il Primo Trattato, nella sua

impostazione generale, poneva il dilemma tra un potere di un solo uomo e quello di origine

popolare che si esprime attraverso consenso ed elezioni. Come pamphlet politico, il Primo Trattato

avrebbe fatto parte della campagna elettorale e parlamentare di Shaftesbury per ottenere supporto

49 N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà, cit., p. 87. 50 Cfr. R. Ashcraft, Revolutionary Politics and Locke’s Two Treatises of Government: Radicalism and Lockean Political Theory, cit., p. 56. 51 Secondo Laslett, il Secondo Trattato sarebbe stato un contributo di Locke a questo dibattito politico relativo all’esclusione, sebbene però non risulti che egli avesse acquistato e letto nel 1679 dei libri o trattati che animavano tale dibattito. Tra il 1680 e 1682, invece, Locke acquistò numerosi scritti e pamphlet sul complotto papista, sui dibattiti parlamentari e sulla questione dell’esclusione. Cfr. R. Ashcraft, Revolutionary Politics and Locke’s Two Treatises of Government, cit., p. 61. Anche Wootton mostra perplessità circa la tesi di Laslett, poiché nel 1679-80 Shaftesbury e i suoi non stavano pensando ad una rivoluzione, cfr. D. Wootton, Introduction, John Locke: Political Writings, cit., p. 50.

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all’Exclusion Bill durante le sessioni parlamentari del 1680-81; pertanto «la polemica contro il

Filmer rientrava nel concreto programma della lotta politica del partito whig»52.

Locke possedeva in effetti trattati e pamphlet whig dove ricorreva un linguaggio politico analogo

a quello dei Due Trattati53. Diversi poi i temi in comune - lo stato e la legge di natura, la

dissoluzione del governo, il consenso tacito, la proprietà privata che sorge dal lavoro individuale-

tra il Secondo Trattato e il Patriarcha non Monarcha di James Tyrrell54, testo che Locke acquistò

nel giugno 168155.

Si è ritenuto pertanto che Locke avesse cominciato a scrivere i Due Trattati più di dieci anni

prima della loro pubblicazione - come confermano anche Gough e Samuel C. Pearson Jr.56 -;

Tyrrell invece terminò molto prima e la sua opera è datata 168157. Tuttavia, mentre i suoi

contemporanei si soffermavano sugli aspetti legali, costituzionali o storici dell’esclusione, Locke

fece in modo da sottrarsi a questo approccio, scegliendo di porre la questione su un piano astratto o

“filosofico” nei termini di uno stato di natura o di uno stato di guerra58.

Tuttavia l’intento di Locke non sembra fosse speculativo, ma principalmente pratico, come ha

osservato anche Pareyson:

Se i motivi fossero stati puramente speculativi, se il Locke si fosse proposta una vera e propria confutazione teorica dell’assolutismo, non avrebbe certo preso a polemizzare contro l’opera del Filmer, il cui valore teorico è, senza alcun

52 L. Pareyson, Introduzione, Due Trattati, cit., p.13. 53 Nel trattatello Vox populi: Or, the People’s Claim to Their Parliaments Sitting (London, 1681), ad esempio, la legge di natura è invocata per difendere una concezione dei fini del governo quali pace, sicurezza e benessere del popolo e per difendere i diritti fondamentali e le libertà del popolo, e in appendice si trovavano due discorsi di Giacomo I (gli stessi citati da Locke nel Secondo Trattato, cfr. T2, 200) volti a mostrare che l’autorità del re deriva dal consenso del popolo, è limitata dalla legge e deve essere diretta a promuovere il benessere generale. Mentre in A Just and Modest Vindication of the Proceedings of the Two Last Parliaments (London, 1681) di Robert Ferguson si discute delle azioni da intraprendere quando il principe vìola la fiducia riposta dal popolo in lui, e delle azioni del re che avrebbero posto gli uomini in uno stato di guerra. Cfr. R. Ashcraft, Revolutionary Politics and Locke’s Two Treatises of Government, cit., p. 62. 54 Figlio di Sir Timothy Tyrrell, Cavaliere al servizio del re, James si dedicò alla scrittura attaccando i principi per i quali i realisti combattevano. Storico whig e amico di Locke, egli visse nella manor house di Oakley, dove negli anni Ottanta anche Locke si intrattenne in diverse occasioni. Locke era più grande di Tyrrell di dieci anni, e la loro amicizia era cominciata ad Oxford, dove si conobbero. Tyrrell fu all’inizio un discepolo di Locke e ne ammirava il talento e la fama; Locke era più riservato e a volte critico nei suoi confronti. The Lovelace Collection della Bodleian Library contiene 63 lettere di Tyrrell a Locke, scritte tra il 1677 e il 1704. Cfr. J. W. Gough, James Tyrrell, Whig historian and friend of John Locke, cit., pp. 581 ss.; D. Wootton, Introduction, John Locke: Political Writings, cit., pp. 52 - 64. 55 Cfr. P. Laslett, The English Revolution and John Locke’s Two Treatises of Government, cit., pp. 62-63. Tuttavia Tyrrell preferiva pensare all’Inghilterra più come una monarchia limitata che ad una costituzione mista con una sovranità divisa in tre poteri, ciò in parte per l’influenza di Pufendorf, che egli ammirava, in parte perché l’idea di tre poteri coordinati era stata impiegata per sostenere che due Camere avrebbero potuto sopravanzare il sovrano. Egli dunque concentrava le prerogative sovrane nella sola figura del re, il quale era tenuto ad esercitarle in accordo con la legge fondamentale. Cfr. J. Franklin, John Locke and the Theory of Sovereignty, Cambridge University Press, Cambridge 1978, p. 92. 56 Pearson afferma più in generale che Locke li cominciò intorno al 1678. Cfr. S. C. Pearson Jr., The Religion of John Locke and the character of his Thought, cit., p. 135. 57 Su una possible influenza di Locke su Tyrrell, e non viceversa, cfr. D. Wootton, Introduction, John Locke: Political Writings, cit., pp. 58 –64. 58 Cfr. R. Ashcraft, Revolutionary Politics and Locke’s Two Treatises of Government, cit., p. 61.

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dubbio, assai scarso, ma avrebbe intrapreso una critica a fondo del pensiero dell’Hobbes che è, senza dubbio, il massimo

teorico dell’assolutismo fra i politici inglesi del Seicento59.

Gough ha notato che per un «whig le tesi di Filmer erano pericolose non solo perché egli sosteneva

l’assolutismo del re per diritto ereditario, ma perché negava le rivendicazioni sull’antichità della

House of Commons, sostenendo che le origini del Parlamento non si trovavano negli antichi diritti

fondamentali ma nella decisione del re di consultare alcuni dei suoi sudditi»60.

Locke avvertiva che, se la successione non si fosse risolta in modo da riaffermare l’istituzione di

un governo attraverso il consenso di uomini che fanno uso della propria ragione, l’approccio

fondato sul diritto divino alla successione avrebbe condotto a disordini senza fine, come una

guerra civile. Questo era anche lo spettro che i whigs agitavano nei dibattiti parlamentari e nei

pamphlet del 1680; l’intento era quindi di rafforzare la posizione che sosteneva il passaggio

parlamentare dell’Exclusion Bill come unica alternativa alla guerra civile. Tuttavia senza un

Parlamento in carica né l’argomento politico né questa strategia avrebbero avuto significato.

Perciò, quando Carlo II dissolse il terzo Parlamento in due anni, predisponendosi a farne a meno,

occorreva un nuovo argomento politico e una nuova strategia per coloro che, come Shaftesbury,

non intendevano cessare l’opposizione alla successione al trono del Duca di York 61.

In un contesto del genere, secondo Ashcraft, «the primary target of Locke’s attack is not Filmer,

but Charles II»62, anche se sostenere in modo aperto la resistenza a Carlo II sarebbe stato assai

azzardato, come dimostrava la condanna a morte di Algernon Sydney che aveva scritto contro il

Patriarcha di Filmer.

All’inizio del 1682 era iniziata intanto l’amicizia tra Locke e Damaris Cudworth, figlia del

platonico di Cambridge Ralph Cudworth, incontrata a Londra, la quale diventò presto sua

carissima amica63.

59 L. Pareyson, Introduzione a, J. Locke, Due Trattai sul governo, cit., pp. 12-13. 60 J. W. Gough, James Tyrrell, Whig historian and friend of John Locke, cit., pp. 584-85 (trad. mia). 61 Cfr. R. Ashcraft, Revolutionary Politics and Locke’s Two Treatises of Government, cit., p. 66. 62 Ivi, p. 67. 63 Damaris Cudworth Masham (1658-1708) fin dalla giovinezza apprese i princìpi del cartesianesimo e del platonismo cantabrigense, sviluppando un interesse nella fondazione teoretica della religione e dell’etica. Da adulta studiò il latino. È accertata la sua amicizia con John Norris, che le dedicò The Theory and Regulation of Love (1688) e la lettera: Reflections upon the Conduct of Human Life…In a Letter to the Excellent Lady, the Lady Masham (1690). La relazione sentimentale di Damaris e Locke includeva scambi epistolari sulla dottrina della ragione e della conoscenza, l’amore di Dio e l’immortalità dell’anima, come pure la discussione di vari libri religiosi e filosofici. Mentre Damaris era vicina alle posizioni del platonico John Smith, Locke ne era critico. Restano circa quarante lettere di Damaris Cudworth a Locke (che cominciano ad essere inviate dal 1682) mentre se ne hanno poche di Locke alla donna. Quando subentrarono le difficoltà di Shaftesbury e l’esilio olandese, il filosofo lasciò l’Inghilterra senza dire a Damaris come scrivergli. Secondo Yolton, furono fatti dei tentativi per farla arrivare in Olanda ma senza successo. Da alcune lettere della donna era evidente che la loro cerchia di amici era al corrente e accettava il fatto che Locke provasse dei sentimenti per Damaris. Nel 1685 tuttavia, quando Locke era ormai in esilio, la donna sposò Sir Francis Masham, vedovo con otto figli,

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Dal 1681, con lo scioglimento del terzo parlamento whig ad Oxford, Shaftesbury e i suoi presero

ad attaccare direttamente il sovrano con l’accusa di aver dissolto il governo, legittimando così gli

uomini a prendere le armi contro un tiranno. Nel 1682 si cominciò a pensare ad una rivoluzione.

La situazione era quella di un esecutivo che stava impiegando la forza per impedire la riunione e

l’azione del legislativo, contrariamente alla costituzione e alle pubbliche esigenze, e i whig si

convinsero che il re volesse governare senza più convocare il Parlamento (come effettivamente

accadde). Le azioni del re per impedire che il Parlamento approvasse l’Exclusion Bill costituivano

in un quadro di questo tipo una violazione dell’ “originale Costituzione”, e secondo Ashcraft

obiettivo del Secondo Trattato era precisamente «to provide a justification for the political activity

of those who have decided to resist, on the grounds of self-defence (of their “lives, liberty,

property and religion”), the actions of a tyrant, i.e., one who exercises “force without lawful

authority”» 64.

I radicali ritenevano che vi fosse un “complotto papista” e del clero per sovvertire la religione

protestante e l’equilibrio del governo costituzionale inglese, al fine di avviare una riconversione

forzata della Gran Bretagna. Il conflitto politico del biennio 1680-1681 forniva alimento a questo

sospetto e si cominciò a ritenere che il re e il duca di York cospirassero per sovvertire la

Costituzione e la religione ufficiale. Shaftesbury, in quanto leader dell’opposizione, attirò il

sospetto di far ricorso alla violenza per i suoi fini politici. Vero o meno che fosse, Shaftesbury fu

accusato nel luglio 1681 di alto tradimento e i suoi scritti confiscati65, ma in seguito rilasciato. Nel

trasferendosi nella sua residenza di Oates, nell’Essex. Non sappiamo quanto la cosa stupì Locke né possiamo immaginare il reale motivo della repentina decisione di contrarre matrimonio da parte della donna. La dimora di Lady Masham divenne la casa di Locke dal 1694, dopo il ritorno dall’Olanda, e qui il filosofo morì nel 1704 accompagnato dalla sua lettura dei salmi. Damaris Masham intraprese anche una corrispondenza con Leibniz, al quale inviò una copia del libro di suo padre Ralph, The True Intellectual System of the Universe . Nel suo primo libro, pubblicato anonimo e tradotto in francese da Pierre Coste, A Discourse Concerning the Love of God (1696) Lady Masham affrontò della corrispondenza con Locke. Nel 1702 scrisse: Occasional Thoughts in Reference to a Vertuous or Christian Life. Una fonte preziosa per la conoscenza degli ultimi anni della vita di Locke, e il resoconto della sua morte, è una lettera di Lady Masham del 12 gennaio 1705 utilizzata dal Le Clerc ed edita nel suo Epistolario, conservata presso la Biblioteca universitaria di Amsterdam. Su Lady Masham si vedano: S. Hutton, Damaris Cudworth, Lady Masham: Between Platonism and the Enlightenment, in «British Journal for the History of Philosophy », 1 (1993), pp. 29-54; J. W. Yolton, John Locke, cit., pp. 18-20. 64 R. Ashcraft, Revolutionary Politics and Locke’s Two Treatises of Government, cit., p. 67. I whigs nel 1681 chiesero al re la convocazione di un Parlamento, in assenza della quale avrebbero considerato il governo ormai “dissolto”, e il popolo libero di costituire da sé un nuovo Parlamento resistendo alla forza di chi senza autorità s’imponeva su di esso. Secondo Ashcraft, questo era il punto di vista prevalente tra i whigs nel 1681 e aiuta a capire perché Locke abbia cominciato il Secondo Trattato considerando la condizione degli uomini in uno stato di natura, dove i legami del governo sono dissolti, esposti al rischio di uno stato di guerra da parte di un governante che cerca un potere assoluto esercitando una forza “senza autorità”: « For, it is in this respect that the Two Treatises of Government can claim a special quality as a work of political theory written during the exclusion crisis; that is, as a work designed to urge radicals to unite, through revolutionary action, in resistance to the King». Cfr. ivi, pp. 68-69. 65 Tra questi vi era la bozza di una proposta di associazione per la difesa della religione protestante, da opporre alla pretesa del Duca di York, con la solenne promessa di una mutua difesa e assistenza contro i tentativi di introdurre il

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1682 egli lasciò l’Inghilterra e fuggì in Olanda, dove morì l’anno successivo. Locke rimase in

Inghilterra66.

Con l’esilio di Shaftesbury, il ruolo di leadership nell’opposizione al re venne assunto da altri ai

quali tuttavia mancava l’autorità. In questo senso, suggerisce Ashcraft, si potrebbe vedere in Locke

l’esponente “letterario” del movimento rivoluzionario in grado di fornire una difesa di tipo

ideologico al radicalismo. È nel momento culminate della crisi di questi anni – nel 1681 – che deve

essere dunque collocata la composizione dei Two Treatises67.

Un’attenta lettura dei Due Trattati metterebbe quindi in evidenza, secondo Ashcraft, il

radicalismo nascosto di Locke e fornirebbe la prova di un suo ruolo assai più rivoluzionario di

quello presentato dalla versione ufficiale, secondo la quale egli avrebbe semplicemente anticipato

il trionfo del moderatismo whig68. Più che una riflessione di carattere filosofico, il suo sarebbe

stato il tentativo di persuadere chi ancora non aderiva a quel progetto rivoluzionario a farne parte.

Negli otto mesi successivi all’esilio di Shaftesbury in Olanda, durante i quali questi ottenne la

cittadinanza di Amsterdam per evitare l’estradizione, Locke avrebbe potuto ritirarsi ad Oxford per

allontanarsi dalla politica ma – secondo la ricostruzione di Ashcraft – egli scelse di non farlo,

restando a Londra e collaborando al progetto rivoluzionario.

In seguito al fallimento della congiura di Rye House per uccidere il re e suo fratello, nel giugno

1683, Essex, Russel e Sydney furono arrestati, l’Università di Oxford condannò ufficialmente la

dottrina della resistenza al sovrano e Locke lasciò Londra per recarsi presso la dimora di Tyrrell a

Oakley, preparandosi a lasciare il Paese69.

cattolicesimo in Inghilterra. Nel preambolo si affermava che, una volta rifiutata la strada parlamentare, non vi era altra strada, per provvedere a leggi, proprietà e libertà, che una lega per la difesa della religione protestante, del Regno e del Parlamento. Ne segue, per Ashcraft, che la resistenza rivoluzionaria figurava tra le strategie possibili per i whigs sin dal giugno 1681, dopo la sconfitta della via parlamentare. Cfr. ivi, p. 71. 66 La conclusione di Ashcraft pertanto è che il Primo Trattato fu scritto nel 1680-81 in difesa della politica dell’esclusione al trono di Giacomo. Nel marzo 1681, quando il Carlo II sciolse l’Oxford Parliament e dimostrò di non volere quella legislazione, esso doveva essere terminato o abbandonato. A quel punto ai whigs non restava che la ribellione. Nel giugno del 1681 Locke avrebbe quindi lavorato al Secondo Trattato proseguendone la redazione fino all’anno dell’esilio e del Rye House Plot, il 1683, probabilmente per difendere la rivoluzione che Shaftesbury e altri stavano progettando. In questo periodo la resistenza venne teorizzata e pianificata. La pubblicazione del 1690 avrebbe pertanto riunito il Primo Trattato relativo alla crisi dell’esclusione, e all’esercizio del potere in un quadro costituzionale, con il Secondo che si riferiva alla legittima resistenza ad un potere tirannico dimostrata dall’episodio di Rye House. Di diverso avviso David Wootton, che avanza una terza ipotesi accanto a quelle di Laslett e Ashcraft, secondo il quale Locke compose il Secondo Trattato nel 1681, quando non vi era ancora una possibilità concreta di rivoluzione ma si discuteva delle teoria della resistenza. Cfr. R. Ashcraft, Revolutionary politics and Locke’s Two Treatises of Government: Radicalism and Lockean Political Theory, cit., p. 56; D. Wootton, Introduction, John Locke: Political Writings, cit., p. 54. 67 Cfr. J. Rawls, Lezioni di filosofia politica, cit., p. 114. 68 R. Ashcraft, Revolutionary Politics and Locke’s Two Treatises of Government: Radicalism and Lockean Political Theory, cit., p. 52. 69 Negli appunti di Locke si fa cenno alla morte violenta del conte di Essex nella Torre di Londra, dove egli era in attesa del giudizio per il suo ruolo nel Rye House Plot. Secondo i radicali il Conte non si era ucciso ma era stato ucciso dal

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Prima di partire per l’Olanda, Locke trasferì alcune carte dal Christ Church di Oxford alla

residenza di Tyrrell, mentre altre vennero lasciate all’amico Edward Clarke, affinché le bruciasse

se l’avesse ritenuto opportuno. Yolton riferisce che Locke fece testamento e lasciò a Clarke un

codice per comunicare in modo segreto, aggirando le intercettazioni del governo70. Nel settembre

1683 Locke si recò in Olanda71.

***

La dimora di Thomas Dare, una sorta di quartier generale del radicalismo, fu l’alloggio di Locke ad

Amsterdam. Il 16 novembre 1684 per ordine del re Carlo II (che morirà dopo tre mesi) il filosofo

venne espulso da Oxford con l’accusa di una partecipazione ai complotti del periodo, sebbene

contro di lui non vi fosse prova e il vescovo di Oxford (decano del Christ Church) avesse scritto

per perorare la sua causa.

In Olanda Locke visse nel nascondimento, rifiutando il perdono del sovrano per riottenere il

posto all’università. Come ha osservato Yolton, la storia delle avventure di Locke in Olanda è una

storia «di travestimenti, di nascondigli, forse persino di inganni, e di frequenti spostamenti»72: nel

1685, con l’ascesa al trono di Giacomo II, il nome di Locke viene incluso in una lista di esuli

politici dei quali il governo inglese chiedeva l’estradizione.

Durante il suo esilio Locke è «impegnato a scrivere sulla tolleranza, si incontra regolarmente con

un piccolo gruppo per discutere, e completa il Saggio »73; la sua condizione lo costrinse spesso a

cambiare nome e residenza, passando da Amsterdam a Leida, e poi a Rotterdam e Utrecht, per fare

quindi ritorno a Rotterdam. Qui entrò in contatto con i rimostranti74, tra i quali Philip van

governo o con la sua complicità. Probabilmente Locke condivideva questa tesi. Secondo i radicali non c’erano limiti a ciò che il governo era in grado di fare per combattere i suoi oppositori e questo legittimava anche l’uso della forza contro un tale tiranno. Per Ashcraft, vi sono però poche prove di un collegamento tra il duca di Monmouth e Locke, almeno fino all’esilio olandese di questi, durante il quale Locke fu più coinvolto di quanto si dica nel piano di un successivo tentativo di ribellione da parte di Monmouth. Tuttavia il principale assistente di Monmouth era stato pupillo di Locke al Christ Church, e i due avevano alcuni amici in comune. Cfr. R. Ashcraft, Revolutionary Politics and Locke’s Two Treatises of Government: Radicalism and Lockean Political Theory, cit., pp. 75-76; R. Cox, Locke on war and peace, cit., pp. 14 ss. Jean Le Clerc spiega che Locke non si sentiva più sicuro in Inghilterra, anche se sapeva di trovarsi in una condizione tale da non poter venir perseguito legalmente. Un’eventuale prigionia, inoltre, avrebbe messo a repentaglio la sua salute e la sua vita. J. Le Clerc, Elogio storio del defunto Signor Locke, cit., p. 750. 70 Cfr. J. W. Yolton, John Locke, cit., p. 15. 71 Cfr. RO, p. 72; M. Cranston, John Locke, cit., pp. 231 ss. 72 J. W. Yolton, John Locke, cit., p. 17. 73 Ibid. 74 Sui rimostranti si veda il capitolo primo (p. 30, nota n. 158).

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Limborch75, pastore e teologo olandese su Locke: «Questa amicizia – ha osservato McLachlan - è

stata tra le influenze formative nello sviluppo delle opinioni religiose di Locke»76 .

Il Limborch –––– destinatario dell’Epistola de Tolerantia del 1689 e suo curatore per la

pubblicazione in Olanda – era interessato ad una teologia secondo lo spirito di Erasmo, eretta sulla

distinzione tra dogmi necessari e dogmi non necessari, laddove tra questi ultimi figuravano la

dottrina della Trinità, la dottrina sulle due nature nella persona di Cristo e la dottrina (calvinista)

della predestinazione77.

La vicinanza tra la corrente arminiana - alla quale i rimostranti si richiamavano - e i sociniani, i

quali avevano trovato rifugio in Olanda dopo essere stati banditi dalla Polonia nel 1660, era

testimoniata dal fatto che i primi ammettevano al proprio culto i sociniani polacchi, pur senza

condividere i particolari obiettivi del socinianesimo. Si verificò pertanto una reciproca influenza

tra le due proposte religiose, come è evidente dal Racovian Catechism. La riduzione dei dogmi, e

una sostanziale semplificazione del credo cristiano al quale si chiedeva di aderire, facevano dei

rimostranti dei latitudinari che aderivano alla Scrittura come sola regola di fede e consideravano la

fede in Gesù Cristo come Messia il centro della loro professione. Secondo diversi studiosi, il loro

pensiero ha influenzato Locke nella sua riflessione sul cristianesimo da intendersi come religione

morale e non di dogmi. Come ha scritto Troeltsch

[Locke] di buon'ora concepì il puritanismo in senso essenzialmente indipendentistico, e la sua posteriore teoria sulla Chiesa e sulla tolleranza risponde al tipo della setta, non al calvinismo. D'altra parte non meno presto egli concepì la teologia in senso latitudinario, e più tardi, sotto l'influsso degli Arminiani e dei Sociniani, le dette la sua peculiare

75 Limborch (1633-1712) è stato il maggior esponente dell’arminianesimo olandese del tardo XVII secolo insieme a Jean Le Clerc. Dopo aver compiuto gli studi a Leida divenne nel 1668 professore di teologia presso il seminario dei rimostranti ad Amsterdam. La sua teologia - fondata sulla centralità della Bibbia come fonte delle norme di vita religiosa e morale e su un sostanziale accordo tra ragione e rivelazione - attribuiva un ruolo di primo piano alla tolleranza e alla pace, come emerge dalla Theologia christiana ad praxin pietatis ac promotionem pacis Christianae unice directa (1686; 16952). L’opera più nota di Limborch resta la Historia Inquisitionis del 1692 dedicata all’arcivescovo latitudinario John Tillotson, che raccoglie le sentenze del tribunale di Tolosa dal 1307 al 1323 e prende in esame i metodi dell’Inquisizione. L’opera fu posta all’Indice nel 1694. Cfr. P. van Limborch, A Compleat System, or Body of Divinity, Both Speculative and Practical: Founded on Scripture and Reason (London, 1702), pp. 191-192, 236-239, 287-297, 491-520; in V. Nuovo (ed.), John Locke and Christianity, cit., pp. 47 – 88. Su Limborch si vedano: C. A.Viano, Dal razionalismo all’illuminismo, cit., pp. 378 ss.; L. Simonutti, Philipp van Limborch’s “History of the Inquisition” (1692), in J. C. Laursen (ed.), Histories of Heresy in Early Modern Europe. For, Against and Beyond Persecution and Toleration, Palgrave-Macmillan, New York 2002, pp. 101-117; L. Simonutti, Platonismo e ateismi. “Spiritus naturae” e antispinozismo: More e Limborch, in Id. (a c. di), Forme del Neoplatonismo: dall’eredità ficiana ai platonici di Cambridge, cit., pp. 297 – 231. 76 RO, p. 72. Quando Locke conobbe Limborch questi stava scrivendo la sua Theologia Christiana, pubblicata nel 1686, tre anni dopo cioè il trasferimento di Locke in Olanda. Limborch testimoniò che il filosofo inglese conosceva il pensiero dei rimostranti prima di trasferirsi in Olanda e, dopo le conversazioni avute con lui, ne riconobbe l’affinità con il proprio. Cfr. C.A.Viano, Dal razionalismo all’illuminismo, cit., p. 378. 77 Inizialmente, la teologia rimostrante era soprattutto volta a limitare le conseguenze della dottrina della predestinazione; sotto l’influenza del socinianesimo, essa pervenne a posizioni semiariane, negando la divinità di Cristo come dogma ed insistendo sulla funzione essenzialmente profetica e pastorale di Gesù. Cfr. D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., p. 46.

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impronta, molto originale e geniale, ma affatto non calvinistica. Questo secondo punto si congiunse poi con il primo, per modo che insieme con la libertà dei culti egli proclamò anche la libertà dell'interesse filosofico e teologico, la libertà del pensiero accanto alle Chiese 78.

Tale aspetto è presente anche in una lettera che Lady Masham indirizzò a Limborch, in seguito alla

morte di Locke. In essa si affermava che i sentimenti di carattere religioso che Locke aveva trovato

in Olanda dovevano essergli apparsi assai più ragionevoli degli argomenti utilizzati dai teologi

inglesi 79.

Dal febbraio del 1687 Locke soggiornò a Rotterdam presso il mercante quacchero Benjamin

Furly80, nella cui dimora rimase fino al ritorno a Londra. Nel contesto olandese Locke venne a

contatto anche con Jean Le Clerc, professore di filosofia, ebraico e storia ecclesiastica presso il

seminario dei rimostranti di Amsterdam, seguace della teologia rimostrante e dissidente calvinista,

accusato di socinianesimo, il quale finì per stringere con il filosofo inglese una sincera e profonda

amicizia81. Le Clerc era un erudito, direttore della Bibliothèque Universelle, tra le più prestigiose

pubblicazioni europee tra Seicento e Settecento. Egli chiederà a Locke di contribuire di nuovo al

periodico da lui curato.

Non c’era prova che egli avesse un debito nei confronti dei pensatori sociniani e gli studiosi da lui citati erano più o meno ortodossi. Eppure, a causa degli scritti pubblicati in vita, [Locke] lavorò sotto sospetto di essere un eterodosso in dottrina. Un sospetto accentuato senza dubbio dalla sua pratica di pubblicare anonimi i suoi scritti di carattere teologico, così da venire citato in opere con le quali egli non aveva nulla a che fare82.

78 E. Troeltsch, Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani, cit., II, pp. 342-343. 79 Lady Masham affermava di aver ascoltato Locke, dopo il suo ritorno, parlare con molto affetto non solo dei suo amici olandesi ma anche della comunità dei rimostranti, sulla base delle loro dottrine: «As, during some years before he went to Holland, he had very little in common with our ecclesiastics, I imagine that the sentiments that he found in vogue among you pleased him far more and seemed to him far more reasonable than anything that he had been used to hear from English theologians. But, whatever the cause, I know that since his return he has always spoken with much affection not only of his friends in Holland but also of the whole society of the remostrants, on account of the opinions held by them». D. Masham to Limborch, 17 settembre 1705, MSS in the Remostrants’ Library, cit. in H. Fox Bourne, The Life of John Locke, cit., II, p. 282. 80 Con Furly, e con i suoi figli Benjohan e Arent, Locke resterà in rapporti epistolari dopo il suo ritorno in patria. Cfr. Corr., n. 2690, [qui e nelle seguenti VII], pp. 33-34; n. 2700 pp. 46-48; n. 2754, pp. 117-20; n. 2761, pp. 126-28; n.2767, pp. 132-33; n. 2779, pp. 147- 148; n. 2786, p. 159; n. 2832, pp. 208 – 210; n. 2889, pp. 285 – 288; n. 2919, pp. 316 – 318; n. 2932, pp. 337-40; n. 2946, pp. 355-56; n. 2960, pp. 379-81; n. 3030, pp. 486 – 90 ; n. 3065, pp. 530-32; n. 3146, pp. 626 – 633; n. 3171, pp. 659-661; n. 3198, pp. 687-688; n. 3224, pp. 719-720; n. 3226, pp. 721-22; n. 3286, pp. 789-94. 81 Le Clerc fu anche il primo biografo di Locke. Per la stesura del suo Éloge de feu Mr. Locke, scritto a pochi mesi dalla sua morte, egli fece ricorso innanzitutto alle conversazioni avute con il filosofo ad Amsterdam (dalle quali ottenne informazioni sui suoi studi, sulla sua famiglia e sulle sue ricerche). Le Clerc utilizzò inoltre la lettera dell’8 febbraio 1705 con la quale il filosofo inglese Anthony Ashley Cooper, terzo conte di Shaftesbury e nipote dello statista, lo informava sulle vicende politiche che videro coinvolti Locke e suo nonno. Preziosa fu poi la lettera di Lady Masham del settembre 1705, della quale si è detto. La presentazione di Le Clerc era considerata la più fedele ed autentica da Lord Peter King, discendente della famiglia degli eredi di Locke che per la sua Life of John Locke dichiarò di aver avuto lo scritto come modello e fonte di primaria importanza. Cfr. J. Le Clerc, Elogio storico del defunto Signor Locke, cit., pp. 733 -777. 82 RO, pp. 73-74.

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79

Dopo il ritorno di Locke in Inghilterra, nel febbraio 1689, videro la pubblicazione il Saggio, i Due

Trattati83 e la Lettera sulla tolleranza84. Locke ricoprì inoltre la carica di commissario d’appello

presso la Tesoreria.

***

La pubblicazione della Epistola de Tolerantia intanto aveva dato luogo ad una controversia tale da

spingere l’autore – che scambiava le sue idee religiose con il mercante di fede unitaria William

Popple85, legato al circolo di Firmin86, e Benjamin Furly - a nuovi interventi come risposta agli

83 I Trattati furono pubblicati in francese nel 1691 ad Amsterdam, e ripubblicati in inglese nel 1694 e nel 1698. Le Clerc scrive che i princìpi dei Due Trattati «erano contrari a quelli che venivano sostenuti comunemente in Inghilterra prima della Rivoluzione, e che servivano a stabilire il potere arbitrario, non vincolato da nessuna legge. Egli [Locke] capovolge completamente questa “politica turca”, che molti sostenevano col pretesto religioso, per adulare e sostenere coloro che aspiravano ad un potere superiore alla natura umana». J. Le Clerc, Elogio storico del defunto Signor Locke, cit., pp. 758-759. 84 L’Epistola de Tolerantia fu concepita e scritta in ambiente arminiano, nel 1685, all’indomani della revoca dell’Editto di Nantes che apriva alla persecuzione degli Ugonotti in Francia e sulla scia dell’emozione suscitata dal tentativo giacomita di restaurazione cattolica in Inghilterra. Limborch curò a Gouda, nella primavera del 1689, la prima pubblicazione dell’Epistola qualche mese dopo il ritorno di Locke in Inghilterra, con il titolo: Epistola de Tolerantia ad clarissimum Virum T.A.R.P.T.O.L.A. Scripta a P.A.P.O.I.L.A. Il testo latino non venne più ristampato dopo l’edizione del 1768 di Thomas Hollis presente nelle Works (I-IV, London 17687). In Inghilterra la Lettera venne pubblicata anonima nel novembre del 1689, a Londra, come A Letter concerning Toleration, tradotta in inglese da William Popple. La traduzione inglese, pertanto, fu realizzata in ambiente sociniano e divenne espressione della protesta degli Unitari delusi ed offesi dall’Atto di Tolleranza del maggio 1689, che escludeva gli Unitariani dalla tolleranza, diventando una sorta di manifesto che invocava una libertà religiosa per tutti. Rispetto all’edizione di Gouda, la Letter aggiungeva una prefazione To the Reader ed eliminava le sigle presenti sul frontespizio dell’Epistola, che indicavano il nome del destinatario e del mittente, molto probabilmente non di mano di Locke. La traduzione inglese, della quale Locke era certamente a conoscenza, venne inclusa nelle successive edizioni delle Works del filosofo ed ebbe una maggiore fortuna del suo originale latino. Anche Locke citava la traduzione di Popple. L’arminiano Le Clerc - quando decise di tradurre in francese l’Epistola - utilizzò il testo inglese di Popple. Le traduzioni olandese e francese dell’Epistola non uscirono quindi prima della traduzione inglese, ma dopo, e furono entrambe condotte sul testo inglese di Londra e non su quello latino di Gouda. Per la composizione e la pubblicazione dell’Epistola cfr. M. Montuori Introduction, J. Locke, A Letter concerning Toleration, Latin and English Texts revised and edited with variants and an Introduction, M. Nijhoff, The Hague 1963, pp. xi –xxx. Mario Montuori molto ha insistito sull’esigenza di leggere l’Epistola latina e la Letter inglese in funzione delle due distinte situazioni etico-religiose e storico-sociali nelle quali furono concepite e pubblicate: l’una in Olanda, l’altra in Inghilterra. A questa diversità di contesto Montuori riconduce l’inevitabile difformità d’animo, di tono e di stile dei due testi. Cfr. M. Montuori, Introduzione, Sulla tolleranza e l’unità di Dio, cit., pp. 9 – 19; pp. 53 – 82. L’Epistola è stata tradotta in italiano da Francesco A. Ferrari (Carabba, Lanciano 1920); nel 1961 un’edizione italiana riproduceva per la prima volta il testo latino dell’edizione di Hollis del 1768 (La Nuova Italia, Firenze, 1961) con premessa di Raymond Klibansky, Introduzione di Ernesto De Marchi e traduzione di Lia Formigari. Contemporaneamente all’edizione italiana della Lettera, Viano forniva una propria traduzione del testo latino dell’Epistola, cui premetteva la Prefazione di Popple al testo inglese, in Scritti editi e inediti sulla Tolleranza (Taylor, Torino 1961), rip. in J. Locke, Sulla Tolleranza, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 143-189. Nella Antologia degli scritti politici di Locke, curata da Felice Battaglia (Il Mulino, Bologna, 1962) compariva la traduzione della Letter a cura di Alda De Caprariis sul testo inglese di Popple, senza però la Prefazione dello stesso Popple. In questa sede si fa riferimento alla traduzione di Diego Marconi, condotta sul testo latino anziché sulla versione di Popple, che tiene conto sia di quella inglese di Gough (Clarendon, Oxford 1968) sia di quella italiana di Viano. Cfr. LT, pp. 131 – 183. 85 Popple aveva scritto un trattato di ispirazione anti-trinitaria (A Rational Catechism) che Locke conosceva, ed era un sociniano, pertanto escluso dai benefici previsti dall’Atto di tolleranza del 1689. Come ha osservato Montuori: «Il problema della tolleranza religiosa, o meglio della libertà religiosa, era quindi per Popple ancora da porre, altro che risolto» (Id., Il socinianesimo di Locke, cit., p. 62, nota n. 24). Egli era inoltre segretario del Dry Club (un luogo di incontro e di discussione tra amici filosofi voluto dallo stesso Locke, il cui statuto venne redatto da Popple) e del Board of Trade (del quale faceva parte anche Locke). Il pensiero di Popple era vicino a quello di Limborch, e lo seguiva nel respingere l’idea che la rivelazione in una età illuminata non fosse necessaria. Avvicinandosi a S. Agostino, Popple

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attacchi del teologo oxoniense Jonas Proast87, che si ebbero nel maggio 1690 con una Seconda

Lettera sulla tolleranza88 e nel giugno 1692 con una Terza Lettera sulla tolleranza89, nelle quali si

affermava un’eguale tolleranza per i teisti che non avevano giurato fedeltà a un potere straniero.

Come ha osservato Mario Montuori,

Il fatto che Proast, respingendo la netta distinzione lockiana tra società civile e società religiosa e quindi dei fini e dei limiti propri di ciascuna, difendesse la legittimità dell’intervento del magistrato in materia di religione, esigeva una messa a punto inevitabile da parte degli Unitari che dall’attacco di Proast vedevano compromessa la causa loro. Ma una replica a Proast non poteva venire, e di fatto non venne, se non dall’autore della Letter90.

In seguito alla pubblicazione nel 1993 dei Pensieri sull’educazione91, e fino al 1700, Locke ricoprì il

ruolo di commissario del commercio e delle colonie, un incarico che fu costretto a lasciare a causa

delle sue condizioni di salute. Nonostante il tentativo di Guglielmo di respingere le sue dimissioni,

Locke rifiutò di percepire un alto compenso per un compito che non avrebbe potuto espletare in

maniera soddisfacente92. Secondo Yolton, dopo il suo ritorno in Inghilterra,

sosteneva che la corruzione in cui gli uomini erano caduti rendeva cruciali per l’ordine morale gli incentivi della religione rivelata (pertanto la religione naturale era insufficiente). Proprio a causa di questa corruzione era importante definire un credo religioso minimo, come per Limborch e per Locke, perché era volontà di Dio che tutti si salvassero. Sembra dunque che Locke, Limborch e Popple condividessero una tendenza a semplificare la fede per giungere alla sua essenza e renderla comprensibile a tutti. L’adozione da parte di Locke di un credo minimo era dettata da un attento studio delle Scritture in cui ogni parola era presa nel suo senso più ovvio. Anche Locke giunse alle medesime conclusioni di Popple: la fede in Cristo come il Messia era l’unica richiesta per definirsi cristiani e una vita di opere buone secondo le Beatitudini. Su Popple e le vicende relative alla traduzione inglese dell’Epistola cfr. M. Montuori, Introduction, cit., p. xxx ss.; W. M. Spellman, John Locke and the Problem of Depravity, cit., pp. 134 – 37. 86 Thomas Firmin (1632-1697) era un mercante e un filantropo, capo spirituale degli Unitariani inglesi. Su Firmin e il suo circolo si veda: H. Fox Bourne, The Life of John Locke, cit., I, pp. 310 ss.; C. A. Viano, John Locke. Dal razionalismo all’illuminismo, cit., pp. 370 ss. 87 Proast sosteneva che l’autorità politica potesse ricorrere a qualche grado di costrizione, al fine di condurre gli eretici alla riflessione e al ripensamento dei loro errori, anche con castighi ragionevoli. 88 Cfr. Seconda lettera sulla tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, cit., pp. 185-270. L’opera firmata con lo pseudonimo di “Philanthropus” fu riconosciuta dal filosofo nel suo testamento, anche se i suoi contemporanei ne conoscevano la paternità. 89 Cfr. Terza lettera per la tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, cit., pp. 271-740. L’opera fu anch’essa riconosciuta nel testamento del filosofo. Montuori riferisce che nel 1692 Locke ne inviò alcuni esemplari ai suoi amici più cari e fidati: Ashley, Firmin, Newton, Le Clerc e Popple. Cfr. M. Montuori, Il socinianesimo di Locke, cit., p. 67. 90 Id., Il socinianesimo di Locke e l’edizione inglese dell’Epistola sulla tolleranza, in «Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche della Società Nazionale di Scienze, Lettere ed Arti in Napoli», 78 (1967), pp. 535-64; ora in J. Locke, Sulla tolleranza e l’unità di Dio, a c. di M. Montuori, Bompiani, Milano 2002, pp. 51 – 79, qui 76. 91 L’opera ebbe quattro edizioni Locke vivente. L’ultima del 1699. Di essa vi sono diverse traduzioni italiane: quella di G. Salerno (L. Trevisini, Milano-Roma 1888); di G. Marchesini (Sansoni, Firenze, 1922); di O. Pogliaghi e C. Gualandi con studio critico di A. Carlini (Vallecchi, Firenze 1923); di T. Marchesi (La Nuova Italia, Firenze 1932) e di F. Pivano (Paravia, Torino 1946). L’edizione critica degli scritti pedagogici lockiani è a c. di J. Axtell, The Educational Writings of John Locke, Cambridge University Press, Cambridge 1968. 92 Nel 1696 vennero ristampati alcuni scritti di Locke di carattere economico dal titolo: Scritti sulla moneta, sull’interesse e sul commercio. Nonostante l’Inghilterra si trovasse con l’Olanda nel mezzo di una guerra contro Luigi XIV, il Parlamento inglese ascoltò le sue direttive, riformò la moneta e concluse numerose riforme economiche e finanziarie, salvando così il commercio inglese. Tra il 1690-97 si regolò il debito pubblico con un sistema di prestiti regolari garantiti dallo Stato e fu creata la Banca di Inghilterra. Cfr. Locke On Money, ed. P. Hyde Kelly, Clarendon, Oxford 1991. Cfr.

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Locke continuò ad avere contatti epistolari con molti olandesi. Era pure in corrispondenza con diverse persone in Francia, e con amici e parenti in Inghilterra. Queste lettere hanno per oggetto problemi particolari delle terre che Locke possedeva, i suoi investimenti in denaro, consigli medici e cure per le malattie, commenti a recenti pubblicazioni apparse in Inghilterra o all’estero, lo stato degli affari e del commercio, problemi filosofici e religiosi. In queste lettere si colgono l’interesse e l’affetto per gli amici, le risposte riguardose e utili alle domande degli estranei; e l’incessante messa in dubbio e il continuo esame di seri temi intellettuali. L’immagine che ci trasmettono le sue lettere è quella di un uomo dalla volontà forte, dotato di una grande curiosità, le cui azioni erano sovente l’occasione di un’analisi interiore93.

Affiancato dal segretario Pierre Coste, Locke si dedicò negli ultimi anni di vita a riflessioni ed

opere di carattere religioso94.

Al 1704 risale una Quarta Lettera per la tolleranza95 in risposta ad un nuovo attacco di Proast,

incompiuta a causa della morte del filosofo avvenuta nell’ottobre dello stesso anno e pubblicata

postuma nel 1705.

L’epitaffio latino sulla sua lapide recitava:

Fermati, viandante. Qui giace John Locke. Se chiedi che sorta di uomo egli fosse, la sua risposta è che visse soddisfatto della sua modesta sorte. Educato alle lettere, egli compì quanto era sufficiente per realizzare le esigenze unicamente della verità. Questo potrai apprenderlo dai suoi scritti; essi ti diranno tutto quello che vi è da sapere su questo uomo molto più veracemente delle malcerte lodi di un epitaffio. Le sue virtù furono troppo misere perché tu debba essere incoraggiato a seguire il suo esempio per onorarlo; possano le sue manchevolezze essere sepolte con lui. Se desideri un esempio di condotta, lo hai già nei Vangeli; se ne vuoi solo uno di vizi, non cercarlo in nessun luogo; se del nostro essere mortali, se credi che ti possa essere d’aiuto, sicuramente lo hai qui e ovunque. A ricordare che egli nacque il 29 agosto dell’anno del Signore 1632, e che morì il 28 ottobre dell’anno del Signore 1704, serva questa lapide, soggetta come tutto a perire96.

b) b) b) b) Un esame della conoscenza: limiti del sapere e rifiuto dell’innatismo Un esame della conoscenza: limiti del sapere e rifiuto dell’innatismo Un esame della conoscenza: limiti del sapere e rifiuto dell’innatismo Un esame della conoscenza: limiti del sapere e rifiuto dell’innatismo

La soluzione circa i rapporti tra fede e ragione avanzata dal platonico Whichcote sarà anche quella

di Locke, anche se a differenza del primo questi non muoveva da un favore per l'innatismo

neoplatonico. Whichcote ritrovava nell'uomo i principi del conoscere e della condotta morale:

come pure ciò che riteneva Truth, o Light of the First Inscription, considerata una cosa sola con

l'anima97.

Nella seconda metà del XVII secolo, tra gli anni 1670 e 1680, si verifica in Inghilterra una

ripresa delle idee innate, dottrina nella quale confluivano anche interessi di carattere teologico,

anche l’edizione italiana degli scritti economici lockiani: Considerazioni sulle conseguenze della riduzione dell'interesse, a c. di F. Fagiani Cappelli, Bologna 1978. 93 J. W. Yolton, John Locke, cit., p. 23. 94 Su Coste si veda: V. Nuovo, Introduction, VIN, cit., pp. ci- cxi. 95 J. Locke, Quarta lettera per la tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, cit., pp. 741-770. 96 L’epitaffio in latino venne pubblicato per la prima volta nell’edizione delle Works of John Locke del 1714, che includeva anche i Posthumous Works. La traduzione italiana di B. Morcavallo qui utilizzata è tratta da J. W. Yolton, John Locke, cit., nota n. 32, p. 26. 97 Cfr. A. Carlini, La filosofia di Giovanni Locke , cit., II, pp. 14-15.

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come provava la formulazione delle notitiae communes da parte di Herbert di Cherbury98. Per

quest’ultimo la teoria delle idee innate si presentava come una base inattaccabile per la religione

naturale, al confronto con la quale le verità della religione rivelata e i dogmi ufficiali sarebbero

apparsi infondati99. Nel caso dei platonici, invece, questa si prestava alla promozione della causa

liberale della Chiesa di Inghilterra, in vista di una attenuazione delle polemiche tra le diverse sette

del tempo. A tal fine essi parlavano di una ragione semi-divina, di una Candle of the Lord.

La dottrina gnoseologica e morale al vertice del sistema del platonico Cudworth postulava

l'innatismo come base della conoscenza umana, richiamandosi a platonismo e stoicismo. Tale

dottrina considerava le nozioni intellettuali di tutte le cose – come pure i principi di ogni

conoscenza logica, matematica, metafisica, morale - presenti nella mente umana, la quale non

differiva dalla mente divina per natura ma soltanto per estensione. In tal senso, i processi cognitivi

procedevano a partire da nozioni attualmente presenti nell’anima come anticipazioni naturali. Un

caso esemplare era la nozione di Dio, che per Cudworth l'uomo poteva comporre o dividere, ma

non inventare.

Il pensiero inglese aveva conosciuto pertanto un’elaborazione della dottrina innatistica dapprima

schiettamente neoplatonico-naturalistica (Herbert di Cherbury), unita in seguito ad elementi della

soggettività cartesiana, come per More e Cudworth.

È degno di nota il fatto che Locke si sia avvicinato alle considerazioni di tipo epistemologico

presenti nel Saggio a partire da una ricerca di carattere religioso100, come ricorda anche Sterling

Lamprecht, e questo suo interesse avrebbe determinato anche i risultati di tale ricerca101.

98 Su Herbert si vedano: A. Carlini, Herbert di Cherbury e la Scuola di Cambridge, Tip. Della R. Accademia dei Lincei, Roma 1917; M. M. Rossi, Alle fonti del deismo e del materialismo moderno, La Nuova Italia, Firenze, I, 1942; Id., La vita, le opere, i tempi di Herbert of Cherbury, G. C. Sansoni, Firenze 1947, III, pp. 304 – 310; E. Garin, L’illuminismo inglese: i moralisti, F.lli Bocca, Milano 1942, pp. 17-36; C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, cit., pp. 223 – 232; M. Sina, L’avvento della ragione, cit., pp. 147 – 66; A. Plebe, Il platonismo inglese, cit., pp. 497-502. 99 Cfr. Inoltre G.V. Lechler, Geschichte des Englischen Deismus, cit., pp. 36 – 54. 100 Al Saggio sull’intelletto umano Locke aveva cominciato a lavorare nel 1670-71, in maniera discontinua a causa dei suoi impegni. Riprese il lavoro durante l’esilio olandese negli anni Ottanta. Egli discusse con Le Clerc alcuni capitoli e ne stese nel 1687, dietro suo invito, un Extrait in lingua inglese, che comparve sulla Bibliothèque Universelle et Historique nel gennaio 1688, prima che il Saggio fosse pubblicato, nella traduzione francese dello stesso Le Clerc (cfr. Abstract of the Essay [1671] in P. King, The Life of John Locke, cit., II, pp. 231-293). Si noti che Locke non ritenne opportuno pubblicare in Olanda l’abregé del I libro del Saggio nell’Extrait della Bibliothèque - mentre questo apparve integralmente nella edizione inglese dell’opera - per non attaccare apertamente l’innatismo cartesiano e dare quindi luogo a controversie religiose con i teologi cartesiani d’Olanda. La quarta edizione del Saggio, l’ultima curata da Locke, aveva tra le aggiunte e correzioni il capitolo XXXIII del Libro terzo sull’Associazione delle idee e il noto capitolo XIX del Libro quarto sull’Entusiasmo. Dopo la controversia epistolare con Stillingfleet (v. infra) la quarta edizione del 1700 apparve con questo ulteriore capitolo insieme ad altre variazioni, che restarono nella quinta e nelle successive edizioni dell’opera. La quinta edizione recava inoltre note a pie’ di pagina con estratti dalla corrispondenza con il Vescovo di Worcester. Ottima la traduzione in lingua francese del 1700 pubblicata ad Amsterdam, ad opera dell’ugonotto Pierre Coste, rifugiatosi in Inghilterra dopo la revoca dell’Editto di Nantes. Questi risiedeva nella dimora di Sir Francis e Lady Masham, dove viveva anche Locke, in qualità di segretario di quest’ultimo e precettore di uno dei figli della coppia,

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L’occasione che fornì lo spunto del Saggio è nota per un appunto di James Tyrrell sulla propria

copia dell’opera conservata al British Museum, circa una discussione che si tenne sui «principi

della moralità e della religione rivelata»102. Tale circostanza è confermata da Locke nell’Epistola al

Lettore103 e da una dichiarazione d’intenti in apertura dell’opera:

mi misi in mente che il primo passo per soddisfare la mente dell’uomo in numerose indagini, alle quali egli stesso è molto portato a dedicarsi, sarebbe stato quello di raggiungere una veduta complessiva della nostra intelligenza, di esaminarne i poteri, e di vedere a quali cose essi possano applicarsi104.

L’intenzione iniziale di Locke non era rivolta ad un fondamento delle scienze fisiche, piuttosto egli

si propose «di considerare l’origine, la certezza e l’estensione della conoscenza umana dal punto di

vista di chi si occupa dei principi della moralità e della religione rivelata»105.

La parte dell’opera, divulgata in Francia nel XVIII secolo, che maggiormente catturò l’interesse

dei lettori e sembrò contenere la chiave di tutto il pensiero lockiano era la confutazione

dell'innatismo106. In Olanda, dove le questioni teologiche-dogmatiche detenevano il primato, i

cartesiani rimasero turbati dalla polemica lockiana. In Francia, dove prevalevano le questioni

Francis Cudworth Masham. Nell’Epistola al lettore che apre l’opera, nel rievocare la genesi del libro, Locke ricorda un incontro con cinque o sei amici - molto probabilmente Tyrrell, Lord Ashley, Mapletoft e Sydenam - avvenuto nell’inverno 1670-71 presso Exter House, residenza di Shaftesbury - durante il quale ebbe luogo una discussione su un argomento ben diverso da quello poi affrontato nell’opera. Si ritiene infatti che si trattasse di una discussione sui principi della morale e della religione rivelata. Giunta la compagnia ad un punto morto della discussione, in preda ai dubbi, Locke ritenne «necessario esaminare le nostre stesse capacità, e vedere quali oggetti siano alla portata della nostra intelligenza, e quali invece siano superiori alla nostra comprensione”(Epistola al lettore, p. 7). Probabilmente nell’estate del 1671 Locke stese un primo abbozzo (Draft A) del Saggio, rimasto incompiuto, mentre nell’autunno dello stesso anno scrisse un secondo abbozzo (Draft B) anch’esso incompiuto. Cfr. An Early Draft of Locke's Essay together with Excerpts from his Journals, ed. R. I. Aaron - J. Gibb, Clarendon, Oxford 1936; Drafts for the Essay concerning Human Understand and Other Philosophical Writings , ed. by P. H. Nidditch - G. A. J. Rogers, I, Clarendon, Oxford 1990. Solo 18 anni dopo, e i soggiorni in Francia e in Olanda, Locke riuscì a completare l’opera e a pubblicarla. Per una introduzione al Saggio e ai suoi quattro libri cfr.: R. I. Aaron, John Locke, cit., pp. 50 ss.; A. Carlini, La filosofia di Giovanni Locke, cit., I, pp. 38 – 68; G. Bontadini, La posizione storica del “Saggio sull’intelletto umano” di Giovanni Locke, in Id., Studi sulla filosofia dell’età cartesiana, la Scuola, Brescia 1947, pp. 177-204; e poi in Id., Studi di filosofia moderna, La Scuola, Brescia 1966, pp.117-46; C. A. Viano, Dal razionalismo all’illuminismo, pp. 452 – 609; R. Crippa, Il “Saggio sull’intelletto umano” di G. Locke, in AA.VV. (a c. di), Esposizione critica di opere filosofiche, Marzorati, Milano 1962, pp. 223 – 253; A. Pacchi, Introduzione alla lettura del “Saggio sull’intelletto umano di Locke”, Unicopli, Milano 1983; M. Sina, Introduzione a Locke, cit., pp. 26-28; 61-106; J. W. Yolton, Locke and Compass of Human Understanding, cit., in part. pp. 104 – 137; J. Hill – J. R. Milton, The Epitome (Abrégé) of Locke’s Essay, in P. Anstey (ed.), The Philosophy of John Locke: New perspectives, cit., pp. 3-25; J. W. Yolton, Essay concerning Human Understanding, in Id., A Locke Dictionary, Blackwell, Oxford 1993, pp. 65-66; Id., Innateness, ivi, pp. 100-104. 101 Cfr. S. P. Lamprecht, Locke's Attack Upon Innate Ideas in «The Philosophical Review», 36 (1927), pp. 145-165. 102 C.A. Viano, Introduzione, Saggio, p. vi. Cfr. W. von Leyden, Introduction, Essays on the Law of Nature, cit., p. 61. 103 Cfr. Epistola al lettore, Saggio, pp. 7-8. 104 Saggio, I, I, 7; p. 25. 105 S. P. Lamprecht, Locke's Attack Upon Innate Ideas , cit., p 148 (trad. mia). 106 Cfr. P. Emanuele, Introduzione, Saggio sull’intelletto umano, Bompiani, Milano 20072, pp. v- xli, qui xii – xvi.

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scientifiche107, l’opera non richiamò l'attenzione se non in seguito, perché parve non discostarsi da

altri scritti anticartesiani del tempo108.

Nel Saggio – la cui preoccupazione costante, secondo Dunn, era la natura e l’accessibilità della

conoscenza morale109 - Locke motivò la sua contrarietà alla dottrina delle idee innate e ne mise in

luce il nucleo fondamentalmente autoritario al servizio di coloro che, celandosi dietro la tradizione

o l’autorità, miravano ad imporre il proprio giudizio110. Da qui alla pretesa di infallibilità il passo

sarebbe stato breve111.

Si può ritenere pertanto che l’opposizione di Locke all’innatismo si dovesse al dogmatismo in

esso implicito112, che finiva per costituire un pericolo anche per la moralità e la religione rivelata.

Herbert di Cherbury sarà ricordato, non a caso, come il padre del deismo.

L’impegno di Locke divenne allora quello di fissare un confine tra la conoscenza stricto sensu,

alla quale si associa la “completa certezza”, e l’opinione; così da non domandare «perentoriamente

e senza discrezione una dimostrazione ed una completa certezza, laddove è possibile ottenere

soltanto una probabilità»113.

A Locke non sfuggiva inoltre il legame tra la dottrina delle idee innate e l’atteggiamento che nel

XVII secolo prese il nome di «entusiasmo», fondato sulla pretesa di una verità conosciuta per

rivelazione privata ed interiore: «Entrambi – ha scritto il Lamprecht – negavano la necessità, o

persino la legittimità, di una verifica empirica delle idee. Entrambi affermavano il possesso di una

107 Cfr. A. Carlini, La filosofia di Giovanni Locke, cit., I, pp. 26 ss. 108 Sebbene Locke fosse un revisionista dell'epistemologia e della psicologia di Descartes, la sua dottrina delle idee aveva qualcosa del suo pensiero; la sua teoria psicologica della sensazione condivide elementi del meccanicismo dell’autore delle Meditazioni, e la sua prova ontologica dell'esistenza di Dio richiama quella cartesiana. 109 PPL, p. 222. 110 Questi uomini trovano «ragionevole che la loro opinione particolare, o quella del loro partito, passi per consenso universale; il che accade spesso a coloro che, presumendosi soli maestri della retta ragione, non tengono in alcun conto i voti e le opinioni del resto del genere umano. Per cui il ragionamento di costoro si riduce a questo: “I principi che tutto il genere umano riconosce per veri sono innati; quelli che sono riconosciuti dalle persone di retta ragione, sono ammessi da tutto il genere umano; noi, e quelli del nostro partito, siamo delle persone di retta ragione; dunque, i principi su cui noi concordiamo sono innati”» Saggio, I, III, 20; p. 65. Sull’insidia autoritaria dell’innatismo cfr. Saggio, I, IV, 24. Vi erano due categorie di innatisti, ai tempi di Locke: i radicals, rappresentati da Lord Herbert of Cherbury, che consideravano innate solamente quelle idee universalmente condivise; e i conservatives, rappresentati dal teologo John Edwards, per i quali erano innate solo le idee ritenute tali da giudici competenti. 111 Si veda la polemica contro la Chiesa di Roma che si appella all’infallibilità e alla tradizione: Saggio, IV, XX, 10; sulla transustanziazione fondata su un’interpretazione della verità rivelata: Transubstantiation [26-28 agosto 1676] - Ms. Locke f. 1, pp. 421-429; in Essays on the Law of Nature, ed. W. von Leyden, cit., pp. 277-281; trad.it. Fede e ragione, in SER, pp. 185- 189. 112 Cfr. R. Aaron, John Locke, cit., pp. 83 – 98. Maurizio Merlo considera la critica all’innatismo di Locke nell’ambito di una più ampia critica della privatezza della verità: «Di qui la rivendicazione (anticartesiana) del carattere pubblico e comune della verità (essendone la ragione la misura)». M. Merlo, La legge e la coscienza: Il problema della libertà nella filosofia politica di Locke, Polimetrica, Milano 2006, p. 150. 113 Saggio, I, I, 5; p. 24.

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indubitabile comprensione a priori della verità, in ambito teologico ed etico»114. E l’assenza di un

riscontro con il reale era sufficiente - per Locke quanto per i platonici - ad aprire la strada al

fanatismo più esasperato115.

La critica alle idee innate costituiva inoltre una tappa decisiva per l’elaborazione di una politica

di tolleranza.

Il primo libro del Saggio [Of Innate Notions] è dunque il documento lockiano più rilevante per la

confutazione dell’argomento relativo alle idee innate116, questione già presentata nel Draft A del

1671 e in parte anticipata anche dal capitolo terzo dei Saggi sulla legge naturale117.

Il celebre contributo lockiano nasce inoltre dalla volontà di fare chiarezza circa l’impossibilità di

una knowledge in ambito religioso ma semplicemente di una probabilità, alla quale si concede

l’assenso sulla base di una rivelazione118. Locke puntava dunque alla definizione di una modalità

per mezzo della quale poter distinguere tra «certezza logica» e «convinzione psicologica», cioè tra

verità reale e mera convinzione119. E questo perché, studiando i criteri mediante i quali l’uomo

«può e deve condurre le sue opinioni » si comprendono anche «le azioni che ne dipendono»120.

Il filosofo sottopose ad attento esame la dottrina delle idee innate e finì col rigettarla, obiettando

in primo luogo che non vi sono princìpi pratici sui quali vi sia universale accordo e, in secondo

luogo, che se le idee innate sono integre soltanto nella mente di pochi, si rendeva allora necessario

un criterio per individuare questi “pochi”121.

Nel titolo del libro primo del Saggio si chiarisce che non si sta trattando di idee innate ma di

princìpi o nozioni, e il modo stesso in cui viene esposta sin dal principio la tesi avversaria dice con

chiarezza che l’autore faceva riferimento all'empirismo prevalso dopo Herbert122. Principi innati

114 S. P. Lamprecht, Locke's Attack Upon Innate Ideas , cit., p. 154 (trad. mia). 115 La polemica era rivolta in particolare ai Quaccheri, cfr. Saggio, IV, XX, 9-10. 116 Sulla critica di Locke all’innatismo si vedano: S.B. Drury, John Locke: Natural Law and Innate Ideas, in «Dialogue», 19 (1980), pp. 531-545; ora in CA, II, pp. 84 – 97; J. Colman, John Locke’s Moral Philosophy, cit., in part. pp. 51 – 75; G. Aspelin, The Polemics in the first book of Locke’s “Essay” , in «Teoria», 6 (1940), pp. 109-22; J. C. Biddle, Locke's Critique of Innate Principles and Toland's Deism, in «Journal of the History of Ideas», 37 (1976), pp. 411-422; M. Sina, Introduzione a Locke, cit., pp. 64 – 68; C. A. Viano, Introduzione, Saggio, pp. V – XXXIV; J. Gibson, Locke’s Theory of Knowledge and its Historical relations, Cambridge University Press, Cambridge 1917. 117 SLN, pp. 27-33. 118 Come è stato notato, la rivelazione, la fede e la ragione forniscono all’uomo un insieme di idee tra loro complementari. Locke fa propria la distinzione scolastica di knowledge ricevuta per mezzo della ragione e quella che si ha invece per fede, sebbene tale distinzione si riveli poi meno chiara di quanto Locke ritenesse. Cfr. T. B. Mooney – A. Imbrosciano, The Curious Case of Mr. Locke’s Miracles, in «International Journal for Philosophy of Religion», 57 (2005), pp. 147- 168, qui 151. 119 Cfr. S. P. Lamprecht, Locke's Attack Upon Innate Ideas , cit., p. 149. 120 Saggio, I, I, 6; p. 25. 121 Cfr. S. P. Lamprecht, Locke's Attack Upon Innate Ideas , cit., p. 155. 122 Cornelio Fabro ha posto in relazione l’empirismo lockiano con gli esordi dell’ateismo moderno, affermando che «come Bayle ha sbarazzato il campo per l’avvento dell’ateismo spezzando il legame fra morale e religione, così Locke ha preparato il campo mostrando che l’unica realtà che l’uomo può comprendere e di cui può parlare è quella che si

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erano le antiche nozioni generali d'uso comune poste a fondamento delle scienze e della moralità:

princìpi e nozioni di cui avevano fatto abuso i teologi naturalisti. Soltanto nel terzo capitolo del

libro primo si parla propriamente di idee, come a distinguere le nozioni in quanto massime o

assiomi (che è il significato proprio di principi, quale Locke lo intende) dalle nozioni particolari, o

idee123.

È compito della mente – secondo tale dottrina - esaminare tutti i principi e comparare le idee tra

loro prima di fornire il proprio assenso a qualche presunta verità, così da non accogliere opinioni

vane e superstizioni infondate.

Ciò che Locke stava dunque attaccando non erano quelle verità che taluni ritenevano innate ma

«il metodo pericoloso sulla base del quale tali verità erano ritenute certe»124. Attraverso la sua

critica egli non intendeva negare l'evidenza di certi princìpi, ma che essi fossero i princìpi di ogni

conoscenza umana, il punto di partenza e il fondamento, o il significato, del conoscere125. Pertanto

egli non vedeva alcuna contraddizione tra una ammissione di proposizioni autoevidenti e la

considerazione che tali massime non erano i princìpi e il fondamento della nostra ulteriore

conoscenza. Un aspetto, come si vedrà, che tornerà nelle sue rispose al Vescovo Stillingfleet.

Locke riteneva che dall’esperienza derivasse il materiale della conoscenza e dalle facoltà mentali

la certezza di ogni verità, scientifica e morale. Egli riteneva inoltre che la credenza in Dio (belief of

a God) fosse sufficiente da sola a conservare negli uomini «i veri sentimenti della religione e della

moralità»126.

Quanto ai princìpi pratici, Locke spiega:

Ammetto che la natura abbia messo, in tutti gli uomini, il desiderio d’esser felici e una forte avversione per l’infelicità. Ecco qui dei princìpi della pratica innati, e che, secondo la destinazione di ogni principio della pratica, hanno un’influenza continua su tutte le nostre azioni. […] ma queste sono inclinazioni del nostro animo verso il bene, e non impressioni di una qualche verità stampata nella nostra intelligenza127.

presenta ai sensi, mediante le impressioni e percezioni sensibili: il mondo materiale. Ma non soltanto il deismo e il sensismo, bensì lo stesso materialismo e il conseguente ateismo trovarono un buon pretesto nella filosofia di Locke». C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, cit., pp. 274-5. Si può rispondere all’obiezione di Fabro che Locke certamente lega la comprensione e la conoscenza alla sensibilità, ma per tutto quel che non si può conoscere, ovvero che non può essere oggetto di knowledge in senso stretto, egli ammette la rivelazione convalidata dai miracoli e presente nelle Scritture (v. infra). 123 I princìpi sono proposizioni, definizioni, norme o regole, massime teoriche o pratiche, delle scienze o delle azioni, e, in quanto composti di idee (di cui esprimono un rapporto), qualora fossero innati, presupporrebbero come innate anche le idee che li compongono; dopo averne citate alcune – tutto, parte, Dio, identità – Locke fa notare quanto fosse poco credibile considerare queste innate; e questo impediva di considerare innati anche i principi che le comprendevano. Cfr. A. Carlini, La filosofia di Giovanni Locke , cit., II, p. 30. 124 S. P. Lamprecht, Locke's Attack Upon Innate Ideas , cit., p. 150. 125 Per una esposizione dell’origine delle idee nel Saggio si veda: R. I. Aaron, John Locke, cit., pp. 99 – 127. 126 LBW, p. 54; p. 529. 127 Saggio I, III, 3; p. 50 (corsivo mio).

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Questi per Locke erano i princìpi pratici realmente innati che operano sulla volontà e sugli

appetiti128 ed osservava come questi influenzassero continuamente tutte le azioni umane. Per una

condotta morale l’uomo dispone altresì della ragione, che frena i ciechi impulsi, modera le

passioni, sceglie e coordina i desideri al raggiungimento del bene morale. Essa è la facoltà di tutte

le norme etiche, come l’intelligenza intuitiva è la facoltà di tutte le verità conoscitive129 .

Ma con ciò si negava anche che la legge morale fosse un dato gratuito presente naturalmente

nell'anima. Naturale per Locke è soltanto l’appetito, che non è un principio morale e non può

dunque determinate le nostre azioni130, mentre le leggi morali riguardano l'uomo in quanto uomo

e sono conosciute con il lume naturale della ragione131. Come è stato osservato,

C’è una grande differenza tra “legge innata”e “legge di natura”: l'una è una verità impressa originariamente sul nostro spirito, e l’altra è una verità di cui possiamo acquistar conoscenza con l'esercizio delle nostre facoltà mentali: l'una dovrebbe essere sempre e in tutti attualmente, senza che ne sapessero il perché; l'altra è una conquista della nostra ragione132.

Con riferimento all’entusiasmo (il cui significato era analogo a quello del termine “fanatismo”),

in seguito ad una serie scambi epistolari, tra gli anni 1697-99, con Edward Stillingfleet, Vescovo di

Worcester, nota come Locke-Stillingfleet Correspondence133, Locke aggiunse alla quarta edizione

del Saggio, del 1700, il capitolo «Of Enthusiasm», che insieme ad altri cambiamenti rimase nella

quinta e nelle successive edizioni.

Nel libro quarto (capp. XVI-XIX), dove Locke discute il rapporto tra fede e ragione, l’ approccio

è dichiaratamente ostile all’entusiasmo, dal momento che egli era interessato a contrastare quelle

pretese di conoscenza e autorità religiosa fondate sull’ispirazione personale e su una rivelazione

immediata. Quest’ultima veniva rigettata mentre erano ammesse le verità rivelate: si trattava di

definire che cosa si dovesse considerare come revealed truth134. Nel capitolo sull’entusiasmo si

ribadiva a più riprese che esso «lasciando da parte la ragione, vorrebbe stabilire la rivelazione senza

128 Come ha spiegato John Colman, i princìpi pratici tendono ad essere considerati come precetti morali. Uno dei primi critici di Locke, Henry Lee, stilò nel suo Anti-Scepticism (1702) un elenco che andava dal dovere di proteggere la propria vita a quello di osservare i patti, laddove i princìpi innati pratici venivano visti come unica garanzia di una legge morale per l’umanità. Lee accusava pertanto Locke, quando rigettava i principi pratici innati, non solo di aprire le porte al soggettivismo morale e al relativismo, ma di usare espressioni quali “legge di natura” e “legge divina” diversamente dal loro comune significato. Cfr. J. Colman, John Locke’s Moral Philosophy , cit., p. 52. 129 Ciò consente a Locke di spiegare che la diversità d’opinioni che si riscontra tra gli uomini in ambito morale dipende appunto dalle diverse forme di felicità che si perseguono e dalla diversità dei principi pratici di ciascuno, il che prova che essi non sono innati o impressi nelle nostre menti da Dio. Cfr. Saggio, I, III; 6. 130 A. Carlini, La filosofia di Giovanni Locke , cit., II, pp. 39-40. 131 Cfr. J. Locke, Saggi sulla legge naturale, ed. it. cit., pp. 27-33. 132 A. Carlini, La filosofia di Giovanni Locke , cit., II, p. 40. 133 V. infra (al capitolo terzo). 134 Cfr. P. Helm, Locke on Faith and Knowledge, in «The Philosophical Quarterly», 23 (1973), pp. 52-66, qui 53.

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di essa»135; che procede «dalla presunzione di un cervello acceso o pieno di sé»136 e che «chi toglie

via la ragione per far posto alla rivelazione, spegne la luce di entrambe»137.

Su questo aspetto Locke seguiva il platonico Henry More, di cui conosceva gli scritti, il quale

riteneva la razionalità come la sola garanzia del teismo e della vera religione, in assenza della quale

il rischio era una caduta nella superstizione o una cieca obbedienza all’autorità di una chiesa138.

Tuttavia per il platonico More, a differenza di Locke, la ragione possedeva una nozione innata di

Dio.

In due opere, in particolare, More aveva esposto la sua dottrina della ragione. In Enthusiasmus

Triumphatus139 aveva stabilito una relazione tra l’entusiasmo e l’ateismo: entrambi si confermano a

vicenda ed entrambi negano Dio, in quanto forme di degenerazione e di negazione della ragione.

Ad avviso di More, solo una ragione libera dalla fantasia e dagli appetiti sensibili poteva procedere

alla ricerca del vero, e l’umiltà insieme alla temperanza erano indicati come i possibili rimedi

contro l’imaginatio. La ragione, secondo More, restava «condizione e presupposto della fede»140

poiché le spettava il compito decisivo di vagliare il contenuto della rivelazione, di verificarlo e di

concedere l’assenso141.

Nell’Enchiridion Ethicum del 1666 - considerata come l’opera di etica più importante dei

platonici del Seicento - More riflette invece sulla capacità dell’umana ragione di giungere alle

norme etiche fondamentali e alla conoscenza delle verità eterne142. Da questo argomento portante

si comprende anche la sua difesa della tolleranza religiosa: una adesione forzata al cristianesimo

avrebbe leso la dignità dell’uomo e ciò in quanto questi è in grado di raggiungere da solo la verità

135 Saggio, IV, XIX, 3; p. 794. 136 Saggio, IV, XIX, 7; p. 796. 137 Saggio, IV, XIX, 4; p. 795. 138 Circa i miracoli, ad esempio, More riteneva che non dovessero influenzare la mente umana se in contraddizione con le verità naturali, i sensi, la scienza, la fede cristiana, la dottrina o le affermazioni della Scrittura. Cfr. G.P.H. Pawson, The Cambridge Platonists and Their Place in Religious Thought, cit., p. 54. 139 H. More, Enthusiasmus Triumphatus: sive de natura, causis, generibus et curatione entusiasmi brevis dissertatio (1656), in Id., Opera theologica, I-III, G. Olms, Hildesheim 1966. Accanto al razionalismo, che costituiva l’architrave del suo sistema, More ammetteva però un principio superiore di conoscenza – la divine sagacity – che è al medesimo tempo fondamento della ragione e ad essa superiore. Una sovra-ragione che appartiene all’intelletto più che alla sensibilità, esercitata da uomini dalla elevata purezza di vita, diretta alla conoscenza delle cose ultime, spirituali ed incorporee. Essa consente all’anima di giungere alla vera conoscenza, la metafisica, la quale richiede una liberazione dai legami corporei e mette in contatto con la divinità. In questo senso, anche lo studio della natura è finalizzato a ricavare quei princìpi divini che sorreggono l’ordine dei corpi e della realtà naturale. 140 M. Sina, L' avvento della ragione, cit., p. 141. 141 Si tratta di un aspetto particolarmente rilevante presente anche in Locke, che lo affronta nel Saggio sull’intelletto: «Che bisogno c'è della ragione? Ce n’è gran bisogno: sia per estendere della nostra conoscenza, che per regolare il nostro assenso». Cfr. Saggio IV, XVII, 2; p. 760. 142 Cfr. M. Micheletti, I platonici di Cambridge, cit., pp. 97 – 117.

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religiosa. In virtù di questa convinzione, la libertà religiosa si presentava come un diritto naturale

di tutti i popoli143.

Locke assumerà integralmente nella sua dottrina sulla tolleranza tanto il valore attribuito alla

ragione quanto la condanna della forza in ambito religioso144.

In una annotazione manoscritta del 19 febbraio 1682, durante un ritiro ad Oxford dopo il ritorno

dalla Francia, Locke aveva avanzato una definizione di fanatismo, riconducendolo sostanzialmente

ad una rimozione della ragione dall’ambito religioso:

Una persuasione forte e ferma circa una qualche proposizione riguardante la religione, della quale un uomo non ha nessuna prova o nessuna prova sufficiente dalla ragione, ma che egli accoglie come verità introdotta nello spirito in modo straordinario da Dio stesso e come influsso proveniente immediatamente da lui, mi sembra essere fanatismo; essa non può essere per nulla prova o fondamento di certezza e non può in nessun modo essere considerata conoscenza145.

E successivamente chiariva:

Il fanatismo è un errore nello spirito opposto alla bruta sensualità, che tanto si spinge, nell’estremo opposto, da sorpassare i giusti limiti della ragione, quanto poco lo fanno i pensieri che si rivoltano soltanto nella materia e nelle cose dei sensi 146.

Quando la ragione veniva meno era alto per Locke il rischio che si giungesse a sospette operazioni

di fantasia che poco o nulla avevano a che fare con il vero culto di Dio e che in nessuno modo

potevano essere considerate conoscenza o fondamento di certezza; è in questo senso che «ogni

ispirato profetismo nonché ogni delega rassicurante a una qualche autorità gerarchica o al carisma

ecclesiastico sono quindi radicalmente esclusi»147.

143 Cfr. M. Sina, L' avvento della ragione, cit., p. 136. 144 Al posto della violenza More ammetteva esclusivamente un’opera di persuasione razionale, pacifica e paziente, escludendo tuttavia dalla tolleranza – come del resto farà anche Locke - coloro che, a suo giudizio, dimostravano di non fare un retto uso della propria ragione: atei, cattolici, libertini e anarchici L’elemento essenziale, in More come nei platonici, è che sia la rivelazione sia la ragione hanno per fine la salvezza dell’uomo e procedono insieme. Se ragione e rivelazione sono entrambe per la salvezza, non possono contraddirsi. La teologia veniva ad assumere in tale prospettiva una valenza soteriologica, e in questo senso anche politica. Il cristianesimo non era in questa prospettiva un’adesione passiva, ma una verità che informava l’anima dell’uomo, operando una rigenerazione che tuttavia non distruggeva quanto preesisteva. 145 On Enthusiasm [1682] - Ms. Locke f 6, pp. 20-25, in P. King, The Life of John Locke, cit., I, pp. 234-237; trad. it. Entusiasmo, in SER, p. 193 (corsivo mio). Si tratta del primo di tre commenti ai Select Discourses (1660) del platonico di Cambridge John Smith. 146 Entusiasmo, cit., p. 195. 147 M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., p.37.

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b. 1. Una dimostrazione dell’esistenza di Diob. 1. Una dimostrazione dell’esistenza di Diob. 1. Una dimostrazione dell’esistenza di Diob. 1. Una dimostrazione dell’esistenza di Dio

La dottrina dell'innatismo ad avviso di Locke era destinata ad infrangersi contro i limiti

dell'esperienza e delle facoltà mentali. Nella filosofia che egli andava elaborando quel che

oltrepassava tali limiti si presentava come oscuro, vano suono di parole; soltanto ciò che restava al

loro interno invece era chiaro e certo. Di Dio gli uomini hanno certamente un'idea, ma è una loro

fattura come altre idee complesse.

Uno dei maggiori contributi di Locke all’epistemologia ha riguardato la dottrina delle idee e della

loro composizione come base dell’attività intellettuale, a partire dalla derivazione di queste

dall’esperienza.

Quanto alla conoscenza di Dio, e dei princìpi scientifici e morali, l’uomo dispone della ragione.

Pur escludendo la possibilità che l’idea di Dio fosse innata, infatti, Locke ha spiegato che la sua

esistenza, e l'obbedienza dovuta a questo Essere superiore, erano conformi al lume naturale della

ragione148.

Sebbene non si possa prescindere dall’appartenenza di Locke all’indirizzo empirista per

comprenderne la gnoseologia149, si deve ricordare come egli rifiutasse di restringere l’esperienza al

148 Cfr. Saggio, IV, XII, 11. Sulla riaffermazione di un’idea di Dio non innata cfr. anche l’ultima risposta di Locke a Stillingfleet: RBW2, p. 495. 149 L’atteggiamento speculativo proprio dell’empirismo riconduce tutte le conoscenze umane all’esperienza interna ed esterna come fonte primaria e criterio della conoscenza, avendo come presupposti la certezza attribuita ai “dati” che la coscienza sperimenta direttamente per mezzo dei sensi, e l’assunzione di tali dati come materiale di base per la costruzione di concetti astratti e nozioni complesse. L’indirizzo empirista si oppone a tutte quelle dottrine che che fanno derivare la conoscenza da idee puramente razionali non ricavabili dall’esperienza sensibile, accusando di apriorismo dogmatico la teoria delle idee innate. In tal senso l’universalità delle nozioni non è un presupposto ma un punto di arrivo. Anche se l’empirismo come metodo fondato sull’induzione ha avuto in Bacone il principale rappresentante, il procedere induttivo come rifiuto dell’innatismo e di nozioni universali a priori che condizionano il pensiero, nella sua forma classica, ha avuto in Aristotele e poi in Tommaso d’Aquino i suoi maggiori esponenti. Tuttavia solo nell’età moderna l’empirismo ha trovato il suo vigore speculativo, per assumere con Locke la forma di una critica della conoscenza quanto ai suoi esiti e alle sue possibilità. In Hume assumerà fino in fondo la sua forma scettica, negando al pensiero qualsiasi presupposto metempirico e respingendo nella sfera dell’irrazionale le esigenze etico-religiose dell’uomo. Nella filosofia lockiana l’opposizione all’innatismo aveva il fine di riscattare il pensiero dal suo dogmatismo iniziale e di aprirlo a conclusioni metempiriche, come ad esempio l’esistenza di Dio. Locke non si arresta al semplice dato ma ricerca fuori del soggetto – una volta assunta in modo critico la distinzione tra qualità primarie e secondarie - la causa delle percezioni. Egli ammette una realtà materiale esterna all’uomo, come causa esterna delle percezioni, ma nega la possibilità di affermare che cosa sia in se stessa; in tal senso, la sostanza non è più l’oggetto di un’intuizione intellettiva ma la conclusione logica di un’argomentazione che si vorrebbe fondata sui dati sperimentali. Tuttavia in Locke si avverte ancora un’oscillazione fra posizioni discordanti: da un lato la sostanza è considerata un’idea complessa (una sintesi mentale) dall’altro un substrato oscuro, pensato in modo confuso, cui ineriscono delle qualità sensibili ma al quale non corrisponde alcuna esperienza. Inoltre alla res cogitans, posta da Descartes a fondamento dell’dentità personale, Locke sostituisce la continuità psicologica fondata sulla memoria, che unifica gli stati d’animo. Quanto al principio di causalità, per Locke si tratta di un’operazione di livello superiore, un’idea complessa di relazione derivante dalla riflessione sulla relazione tra un mutamento di un fenomeno e lo stato degli altri fenomeni. Come si vedrà, il principio di causalità per Locke è impiegato per dimostrare una realtà materiale esterna e l’esistenza di Dio. Cfr. G. Faggin – F. Grigenti, voce: Empirismo, in Enciclopedia Filosofica, Bompiani, Milano 2006, pp. 3345- 3361; C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, Studium, Roma 1964; P. K. Feyerabend, I problemi dell’empirismo, Lampugnani Nigri, Milano 1971.

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solo ambito della natura fisica per estenderla invece a tutto il mondo umano, e ciò è esattamente

quel che contraddistingue la sua filosofia nell’ambito della tradizione empirista e costituisce il suo

tratto distintivo anche con riferimento alla questione di Dio150.

Va detto poi che Locke non considerò mai esaurito questo argomento, tanto da scrivere in una

lettera a Limborch dell’ottobre 1697:

Le facoltà del nostro intelletto sono proporzionate all’uso che possiamo farne in questo mondo e per servire Dio devotamente προς ζωην και ευσεβες ; ché a questo scopo, infatti, ci sono state elargite. E, a dir vero, io dubito che le facoltà mentali abbiano abbastanza forza e intelligenza per conoscere Dio per quello che realmente è 151.

Nel Saggio Locke elaborò una prova relativa alla dimostrazione dell’esistenza di Dio, pur

riservandosi di tornare sull’argomento in diverse occasioni, in appunti manoscritti e in alcune

lettere. Secondo Cornelio Fabro tale argomentazione, da parte di Locke, «rivela l’intenzione e

l’atteggiamento personale del filosofo e non distrugge la logica dei suoi principi»152.

Victor Nuovo ritiene che la tematica teologica attraversi tutto il Saggio, secondo una molteplicità

di forme e di circostanze153. Lo studioso ha individuato 54 luoghi dell’opera nei quali si fa

riferimento a questioni o a temi di carattere teologico, stimando la loro estensione pari ad un

quarto dell’intero trattato154.

I pilastri della teologia naturale lockiana si possono trovare, ad avviso di Nuovo, proprio nel

Saggio e precisamente nella prova dell’esistenza di Dio, e di un Dio creatore; nell’affermazione di

una legge morale immutabile che la ragione può scoprire e persino dimostrare; nella dipendenza

della felicità umana dal rispetto di questa legge morale e nell’aspettativa di ricompense o punizioni

divine155.

Ma la tesi di Nuovo è ancora più circostanziata: egli ritiene che Locke stesso considerasse il

Saggio come un’opera di teologia naturale (sebbene non esclusivamente e anche se ciò poteva non

150 Un sintetico e puntuale richiamo alla distinzione fra teismo e ateismo si trova in un manoscritto di Locke del 1696: «La questione che si pone tra il Teista e l’Ateo ritengo sia questa, cioè non se vi sia stato nulla dall’eternità, ma se l’essere eterno, che creò tutte le cose e che ancora le conserva in quell’ordine, in quella bellezza, in quella disposizione in cui noi le vediamo, sia una sostanza intelligente e immateriale, o una sostanza materiale priva di conoscenza; perché penso che nessuno dubiti che qualcosa, o la materia priva di conoscenza oppure uno spirito intelligente, sia esistito dall’eternità. L’idea dell’ essere eterno che ha il Teista è l’idea di una sostanza intelligente e immateriale, che ha creato e che ancora sostiene tutti gli esseri dell’universo in quell’ordine in cui essi sono conservati. L’idea dell’essere eterno che ha l’Ateo è l’idea di una materia priva di conoscenza». Deus - Descartes’s Proof of a God, from the Idea of Necessary Existence Examined - MS. Locke c. 28, f. 119-120, in P. King, The Life of John Locke, cit., II, p. 133-139, qui 134 - 135; trad. it. Dio. Esame della prova cartesiana dell’esistenza di Dio dall’idea dell’esistenza necessaria, SER, p. 207. 151 Prima Lettera a Limborch, in Sulla tolleranza e l’unità di Dio, a c. di Montuori, cit., p. 395 (corsivo mio). 152 C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, cit., p. 274. 153 Cfr. V. Nuovo, Locke’s Christology, cit., p. 140. 154 V. Nuovo, A List of Theological Places in An Essay concerning Human Understanding, in WR, pp. 245 – 256. 155 Cfr. V. Nuovo, Locke’s Christology, cit., p. 140.

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rientrare nelle sue intenzioni originarie)156, e lo desume da un elenco di voci raccolte sotto il titolo

Adversaria Theologica, redatto dal filosofo a ridosso della seconda edizione del Saggio157, nel quale

Locke «sussunse tutto il contenuto del Saggio in chiave teologica»158. L’obiettivo che avrebbe

animato il filosofo, secondo questa interpretazione, sarebbe stato quello di fornire un’assicurazione

circa il fatto «che nonostante i limiti del nostro intelletto, abbiamo una luce intellettuale

sufficiente a guidarci sulla via che conduce alla beatitudine eterna, cioè a scoprire quel che serve a

tal fine, una conoscenza di Dio e del nostro dovere» 159. In una tale prospettiva, anche l’uso corretto

della facoltà donata da Dio all’uomo era da considerarsi come dovere morale160.

Nuovo rileva inoltre che, contestualmente alla preparazione della seconda edizione del Saggio,

Locke stava leggendo Episcopio come ausilio ad un chiarimento circa la questione se l’anima fosse

o meno materiale161 e in una lettera a Limborch dell’11 dicembre 1694, nella quale informava

questi della morte dell’arcivescovo Tillotson162, chiedeva consigli circa le questioni teologiche,

probabilmente pensando all’elenco che andava compilando163.

Nel Saggio si afferma anche che il vero fondamento della morale «non può essere altra cosa se

non la volontà e la legge di un Dio, il quale vede gli uomini anche nell’oscurità, tiene nelle sue

mani le pene e le ricompense, ed ha potere sufficiente per chiamare alla resa dei conti anche i più

orgogliosi peccatori»164.

Sull’argomento Locke tornerà nei Pensieri sull’educazione, affrontando il tema della virtù: qui

egli discute la necessità che i bambini apprendano una giusta nozione dell’Essere supremo:

Quale fondamento della virtù si deve assai di buon’ora imprimere nella mente del bambino il vero concetto di Dio, come dell’Essere supremo e indipendente, autore e creatore di tutte le cose, dal quale noi riceviamo ogni nostro bene, che ci ama e ci dà tutto. Per conseguenza instillate in lui amore e reverenza per questo Essere supremo165.

Locke tuttavia suggerisce di non entrare nel dettaglio dell’argomento tentando di spiegare la

natura di questo Essere, ma ritiene sufficiente limitarsi ad insegnare «che Dio ha creato e governa

tutte le cose, che sente e vede tutto, e che ricolma di ogni bene coloro che Lo amano e Lo

156 Cfr. ivi, p. 141. 157 Adversaria Theologica Ms Locke c. 43 [1694], in P. King, The Life of John Locke, cit., II, pp. 186-194; riedito con integrazioni in WR, pp. 21-33. 158 V. Nuovo, Locke’s Christology, cit., p. 141 (trad. mia). 159 Ibid. 160 Ibid. 161 Cfr. Adversaria Theologica, in WR, pp. 28-31. 162 Cfr. Corr., n. 1826, V, pp. 237-239. 163 Cfr. V. Nuovo, Locke’s Christology, cit., p. 141. 164 Saggio I, III, 6; p. 52. 165 PE [136], p. 181.

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obbediscono»166. A tal fine Locke riteneva di grande aiuto l’insegnamento di «piccoli atti di

devozione verso Dio», del Credo e di brevi preghiere, anche prima di apprendere la lettura, che

avrebbero educato il bambino «a pregarLo e a lodarLo come autore della sua esistenza»167.

L’insistenza sulla necessità di porre i fondamenti della virtù nella trasmissione di una esatta

nozione di Dio, si doveva alla volontà di evitare una cattiva comprensione dalla quale sarebbero

derivati superstizione ed ateismo168.

Locke pertanto, pur rifiutando come innata l'idea di un Essere supremo, intelligente, eterno e

perfettissimo169, afferma la possibilità per l’uomo, con le proprie facoltà, «senza il soccorso di alcun

principio innato, [di] raggiungere la conoscenza di Dio e delle altre cose che è importante per lui

di conoscere, se faccia buon uso delle sue facoltà naturali»170.

Dunn ha fatto rilevare in che modo la concezione lockiana di Dio fosse influenzata dal suo

razionalismo:

Dio è realmente ragionevole poiché è egli stesso pura Ragione. Gli esseri umani sono razionali solo in potenza ed in modo discontinuo, poiché sebbene la loro volontà sia determinata da ciò che percepiscono essere migliore inteso come ciò che è più gratificante da un punto di vista edonistico, la loro percezione razionale e la loro abilità nel calcolo edonistico sono offuscate dalle passioni corrotte liberate dal peccato originale. Ragione ed istinto cessano di procedere in armonia. […] Tuttavia nella sua indagine su questi problemi risulta sempre più chiaro che Locke considerava necessario dimostrare soltanto l’esistenza di Dio per poter affermare l’esistenza di un Dio sostanzialmente cristiano171.

Come Locke ricorderà a Stillingfleet, «la certezza dell’esistenza di Dio nella mia prova [ proof ] si

fonda sull’idea di noi stessi, esseri pensanti [thinking beings]»172, e su tale fondamento rivendicava

di non aver «pressoché mai usato la parola idea nell’intero capitolo, all’infuori di quell’unico passo

in cui ne sono stato costretto dalla polemica contro coloro che fondano tutta la prova soltanto

sull’idea che noi abbiamo di un Essere perfettissimo»173.

All’uomo non è dato di conoscere tutto, «le nostre facoltà non essendo atte a penetrare

nell’interna struttura e nelle reali essenze dei corpi»; ma quel che occorre è alla sua portata,

scoprire cioè «in modo evidente l’essere di un Dio, e la conoscenza di noi stessi, abbastanza per

166 Ibid. 167 Ivi, p. 182. 168 Ibid. 169 Cfr. Saggio, I, IV, 7-17. 170 Saggio, I, IV, 12; p. 79. 171 PPL, pp. 226-227. 172 LBW, pp. 57-58; p. 534. 173 LBW, p. 58; p. 535. Locke nella terza Lettera a Stillingfleet tornerà sul tema dell’esistenza di Dio escludendo che la propria dottrina delle idee, pur fondando la certezza sulla percezione dell’accordo o del disaccordo di idee, potesse metterne in dubbio l’esistenza, dal momento che questa non era oggetto di faith ma di knowledge. Egli rinviava alla sua dimostrazione nel Saggio concludendo: « I can assure you, my Lord, I am certain there is a God». RBW2, p. 289.

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condurci ad una piena e chiara discoperta del dovere nostro e di ciò che massimamente ci

interessa»174.

In un manoscritto del 3 aprile 1681, Locke aveva scritto

Che un Dio esista e che cosa sia quel Dio, nulla, se non la ragione naturale, è in grado di farci scoprire o di farci giudicare175.

A tal fine il filosofo ricorre ad una argomentazione che poggia sostanzialmente sul principio di

causalità e che segue in maniera piuttosto fedele gli orientamenti metafisici tradizionali, ragione

per la quale tale soluzione è stata vista come la parte meno originale della sua filosofia176. Locke

illustra tale soluzione quando afferma che «chiunque consideri qualcosa ora esistente deve

necessariamente venire a Qualcosa di eterno»177.

In questo processo di “conquista” il filosofo è assai fiducioso nelle capacità della ragione,

rilevando

come le idee più perfette e vere che gli uomini abbiano di Dio non sono state impresse, ma acquistate con il pensiero e la meditazione e mediante un uso corretto delle loro facoltà; poiché, in luoghi diversi del mondo, gli uomini saggi e riflessivi si son fatte delle idee giuste su questo punto, nonché su molti altri, mediante un uso buono e corretto della loro ragione […] 178.

In un altro manoscritto, questa volta del primo settembre 1676, Locke riflette sulle capacità

naturali in relazione alla scoperta di Dio:

Gli uomini, con la comune luce della ragione che si trova in essi, conoscono che Dio è il più eccellente di tutti gli esseri, e pertanto è massimamente degno di essere venerato e amato, perché egli è buono con tutte le sue creature, e tutto il bene che noi riceviamo viene da lui 179.

174 Saggio, IV, XII, 11; p. 733. 175 On Religion - Ms. Locke f 5, pp. 33-38, qui 33, in P. King, The Life of John Locke, cit., I, pp. 230-234; trad. it. Ragione, Rivelazione, Miracolo, Entusiasmo, in SER, p. 191. Wootton riproduce questa annotazione di Locke dandole come titolo “Inspiration”: Id., John Locke: Political Writings, cit., pp. 238-240. 176 Cfr. M. F. Sciacca, Con Dio e contro Dio, Marzorati, Milano 1990, I, p. 483. 177 Saggio, II, XVII, 5; p. 225. Poco dopo Locke, parlando di coloro che ritengono di non poter avere alcuna idea dello spazio infinito, ribadisce il concetto riferendosi a questi come a coloro che «trovando, mediante una debita contemplazione delle cause e degli effetti, che è necessario ammettere l’esistenza di un qualche Essere Eterno, e perciò considerare che l’esistenza reale di un tale Essere sia assorbita dalla loro idea dell’eternità e commensurabile ad essa; ma, d’altro lato, non parendo loro necessario […] che il corpo sia infinito; essi si affrettano a concludere che non possono avere l’idea di uno spazio infinito, perché non possono avere alcuna idea di una materia infinita». Saggio, II, XVII, 20; p. 235 (corsivo agg.). 178 Saggio, I, IV, 15; p. 82 (corsivo mio). 179 Knowledge [1676] Ms. Locke f 1 pp. 430-432, in W. von Leyden, Essays on the Law of Nature, cit., p. 281; trad. it. Fede e ragione, in SER, pp. 189-190. Si trattava probabilmente di un abbozzo da inserire ad integrazione del Saggio (IV, XVII, 24).

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Nella Ragionevolezza del cristianesimo si afferma che «sebbene le opere di natura, in ogni loro

parte, testimonino a sufficienza un Dio [a Deity], tuttavia gli uomini hanno fatto un uso così scarso

della loro ragione da non riconoscerlo; mentre, anche dalle tracce di Lui [by the impressions of

himself], egli era facile da trovare»180.

Inoltre la possibilità di giungere al vero Dio a partire dalle opere della creazione e della sua

provvidenza costituiva, secondo Locke, il messaggio profondo del discorso di San Paolo agli

Ateniesi (Atti XVII, 22-29) i quali adoravano il dio ignoto ed erano dediti alla superstizione181. Un

argomento sul quale Locke tornerà in una lettera a Limborch sull’unità di Dio del 29 ottobre 1697:

Tutto ciò che noi possiamo conoscere di Lui [di Dio] ci viene grazie a qualche riflessione oscura ed imperfetta che siamo indotti a fare su questo Essere Supremo quando pensiamo alla esistenza delle sue creature. E questo perché dalle cose che vediamo e percepiamo il nostro pensiero si eleva a Colui che le ha create182.

Anche se la dimostrazione del Saggio è il luogo più celebre sull’argomento, si deve considerare che

il tema dell’esistenza di Dio è presente sin dai giovanili scritti sulla legge naturale, assai preziosi

per comprendere anche le opere della maturità, dal momento che l’edificio lockiano innalzato a

partire dai Saggi e poi, in particolare, nei Due Trattati poggia interamente sull’esistenza di un Dio

creatore, saggio e buono; e sulla sua identità di Essere che ha dato un ordine e una norma alle

creature183.

Questi Saggi hanno mostrato che la sua teoria politica e la teoria della conoscenza hanno una base comune e che essa si trova nella sua dottrina sulla legge naturale. La legge di natura secondo Locke non è quella di Galileo o di Newton, in quanto non è legata a fenomeni fisici o al movimento, ma si riferisce ad un comportamento umano e ad una legge morale184.

La legge di natura ha infatti come saldo presupposto l’esistenza di Dio185. Sina ha fatto notare che

«gli ultimi Essays, relativi alla obbligazione e al fondamento della legge di natura, rifiutano

radicalmente le dottrine hobbesiane. […] Per proclamare l’obbligazione di questa legge Locke

invoca il motivo della volontà di Dio, creatore e primo legislatore di tutto l’ordine naturale,

volontà che si manifesta nella conformità razionale dei decreti della legge naturale»186.

180 RC, pp. 191-192; pp. 145-146 (trad. rivista). 181 RC, pp. 192-193; p. 148. 182 J. Locke, Prima Lettera a Limborch, in Sulla tolleranza e l’unità di Dio, a c. di Montuori, cit., pp. 393-395 (corsivo mio). 183 Cfr. Bedeschi, Introduzione, J. Locke, Saggi sulla legge naturale, cit., pp. V- XXV. 184 W. von Leyden, John Locke and natural law, cit., in CA, II, p. 4. 185 Si veda su questo aspetto: A. W. Sparkes, Trust and Teleology: Locke’s Politics and his Doctrine of Creation, in «Canadian Journal of Philosophy», 3 (1973), pp. 263-273; ora in CA, II, pp. 118 – 128. 186 M. Sina, Introduzione a Locke, cit., p. 18.

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Come ha ricordato von Leyden, l’idea di una legge di natura, collegata con la fede umanista nella

validità della ragione umana, nella libertà della sua volontà e nella sua responsabilità morale,

derivava da un pensiero pre-cristiano: quello di Aristotele, degli Stoici e di Cicerone187. Nel corso

del XVII e XVIII secolo, in ambito giuridico, la legge di natura era stata studiata

indipendentemente da presupposti teologici e come prodotto di una costruzione puramente

scientifica. Mentre i moralisti britannici tentarono di fondare razionalmente l’etica, gli anglicani

cercarono, alla luce delle conoscenze del tempo, di ridefinire il posto della legge naturale

nell’apologetica cristiana. Così fece anche Locke, il quale nei suoi ultimi anni prese a considerare la

legge di natura più come mera premessa del suo pensiero, senza approfondirla188, probabilmente

anche a causa delle difficoltà incontrate nel conciliarla con le sue dottrine mature (lo sviluppo di

una posizione che può apparire ad una lettura superficiale edonistica, ad esempio)189.

Circa il modo in cui gli uomini conoscono la legge naturale, Locke assegna il ruolo decisivo alla

ragione, termine sotto il quale sono tuttavia compresi due distinti significati190:

Con il primo intende la facoltà discorsiva della mente che scopre verità formando argomentazioni da cose conosciute a ciò che non conosce. Con il secondo intende un insieme di verità morali che possono diventare oggetto di conoscenza e regola di azione, e la chiama “ragione corretta”[right reason]. Laddove la facoltà discorsiva come gli organi di senso è innata nell’uomo, la “ragione corretta” non lo è. E le verità morali che si presentano alla mente, per lui non sono fatte dalla ragione umana, ma scoperte e interpretate da essa191.

Anche la proof di Dio si inserisce nell’edificio lockiano attraverso una via empirista, dal momento

che l’argomentazione a favore della sua esistenza trae la propria forza a partire dalle facoltà

originarie del senso e della ragione: questa lavora con il materiale provvisto dai sensi, i quali ci

informano dei corpi e del loro moto, come pure di una bellezza, di una regolarità e di un ordine

del mondo, che devono essere il risultato di un disegno superiore. La ragione inferisce l’esistenza di

un Creatore saggio e potente a partire dall’esperienza sensibile192. Mentre altre prove avrebbero

richiesto nozioni a priori che Locke rifiutava.

Una volta dedotte queste constatazioni dalla testimonianza dei sensi, la ragione impone di credere che esiste un potere superiore a cui siamo a buon diritto sottomessi, cioè Dio, che ha su di noi un giusto e ineluttabile dominio, che può con una sua decisione innalzarci o abbatterci, renderci felici o miserabili con un solo cenno193.

187 Cfr. W. von Leyden, John Locke and Natural Law, cit., in CA, II, p. 5. 188 Sull’argomento cfr. N. Bobbio, Locke e il diritto naturale, Giappichelli, Torino 1963. 189 Cfr. W. von Leyden, John Locke and Natural Law, cit., pp. 4-7. 190 Cfr. SLN, II, pp. 15 ss. 191 W. von Leyden, John Locke and Natural Law, cit., p. 9 (trad. mia). 192 Cfr. SLN, IV, pp. 38-40. 193 Ivi, p. 41.

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E poiché questo Essere posto da Locke all’origine della creazione non è solo potente, ma anche

saggio, deve aver progettato il mondo per qualche scopo, così che si trova in ogni cosa una regola

(o modello) appropriato alla sua natura194.

La legge di natura è dunque espressione della sua volontà195. Come è stato osservato, l’argomento

lockiano «deriva dalla Scolastica e non c’è nulla di originale qui eccetto l’insistenza sul ruolo della

percezione sensibile. […] Locke fa del corretto impiego delle facoltà naturali umane una

condizione necessaria e sufficiente per la conoscenza di una legge di natura» 196.

È in quadro argomentativo di questo tipo che si comprende come mai per Locke la moralità

poteva essere stabilita come una scienza deduttiva, in analogia con le matematiche197: prima

sostenendo l'esistenza di Dio e il nostro status di sua fattura; poi inferendo che Dio è buono e si

prende cura della felicità delle sue creature, e che dà loro dunque dei comandi che hanno per fine

la felicità. Da qui si procede con la riflessione circa ciò che conduce gli uomini a questa. E così in

avanti. Locke tuttavia non lavorò mai ai dettagli di una tale etica deduttiva, concludendo che era

un compito al di là delle sue capacità198. Doveva però credere in questa possibilità:

Io ho fiducia che, se gli uomini volessero cercare le verità morali con lo stesso metodo e con la stessa imparzialità con cui cercano quelle matematiche, troverebbero che esse hanno fra loro un più forte legame, e una più necessaria derivazione dalle nostre idee chiare e distinte, e possono arrivar più vicine a una perfetta dimostrazione, di quanto non s’immagini comunemente 199.

La dimostrabilità dell’etica consentiva di eliminare l’arbitrarietà che si apriva in ambito morale,

perché in tal modo essa veniva a fondarsi su regole considerate indipendenti da una volontà

194 «Appare quindi chiaro, senza difficoltà, che Dio vuole che l’uomo faccia qualcosa. […] Poiché infatti l’uomo non è stato fatto a caso e non ha ricevuto in dono senza motivo queste facoltà che possono e devono essere esercitate, in ciò sembra consistere la sua funzione, per la quale è stato naturalmente dotato: cioè a dire, poiché trova in se stesso senso e ragione, si sente incline e pronto a contemplare l’opera di Dio e la sua potenza ivi dispiegata, ad attribuire e rendere lode, onore e gloria il più degnamente possibile a un creatore così grande e così benefico». Ivi, pp. 43 – 44. . 195 Cfr. SLN, VI, pp. 61 – 68. 196 W. von Leyden, John Locke and Natural Law, cit., p. 10 (corsivo mio). 197 «L’idea di un essere Supremo, infinito nella sua potenza, bontà e saggezza, del quale noi siamo l’opera, e da cui dipendiamo, e l’idea di noi stessi come creature intelligenti e razionali, essendo chiare in noi, suppongo che, se esse fossero debitamente considerate e seguite, ci fornirebbero fondamenta su cui poggiare le idee del nostro dovere e le norme della nostra azione, tali da porre la morale fra le scienze suscettibili di dimostrazione: e non ho alcun dubbio sul fatto che in essa, da proposizioni evidenti di per se stesse, mediante conseguenze necessarie, non meno incontestabili di quelle della matematica, si potrebbero trarre le misure del giusto e dell’ingiusto, se alcuno volesse applicarsi a questa scienza con la medesima indifferenza e attenzione che pone nell’altra». Saggio, IV, III, 18; p. 620; IV, IV, 7; pp. 638-639. 198 Molyneux rimase colpito dall’idea che la morale fosse una scienza dimostrabile e sollecitò nei modi più vari Locke ad una dimostrazione del genere (cfr. lettera del 27 agosto 1692, Corr. n. 1530, IV, pp. 507 – 509); Locke non rifiuta ma prende tempo (cfr. lettera del 20 settembre 1692 a Molyneux, Corr., n. 1538, IV, pp. 522-525). Nel 1696 Molyneux ricorda a Locke il suo impegno, e questi rispose che non avrebbe scritto sull’argomento, a causa dell’età e della salute, e circa «a body of Ethics» rinviava al Vangelo (cfr. lettera del 5 aprile 1696, iniziata il 30 marzo 1696, Corr., n. 2059, V, pp. 593-596). 199 Saggio, IV, III, 20; p. 623.

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superiore e allo stesso tempo valide e vincolanti. Ma la teoria della legge naturale lockiana si

espone ad obiezioni.

La principale difficoltà di tipo teoretico che essa presenta è dovuta, secondo von Leyden, ad una

ambiguità di fondo e all’impiego di sensi differenti del termine “ragione”: al fatto cioè che a partire

da dichiarazioni di tipo fattuale, o descrittivo, si passi ad affermazioni di tipo etico, considerate

equivalenti ad affermazioni di tipo matematico200. E Locke deve averla colta, limitandosi a

considerare tale dottrina come premessa del suo pensiero: nella maturità, infatti, egli si astenne da

una piena esposizione e da un esame logico della legge di natura nel Saggio.

Ma ciò che interessa in questa sede è la rilevanza della legge di natura nella filosofia politica e

morale di Locke201, la quale viene integralmente costruita sull’affermazione dell’esistenza di Dio202.

Sparkes si è soffermato sull’importanza che la dottrina della creazione assume per la legge natura,

posta a cornice dei Due Trattati: essa entra infatti anche nella teoria dell’obbligazione civile

sviluppata nel Secondo di essi203. Immaginando lo stato di natura come un gigantesco ambiente

fornito da Dio agli uomini, Locke si interroga circa l’emergere di una obbligazione politica e della

proprietà privata a partire dalla condizione di uguaglianza degli uomini tra di loro.

Locke parla molto di legge di natura: è il fondamento della sua teoria politica. Ma non si tratta di un complesso di princìpi etici a scelta, ma di un sistema basato sulla dottrina dell’azione creatrice di Dio. La nozione di teleologia – divina e umana – pervade il pensiero politico di Locke 204.

Tornando dunque al tema dell’esistenza di Dio, sulla quale poggia anche l’idea di una legge di

natura, Locke ne elabora una prova nel Saggio sull’intelletto, affrontando la questione

precisamente nel secondo e nel quarto libro.

Locke esamina la formazione della nostra idea di Dio e prova la sua esistenza non a partire dalla

rivelazione o dall’esperienza, ma dalla ragione umana; e afferma che pur essendo incomprensibile

per noi il suo essere, Egli può essere conosciuto per quel tanto che la sua conoscenza risulti

necessaria alla vita e alla felicità.

200 Cfr. W. Von Leyden, Introduction, Essays on the Law of Nature, cit., pp. 71-82; Id., John Locke and Natural Law, cit., pp. 23-35. 201 V. Infra (capitolo quarto). 202 Nella Letter a Stillingfleet, Locke considera «la fede nell’esistenza di Dio […] il fondamento di tutta la religione e della autentica moralità». LBW, p. 53; p. 528 (v. infra, capitolo terzo). Cfr. G. Forster, John Locke’s Politics of Moral Consensus, cit., pp. 103 – 105. 203 Sul tema dell’obbligazione si veda in particolare: E. Sandoz, A Government of Laws. Political Theory, Religion, and the American Founding, Louisiana University Press, Baton Rouge and London 1991, cit., pp. 26 ss. 204 A. W. Sparkes, Trust and Teleology: Locke’s Politics and his Doctrine of Creation, cit., p. 119 (trad. mia).

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Nel libro secondo - dopo aver spiegato che vi sono due tipi di idee: le idee semplici, che la mente

riceve passivamente dalla sensazione o dalla riflessione, e i “modi misti” o idee complesse (cioè

combinazioni di idee semplici di specie diverse), la cui origine è differente perché la mente è attiva

nel costruire le varie combinazioni205 - viene spiegato che

Il saggio e infinito Creatore di noi tutti, e di tutte le cose intorno a noi, ha adattato i nostri sensi, facoltà e organi alle esigenze della vita, e ai compiti cui dobbiamo assolvere quaggiù. Mediante i nostri sensi, possiamo conoscere e distinguere le cose, […]. Ma non sembra che Dio abbia ritenuto che noi dovessimo avere una conoscenza perfetta, chiara e adeguata di esse; forse, una tale conoscenza trascende la comprensione di qualunque essere finito. Siamo provvisti di facoltà (per quanto deboli e opache esse siano) sufficienti a scoprire nelle creature quanto basta a condurci alla conoscenza del Creatore, e alla conoscenza dei nostri doveri; e siamo sufficientemente provveduti di capacità per sopperire alle esigenze del vivere; e tali sono i compiti nostri in questo mondo206.

Locke colloca quindi l’idea di Dio nella categoria delle idee complesse, le quali si compongono

appunto di idee semplici:

poiché abbiamo ottenuto, da ciò che sperimentiamo in noi stessi, l’idea dell’esistenza e della durata, della conoscenza e del potere, del piacere e della felicità, e di molte altre qualità e poteri che è meglio avere piuttosto che mancarne; quando cerchiamo di foggiarci l’idea più adatta che ci sia possibile dell’Essere supremo estendiamo ciascuna di queste idee con la nostra idea dell’infinità; e così ponendola assieme, formiamo la nostra idea complessa di Dio207.

L’uomo forma un’idea complessa di Dio dalle singole idee - infinite ed eterne - di esistenza,

conoscenza, potere, felicità. Sebbene «nella sua propria essenza Dio sia semplice e non composto (e

noi certo non conosciamo quell’essenza, poiché non conosciamo nemmeno l’essenza reale di un

ciottolo o di una mosca, o di noi stessi) […]»208. E fin qui Locke si limita a collocare l’idea di Dio

nell’ambito della propria dottrina.

Ma la vera e propria proof dell’esistenza di Dio si trova nel capitolo decimo del libro quarto [Of

Knowledge and Probability] dove si discute il tema della conoscenza, definita come la «percezione

del legame e concordanza, o della discordanza e contrasto, tra le nostre idee quali che siano»209.

La materia della conoscenza sono le idee, i contenuti della mente, e queste provengono

esclusivamente dalle facoltà naturali dell’uomo, cioè sensi e riflessione. La ragione, in tal senso, è la

facoltà di combinare queste idee per ottenere knowledge. La concordanza o discordanza alla quale

Locke si riferisce viene suddivisa secondo quattro specie: identità o diversità; relazione; coesistenza

o connessione necessaria; esistenza reale.

205 Cfr. Saggio, II, II e XXII. 206 Saggio, II, XXIII, 12; p. 332. 207 Cfr. Saggio, II, XXIII, 33-34; qui II, XXIII, 33; p. 346. 208 Saggio, II, XXIII, 35; p. 347. 209 Saggio, IV, I, 2; p. 593.

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Dopo aver esposto i gradi della conoscenza, quindi dell’intuizione e della dimostrazione210, Locke

si sofferma sulla sua estensione, sulla nozione della verità e sulla conoscenza umana dell’esistenza.

L’uomo dispone di una triplice conoscenza: di sé per intuizione; delle realtà sensibili per

sensazione; e di Dio per dimostrazione211. È la ragione a rendere nota la sua esistenza: l’Essere

supremo non viene percepito, e di lui non si ha in senso proprio una knowledge, ma la sua

esistenza per Locke può essere provata. Nel Saggio, pertanto, Locke afferma esplicitamente che Dio

può essere conosciuto solo per dimostrazione212.

Locke prende atto che Dio non ci ha dato alcuna idea innata di se stesso213, in coerenza con quel

che aveva scritto nei Saggi sulla legge naturale; se l’idea di Dio fosse innata dovrebbe infatti essere

radicata nella mente di ogni uomo di ogni luogo e di ogni tempo, ma Locke fa notare come certe

popolazioni retrograde dell’America non ne avessero nozione alcuna.

Tuttavia la medesima proposizione – Dio esiste – può essere anche creduta da coloro che non

sono in grado di giungervi con il ragionamento. Questo mostra, secondo Paul Helm, l’esistenza di

proposizioni che possono essere sia conosciute che credute, sulla base del soggetto in questione214.

Come ha osservato Viano,

L’imprescindibilità della ragione, come criterio di scelta della fede, era giustificata da Locke non sulla base della capacità della ragione di conoscere la struttura metafisica della realtà, ma con la semplice considerazione che la ragione è l’insieme dei procedimenti che l’uomo non può contestare, senza privarsi di qualsiasi mezzo di orientamento, compresi quelli che permettono di distinguere la rivelazione autentica da quella apparente 215.

Il capitolo decimo del quarto libro – «Della nostra conoscenza dell’esistenza di Dio» - è articolato

da Locke in due parti: nella prima (dal paragrafo 1 al 7) si stabilisce l’esistenza di «an eternal, most

powerful, and most knowing Being»; nella seconda (dal paragrafo 8 al 19) si torna sugli argomenti

avanzati nella prima per un approfondimento e per provare che questo Essere eterno esiste e non è

materiale.

210 Cfr. Saggio, IV, II, 1-15. 211 Nella citata annotazione del 1696 sulla prova di Descartes, Locke torna su tale aspetto nella critica all’inferenza dell’esistenza di Dio a partire dall’analisi dell’idea della esistenza necessaria e afferma: «L’esistenza reale può venir provata soltanto attraverso la reale esistenza; e pertanto la reale esistenza di Dio può soltanto essere provata attraverso la reale esistenza delle altre cose. L’evidenza della reale esistenza delle altre cose al di fuori di noi ci deriva soltanto dai nostri sensi, mentre la nostra propria esistenza è da noi conosciuta con una certezza ancora più grande di quella che ci possono dare i nostri sensi circa l’esistenza delle altre cose: si tratta di una percezione interna, di un’autoconsapevolezza, ovvero di un’intuizione: di qui pertanto può essere tratta, con un seguito di idee, la più sicura e più incontestabile prova dell’esistenza di Dio». Dio. Esame della prova cartesiana dell’esistenza di Dio dall’idea dell’esistenza necessaria, cit., p. 210. 212 Saggio, IV, IX, 1-3. 213 Saggio, I, III, 8 e 12-13; pp. 53-54; 57 – 60. 214 P. Helm, Locke on Faith and Knowledge, cit., p. 54. 215 C. A. Viano, Dal razionalismo all’illuminismo, cit., pp. 326-327.

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Posto che Dio non ha concesso all’uomo alcuna idea innata di sé ma lo ha fornito dei mezzi per

giungervi, il capitolo decimo si apre con un riferimento a «quelle facoltà di cui sono dotate le

nostre menti», che sono appunto la percezione e la ragione216. Tali facoltà - secondo Locke -

attestano la sua esistenza, la quale è talmente certa da essere posta sul medesimo piano della

certezza matematica.

Quindi per dimostrare che siamo capaci di conoscere, ossia essere certi, che c’è un Dio, e in che modo raggiungiamo questa certezza, credo che non abbiamo bisogno di andare oltre noi stessi, e oltre quella conoscenza indubitabile che abbiamo della nostra propria esistenza217 .

Locke seguendo un principio di causa sufficiente, secondo il quale gli elementi di un effetto

devono trovarsi potenzialmente presenti nella loro causa, afferma che qualcosa di eterno deve

essere, come noi, potente e intelligente, sebbene in maniera superlativa. Egli passa così a provare

l’esistenza di Dio attraverso la causalità, subito dopo aver affermato attraverso l’intuizione

l’esistenza dell’uomo. L’uomo sa di esistere e sa anche che il puro nulla non può produrre un

qualunque essere reale:

Perciò se sappiamo che c’è un qualche essere reale, e che il non-essere non può produrre nessun essere reale, questo dimostra evidentemente che fino dall’eternità c’è stato qualcosa; poiché ciò che non è esistito fino dall’eternità ha avuto un principio, e ciò che ha avuto un principio, deve essere stato prodotto da qualcos’altro 218.

Un ulteriore passo avanti porta a considerare che quel che riceve il suo essere da un altro essere,

deve avere anche da questo tutto ciò che ha. L’uomo ha un intelletto, trova in se stesso percezione

e conoscenza, egli cioè ha conoscenza e saggezza, e questo è sufficiente per affermare che, alla

certezza di un qualche essere eterno, si accompagna anche quella della sua intelligenza219. Locke

esclude categoricamente che l’uomo possa essere prodotto di pura ignoranza o del caso. Attraverso

il ragionamento egli giunge all’affermazione dell’esistenza di questo Essere, come pure della sua

intelligenza e alla sua eternità. Dalla riflessione sulla idea di Dio si arriva a dedurne anche gli

attributi: l’onniscienza, la potenza e la provvidenza.

Così dalla considerazione di noi stessi, e da ciò che infallibilmente troviamo nella nostra propria costituzione, la nostra ragione ci porta alla conoscenza di questa verità certa ed evidente: che c’è un Essere Eterno, potentissimo e sapientissimo; e non importa se altri voglia chiamarlo Dio, o diversamente.[…] Da ciò che si è detto, mi appare evidente

216 Cfr. Saggio, IV, X, 1; p. 702. 217 Ibid. 218 Saggio, IV, X, 3; p. 703. 219 Cfr. Saggio, IV, X, 4-6.

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che abbiamo una conoscenza più certa dell’esistenza di un Dio che non di alcun’altra cosa che non ci sia stata immediatamente rivelata dai sensi 220.

La conoscenza di Dio è certissima, secondo Locke, perché raggiunta attraverso la facoltà propria

dell’uomo, l’applicazione della sua ragione. Per giungere a Dio Locke muove dall’uomo. È il nostro

proprio essere, osserva il filosofo, a fornire una prova evidente e incontestabile dell’esistenza

divina «purché vi ponga attenzione con la stessa cura che può dedicare a qualunque dimostrazione

composta di altrettante parti»221.

Termina così la prima parte dell’argomentazione lockiana circa l’esistenza di Dio. Tuttavia Locke

si rende conto che da questo argomento «dipendono tutta la religione e la morale genuina»222 e

decide di soffermarsi su alcuni aspetti prima di chiudere la questione.

Egli passa a distinguere due tipi di esseri: quelli «puramente materiali», e quelli «sensibili,

pensanti e percipienti»223. Se l’uomo è un essere pensante e intelligente, anche la sua causa deve

esserlo,

poiché è altrettanto impossibile che la materia non pensante produca un essere pensante, quanto che il nulla, o la negazione di ogni essere, produca un essere positivo, o la materia224.

Il ragionamento di Locke circa lo sviluppo della nozione di Dio da parte della mente umana si può

articolare in tre stadi: 1) Qualcosa esiste perché so che io esisto; 2) il nulla non può produrre un

essere reale; 3) deve esserci stato qualcosa dall’eternità: Dio. Locke passa quindi a confutare

l’ipotesi che questo Essere pensante eterno sia materiale.

Nella seconda parte della sua dimostrazione egli rivede e allarga alcune parti della precedente.

Ribadisce che «deve esserci qualcosa di eterno» e la conclusione secondo la quale «dovrà trattarsi

necessariamente di un essere pensante » 225.

Le parti che riprende sono dunque la prima conclusione della sua prima investigazione (qualcosa

deve esserci dall’eternità) e la terza (che è un essere pensante). La prima viene presto chiusa, dal

momento che non si può pensare ad un effetto senza una causa. Mentre ad ulteriore giustificazione

della terza conclusione si afferma che la materia inerte non è una causa sufficiente per produrre

qualcosa che pensa, dal momento che il pensiero non è un potere attribuito ad essa226.

220 Cfr. Saggio, IV, X, 6; pp. 704-705. 221 Saggio, IV, X, 7; p. 706. 222 Ibid. 223 Saggio, IV, X, 9; p. 706. 224 Saggio, IV, X, 11; p. 709. 225 Saggio, IV, X, 10; p. 706. 226 Saggio IV, X, 10-11; pp. 706-709. Sulla questione del potere cfr. Saggio, II, XXI.

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Locke può dunque affermare, all’inizio della sezione successiva, che «la scoperta dell’esistenza

necessaria di una Mente eterna basta a condurci alla conoscenza di Dio»227, dal quale dipendono

tutti gli altri esseri intelligenti.

Si portano esempi dell’impossibilità di ritenere che la materia puramente inerte possa produrre

moto, e di come la materia in moto possa produrre pensiero228. Infine, dopo aver esaminato e

rigettato l’ipotesi che materia e pensiero siano eterni e separati, egli conclude affermando che

l’impossibilità umana di pensare una creazione dal nulla non può provare alcunché, «perché non è

ragionevole negare il potere di un essere infinito per il solo fatto che non ne possiamo

comprendere le operazioni»229.

1. 1. L’interpretazione di Sandoz

Sono state fornite interpretazioni della dimostrazione lockiana relativa all’esistenza di Dio. In

questa sede è opportuno considerarne due di particolare interesse.

Secondo l’interpretazione dello studioso statunitense Ellis Sandoz, l’idea di Dio che Locke espone

– in anticipo rispetto a Feuerbach – sarebbe il risultato di una

infinite projection of the highest faculties of man, the magnification of sensory perceptions and simple ideas, and a “putting them together” to “make the complex idea of God”, rather than the idea of Active Reason immanent to nature and spirit (Essay, II, XXIII, 33 – 36; I, III, 7-18) 230.

Per Sandoz un tale assalto alla metafisica risulta ben più evidente dalla decostruzione della

categoria di sostanza (il fondamento della speculazione ontologica, da Aristotele in poi) operata nel

Saggio, aspetto che lo ha condotto a giudicare proto-positivista tanto la lockiana concezione della

sostanza in generale, quanto di Dio231. Vi è inoltre da considerare che ad avviso di Sandoz la prova

lockiana non cercava di dimostrare – in primo luogo - che si trattava di un essere intelligente,

sebbene fosse proprio questo l’elemento discriminante nella polemica con gli atei a quel tempo.

Locke asseriva infatti che non vi fosse distinzione conoscibile tra essenza nominale e reale (o tra

fenomeno ed essenza) poiché le idee dipendono da esperienze sensibili, e queste sono sempre

particolari non universali. Seguendo la convinzione secondo cui possiamo avere nient’altro che 227 Saggio, IV, X, 12; p. 709. 228 Cfr. Saggio, IV, X, 17; pp. 711-12. 229 Saggio, IV, X, 19; p. 714. 230 E. Sandoz, A Government of Laws. Political Theory, Religion, and the American Founding, cit., p. 67. 231 Ivi, p. 68.

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idee semplici, che traiamo dalla sensazione e dalla riflessione, Locke si vede costretto a fare un

passo indietro dal nichilismo filosofico del puro positivismo facendo propria la «supposizione di

qualcosa cui esse appartengono, e in cui sussistono»232. Ciò consentì a Stillingfleet, nota Sandoz,

l’acuta osservazione secondo cui Locke aveva «almost discarded substance out of the reasonable

part of the world»233.

Tutto ciò porta Sandoz a concludere che Locke abbia denigrato e ridicolizzato l’idea di sostanza

ovunque la considerasse nel Saggio, accettandone soltanto una concezione edulcorata, e che

conseguentemente abbia negato tanto un’idea innata di Dio quanto la sua autoevidenza o

conoscenza intuitiva234. In questa luce l’affermazione della sua esistenza non sarebbe altro che la

conclusione di un sillogismo.

He also signals it by providing a circular argument in proof of God’s existence, which – so far from being “equal to mathematical” (Essay IV, X, 1) certainty – is obviously flawed and also carries the clear implication that divine Being is not a “first principle” since first principle must be intuited or grasped noetically and cannot themselves be demonstrated 235.

Anche per queste ragioni Leibniz considerava la prova di Locke insufficiente ed ambigua236.

1.2. L’interpretazione di Bluhm, Wintfeld e Teger

Un’interpretazione controversa, e decisamente sorprendente, della posizione lockiana è stata

avanzata da William Bluhm, Neil Wintfeld e Stuart H. Teger in un saggio del 1980.

Questi studiosi concordano nell’affermare che la chiave per comprendere il pensiero lockiano si

trovi nel Saggio, ma offrono una nuova lettura per decifrare i testi politici del filosofo, fino ad

avanzare l’ipotesi che l’eterodossia lockiana in ambito teologico andasse ben oltre il socinianesimo

per sfociare in un completo scetticismo237.

Secondo questa tesi, che segue per certi aspetti l’approccio straussiano, da un attento esame della

sua epistemologia si comprenderebbe che Locke, lungi dal dimostrare l’esistenza di Dio, avrebbe

inteso far capire ad un lettore attento – in modo criptico e dissimulato – che questa in realtà era

232 Saggio II, XXIII, 37; p. 348. 233 E. Sandoz, A Government of Laws, cit., p. 68. 234 Cfr. ivi, p. 69. 235 Ibid.. 236 Cfr. G. W. Leibniz, Nuovi Saggi sull'intelletto umano, (IV, X), a c. di S. Cariati, Bompiani Milano 2011, pp. 1133-1159. 237 Cfr. W. T. Bluhm, N. Wintfeld, S. H. Teger, Locke’s Idea of God, cit., pp. 415 ss.

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proprio ciò che non poteva essere razionalmente dimostrato. Tuttavia era necessario affermare tale

esistenza, e Locke in ciò sarebbe stato ortodosso, dal momento che il governo di una società

liberale, fondato sul consenso e sul rispetto di una legge di natura che protegge persone e

proprietà, richiedeva per la sua stabilità anche una credenza nelle sanzioni stabilite per chi avesse

trasgredito tale norma e in Colui che ne era il garante.

In altre parole, il sistema politico che Locke delinea nei Trattati sarebbe stato valido solo nella

misura in cui la maggioranza sociale che lo avesse sostenuto fosse stata costituita da credenti. Dio,

in questo senso, sarebbe stato niente più di un political myth238, necessario per inculcare nel

popolo la credenza in una legge di natura di origine divina; in tale senso, l’idea di una possibile

punizione avrebbe avuto un rilevante valore di carattere psicologico e al tempo stesso sociale, in

ordine al funzionamento del governo.

La ragione di tale controversa interpretazione risiede nel fatto che secondo questi studiosi - pur

senza aderire con ciò alla lettura del Secondo Trattato proposta da Leo Strauss - Locke in realtà

non avrebbe ritenuto possibile fornire una prova razionale dell’esistenza di Dio, e, in conseguenza

di ciò, non poteva credere davvero in una legge di natura che fosse divinamente conoscibile e

sanzionata.

È vero che Locke nel Saggio sembra impegnarsi nel fornire una prova di Dio, ma secondo questi

studiosi egli «did not wish the careful reader to take his proof seriously»239; la prova fornita perciò

avrebbe rappresentato nient’altro che un argomento nascosto contro la dimostrabilità di un essere

divino.

Da un esame del capitolo decimo del libro quarto, questi studiosi concludono che nella visione

lockiana la dimostrazione logica non può provare nulla circa l’esistenza. Le massime, per Locke,

non possono essere usate per stabilire nuove verità, ma solo per garantire la bontà di un

ragionamento. E poiché nella dimostrazione del Saggio la massima di causalità costituisce

l’affermazione-chiave, se ne può inferire che il filosofo non la ritenesse risolutiva e che affidasse al

lettore “avvertito” il compito di leggere tra le righe, dal momento che precisamente all’interno del

quadro epistemologico della new way of ideas che egli andava tracciando risultava impossibile

dimostrare l’esistenza di Dio240 .

238 Cfr. ivi, pp. 415-16. 239 Ivi, p. 416. 240 Cfr. ivi, p. 423.

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I tre studiosi avanzano argomenti a sostegno della loro tesi241. Alla luce della discussione sulle

idee, Locke classifica quella di Dio come una idea complessa di sostanza e poiché nella sua

epistemologia tale idea è oscura, e le sostanze, sia particolari sia generali, sono considerate

inconoscibili, se ne deve concludere che anche Dio è inconoscibile e che la sua esistenza può

essere solamente supposta242.

Locke tuttavia intendeva fornire ad un pubblico medio l’impressione che vi fosse una legge di

natura, e la “dimostrazione” di Dio ne era il supporto.

Affinché si potesse credere in una legge di natura occorreva la persuasione dell’esistenza di un

legislatore e di una sanzione: e in tal senso la fede in Dio sarebbe stata funzionale al tipo di

governo che Locke aveva in mente. E solamente nel Secondo Trattato si può davvero comprendere

quale valore avesse questo mito:

We find it operating in his model polity as the source and sanction of the “law of nature”, a code of moral principles that both necessitates and makes possible a costitutional regime. The average reader, moving at the surface, would find in God the principle of legitimacy for Locke’s entire political system. And the intellectual elite, reading Locke’s hidden message between the lines, would readily understand the mythical character of the idea if they had already read with care the Essay243.

Al di là della validità o meno della tesi di Bluhm, Wintfeld e Teger, quanto alla sua corrispondenza

con le reali intenzioni di Locke, è una interpretazione che merita un richiamo in questa sede per il

riconoscimento della rilevanza dell’elemento religioso nella dottrina lockiana e come base

dell’obbligazione politica, aspetto che avremo modo di approfondire.

241 In primo luogo, vi sarebbe una contraddizione evidente nella prova di Locke quanto ai principi di giudizio iniziali e finali. Mentre all’inizio ci viene detto che sappiamo per certezza intuitiva che nulla non può produrre qualcosa (Saggio, IV, X, 3) – e in questo senso la concepibilità logica risulta un postulato fondamentale della prova - alla fine, in risposta a chi nega che Dio possa creare esseri dal nulla e afferma l’esistenza eterna della materia, Locke dice che «non è ragionevole negare il potere di un essere infinito per il solo fatto che non ne possiamo comprendere le operazioni. Non neghiamo altri effetti per questa ragione, per il solo fatto che non possiamo assolutamente concepire il modo in cui sono stati prodotti» (Saggio, IV, X, 19; p. 714). Il punto rilevante è che «Locke uses the measure of inconceivability in contradictory ways to test the validity of statements» (Locke’s Idea of God, cit., p. 419). Secondo gli autori inoltre Locke avrebbe fallito nel provare che il suo essere eterno pensante è anche “il più potente”. Eliminando questo attributo cruciale nella sua seconda prova, Locke nega quel che ha apparentemente dimostrato: «he has not set forth a sufficient cause of creation, but rather an insufficient cause» (Locke’s Idea of God, cit., p. 420). Per gli studiosi, quindi, il messaggio nascosto è che l’argomento meramente logico-grammaticale è inadeguato a dimostrare alcunché circa l’esistenza, inclusa quella di Dio. 242 Cfr. Locke’s Idea of God, p. 424. 243 Ivi, p. 432 (corsivo mio).

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b. 2.b. 2.b. 2.b. 2. FaithFaithFaithFaith e e e e ReasonReasonReasonReason: delle loro province disti: delle loro province disti: delle loro province disti: delle loro province distintententente

Abbiamo esaminato finora la proof dell’esistenza di Dio presentata nel Saggio. Qui tuttavia Locke

discute anche dei rapporti tra fede e ragione, chiarendo i rispettivi confini a partire dai quali si

andrà sviluppando la sua riflessione filosofica e teologica. Anche se solamente nell’ultima parte

della sua vita egli enfatizzò l’importanza della divina rivelazione, sappiamo che l’argomento aveva

sempre costituito un importante oggetto di riflessione per il filosofo.

Notiamo intanto che già alla fine dell’agosto del 1676, durante un soggiorno a Montpellier nel

corso del suo viaggio in Francia, Locke aveva annotato alcune considerazioni circa i rapporti tra

fede e ragione, dichiarando la necessità di tracciare un confine tra i due ambiti:

In materie di religione sarebbe opportuno che qualcuno dicesse fino a che punto dobbiamo venir guidati dalla ragione, e fino a che punto dalla fede. La mancanza di questa indicazione è una delle cause che mantangono nel mondo così tante opinioni diverse, poiché tutte le sette, fin dove la ragione le può aiutare, ne fanno volentieri uso; dove poi il suo aiuto viene loro a mancare, gridano forte che è materia di fede e superiore alla ragione. E io non vedo come essi possano mai venir convinti da qualcuno che fa uso della stessa giustificazione, senza stabilire un esatto confine tra fede e ragione; questo dovrebbe essere il primo punto fisso e stabilito in tutte le dispute religiose244.

Troviamo qui l’abbozzo di una prima distinzione tra l’ambito della ragione e quello della fede, i

quali venivano accostati e non sovrapposti, né opposti. La fede per Locke deve essere

razionalmente fondata245. La ragione certifica e garantisce la validità della rivelazione, il cui

contenuto non può essere in contrasto con i dettami della ragione. Secondo Hefelbower, su questo

aspetto Locke «sistematizza semplicemente l’insegnamento da Hooker in avanti»246.

Nella Terza Lettera per la tolleranza del 1692, dove si discute della legittimità di usare la forza

nelle questioni di religione, Locke scrive che questa «richiede per sua natura l’esercizio della fede

(perché dove c’è visione, conoscenza e certezza la fede è abolita)»247 e a partire dalla distinzione tra

conoscenza e credenza, precisa che «per quanto alto sia il grado di sicurezza di quest’ultima,

occorre tener fermi i loro rispettivi confini, e non confondere i loro nomi»248.

Nei Pensieri sull’educazione egli raccomanda di non parlare ai piccoli di spiriti immaginari -

quali folletti, fantasmi e apparizioni - che potrebbero spaventarli e inclinarli al terrore, mentre

244 Faith and Reason - Ms Locke f 1, pp. 415-421 [24-26 agosto 1676], in W. von Leyden, Essays on the Law of Nature, cit., pp. 275-277; trad. it. Fede e ragione, in SER, p. 183. Si tratta di un appunto stenografico pensato forse da Locke ad integrazione di un capitolo del Saggio (IV, XVII-XVIII). 245 Cfr. P. Helm, Locke on Faith and Knowledge, cit., pp. 52-66 (trad. mia). 246 RED, p. 73. 247 Terza Lettera sulla tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, cit., pp. 273-74. 248 Ivi, p. 275.

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consiglia che venga portata alla loro conoscenza l’esistenza delle creature invisibili presenti nelle

Sacre Scritture:

E poiché le nozioni più chiare e più ampie che noi abbiamo degli altri spiriti, all’infuori di Dio e della nostra stessa anima, ci sono state impartite dal Cielo mediante la rivelazione, io credo che le conoscenze che di esse dovrebbero aver tutti o i giovani almeno, debbano essere attinte dalla rivelazione249.

Si noti inoltre che la distinzione tra il credere e il conoscere venne affermata da Castellion nella

sua opera De Arte Dubitandi (I, XIX) il cui testo era conservato manoscritto nella biblioteca dei

rimostranti a Rotterdam e che Locke molto probabilmente conosceva250.

Nel manoscritto del 25 agosto 1676, Locke traccia una prima capitale distinzione che chiarirà

solo nel Saggio, quella tra proposizioni costruite su idee chiare e perfette; proposizioni contrarie

alle nostre idee chiare e perfette, e materie al di sopra della nostra ragione.

Nel primo caso, spiega il filosofo, «noi non abbiamo bisogno dell’assistenza della fede come cosa

assolutamente necessaria per ottenere il nostro assenso ed accogliere queste idee nel nostro

spirito»251. Anche nel secondo caso non si avrà bisogno della fede: «questa tenterà invano di

ratificarle o di indurvi il nostro assenso, perché la fede non può mai convincerci di qualcosa che

contraddice la nostra conoscenza»252.

La ragione di ciò, spiega Locke, è che non si può ritenere che provenga da Dio «ciò che, se lo

credessimo vero, sovvertirebbe tutti i nostri principi e fondamenti della conoscenza, renderebbe

inutili tutte le nostre facoltà, distruggerebbe la più eccellente parte della sua opera, il nostro

intelletto […]»253.

Quanto a ciò che si colloca al di sopra della nostra ragione, «noi non solo dovremmo ammettere

la rivelazione, ma ce ne troviamo in necessità, e là la fede deve dirigerci completamente»254. Ma in

quest’ultimo caso non si può parlare di una distruzione della conoscenza, poiché la fede

non distrugge i capisaldi della conoscenza, non scuote i fondamenti della ragione, bensì ci lascia il completo uso delle nostre facoltà. E se gli ambiti della fede e della ragione non sono tenuti distinti da questi confini, io credo che, in materie di religione, non ci si servirà più in nessun modo della ragione e questa non avrà più alcuno spazio; e quelle opinioni e cerimonie stravaganti che si trovano in numerose religioni del mondo non meriteranno di venir biasimate255.

249 PE [138], p. 183. 250 Si veda la lettera di Locke a Limborch del 10 novembre 1693: Corr., n. 1671, IV, pp. 742-45. Locke stimava il pensiero di Sébastien Castellion e nei Pensieri sull’educazione parlò del «dotto Castellio». Cfr. PE [91], p. 114. Sulla figura di Castellion v. infra, p. 350 n. 5. 251 Fede e ragione [24-26 agosto 1676], trad. it. cit., p. 184. 252 Ibid. 253 Ibid. 254 Ibid. 255 Ivi, pp. 184-185.

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Locke precisa anche che la fede «viene ad informarci»256 solo quando i nostri sensi vengono meno.

Vi sono poi quelle verità che è necessario per noi conoscere ma che non possiamo scoprire con le

nostre sole forze (sensi e ragione) e sulle quali la divina rivelazione viene incontro all’uomo:

Dio allora ha supplito ad entrambe queste mancanze per le cose necessarie alla salvezza, e io ritengo che in questo consistano gli oggetti e la materia della fede divina, e che in questo e non in altro essa debba propriamente intervenire257.

Da queste annotazioni manoscritte si osserva come Locke attribuisca notevole importanza alla

ragione anche in ambito religioso, tanto da scorgere nell’opposizione della fede alla ragione una via

aperta a fantasie, superstizioni e pratiche religiose stravaganti, persino ridicole:

Cosicché, in effetti, proprio in ciò in cui noi dovremmo mostrarci al massimo grado creature ragionevoli, in ciò che appunto ci distingue nel modo più specifico dalle bestie, noi ci mostriamo più irrazionali e più insensati delle stesse bestie258.

I confini sono stati tracciati da Locke: i sensi conducono alla conoscenza degli oggetti sensibili; la

ragione ci guida nei ragionamenti che partono da idee chiare e perfette, mentre alla fede spetta il

compito di dirigere l’uomo «in materie che né i sensi né la ragione sono in grado di raggiungere»259.

Le riflessioni che Locke negli anni Settanta andava formulando circa i rapporti fede-ragione

confluirono nel quarto libro del Saggio, laddove si esamina il fondamento dell’assenso. Egli

distingue qui innanzitutto le proposizioni che riceviamo su motivi di probabilità, considerando

prima quelle che riguardano questioni di fatto e quindi quelle che non cadono sotto i nostri sensi,

come ad esempio l’esistenza e la natura di esseri intelligenti superiori all’uomo (spiriti, angeli o

diavoli)260.

Locke parla poi di «un’altra specie di proposizioni che reclamano il grado più alto del nostro

assenso, sulla base di una semplice testimonianza, concordi o meno, la cosa proposta, con

l’esperienza comune e con l’ordinario corso delle cose»261. Nel caso della rivelazione «la

testimonianza viene da Uno che non può ingannare né essere ingannato: ossia, da Dio stesso.

Questo porta con sé una sicurezza superiore a ogni dubbio, una prova che non tollera

eccezione»262.

256 Ivi, p. 188. 257 Ibid. (corsivo mio). 258 Ivi, p.185. 259 Ivi, p. 189. 260 Saggio, IV, XVI, 12; p. 758. 261 Saggio IV, XVI, 14; p.758. 262 Ibid.

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Locke chiama faith l’assenso ad una rivelazione: «la quale [determina con altrettanta assolutezza

la nostra mente, e in modo altrettanto perfetto esclude ogni tentennamento263], quanto la nostra

conoscenza stessa» 264.

E perciò la fede è un principio fondato e sicuro di assenso e di sicurezza, e che non lascia adito alcuno al dubbio o all’esitazione. Soltanto, dobbiamo esser sicuri che sia una rivelazione divina, e che noi la comprendiamo rettamente; altrimenti, ci esporremo a tutte le stranezze dell’entusiasmo, e a tutti gli errori dei principi errati, se avremo fede e sicurezza in ciò che non sia rivelazione divina 265 .

In due modi Dio può chiamare a dare l’ assenso ad una proposizione rivelata: per mezzo di una

«prova di quella verità coi metodi consueti della ragione naturale» oppure perché «ci fa sapere che

è una verità cui [Egli] vuole noi diamo l’assenso nostro per la Sua autorità […] mediante qualche

contrassegno intorno al quale la ragione non può cadere in errore»266. È alla ragione che compete

di stabilire se una rivelazione sia o meno di origine divina. Locke intende perciò quello della fede

non un ambito separato dalla ragione, o peggio ad essa contrapposto, ma come «un assenso fondato

sulla ragione più alta»267, ovvero «come un saldo assenso della mente […] e perciò non può essere

opposto alla ragione»268 .

La ragione per Locke - «quella facoltà mediante la quale si suppone che l’uomo si distingua dalle

bestie, e nella quale è evidente che di gran lunga le sorpassa»269 - ha allora il compito tanto di

estendere la nostra conoscenza, quanto di regolare l’assenso270. Una volta riconosciuta l’esistenza di

Dio e accettata la rivelazione sulla base di un esame, la ragione deve anche interpretare le Scritture

secondo i propri criteri.

Della ragione si considerano quindi quattro gradi:

il primo e più alto consiste nel trovare e scoprire le prove; il secondo, nel disporle in modo regolare e metodico, e sistemarle in un ordine chiaro e adatto, in modo che siano percepite con evidenza e facilità la loro forza e le loro connessioni reciproche; il terzo consiste nel percepire tali connessioni; il quarto, nel trarre una giusta conclusione 271 .

263 Nelle prime quattro edizioni: «ha altrettanta certezza». 264 Saggio IV, XVI, 14; p. 759. 265 Ibid. 266 Ibid. 267 Ibid. 268 Saggio, IV, XVII, 24; p. 782. 269 Saggio, IV, XVII, 1; p . 760. 270 Saggio, IV, XVII, 2; p . 760. 271 Saggio, IV, XVII, 3; pp . 761-762.

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Dopo aver definito la rivelazione ed aver chiamato “fede” l’assenso ad essa, e una volta data una

definizione di ragione, Locke deve ancora chiarire un passaggio importante che consiste nel

distinguere proposizioni according to reason, above reason e contrary to reason :

1) Conformi a ragione sono quelle proposizioni la cui verità possiamo scoprire esaminando e seguendo le idee che riceviamo dalla sensazione e dalla riflessione, e che troviamo vere o probabili mediante la deduzione naturale; 2) Superiori alla ragione sono le proposizioni la cui verità o probabilità, mediante la ragione non possiamo derivare da quei principi; 3) Contrarie alla ragione sono quelle proposizioni che sono incompatibili o inconciliabili con le nostre idee chiare e distinte. Così, l’esistenza di un solo Dio è conforme a ragione; l’esistenza di più di un Dio, contraria a ragione; la risurrezione dei morti, superiore alla ragione272.

Verità di fede quali ad esempio la caduta degli angeli o la risurrezione dai morti, sono al di sopra

delle facoltà naturali dell’uomo e della stessa ragione, che non può raggiungerle per via autonoma,

ma hanno la loro attestazione di validità nella Scrittura.

***

Nel capito diciottesimo del Saggio si discute delle province distinte della fede e della ragione, nel

tentativo di stabilire «fino a che punto dobbiamo esser guidati dalla ragione, e fin dove dalla

fede»273. Mentre la ragione - attraverso le idee che derivano dalle facoltà naturali - giunge alla

knowledge e a verità conosciute in senso proprio, anche qualora non vi sia una certezza completa,

le verità di fede possono essere soltanto credute [believed] e sono rivelate da Dio. In altre parole, le

verità della conoscenza hanno per oggetto idee che provengono dalla sensazione o dalla riflessione;

le verità di fede hanno un’origine divina, e non sono il risultato di una combinazione di idee,

provenienti dalle facoltà naturali, operata dalla ragione. In tutte le questioni dove agisce la fede,

la ragione, come contrapposta alla fede, mi sembra sia la scoperta della certezza o probabilità di quelle proposizioni, o verità, cui la mente giunge per deduzione fatta da quelle idee che ha ottenute mediante l’uso delle sue facoltà naturali: ossia la sensazione o la riflessione. La fede, d’altro lato, è l’assenso dato ad una proposizione, non ottenuta mediante le deduzioni della ragione, ma sul credito di chi la propone come proveniente da Dio, in una qualche maniera di comunicazione fuori dall’ordinario. Questo modo di scoprire delle verità agli uomini chiamiamo rivelazione274 .

È degno di nota come Locke cerchi qui di stabilire una comunicazione tra i due ambiti appena

circoscritti, e non soltanto una loro compatibilità, proprio a partire dalla loro distinzione; al punto

che la fede altro non è che una forma di esercizio della ragione laddove non vi può essere una

deduzione. In tal senso, la fede viene ad essere complementare alla ragione, poiché quest’ultima

non è sufficiente a fornire ciò che si ha bisogno di sapere, soprattutto con riferimento alla moralità

272 Saggio, IV, XVIII, 23; p. 781 (corsivo mio). 273 Saggio, IV, XVIII, 1; p. 783. 274 Saggio, IV, XVIII, 2; p. 784 (corsivo mio).

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e alla salvezza. Tale funzione “integrativa” svolta dalla fede, quando va ad aggiungere «new

discoveries»275 e ad accrescere le acquisizioni della ragione, è stata letta da David Snyder come una

ripresa della nozione tomista in base alla quale la grazia non distrugge ma perfeziona la natura276.

Giunto a questo punto Locke può distinguere tra rivelazione “originale” e “tradizionale”:

Per rivelazione originale intendo la prima impressione che è fatta immediatamente da Dio sulla mente di un qualsiasi uomo [immediately by God on the mind of any man], e alla quale non possiamo fissare limite alcuno; per l’altra, intendo quelle impressioni [impressions] che vengono trasmesse ad altri con parole, e coi nostri modi ordinari di comunicarci l’uno all’altro le nostre concezioni277.

La rivelazione originale può essere o meno comunicabile: non lo è se riguarda «nuove idee

semplici», e in tal caso non può esibire alcuna autorità religiosa ma resta un’esperienza privata. È

comunicabile, invece, la rivelazione tradizionale. Locke aggiunge inoltre che la fede non può

convincerci di qualcosa che contraddica la nostra ragione e la conoscenza che ne deriva. Ne segue

che la rivelazione non può contraddire la nostra conoscenza intuitiva278 o aggiungere nuove idee

semplici poiché:

non sapremmo dire come possa concepirsi venga da Dio, il generoso Autore del nostro essere, ciò che, se fosse ricevuto per vero, dovrebbe rovesciare tutti i principi e fondamenti della conoscenza che Egli ci ha data; rendere inutili tutte le nostre facoltà; distruggere interamente la parte più eccellente dell’opera sua, ossia il nostro intelletto; […].279

Come ha sostenuto Hefelbower, Locke non fornisce una piena e sistematica definizione di

rivelazione, ma si impegna a circoscriverla, limitarla e razionalizzarla al meglio280.

La rivelazione fornisce ciò che la ragione umana da sola non potrebbe scoprire, e in tal senso va

ad integrare le scoperte effettuate attraverso la luce naturale. A tal proposito assumono significato i

segni che vanno a convalidare tale rivelazione, come il compimento delle profezie e i miracoli, che

nel caso del cristianesimo costituiscono la garanzia dell’insegnamento di Gesù come proveniente

da Dio e dei quali Locke si occuperà in un Discourse sui miracoli e nella Ragionevolezza. Tutte

questioni che al di sopra (above) delle capacità della ragione sono fuori della sua portata, ma non

ad essa contrarie, e pertanto costituiscono l’oggetto proprio della fede (faith):

275 Saggio, IV, XVIII, 10. 276 Snyder stabilisce un importante parallelismo tra la trattazione lockiana dell’ambito fede e ragione e quella dell’Aquinate: Cfr. D. C. Snyder, Faith and Reason in Locke’s Essay, cit., pp. 197-213. 277 Saggio, IV, XVIII, 3; p. 785 (corsivo mio). 278 Saggio, IV, XVIII, 5. 279 Saggio, IV, XVIII, 5; p . 788. 280 RED, p. 102.

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Così, che una parte degli angeli si siano ribellati a Dio, e in seguito a ciò abbiano perso la condizione di felicità in cui prima erano; e che i morti debbano risorgere e viver di nuovo; queste e altre simili cose, essendo fuori dal raggio di ciò che può scoprire la ragione, sono puramente questioni di fede, con le quali la ragione non ha nulla a che fare direttamente281.

Sarà dunque una questione di fede, above reason, «qualunque proposizione rivelata, della cui verità

la nostra mente, mediante le sue naturali facoltà e nozioni, non possa giudicare», mentre «tutte le

proposizioni in cui la mente, facendo uso delle sue facoltà naturali, può venire alla determinazione

e al giudizio in base idee naturalmente acquisite, sono materia di ragione»282. Attraverso i confini

così delineati Locke può accettare la rivelazione senza che questa cancelli i punti di riferimento

della conoscenza:

Tutto ciò che Dio ha rivelato è certamente vero: su ciò non si può sollevare alcun dubbio. Questo è l’oggetto proprio della fede: ma se si tratti poi di una rivelazione divina o meno, è cosa di cui la ragione deve giudicare; la ragione, la quale non può mai permettere che la mente respinga un’evidenza maggiore per accogliere ciò che è meno evidente, né consentirle di seguire la probabilità in opposizione alla conoscenza e alla certezza283 .

Sia la ragione sia la rivelazione provengono da Dio: ciascuna offre all’uomo una parte di verità. La

rivelazione estende la ragione naturale dando all’uomo in modo immediato ciò che è di

provenienza divina, attraverso straordinari mezzi di comunicazione, ma deve essere convalidata

dalla ragione. Come ha rilevato Hefelbower,

malgrado l’attitudine di Locke verso la rivelazione fosse razionalistica, la conclusione alla quale giunse era di tipo conservatore. Era convinto di avere sufficienti motivi per credere che le Scritture fossero la rivelazione di Dio all’uomo con autorità divina, data in modo soprannaturale e garantita da miracoli e profezie284.

Nel capitolo diciannovesimo del quarto libro sull’entusiasmo Locke torna di nuovo sul tema della

ragione, essa

è una rivelazione naturale, mediante la quale l’eterno Padre della Luce e fonte di ogni conoscenza comunica all’umanità quella parte di vero che Egli ha messo alla portata delle loro facoltà naturali285.

Aggiunge quindi una definizione di rivelazione:

281 Saggio, IV, XVIII, 7; p. 789 (corsivo mio). 282 Saggio, IV, XVIII, 9; p . 790. 283 Saggio, IV, XVIII, 10; p. 791. 284 RED, p. 105. 285 Saggio, IV, XIX, 4; pp. 794-795.

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La rivelazione è una ragione naturale ampliata da un nuovo fondo di scoperte comunicate immediatamente da Dio; della verità delle quali la ragione dà garanzia mediante la testimonianza e le prove, che essa ci fornisce, che quelle scoperte vengono da Dio286.

Se è vero che la rivelazione aggiunge nuove scoperte alla conoscenza, è altrettanto vero che la

ragione resta la guida in tutto e il giudice ultimo che deve fornire o meno il proprio assenso287:

Per cui, chi toglie via la ragione per far posto alla rivelazione, spegne la luce di entrambe, e si comporta in modo molto simile a chi convincesse un uomo a strapparsi gli occhi onde meglio ricevere, mediante un telescopio, la luce remota di una stella invisibile288.

c) c) c) c) ««««Considering wherein the Christian Faith consistsConsidering wherein the Christian Faith consistsConsidering wherein the Christian Faith consistsConsidering wherein the Christian Faith consists»»»»

Dopo aver esaminato le linee principali della dottrina anti-innatista lockiana in rapporto alla prova

dell’esistenza di Dio e alla delimitazione degli ambiti di fede e ragione, passeremo ora a

considerare l’opera che illustra la concezione del cristianesimo di Locke.

In un passo della Condotta dell’intelletto289 si afferma la superiorità della teologia che viene

ricondotta al suo scopo, la comprensione di «ogni altro sapere diretto al suo vero fine»:

C’è inoltre scienza - secondo le classificazioni ora in uso - incomparabilmente al di sopra delle altre, quando non venga corrotta e ridotta ad un affare economico o di parte allo scopo di raggiungere fini bassi o cattivi e di favorire interessi terreni. Parlo della teologia, la quale, abbracciando la conoscenza di Dio e delle sue creature, dei nostri doveri verso di lui e verso le altre creature a noi simili, e del nostro stato presente e futuro, comprende tutto l’altro sapere diretto al suo vero fine, cioè alla gloria e all’adorazione del Creatore, e alla felicità dell’umanità. Questo è quel nobile studio cui dovrebbe dedicarsi ogni uomo, e di cui è capace chiunque possa attribuirsi l’appellativo di creatura ragionevole290.

In una lettera a Limborch del 10 maggio 1695 in latino291, dopo averlo ringraziato per la sua

Theologia Christiana292 che giudicava di arricchimento per la sua conoscenza, Locke scrive di aver

286 Saggio, IV, XIX, 4; p. 795. 287 Saggio, IV, XIX, 14; p. 801. 288 Saggio, IV, XIX, 4; p. 795. 289 Si tratta di uno scritto cominciato e proseguito nel 1697 con l’intenzione di aggiungerlo come capitolo nella quarta edizione del Saggio, come scrive Locke in una lettera a Molyneux del 10 aprile 1697, poi interrotto, forse per essere in seguito rielaborato. Lo scritto fu pubblicato postumo da Anthony Collins e da Peter King nei Posthumous Works del 1706. L’edizione più nota è quella di Thomas Fowler (Clarendon, Oxford 1881). La traduzione italiana comparve nella versione settecentesca tradotta e commentata da Francesco Soave (Guida dell’Intelletto nella ricerca della verità, G. Motta, Milano 1776, edita insieme al Saggio filosofico di Gio. Locke su l’umano intelletto). Seguì la traduzione di Eugenio Cipriani, Della Guida dell’intelligenza nella ricerca della verità (Carabba, Lanciano 1926). Si utilizza qui la traduzione di Mario Sina (SER, pp. 637- 725). 290 Condotta dell’intelletto, SER, [23] p. 680. 291 Cfr. Corr., n. 1901, V, pp. 368-372. 292 P. van Limborch, Theologia Christiana ad praxin pietatis ac promotionem pacis unice directa, Amsterdam, 1686. Limborch era trinitario. Nella sua opera difese la Trinità contro le tesi sociniane in massima parte sulla base del Prologo

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svolto un’inchiesta sul contenuto della fede cristiana sulla base di un’unica fonte: la Scrittura293. E

non la Bibbia nel suo complesso ma i Vangeli e gli Atti degli Apostoli. Locke era deciso ad ignorare

le opinioni delle sette e i sistemi religiosi, qualunque essi fossero, e questo in quanto il Vangelo era

da lui ritenuto rivelazione autentica di Dio e il resoconto più autorevole della predicazione

messianica294.

Locke scrive anche di desiderare un incontro con Limborch per leggere personalmente quel che

aveva elaborato, e aggiunge:

For this winter, considering diligently wherein the Christian Faith consists, I thought that it ought to be drawn from the very fountains of Holy Writ, the opinions and orthodoxies of sects and systems, whatever they may be, being set aside. From an intent and careful reading of the New Testament the conditions of the New Covenant and the teaching of the Gospel became clearer to me, as it seemed to me, than the noontide light, and I am fully convinced that a sincere reader of the Gospel cannot be in doubt as to what the Christian faith is 295.

Alla fine del 1692 Locke aveva pubblicato La terza lettera per la tolleranza, il capitolo che riteneva

conclusivo nella controversia con Jonas Proast. Questi aveva sollevato importanti questioni, tra le

quali l’universalità di una scelta di fede e il significato dell’atto del credere come presupposto di un

possibile intervento del magistrato: se non si attribuiva universalità ad una scelta di fede, era il

ragionamento di Proast, vi era allora da dubitare che questa fosse vera anche per se stessi. La fede,

in questo caso, si sarebbe ridotta ad una scommessa.

di Giovanni. Nella Theologia egli sosteneva inoltre che ogni verità da credersi per la salvezza eterna fosse compresa sotto una singola Verità: Gesù è il Cristo, ovvero lo straordinario Salvatore promesso da lungo tempo, al quale fu dato dal Padre il compito di salvare gli uomini. Questo era l'oggetto di una fede salvifica. Cfr. J. Marshall, Locke, Socinianism, “Socinianism” and Unitarianism, cit., pp.137-138. 293 Si consideri che «anche Limborch pretendeva di costruire una teologia fondata interamente ed esclusivamente sulla Scrittura, che non ha bisogno di essere integrata né con l’ispirazione individuale né con la tradizione. La Scrittura è in sé perfetta, nel senso che chiunque, fornito dei mezzi normalmente a disposizione degli uomini (cultura generale, conoscenza delle lingue bibliche, onestà di intenzioni), è in grado di comprendere le verità indispensabili che sono in essa contenute. […] Mentre Socino aveva mantenuto la diffidenza, tipica della Riforma, contro la ragione come fonte di conoscenza religiosa e aveva sottolineato la dipendenza della moralità dalla volontà divina, Limborch ammetteva la possibilità di una conoscenza puramente razionale delle verità religiose fondamentali e dei valori morali». C. A. Viano, Dal razionalismo all’illuminismo, cit., pp. 378-379 (corsivo mio). Anche nei Pensieri sull’educazione viene espressa la convinzione da parte di Locke che i principi della religione si ricavino dalle Scritture e debbano essere insegnati con le parole in esse contenute. Cfr. PE [158], p. 208. Su Locke interprete della Scrittura si vedano: L. Salvatorelli, Da Locke a Reitzenstein. L’indagine storica delle origini cristiane, I, cit.; J.M. Vienne, De la Bible à la Scienze. L’Interprétation du singulier chez Locke, in G, Canziani - Y.C. Zarka (a c. di), L’interpretazione nei secoli XVI e XVII, cit., pp. 771 – 788; M. C. Pitassi, Le philosophie et l’Écriture. John Locke exégète de Saint Paul, Revue de théologie et de philosophie, Géneve 1990. 294 Nella Second Vindication Locke scriverà che, come suddito del Regno del Messia, «I take the rule of my Faith, and Life, from his Will declar’d and left upon Record in the inspired Writings of the Apostles and Evangelists in the New Testament: Which I endeavour to the utmost of my power, as is my Duty, to understand in their true sense and meaning». SV, p. 179. 295 Corr., n. 1901, cit., p. 370 (corsivo mio).

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Locke aveva offerto con la sua Lettera una lunga e articolata risposta, che rifiutava di considerare

come differenti religioni le diverse confessioni cristiane: l’essenziale della vera religione, quella

cristiana, era unico ed era insegnato da tutte le differenti chiese cristiane296. Il cristianesimo, in

questo senso, era costituito da un solo articolo e la divisione atteneva ad aspetti non essenziali,

ovvero a differenti vie attraverso le quali poter giungere alla salvezza.

È assai probabile che dopo aver fornito la sua risposta a Proast Locke abbia dedicato buona parte

del suo tempo, negli anni successivi, ad individuare tale aspetto costitutivo della fede cristiana,

quella verità di fede alla quale era chiesto l’assenso individuale per poter essere cristiani: una

questione anche di natura politica, se si considera la discussione circa l’uso legittimo della forza

verso i dissenzienti. Anche ad Edwards, successivamente, Locke ripeterà la sua convinzione,

dichiarando così la propria faith:

A Christian I am sure I am, because I believe Jesus to be the Messiah, the King and Saviour promised, and sent by God: And as a Subjects of his Kingdom, I take the rule of my Faith, and Life, from his Will declar’d and left upon Record in the inspired Writings of the Apostles and Evangelists in the New Testament: Which I endeavour to the utmost of my power, as is my Duty, to understand in their true sense and meaning297.

L’esigenza latitudinaria che Locke manifestò di avere non era estranea d’altra parte al disgusto per

le dispute dottrinali che avevano lacerato la coscienza cristiana dopo la Riforma:

Dopo le dispute e le lotte teologiche senza via di uscita del XVI secolo, l’umanità europea cercava un terreno neutrale dove la contesa venisse meno e fosse possibile intendersi, unirsi e convincersi a vicenda. Perciò ci si staccò dai disputatissimi concetti ed argomentazioni della teologia cristiana tradizionale e si costruì un sistema “naturale” della teologia, della metafisica, della morale e del diritto298.

Tra l’inverno del 1694 e la primavera del 1695 gli interessi di Locke si erano ormai definiti fino a

riguardare quasi esclusivamente la questione della salvezza e della fede che giustifica299.

La Ragionevolezza del cristianesimo venne cominciata da Locke nell’inverno del 1694-95 e

terminata nel maggio del 1695; nel mese successivo il filosofo firmò il contratto con l’editore

londinese per la pubblicazione300. Limborch, tuttavia, non poté leggere l’opera prima dell’estate del

1696, quando apparve in traduzione francese come Le Christianisme Raisonnable 301.

296 Cfr. Terza Lettera per la tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, cit. pp. 289 – 291; p. 388. 297 SV, pp. 177-79. 298 C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, in Le categorie del politico, cit., p. 176. 299 V. Nuovo, Locke’s Theology 1694-1704, in M.A. Steward (ed.), English Philosophy in the Age of Locke, cit., p.186. 300 L’anno successivo uscì una seconda edizione: The Reasonableness of Christianity, as deliver’d in the Scriptures, insieme con A Vindication of the same, from Mr. Edward’s Exceptions, printed for A. and J. Churchill at the Black Swan in Pater-Noster-Row (London, 1696), nella quale Locke corresse alcuni errori tipografici e modificò alcune parole. Il filosofo si riconobbe autore dell’opera in un codicillo al suo testamento del 15 settembre 1704, con cui si dichiarava autore delle sue

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Locke impegnò le sue forze in una difesa della rivelazione, ad avviso di Pearson, secondo il quale

l’argomento dell’opera è una religione ragionevole e non razionale, quel cristianesimo cioè

avvalorato da miracoli e da profezie realizzate, che in ambito morale la saggezza dei maggiori

filosofi aveva anticipato e confermato302.

Secondo Nuovo si tratta di un’opera teologica di notevole originalità e profondità, da parte di un

autore familiare con il testo greco del Nuovo Testamento e con i suoi contenuti, oltre che raffinato

nel proprio metodo di esegesi biblica303. Dalla descrizione di Locke emergono due primi aspetti

degni di indagine304.

Il primo è l’intenzione di volersi occupare del contenuto della fede cristiana, o di quell’articolo di

fede fondamentale nel quale credere305; il secondo riguarda il carattere essenziale del cristianesimo,

ovvero la sua ragionevolezza. L’opera, pertanto, era indirizzata tanto ai deisti, che dovevano essere

numerosi ai suoi tempi, quanto ai non credenti in Cristo306.

opere apparse anonime o pseudonime, pubblicato da P. King, The Life of John Locke, cit., II, pp. 51-53. L’opera, che dal principio è stata al centro di forti polemiche, ha ricevuto tre importanti difese: la prima di Samuel Bold (1652?-1737), rettore di Steeple nel Dorset, della quale si dirà; quella anonima, attribuita a Humphrey Prideaux, dal titolo A Letter to the Deists (London, 1696) e quella attribuita all’ecclesiastico whig William Stephens, dal titolo: An Account of the Growth of Deism in England (London, 1696). La Ragionevolezza ha avuto una prima traduzione in francese a c. di Pierre Coste (Amsterdam, 1696) dal titolo: Que la Religion Chrétienne est très raisonnable, telle qu’elle nous est représentée dans l’Ecriture Sainte. La Reasonableness è presente in Works, VII, pp. 1-158. Prima della traduzione italiana alla quale si fa riferimento, quella di Ida Cappiello, non ve ne era alcuna. Ad essa ha fatto seguito quella di Mario Sina, cfr. SER, pp. 285-429. 301 Cfr. la lettera di Limborch a Locke: Corr., n. 2110, V, p. 667. 302 Cfr. S. Pearson Jr., The Religion of John Locke and the Character of his Thought, cit., pp. 139-140. Locke scrive : « E colui che raccoglie e mette a confronto tutte le regole morali dei filosofi con quelle contenute nel Nuovo Testamento, le troverà adeguate alla moralità rivelata dal Salvatore ed insegnata dagli Apostoli, pur essendo questi un gruppo formato, in massima parte, di pescatori ignoranti ma ispirati ». RC, p . 196; p. 154. 303 V. Nuovo, Introduction, VIN, p. xxvi. 304 Sull’opera di vedano: H. R. Fox Bourne, The Life of John Locke, cit, II, pp. 283 – 293; LL, pp. 154– 162; S. C. Pearson Jr., The Religion of John Locke and the Character of his Thought, cit., pp. 133-150; A. Sabetti, John Locke: la religione tra «ragione» e «rivelazione», cit., pp. VII – CXXI; R. Ashcraft, Fede e conoscenza nella filosofia di Locke, cit., pp. 259 ss.; C. A. Viano, John Locke. Dal razionalismo all’illuminismo, cit., pp. 311 – 387; M. Sina, L’avvento della ragione, pp. 370 – 381; M. Sina, Introduzione a Locke, cit., pp. 114 – 125; W. M. Spellman, John Locke and the Problem of Depravity, cit., in part. pp. 127- 183; C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, cit., pp. 270-283; J. T. Moore, Locke on the Moral Need for Christianity, in «Southwestern Journal of Philosophy» (11) 1980 , pp. 61-68; V. Nuovo, Introduction, WR, pp. xliv- lvi; M. Merlo, La legge e la coscienza, cit., pp. 154-156. 305 Già nella Terza Lettera per la tolleranza del 1692 Locke aveva scritto che la religione cristiana «per non citare gli altri suoi articoli di fede, si fonda su ciò, che Gesù Cristo fu messo a morte in Gerusalemme, e risuscitò dai morti». Terza Lettera sulla tolleranza, cit., p. 274. 306 In risposta all’accostamento stabilito dai suoi critici tra lui e il Toland, Locke risponde di aver voluto chiarire la ragionevolezza del cristianesimo contro le critiche «made by Deists against Christianity; but against Christianity misunderstood». Vale la pena citare l’intero passo tratto dalla Second Vindication of Reasonableness:: «But when I had gone trough the whole, and saw what a plain, simple, reasonable thing Christianity was, suited to all Conditions and Capacities; and in the morality of it now, with divine authority, established into a legible law, so far surpassing all that philosophy and human reason had attain’d to, or could possibly make effectual to all degrees of mankind; I was flatter’d to think it might be of some use in the world; especially to those, who thought either that there was no need of revelation at all, or that the revelation of our Saviour required the belief of such articles for salvation, which the settled notions, and their way of reasoning in some, and want of understanding in others, made impossible to them. Upon these two topics the objections seemed to turn, which were with most assurance made by Deists against Christianity; but against Christianity

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Locke farà anche esplicito riferimento, nella lettera aperta a Samuel Bold presente nella Preface

to the Reader alla Second Vindication, alle due principali obiezioni che i deisti muovevano al

cristianesimo: la prima, secondo la quale «there was no need of Revelation at all » e «that the

Revelation of our Saviour required the Belief of such Articles for Salvation, which the settled

Notions and their way of reasoning in some, and want of Understanding in others, made

impossibile to them»307.

È stata avanzata l’ipotesi che Locke abbia scritto la Ragionevolezza per promuovere un progetto

che stava molto a cuore a Guglielmo III, ovvero quello dell’inclusione dei dissenzienti religiosi e

della promozione dell’unità cristiana308. Ma si può ricordare anche l’antico progetto di inclusione

religiosa promosso da Shaftesbury, al fine di creare una comunione tra protestanti da opporre alla

minaccia filocattolica sotto Carlo II.

La Ragionevolezza realizza il desiderio di Locke di trovare una interpretazione del cristianesimo

che potesse supportare la tolleranza e la pace; una tesi, come ha rilevato Marshall, suggerita da

numerose letture, tra le quali quelle di trinitari arminiani come Limborch o del vescovo

latitudinario Herbert Croft, la cui Naked Truth Locke aveva letto negli anni Ottanta, e delle opere

di Unitari come Popple. Tutte letture che richiedevano la definizione di una minimal faith sulla

base del Credo degli Apostoli, centrata sulla proposizione che Gesù è il Messia o il Cristo309.

misunderstood. It seem’d to me, that there needed no more to shew them the weakness of their exceptions, but to lay plainly before them the doctrine of our Saviour and his apostles, as delivered in the Scriptures, and not as taught by the several sects of Christians». Preface to the reader, SV, p. 36. Successivamente Locke tornerà sull’argomento: «I am very glad to hear from Unmasker, that there are but few weak Christians, few that have Doubts about the Truth of Christianity amongst us. But if there be not a great number of Deists, and that the preventing their increase be not worth every true Christian’s Care and Endeavours, those who have been so loud against them have been much to blame; and I wish to God there were no reason for their Complaints. For these therefore I take the liberty to say, as I did before, that I chiefly designed my Book; […]». SV, p. 101. 307 SV, p. 36. Nel replicare all’accusa di Edwards di aver omesso nella Reasonableness un riferimento alla Satisfaction operata da Cristo, Locke spiega: «The reason of my omission of it in that place, I told him was because my Book was chiefly designed for Deists; and therefore I mention’d only those Advantages, which all Christian must agree in; and in omitting of that, comply’d with the Apostle’s Rule, Rom. XIV». SV, p. 191. 308 Lo afferma Sterling Lamprecht che cita con cautela una vita di Locke presente nell’edizione del 1812 delle Works: Id., Locke's Attack Upon Innate Ideas , cit., p. 150. Lo stesso Locke, nella lettera a Samuel Bold in apertura della sua Second Vindication, con riferimento alla Ragionevolezza, afferma: «What it contains, and how much it tends to Peace and Union amongst Christians, if they would receive Christianity as it is, you have discovered». SV, p. 37. 309 Cf. J. Marshall, Locke, Socinianism, “Socinianism” and Unitarianism, cit., p. 164. Locke segue qui The Religion of Protestants del Chillingworth, Le Clerc, Limborch e sarà proprio l’enfasi su questo articolo che gli attirerà, come vedremo, gli attacchi di John Edwards. Si noti che anche Hobbes restringeva la fede al solo articolo necessario alla salvezza «che Gesù è il Cristo. Col nome Cristo, si intende il re che Dio in precedenza, attraverso i profeti del Vecchio Testamento, aveva promesso di inviare nel mondo, perché regnasse (sugli Ebrei e su tutti quelli delle altre nazioni che avessero creduto in lui) eternamente sotto di lui e perché desse loro la vita eterna, che era stata perduta a causa del peccato di Adamo». Cfr. T. Hobbes, Leviatano (1651), a c. di R. Santi, Bompiani, Milano 20042, (III, 43, 11) p. 957. Sulla fede in Cristo, e in ciò che si richiede per la salvezza, si veda anche De Cive (1642), a c. di T. Magri, Editori Riuniti, Roma 2005, (XVIII, 2-7) pp. 234-241.

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Come ha scritto Joanne Tetlow, Locke deve aver ritenuto che enunciando le dottrine essenziali

del Vangelo, presenti nelle Scritture, le dispute teologiche potessero terminare e l’obbedienza

potesse cominciare310.

Dunn ha evidenziato invece una continuità tra l’indagine sull’intelletto, e la spiegazione della

formazione della verità e dell’errore nella mente umana, presenti nel Saggio, con il profilo pratico

di una comprensione morale degli uomini che avrebbe trovato esito proprio nella Ragionevolezza:

Il problema di conciliare l’ignoranza ed il vizio umani con il potere e la benevolenza divini era un problema teologico e le categorie con cui è trattato nella religione cristiana, le dottrine del peccato originale e dell’espiazione, costituiscono il punto di partenza della Ragionevolezza del cristianesimo. Il Saggio si interrompe nel punto in cui Locke si trova di fronte alla propria incapacità di presentare la moralità come un sistema di verità obbligatorie intelligibili ed universali, e la Ragionevolezza del cristianesimo fornisce al tempo stesso una razionalizzazione morale della “parzialità” umana e dell’incomprensione morale ed una strategia pratica per correggerle 311.

Quel che era essenziale per il cristianesimo si riassumeva nella fede «in one eternal and invisibile

God, the maker of heaven and earth, and in Jesus as Messiah»312: si potevano anche non conoscere

le altre verità delle Scritture, ma essere ugualmente dei cristiani professando questo; la ragione –

come Locke spiegherà ad Edwards - per la quale nella Ragionevolezza si tace sulla dottrina della

Trinità.

Si può dunque affermare, con Viano, che «l’intento della Reasonableness non è soltanto quello di

dare una particolare interpretazione del Vangelo, ma anche quello di mostrare come il Vangelo

costituisca una restaurazione dei valori razionali dell’uomo. Se dal punto di vista soprannaturale il

cristianesimo può essere considerato nella prospettiva sociniana, come una restituzione

dell’immortalità all’uomo, dal punto di vista umano il cristianesimo può essere considerato come

una restituzione dei valori della ragione»313.

Ma affermare la ragionevolezza del cristianesimo non comportava che la verità alla base della

religione cristiana non fosse soprannaturale314; piuttosto significava che la scelta della fede cristiana

– intesa appunto nel senso del Saggio, cioè come assenso - era quella più ragionevole e

vantaggiosa315.

310 J. Tetlow, John Locke’s Covenant Theology, cit., p. 193. 311 PPL, pp. 224-225. 312 S. P. Lamprecht, Locke's Attack Upon Innate Ideas , cit., p. 151. 313 C. A. Viano, Dal razionalismo all’illuminismo, cit., pp. 379-380 (corsivo mio). 314 Si ricordi quanto Locke aveva affermato nei giovanili Saggi sulla legge naturale: «Non starò qui a parlare, ripeto, di tutto questo [delle varie religioni dei popoli] poiché si deve credere che la religione viene conosciuta dagli uomini non tanto grazie al lume di natura, quanto per una rivelazione divina». SLN, p. 51. 315 V. Nuovo, VIN, cit., p. xxvii.

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E anche la figura di Cristo deve essere compresa nel quadro dell’anti-innatismo. Se la

conoscenza proviene dai sensi e dalla riflessione, a Dio giungiamo con la ragione, ma al di là di una

proof della sua esistenza la ragione non può dire molto altro. Possiamo conoscere Dio per mezzo

del suo inviato Gesù Cristo e della sua predicazione confermata dai miracoli: «Uno solo è il nostro

Maestro, Gesù Cristo Nostro Signore e Salvatore come grande modello da imitare»316.

Conseguentemente, Locke prende in considerazione esclusivamente i Vangeli e gli Atti; nelle

Epistole - come si chiarirà nell’ultimo capitolo dell’opera - gli articoli di fede sono mescolati invece

ad altre verità, senza una chiara distinzione, e per tale ragione non sarebbe stato opportuno

considerarle per individuare i punti essenziali del cristianesimo e trasmetterli a coloro che non

avevano fede.

Si trattava dunque di definire il messaggio del cristianesimo e ricavare dalle Scritture

l’insegnamento del Salvatore necessario alla salvezza317; ciò al fine di eliminare pregiudizi e

sovrastrutture che ne impedivano la comprensione, favorivano travisamenti ed alimentavano la

conflittualità religiosa318. Tutti coloro che non si erano contentati della semplicità e chiarezza del

Vangelo avevano finito per favorire sette e divisioni, e per accantonare le acquisizioni della stessa

ragione. La Ragionevolezza può essere vista allora come una tappa nel percorso aperto dalla Lettera

sulla tolleranza319.

Lamprecht vi legge una professione di scetticismo lockiana circa la speculazione teologica e una

serena fiducia nella rivelazione di Gesù come riportata dalle Scritture, nella quale il filosofo vedeva

non soltanto il fondamento per una cooperazione tra gli uomini delle varie sette contro i nemici

dell’ateismo e del cattolicesimo, ma principalmente il rimedio all’esasperata conflittualità religiosa

che Hobbes aveva proposto di risolvere attraverso l’assolutismo320.

In ogni caso in quest’opera, ha osservato Sina, «non si è più ad una fase puramente critica.

L’insegnamento di Cristo e degli apostoli, contenuto negli scritti del Nuovo Testamento, è da

316 Cfr. Pacifick Christians - Ms c. 27, f. 80 a-b [1688], in P. King, The Life of John Locke, cit., II, pp. 63-67; trad. it. Regole per una società di cristiani pacifici, in Due Trattati, pp. 527-529, qui 528. 317 Locke aveva affermato già nella Terza Lettera per la tolleranza che «ci sono molte verità, contenute nella Scrittura, che un uomo può ignorare, e di conseguenza non credere, senza alcun pericolo per la sua salvezza: altrimenti ben pochi sarebbero in grado di salvarsi. Penso infatti di poter affermare in verità che non c’è mai stato nessuno, eccettuato colui che era la Sapienza del Padre, che non ignorasse alcune di esse, e non fosse in errore riguardo ad altre». Terza Lettera per la tolleranza, cit., p. 484. 318 Locke mostra così di ritenere la lotta tra fazioni e sette il principale ostacolo alla diffusione del Vangelo, come si evince anche da Terza Lettera per la tolleranza, cit., pp. 385 ss. 319 «Like the Cambridge Platonists he [Locke] desidered peace from bitter religious warfare and concord within a comprensive church». S. P. Lamprecht, Locke's Attack Upon Innate Ideas , cit., p. 159. 320 Cfr. S. P. Lamprecht, Locke's Attack Upon Innate Ideas , cit., p. 152.

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Locke riconosciuto di provenienza divina. […] Chiaramente non ci troviamo di fronte ad uno

scritto di filosofia, ma di teologia, o meglio di esegesi biblica»321.

Nel corso della sua scrupolosa indagine Locke giunse a due importanti conclusioni: il

cristianesimo è essenzialmente una religione morale, e per essere cristiani e ricevere la grazia

occorre la fede in Gesù come Messia322. Secondo Massimo Firpo,

Tutta la Reasonableness può essere considerata una ampia dimostrazione di questa asserzione, che tuttavia assumeva un senso preciso soltanto nella misura in cui perdeva il carattere di un astratto dogma teologico, per acquistare invece il valore di un profondo principio ispiratore delle concrete scelte operative e dell’impegno morale dei credenti323.

Il cristianesimo proposto da Locke sfugge comunque al carattere intellettualistico ed astratto del

protestantesimo – inteso come sistema di idee che avevano un centro nel concetto rivoluzionario

della giustificazione per fede - per avvicinarsi all’essenza del messaggio cristiano nella sua

semplicità e apertura universale. Come ha osservato Viano,

Il cristianesimo è una religione ragionevole nello stesso senso in cui lo stato che Locke aveva auspicato è uno stato ragionevole: nel senso cioè che l’una e l’altro riconoscono al singolo la maggiore disponibilità possibile 324.

E tuttavia dal protestantesimo Locke ricava la centralità della Scrittura, a dimostrazione, secondo

Fabro, «di un’affinità e solidarietà stretta tra il principio protestante della “sola Bibbia” con l’inizio

del razionalismo (biblico e dogmatico) e con l’avvento del deismo»325.

Mentre dalla teologia latitudinaria Locke riprese non soltanto l’impostazione inclusiva, ma in

primo luogo la ricerca di chiarezza e semplicità. Spellman arriva persino a considerare Locke un

latitudinario che faceva propria «the orthodoxy of the Broad-Church divines»326:

Dal contenuto [dell’opera] è chiaro che ciò che Locke intende con “reasonableness” non è il contesto della dottrina di fede, che Gesù sia il Messia è un dato di fatto, ma la sua chiarezza e semplicità, e la saggezza mostrata nella sua promulgazione 327 .

Nella misura in cui andrebbe ad integrare le riflessioni del Saggio sulla faith, la Ragionevolezza

tende ad essere letta come sua appendice, in primo luogo come contributo alla risoluzione

dell’annoso problema di una riconciliazione tra il razionalismo e la fede328. Al termine dell’opera

infatti la rivelazione trova una doppia conferma: quella dei miracoli e anche quella della ragione.

321 M. Sina, Introduzione a Locke, cit., p. 114. 322 V. Nuovo, Locke’s Theology 1694-1704, cit. , p.184. 323 M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., p. 53. 324 C.A. Viano, John Locke: Dal razionalismo all’illuminismo, cit., p. 384 (corsivo mio). 325 C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, cit., p. 271. 326 W. M. Spellman, John Locke and the Problem of Depravity, cit., p. 92. 327 Ibid. (trad. mia). 328 Cfr. R. Ashcraft, Locke's Two Treatises of Government, cit., p. 253.

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Locke mostra di prediligere qui un’espressione paolina poco usata dai riformatori, quella di Law

of Faith 329. Mosè e Gesù erano stati entrambi legislatori, per Locke, solo che la Law of Works del

primo richiedeva un’obbedienza perfetta, mentre la Law of Faith del secondo teneva conto della

fragilità umana. Secondo Nuovo, Locke fa di tale espressione un uso più vicino a quello dei teologi

di Westminster330, il quale potrebbe essergli stato suggerito dalla lettura di Hooker (I, 15)331.

Quel che si può affermare con buona probabilità è che Locke «credeva che Cristo fosse il capo

della chiesa, nella sua forma temporale e sovratemporale, ovvero delle chiese individuali (fossero

esse raggruppamenti indipendenti, istituzioni nazionali o internazionali con pretesa di

universalità) e della società soprannaturale di uomini e angeli che si manifesteranno alla fine dei

tempi»332.

Nella visione del filosofo, Dio ed il suo Messia sono sovrani assoluti di un Regno, ma il loro

dominio è il solo ad essere legittimo e non arbitrario. Per Locke, anzi, «il diritto di sovranità nella

storia sacra appartiene solamente al Messia»333 e ciò non poteva non avere, secondo Victor Nuovo,

delle implicazioni anche politiche.

Questo costituiva anche un punto di divergenza con Edwards: mentre questi riteneva che

l’affermazione di Gesù come Messia fosse una dottrina cui altre dovevano essere aggiunte per la

definizione di un credo ortodosso, Locke riteneva che fosse invece sufficiente ad un cristiano in

quanto implicava l’accoglienza di Gesù come re e della sua dottrina come vera, ma in primo luogo

la sottomissione alla sua legge334. Inoltre il filosofo vedeva nella stessa modalità di diffusione del

Vangelo una prova della saggezza di Dio che avvalorava la verità dei Vangeli:

Il cristianesimo è ragionevole perché è vantaggioso, perché diversamente da altre dottrine religiose o filosofiche restaura effettivamente l’immortalità e consente condizioni di giustificazione più moderate. […] Il cristianesimo è il solo

329 Si veda anche Rm 3, 26-28 dove San Paolo fa riferimento alla legge della giustificazione per la fede. 330 «The first covenant made with man was a covenant of works, wherein life was promised to Adam, and in him to his posterity, upon condition of perfect and personal obedience. The covenant or law of works is related to Adam’s transgression of God’s command in Eden, and the law delivered to Moses at Mount Sinai». The Westminster Confession of Faith, cit. in J. Tetlow, John Locke’s Covenant Theology, cit., p. 178. 331 Cfr. V. Nuovo, Introduction, WR, cit. p. xlvi. Che Locke segua la confessione di Westminster è la tesi anche di Joanne Tetlow, seocndo cui il filosofo avrebbe riunito la legge di Adamo e quella di Mosè sotto un unico patto. Tetlow vede la Law of Faith come il nuovo patto di grazia fondato sulla dottrina arminiana della giustificazione, la quale poggia sull’obbedienza (le sue due condizioni sono la fede e l’obbedienza). Secondo Tetlow, nonostante lo sviluppo dell’indirizzo di studi sul pensiero religioso lockiano, non vi sarebbe un approfondito studio sulla covenat theology – la teologia del patto con Dio - del filosofo. Questo tipo di teologia dipende, per la studiosa, dalla dottrina sulla giustificazione che si adotta, se fondata esclusivamente su fede e grazia oppure su una fede che si accompagna alle opere e alla scelta. Cfr. J. Tetlow, John Locke’s Covenant Theology, cit., pp. 172- 179. 332 V. Nuovo, Locke’s Christology, cit., p. 145 (trad. mia). 333 Ivi, p. 142. 334 Cfr. V. Nuovo, VIN, p. lix.

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affidabile rimedio per la fragile e mediocre umanità che resta sotto il rigore della legge morale , sia essa la legge delle opere o la legge di natura335.

c. 1. Il trattato lockiano sul cristianesimo c. 1. Il trattato lockiano sul cristianesimo c. 1. Il trattato lockiano sul cristianesimo c. 1. Il trattato lockiano sul cristianesimo

Nella prefazione al lettore, di carattere metodologico, Locke afferma di aver messo mano all’opera

spinto dall’insoddisfazione circa i sistemi teologici del tempo336. Egli dichiara di aver fatto

riferimento esclusivamente alle Sacre Scritture, di aver proceduto attraverso un attento e

spassionato esame di queste, di aver sempre seguito l’ordine temporale della predicazione del

Salvatore e di non aver trascurato alcuno dei suoi discorsi337.

L’autore si rivolge quindi al lettore invitandolo ad un «esame sereno e senza pregiudizi» della

propria versione del «senso» (sense) e dello «spirito del Vangelo» (tenor of the Gospel), precisando

che «è quello della carità»338.

L’intento dichiarato non era un’indagine astratta e teorica, ma la definizione di una doctrine of

salvation, che avrebbe permesso di conseguire la vita eterna:

L’insegnamento di Cristo e degli Apostoli, contenuto negli scritti del Nuovo Testamento, è da Locke riconosciuto di provenienza divina. Locke non mette in dubbio la rivelazione e l’ispirazione dei libri del Nuovo Testamento, anzi si accosta ad essi con lo stesso animo dei teologi anglicani, dei pastori rimostranti olandesi, dei platonici di Cambridge, con il solo desiderio, espresso nella Preface, “di comprendere la religione cristiana”339.

Il criterio di interpretazione della Word of God consisteva nella comprensione del significato più

semplice e piano delle parole e delle frasi, «generalmente, e nei punti essenziali»340, evitando di

sovrapporre ulteriori significati, dotti e artificiali.

Questa premessa introduce l’idea che Locke aveva della religione cristiana, quella di una

«religione morale» chiara e semplice. Come ha notato Ian Harris, l’opera è uno studio di teologia

rivelata volto a mostrare la sua conformità a (e la continuità con) la ragione, e per risolvere alcune

335 V. Nuovo, Introduction, WR, p. xlviii (trad.mia). 336 Nella citata lettera a Limborch del maggio 1695 Locke dichiara di aver trovato insoddisfacenti e incompatibili con la semplicità del Vangelo i sistemi di Calvino (Institutio) e di Francois Turrettini (Institutio Theologiae Elencticae), mentre loda la Theologia Christiana dello stesso Limborch. Corr., n. 1901, V, pp. 368-372, in part. 370 – 371. 337 Cfr. RC, p. 126; p. 52. 338 RC, p. 89; p. 3. 339 M. Sina, Linee di sviluppo della riflessione etico-religiosa lockiana (Saggio introduttivo), SER, p. 51. 340 RC, p. 91; p. 5.

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difficoltà intellettuali nelle quali Locke si era trovato. Anche se non pretendeva di offrire uno

studio esaustivo e sistematico del cristianesimo341.

L’ulteriore evidenza da trarre riguarda la preminenza assegnata da Locke alla rivelazione

contenuta nelle Scritture, che i deisti rigettavano:

La fede cristiana, come Locke la presenta nella Ragionevolezza, non è una somma di dottrine, piuttosto è limitata alla “fede che giustifica”, il credo evangelico o la proclamazione cristiana presente nel Nuovo Testamento, come condizione necessaria della giustificazione. Essa consiste di una singola proposizione complessa, la cui sintesi è che Gesù è il Messia342 .

Il tema della “giustificazione per fede”, come del resto l’utilizzo della sola Scrittura, erano aspetti

centrali per il protestantesimo e certamente Locke si pone in tal senso in continuità con la spirito

della Chiesa riformata343. Tuttavia egli reagisce al medesimo tempo all’intellettualismo disincarnato

del protestantesimo, ad un culto per pochi dotti che finiva per disintegrarsi tra le disquisizioni

settarie.

È possibile suddividere la Ragionevolezza del cristianesimo in due parti344: nella prima parte (dal

capitolo primo al decimo) Locke affronta la storia, i contenuti e la diffusione dei Vangeli; nella

seconda parte (dal capitolo undicesimo al quattordicesimo) Locke affronta i vantaggi del

cristianesimo e questioni di teodicea. Nell’ultimo capitolo, il quindicesimo, Locke spiega perché le

Epistole di San Paolo non erano state considerate come fonti primarie.

In apertura del capitolo primo Locke afferma che la dottrina della redenzione, presente nel

Vangelo, «si fonda sul presupposto del peccato di Adamo»345. Egli si pone di fronte a due posizioni

inconciliabili: quella di coloro che «destinano tutta la discendenza di Adamo alla dannazione

eterna ed infinita, per il peccato di Adamo, di cui milioni di persone non hanno mai sentito parlare

e che nessuno ha mai autorizzato ad agire in suo nome o a rappresentarlo», e l’altra, sostenuta da

coloro ai quali «questo fatto è sembrato assai poco rispondente alla giustizia o alla bontà di Dio,

grande ed infinito, tanto che ritengono non ci sia stata alcuna necessità di redenzione e che,

341 Cfr. I. Harris, The Mind of John Locke, cit., p. 316. 342 V. Nuovo, Introduction, WR, p. XLV (trad. mia). 343 Nella Terza Lettera per la tolleranza Locke afferma: «Sono anche d’accordo che la vera religione, necessaria alla salvezza, è insegnata e professata nella Chiesa d’Inghilterra; eppure da ciò non consegue che la religione della Chiesa d’Inghilterra, quale è stabilita dalla legge, sia la sola religione vera, se c’è nella Chiesa d’Inghilterra qualche elemento stabilito per legge, e reso parte integrante della sua religione, che non è necessario alla salvezza, e che un’altra Chiesa, che insegna e professa tutto ciò che è necessario alla salvezza, non recepisce». Terza Lettera per la tolleranza, cit., p. 476. 344 Cfr. l’edizione a c. di J. Higgins-Biddle (Clarendon, Oxford 1999). 345 RC p. 91; p. 4.

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quindi, non ci sia stata alcuna redenzione, piuttosto che ammetterla sulla base di un presupposto

così poco consono alla dignità e agli attributi di quest’essere infinito»346.

Al filosofo, e a chiunque unbiassed legga le Scritture, risulta chiaro invece

che Adamo venne meno allo stato di perfetta obbedienza [perfect Obedience], che è chiamata giustizia [Justice] nel Nuovo Testamento, sebbene la parola che in origine significa giustizia sia stata tradotta con virtù [Righteousness]: che per questo fallo perse il paradiso, in cui c’era serenità [Tranquility] e l’albero della vita, cioè perse beatitudine [Bliss ], ed immortalità [Immortality]. […] La pena stabilita è questa (Gen II,17): “Nel giorno in cui mangerai di questo, tu sicuramente morrai”347 .

Locke sembra aderire alla posizione secondo la quale Adamo è stato il progenitore dell’umanità

(come emerge anche dai Due Trattati 348 e dai Pensieri sull’educazione349) ed identificare la sua

eredità solo con la morte naturale, intesa come perdita dell'immortalità, di uno stato di perfetta

innocenza e di beatitudine, non come eredità di una colpa né di un tormento eterno,

contrariamente a quanto affermato dalla stessa ortodossia protestante350.

McLachlan ritiene che Locke non credesse nell’inferno e fa notare che secondo il filosofo il

destino ultimo di tutti quelli che non avrebbero avuto fede in Cristo, attraverso una condotta non

conseguente a tale fede, sarebbe stato l’annichilimento ovvero la perdita dell’essere351.

Emergerebbe insomma dalla Ragionevolezza «il riconoscimento che la sorte finale dei dannati non

può essere che l’estinzione totale (la “seconda morte” di cui parlava Hobbes). Al contrario, il

privilegio dei beati consiste nel conservare la propria identità, pur assumendo una veste adeguata

alla condizione del mondo futuro, dove le esigenze della vita corporea e le preoccupazioni legate a

quest’ultima saranno completamente eliminate»352 .

La concezione luterana e calvinista si radicava nel dogma del peccato originale e in una

corruzione, congenita all’uomo, della ragione naturale. Locke respinge tale assunto, anche se non

sembra ignorare una certa fragilità insita nell’uomo: «purtroppo sono pochi i figli di Adamo così

fortunati da nascere senza qualche debolezza, e lo scopo dell’educazione è appunto quello di

sopprimere o controbilanciare tale debolezza»353.

346 Ibid. (corsivo mio) 347 RC p. 91-92; p. 5. 348 T1, 15 ; p. 89 349 PE [20], p. 33. 350 Si veda a questo proposito il manoscritto lockiano sull’idea di Dio e la sua bontà, che non può essere sopraffatta neppure dalla sua giustizia: On the Idea of God (o The Idea we have of God) [1° agosto 1680], cit., pp. 237-238. 351 Cfr. RO, pp. 94-96. 352 Cfr. C. Giuntini, Il corpo immortale: filosofia e teologia nell’ultimo Locke, in «Rivista di filosofia», 96 (2005), pp. 187-215 qui 197. 353 PE [139], p. 185.

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Trasgredendo il comando di Dio, Adamo aveva perso l’immortalità e divenne mortale354.

Pertanto l'eredità non aveva riguardato il peccato ma la morte355. Dopo la cacciata dal paradiso, la

sua discendenza, nata fuori di esso, ha conosciuto il dolore, la necessità del lavoro, l’assenza di

serenità. La conferma di tale lettura, secondo Locke, è il fatto che Cristo, Figlio di Dio, aveva il

medesimo carattere distintivo del Padre, l’immortalità, che Adamo invece – pur essendo come

Gesù figlio diretto di Dio - non ebbe più dopo il peccato 356. Tale legame tra Adamo e Cristo, di

chiara derivazione paolina (cfr. Rm 5,12; 1 Cor 15,22), costituisce la cornice di tutta l’opera357.

Tuttavia il pensiero di Locke a tal proposito è controverso, tanto più se si tiene presente la

necessità di conciliare tale eredità con la convinzione lockiana che il peccato di ciascuno sia da

attribuire soltanto a lui, e che nessuno possa essere punito se non per proprie azioni, aspetto che è

stato interpretato come netto rifiuto da parte sua della predestinazione358.

Può contribuire a fare chiarezza sull’argomento un manoscritto del 1693, Homo ante et post

lapsum, dove Locke si sofferma su questi temi e tratteggia la condizione umana nello stato di

natura precedente la Caduta: una condizione nella quale istinto e ragione erano sufficienti come

guida, e dove non vi era possibilità di desideri riprovevoli.

Man was made mortal put into a possession of the whole world, where in the full use of the creatures there was scarce room for any irregular desires but instinct and reason caried him the same way and being neither capable of

354 Cfr. RC p. 169; p. 113. Tetlow spiega che per Locke nessun individuo ad eccezione di Adamo aveva ricevuto quel comando, e perciò solo Adamo fu il responsabile della propria tragressione. Il sacrificio di Cristo era da intendersi come redentivo per il peccato individuale di ciascuno e non per una colpa ereditata da Adamo. J. Tetlow, John Locke’s Covenant Theology, cit., p. 185. 355 Se si intende che, dopo Adamo, la mortalità per Locke implicava la perdita della vita e dei sensi, e quindi l’anima stessa era diventata mortale, si può comprendere come alcuni suoi critici avessero concluso che, se la vita e la sensibilità terminano con la morte, allora la punizione divina veniva svuotata di ogni significato. Da qui l’accusa di «denying the punishments in an other world» che Locke lamenta in suo manoscritto (molto probabilmente la prima difesa scritta della Reasonableness) e che aveva creduto di poter evitare difendendo la fede nella risurrezione e in un giudizio finale. Cfr. Ms Locke c. 29, fo.99. in V. Nuovo, VIN, cit., p. 238. Sul tema si veda inoltre Resurrectio et quae sequuntur [c. 1699], in WR, cit., pp. 232 – 237. 356 Cfr. RC p. 170; p. 114. 357 V. Nuovo, Introduction, VIN, p. xxviii. Ian Harris ha spiegato che per Locke la conseguenza della Caduta era stata l’uscita dall’Eden e la mortalità. Questa spiegazione tuttavia lasciava fuori la funzione redentiva della venuta di Cristo. Pur rifiutando il ruolo di Adamo come rappresentativo di tutto il genere umano, Locke sarebbe riuscito a fornire un’alternativa ugualmente cristiana. La posterità di Adamo non aveva ereditato il peccato ma una condizione di sofferenza. Inoltre il covenant con Dio, fondato su una law of works, aveva stabilito uno standard di giustizia troppo elevato, che pochi riuscivano a soddisfare. E questo rendeva anche la posterità di Adamo soggetta alla morte. Cristo ha offerto un’opportunità per mettere un argine alle sofferenze degli uomini e per riacquistare l’immortalità perduta dal primo uomo, promulgando una law of faith che accordava il perdono dei peccati a tutti coloro che si sforzavano sinceramente di adempiere la legge. In questo modo Locke poteva rifiutare la rappresentanza di tutta l’umanità in Adamo e allo stesso tempo riuscire a salvaguardare tanto il ruolo redentivo di Cristo quanto la responsabilità individuale del peccato. Cfr. I. Harris, The Politics of Christianity, cit., pp. 212-215. Anche Tetlow, seguendo questa linea, spiega che nessun individuo ad eccezione di Adamo aveva ricevuto quel comando da Dio, e perciò solo Adamo era considerato da Locke il responsabile della propria tragressione. Il sacrificio di Cristo era da intendersi come redentivo per il peccato individuale di ciascuno e non per una colpa ereditata. J. Tetlow, John Locke’s Covenant Theology, cit., p. 185. 358 A. Sabetti, commento a La Ragionevolezza del cristianesimo, cit., p. 7, nota 3.

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coviteousnesse or ambition when he had already the free use of all things he could scarce sin. God therefor gave him a probationary law whereby he was restraind from one only fruit, good wholsom & tempting in it self. The punishment annexed to this law was a natural death359 .

La conseguenza di tale peccato – «But he sind & the sentence of death was immediately

executed»360 - fu per l’uomo la conoscenza del bene e del male e, insieme ad essa, «he began to die

from that time being separated from this source of life»; da allora «he and in him all his posterity

were under a necessity of dyeing and there sin entered into the world and death by sin»361. Ma

Locke aggiunge subito che l’azione di Dio ha istituito anche un Covenant of grace, mediante il

quale è concesso all’uomo «a state of eternal life but not without dyeing»362.

Secondo Spellman, che ha dedicato un importante studio all’argomento del peccato originale363,

Locke non avrebbe accettato l’interpretazione agostiniana di Genesi e, conseguentemente,

l’orientamento calvinista che vedeva nell’umanità una massa dannata. Tuttavia egli non poteva

non riconoscere che la Caduta aveva avuto delle conseguenze pratiche, come pure la realtà

oggettiva della natura peccaminosa dell’uomo, così che per la salvezza era indispensabile la grazia

divina364. Alla luce di questo presupposto devono leggersi anche la concezione lockiana

dell’educazione e la funzione del governo civile.

La Ragionevolezza si apre dunque con un attacco al calvinismo: quel che Adamo ha trasmesso

alla posterità è stata la perdita della perfetta obbedienza; «questo dimostra che lo stato del paradiso

era uno stato di immortalità, di vita senza fine (life without end), che Adamo perdette quando

mangiò il frutto proibito: la sua vita cominciò da allora ad essere più breve, e desolata, e ad avere

una fine»365. Il filosofo ritiene tale evidenza - quella per cui «death came on all Men by Adam’s

sin»366 - il motivo dominante del Nuovo Testamento, e riconduce le diverse posizioni a tal

proposito a differenti significati attribuiti alla parola morte, che mostra di non condividere;

per alcuni essa va intesa come uno stato di colpa [state of Guilt], in cui non solo Adamo, ma anche tutta la sua discendenza sono così coinvolti che ogni suo discendente merita tormenti senza fine, nel fuoco dell’inferno. […] certo però sembra un modo ben strano di interpretare una legge, che richiede le parole più semplici e piane, intendere per morte una vita eterna nelle pene [Eternal Life in Misery]367 .

359 Homo ante et post lapsum [1693?-1694], Ms Locke c. 28, fo. 113v, cit., in WR, p. 231. 360 Ibid. 361 Ibid. 362 Ibid. 363 Si veda, oltre al citato testo di Spellman del 1988, il suo saggio: Locke and the Latitudinarian Perspective on Original Sin, in «Revue internazionale de Philosophie», 42 (1988), pp. 215 – 228. 364 W. M. Spellman, John Locke and the Problem of Depravity, cit. pp. 182-183. Si veda inoltre: A. Artis, Locke and Original Sin, in «Locke Studies», 12 (2012), pp. 201-219. 365 RC p. 92; p. 6. 366 Ibid. 367 Ibid.

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Vi era poi chi intendeva la morte come «uno stato di peccato inevitabile [a state of necessary

sinning], e di ribellione a Dio, qualsiasi azione gli uomini compiano: e questa è una interpretazione

della parola morte ancora più assurda dell’altra»368. Locke non accoglie neppure questa

interpretazione, in considerazione della giustizia divina, non ritenendo possibile che Dio abbia

condannato l’uomo alla necessità di peccare continuamente, e così di moltiplicare l’offesa. La sua

idea era differente:

Io per me ritengo che, in questi passi, non posso intendere la morte se non come un cessare di essere [a ceasing to be ], un perdere qualsiasi forma di vita e di sensibilità [the losing of all actions of Life and Sense]369.

In seguito, riferendosi alla salvezza concessa ad uno dei malfattori crocifissi con Cristo, Locke

spiega che all’uomo era stato promesso il paradiso per la sua fede e in tal modo egli veniva

riportato «ad una felice immortalità [and so re-instated in an Happy Immortality]»370.

Immortalità e beatitudine sono la ricompensa dei giusti, di coloro che hanno vissuto la perfetta

osservanza della legge di Dio, mentre a coloro che hanno infranto la legge è preclusa l’immortalità.

L'offerta di immortalità diventava allora il principale motivo di una buona condotta e ciò che

rendeva il cristianesimo superiore alle umane filosofie371. Ciò comportava tuttavia che nessuno

potesse realisticamente sperare di adempiere da solo la legge mosaica delle opere (che è anche la

legge della retta ragione, perché chiede di vivere secondo la regola di ragione) a causa della

Caduta372.

Il problema consisteva nel fatto che «avendo peccato tutti», come afferma San Paolo (Rm 3, 23),

«nessuno dovrebbe avere vita eterna e beatitudine»373. Certamente Locke negava che ogni

individuo avesse ereditato da Adamo una tendenza per cui dovesse necessariamente peccare, ma

non esentava l’umanità dal bisogno di un redentore. Il peccato era stato il prodotto di una

volontaria ribellione nel seguire la legge di Dio374.

368 RC p. 93 ; p. 7. 369 Ibid. Si veda inoltre il manoscritto Redemption – Death [1697] - Ms Locke c.27, ff. 112-113, cit., pp. 400-403. 370 RC p. 163; p. 105. 371 Cfr. RO, p. 94. 372 Nel Secondo Trattato Locke spiega che Adamo era perfetto con il corpo e con l’anima e in pieno possesso della ragione, capace «dal primo istante della sua esistenza a provvedere alla propria sussistenza e conservazione e a governare i propri atti in conformità dei comandi della legge di ragione che Dio aveva impresso in lui». Ma i suoi discendenti furono «tutti infanti, deboli e impotenti, senza conoscenza e intelligenza». T2, 56, p. 299. 373 RC p. 96; p. 11. 374 Cfr. W. M. Spellman, John Locke and the Problem of Depravity, cit., pp. 140- 41.

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Tale morte venne per Adamo e per la sua discendenza, per la sua prima disobbedienza nel paradiso, a tale morte sarebbero dovuti rimanere per sempre soggetti gli uomini, se non ci fosse stata la redenzione [Redemption] ad opera di Gesù Cristo375.

Da notare che tale legge di ragione, per Locke, aveva un rilevante valore civile: non solamente essa

era da accogliere nella sua integralità come legge divina, ma dal suo rispetto dipendeva anche la

conservazione dell’autorità e dell’ordine:

Disobbedire a Dio in qualche parte dei suoi comandamenti (e la ragione ci prescrive quello che egli ha comandato) è ribellione [Rebellion] vera e propria; e se la si ammette in qualche punto vanno in malora autorità [Government] ed ordine [Order]; e allora non ci possono essere limiti agli eccessi di illegalità di un uomo senza freni [Lawless Exorbitancy of unconfined men] 376.

Sulla base di tali riflessione Sabetti accentua la distanza di Locke dalle conclusioni deistiche,

mentre coglie la vicinanza di questi alla posizione sociniana, la quale comportava appunto

l’interpretazione del peccato originale solo come perdita della beatitudine e dell’immortalità

donata ad Adamo, e considerava che da questo stato di morte il Cristo avesse riportato l’umanità

alla vita377.

L’opera di Cristo avrebbe rappresentato allora la possibilità di riconquista dell’immortalità

perduta, secondo il significato paolino del passo «come in Adamo tutti morimmo, così in Cristo

tutti vivremo» (1 Cor 15,22):

Da ciò appare evidente che la vita, che Gesù Cristo ridona a tutti gli uomini, è la vita che essi ricevono di nuovo dopo la risurrezione. Allora essi scampano a quella morte alla quale, altrimenti, sarebbero rimasti dannati per sempre; così appare evidente dall’argomentazione di San Paolo (1 Cor XV) riguardante la resurrezione378.

Quanto alla responsabilità individuale, Locke cita più passi dei Vangeli (Gv 5,29; Mt 16,27) per

mostrare che «non c’è la condanna di nessuno per quello che ha fatto il progenitore Adamo»379,

mentre a ciascuno spetterà la ricompensa per le proprie azioni. Ma oltre alla fede è richiesta

l’obbedienza alla legge morale [moral law]; tanto che il cristianesimo di Locke è essenzialmente

una religione morale – come la religione naturale - che non richiede tanto un’obbedienza perfetta

purché sincera380.

375 RC, p. 93; p. 7. 376 RC, p. 96; p. 12. 377 Cfr. Sabetti, John Locke: la religione tra « ragione» e «rivelazione», cit., p. CVI. 378 RC, p. 95; p. 10. 379 RC, p. 94; p. 9. 380 « Di sapore sociniano è anche l’interpretazione del testo evangelico là dove, in difformità di quanto viene affermato da più parti nel movimento della Protesta, Locke dà valore per la salvezza non solo alla fede, ma anche alle opere, che gli

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È a partire dal capitolo terzo che si fa riferimento ad una Law of Works, quella «legge che

richiede perfetta obbedienza, senza alcuna remissione o riduzione, sicché, per essa, un uomo non

può essere giusto, o giustificato senza una perfetta realizzazione d’ogni suo comma»381. Il patto con

Mosè e quello di Cristo si fondavano rispettivamente su una Law of Works e una Law of Faith. Il

primo, il cui carattere distintivo era il rigore, legava l’immortalità ad una perfetta obbedienza poco

compatibile con la fragilità umana; il secondo sostituiva alla perfetta obbedienza uno sforzo verso

di essa, un sincero pentimento e l’adesione al Messia382.

Che la creazione avesse sancito un primo patto, costituito da una legge morale, tra Dio e Adamo -

patto che una volta rotto aveva dato luogo al peccato originale -, e che il nuovo patto fondato sulla

grazia richiedeva la fede in Cristo per ricostruire l’alleanza della creazione, era anche la tesi

arminiana383.

Le opere sono richieste per Locke ma non come causa meritoria di salvezza bensì come un

indispensabile carattere dei sudditi del regno di Dio384. Già nella Lettera sulla tolleranza egli aveva

sottolineato la centralità della condotta e delle opere per un cristiano: con riferimento a chi si

appaiono come perfezionamento della stessa fede». A. Sabetti, John Locke: la religione tra « ragione» e «rivelazione», cit., p. CVI. 381 RC, p. 98; p. 13. 382 Cfr. V. Nuovo, Introduction, VIN, p. xxix. Locke tornerà sul Covenant of Faith quando risponderà ad Edwards su ciò che occorre credere per essere cristiani: «But God by Jesus Christ has entered into a Covenant of Grace with Mankind; A Covenant of Faith, instead of that of Works, wherein some Truths are absolutely necessary to be explicitly believed by them to make Men Christians; and therefore those Truths are necessary to be known, and consequently necessary to be propos’d to them to make them Christians. This is peculiar to them to make Men Christians. For all Men, as Men, are under a necessary obligation to believe what God proposes to them to be believed: But there being cetain distinguishing Truths, which belong to the Covenant of the Gospel, which if Men know not, they cannot be Christians; and they being some of them such as cannot be known without being propos’d; those and those only are the necessary Doctrines of Christianity I speak of; without a knowledge of, and assent to which, no Man can be a Christian». SV, p. 169. 383 Secondo Tetlow il significato di covenant per Locke era inconcepibile nella prospettiva calvinista della predestinazione, poiché egli la intendeva come relazione di fiducia tra Dio e l’uomo, dunque fondata sul consenso. Il filosofo avrebbe maturato la propria concezione di Law of Works e Law of Faith dietro influenza dell’anglicano Henry Hammond (1605-1660) – citato anche all’inizio della Ragionevolezza - membro del Tew Circle e considerato il padre della critica biblica inglese, passato dal calvinismo all’arminianesimo, il quale utilizzò il termine Law of Faith nel suo Practical Catechism del 1645. Hammond scrisse inoltre una Parafrasi del Nuovo Testamento (1653) richiamandosi ad Ugo Grozio e a Simone Episcopio (cfr. M. Sina, Nota introduttiva, Saggio per la comprensione delle Epistole di San Paolo, in SER, cit., pp. 601-603, qui 602). La tesi fondamentale di Tetlow è che la visione di Locke si fondasse su un Covenantal Anglicanism passato da Lake, Donne, e altri calvinisti contemporanei, ad Hammond, Allestee e Taylor, e da questi a Locke, il quale avrebbe recepito la versione arminiana del patto di fede propria di Hammond filtrata dal rifiuto del peccato orginale del latitudinario Taylor. La soluzione di Hammond era stata quella di reinterpretare il patto di grazia della teologia puritana fornendo all’anglicanesimo un fondamento per distinguersi tanto dal puritanesimo quanto dal cattolicesimo, e fece questo distinguendo una prima alleanza tra Dio e Adamo (e in lui con tutta l’umanità) di perfetta obbedienza, un’alleanza precedente la Caduta e inficiata da questa, alla quale adempì invece Cristo in modo perfetto, attraverso una nuova. Hammond accentuava l’importanza di una vita di fede, di pentimento e di sincera adesione alla legge divina, che avrebbe comunque richiesto il perdono di Dio per i peccati. Il punto rilevante, per Tetlow, è che mentre altri teologi inglesi dei “due patti” (Fenner, Nichols, Cartwright, Perkins) avevano associato l’alleanza con Adamo e quella di Mosè, Locke come Hammond aveva collocato il primo patto nell’Antico Testamento ma riconducendolo al solo Adamo. Cfr. J. Tetlow, John Locke’s Covenant Theology, cit., pp. 174 - 184. Su Hammond cfr. inoltre A. Wainwright, Introduction, A Paraphrase and Notes on the Epistles of St Paul, I, pp.12-13. 384 Cfr. RO, pp. 94-95.

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mostra crudele verso chi ha un’opinione differente dalla sua ma indulgente verso immoralità

indegne di chi porta il nome di cristiano, scriveva che costui «dimostra con piena evidenza che, per

quanto faccia un gran parlare di chiesa, va in cerca di un regno che è altro da quello di Dio»385 .

Inoltre, quanto alle opere da compiere, Locke ha ben presente l’affermazione di San Paolo nella

Lettera ai Romani (2,14 ss.) secondo cui Gentili, pur non avendo una legge, fanno le opere

prescritte dalla legge scritta nei loro cuori; e la legge alla quale egli faceva riferimento è la legge di

natura, la quale è inclusa nella “legge delle opere”, e «si può conoscere mediante la ragione tanto

chiaramente quanto la legge di Mosè»386:

la differenza tra la legge delle opere e la legge della fede è solo questa; che la legge delle opere non ammette alcuna trasgressione, in nessun caso. Coloro che obbediscono sono giusti, coloro che disobbediscono in qualche punto sono ingiusti, e non meritano la vita, che è premio della giustizia. Invece per la legge della fede, la fede è accettata a compenso del difetto di obbedienza piena ed assoluta, e così i credenti sono ammessi alla vita e all’immortalità, come se fossero giusti387 .

Vi era dunque anche una giustificazione per le opere necessaria per la salvezza, l’agire nella legge e

per la legge che Cristo aveva confermato388, che non viene posta da Locke in contrasto con la legge

della fede (quella per cui Dio giustifica un uomo in quanto credente, anche se le sue azioni non

sono rette) poiché entrambe si richiamano all’unica legge suprema di tipo morale - la lex divina -

che l’uomo scopre con la ragione. Tuttavia, essendo questa conoscenza ottenebrata dalle passioni,

la rivelazione chiarisce e conferma tale legge:

dove non ci fosse la legge delle opere, non potrebbe esserci legge di fede. Infatti non ci sarebbe alcun bisogno di fede, da far valere per gli uomini al posto della perfetta obbedienza, se non ci fosse nessuna legge, regola e metro di giustizia, cui venir meno389.

385 LT, p. 133. Montuori, più opportunamente e in modo aderente all’originale, traduce: «…che costui parli quanto vuole di Chiesa, le sue azioni dimostreranno senza dubbio che è ben altro il Regno a cui tende, non certo all’avvento del Regno di Dio». Lettera sulla tolleranza, a c. di M. Montuori, cit., p. 99 (corsivo mio). 386 RC, p. 99; p. 14. Tetlow, nell’illustrare la concezione pattizia del cristianesimo di Locke, spiega che la legge di natura costituiva fino a Mosè il Covenant of Works e la morte regnava a causa della trasgressione di Adamo. Locke doveva credere che la morte di coloro che erano morti dopo Adamo e prima di Mosè era dovuta ai loro peccati individuali, all’infrazione della legge di natura, cioè di un corpo di precetti morali rivolti a tutti e conoscibili dalla ragione naturale. Questo patto con Adamo era universale perché si applicava anche a coloro che ignoravano la legge divina positiva, che invece costituiva la legge di Mosè. Questa si applicava solo agli Israeliti e non ai Gentili, e sul popolo di Israele Dio esercitava anche un potere politico. Mentre al patto con Adamo aderiva ogni individuo, in quanto immagine di Dio, nel patto mosaico era solo “quel” popolo ad aderire, e ad essere vincolato alla Legge del Sinai. L’aspetto rilevante è che sebbene il Messia fosse stato promesso solo agli Ebrei, il nuovo Covenant of Grace che egli inaugurò riguardò tanto Ebrei quanto Gentili e la salvezza divenne evento universale. A ciò si riferiva San Paolo nel parlare di popolo e di regno universale di Dio sotto la sua legge. Tuttavia, nota Tetlow, nel nuovo Patto l’individuo torna ad essere la controparte e non la comunità. J. Tetlow, John Locke’s Covenant Theology, cit., pp. 184-190. 387 RC, pp. 99-100; p. 15. 388 Cfr. A. Sabetti, commento al testo La Ragionevolezza del cristianesimo, cit., nota 12, p. 30. Cfr. J. Tetlow, John Locke’s Covenant Theology, cit., pp. 191-193. 389 RC, p. 99; p. 15.

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Non vi è dunque differenza alcuna - in termini di precetti morali - tra la legge mosaica e quella

predicata da Cristo, secondo Locke. Egli cita il discorso della montagna in cui Cristo afferma di non

essere venuto ad abolire la legge ma a completarla (Mt 5, 17):

Quella parte della legge di Mosè che riguarda la morale, ossia la legge morale (che è sempre e dovunque la stessa, l’eterna regola di giustizia), obbliga i Cristiani, e tutti gli uomini, sempre e dovunque, ed è per tutti l’incrollabile legge delle opere390 .

Come ha notato Victor Nuovo, commentando una nota che Locke stesso appone al proprio testo,

sebbene questi non fosse un realista in etica, nel senso di ritenere che modelli di bene e di male

esistano indipendentemente dalla volontà divina, tuttavia credeva, come i platonici di Cambridge,

in una legge di Dio eterna ed immutabile, espressione della purezza della sua natura391. Questo

significava che la rivelazione cristiana, nella prospettiva lockiana, offriva il supporto adeguato alla

moralità, per la quale non è sufficiente la sola ragione. Anzi, secondo il filosofo, la legge di natura è

presente nella sua interezza solo nel Nuovo Testamento con perfetta evidenza e chiarezza392.

Studiosi come Michael Rabieh non condividono questa lettura e hanno suggerito che

esaminando con attenzione gli argomenti della Ragionevolezza (tra i quali la questione dei

miracoli) si può osservare come il filosofo fosse consapevole della incompletezza della sua

presentazione. Proprio perché fonda la sua verità su una rivelazione soprannaturale, infatti, il

cristianesimo non è ragionevole, dal momento che viene a dipendere da un evento non

dimostrabile; Locke pertanto non poteva presentarlo semplicemente come pure natural religion.

La sua dimostrazione, secondo questa lettura, era costretta a tenere insieme la rivelazione e la

centralità della missione di Cristo. Il cristianesimo in questo senso diventa ragionevole nella

misura in cui, se correttamente interpretato come fede in una divina sanzione, si rivela utile

supporto ad una moralità di tipo razionale che egli aveva elaborato altrove393. Nell’opera si

rimodellerebbe allora il cristianesimo non solo come supporto, ma come giustificazione di una

moralità mercenaria394. La ragionevolezza del cristianesimo consisterebbe secondo tale lettura

390 RC, p. 100; p. 16. 391 Cfr. V. Nuovo, Notes to the Reasonableness of Christianity, in WR, n. 95.36, p. 266. 392 Cfr. RC, pp. 185 - 190; pp. 136-143. 393 Cfr. M. Rabieh, The Reasonableness of Locke, or the Questionableness of Christianity, cit., p. 953. 394 Scrive Rabieh: «The covenant is thus a true contract between men and God. Without the reward of eternal life, there would be no reason to enter into the covenant and try to live in a sincere obedience to the law. Recognizing this, God justly offer us this reward as consideration for our promise to strive to obey the law. He demand no more of us than he does of his own son. Locke’s reinterpretation of the Christian covenant thus sanctifies our guiding our behaviour only by rewards and punishments». Ivi, p. 955.

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soltanto nella efficacia politica di un cristianesimo correttamente inteso, e in niente altro395.

Al di là di tale interpretazione, quel che invece per Locke si configura diversamente per Ebrei e

Gentili è la conseguenza della trasgressione: mentre i primi hanno ricevuto la legge di Mosè, la cui

trasgressione costituisce peccato, per i secondi il peccato consiste nel trasgredire la lex naturae, che

è legge di ragione396. E precisamente questo loro venir meno alla legge è compensato dalla legge

della fede:

Solo Dio giustifica, o può giustificare, ossia rendere giusti, coloro che per le loro azioni non lo sono: cosa che egli fa tenendo la loro fede in conto di giustizia, cioè in conto di un perfetto adempimento della legge397.

Locke rievoca la figura di Abramo il quale credette in Dio; e la sua fede era una fiducia

incrollabile, consisteva «nel credere alle promesse che Dio fece, nel patto che strinse con lui».398 E

come Abramo venne giustificato in virtù della sua fede, così essa varrà come giustizia per tutti

coloro che credono a Dio nel modo di Abramo; e precisamente «credere nel Figlio significa credere

che Gesù è il Messia, avendo fede nei suoi miracoli e in quello che egli dice di se stesso»399.

Locke – nel citare passi del Vangelo di Giovanni - torna più volte sulla fede nel Messia, che

distingue i credenti dai non credenti400 e rende gli apostoli membri della sua chiesa. Questa tesi

distingue Locke dai deisti, dal momento che il Cristo di Locke non era semplicemente il

predicatore di una religione naturale ma the Son of God:

Di conseguenza, il problema fondamentale per gli Ebrei fu se Gesù fosse o no il Messia, e nel Vangelo fu promulgato e ribadito che egli lo era401.

Locke ricorre ad una serie di citazioni tratte dai Vangeli e dagli Atti degli Apostoli per dimostrare

che cosa significhi credere in Gesù Cristo per avere la vita eterna e spiega che l’uso del termine

Christ – di derivazione greca - equivale all’ebraico Messia, termine che sta ad indicare l’Unto, «il

Figlio di Dio e re di Israele»402. Pertanto l’unico articolo della fede cristiana necessario per essere

395 Cfr. ivi, p. 939. 396 «Per ragione non credo si debba intendere qui quella facoltà dell’intelletto di elaborare discorsi e dedurre argomentazioni, bensì alcuni principi pratici sicuri, dai quali scaturisce originariamente l’insieme delle virtù e tutto quanto è necessario alla buona formazione della morale: ciò che da questi principi rettamente di deduce, può esser detto a buon diritto conforme alla retta ragione». SLN, I, p. 4. 397 RC, p.100; p. 17. 398 Ibid. 399 RC, p.102; p. 19. 400 Ibid. 401 RC, p. 103; pp. 20-21. 402 RC, p. 106; p. 24.

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dei credenti, secondo il filosofo, è la credenza in Cristo venuto a proclamare la buona novella403:

Locke «credeva che qualcuno diventa cristiano, entra nella chiesa ed è giustificato credendo al

Vangelo, accogliendo Gesù come Re e Salvatore, e sottomettendosi alla sua legge»404. Tale

messaggio è la giustificazione per la fede ed è anche ciò che Gesù cercò di far comprendere ai suoi

apostoli, e che essi presero ad insegnare a tutte le genti insieme alla sua risurrezione405. Entrambi

aspetti che Locke ritiene collegati, poiché non si potrebbe pretendere la fede nel Messia da uomini

che lo credano in potere della morte:

E’ necessario perciò che coloro i quali hanno creduto che egli è il Messia credano che egli è risorto dalla morte, e che coloro che hanno creduto che egli è risorto dai morti non abbiano dubbi sul fatto che egli è il Messia406.

La novità cristiana investe anche la parte cerimoniale, come dimostra il discorso alla Samaritana,

nel quale Cristo afferma che i «veri fedeli adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4, 23). Ciò

significa che tale professione di Gesù come Messia era sufficiente affinché i Gentili fossero accolti

nella Chiesa mediante il battesimo come gli Ebrei, ovvero sulla base di un atto di fede. L’insistenza

di Locke non lascia spazio ad equivoci,

Ché la salvezza e la perdizione dipendono dal credere o dal non credere in questa sola proposizione. Io ritengo che questo sia tutto ciò in cui si chiede di credere a coloro che riconoscono, come riconoscevano gli Ebrei, un solo Dio eterno ed invisibile, creatore del cielo e della terra 407.

Tale sollecitudine circa la messianicità di Gesù come solo articolo di fede necessario rivelava la

profonda influenza della teologia latitudinaria e razionalistica del Seicento inglese, e segnatamente

del Chillingworth e di Religion of Protestants, come pure dei rimostranti olandesi, quali Episcopio

e Limborch408.

***

Nel capitolo settimo dell’opera compare un riferimento al triplice annuncio del Messia: per mezzo

di miracoli; con frasi e circonlocuzioni che preannunciavano la sua venuta e con dichiarazioni rese

dagli Apostoli dopo la resurrezione.

403 RC, p. 129; pp. 56-57 e pp. 137-139; pp. 68-70. 404 V. Nuovo, Locke’s Christology , cit., p. 145. 405 RC, p. 104; p. 21. Sulla diffusione del Vangelo per mezzo della predicazione degli Apostoli e la fondazione delle prime comunità cristiane cfr. Defence of Nonconformity, in P. King, The Life of John Locke, cit., II, pp. 196-218, qui 215-216. 406 RC, p. 105; p. 22. 407 RC, pp. 108-109; p. 28. 408 Cfr. M. Sina, Introduzione a Locke, cit., p. 115.

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I miracoli erano considerati dagli ebrei del tempo il segno del Messia, come il Vangelo di

Giovanni non manca di sottolineare (dopo il primo miracolo a Cana i discepoli credettero in Gesù

e Natanaele lo riconobbe Figlio di Dio subito dopo che aveva dimostrato di conoscerlo in modo

straordinario). Anche Locke scorge nel miracolo il segno che garantisce l’autenticità di una certa

testimonianza o azione di origine divina409. Locke insiste particolarmente sul ruolo dei miracoli

nello svelare la messianicità di Gesù al punto da leggere la riunione dei sommi sacerdoti del

Sinedrio (Gv 11, 47), come momento decisivo per la decisione della sua morte a causa dei miracoli

che Egli compiva410. Inoltre Gesù, a Giovanni Battista che domandava dal carcere se fosse lui il

Messia, rispose con la testimonianza dei suoi miracoli, sapendo che gli Ebrei non potevano non

ritenere Messia qualcuno che fosse stato inviato con il potere di compierli.

Nella parte conclusiva dell’opera Locke tornerà sui miracoli compiuti da Cristo per sostenere

l’evidenza e la verità incontestabile [unquestionable Verity] della sua missione:

Infatti i miracoli che egli fece furono fatti realizzare dalla divina provvidenza e sapienza in modo tale che mai furono negati, né potevano esserlo, dai nemici o dagli oppositori del cristianesimo 411.

Quanto ai passi delle Scritture che preannunziavano la venuta del Messia, Locke risale a Isaia (9, 1-

20), Michea (5, 1-14), Daniele (9, 1-27) e al Vangelo di Luca (14,15 e 17, 20) per spiegare che

l’immagine di un regno governato da un Prince of Peace era l’espressione comune presso gli ebrei

per indicare i tempi del Messia412.

Un modo più chiaro ed esplicito per annunciare il Messia era stato invece quello degli Apostoli

dopo la resurrezione del loro Maestro:

il Salvatore non seguì tale via, anzi, non dette indicazioni a suo riguardo, alla fine, in Giudea, e all’inizio della sua missione, se non nei due modi precedenti, che sono più oscuri; senza mai dichiarare di essere il Messia in altro modo che facendolo capire dai miracoli che faceva, e attraverso la corrispondenza della sua vita e delle sue azioni alle profezie del Vecchio Testamento che lo riguardavano, e con alcuni discorsi generici sul regno del Messia che era venuto, parlandone come del “regno di Dio e dei cieli” 413.

Locke mette a confronto il modo di annunciare apertamente il Regno di Dio e la messianicità di

Gesù, proprio degli Apostoli, e l’atteggiamento prudente del Cristo durante la sua vita, evidente ad

409 Cfr. J. Locke, A Discourse of Miracles, in WR, pp. 44 – 50. 410 Cfr. RC p. 118; p. 40. 411 RC p. 191; p. 145. 412 Cfr. RC p. 114; p. 35. 413 RC p. 115; p. 36.

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esempio nell’episodio in cui, dopo la dichiarazione di Pietro circa la sua messianicità, egli impose

agli Apostoli di non dirlo a nessuno (Mc 8, 27-30).

Locke dedica diverse pagine alla riservatezza di Gesù e nota che «questa cura di non rivelarsi può

sembrare strana, in uno che era venuto a portare la luce al mondo, e che avrebbe affrontato la

morte, per testimoniare la verità»414, ma riconduce questo modo di agire alla divina sapienza: al

Cristo non sarebbe stato possibile predicare e praticare miracoli e opere buone

se, appena comparso in pubblico, all’inizio della sua predicazione, avesse subito professato di essere il Messia, il re del regno che annunziava vicino. Infatti il sinedrio lo avrebbe fatto arrestare sotto l’accusa di attentato al suo potere, e perciò l’avrebbe fatto uccidere, o per lo meno avrebbe intralciato ed ostacolato la sua missione ed impedita l’opera che egli doveva compiere415.

Si sarebbe trattato perciò di una vera e propria prudenza (caution) da parte sua per più di una

ragione: evitare la reazione dei governanti romani della Giudea, i quali non avrebbero certamente

consentito a Gesù di professarsi apertamente il re che gli ebrei attendevano e avrebbero usato la

forza contro di lui; evitare che il popolo ebraico insorgesse contro il giogo straniero, ponendo

Cristo alla testa di un tumulto; e per non provocare i sacerdoti e gli ebrei di Gerusalemme, dove

infatti – nota Locke - Cristo non operò miracoli fino alla seconda pasqua dopo il suo battesimo,

quando cioè il primo miracolo compiuto nella città mise in pericolo la sua vita:

Li mise alla prova, ma trovò che la loro miscredenza era tale che, se avesse insistito, e continuato a predicare la buona novella del regno e a rivelarsi con i miracoli, non avrebbe avuto più il tempo e la libertà di compiere l’opera che il Padre gli aveva commesso di compiere, come egli stesso dice (Gv V, 36) 416.

Locke trova conferma dell’atteggiamento prudente da parte di Gesù nell’episodio in cui questi

confessò a Pilato di essere un re, precisando che il suo regno non era di questo mondo (Gv 27, 36),

così da chiarire che lo scopo della sua predicazione non era l’instaurazione di un ordine politico

alternativo ai Romani. Tale prudenza non esclusivamente per difendere la propria vita, dal

momento che Cristo conosceva quale sarebbe stata la conclusione della sua vicenda terra, ma per

consentire prima di tutto che la sua predicazione non fosse stroncata dal principio, tanto più che le

manifestazioni miracolose rivelavano la sua messianicità taciuta:

414 RC p. 115; p. 37. 415 RC, p. 116; p.37. 416 RC, p. 117; p. 39.

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essendo le circostanze tali che, senza quel comportamento prudente e senza quella riservatezza [a Prudent carriage and reservedness], egli non avrebbe potuto portare a termine l’opera che era venuto a compiere, né avrebbe potuto realizzarla in ogni sua parte nel modo rispondente alle descrizioni fatte sul conto del Messia […]417.

La predicazione del Regno di Dio consisteva nell’insegnamento delle vie per esservi ammessi,

ovvero delle regole di giustizia e di moralità, e non in un riscatto di carattere politico. Il regno

messianico si configurava come un trionfo della legge morale sul peccato e sulle passioni, e non

come rivoluzione politica, anche se - come nota Sabetti - è da una rivoluzione morale «che

scaturisce la necessità di nuovi rapporti giuridici, costruiti secondo ragione e non in funzione del

prepotere di alcuni»418.

Locke avrebbe così mostrato di guardare al cristianesimo non soltanto come ad un modello per

stabilire un differente rapporto tra uomo e Dio, ma ad una modalità per instaurare una nuova

forma di rapporti umani fondati sulla ragione e sui diritti naturali, costruiti dalla ragione e

convalidati dalla rivelazione419. In particolare nel discorso della montagna Locke scorge

l’insegnamento, chiaro ed intelligibile a tutti, dei doveri di una vita onesta.

Locke si concentra sull’interpretazione del termine Messia per gli ebrei del tempo, e anche per

molti suoi discepoli, i quali continuavano a pensare a questi come ad un principe temporale e al

liberatore del popolo ebraico dal giogo straniero, «che avrebbe fatto risorgere la loro nazione ad un

grado di potere, dominio e prosperità più alto di quanto mai avesse goduto»420.

È degno di nota il fatto che Locke rifletta su numerosi episodi della vita di Gesù e metta

continuamente a confronto le versioni dei Sinottici e di Giovanni, al fine di trovare una conferma

alla propria lettura dei Vangeli e in particolare alla tesi secondo la quale nell’ultima parte della

vita, volgendo ormai al termine la sua missione, il Salvatore divenne sempre più esplicito circa la

sua identità, compiendo miracoli nel tempio alla presenza di sommi sacerdoti, anziani e capi del

Sinedrio, e rimproverandoli per la loro condotta (Mt 23):

Ciò non fu senza ragione, perché nella prima parte della sua missione egli si guardava bene dal rivelarsi come Messia [shewing himself to them to be the Messiah]. Ma, ora che era giunto all’ultimo atto della sua vita, ed era la pasqua, il tempo stabilito, in cui egli doveva portare a termine ciò che era venuto a compiere, con la sua morte e resurrezione, compì molte cose nella stessa Gerusalemme, alla presenza degli Scribi, dei Farisei e di tutta la nazione giudaica, per rivelare che egli era il Messia421.

417 RC,p. 134; p. 64. 418 A. Sabetti, commento al testo La Ragionevolezza del cristianesimo, ed. cit., nota 15, pp. 45-46. 419 Ibid. 420 RC, p 151; p. 88. 421 RC, pp. 140-41; p. 73.

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Il Gesù di Locke avrebbe avuto sempre presente la propria missione ed evitato qualsiasi parola o

comportamento che minacciavano di comprometterne il significato o di concluderla anzitempo.

Cristo sapeva che i discepoli non avrebbero compreso un Messia che non fosse stato anche un re, e

meno ancora che avesse vissuto nella povertà e nella persecuzione, ma non voleva porsi come

liberatore dal dominio di Roma o apparire come un pretendente al regno di Giudea. Per tali

ragioni un’esplicita dichiarazione di messianicità avrebbe inevitabilmente provocato tumulti e

lotte per evitare la sua morte. Gesù intendeva confermare invece il carattere puramente spirituale

del suo regno, e perciò anche il primato del morale sul politico, dell’eterno sul presente422.

Nella lettura di Sabetti, Locke intende recuperare attraverso questo lavoro di confronto e di

ricerca sul testo evangelico la specificità cristiana che trascende la contingenza del tempo e delle

chiese, così da riproporla come norma prima ed assoluta di vita, «come presupposto morale e jus

aeternum, che sottende ad ogni rapporto umano storicamente concluso e positivamente

determinato»423.

I miracoli avrebbero avuto allora l’importante funzione di rendere evidente fuor d’ogni dubbio la

messianicità di Gesù, pur in assenza di una esplicita dichiarazione ai discepoli, alla folla o ai capi

degli ebrei di essere il Messia, cioè il re; dichiarazione ricercata invece da Scribi e sommi sacerdoti

come prova di una minaccia al potere romano.

Nel prendere in esame l’interrogatorio di Gesù davanti al Sinedrio, l’attenta lettura di Locke nota

che mentre nel Vangelo di Matteo (26, 64) e di Marco (14,62) si ritrova un’unica domanda rivolta a

Gesù dai capi ebrei - «Sei tu allora il Figlio di Dio?» - in quello di Luca (22,71) sono presenti due

domande alle quali Gesù dà due distinte risposte:

Nella prima, egli, secondo la sua prudenza solita, evita di dire in parole esplicite di essere il Messia, mentre nell’altra ammette di essere “il Figlio di Dio”. E sebbene quelli, essendo Ebrei, capissero che ciò significava essere il Messia, non potevano, tuttavia, ricavarne un’accusa valida e grave per lui innanzi ad un pagano, e ciò è stato dimostrato424.

La necessità di mostrare che il regno di Cristo non si poneva in concorrenza con quelli terreni

emerge anche dalle lettura lockiana del dialogo tra Gesù e Pilato, nel quale Locke scorge una

esplicita volontà da parte del primo di testimoniare la verità circa la sua specifica regalità, ciò che

condusse Pilato a dichiararlo innocente più di una volta425. Soltanto quando quest’ultimo rifiutò di

422 Cfr. A. Sabetti, commento al testo La Ragionevolezza del cristianesimo, cit., nota 29, p. 80. 423 Ivi, pp. 80-81. 424 RC, p. 147 ; p. 83. 425 RC, pp. 148-50 ; pp. 84-86.

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crocifiggerlo, si trovò accusato dagli ebrei di non essere amico di Cesare e cedette, contro la sua

coscienza, per salvare se stesso da una tale accusa.

Qui noi vediamo la forzatura della loro accusa contro Gesù, con cui speravano di togliergli la vita, cioè che egli “si proclamava re”. Abbiamo visto anche su che cosa fondavano l’accusa, perché egli aveva ammesso di essere “il Figlio di Dio”. Infatti, per quello che essi avevano sentito, egli non aveva mai professato nè proclamato di essere un re426.

Vi è poi un’ulteriore riflessione da menzionare sui discepoli e sul loro atteggiamento circa

rivelazioni e ordini che Cristo dava loro. Locke nota che le loro umili origini li rendevano come

dei bambini pronti ad eseguire ciò che il Maestro diceva, astenendosi dall’indagare ulteriormente

circa la sua identità o dal rivelarla, cosa che difficilmente uomini dotti, o di nascita o intelligenza

più elevata, avrebbero evitato di fare427. Tuttavia Locke, nota Sabetti, affermando questo non

intende affatto presentare il cristianesimo come la religione degli umili, ma ricondurre anche la

scelta dei discepoli ai limiti che Cristo aveva fissato alla sua predicazione, per le ragioni di

prudenza sopra illustrate 428.

La riflessione lockiana esalta la «mirabile prudenza» [admirable wariness] e la «eccezionale

saggezza» [extraordinary Wisdom] di Gesù, che lo condussero ad adempiere completamente le

Scritture e con le quali egli

supera tutte quelle difficoltà, compie l’opera per cui era venuto, va predicando ininterrottamente per tutto il tempo destinatogli, rivela se stesso in modo sufficiente come Messia, in tutti i particolari che le Scritture avevano predetto di lui; quando venne la sua ora patì la morte, ma fu riconosciuto che moriva innocente, sia da Giuda, che lo tradì, sia da Pilato, che lo condannò429.

Esaminando il racconto dell’Ultima Cena, Locke rileva che solo agli Undici Cristo rivelò la sua

identità, chiarendo ancora una volta che cosa significava credere in lui. Anche in quest’ultima

occasione non vi erano nuovi articoli di fede proposti oltre alla sua messianicità, a conferma,

secondo Locke, di ciò che era davvero essenziale nella dottrina cristiana430. Tuttavia i discepoli solo

dopo la risurrezione avrebbero ricevuto l’illuminazione per comprendere come il suo regno era

quale le Scritture avevano predetto. E anche dopo la risurrezione, nota Locke, non furono rivelati

loro altri misteri di fede 431.

426 RC, p. 150 ; p. 87. 427 Cfr. RC, pp. 151- 152; pp. 88 –90. 428 Cfr. A. Sabetti, commento al testo La Ragionevolezza del cristianesimo, cit., nota 31, p. 91. 429 RC, p. 154; p. 93. 430 Cfr. RC, pp. 158 e 162; pp. 98 e 103. 431 Cfr. RC, p. 164; p. 105.

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a) Le novità del cristianesimo

A partire dall’unico articolo di fede necessario, Locke intendeva replicare nella seconda parte della

sua opera a chi riteneva quella in Gesù una fede solo storica, non in grado cioè di giustificare o di

salvare, avanzando come argomentazione il fatto che anche i diavoli credevano senza ottenere

salvezza. Locke risponde che «il Salvatore e gli Apostoli hanno dichiarato che essa è tale [la fede è

salvifica], e non hanno insegnato altro che gli uomini debbano accettare», aggiungendo che solo

all’umanità, e non agli angeli caduti, Dio ha offerto quel patto di grazia in virtù del quale la

giustificazione risultava subordinata alla fede nel Messia:

io li sfido a dimostrare che c’è qualche altra dottrina per la quale, in base al loro credervi o non credervi, gli uomini sono definiti credenti o non credenti, e, di conseguenza, accolti nella chiesa di Cristo, come membri del suo corpo, in quanto il loro credo li fa essere tali, oppure esclusi da essa 432.

In questa insistenza del filosofo sull’unico articolo di fede per la salvezza si può ravvisare l’esigenza

di far coincidere il più possibile la religione rivelata, nella sua forma essenziale, con la religione

naturale secondo ragione, salvando al contempo la rivelazione, così da consentire anche la

massima forma di tolleranza per le altre confessioni cristiane433. In realtà Locke, tenendo presente

il contenuto profondo dei Vangeli e degli Atti, affianca alla fede nella messianicità di Gesù – fede

che anche i demoni avevano - la necessità del pentimento [repentance] e di una vita onesta come

condizioni altrettanto essenziali al Patto di grazia434:

Queste due cose, fede e pentimento, cioè credere che Gesù è il Messia ed una vita onesta [good Life] sono le condizioni indispensabili del nuovo patto [new Covenant], che devono essere attuate da coloro i quali vogliono ottenere la vita

eterna435.

Per pentimento si intende qui non un singolo atto di contrizione ma il compimento di opere

consone al pentimento, espressione con la quale è introdotta la necessità delle opere per la vita

eterna, cioè di una vita onesta436.

432 RC, p. 167; p. 109. Cfr. G. Forster, John Locke’s Politics of Moral Consensus, pp . 182-193. 433 A. Sabetti, commento al testo La Ragionevolezza del cristianesimo, cit., nota 35, p. 110. Questa tesi è stata considerata anche da Steven Forde, il quale ha inscritto la Ragionevolezza nel più ampio progetto lockiano della tolleranza, ponendola in rapporto tanto con l’etica quanto con la teologia naturale: cfr. S. Forde, Natural Law, Theology, and Morality in Locke, in «American Journal of Political Science», 45 (2001), pp. 396-409, in part. 405- 408. 434 Cfr. RC, p. 167; pp. 110-111. 435 Cfr. RC, p. 169; p. 113. 436 Tetlow, che non trova convincente la tesi di Michael Jinkins che ha parlato di un terzo Patto di redenzione tra Dio Padre e il Figlio per la salvezza degli eletti, spiega che la seconda condizione del nuovo Patto di Grazia – Law of Works - richiedeva oltre alla fede anche il pentimento e la perfetta obbedienza, e che per Locke la giustizia di cui parlavano le

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Locke, nella seconda parte, ha modo così di spiegare che cosa si intende per figliolanza divina

che fa di Cristo immagine del Dio invisibile (Col 1,15). Si tratta del fatto che la morte non ha alcun

potere su di lui, il quale «è l’erede di una vita eterna, come lo sarebbe stato Adamo se fosse rimasto

ligio al suo dovere filiale»437. E anche gli uomini, in virtù della loro fede e delle loro opere, ovvero

per adozione, possono «aspirare a quella eredità che per diritto naturale era di Gesù, essendo egli

per nascita il Figlio di Dio, e quest’eredità è la vita eterna»438.

Tetlow legge nell’interpretazione lockiana della redenzione un’inclinazione a porre in risalto la

sovranità di Cristo piuttosto che una visione trinitaria, e ritiene che Locke potrebbe aver creduto

in una sorta di subordinazione del Figlio al Padre. La studiosa esclude così che egli potesse essere

triteista e sottolinea come questo potesse avere implicazioni anche politiche:

Cristo agisce indefettibilmente come re, giudice, governatore e legislatore sul suo regno universale, e sebbene la sua regola non sia teocratica, è estremamente rilevante per il pensiero politico di Locke […]439.

La legge che l’uomo è chiamato a rispettare, di origine divina, comprende doveri che derivano

dall’essere l’uomo una creatura razionale, per questo essi «obbligano eternamente (are of Eternal

Obligation); né possono essere eliminati, né si può essere dispensati da essi, senza cambiare la

natura delle cose, sconvolgendo il metro del diritto e del torto, ed introducendo e autorizzando

irregolarità, confusione e disordine nel mondo»440. La realizzazione della giustizia umana è per

Locke l’obbedienza a questa legge; «secondo la quale tutti gli uomini saranno giudicati l’ultimo

giorno»441.

Se vi è un Regno, e Cristo ne è il sovrano, egli è anche un legislatore. In ragione di ciò la legge

della fede è inseparabile dalla legge delle opere, e non è sufficiente credere nel Messia se non si

osservano anche i suoi precetti442. Su questo punto Locke mostra di seguire al medesimo tempo

volontarismo e razionalismo. Un comando divino è una obbligazione morale poiché proviene dalla

volontà di Dio: se Egli richiede una certa cosa, allora l'uomo è moralmente obbligato ad

Scritture era l’obbedienza. Pertanto la fede senza opere di perfetta obbedienza alla Legge e alla volontà di Cristo non era sufficiente per la giustificazione, come mostrava il Vangelo delle Beatitudini. Ovviamente tale legge di fede data da Gesù Messia incorporava tanto la legge di Adamo quanto quella di Mosè ed era per tutti, non riservata agli eletti calvinisti. Prima della venuta di Cristo essa mancava del suo vero, autorevole, fondamento. Cfr. J. Tetlow, John Locke’s Covenant Theology, cit., pp. 190-197. 437 RC, p. 170; p. 114. 438 RC, p. 171; p. 115. 439 J. Tetlow, John Locke’s Covenant Theology, cit., p. 198 (trad.mia). 440 RC, p. 174; p. 120. 441 Ibid. 442 Cfr. RC, pp. 174- 177; pp. 120-123.

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eseguirla443. Ciò che Gesù ha insegnato, per Locke, è un codice di obbligazioni morali, e da ciò

segue che una volta avuta prova del carattere rivelato di quel che Cristo ha insegnato, sappiamo

che ciò che egli ha detto è per gli uomini una obbligazione morale.

Tuttavia la rivelazione non è il solo modo per l’uomo di accedere all'obbligazione morale, molti

aspetti di essa sono comprensibili attraverso le capacità naturali, anche se la rivelazione conferma

questa legge naturale in modo chiaro, con una maggiore perfezione di quanto la mente umana sia

capace, e soprattutto dà ad essa il carattere del dovere: vi sono un lawmaker e delle sanzioni. Non

vi è infatti un’ obbligazione laddove non vi sia una legge, e non c’è legge senza sanzione.

Se dunque Locke si avvicina ai deisti quanto alla centralità dell’elemento morale, si distacca da

loro nel radicare la moralità nella fede in Cristo e nei suoi insegnamenti: «Una delle principali

obiezioni di Locke alla religione razionale è quella di mancare della chiarezza e della forza della

religione cristiana in ambito morale»444.

Secondo la lettura della Ragionevolezza Cristo era venuto in primo luogo a riaffermare «i

principi della religione naturale, il monoteismo, il fondamento della legge di natura nella volontà

di Dio e la promessa della beatitudine eterna per coloro che la osservano»445. In secondo luogo, egli

aveva rinunciato ad un’alleanza tra la sua chiesa e il potere temporale.

Il filosofo torna più volte su questo aspetto, per sottolineare che le regole del patto precedente

stipulato tra Dio e gli uomini non erano state abolite ma solo attenuate nel loro rigore. I precetti

morali del Vecchio Testamento erano confermati (la continuità tra la vecchia e la nuova legge), ad

essi tuttavia si aggiungeva il comando della perfetta carità:

Egli dice che non solo l’uccisione, ma anche la collera ingiustificata, ed altrettanto le parole di disprezzo, sono proibite. Comanda di essere miti e concilianti con i nemici, sotto la pena di condanna. […] non solo proibisce ogni impudicizia, ma anche desideri illegittimi, sotto pena del fuoco infernale, e divorzi immotivati [Causless Divorces], bestemmie nei discorsi, come spergiuri nei giudizi [Forswearing in Judgment], vendette, uso del taglione, ostentazione di carità, di devozione, e di fasto, vane parole nelle preghiere, cupidigia [Covetousness], preoccupazione per i beni terreni, atteggiamenti ipercritici [Censoriousness] […] 446.

443 Victor Nuovo ha notato a proposito del volontarismo di Locke che è vero che egli enfatizza che non può esservi legge senza un legislatore e che questi fa rispettare la legge attraverso ricompense e punizioni, ma fa molta differenza se il legislatore è retto e giusto oppure capriccioso e parziale. E nel primo caso volontarismo e razionalismo sono compatibili. Per Nuovo affermare che la legge morale si fonda sulla volontà divina non significa essere un semplice volontarista, a meno di dimenticare che la stessa volontà divina è soggetta alla bontà e alla cognizione di ciò che è bene. Cf. V. Nuovo, Locke’s Christology, cit., p. 153, n. 31. 444 S. Pearson, The Religion of John Locke and the Character of his Thought, cit., p. 142 (trad. mia). 445 V. Nuovo, Locke’s Christology, cit., p. 147. 446 RC, p. 177; pp. 123-24.

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Si può osservare come la riflessione di Locke non si rivolgesse tanto al nuovo significato della legge

di Cristo, quanto a porre in risalto la riconferma da parte di Gesù della lex naturae, la quale

otteneva così la garanzia della rivelazione447.

Locke riflette inoltre sul passo in cui Cristo menziona il giudizio ultimo (Mt 25, 31-46) e lo

descrive sulla base dell’effettiva carità dimostrata con le proprie opere: il merito di ciascuno

sarebbe stato misurato per le opere, dal fare o dal non fare448.

Quanto a coloro che sono venuti a conoscenza della promessa del Messia, e non hanno avuto la

possibilità di credere o di rifiutare la rivelazione:

Dio ha rivelato, mediante la luce della ragione [Light of Reason], a tutti gli uomini che vogliono servirsi di tale luce, che è buono [Good] e misericordioso [Merciful]. […] Chi ha fatto uso di questa candela del Signore [Candle of the Lord], fino a scoprire qual è il suo dovere [Duty], non può non trovare anche il modo di riconciliarsi e di farsi perdonare, quando sia venuto meno al suo dovere, anche se, probabilmente, non vedrà né l’uno né l’altro se non usa la sua ragione [Reason] a questo fine, e rifiuta o trascura questa luce449.

Locke fa propria la celebre espressione - Candle of the Lord - cara ai platonici cantabrigensi, e

usata in particolare da Whichcote, per indicare la guida dell’uomo nella scoperta del proprio

dovere e il lume naturale che consente all’umanità di scoprire la riconciliazione e il messaggio del

Vangelo. Un richiamo da intendersi come conferma del fatto che la legge data da Cristo è in realtà

la legge della ragione, quella che il lume naturale – dono divino a tutti gli uomini – rende nota.

L’aspetto fondamentale, che emergerà soprattutto dalle due Vindications della Ragionevolezza,

riguardava la chiarificazione circa la figura di Cristo, il ruolo salvifico della sua venuta e la

necessità della rivelazione medesima, e Locke sembra coglierlo con una socratica dichiarazione di

ignoranza:

E’ sufficiente, a dimostrare la convenienza di ogni cosa, riferirla alla “sapienza divina” che sa quel che fa, anche se la nostra vista corta e la limitata capacità di comprendere, possono renderci del tutto incapaci di scorgere questa sapienza e giudicarla rettamente […]. E saremmo troppo presuntuosi se pretendessimo che la sapienza di Dio, o la provvidenza, ci dessero una spiegazione, e insolentemente condannassimo come inutile tutto quello che la nostra intelligenza debole, e forse prevenuta, non riesce a spiegarsi450.

Si può ravvisare qui un’analogia con quanto affermato nel Saggio, dove Locke aveva spiegato che i

limiti della comprensione umana non sono d’ostacolo all’onnipotenza divina e non possono

provare alcunché «perché non è ragionevole negare il potere di un essere infinito per il solo fatto

447 Cfr. A. Sabetti, commento al testo La Ragionevolezza del cristianesimo, cit., nn. 42 e 43, p. 124. 448 Cfr. RC, pp. 185-186; p. 137. 449 RC, p. 190; p. 143. 450 RC, p. 191, pp. 144-45.

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che non ne possiamo comprendere le operazioni»451. Tuttavia non sembra in dubbio il valore della

rivelazione divina e della venuta del Salvatore:

I grandi e numerosi vantaggi che abbiamo ricevuto dalla venuta di Gesù al mondo ci mostreranno perché non senza necessità egli è stato mandato al mondo452.

***

Nella parte conclusiva dell’opera, per approfondire il significato e il fine della venuta di Cristo,

Locke si sofferma sulla condizione del mondo prima della diffusione del suo messaggio, sul vizio e

la superstizione che vi regnavano. Questi sono ricondotti da Locke all’ignoranza del vero Dio,

dovuta alla sensualità e alla lussuria che accecavano la mente di alcuni, alla superficialità di altri e

ai timori della maggior parte degli uomini, fattori tali da consegnare l’umanità nelle mani di coloro

che avevano diffuso false nozioni della divinità e promosso un falso culto453.

Locke non sembra interessato qui a sferrare un attacco al clero come categoria - come emerge ad

esempio da una traduzione di questo passo della Ragionevolezza che, volgendo al presente il

passato usato da Locke (il quale evidentemente si riferiva al mondo pre-cristiano), ne altera il senso

lasciando intendere che egli si riferisse alla condizione del suo tempo454. Piuttosto egli intende

contrapporre il vero culto al falso, proprio delle religioni pagane e della loro casta sacerdotale455;

sebbene un qualche accento anticlericale sia stato colto anche da Massimo Firpo456.

451 Saggio, IV, X, 19; p. 714. 452 RC, p. 191; p. 145. 453 Cfr. RC, p. 192; p. 146. 454 Si riporta la versione originale della Reasonableness, seguita dalla traduzione di Ida Cappiello e da quella rivista: «Sense and lust blinded their minds in some; and a careless Inadvertency in others; And fearful Apprehensions in most (who either believed there were, or could not but suspect there might be, Superior unknown Beings) gave them up into the hands of their Priests, to fill their Heads with false Notions of the Deity, and their Worship with foolish Rites, as they pleased […]» (RC, p. 192). «Senso e lussuria che accecano la mente in parecchi, una grande superficialità in altri, e pavide preoccupazioni nei più (i quali o sono credenti o sospettano semplicemente che ci siano esseri superiori, sconosciuti) li hanno consegnati nelle mani dei preti, che hanno riempito la loro testa di false nozioni sulla divinità, ed il loro culto di stolti riti, come meglio piaceva loro […]» (La Ragionevolezza del cristianesimo, cit., p. 146). «Sensi e lussuria, che accecavano le menti di alcuni, o per altri una superficiale inavvertenza, e timori nella maggior parte (fossero essi credenti o semplicemente sospettosi circa l’esistenza di esseri superiori e sconosciuti), finirono per consegnarli nelle mani dei loro preti, i quali riempirono le loro teste di false idee sulla divinità e il loro culto con inutili riti, come piaceva loro» (trad. mia). 455 Può risultare chiarificatore del pensiero lockiano uno scritto del 1698 presente nel common-place book denominato Sacerdos che riporta il pensiero del filosofo sul paganesimo, la moralità e il cristianesimo, probabilmente ispirato dalla lettura dei Pensées diverses sur la comète (1682) di Pierre Bayle. Secondo Victor Nuovo si tratterebbe invece di un’elaborazione di alcuni passi tratti da Cicerone, sulla separazione tra religione e filosofia morale nella Roma pagana che Locke apprese da Bayle. Locke nel frammento fa riferimento alla divisione, nella società pagana, tra religione e moralità per metterla in contrasto con la rivelazione cristiana, che invece le congiungeva. Sacerdos nei tempi antichi era il termine per indicare un mediatore tra la divinità e gli uomini, esperto nell’arte di conquistare il favore degli dei dietro richiesta di coloro che a lui si rivolgevano. I filosofi erano esperti invece nell’arte della moralità. Nell’antichità era molto netta la distinzione tra filosofi e sacerdoti, e i due ambiti rigidamente separati. Cristo abolì questa divisione e unì i due uffici in una sola persona, e così gli ambiti della rivelazione e della ragione. Eglì rifondò la religione sulla moralità,

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Locke altrove aveva avuto modo di chiarire quel che intendeva, precisando che i ministri della

Chiesa «sono necessari quanto i giudici: gli uni in quanto amministratori del culto religioso

pubblico, gli altri in quanto amministratori della giustizia civile», ma che «un carattere indelebile,

una peculiare santità della carica o un potere derivato immediatamente dal Cielo non sono

necessari né tantomeno opportuni per entrambi»457.

A proposito della riflessione sulla casta sacerdotale presente nella Ragionevolezza, Victor Nuovo

ha osservato che Locke imputava a questo tipo di clero il sorgere dell’idolatria pagana, poiché

«mentre i preti privi di scrupoli e ambiziosi influenzavano l’immaginazione religiosa del popolo, i

filosofi insegnavano la virtù senza render chiaro il suo vero fondamento nella volontà di un Dio

saggio, buono e giusto»458.

Ma i benefici della venuta di Cristo avevano per Locke un’implicazione anche per la filosofia. Ad

un religione ritualistica e prescrittiva Cristo sostituì un culto fondato sulla purezza del cuore e

sull’osservanza della legge divina, che andava a confermare quella naturale. Ad un culto sfarzoso e

formale, Cristo «pose rimedio, con un culto semplice, spirituale, conveniente»459, fatto di

osservanza interiore e di preghiera. Nel mondo pagano dominato da riti inventati (invented Rites)

e dall’ignoranza del vero Dio non poteva esservi soccorso della ragione poiché si riteneva che

questa non avesse a che fare con la religione, e si era quasi del tutto perduta la visione di un unico

vero Dio (One only True God). In questo stato, solo «the Rational and thinking part of Mankind» -

spiega Locke - era stata in grado di scoprire «the One, Supream, Invisibile God» e di rendergli un

culto puramente intellettuale.

Tale culto non era diffuso quindi tra il popolo o il clero, e la ragione non ebbe mai forza

sufficiente per imporsi sulle masse e convincerle dell’esistenza di un solo Dio. Solo nella religione

ebraica si conservava pura l’idea della religione naturale. Così Locke descrive un tale stato di

oscurità tra gli uomini:

proponendo una religione di tipo morale: «There were two sorts of Theachers amongst the ancients. Those who professed to teach them the arts of propitiation & atonement & those were primarily their Priests who for the most part made them selves the mediators betwixt the gods & men wherein they performed all or the principal part, at least mouthing was done without them. […] The ancients had another sort of theachers who were calld philophers. These had their schools professd to instruct those who would applie to them, the knowledg of things & the rules of virtue. These mixed not in with the publique religious worship or ceremonies but left them entirely to the priests, as the priests left the instructions of men in natural & moral knowledg wholy to the philophers […] Jesus Christ bringing the revelation from heaven the true Religion to mankinde reunited these two again Religion and Morality as the inseparable parts of the worship of god, which ought never to have been separated […]». Sacerdos, cit., in WR, p. 17; trad. it. Sacerdos, in Due Trattati, pp. 502-503. 456 M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., p. 54. 457 Sacerdos, trad. it. cit., p. 506. 458 V. Nuovo, Locke’s Christology, cit., p. 147 (trad. mia). 459 RC, p. 202; p. 163.

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La fede e il culto di un unico Dio fu la religione nazionale soltanto degli Israeliti; e se vogliamo ben considerare la cosa, essa fu introdotta e mantenuta nel popolo mediante la rivelazione. Essi erano nelle tenebre ed ebbero la luce, mentre il resto del mondo era, per così dire, nell’oscurità egiziana “senza Dio nel mondo”. Gli Ateniesi hanno avuto doti naturali quant’altri mai, e quant’altri mai le hanno potenziate, nessuno più di loro ha raggiunto una maggiore consapevolezza razionale e l’ha sviluppata in ogni sorta di speculazione: e tuttavia non troviamo altri che Socrate, presso di loro, che si sia opposto al politeismo e alle erronee concezioni riguardanti la divinità, deridendole: ed abbiamo visto come ne sia stato compensato 460.

La venuta del Salvatore viene vista allora come momento di rottura dell’isolazionismo del popolo

ebraico, il quale, a motivo della rivelazione ricevuta, non aveva scambi con il resto dell’umanità ed

era tenuto in poco conto: Cristo «fece crollare questo muro di separazione»461 annunciando un solo

Dio e inviando i suoi Apostoli ovunque nel mondo. La sua venuta rese noto al mondo che versava

in uno stato tale di oscurità e di errore l’unico invisibile Dio vero (the One Invisibile True God).

Politeismo e idolatria non poterono più essere sostenuti.

E, in effetti, noi vediamo che, dal tempo del Salvatore, la “fede in un unico Dio” è prevalsa e si è diffusa sulla faccia della terra. Infatti noi dobbiamo ascrivere alla luce che il Messia diffuse nel mondo anche la fede e la predicazione di un unico Dio che la religione maomettana ha ricavato e preso a prestito da essa [borrowed from it]. […] Questa era la luce di cui il mondo aveva bisogno, e questa luce ricevette da lui: ché non c’è che “un unico Dio”, ed è “eterno ed invisibile”, per niente simile a qualche oggetto, né rappresentabile attraverso gli oggetti462.

Se ne conclude che «la rivelazione cristiana dissipò quelle tenebre e abbatté quell’errore

sopprimendo definitivamente idolatria e politeismo. Ma la missione di Cristo non determinò solo

una riforma del sapere religioso, ma anche del costume morale»463.

La necessità della rivelazione cristiana, in risposta ai deisti, viene fissata da Locke a quest’altezza:

insieme alla vera conoscenza di Dio, essa ha portato la conoscenza di una vita nell’aldilà, dei doveri

dell’uomo, del vero culto, come pure di una promessa di assistenza da parte dello Spirito. Oltre alla

conoscenza del Dio vero, infatti, ciò che mancava agli uomini era quella dei propri doveri, un

sapere che la casta sacerdotale non era in grado di offrire e che solo alcuni filosofi pagani avevano

provato a ricercare. Gli uomini non conoscevano il vero Dio e la totalità dei propri doveri, tanto

che sotto il profilo storico Locke deve registrare il distacco della religione dalla virtù e il

predominio della seconda sulla prima:

Pochi frequentavano le scuole dei filosofi per essere istruiti nei loro doveri, e sapevano che cosa fosse il bene e che cosa il male nelle loro azioni464.

460 RC, p. 192; pp. 146-148. 461 RC, p. 194; p. 150. 462 RC, p. 193; p. 149. 463 C. A. Viano, John Locke: Dal razionalismo all’illuminismo , cit. p. 381 (corsivo nel testo). 464 RC, p. 193; p. 151.

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Vi è poi l’implicazione propriamente politica. Essendo la virtù necessaria alla sopravvivenza di una

comunità, si incaricavano di insegnarla nel mondo pagano le leggi dello Stato, con la conseguente

soggezione degli uomini al controllo dei magistrati465. Anche in questo caso - come per i princìpi

innati nel Saggio - Locke intravede lo spettro di un potere che tenta di sopraffare le coscienze dei

singoli.

Sabetti vi legge una contestazione del diritto positivo sviluppatosi al di fuori della legge mosaica

(quindi della legge di natura) e nell’ignoranza della rivelazione cristiana, utilizzato come

strumento di potere o per la mera felicità terrena466.

Massimo Firpo coglie invece qui l'identificazione del carattere della rivelazione con la

reasonableness of christianity, «dal momento che solo l’autorevolezza della parola di Dio ha potuto

organizzare in un sistema completo e coerente quella legge di natura che pochi, e solo in parte,

erano stati in grado di comprendere, dispiegandola in tutta la sua indiscussa normatività

morale»467. Mediante la rivelazione di Cristo religione e morale si congiungevano.

Fabro interpreta la lettura lockiana come prova che «la missione di Cristo, come Messia inviato

dal Padre, è di essere maestro di una religione e morale naturale, di restituire l’una e l’altra nella

loro purezza originaria», la medesima dottrina «che si troverà anche in Kant e nell’illuminismo

teologico del secolo XVIII»468.

Ma Locke tornava così su un argomento per lui molto importante, in parte affrontato nei Saggi

giovanili469, secondo il quale non tutti gli uomini, pur avendo le facoltà intellettive adatte alla

conoscenza in quanto esseri razionali, fanno di esse un uso retto, sanno acquisire la necessaria

indipendenza dalle condotte altrui e dedicano tempo e riflessione per giungere in maniera

autonoma alla legge morale; e di nuovo affermava che «è compito troppo duro per la ragione, non

suffragata da nient’altro, fondare la moralità in ogni suo aspetto, sul fondamento suo proprio, in

una luce chiara e convincente»470.

Vi sono da considerare poi i vizi, le passioni, i malintesi interessi che trascinano gli uomini fuori

strada. La rivelazione avrebbe rappresentato la «via più sicura e più breve» (a surer and shorter

465 Ibid. 466 Cfr. A. Sabetti, Commento al testo La Ragionevolezza del cristianesimo, cit., nota n. 51, p. 152. 467 M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., pp. 56-57. 468 C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, cit., p. 272. 469 SLN, II, pp. 24-26. 470 RC, p. 195; pp. 151-152. Su questo aspetto si veda anche C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, cit., pp. 254 ss.

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way) affinché la maggior parte degli uomini apprendesse la moralità non attraverso le deduzioni

della ragione ma attraverso l’autorità di un re legislatore che comunica loro i propri doveri :

La maggior parte dell’umanità non ha né tempo per vagliare tali catene di ragionamento, né, per mancanza di educazione ed abitudine, capacità di giudicarle. Noi vediamo come cadevano nel vuoto i tentativi dei filosofi, prima di Cristo. […] L’esperienza ci dimostra che la conoscenza della morale, con la sola luce naturale [by meer natural light] (per quanto possa apparire auspicabile una cosa del genere) si sviluppa e progredisce ben poco in questo mondo471.

Agli occhi di Locke la rivelazione ha fornito all’umanità un’etica completa ed unitaria, che in

qualche modo includeva le massime morali dei sapienti dell’antichità e poteva valere come regola

di vita; un’etica che, prima di Cristo, il mondo non aveva avuto. Affidarsi alla sola ragione, d’altra

parte, non consente all’uomo di giungere alla perfezione della legge naturale:

Nemmeno attraverso una serie di deduzioni evidenti [clear deductions] che partono da principi indubitabili si giunge alla sistemazione completa della “legge di natura” [entire Body of the Law of Nature]. E colui che raccoglie e mette a confronto tutte le regole morali [all the Moral Rules] dei filosofi con quelle contenute nel Nuovo Testamento, le troverà adeguate alla moralità [Morality] rivelata dal Salvatore ed insegnata dagli Apostoli, pur essendo questi un gruppo formato, in massima parte, di pescatori ignoranti, ma ispirati472.

Come Locke non manca di ricordare, rules of morality prima del cristianesimo erano numerose e

differenti da paese a paese, non vi era possibilità di un’etica universalistica473. I filosofi si

interessavano certamente di morale, ma senza occuparsi di Dio. Di conseguenza i criteri del giusto

e dell’ingiusto erano annoverati semplicemente tra le disposizioni necessarie alla vita in comune,

ma privi di obbligazione:

Ma dove era [detto] che la loro obbligazione era nota e permessa, ed essi accolti come precetti di una Legge; della Legge più elevata, quella di Natura? Ciò non poteva accadere senza una chiara conoscenza e riconoscimento del legislatore, e delle ricompense e punizioni, per coloro che li avrebbero o meno rispettati474.

471 RC pp. 195-196; pp. 152-153. 472 RC p. 196; p. 154. 473 Si riporta per intero il passo lockiano e se ne fornisce di seguito una traduzione propria: «Those just measures of Right and Wrong, which necessity had any where introduced, the Civil Laws prescribed, or Philosophy recommended, stood not on their true Foundations. They were looked on as bonds of Society, and Conveniences of common Life, and laudable Practises» (WR, pp. 198-199). «Quei criteri del giusto e dell’errore, che la necessità aveva introdotto, le leggi civili prescritto, o i filosofi consigliato, non poggiavano sui loro veri fondamenti. Essi erano considerati come legami della società, convenienti per la vita associata, e pratiche lodevoli». Michael Rabieh ha osservato che il testo delle Works del 1823 omette not prima di «on their true Foundations», presente invece sul testo personale della Ragionevolezza di Locke, pubblicato nel 1695 e ora nella Harvard Houghton Library. A partire dalla nona edizione delle Works (1794) il not scompare dal testo. [M. Rabieh, The Reasonableness of Locke, or the Questionableness of Christianity, cit., p. 943, n. 9]. Esso è presente, invece, nell’edizione a c. di V. Nuovo (2002) qui consultata. Risulta pertanto del tutto fuorviante la traduzione di Ida Cappiello, che omette il not : «La misura del giusto e dell’ingiusto, che, comunque, la necessità aveva fatto introdurre, le leggi civili imposto, o i filosofi raccomandato, poggiava sui fondamenti che poteva avere. Quelle disposizioni erano ritenute patti di una società, di convenienza per la vita comune, lodevoli modi di agire». RC, p. 157 (corsivo mio). 474 RC p. 199; pp. 157-158 (trad. rivista).

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Si tratta di un passo di estrema rilevanza per la comprensione dell’opera: Locke sta affermando qui

che anche se i precetti morali fondamentali fossero stati conosciuti prima della venuta di Cristo, gli

uomini non avevano comunque alcun obbligo verso di essi, dal momento che non conoscevano né

il legislatore né eventuali sanzioni o ricompense. Da ciò segue che se la missione di Cristo fosse

stata già semplicemente quella di rivelare agli uomini l’origine divina e la ragionevolezza della

legge di natura, essa non sarebbe stata superflua. Tutto ciò che i filosofi erano stati infatti in grado

di produrre in ambito morale, prima di Cristo, era una collezione disorganica di apoftegmi che, pur

eccellenti, non potevano tuttavia fondare un’etica obbligante ed universale dalla quale l’umanità

potesse sentirsi vincolata. Mancava ad essi la conoscenza del vero Dio, inteso anche come

legislatore, come pure di una vita dopo la morte, e questo rendeva assai imperfetta e precaria la

loro moralità475. Come ha osservato Merlo, «Locke pare suggerire che soltanto l’integrazione delle

regole morali in un sistema di pene e ricompense divine conferisce alle prime quella dimensione

autoritativa di cui sono naturalmente prive»476.

Si noti che Locke, già nei Saggi sulla legge naturale, aveva distinto la legge naturale dal diritto

naturale - «Il diritto consiste infatti nell’avere libero uso di qualcosa, la legge invece è ciò che

ordina o proibisce di fare qualcosa»477 - e rifiutava di definirla una semplice prescrizione della

ragione «in quanto la ragione, più che istituire e prescrivere questa legge di natura, la ricerca e la

ritrova, sancita da un potere superiore, insita nell’animo nostro, senza esserne dunque autore,

bensì interprete»478. Questo chiarisce l’affermazione secondo la quale

Qualsiasi cosa, per essere universalmente utile, come regola cui gli uomini conformino i loro comportamenti, deve ricevere la sua autorità, o dalla ragione, o dalla rivelazione 479.

La legge morale data da Cristo appartiene al secondo caso e viene giudicata dal filosofo full and

sufficient per la guida dell’uomo, e consona alla ragione, anche se era stata la missione del Cristo e

dei suoi miracoli ad averle conferito forza coattiva, dal momento che «l’autorità divina dei suoi

precetti non può essere contestata»480.

I sacerdoti dell’antichità parlavano poco di virtù e di vita onesta, i filosofi non menzionavano Dio

nelle loro etiche. La differenza tra la moralità prima e dopo Cristo risiede in questo: prima essa era

imperfetta e priva del suo carattere obbligante; dopo è stata associata ad una vita dopo la morte e

ne è stato rivelato l’autore. 475 Cfr RC, pp. 196-197; pp. 154-155. 476 M. Merlo, La legge e la coscienza, cit., p. 154. 477 SLN, I, p. 5 (corsivo mio). 478 Ibid. 479 RC, pp. 197-98; p. 155. 480 RC, pp. 197-198; p. 156.

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È questa vita ultraterrena rivelata da Cristo, come ricompensa della virtù, a stabilire il

cristianesimo e a rendere obbligante la legge morale. Cristo insomma «ha saputo offrire alla virtù

un senso e uno scopo ben più pregnanti di quello, pur nobilissimo, indicato dai filosofi antichi»481.

Riferendosi all’etica recata da Cristo Locke può dunque affermare:

C’è mai stato un simile codice [Code], prima di Cristo, cui l’umanità abbia potuto far ricorso, come a infallibile legge [unerring Rule] ? […] Qui l’etica [Morality] ha una regola precisa [sure Standard], che la rivelazione asserisce e la ragione non può negare, fuor di dubbio […]. E perciò io penso che il mondo non ne ha mai avuta una simile, fuor che nel Nuovo Testamento, né alcuno potrebbe dire che ne sia stata ritrovata un’altra482.

Si deve osservare in primo luogo che, quando si riferisce all’etica cristiana, Locke non impiega il

termine Virtue o Ethicks, come invece fa con riferimento ai filosofi pagani, ma ricorre al termine

Morality o Law of Morality 483.

In secondo luogo, Locke non sembra sostenere che legge di Cristo fosse qualitativamente diversa

dalla moralità raggiunta dai filosofi, piuttosto egli fa osservare che a differenza di tutte le altre era

perfetta. Da questi passi emerge una concezione problematica, complessa, della reason da parte di

Locke, il quale in maniera troppo sbrigativa è a volte considerato precursore dell’illuminismo del

XVIII secolo o accostato ai sociniani484. Firpo ha giustamente osservato che

Senza dubbio, sono queste le pagine in cui Locke, ponendosi esplicitamente il problema del valore e dello stesso significato della rivelazione, si distaccava maggiormente dal pensiero e dalle ricerche dei teologi sociniani del passato, sostanzialmente tutte “interne” al testo della Scrittura485.

Senza dubbio Locke nutriva fiducia nelle capacità della reason, come pure nei risultati conseguiti

dall’uomo attraverso di essa, ma tale fiducia non era illimitata; come emerge da queste pagine egli

mostra infatti di non ritenerla in grado di giungere da sola alla definizione di un’etica [Morality]

completa486. Opportunamente Viano nota «come la ragione non fosse per Locke una facoltà

infallibile, in grado di funzionare in qualsiasi condizione. Essa è ostacolata da pregiudizi e

481 M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., p. 58. 482 RC, pp. 197-98; p. 156. 483 Cfr. RC, pp. 194-98; pp. 150-157. 484 Circa l’infallibilità della ragione nella dottrina lockiana si veda: P. Schouls, Locke and the dogma of Infallibile Reason, in «Revue internationale de Philosophie», 42 (1988), pp. 115- 132. 485 M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., p. 58. 486 Nei Pensieri sull’educazione Locke tornerà sulla debolezza della ragione, invitando a trovare un giusto equilibrio, nella ricerca della conoscenza, tra la fiducia nel proprio giudizio e un sano scetticismo: «Dall’altro canto, chi crede la propria intelligenza capace di tutto, si lascia trasportare dalle ali della propria fantasia, sebbene di fatto la Natura non abbia mai inteso di dargliene; e così, avventurandosi nella vasta distesa delle verità incomprensibili, conferma soltanto la favola di Icaro e precipita nell’abisso. Noi ci troviamo quaggiù in condizione di mediocrità; creature finite, dotate di poteri e di facoltà molto bene adatti a taluni intenti, ma assolutamente sproporzionati alla vasta ed illimitata estensione della realtà». Dello studio, appendice PE [4], p. 300.

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costrizioni, continuamente minacciata dal fanatismo; e la religione è spesso la fucina di questi

ostacoli. Il cristianesimo è in questo senso la liberazione della ragione umana»487. Riferendosi agli

sforzi dei filosofi pre-cristiani di fondare dei codici etici Locke osserva:

Essi si fondavano sulla ragione e sui suoi responsi, che contengono soltanto verità: ma parecchi aspetti di questa verità sono troppo profondi per le nostre capacità naturali [lye too deep for our Natural Powers], sicché non è facile ritrovarli e renderli chiari e comprensibili all’umanità, senza una luce dall’alto che la guidi [without some Light from above to direct them]. Quando le verità [Truths] sono state da noi conosciute, anche attraverso la tradizione [by Tradition], diventiamo capaci di scorgerne tutti gli aspetti, e attribuiamo al nostro intelletto la scoperta anche di ciò che, in realtà, abbiamo ricevuto da altri; […] 488.

L’umanità nata sotto il Vangelo (under the Gospel) ritiene indiscutibili e facilmente dimostrabili

un gran numero di verità che ha acquisito sin dalla più tenera età e delle quali invece non avrebbe

avuto notizia, o sulle quali sarebbe rimasta in dubbio, se la rivelazione non ne avesse parlato.

Locke a questo punto dell’opera sviluppa quella che è stata definita una fenomenologia della

ragione489. Lo sfondo della sua argomentazione a partire dal Saggio (IV, XVIII) – per svelare

l’inganno dell’intelletto umano quando considera proprie conquiste verità che sono in realtà

apprese, e ricordando così il ruolo insostituibile della ragione in ambito religioso, attraverso

l’assenso fornito alle verità rivelate - è sempre la distinzione tra quel che è conforme a ragione e

quel che è superiore ad essa, che Locke affianca ad una terza categoria la quale comprende ciò che

è contrario alla ragione. Come è noto, Locke nel Saggio parla di verità che sono superiori (above)

alle capacità della ragione e ne oltrepassano la portata, ma che non sono ad essa contrarie, e

costituiscono l’oggetto proprio della faith.

È il medesimo aspetto su cui egli torna al termine della Ragionevolezza: con riferimento alla

salvezza e alla fede nelle verità fondamentali, Locke spiega che il compito dell’uomo è di «essere

docilmente disponibile ad abbracciare e ad accettare tutte le verità che provengono da Dio, e a

sottomettere la sua mente [submit his mind] a tutto ciò che gli appaia avere tale carattere»490.

La giustificazione, e se si vuole la necessità, della rivelazione è collocata sul limite che circoscrive

l’ambito della ragione: il contenuto della rivelazione trova la sua motivazione nell’ausilio

all’imperfezione morale propria dei Gentili prima di Cristo: «Secondo Locke, infatti, la missione di

487 C. A. Viano, Dal razionalismo all’illuminismo, cit., p. 380 (corsivo mio). 488 RC, p. 199; pp. 158-159. 489 Cfr. A. Sabetti, commento al testo La Ragionevolezza del cristianesimo, cit., p. 160, n. 53. 490 RC, pp. 208-209 ; p .173.

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Cristo e la rivelazione evangelica si configuravano come una sorta di necessario aiuto che era

venuto incontro alle debolezze umane e alle fragilità degli uomini»491.

Il fatto che la ragione sia in grado di confermare le verità rivelate non significa né che la

rivelazione perda, per questo, valore, né tanto meno che la ragione le possegga in maniera piena e

da sola sia in grado di raggiungerle:

Non si toglie valore alla rivelazione, per il fatto che la ragione dà un ulteriore conforto alle verità che la rivelazione ha discoperto. È, invece, un nostro errore ritenere che, dal momento che la ragione ce le conferma [because reason confirms them to us], per essa ne abbiamo avuto la prima conoscenza [the first certain knowledge], e le possediamo ora con chiara evidenza 492.

Il discorso lockiano prende atto che, non essendo possibile far giungere alla perfezione morale la

maggioranza dell’umanità attraverso un ragionamento e deduzioni coerenti, questa deve credere

alle verità rivelate fondamentali - «Every one is required actually to assent to them […]» 493 - e

leggere i libri sacri per essere istruita494. E anche una dimostrazione dei doveri della vita umana,

«resterebbe sempre inferiore ai princìpi e ai precetti del Vangelo»495. La regola evangelica per

Locke è «tanto completa che i più saggi degli uomini devono riconoscere che essa tende

unicamente al bene dell’umanità, e che tutti sarebbero felici, se la mettessero in pratica»496.

Solo al termine della sua riflessione Locke può affrontare il controverso rapporto tra virtù e

felicità:

Non si può impedire che gli uomini, i quali sono inclini a ricercare la felicità, si ritengano esonerati da una rigida osservanza a regole [rules] che appaiono aver poco a che fare con il loro fine principale, che è la felicità [happiness], quando essi tendono a godersi questa vita ed hanno poca fiducia e certezza [evidence and security] di un’altra 497.

Quest’affermazione può apparire incoerente con il passo del Saggio (I, III, 6) nel quale Locke

afferma che Dio ha «messo un legame indissolubile tra la virtù e la pubblica felicità» e «reso la

491 M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., p. 54. 492 RC, p. 200; p. 160. 493 Cfr. RC, p. 208; p. 173. 494 Macpherson ha letto in queste parole di Locke la necessità di ridurre all’obbedienza la classe lavoratrice attraverso la credenza nelle ricompense e nelle pene divine, derivante dalla convinzione che la classe lavoratrice, a differenza di tutte le altre, fosse incapace di vivere una vita razionale: «Si intravede forse una differenza minima nell’atteggiamento verso i lavoratori e verso i disoccupati: pare infatti che considerasse i poveri che non lavoravano come dei depravati per scelta, e invce i poveri che lavoravano semplicemente come incapaci di una vita del tutto razionale a causa della loro condizione disgraziata. Ma che fosse o meno per colpa personale, i membri della classe lavoratrice non disponevano del pieno diritto di far parte della società politica, cosa impensabile, e per cui non erano qualificati, dato che non vivevano e non avrebbero potuto vivere una vita pienamente razionale». Cfr. C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, cit., pp. 258-59. 495 RC, p. 201; p.162. 496 RC, p. 201; p. 163. 497 RC, p. 202; pp. 164-165.

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pratica della virtù necessaria alla conservazione della società umana», solo se non si tiene presente

che il filosofo utilizza appunto qui il verbo “apparire” (appeared). Ciò significa che sta indicando

l’apparenza agli occhi degli uomini di un contrasto tra felicità e osservanza della legge di natura, e

la realtà di una loro connessione stabilita invece da Dio. Il fatto che agli uomini tale legame non sia

chiaro può essere imputato ai vizi, alle passioni e alle inclinazioni errate.

Quanto alle idee dell’umanità su una vita dopo la morte, prima della venuta di Cristo, esse erano

piuttosto confuse e oscure. Poeti e miti raccontavano di campi Elisi e di isole dei beati; i filosofi

rinviavano alla virtù come ad una perfezione della natura umana, ne mostravano la bellezza ma

senza prendere in considerazione un’altra vita, lasciandola perciò senza ricompensa. La morale

(Virtue), osserva Locke, era un ambito nell’antichità proprio dei filosofi, e come tale distinto dalla

teologia. Essi fallirono poiché non tentarono di fondare la loro dottrina sui princìpi della religione

naturale; ma si affidarono ai valori impliciti nel discorso morale, alla reputazione o al pericolo di

sventura498. Mentre la casta sacerdotale, quando giungeva a parlare di anime nell’aldilà o di un’altra

vita, lo faceva «per indurre gli uomini alla loro superstizione e ai loro riti idolatri»499.

La conclusione di Locke è che l’idea di una vita completa e perfetta, eterna, dopo quella presente,

rimase estranea alle diverse religioni e nazioni fino alla venuta di Gesù Cristo. Prima di allora «la

dottrina di un vita futura (Doctrine of a future State), sebbene non fosse del tutto ignota, non era

tuttavia chiaramente nota al mondo»500. Cristo rivelò l’immortalità non solo con esplicite

dichiarazioni ma ne fornì garanzia «con la sua risurrezione (Resurrection) ed ascensione al

cielo»501, aprendo ad una vita futura alla quale accedere mediante una vita retta.

Una tale prospettiva ad avviso di Locke ebbe una portata realmente rivoluzionaria, dal momento

che rese la virtù un bene reale, desiderabile e degno degli sforzi umani.

498 Locke aveva già scritto a tal proposito nella nota denominata Of Ethick in General [1686-1687?] che si presenta come abbozzo preliminare ad un capitolo del Saggio, probabilmente per un inserimento nel capitolo XXI del IV libro. Secondo von Leyden la nota venne composta verso la fine dell’esilio in Olanda, all’incirca nel 1687 [cfr. W. von Leyden, Introduction, Essays on the Law of Nature, cit., pp. 69-73]. Of Etick in General, scritta in massima parte da Locke, sebbene una buona parte sia stata copiata dal Draft B da Sylvester Brounower, è un discorso sui fondamenti della moralità che comprende inoltre una riflessione sul principio secondo cui il fine principale della vita umana è la felicità; sulla felicità e miseria considerate come sorgenti [springs] delle azioni umane, in funzione del piacere e del dolore, e fondamento in base al quale distiguiamo bene e male; e sulla dottrina delle idee complesse – o modi misti – per spiegare la relatività del discorso morale. Locke potrebbe aver tenuto presente, e sviluppato, questa nota nelle riflessioni circa il rapporto tra rivelazione e moralità presenti nella Ragionevolezza. Of Ethick in General [Ms. Locke c. 28, ff. 146-152] in P. King, The Life of John Locke, cit., II, pp. 122-133; ora in WR, pp. 9-14; trad. it. Etica in generale, SER, pp. 160- 166. Cfr. anche V. Nuovo, Introduction, WR, pp. xxvii-xxviii. 499 RC, p. 203; p. 165. 500 Ibid. 501 RC, p. 203; p.166.

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Aprite i loro [degli uomini] occhi sulle gioie [joys] indicibili e senza fine di un’altra vita, ed i loro cuori avranno qualcosa di solido e di potente verso cui tendere. La visione del cielo e dell’inferno farà apparire come poca cosa i piaceri [pleasures] e le pene [pains] dello stato presente, che sono di poca durata, mentre fornirà attrazione ed incoraggiamento alla virtù che ragione ed interesse insieme, e la cura di noi stessi, non possono che far accettare e preferire. Su questo fondamento, e su questo soltanto, la morale [Morality] si erge stabilmente e può resistere agli assalti502.

Locke insiste qui nel notare che l’etica degli antichi, pur valida in se stessa, non era stabilita su un

vero fondamento, che egli individua esclusivamente nell’esistenza di una vita dopo la morte e in

un sistema di ricompense e punizioni, a propria volta sostenibile ammettendo l’esistenza di Dio.

Questo passo è da leggere unitamente a quello del Saggio nel quale Locke dichiara che «il vero

fondamento della morale» è «la volontà e la legge di un Dio, il quale vede gli uomini anche

nell’oscurità, tiene nelle sue mani le pene e le ricompense, ed ha potere sufficiente per chiamare

alla resa dei conti anche i più orgogliosi peccatori»503.

Alla luce di questa affermazione, e di quella relativa alla risurrezione dei morti come articolo di

fede e non come acquisizione della ragione (Saggio, IV, XVIII, 7), si può comprendere la centralità

nella filosofia morale, e quindi politica, di Locke della dimostrazione dell’esistenza di Dio e della

rivelazione.

Come ha opportunamente notato Michael Rabieh, occorre fissare l’attenzione sulla centralità

della missione di Cristo. Se con il peccato di Adamo l’umanità aveva perso l’immortalità, Cristo

aprì le porte ad una vita futura: «it is only through the new Christian dispensation that men can

attain the afterlife»504.

Locke fa inoltre esplicito riferimento all’aiuto fornito all’uomo dallo Spirito, che potremmo

intendere come grazia. Anche se «i suoi errori [errors] e le sue passioni [passions] lo tentano

sempre e spesso vincono»505, egli deve trovare motivo di incoraggiamento nella pratica della true

religion e nel sostegno divino.

Infine, nel capitolo conclusivo della Ragionevolezza, Locke risponde a coloro che domandavano

il motivo per il quale furono scritte le Epistole, se tutto ciò che si richiede per la salvezza si

riassume nella fede nel Messia, nella sua risurrezione e nel suo ritorno glorioso dei Vangeli.

Questa parte costituisce una sorta di introduzione ideale e premessa all’opera postuma A

Paraphrase and Notes of the Epistles of St. Paul. A conferma al criterio metodologico dichiarato

all’inizio, Locke invita a considerare in primo luogo che le Epistole sono state scritte in varie

occasioni e di ciascuna occorre considerare lo scopo e l’argomento; l’attenzione filologica ed

502 RC, p. 204; p. 166 (trad. rivista). 503 Saggio, I, III, 6; p. 52 (corsivo mio). 504 M. Rabieh, The Reasonableness of Locke, or the Questionableness of Christianity, cit., p. 948. 505 RC, p. 204; p. 167.

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ermeneutica si rivela nell’invito ad «andare al senso [drift] del discorso, osservare la coerenza e la

connessione delle parti, e vedere come sia in armonia con se stesso e con altre parti delle Scritture,

se vogliamo comprenderlo rettamente»506.

L’argomento principale della risposta fornita da Locke è che le Epistole vennero scritte per i veri

cristiani, per coloro che avevano fede, e per tale ragione non potevano avere l’obiettivo di

insegnare gli articoli ed i punti fondamentali necessari per la salvezza. San Paolo scriveva ai fratelli

nella fede e ai fedeli nella Chiesa, così San Pietro, San Giacomo, San Giovanni e San Giuda.

Le Epistole furono scritte in occasioni particolari, e non sarebbero state scritte senza tali occasioni, perciò non possono essere ritenute necessarie per la salvezza; tuttavia esse, poiché risolvono dubbi, e correggono errori, sono di grande aiuto per la nostra conoscenza e per il nostro comportamento507.

Nelle Epistole indirizzate alle chiese particolari gli articoli fondamentali si presentano mescolati ad

altre verità, e non si poteva pensare di trovare in esse quei punti essenziali rivolti a coloro che

erano invece ignoranti nella fede, presenti invece nei Vangeli.

Le Epistole sono ritenute da Locke degli scritti sacri e ispirati, ma in quanto relative a situazioni

particolari avevano lo scopo di commentare, chiarire e confermare la dottrina cristiana. La ragione

per la quale il filosofo torna più volte su questo aspetto si spiega alla luce dell’esortazione a non

considerare ogni affermazione contenuta in tali scritti come un articolo fondamentale «ritenendo

che senza un’esplicita fede in esso non si possa essere, qui, un membro della Chiesa di Cristo»508.

Era pur sempre questo l’aspetto essenziale per Locke, che, nel presentare la Law of Faith come

un Covenant of free Grace, aggiungeva:

solo Dio può stabilire che cosa necessariamente debba essere creduto da colui che Egli giustificherà. Solo dal suo ben volere dipende interamente qual è la fede che egli accetterà e accrediterà come giustizia. Infatti dipende dalla grazia e non da un diritto che questa fede sia accettata509.

Sebbene si richieda obbedienza a tutta la rivelazione, non tutte le verità in essa contenute sono da

considerarsi necessarie alla salvezza. Proprio tale considerazione sarà al centro, come vedremo,

della polemica con Edwards.

La conclusione che chiude l’opera è coerente con il cristianesimo essenziale che Locke ricercava:

Dio ha dotato l’uomo di ragione e di una legge «che non può oltrepassare ciò che la ragione gli

506 RC, p. 205; p. 168. 507 RC, p. 206; p. 170. 508 RC, p. 207; p. 171. 509 RC, p. 208; p. 171 (traduzione rivista).

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impone»510; tuttavia, in considerazione di una condizione di fragilità e miseria, era stato promesso a

Saviour che avrebbe guadagnato all’umanità la salvezza511.

Questa era la verità fondamentale comprensibile anche al popolo, agli illetterati e alla gran parte

dell’umanità estranea alle dispute e alle sottigliezze dei dotti, che con la Ragionevolezza si pensava

di aver stabilito in modo definitivo.

510 RC, p. 209; p. 173. 511 Ibid.

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Capitolo terzoCapitolo terzoCapitolo terzoCapitolo terzo

L’accusa di socinianesimo e il sospetto di eterodossiaL’accusa di socinianesimo e il sospetto di eterodossiaL’accusa di socinianesimo e il sospetto di eterodossiaL’accusa di socinianesimo e il sospetto di eterodossia

Nel XVII secolo, contestualmente all’affermazione del deismo e in parziale sovrapposizione ad

esso, si verificò un marcato slittamento verso l’unitarianismo. Come l’arianesimo che lo ispirava, si

poteva considerare «come un tentativo di mantenersi alla figura di Gesù, tagliando però al

contempo i ponti con le principali dottrine soteriologiche del cristianesimo storico» 1. Secondo una

tale comprensione «l’importanza di Gesù non consiste nel fatto di aver inaugurato una nuova

relazione con e tra noi, ripristinando o trasformando la nostra relazione con Dio. Non è infatti

questo il significato della salvezza, che consiste invece propriamente nel nostro accesso a principi

razionali di condotta di tipo giuridico ed etico e nella capacità di agire sulla loro base. Il ruolo di

Gesù in tale trasformazione è quello di un maestro, che insegna con i precetti e con gli esempi. La

sua importanza risiede nel suo essere un ispiratore e un battistrada di ciò che in seguito

chiameremo illuminismo»2.

Il successo dell’unitarianismo tra le minoranze elitarie del dissenso, in Inghilterra come in

America, si può spiegare dunque con la novità relativa alla figura del Figlio di Dio. Se il suo

compito, come dirà Kant, era quello di un saggio maestro3, la natura divina non era indispensabile.

L’obiettivo, secondo questa interpretazione di un fenomeno da collocare nell’ambito di una

riflessione più ampia sulla svolta che dischiude la modernità, era soltanto quello di «conservare la

nozione di un ordine impersonale autosufficiente allestito dalla sapienza di Dio sia nella natura sia

per la società umana»4.

Sullo sfondo di tale processo si comprendono anche le due maggiori polemiche che coinvolsero

in vita Locke.

1 C. Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009, p. 373. 2 Ibid. 3 Cfr. I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 148; 173-174; 184. 4 C. Taylor, L’età secolare, cit., p. 373.

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aaaa) ) ) ) La controversia con John Edwards:La controversia con John Edwards:La controversia con John Edwards:La controversia con John Edwards: A Vindication of the Reasonableness of Christianity A Vindication of the Reasonableness of Christianity A Vindication of the Reasonableness of Christianity A Vindication of the Reasonableness of Christianity

Al novembre 1695 - nel pieno della Trinitarian Controversy5 - risale anche A Vindication of the

«Reasonableness of Christianity etc.» from Mr. Edwards’s Reflections6, che Locke pubblicò dietro

prudente anonimato tre mesi dopo l’uscita del suo testo sul cristianesimo. Si trattava di una

risposta alle accuse del pastore John Edwards (1637-1726)7, teologo anglicano di impronta

calvinista, zelante difensore dell’ortodossia.

Ad Edwards, che godeva di una certa notorietà per i suoi studi sulla Scrittura, il socinianesimo

appariva come un progetto finalizzato a liberare la coscienza cristiana dai suoi vincoli religiosi e

dai suoi doveri; dunque una via aperta verso l’ateismo8. Egli accusò l’opera di Locke di essere

5 Denominata anche Unitarian Controversy del 1687 – 1700, la disputa sul tema della Trinità ebbe inizio quando gli Unitariani si avvantaggiarono della libertà di stampa con Giacomo II per diffondere le loro tesi e si infiammò negli ultimi anni del secolo. ll termine unitarianismo fu introdotto a partire dalla seconda metà del secolo XVI, sebbene posizioni di questo tipo risalissero già ai primi secoli del cristianesimo, per indicare comunità antitrinitarie formatesi all’interno delle chiese protestanti. Il termine si fonda soprattutto sul concetto della personalità singola di Dio in contrasto con la dottrina ortodossa della sua natura trinitaria. In Inghilterra dal 1642, con la guerra civile tra il re e il Parlamento, le divisioni politiche videro emergere la teologia unitariana in personalità come Milton, Newton e altri. Per un profilo di John Milton, in relazione alla rivoluzione puritana, si veda: H. Trevor-Roper, Milton in Politics, in Id., Catholics, Anglicans and Puritans: 17th Century Essays, cit., pp. 231 – 282; RO, pp. 3-68. 6 Di questa e della successivaVindication, come pure delle altre sue opere, Locke riconobbe la paternità in un codicillo al suo testamento e donò copia delle stesse alla Bodleian Library [cfr. Codicil of Mr. Locke’s will relating to his Works, in P. King, The Life of John Locke, cit., II, pp. 51-53]. Entrambe le Vindications lockiane sono state pubblicate da Victor Nuovo nell’ edizione critica che comprende anche l’edizione del 1703 in lingua francese delle stesse (ridotte e unificate) a cura di Pierre Coste, il quale ne sintetizzò i contenuti in un unico testo rivolto ai lettori protestanti di lingua francese, che venne pubblicato come seconda parte all’edizione francese della Ragionevolezza. 7 L’opera maggiore di Edwards, A Body of Christian Divinity, si componeva di tre parti: un trattato sulla dottrina della grazia e della predestinazione (Veritas redux, London 1707); uno sul calvinismo (The Doctrin of Faith and Justification set in a True Light, London 1708 ); e uno sulla teologia riformata (Theologia Reformata: Or, the Body and Substance of the Christian Religion, London 1713). Su John Edwards si vedano: V. Nuovo, Introduction, VIN, pp. xxxiii-xxxix; W. M. Spellman, John Locke and the Problem of Depravity, cit., pp. 138 – 153; V. Nuovo, Introduction, WR, pp. li – lii; D. D. Wallace jr., Socinianism, Justification by Faith and the Sources of John Locke’s The Reasonableness of Christianity, in «Journal of the History of Ideas», 45 (1984), pp. 49-66; riedito CA, II, pp. 168 ss. 8 Accanto a quella dei latitudinari, particolarmente rilevante è stata l'influenza esercitata nel XVII secolo dai sociniani, una setta cristiana sorta nel XVI secolo per opera di Lelio e Fausto Socino, oriundi senesi, che fu appunto denominata dei sociniani, o anche Chiesa "unitaria", il cui sistema teologico si manifestò nell'Europa riformata attraverso l'antitrinitarismo, un ritorno alla purezza evangelica e una nuova dottrina della salvezza. I due cardini della dottrina sociniana erano la piena umanità di Cristo e il rifiuto del dogma dell’espiazione vicaria (Cristo redentore inteso come modello di perfetta virtù e non come vittima di un sacrificio in grado di ristabilire una giustizia violata). Conseguentemente la dottrina teologica era ridotta a pochi articoli, mentre per la salvezza risultava necessario un comportamento fedele al Vangelo e ai precetti di Cristo, da cui la condanna di ogni forma di costrizione in materia di fede e la necessità “etica” di tolleranza religiosa. Poiché la giustificazione operata da Cristo non era assoluta, era dovere di ogni uomo, avendo il Signore per modello, di tendere alla salvezza personale facendo propri i principi del Vangelo e abbracciando una sola regola di fede, la messianicità di Gesù. Con il termine “socinianesimo” si volevano così indicare tipi diversi di credi religiosi non ortodossi. Sociniani erano tutti coloro che si allontanavano radicalmente dallo schema cristiano ortodosso di redenzione, trovavano difficoltà con le nozioni metafisiche custodite dalla formula cattolica, o accentuavano il ruolo della ragione in ambito religioso. I sociniani subirono confische, espulsioni dalle città e le loro opere vennero bruciate. Nella sua essenza il socinianesimo si può considerare come uno sviluppo dell'umanismo e della Riforma. La teologia di Fausto Socino, vissuto alla corte di Cosimo I de Medici, a metà strada tra Medioevo ed età moderna, risultava una combinazione di scritturalismo e razionalismo. Per Socino la Bibbia costituiva la sola regola di fede, ma al di sopra di essa si trovava il sano intelletto umano, il quale non aveva bisogno di nessuna particolare

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sociniana quanto alla prospettiva e alle finalità9 nello scritto Some Thoughts concerning the

Several Causes and Occasions of Atheism, especially in the Present Age 10, decisamente ostile allo

spirito della Low Church.

Seguendo una linea che collegava Jeremy Taylor, Herbert Croft, Locke e altri al socinianesimo,

Edwards giungeva all’accusa di ateismo, l’argomento vero e proprio del suo testo, impugnando il

solo articolo necessario alla salvezza. Difendere un solo articolo di fede, agli occhi di Edwards,

equivaleva a negare il dogma trinitario e da qui all’ateismo il passo sarebbe stato consequenziale11.

assistenza divina. La Bibbia era ispirata, tuttavia era la ragione a dover guidare colui che intendeva afferrare le verità della rivelazione: retta ragione e verità divina dovevano pertanto concordare. Socino riteneva che la religione dovesse basarsi sulla libera scelta e su una convinzione genuina. In tal senso il ruolo della ragione come metodo per accertare la verità religiosa risultò decisivo nell’anticipare lo sviluppo della successiva teologia protestante. I sociniani attaccavano in modo particolare il dogma della Trinità, professando l'unipersonalità di Dio (il cui corollario era l'umanità di Cristo). I due dogmi cattolici dai quali Socino dissentiva con maggior vigore erano la divinità e il sacrificio di espiazione di Cristo. A volte i sociniani non negavano in maniera diretta l'incarnazione e la Trinità ma non le consideravano essenziali per la salvezza. Cristo sarebbe stato mortale e Dio gli avrebbe concesso una "divinità" di funzione distinta da una divina natura. È in questa esaltazione della ragione umana, e del suo ruolo nell'interpretazione delle Scritture, che diversi studiosi hanno ritrovato in Locke una diretta influenza del socinianesimo. Locke frequentava inoltre la casa del sociniano Thomas Firmin (cfr. RO, pp. 84-95). La recente storiografia ha tentato di chiarire alcuni equivoci relativi al razionalismo esegetico dei sociniani, individuandone un importante limite nell'adesione al criterio protestante del letteralismo e nella convinzione della sostanziale chiarezza della Scrittura, per la cui comprensione la ragione avrebbe offerto un contributo importante ma non esclusivo. Per una conoscenza del socinianesimo si veda lo studio di Sarah Mortimer: Reason and Religion in the English Revolution: The Challenge of Socianianism, Cambridge University Press, Cambridge 2010. Mortimer sottolinea che, a parte lo studio del 1951 di McLachlan (Socinianism in Seventeenth-Century England, cit.), non si è prestata attenzione al ruolo svolto dal socinianesimo sul pensiero inglese del Seicento e offre una ricognizione ampia e approfondita della teologia sociniana, come pure dei suoi rapporti con l’arminianesimo e i rimostranti. Nello studio, il contributo maggiore del socinianesimo viene collocato nel dibattito sulla Trinità tra il 1640 e il 1650. Sul socinianesimo e le sue origini si vedano anche: J. Bury, Storia della libertà di pensiero, Feltrinelli Milano 1962, pp. 82 ss.; F. Ruffini, La libertà religiosa, cit., pp. 41 – 56; F. Le Moal, Les dimensions du Socinianisme, in «Revue d’historie moderne et contemporaine», 4 (1968), pp. 557 – 96; F. De Michelis Pintacuda, Socinianesimo e tolleranza nell’età del razionalismo, La Nuova Italia, Firenze 1975; G. Pioli, Fausto Socino. Vita, opere, fortuna: contributo alla storia del liberalismo religioso moderno, Guanda, Modena 1952; H. Kamen, Nascita della tolleranza, il Saggiatore, Milano 1967, pp. 123-128; M.Firpo, Recenti studi sul Socinianesimo nel Sei e Settecento, in «Rivista Storica Italiana», LXXXIX (1977), n. 1, pp. 106-152; Id., Locke e il socinianesimo, cit., pp. 35-122 (in part. pp. 111- 124). 9 I sociniani, non riconoscendo la validità delle formule trinitarie dei credi, respingevano in particolare di quello di Atanasio (tre persone ed un’unica sostanza). Locke, che nella Ragionevolezza aveva sollevato dubbi su alcune dottrine trinitarie di questo Credo, era per ciò sospettato di socinianesimo da Edwards. Sul dibattito circa il presunto socinianesimo di Locke, anche alla luce degli studi lockiani più recenti, vedi infra. Cfr. anche J. Tetlow, John Locke’s Covenant Theology, cit., p. 197. 10 Cfr. J. Edwards, Some Thoughts concerning the Several Causes and Occasions of Atheism, especially in the Present Age. With some Brief Reflections on Socinianism: And on a Late Book entituled «The Reasonableness of Christianity as Deliver’d in The Scriptures», Printed for J. Robinson, London 1695, pp. 104-122, in V. Nuovo (ed.), John Locke and Christianity, cit., pp. 180-186. 11 Sulla polemica tra Locke ed Edwards: H. R. Fox Bourne, The Life of John Locke, cit., II, pp. 290 – 293; 407-415; M. Sina, L’avvento della ragione, cit., pp. 397 – 407; M. Cranston, John Locke: A Biography, cit., pp. 390-392; R. Crippa, Studi sulla coscienza etica e religiosa del Seicento. Esperienza e libertà in John Locke, La Scuola, Brescia 1960, pp. 154 ss.; R. H. Cox, Locke on War and Peace, cit., pp. 22 – 23. Sulle accuse mosse da Edwards si veda: V. Nuovo, Introduction, VIN, cit., pp. xxxix- xlvi. Si noti che il dogma della Trinità, nel Saggio sulla tolleranza del 1667, veniva posto da Locke insieme alla fede nel Purgatorio tra le opinioni speculative che meritavano la tolleranza religiosa. Per Locke infatti i tentativi di definire e provare incomprensibili dottrine conosciute solo per rivelazione avrebbero ottenuto solo una moltiplicazione del numero di atei. Cfr. ST, pp. 91-92.

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Secondo Victor Nuovo la controversia potrebbe essere stata considerata come una opportunità da

Locke, il quale potrebbe aver visto nel calvinista Edwards l’avversario migliore al quale spiegare lo

spirito autentico della Ragionevolezza, come era accaduto con Filmer per i Due Trattati 12. D’altra

parte Locke già nella disputa con Jonas Proast, a proposito della tolleranza, aveva dato prova di

saper seguire i propri avversari sul loro terreno e di poter rispondere con destrezza agli argomenti

di volta in volta sollevati. In questo caso

L’attacco di John Edwards era tanto violento quanto rozzo, tutto raccolto in un sillogismo a dir poco semplicistico, che deduceva l’ateismo dell’autore (quod erat demonstrandum) dalla premessa generale che il socinianesimo non fosse altro che un ateismo mascherato e dalla constatazione di quello che all’Edwards appariva l’evidente carattere sociniano della Reasonableness13.

L’anno successivo Edwards replicò alla difesa di Locke con un altro pamphlet dal titolo

Socinianism Unmask’d, dedicato quasi per intero alla Ragionevolezza, nel quale, dopo aver

accusato di ateismo il suo autore, chiedeva a questi di rivelare la sua identità e forniva una propria

versione del cristianesimo unita ad una breve difesa della dottrina della Trinità14. Le accuse

provenivano a Locke principalmente dalle sue omissioni, ma il filosofo non rispose alla richiesta di

pubblicare tesi trinitarie né acconsentì a quella di spiegare l’espiazione operata da Cristo. Secondo

Massimo Firpo la Ragionevolezza si prestava, effettivamente, alle accuse di socinianesimo su alcuni

punti:

il rifiuto di ogni dottrina che contraddicesse i principi e le chiare acquisizioni della ragione, l’estrema riduzione dei fundamentalia fidei con conseguente ampio spazio concesso alle opzioni personali, purché non autoritarie e intolleranti, la ferma ostilità contro le manipolazioni dei sacerdoti e l’inutile fanatismo dei “creed-makers”, la polemica contro lo zelo ortodosso e la rabies theologica, il silenzio studiatamente mantenuto sui dogmi della trinità, dell’incarnazione, della redenzione, l’accentuazione del significato etico più che dogmatico della religione, la rivalutazione dei contenuti concreti dell’agire cristiano e delle scelte morali rispetto alle astratte speculazioni dei teologi, la rivendicazione di una fede semplice e chiara, accessibile anche al più umile e indotto degli uomini, tutta racchiusa nell’unico articolo “Jesus is

the Messiah” 15.

Tuttavia l’amarezza di Locke nel leggere tali accuse – parte delle quali era stata anticipata in un

sermone da Edwards16 - era accresciuta dalla delusione di non aver trovato nello scritto del suo

avversario obiezioni di una qualche consistenza, tali da convincerlo di eventuali suoi errori, ma

12 V. Nuovo, Introduction, VIN, cit., pp. xlvi-xlvii. 13 M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., p. 62. 14 Cfr. J. Edwards, Socinianism Unmask’d. A Discourse Shewing the Unreasonableness of a Late Writer’s Opinion Concerning the Necessity of only One Article of Christian Faith, with a Brief Reply to another (professed) Socinian Writer, London 1696; pp. [iii-v], 2-17, 21-23, 53-60, 64-67, 102-112, 115-116, 120-122, 128-142; in V. Nuovo (ed.), John Locke and Christianity, cit., pp. 209 – 235. 15 M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., p. 58 . 16 Cfr. VRC pp. 211-212; p. 439.

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solo una generica volontà di porre in cattiva luce il suo trattato «senza per nulla tentare di

confutare qualche dottrina sostenuta in esso»17. È pur vero, tuttavia, che i rimostranti avevano

trovato «nella Reasonableness un nuovo valido sostegno alla fede unitaria, come nell’Epistola de

Tolerantia avevano trovato argomenti in favore della libertà religiosa che essi reclamavano contro

le persecuzioni e le minacce cui erano continuamente fatti segno»18.

Nel 1652, inoltre, era apparsa un’edizione inglese del Catechismo di Racovia19, del quale Locke

possedeva una copia del prototipo di Socino, che diede a Pierre Coste, la cui prefazione venne

probabilmente scritta da John Biddle. L’anno precedente era apparsa a Londra un’edizione latina

del Catechismo, subito condannata dal Parlamento: «Gli anni successivi non avrebbero conosciuto

che un costante incremento della pubblicistica antisociniana, a volte addirittura strumentalizzata

nel quadro di più antiche e ormai pietrificate controversie confessionali»20.

Al 1686 risaliva la pubblicazione di A Rational Catechism21 che, a partire dalla dimostrazione

dell’esistenza di Dio, sviluppava i temi dei doveri morali dell’uomo e della vita futura; mentre nel

1690 era apparsa una Vindication of the Doctrine of the Holy and Blessed Trinity di William

Sherlock, che alimentava una polemica già rovente con l’accusa al socinianesimo di ridicolizzare le

Scritture e la religione cristiana22.

La principale prova avanzata da Edwards, a sostegno delle sue accuse a Locke, era costituita dal

credo minimalista che si ricavava dalla Ragionevolezza - quello fondato su un solo articolo di fede

– sulla base del quale si poteva ritenere che non fosse richiesto altro per dirsi cristiani23.

Edwards ravvisava quindi un’ulteriore prova del socinianesimo di Locke nell’omissione di quei

passaggi del Vangelo e degli Atti degli Apostoli che presentavano un significato trinitario, come

pure nell’interpretazione antitrinitaria di quei passi evangelici riferiti alla Trinità e

17 VRC p. 224 ; p. 457. 18 M. Montuori, Introduzione,Tre lettere di Locke a Limborch sull’unità di Dio, in Sulla tolleranza e l’unità di Dio, cit., p. 362. 19 Il Catechismo racoviano (1605) era una revisione e un ampliamento di un’opera cominciata da Socino ma rimasta incompiuta alla sua morte, una sintesi degli articoli di fede operata dai fratelli polacchi della chiesa riformata minore, principalmente congregazionalisti unitariani, i quali avevano stabilito un centro di studio presso la città polacca di Racow. Il Catechismo racoviano fu pubblicato in latino nel 1609, con una dedica a Giacomo I. I fratelli polacchi, costretti all’esilio con la Restaurazione nel 1660, si trasferirono quindi in Olanda dove ottennero ospitalità presso i rimostranti. Cfr. T. Rees, The Racovian Catechism, with Notes and Illustrations, translated from the Latin: To which is prefixed a Sketch of the History of Unitarianism in Poland and The Adjacent Countries, pp. xcv-xcvi; 1, 13-19, 51, 52-62, 65-69, 297-309; in V. Nuovo (ed.), John Locke and Christianity, cit., pp. 25-46. 20 M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., p. 45. 21 A Rational Catechism: or, An instructive Conference between a Father and a Son, Andrew Sowle, London 1687. 22 Cfr. M. Firpo, John Locke e il socinianesimo , cit., p. 47. 23 Locke nella Second Vindication ripete l’accusa a «my narrowing of Christianity to one Article; which as he [Edwards] says, is the next way to reduce it to none». SV, p. 170. Cfr. V. Nuovo, Introduction, WR, p. li.

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nell’intenzionale dimenticanza di riferimenti all’Incarnazione del Verbo24. Inoltre Locke veniva

accusato di aver tralasciato le Epistole del Nuovo Testamento – data la scelta di considerare

esclusivamente la predicazione di Gesù e degli Apostoli ai non convertiti – e, conseguentemente,

di aver taciuto sul peccato originale e sul tema della redenzione, ovvero sull’espiazione operata da

Cristo e sulla salvezza che la sua morte aveva procurato quando erano stati enumerati i vantaggi

della sua venuta25.

Si noti che la critica di Edwards non doveva essere del tutto infondata, se è vero che anche un

lettore della Ragionevolezza, «educato nella dottrina della Chiesa di Inghilterra», si convinse a

scrivere - tramite l’editore Churchill - un’anonima lettera a Locke esprimendo la preoccupazione

di non aver trovato riferimenti alla Trinità, alle due nature di Cristo e alla sua preesistenza, come

pure alla dottrina dell’elezione26.

La prima risposta di Locke ad Edwards fu comunque immediata, a dimostrazione che egli trovava

certamente grave l’accusa contro la propria opera e le dottrine in essa esposte, ma prima di tutto

infondata27. Tale Vindication, tuttavia, lungi dal risolvere la disputa finì per alimentarla, come

dimostra il fatto che ne seguì un’altra.

La difesa di Locke si articola secondo due direttrici: egli intende respingere in primo luogo

l’accusa di ateismo – «a crime which, for its madness as well as guilt, ought to shut a man out of all

sober and civil society»28 - sostenendo di non aver mai negato o messo in dubbio l’esistenza di

24 Nota a tal proposito Nuovo che «It was no easy task to clarify how three hypostases or persons, separate and distinct, might subsist in one substantial being, or how two natures, one human and created, the other eternally divine, might exist unconfused in one individual person, or how eternal procession differed from temporal creation, and how these matters might be explained in ordinary discourse without debasing the mystery that they were supposed to express». V. Nuovo, Introduction, VIN, pp. xx-xxi. 25 A questa precisa obiezione Locke risponderà con chiarezza nella sua Second Vindication: «I perused the Preachings of our Saviour and his Apostles to the Unconverted World, to see what thay taught and required to be believed to make Men Christians: And these all I set down, and leave the World to be judge what they contain’d. The Epistles which were all written to those who had imbraced the Faith, and were all Christians already, I thought would not so distinctly shew, what were those Doctrines, which were absolutely necessary to make Men Christians; they being not writ to convert Unbeliever, but to build up those, who were already Believers, in their most holy Faith». E citando la Lettera agli Ebrei (5, 11) spiega che «Here the Apostle shews what was his Design in writing this Epistle: Not to teach them the Foundamental Doctrines of the Christian Religion, but to lead them on to more Perfection; […]». E «therefore the Epistles seem’d not to me the properest parts of Scriptures, to give us that Foundation distinct from all the Superstructures built on it; Because in the Epistles, the latter was the thing propos’d, rather than the former. For the main intention of the Apostles in writing their Epistles, could not to be to do what was done already; to lay down barely the Foundations of Christianity to those who were Christians already; but to build upon it some farther Explication of it, which either their particular Circumstances, or a general evidencing of the truth, wisdom, excellencies, and privileges &co. of the Gospel required». SV, pp. 92-93. 26 Cfr. la lettera del 2 settembre 1695: Corr., n. 1939, V, pp. 431-432 . 27 Per una presentazione generale della primaVindication lockiana si veda: V. Nuovo, Introduction, VIN, pp. xlvi-xlix; M. Sina, Nota introduttiva, Difesa della «Ragionevolezza del cristianesimo» dalle riflessioni di Mr. Edwards, SER, pp. 433-435. 28 VRC, p. 211; p. 437.

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Dio29; e dichiarare, in secondo luogo, infondata l’accusa di socinianesimo, ribadendo l’intenzione

ispiratrice della sua opera, quella di destare la fede nei non credenti.

Locke apre la sua prima Vindication mettendo in guardia il lettore sulla personalità del suo

avversario e sulla propensione «ad ingigantire ogni dottrina che non sia di suo gradimento, fino ad

accusarla del massimo crimine dell’ateismo»30, come pure sulla tendenza a rivolgere tale accusa

contro chiunque non la pensasse come lui. Locke informa quindi il lettore di essere stato associato

da Edwards anche a due prelati della Chiesa d’Inghilterra, uomini di eminente pietà e dottrina,

senza tuttavia esplicitarne i nomi31.

Una volta chiarito questo punto, Locke passa al merito delle accuse. Edwards - partendo dal

presupposto che un sociniano fosse un ateo, o qualcuno che favoriva la causa dell’ateismo - aveva

accusato l’autore della Ragionevolezza di essere «completamente imbevuto delle dottrine

sociniane» (all over Socinianized)32 e, pertanto, di aver voluto eliminare il mistero dal

cristianesimo33. Tale accusa era giustificata dalla mancata menzione, da parte di Locke, della

redenzione del genere umano (his satisfying for us) operata da Cristo, la quale consisteva nell’aver

riacquistato «la vita e la salvezza a prezzo della sua morte»34 .

Locke risponde ricordando di aver chiaramente affermato nella Ragionevolezza che «da questo

stato di morte Gesù restituisce tutta l’umanità alla vita»35 e di aver parlato della «vita che Gesù

Cristo ridona a tutti gli uomini»36. Tuttavia è Locke stesso a riconoscere che queste espressioni

«sounds something like», ovvero sono simili, all’affermazione secondo cui «Cristo ci ha acquistato

la vita a prezzo della sua morte»37.

Il filosofo accusa a propria volta Edwards di aver voluto impedire, attraverso il suo attacco, che la

Ragionevolezza fosse letta ed esaminata, così che ciascuno avesse potuto trarne conclusioni

proprie, lasciando intendere, attraverso una serie di domande retoriche, che la sua prudenza 29 Si può comprendere la reazione di Locke a tal proposito: si trattava per l’epoca non solamente di una delle più gravi accuse che potessero muoversi al fine di screditare un autore, ma di un «crimine» [being a Crime] dalle serie conseguenze sociali e politiche, come nota lo stesso Locke all’inizio della sua replica e come si può evincere dalla stessa esclusione dalla tolleranza degli atei che Locke sostenne nella Lettera sulla tolleranza (cfr. Scritti sulla tolleranza, cit., p. 172). Il Licensing Act prima e nel 1697 il Blasphemy Act erano volti a difendere la Trinità e a punire gli attacchi contro di essa. 30 VRC, p. 211; p. 437. 31 Si trattava, come è stato ricordato in precedenza, del teologo Jeremy Taylor e di Herbert Croft. 32 J. Edwards, Some Thoughts concerning the Several Causes and Occasions of Atheism, cit., p. 113; VRC, p. 211; p. 438. 33 Secondo Nuovo dagli scritti di Edwards emerge il desiderio di una chiesa nazionale ortodossa nella fede e nella pratica, una chiesa davvero Riformata, laddove l’ortodossia era giudicata secondo lo standard calvinista. In Some Thoughts concerning the Several Causes and Occasions of Atheism Edwards associava pertanto Locke al progetto latitudinario di Jeremy Taylor, Herbert Croft ed Arthur Bury. V. Nuovo, Introduction, VIN, p. xxxviii. 34 J. Edwards, Some Thoughts concerning the Several Causes and Occasions of Atheism, cit., p. 112; VRC, p. 212; p. 439. 35 RC, p. 95; p. 9. 36 RC, p. 95, p. 10. 37 VRC , p. 212; p. 440.

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[Prudence] era stata dettata dalla considerazione dei lettori ai quali la Ragionevolezza intendeva

rivolgersi, ovvero i lontani dalla fede o i dubbiosi circa la verità del cristianesimo. La tesi centrale

della difesa lockiana riposava nel dichiarato rifiuto di influenze di qualsiasi tipo e nella

affermazione di una indipendenza da commentatori e sistemi di interpretazione biblica, a favore di

una interpretazione delle Scritture senza preconcetti dottrinali. Locke ostentava il proprio status di

semplice cristiano, e non di membro di una setta.

Nel citare l’invito di San Paolo a ricevere il debole nella fede senza discutere con lui (Rm 14,1),

Locke fa capire di aver voluto proporre la fede cristiana ai lontani unicamente attraverso ciò che il

Salvatore e i suoi Apostoli avevano predicato ai pagani, evitando di aggiungere altro.

Addurre tali dottrine controverse [such Points of Controversie] come articoli necessari di fede, quando vediamo che il nostro Salvatore e gli apostoli nella loro predicazione non le proposero come dottrine necessarie a credersi per diventare cristiani [not as necessary to be believed, to make Men Christains], significa (sulla base della nostra propria autorità) aggiungere pregiudizi a pregiudizi, e ostacolare il nostro cammino verso quegli uomini che ci avrebbero accolto e che avremmo convinto 38.

È a questo punto che Locke dichiara, in maniera esplicita, la sua intenzione di voler «liberare il

cristianesimo dai pregiudizi umani», di aver inteso «convincere gli uomini soltanto della missione

di Gesù Cristo, di far loro soltanto vedere la verità, la semplicità, la ragionevolezza di ciò che

Cristo stesso insegnò e richiese che fosse creduto dai suoi discepoli»39. Nell’ambito di tale progetto

era conseguente una scelta di contenuti e dottrine adatti alle finalità e al pubblico al quale ci si

rivolgeva.

Secondo Massimo Firpo, all’accusa di Edwards Locke rispose «assai debolmente», dimostrando

che «preferiva quindi evitare la polemica, […] limitandosi a reagire con durezza contro il metodo

del suo avversario»40. È interessante notare come Locke sposti qui il fuoco dell’accusa, convalidata

da alcune omissioni presenti nel suo testo, e giustifichi queste ultime sulla base del progetto che

aveva perseguito con la pubblicazione della Ragionevolezza.

Per Edwards il solo modo “corretto” per presentare Cristo e la sua dottrina doveva essere quello

di dichiarare esplicitamente i punti della fede cristiana che egli riteneva irrinunciabili e chi non lo

avesse fatto avrebbe così dichiarato la sua lontananza dall’ortodossia. Locke intende mostrare che

tali omissioni erano invece al servizio di un cammino di riavvicinamento dei non cristiani,

finalizzato a consentire una loro graduale persuasione circa la verità fondamentale del

cristianesimo, e ad evitare che questa fosse messa a repentaglio da contenuti di fede troppo

38 VRC, p. 213; p. 441. 39 Ibid. 40 M. Firpo, John Locke e il socinianesimo , cit., p. 63.

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complessi. Le numerose differenze presenti nella chiesa cristiana – particolarmente evidenti nel

pluralismo di sette e di dottrine in Inghilterra - erano sorte infatti intorno ad articoli di fede che si

ritenevano essenziali, e ciò con grave scandalo per la fede stessa. Locke ne era consapevole, e il suo

contributo poteva essere considerato un tentativo - molto simile a quello del clero latitudinario,

come egli lascia intendere dichiarandosi vicino ad alcuni ecclesiastici della Chiesa di Inghilterra e

di Irlanda come John Tillotson41 e Simon Patrick - di individuare un nucleo “minimo” di verità

fondamentali di carattere dottrinale, sulle quali poter convergere anche da differenti posizioni.

Il filosofo tiene a chiarire di non aver aggiunto o modificato alcunché nella predicazione del

Salvatore, ma di aver utilizzato gli argomenti presenti nel Vangelo. Attraverso la sua risposta,

secondo Nuovo, Locke voleva chiarire di non aver trascurato alcunché di ciò che riguardava la

predicazione di Gesù e degli Apostoli, attraverso la quale erano stati dichiarati i requisiti per

diventare cristiani42. Già nella Lettera sulla tolleranza, del resto, egli aveva mostrato profonda

insofferenza verso coloro che aggiungevano articoli di fede all’insegnamento cristiano essenziale o

che imponevano ad altri di considerare come precetti divini delle personali interpretazioni:

Chiunque richieda per la comunità ecclesiale cose che il Cristo non ha richiesto per la vita eterna, costui può anche dar vita ad una società che risponda alle sue idee e sia a suo vantaggio, ma come si possa chiamare Chiesa di Cristo una chiesa se non è fondata sulle sue leggi e che esclude dalla sua comunità persone tali che Egli accoglierà un giorno nel Regno dei cieli, francamente non capisco43.

Una volta definito questo aspetto, Locke affronta la seconda grande accusa di Edwards, quella di

aver «dimenticato, o piuttosto intenzionalmente omesso»44 i passi degli evangelisti in cui viene

menzionata la Trinità e l’Incarnazione del Verbo (Mt 28,19; Gv 1,1; Gv 1,14). Locke risponde

distinguendo quel che Edwards aveva stabilito come necessario per potersi definire cristiani, dalla

dottrina originaria di Cristo e degli apostoli:

Qualunque dottrina Mr. Edwards richieda debba essere creduta, se essa rientra tra quelle che il nostro Salvatore e i suoi apostoli hanno richiesto che fosse creduta per potersi dire cristiani, egli può esser certo di trovarla tra quegli insegnamenti e quelle “famose testimonianze” del nostro Salvatore e dei suoi apostoli che io ho citato . Nel caso in cui egli non la trovi riportata, può stare ben certo che non si tratta di una verità proposta obbligatoriamente alla nostra fede, per poterci dire cristiani, dal nostro Salvatore e dai suoi apostoli45.

41 Nei suoi Sermoni, Tillotson rifiutò i termini platonici che avevano alterato l'esegesi delle Scritture, mentre lodava il bel modo di disputare dei sociniani. Egli svolse anche una indagine sulla storia del Vangelo di Giovanni e dichiarò che qui vi era prova sufficiente che il mistero della Trinità era stato trasmesso nelle Scritture, difendendo tanto la remissione dei peccati operata da Cristo quanto la tesi secondo la quale questi era una persona della Trinità, sebbene fosse accusato dai trinitari di essere sociniano. Cfr. J. Marshall, Locke, Socinianism, “Socinianism” and Unitarianism, cit., p. 139. 42 V. Nuovo, Introduction, VIN, p. xlix. 43 LT, p. 140. 44 VRC p. 214; p. 442. 45 VRC p. 215; p. 444.

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Locke nota che Edwards non gli rimproverava invece di aver omesso passi evangelici (Mt 1,18-23 o

Mt 27, 24.35.50.60), che pure, in quanto articoli del Credo apostolico, costituivano «dottrine

fondamentali», e spiega ciò con il fatto che «se mi avesse rimproverato per l’omissione dei passi del

Vangelo di Matteo che da ultimo abbiamo ricordato […] sarebbe chiaramente apparso quanto vana

e infondata fosse la sua accusa di socinianesimo lanciata nei miei confronti»46. Locke intende far

notare che anche nel Credo apostolico non erano menzionati i passi che Edwards citava e le

dottrine del Vangelo di Giovanni (dal capitolo primo al quattordicesimo), e, applicando il criterio

del suo accusatore, anche tale formulazione sarebbe stata giudicata sociniana. E al teologo puritano

che pretendeva di conoscere i pensieri degli altri uomini meglio di quanto li conoscessero essi

stessi Locke risponde:

Il socinianesimo non è allora l’errore del mio libro, per quanti errori esso possa contenere; perché, lo ripeto ancora, non c’è in esso una sola parola ispirata a tale dottrina;[…]47.

Un rimprovero ulteriore a Locke è quello di non aver considerato ed esaminato le Epistole come

invece aveva fatto con i Vangeli e gli Atti degli Apostoli e di aver «omesso intenzionalmente gli

scritti epistolari degli apostoli, perché essi sono pieni di altre dottrine fondamentali»48. Edwards

riteneva infatti che il filosofo disprezzasse tali scritti ispirati49 ed elencò quelle che considerava le

«dottrine fondamentali» presenti nelle Epistole, tra le quali comparivano: la corruzione della

natura umana; la redenzione e la riconciliazione ottenuta per il sangue di Cristo; l’eminenza del

suo sacerdozio; la sua morte come sacrificio totalmente sufficiente contro il peccato50.

Locke risponde avanzando notevoli riserve circa le dottrine ritenute fondamentali da Edwards,

ricorda di aver voluto prendere in esame nel suo scritto solo quelle che debbono essere realmente

credute perché si possa essere cristiani e accusa a propria volta il teologo di aver steso in maniera

arbitraria un elenco di articoli di fede ritenuti imprescindibili.

Non esclude Locke che nella Scrittura vi siano altre verità, oltre alle due da lui presentate

(esistenza di Dio e messianicità di Gesù) ma suggerisce che, poiché non vi è accordo tra i teologi

circa la loro interpretazione, esse non sono obbligatorie e si possono ignorare senza colpa o

46 VRC p. 215; pp. 443-44. 47 VRC p. 215; p. 444. 48 VRC p. 216; p. 445. 49 Cfr. VRC pp. 217-18; p. 447 . 50 Cfr. VRC p. 216; p. 445.

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peccato51. L’intenzione di presentare il cristianesimo nella sua essenzialità è presente nell’invito

lockiano rivolto ad Edwards di formulare tali articoli «in forma di dottrine piane ed elementari»52,

così da consentirne la comprensione. La contro-accusa ad Edwards è allora di aver rivisitato il

Credo apostolico della chiesa, estendendolo in maniera arbitraria.

Quanto al presunto disprezzo per le Epistole, Locke ricorda i passi della Ragionevolezza nei quali

egli aveva affermato chiaramente di ritenere ispirati gli autori delle Scritture e degne di fede anche

le altre parti della divina rivelazione, insieme a quelle che aveva preso in esame53.

Edwards, in particolare, riteneva che Locke avesse tralasciato le Epistole perché «sapeva che in

esse vi sono così tante e frequenti, e così celebri ed eminenti, attestazioni della dottrina della

santissima Trinità»54, giudicando antitrinitaria la lettura lockiana del passo del Vangelo di Giovanni

14, 8-9 55. Secondo il teologo infatti la considerazione di «Cristo e Adamo come figli di Dio nello

stesso senso e secondo la loro nascita», che riscontrava in Locke, era racoviana, riconducibile

quindi all’unitarianismo.

Sul tema dell’antitrinitarismo il filosofo whig replicò:

Il senso che io attribuisco a questi passi non l’ho tratto da questi scrittori, ma dalla Scrittura stessa, che, nel confronto dei suoi passi, chiarifica il proprio senso. Non abbandonerò il senso che in questo modo mi si manifesta come il suo senso autentico [its true meaning], perché mi si dice che esso è il senso inteso dai racoviani, i cui scritti io non ho mai letto; né abbraccerò il senso opposto anche se “la maggior parte dei teologi” che più ho letto si dichiarasse in suo favore 56.

Anche nella Second Vindication Locke ribadirà l’affermazione di ignoranza degli scritti

racoviani57, che tuttavia il catalogo dei suoi libri smentisce. Locke possedeva diversi testi di autori

sociniani e unitariani, e i suoi diari contengono estratti dai loro scritti58. Ha osservato Massimo

Firpo a proposito di questa strategia lockiana:

51 Cfr. C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, cit., p. 272. 52 VRC pp. 216-217; p. 446. 53 Cfr. VRC p. 217; p. 447. 54 VRC p. 218; p. 448. 55 Secondo i sociniani, la Trinità sarebbe stata estranea al Vangelo poiché soltanto il Padre è Dio. La figura di Cristo sarebbe stata quella di un uomo, sebbene superiore agli altri perché nato da una vergine, dotato di perfetta santità e del potere di reggere il mondo. Lo Spirito Santo viene considerato come una virtù e un'operazione divina, mentre il peccato originale avrebbe recato danno soltanto a chi lo aveva commesso, benché la morte, che ne era conseguenza, fosse ricaduta anche sui posteri. 56 VRC p. 219; p. 449. 57 Cfr. SV, p. 181. 58 Cfr. H. McLachlan, Socinianism in Seventeenth-Century England,,,, cit., p. 327. Locke possedeva l’Institutio Christianae religionis di Calvino. Questo significa che Locke si discostava dal filone religioso del tempo. Il possesso di almeno otto opere di Socino (e anche di una Life of Socinus), a partire dal 1690, come pure di opere di sociniani, non dice nulla circa una sua personale adesione, vista la loro diffusione al tempo. Numerosi poi i testi unitariani, le opere dei quaccheri e le numerose opere dei rimostranti, specialmente degli amici Jean LeClerc e Philip van Limborch: considerate insieme stanno ad indicare le simpatie di Locke per una definizione più ampia dei precetti fondamentali del cristianesimo rispetto a quella difesa dalla Chiesa anglicana, e anche da alcuni suoi dissenzienti. Quanto ai sermoni, Locke preferiva

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Occorre peraltro riconoscere che la linea difensiva assunta da Locke presentava un vantaggio di impareggiabile valore nelle discussioni in cui finì col trovarsi coinvolto: infatti, anche a prescindere dalla dipendenza più o meno diretta di certe sue tesi dal pensiero dei grandi teologi sociniani, la secca asserzione di non conoscerne i testi consentiva a Locke di sentirsi esentato dallo spiegare quali fossero le differenze o le sfumature teologiche che lo separavano dai racoviani e dagli unitari. Negando di averne letto le opere, Locke poteva respingere ogni accusa di eresia sociniana e, al tempo stesso, evitare di darne una definizione e un giudizio, di dissociarsene in qualche modo59.

Locke rivendica inoltre l’uso dell’espressione Son of God, utilizzata dagli ebrei del tempo di Gesù

per indicare il Messia, e a conferma di ciò ricorda che anche un eminente membro della Chiesa

d’Inghilterra come l’arcivescovo di Canterbury, John Tillotson, aveva inteso questa espressione allo

stesso modo senza essere un sociniano60.

Il filosofo ricorda ancora di aver citato nel suo scritto passi scritturistici, cosa che lo stesso

Edwards gli riconosceva rimproverandolo di aver seguito per più di tre quarti «la narrazione dei

Vangeli e degli Atti»61. Questi veniva quindi esortato ad affrontare in modo «a little more seriously,

and with a little more Candor»62 un tema come quello della salvezza delle anime.

All’accusa principale di aver combattuto a favore di un solo articolo di fede, Locke replica che

era stata un’attenta indagine sulla predicazione del Salvatore e degli Apostoli a fargli ricavare

quella breve sintesi, chiara, facile ed intelligibile, comprensibile anche agli illetterati, secondo la

quale per essere cristiani occorre

credere che Gesù è il Salvatore promesso e accoglierlo, ora che è risorto dai morti e che è stato costituito Signore e giudice degli uomini, come proprio re e capo 63.

Locke afferma di essere stato frainteso e di non aver considerato tutte le dottrine del cristianesimo,

ma solo «quelle verità che si richiede in modo assoluto siano credute perché si possa essere

quelli di Robert South, John Tillotson e Benjamin Whichcote. Secondo Ashcraft, l’esame delle opere teologiche in possesso di Locke restituisce l’ampia visione della sua posizione religiosa non ortodossa: tuttavia Locke, secondo lo studioso, non era un deista né un unitariano. Cfr. R. Ashcraft, John Locke’s Library: Portrait of an Intellectual , CA, I, pp. 17 – 31; cfr. J. Harrison, P. Laslett, The Library of John Locke, cit. ; M. Cranston, John Locke: A Biography, cit., p. 392. 59 M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., p. 52. 60 Cfr. VRC p. 219 ; p. 449. John Tillotson, vicino alle posizioni dei latitudinari, divenne arcivescovo di Canterbury nel 1691. Anche nella Second Vindication Locke riaffermerà l’uso di questa espressione (Son of God nel significato di Cristo) da parte di Simon Patrick, vescovo di Ely nel suo The Witnesses to Christianity. Cfr. SV, pp. 181-82. Inoltre Locke si richiama a Giovanni (1,20; 1, 49 e 3, 26-36), Marco (3, 11-12) e alla risposta di Pietro (Mt 16,16), a sostegno dell’uso della medesima espressione fatto nei Vangeli. Cfr. SV, p. 185. La prova, secondo Locke, è che il Battista, Natanaele, Pietro, Marta, il Sinedrio e il Centurione utilizzano tutti l’espressione Son of God applicandola a Gesù, riferendosi al Messia. Cfr. SV, p. 188. 61 VRC p. 220; p. 451. 62 Ibid. 63 VRC, p. 221; p. 452.

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cristiani»64, al fine di mostrare che la bontà di Dio non richiedeva un assenso a termini difficoltosi

o a ciò che poteva oltrepassare le capacità di uomini semplici.

Ciò non esclude la fede in alcuna delle molte altre verità contenute negli scritti dell’Antico e del Nuovo Testamento, che è dovere di ogni cristiano studiare, e sulle quali noi dobbiamo crescere nella nostra santissima fede. […] Quanto io nego è che tutte le altre verità contenute negli scritti ispirati […] siano “articoli” come a Lei piace chiamarli “che debbono con uguale necessità” essere creduti per fare di un uomo un cristiano. Un uomo […] può essere un cristiano e un credente, senza una fede attuale in quelle verità […] 65.

Anche in questa occasione l’intento è di mostrare che tutto ciò che deve essere creduto, secondo la

religione cristiana, «is easie to be understood by all Men»66. E ad Edwards che parlava della plebe

con disprezzo, Locke ricorda che la predicazione del Salvatore era diretta ad una moltitudine non

istruita e che erano stati i farisei, ai tempi di Gesù, a trattare il popolo con disprezzo67.

Locke sottolinea poi che su alcuni articoli vi era un profondo dissenso, poiché le diverse chiese

tendevano a spiegarli in maniera differente. Papisti, riformati, rimostranti, contro-rimostranti,

trinitari e unitariani offrivano interpretazioni opposte di numerosi articoli, che impedivano una

comprensione chiara e certa. Tutto ciò non poteva accadere invece per la comprensione del

fondamentale articolo, presente nel Nuovo Testamento, della messianicità di Gesù.

La prima Vindication si conclude con la riaffermazione della centralità della fede in Gesù quale

Figlio di Dio e con la rivendicazione, da parte del suo autore, della propria ortodossia. In un post

scriptum l’appello era infine all’autorità del vescovo anglicano Simon Patrick (1626-1707) il quale

aveva dato alle stampe in quegli stessi mesi The Witnesses to Christianity68, testo nel quale era

esplicitamente affermato che l’unica fede salvifica, in grado di rigenerare un uomo, era quella in

Gesù Figlio di Dio, e tale espressione veniva dichiarata equivalente alla fede nel Cristo 69.

64 VRC, p. 222; p. 453. 65 VRC, p. 222; p. 454. 66 Ibid. 67 Cfr. VRC, pp. 222-223; p. 455. 68 S. Patrick, The Witnesses to Christianity, or the Certainty of our Faith and Hope. In a Discourse upon I St. John V, 7-8, London 1675. 69 Cfr. VRC, p. 225; p. 458.

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a. 1. a. 1. a. 1. a. 1. A Second Vindication of the R A Second Vindication of the R A Second Vindication of the R A Second Vindication of the Reasonableness of Christianityeasonableness of Christianityeasonableness of Christianityeasonableness of Christianity

Non soddisfatto dalle spiegazioni fornite da Locke, Edwards portò avanti il suo violento attacco

con altri scritti, profittando del fatto che la Ragionevolezza e la sua Vindication erano apparse

anonime. Nell’aprile 1696, in Socianism Unmask’d70, il teologo non si allontanò dalle precedenti

considerazioni sostenendo che la Ragionevolezza conduceva gli uomini all’errore e all’ateismo71;

tornò ancora sull’argomento con la pubblicazione di The Socinian Creed 72, la cui copia venne

ricevuta da Locke in breve tempo73.

L’attacco diventava sempre più personale. Mentre nel suo primo scritto contro Locke, Edwards

aveva associato questi al progetto latitudinario di Taylor, Croft e Bury, questa volta avanzava il

sospetto che il filosofo fosse parte attiva di una cospirazione sociniana volta a sovvertire

l’ortodossia cristiana, il cui obiettivo era costituito dalla distruzione del dogma trinitario. Tesi

avvalorata dalla pubblicazione nel 1695 dell’anonimo scritto: The Exceptions of Mr. Edwards in

his Causes of Atheism, against the Reasonableness of Christianity, as deliver’d in the Scriptures,

Examin’d (London, 1965) – verosimilmente dell’unitariano Stephen Nye - che offriva un’apologia

del socinianesimo e, in parte, anche della Ragionevolezza 74.

Locke avrà modo di precisare in una nota del 1698 che «non voleva esser considerato di alcun

partito tranne quello della verità, per il quale è richiesto nient’altro che la ricerca della verità per

amore di essa»75.

Edwards aveva ormai assunto la missione di smascherare il socinianesimo, come recitava il titolo

del suo scritto. Inoltre il teologo si scagliava contro la manipolazione delle Scritture ad opera di

Locke, che giudicava un vero e proprio abuso, «a diabolical work»76.

70 J. Edwards, Socinianism Unmask’d; A Discourse Shewing the Unreasonableness of a late Writer’s Opinion concerning of only One Article of Christian Faith; and of his Others Assertions in his late Book, Entituled “The Reasonableness of Christianity as Delivered in the Scriptures”, and in his “Vindication” of it, printed for J. Robinson, London 1696. 71 Cfr. V. Nuovo, Introduction, WR, p. li; Linee di sviluppo della riflessione etico-religiosa lockiana (saggio introduttivo), SER, pp. 59-60; Nota introduttiva, Difesa della “Ragionevolezza del cristianesimo”, SER, 432 – 434. 72 J. Edwards, The Socinian Creed; or a brief account of the professed tract and doctrine of the foreign and English Socinians: wherein is showed the tendency of them to irreligion and atheism, with proper Antidotes against them, printed for J. Robinson, London 1697. 73 Cfr. V. Nuovo, Introduction, VIN, p.xlix, nota 1. 74 Cfr. The Exceptions of Mr. Edwards, in his Causes of Atheism, Against the Reasonableness of Christianity, as deliver’d in the Scriptures, Examin’d; And found Unreasonable, Unscripture, and Injurious. Also It’s clearly Proved by Many Testimonies of Holy Scripture, That the God and Father of our Lord Jesus Christ, is the only God and Father of Christians, pp. iii-iv, 5-13, 38-47; in V. Nuovo (ed.), John Locke and Christianity, cit., pp. 187-208. Cfr. inoltre V. Nuovo, Introduction, VIN, cit., pp. l-li; RO, p. 74. 75 Cfr. RO, p. 78. 76 Cfr. R. H. Cox, Locke on War and Peace, cit., p. 23.

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Uno spazio considerevole di Socianism Unmask’d era dedicato ad un resoconto critico del

socinianesimo, al quale Edwards riconduceva gli unitariani inglesi, i sociniani degli altri Paesi e lo

stesso Locke, alla cui Ragionevolezza si dedicava poi il sesto capitolo dell’opera77. L’aspetto degno

di nota dell’argomentazione di Edwards era costituito dal collegamento di questioni

apparentemente differenti: richiamandosi alla dottrina esposta nel Saggio sull’Intelletto umano,

egli notava che anche Fausto Socino aveva negato una conoscenza innata; in secondo luogo,

osservava che il rifiuto di principi pratici innati, dai quali dipendeva la moralità, costituiva una

offesa che, unita alla riduzione della fede cristiana ad un solo articolo, conduceva inevitabilmente

all’ateismo, l’errore dei sociniani78. L’accusa nei confronti di Locke era quella di nascondere i

principali articoli della fede cristiana e di tradimento del cristianesimo.

Locke rispose nel marzo 1697 con un’estesa A Second Vindication of the «Reasonableness of

Christianity etc.», dove ribadiva e ampliava la linea difensiva già tenuta. È possibile suddividere in

quattro parti il testo lockiano:

1. una Preface to the Reader , accompagnata da una lettera aperta a Samuel Bold79;

2. una analisi e una dettagliata confutazione di Socinianism Unmask’d 80;

3. una breve replica a The Socinian Creed 81;

77 V. Nuovo, Introduction, VIN, p. lii. 78 Ibid. 79 SV, pp. 31-38. Samuel Bold, teologo anglicano e rettore di Steeple nel Dorset, era intervenuto a favore della tolleranza dei dissidenti e si era impegnato a favore di una riduzione del credo religioso ad articoli assolutamente necessari. Per la sua difesa della libertà e dei non conformisti Bold aveva subito due anni di persecuzione civile ed ecclesiastica e trascorso sette anni in carcere. Nel 1697, in appendice al suo A Short Discourse of the True Knowledge of Christ Jesus. To Which are Added Some Passages in the Reasonableness of Christianity & c. and its Vindication. With some Animadversions on Mr. Edwards’s Reflections on the Reasonableness of Christianity, and on his Book, Entituled Socinianism Unmask’d (A. and J. Churchill, London 1697), Bold aveva inserito una breve difesa della Ragionevolezza del cristianesimo affermando di averla letta con interesse, pur non conoscendo i protagonisti della vicenda e prendendo le difese della posizione lockiana. L’affinità con Locke consisteva principalmente nell’affermazione secondo cui la fede in Gesù Messia era sufficiente per essere cristiani. Quest’opera di Bold venne pubblicata tra l’altro dal medesimo editore di Locke, dopo l’uscita di Socinianism Unmask’d. In particolare Bold riteneva fuori luogo le accuse di socinianesimo e antitrinitarismo a Locke, spiegando che questi aveva semplicemente individuato quei contenuti di fede necessari a dichiararsi cristiani. L’utilità del trattato lockiano, secondo Bold, consisteva nel convincere i lettori della bontà della fede cristiana e nel promuovere una concordia tra i cristiani. L’ecclesiastico tornerà successivamente a difendere Locke in due occasioni in risposta ad Edwards e un’ultima volta nell’ambito della controversia tra Locke e il vescovo Stillingfleet, affermando che le tesi del filosofo in nessun modo costituivano una minaccia alla fede cristiana (cfr. Some Considerations on the Principal Objections and Arguments Which have been Publish’d against Mr. Lock’s Essay of Humane Understanding, printed for A. and J. Churchill, London 1699). Nel 1706 gli scritti a difesa di Locke saranno raccolti come A Collection of Tracts, Publish’d in Vindication of Mr. Lock’s Reasonableness of Christianity & c. and of His Essay Concerning Humane Understanding, printed for A. and J. Churchill, London 1706. Per una lettura sintetica delle argomentazioni di Bold a favore di Locke cfr. A Short Discourse of the True Knowledge of Christ Jesus, cit., pp. 3-8; 18-31, in V. Nuovo (ed.), John Locke and Christianity, cit., pp. 171-179; Id., Some Passages in the Reasonableness of Christianity & c., and its Vindication, cit., pp. [v-viii], 1-13, 17-25, 30-52; in ivi, pp. 236-255. Si vedano la lettera di Bold a Locke dell’agosto 1703: Corr., n. 3326, VIII, pp. 48 – 55; e l’ultima dell’aprile 1704, n. 3520, VIII, pp. 277 – 278. Su Bold si vedano inoltre: M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., pp. 86-90 e RO, pp. 100-101. 80 Cfr. SV, pp. 39-200. 81 Cfr. SV, pp. 200-228.

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4. una breve risposta ad alcune osservazioni critiche alla Ragionevolezza presenti in un anonimo

pamphlet82.

Come ha osservato Nuovo, Locke ebbe approssimativamente poco più di tre mesi per scrivere la

sua Second Vindication, dal momento che nello stesso periodo si trovò ad affrontare un altro

attacco del novembre 1696, da parte del Vescovo Stillingfleet, del quale si riferisce oltre.

È dunque verosimile supporre, come fa Nuovo, che quando Locke ottenne la sua copia di The

Socinian Creed stesse già lavorando alla sua prima risposta a Stillingfleet83. Per tale ragione la

Second Vindication e la risposta a Stillingfleet apparvero contemporaneamente, nel marzo 1697.

Nella Second Vindication il filosofo reagì alla strategia del suo avversario che puntava a renderlo

odioso agli occhi dei lettori, e a far apparire la Ragionevolezza come una collazione di testi altrui,

priva di un proprio autore mosso da una personale ricerca della verità religiosa. Locke presentava il

suo avversario come un bugiardo e «contro gli arbitrari “guesses” di Edwards difendeva con vigore

la sua proposta di un cristianesimo semplice e razionale, in grado di porsi al di fuori della logica

stessa delle sterili contrapposizioni dogmatiche, dell’autoritarismo ecclesiastico, del fanatismo

ortodosso»84.

Nella lettera iniziale a Bold85 Locke ne loda «the love of Truth» e l’indipendenza di pensiero,

ribadendo l’inconsistenza delle accuse di Edwards:

But I see, by what you have already writ, how much you are above that; as you take not up you Opinions from Fashion or Interest, so you quit them not to avoid the malicious Reports of those that do: Out of which number, they can hardly be left, who (unprovoked) mix with the management of their Cause, Injures and ill Language to those they differ from. This, at least I am sure, Zeal or Love for Truth, can never permit Falshood to be used in the Defence of it 86.

Viene qui riaffermata la centralità della questione relativa alla giustificazione, alla quale Locke

collegava la necessità di una ricerca biblica, elencando per sommi capi i risultati ai quali diceva di

essere giunto: «the marvellous and divine Wisdom of our Saviour’s Conduct, in all the

Circumstances of his promulgating this Doctrine»; «the necessity that such a Law-giver should be

sent from God for the reforming the Morality of the World» e «[the]Wisdom of our Saviour’s

82 Cfr. SV, pp. 228-233. 83 Nuovo ritiene che Locke abbia composto la gran parte della Second Vindication prima del 1° dicembre 1696. Cfr. V. Nuovo, Introduction, VIN, p. lvi e p. lxxxviii. 84 M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., p. 67. 85 Si veda anche la lettera di Locke a Samuel Bold, da Oates, del 16 maggio 1699 (Corr., n. 2590, VI, pp. 626 – 630) dove parla di questi come di «a Lover of Truth» (p. 628) e scrive che «the proofs I have set down in my Book of One Infinite Independent Eternal Being satisfy me» (p. 630). 86 SV, p. 34.

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opening the Doctrine (which he came to publish) as he did in Parables and figurative ways of

speaking»87. Locke parla inoltre di

another Person, who every Day, from the beginning to the end of my search, saw the Progress of it, and knew at my first setting out, that I was ignorant whither it would lead me; and therefore, every Day, asked me what more the Scripture had taught me. So far was I from the thoughts of Socinianism, or an Intention to write for that or any other Party, or to publish any thing at all 88.

Il filosofo chiarisce di nuovo l’intenzione che lo aveva animato nelle sue ricerche, in risposta a

coloro che o non ritenevano necessaria la rivelazione oppure giudicavano gli articoli necessari alla

salvezza tanti e tali da non poter essere accolti, e dichiara di non aver previsto l’opposizione di

alcuno che fosse stato in comunione con la Chiesa di Inghilterra:

Upon these two Topicks the Objections seemed to turn, which were with most Assurance, made by Deists against Christianity; But against Christianity misunderstood. It seem’d to me, that there needed more no to shew them the Weakness of their Exceptions, but to lay plainly before them the Doctrine of our Saviour and his Apostles, as delivered in the Scriptures, and not as taught by the several Sects of Christians 89.

Locke intraprende quindi una confutazione di Socinianism Unmask’d ripartendo dalla prima e

principale accusa di Edwards «That I unwarrantably crowded all the necessari Articles of Faith

into one, with a design of favouring Socinianism»90. Edwards aveva accostato la riduzione dei

dodici articoli di fede a quella delle persone della Trinità e ne aveva individuato la comune origine

in una rivisitazione del Credo apostolico: come tutta la fede era stata ridotta ad un solo articolo,

pur essenziale, così la divinità era stata ridotta ad una sola Persona91.

Locke, citando passi della Ragionevolezza, si dichiara mis-represented 92, afferma più volte la

falsità dell’accusa che gli veniva mossa e spiega che era stata avanzata al solo fine «to mislead

others into a wrong Opinion of me»93.

What, in my Reasonableness of Christianity, I have said of One Article, I shall always own; and in what sence I said it, is easie to be understood; and with a Man of the least Candour, whose Aim was Truth, and not Wrangling, it would not have occasion’d one word of Dispute. But as for this Unmasker, who made it business not to convince me of any Mistakes in my Opinion, but barely to mis-represent me; my business at present with him, is, to shew the World, that what he has captiously and scurrilously said of me relating to One Article, is false; […]94.

87 SV, p. 35. 88 Si ritiene che Locke si riferisca a Lady Masham, presso la cui residenza Locke alloggiò negli ultimi anni della sua vita. Cfr. SV, p. 36, nota 2. 89 SV, p. 36. 90 Cfr. SV, pp. 41 ss. 91 Cfr. SV, p. 46. 92 SV, p. 47. 93 SV, p. 48. 94 SV, pp. 49-50.

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La replica di Locke - molto dettagliata e ricca di rinvii alle affermazioni di Edwards - mantiene un

tono pacato e tuttavia polemico nei confronti dell’avversario. Il filosofo lamenta in più occasioni

l’attribuzione di pensieri che egli afferma di non aver mai formulato e rimprovera Edwards di non

citare le pagine del suo scritto ma di formulare solo accuse generiche95. Locke fa rilevare inoltre

l’ambiguità del suo avversario quando affermava la necessità di articoli di fede che solo in parte

dovevano essere conosciuti, mostando al lettore la contradditorietà interna al pensiero di Edwards:

A very wary Expression concerning Foundamentals. The Question is about Articles necessary to be explicitly believed to make a Man a Christian. These in his List the Unmasker tells us are necessary to constitute a Christian, and must IN SOME MEASURE be known and assented to, I would now fain know of the Reader whether he understands hereby, that the Unmasker means, that these his necessary Articles must be explicitly believed or not! If he means an explicit Knowledge and Belief, why does he puzzle his Reader by so improper a way of speaking? For what is as compleat and perfect as it ought to be, cannot properly be said to be in some Measure96.

Locke ha l’occasione di ribadire un aspetto per lui essenziale: la centralità delle Scritture e la

necessità di uno studio attento delle verità di fede in esse contenute; spiegando che quel che

troviamo nella rivelazione contenuta nel Nuovo Testamento è la volontà dichiarata del Messia. A

tale spiegazione egli accostava il criterio che discrimina quel che in esse si afferma con chiarezza

da quel che invece resta avvolto nell’oscurità:

But it is still what we find in the Scripture, not in this or that System; what we sincerely seeking to know the Will of our Lord, discover to be his Mind. Where it is spoken plainly we cannot miss it, and it is evident, he requires our assent: where there is obscurity either in the Expressions themselves, or by reason of the seeming contrariety of other Passages, there a fair endeavour, as much as our Circumstances will permit, secures us from a guilty Disobedience to his Will, or a sinful Error in Faith, which way soever our Enquiry resolves the doubt, or perhaps leaves it unresolved97.

La riflessione sulla legge di natura trova qui un’ulteriore e definitiva chiarificazione: legge che

governa la comunità degli uomini è la Law of Reason, la quale è presente anche nel Vangelo. È

degno di riflessione come Locke distingua poi le due leggi alle quali si è soggetti, come uomini e

come cristiani:

As Men we have God for our King, and are under the Law of Reason: As Christians, we have Jesus the Messiah for our King, and are under the Law revealed by him in the Gospel. And though every Christian, both as a Deist and a Christian, be obliged to study both the Law of Nature and the Revealed Law, that in them he may know the Will of God, and of Jesus Christ whom he hath sent, yet in neither of these Laws is there to be found a Select Set of Foundamentals distinct from the rest which are to make him, a Deist or a Christian98.

95 Cfr. SV, pp. 53 ss. 96 SV, p. 68 (corsivo nel testo). 97 SV, p. 70 (corsivo mio). 98 SV, p. 71 .

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È opportuno riportare per esteso il brano in cui Locke - il quale tiene presente nella sua risposta

anche la fede della chiesa antica sintetizzata dalle parole di Tertulliano - traccia il profilo

dell’autentico cristiano, e lo pone su un piano differente da quello del numero degli articoli

fondamentali che si accolgono o meno. Viene così ripreso il tema della speciale relazione tra Dio e

tutti coloro che, accogliendo il Cristo, costituiscono la sua Chiesa, il cui appellativo è Covenant of

Grace:

But he that believes one Eternal invisible God, his Lord and King, ceases thereby to be an Atheist; and he that believes Jesus to be Messiah his King, ordain’d by God thereby becomes a Christian, is delivered from the Power of Darkness, and is Translated into the Kingdom of the Son of God, is actually within the Covenant of Grace, and has that Faith; which shall be imputed to him for Righteousness, and if he continues in his Allegiance to this his King, shall receive the rewards, Eternal Life 99.

Lo scritto prosegue con la descrizione del regno di Dio come opposto al regno di Satana, che copre

la storia del mondo dalla caduta di Adamo fino alla venuta di Cristo. Il primo viene annunciato

nelle Scritture e Locke ne parla come di un regno al quale si appartiene volontariamente:

But in this Kingdom which his Father had appointed to him [the Messiah], he could have none but voluntary Subjects, such as leaving the Kingdom of Darkness, and of the Prince of this World, with all the Pleasures, Pomps and Vanities thereof, would put themselves under his Dominion, and translate themselves into his Kingdom; which they did by believing and owning him to be the Messiah their King, and thereby taking him to rule over them100.

I sudditi di tale regno - spiega Locke - sono anche coloro che sono stati giustificati a causa della

loro fede e il cui pentimento e opere di carità costituiscono il segno dell’alleanza stabilita per

mezzo di un Patto di Grazia [Covenant of Grace], in virtù del quale l’umanità è stata sottratta alle

tenebre. Il filosofo ammette di essere andato al di là della questione sollevata da Edwards e

dichiara di aver allargato l’argomento «for the sake of such Readers» e per aiutare coloro che

intendono comprendere la religione che professano. A tal proposito, la risposta ad Edwards - il

quale riconosceva la difficoltà della dottrina della Trinità, come di altre verità presenti nei Vangeli,

ed affermava che si dovevano credere come rivelate da Dio pur non potendo essere comprese -

viene formulata nei termini seguenti:

The Question is about a Proposition to be believed, which must first necessarily be understood. For a Man cannot possibly give his assent to any Affirmation or Negation, unless he understand the terms as they are joy’d in that Proposition, and has a Conception of the things affirm’d or deny’d, and also a Conception of the thing concerning which

99 SV, p. 71. 100 SV, p. 76.

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it is affirm’d or deny’s ad they are there put together. […] The Question is about understanding; And, in what sense they are understood, believing several Propositions, or Articles of Faith, which are to be found in the Scripture101.

Citando il terzo capitolo della prima Lettera di san Paolo ai Corinzi, Locke ribadisce che il

fondamento al quale l’Apostolo si riferiva, e che diceva di aver stabilito, non era che l’affermazione

di Gesù come Messia 102 e che non ve ne erano altri, come appare anche in Atti (18, 4-5): Vangeli e

Atti sarebbero stati dunque concordi su questo103. Così come, per spiegare il suo mancato ricorso

alle Epistole, egli manifesta la difficoltà che si riscontra nel distinguere, nello scritto di un

medesimo autore, dottrine fondamentali, non fondamentali e resoconti di quanto accadde a quel

tempo, contrariamente a quanto invece Edwards sosteneva104, e spiega di aver pensato il suo scritto

come risposta a tutti coloro che nutrivano seri dubbi sull’accordo tra ragione e fede cristiana.

Un altro punto controverso sul quale Locke si sofferma attiene al tema della Satisfaction, non

menzionata nella sua opera; egli spiega che «there is not any such word in any one of the Epistles,

or other Books of the New Testament, in my Bible, as Satisfying or Satisfaction made by our

Saviour; and so I could not put it into my Christianity as deliver’d in the Scripture»105.

Verso la fine della Second Vindication Locke tornerà sull’argomento per chiarire che Satisfaction

era «a term not used by the Holy Ghost in the Scripture, and very variously explained by those

that do use it», ma che ciò non significava negare il valore del sacrificio di Cristo, dal momento

«that is very hard for a Christian who reads the Scripture with Attention, and an unprejudiced

Mind, to deny the Satisfaction of Christ»106. Non era dunque il caso, spiega Locke, di entrare nel

merito della questione né di partecipare a dispute relative alle dottrine del cristianesimo.

Edwards aveva inoltre accusato il filosofo di aver contraffatto la fede cristiana come i Gesuiti

avevano fatto in Cina. A tale insinuazione Locke risponde ricordando di aver consigliato ai suoi

lettori la conoscenza e lo studio della Sacra Scrittura per scoprire quel che il Vangelo richiedeva107.

In questa Second Vindication inoltre Locke sostiene, sulla scorta di Chillingworth, la validità del

Credo degli Apostoli del II sec.108 nel riportare adeguatamente il nucleo essenziale della fede

apostolica109.

101 SV, pp. 80-81. 102 Cfr. SV, pp. 92-93. 103 Locke tornerà ancora sulla necessità di credere solo due verità per essere cristiani: l’esistenza di un Dio creatore, eterno ed invisibile, e in Gesù di Nazareth come Messia, il re e Salvatore promesso. Cfr. SV, p. 135. 104 Cfr. SV, p. 96. 105 SV, p. 103. 106 SV, p. 227. 107 Cfr. SV, p. 104. 108 Secondo le disposizioni dei Trentanove Articoli, i tre Simboli, il niceno, l’atanasiano, e l’apostolico dovevano essere pienamente accolti e creduti.

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Edwards, sulla base delle omissioni rilevate, equiparava la professione di fede lockiana alla fede

di un turco o di un maomettano, la quale considerava Cristo come un uomo buono e inviato da

Dio, ma non superiore alla natura umana. Da qui l’accusa di aver abusato del cristianesimo110.

Locke protesta vivacemente contro tale accostamento, prima richiamando le parole contenute

nella Ragionevolezza - dove aveva fatto riferimento ai «patimenti» di Cristo e alla sua «croce» - e

successivamente ricordando la spiegazione del termine Messia, e della militanza nel suo regno, che

egli aveva fornito e che consentiva di distinguere la fede evangelica di un cristiano, che si

accompagna al pentimento e all’amore, da quella dei demoni111. Nel citare il Vangelo di Giovanni

(12,44), Locke richiama nuovamente l’attenzione sul nucleo essenziale della fede cristiana e sulla

necessaria carità unita all’assenso a proposizioni di ordine speculativo:

This oblation of an heart fixed with dependance and affection on him [our Saviour], is the most acceptable Tribute we can pay him; the Foundation of true Devotion; and Life of all Religion. What a Value he puts on this depending on his Word, and resting satisfied on his Promises, we have an example in Abraham; whose Faith was counted to him for Righteousness […]112 .

Lo scetticismo lockiano circa l’impossibilità di giungere ad un accordo universale circa verità di

ordine speculativo, all’origine della sua difesa della tolleranza, viene riaffermato qui con

riferimento alle conseguenze che derivano dalla pretesa, da parte degli uomini, di dichiarare

alcune dottrine fondamentali: coloro che persistono nel ritenere vero qualcos’altro sono messi

fuori dalla chiesa e ad essi non viene più consentito di essere cristiani. In questo modo i sistemi e le

costruzioni umane all’origine delle diverse sette, secondo Locke, avevano trasformato l’unico

Vangelo in Vangeli differenti e decretato l’esclusione inappellabile di coloro che dissentivano. E

che ciò avvenga, secondo il filosofo, è inevitabile:

This is and always will be the unavoidable effect of intruding on our Saviour’s Authority, and requiring more now as necessary to be believed to make a Man a Christian, than was at first required by our Saviour and his Apostles. What else can be expected among Christians, but their tearing, and being torn in pieces by one another; whilst every Sect assumes to it self a Power of declaring Foundamentals, and severally thus narrow Christianity to their distinct Systems?113

109 Cfr. SV, pp. 110-111. Anche nella Terza Lettera Tolleranza Locke chiama il Credo degli Apostoli «compendio della religione cristiana» che contiene in sé «tutti i credenda necessari alla salvezza». Scritti sulla tolleranza, cit., p. 287. 110 Cfr. SV, p. 135. 111 Cfr. SV, pp. 116-18. Sul pentimento v. inoltre p. 161. 112 SV, p. 120. 113 SV, p. 126.

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Di nuovo Locke afferma che la vicinanza ai sociniani, quanto alla riduzione degli articoli di fede,

era «a matter that I am not concerned in»114 , ribadisce la non conoscenza delle loro dottrine115 e

cita il discorso di Pietro (Atti 2, 22-36) che faceva riferimento alla crocifissione, morte e

risurrezione non come a proposizioni di una nuova fede ma a come ad argomenti per convincere i

suoi uditori che Gesù era il Messia, accogliendo i quali essi avrebbero avuto la vita nel suo nome,

poiché ne seguiva l’obbedienza alla sua Legge116.

Locke è più esplicito quando si riferisce direttamente alla corruzione della natura umana, al

peccato originale e alla sua propagazione, alla riconciliazione operata dal sacrificio di Cristo e

all’eccellenza del suo sacerdozio, fino a domandare in forma retorica se si doveva ritenere che tutti

questi articoli, non menzionati dagli evangelisti, dovessero necessariamente essere creduti da ogni

uomo per essere cristiano117. E conclude affermando che, se fossero state tutte dottrine necessarie,

ciò avrebbe significato per gli Apostoli aver scritto non una sintetica, ma una imperfetta storia di

tutto ciò che Gesù e i suoi apostoli avevano insegnato118.

Sono citati inoltre altri due passi di Atti (14,15 e 17, 26-28) laddove si fa riferimento a Dio

creatore di tutte le cose. Nell’episodio di Paolo e Barnaba l’articolo di Gesù Messia non compare e

ciò, secondo Locke, perché essi avevano cominciato a predicare l’unico Dio e non ebbero il tempo

di andare oltre prima di essere aggrediti dagli ebrei119. A differenza di Edwards, che riteneva la

fede in Gesù Messia semplicemente «the first step to Christianity», Locke cita gli episodi per

dimostrare che gli Apostoli proponevano in primo luogo la fede nell’unico Dio ai pagani, senza la

quale non era pensabile proporre il resto120.

Dai Vangeli di Luca (4, 43) e di Matteo (4,23) si conosce da Gesù qual era la sua missione, la

ragione per la quale era stato inviato: predicare la buona novella del Regno e mostrare, attraverso i

miracoli, che esso era giunto e che Egli ne era il compimento121. E Matteo - sottolinea Locke - da

testimone oculare era degno di fede poiché sapeva che cosa era stato comandato loro di predicare.

Anche ai Settanta inviati da Cristo, stando al Vangelo di Luca (10, 1-16), non era stato detto di

predicare altro, e si deve ritenere

114 SV, p. 129. 115 Secondo Massimo Firpo questo evitare di entrare nel merito delle dottrine sociniane e di mostrare una conoscenza di esse «era il modo con cui Locke cercava di defilarsi e di sgusciare abilmente tra le maglie di una rete in cui, anche a prescindere da ogni personale prudenza o cauto opportunismo, non intendeva in nessun modo lasciarsi impigliare». Id., John Locke e il socinianesimo , cit., p. 69. 116 Cfr. SV pp. 144-47. 117 Cfr. SV p. 150. 118 Ibid. 119 Cfr. SV, p. 153. 120 Cfr. SV, pp. 153-154. 121 Cfr. SV, pp. 155-56 e p. 159.

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that the Historians of the New Testament are not so concise in their account of this Matter, that they would have omitted any other necessary Articles of Belief, that had been given the Seventy in Commission. […] If there were other Articles given them by our Saviour to propose to their Hearers, St. Luke must be very fond of this one Article, when for conciseness sake, leaving out the other Fundamental Articles that our Saviour gave them in charge to Preach, he repeats this more than once122.

Altro aspetto rilevante, in questa polemica, riguardava la risurrezione. Edwards insisteva

sull’assenza nella Ragionevolezza anche di questo articolo, accusa che però Locke giudicava a

sostegno della propria posizione poiché lo considerava implicito in quello al quale egli dava

priorità.

Secondo il filosofo la risurrezione era tra i «marks» del Messia (insieme ai miracoli, alla sua

ascensione, al suo dominio e al ritorno per giudicare i vivi e i morti123) «which being the great and

demonstrative Proof of his being the Messiah, ‘tis not at all strange, that the believing his

Resurrection should be put for believing him to be the Messiah. Since the declaring his

Resurrection was a declaring him to be the Messiah»124. E a sostegno di ciò Locke cita la prima

Lettera ai Corinzi (15,17) ed un capitolo di Atti (10, 34-43). Credere in tutti questi articoli

significava credere nel Messia:

Our Saviour’s Resurrection, for the reason I have given, is truly of great importance in Christianity; so great, that his being or not being the Messiah stands or falls with it: So that these two important Articles are inseparable, and in effect make but one. For since that time, believe one and you believe both; Deny one of them and you can believe neither 125.

Avvicinandosi progressivamente al centro dell’accusa formulata contro di lui, Locke distingue

«what is necessary to be believed by every Man to make him a Christian» da quel che invece «is

requir’d to be believed by every Christian» e accusa Edwards di ignorarla:

The first of these is what by the Covenant of the Gospel is necessary to be known, and consequently to be propos’d to every Man to make him a Christian: The latter is no less than the whole Revelation of God; all the Divine Truths contain’d in Holy Scripture; which every Christian Man is under a necessity to believe, so far as it shall please God upon his serious and constant endeavours to enlighten his Mind to understand them 126.

Nel ricordare il contenuto originario della predicazione degli Apostoli ai pagani, per una

conversione finalizzata al battesimo, Locke spiega che cristiano è colui che «believes him [our

Saviour] to be the promised Messiah, takes Jesus for his King, and repenting of his former Sins,

122 SV, p. 159 (corsivo nel testo). 123 Cfr. SV, p. 162. 124 SV, p. 161. 125 SV, p. 163 (corsivo nel testo). 126 SV, p. 171.

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sincerely resolves to live for the future in obedience to his Laws is a Subject of his Kingdom, is a

Christian»127. Il disaccordo tra i due era totale: Locke accusava Edwards di essersi seduto sul trono

di Cristo e di nutrire la pretesa di dichiarare quali erano e quali non erano le leggi del suo regno,

quali parti della divina rivelazione dovevano essere conosciute, comprese e credute, e in quale

senso. A tanto zelo Locke replicava che quanto era necessario ai tempi di Cristo per essere cristiani

sarebbe stato sufficiente anche al suo tempo e rivolgeva al suo avversario l’accusa di aver voluto

intimorire i lettori per tenerli lontani dal proprio trattato, bollandolo come sociniano128.

Locke dichiarava inoltre di essersi lasciato guidare, nella comprensione della Scrittura, dalla

guida infallibile dello Spirito Santo e di non aver accolto interpretazioni o opinioni da alcuno129.

Egli tornava sul punto principale che aveva originato la controversia con Edwards, e precisamente

sul significato del termine Messiah, indicandone la spiegazione nel dialogo di Gesù con Marta

presente in Giovanni (11, 24-25) - il quale stava ad indicare che «the Life, which Mankind should

receive at the general Resurrection, was by and through him [Jesus]»130 - e nella risposta della

donna che riconosceva Cristo come «Son of God» (Gv, 11, 27). Locke fa anche riferimento

all’episodio dell’eunuco etiope (Atti 8, 37) che chiede a Filippo di essere battezzato e professa di

credere che Gesù è il Messia e the Son of God, e cita l’episodio di Atti (16, 30) dove al carceriere di

Paolo e Sila era chiesto semplicemente di credere nel Signore Gesù per essere salvato insieme alla

sua famiglia131. . . .

***

Nella terza parte della Second Vindication Locke risponde in particolare all’opera Socinian Creed e

alla osservazione di Edwards secondo la quale, nell’accentuare la riserva e la cautela di Cristo

necessarie per portare a compimento la propria missione, egli lo avrebbe presentato come un

codardo. A Locke veniva anche attribuita la volontà di distruggere i sistemi teologici allo scopo di

stabilirne uno proprio, e di promuovere in tal modo lo scetticismo132. Quanto al rifiuto dei sistemi,

il filosofo non rigetta interamente l’accusa ma precisa che la sua contrarietà era rivolta a tutti quei

sistemi stabiliti da uomini o da partiti, e perciò imposti dietro pretesa di rendere altri cristiani; egli

127 SV, pp. 171-172. 128 Cfr. SV, p. 177. 129 Cfr. SV, p. 179. Su questo Locke era già stato chiaro nella Terza Lettera sulla Tolleranza scrivendo che «in ultima istanza, la guida immediata delle nostre azioni non può essere che la nostra coscienza, il nostro giudizio, la nostra convinzione». Scritti sulla tolleranza, cit., p. 278. 130 SV, p. 187. 131 Cfr. SV pp. 217-18. 132 Cfr. SV, pp. 200-201.

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riteneva infatti dovere di ciascuno l’impegno di elaborare un sistema proprio «according to the best

of his understanding» e «by studying the Scriptures every day»133.

Quanto all’osservazione presente nel sesto capitolo di Socinian Creed, secondo la quale la difesa

della Ragionevolezza da parte di un unitariano – verosimilmente Stephen Nye, autore

dell’anonimo The Exceptions of Mr. Edwards in his Causes of Atheism134 - rendeva sociniano

anche il suo autore, Locke respingeva categoricamente tale criterio, distinguendo accuratamente il

significato della propria opera dalle opinions ad essa relative e dichiarando che «what others are, or

hold, who have expressed favourable thoughts of my Book, I think my self not concerned in»135.

Egli avrebbe accettato insomma solo osservazioni e critiche «by Reason and Argument» e non «by

Prejudices and Party»136.

Nello scritto lockiano sono elencate inoltre alcune questioni - sollevate da Bold in oltre venti

pagine delle sue Animadversions - alle quali Edwards non aveva risposto: restava pertanto discusso

il punto essenziale, stabilire cioè che cosa «is absolutely required to make a Man a Christian,

besides the unfeigned taking Jesus to be the Messiah, his King and Lord, and accordingly, a sincere

resolution to obey and believe all that he commanded and taught» 137.

Diventava sempre più chiaro il punto di massima divergenza tra il cristianesimo di Edwards e

quello proposto da Locke: il filosofo ammetteva che «every word of Divine Revelation, is

absolutely and indispensably necessary to be believed, by every Christian»138, quando se ne viene a

conoscenza per mezzo dell’insegnamento di Cristo o dei suoi Aposoli, ma ciò era ben diverso

dall’affermare la necessità, per ogni cristiano, di conoscere – o di comprendere – ogni parte delle

Scritture relativa alla rivelazione. Ad una conoscenza dettagliata di ogni articolo di fede Locke

anteponeva l’accoglienza del Messia inviato da Dio, che si rivelava nell’obbedienza al suo

insegnamento e alla sua legge:

And to those who yet doubted that he [the Saviour] was so, and made this Objection: “What need was there of a Saviour?” I thought it most reasonable to offer such Particulars only as were agreed on by all Christians, and were capable of no Dispute, but must be acknowledged by every body to be needful139.

133 SV, p. 201. Locke dirà anche che studiare le Scritture con «an unprejudiced mind» costituiva «an absolute and indispensible necessity». Ivi, p. 219. 134 Locke possedeva otto opere di Nye, inclusa la Brief History of the Unitarians del 1687. Cfr. J. Marshall, Locke, Socinianism, “Socinianism” and Unitarianism, cit., p. 119. 135 SV, p. 211. 136 Ibid. 137 SV, p. 217. 138 SV, p. 218. 139 SV, p. 227.

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Le ultime considerazioni della Vindication sono rivolte a Richard Willis, fellow presso l’All Souls

College di Oxford, cappellano di Guglielmo III e vescovo di Gloucester nel 1714. Willis aveva

scritto nel 1697 alcuni saggi raccolti sotto il titolo di Occasional Papers: Numbers I-VII nei quali

aveva trovato posto anche una riflessione sulla Ragionevolezza. In queste riflessioni egli aveva

citato il passo del Leviatano nel quale si afferma che «tutto quel che è necessario alla salvezza è

contenuto nella fede in Cristo e nell’obbedienza alle Leggi»140 e che «il solo articolo di fede

necessario alla salvezza, secondo le Scritture, è che Gesù è il Cristo»141 , e aveva accusato Locke di

aver ricavato la sua dottrina da Hobbes.

Il filosofo replicava di aver tratto le proprie consoderazioni «only from the Writers of the Four

Gospels and the Acts», aggiungendo: «[I] did not know that those words he quoted out of the

Leviathan, were there, or any like them» 142. Anche questa volta Locke doveva ribadire di aver

affermato, nella Ragionevolezza, quel che aveva appreso dallo studio del Nuovo Testamento,

ovvero che la fede che rende cristiani consiste nel credere che Gesù di Nazareth è il Messia e che

tale formula includeva la sua accoglienza come re e Signore, promesso e inviato da Dio:

And so lays upon all his Subjects an absolute and indispensable necessity of assenting to all that they can attain, the Knowledge that he taught; and of a sincere Obedience to all that he commanded 143.

Alla Second Vindication lockiana Edwards replicò ancora una volta con A Brief Vindication of

the Foundamental Articles of the Christian Faith (London, 1697), dedicato alle facoltà di Oxford e

Cambridge, scritto per il quale ottenne anche un imprimatur del vice-cancelliere di quest’ultima.

Nell’opera il bersaglio era Locke e il programma intellettuale esposto nei Pensieri sull’educazione.

140 «Tutto ciò che è necessario alla salvezza è contenuto in due virtù: la fede in Cristo e l’obbedienza alle leggi. Quest’ultima, se fosse perfetta, sarebbe sufficiente per noi. Ma, poiché siamo tutti colpevoli di disobbedienza alla legge di Dio – non solo originariamente in Adamo, ma anche attualmente per le nostre trasgressioni -, alle nostre mani si richiede, ora, non solo l’obbedienza per il resto della nostra vita, ma anche una remissione dei peccati per il passato e questa remissione è la ricompensa della nostra fede in Cristo». T. Hobbes, Leviatano, cit., (XLIII, 3) p. 949. 141 Leviatano, cit., (XLII, 34) p. 835; (XLIII, 11) p. 957. 142 SV, p. 229. Si noti che nel capitolo dedicato ai rapporti tra Locke e Hobbes, Dunn rileva che l’importante tesi di Laslett, in base alla quale i Due trattati – come pure la filosofia lockiana - non devono essere letti mettendo in frontale contrapposizione i due filosofi ma come risposta di Locke a Filmer, «voleva dire affrontare una sostanziale revisione del modo stesso in cui era concepita la storia della teoria politica». PPL, p. 97. 143 SV, p. 230.

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a. 2. Locke sociniano? a. 2. Locke sociniano? a. 2. Locke sociniano? a. 2. Locke sociniano?

Al centro delle molteplici accuse di Edwards a Locke vi era la presunta appartenenza sociniana del

filosofo, che Locke respinse con decisione e che tuttavia costituisce un aspetto tanto problematico

quanto rilevante del suo pensiero.

Sebbene Locke rigettasse alcune importanti dottrine protestanti - come quella che destinava ad

un inferno senza fine tutti coloro che discendevano da Adamo; o l’idea che la Caduta avesse

condannato gli uomini a peccare o che la natura umana fosse corrotta e degenerata144 - egli «non

amava passare per Unitario o Sociniano, preferendo restare, come era sempre stato, un

anglicano»145.

Tra i suoi contemporanei, anche John Milner, fellow del St. John ‘s a Cambridge, e presunto

autore nel 1700 di An Account of Mr. Lock’s Religion146, associò il filosofo a John Toland e agli

unitariani. Il libro, pubblicato anonimo, conteneva un’analisi dei principali scritti lockiani

suddivisa per argomenti. Pur evitando attacchi diretti e personali, Milner riuscì tuttavia a sollevare

perplessità che si trasformarono presto in sospetti importanti sull’ortodossia delle dottrine

lockiane. Milner preferì concentrarsi sulla dottrina, e dunque sui dogmi dell’incarnazione e della

redenzione, sottolineando in primo luogo il silenzio di Locke sulla Trinità e il mancato riferimento

alla divinità di Cristo, spiegando che l’espressione Son of God veniva utilizzata da Locke secondo

un altro significato147. Milner inoltre, come Edwards, notava che anche Socino aveva negato le idee

innate.

Gli anglicani ortodossi avevano individuato nel socinianesimo il pericolo maggiore per la

credenza nei due capisaldi della fede cristiana, la Trinità e l’Incarnazione, e pertanto un’eresia alla

quale ascrivere fenomeni tra loro differenti: dalla critica antireligiosa alla ribellione anticlericale,

dall’ateismo al razionalismo deista. Essere definiti come “sociniani” era spesso il preludio di una

associazione ai deisti148; anche se, come ha osservato Firpo, «il razionalismo religioso non sbocca

nel deismo ma piuttosto contribuisce alla nascita e confluisce nel solco del protestantesimo

144 Cfr. S. P. Lamprecht, Locke's Attack Upon Innate Ideas , cit., pp. 150-151; W. M. Spellman, Locke and the Problem of Depravity, cit., pp. 104 ss. 145 M. Montuori, Il socinianesimo di Locke e l’edizione inglese dell’Epistola sulla tolleranza, cit., p. 59. 146 J. Milner, An Account of Mr. Lock’s Religion, Out of His Own Writings, and His Own Words. Together with some Observations upon it, and a Twofold Appendix, J. Nutt, London 1700. Cfr. V. Nuovo, Introduction, VIN, pp. lxxiv-lxxvi. 147 Cfr. J. Milner, An Account of Mr.Lock’s Religion,, pp. 181-82 cit. in M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., p. 86. 148 Cfr. J. Yolton, John Locke and the Ways of Ideas, cit., p. 174.

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liberale, dell’arminianesimo o di quel latitudinarismo particolarmente diffuso nell’alto clero

anglicano di questa età»149.

Quanto ai deisti, «la loro penetrante critica dei dogmi fondamentali della fede, la trinità, la

divinità di Cristo, l’incarnazione, la redenzione, era stato il punto di partenza dal quale il

cristianesimo stesso aveva potuto essere messo in discussione, respinto, disprezzato» 150.

La critica moderna ha assunto posizioni differenti sull’argomento del presunto socinianesimo di

Locke. I rapporti di Locke con gli unitariani inglesi e con i rimostranti olandesi, anche se

ricostruiti dai maggiori biografi del filosofo151, sono tuttora oggetto di discussione e di studio. La

dottrina della tolleranza, la sensibilità whig alle istanze della Low Church, la tendenza razionalista,

la vicinanza al latitudinarismo di Chillingworth e ai platonici di Cambridge, il fastidio per le

controversie di natura dogmatica, erano tutti aspetti che rendevano, e rendono ancora,

problematico un giudizio sulla fede di Locke. A tal proposito sono state avanzate differenti

interpretazioni.

Si deve innanzitutto tener conto del contesto dell’esclusione dai benefici della tolleranza - con

l’Atto del maggio 1689 che accordava il libero culto ai dissidenti protestanti - di cattolici,

unitariani e sociniani da parte del Parlamento inglese152. Questi si erigeva dunque a giudice in

materia religiosa. Un dettaglio che consente di comprendere ad esempio le motivazioni che

spinsero l’unitariano Popple a tradurre e a diffondere l’Epistola lockiana, e a sostenere la

rivendicazione di una libertà assoluta in ambito religioso, presente nella prefazione aggiunta allo

stesso testo lockiano153.

Secondo Mario Montuori Locke era di fede unitariana, come il suo amico Popple154.

La dimostrazione razionale dell’Unità di Dio scopre finalmente un Locke senz’altro Unitario e Sociniano nonostante l’ostinato suo diniego e l’onesto rifiuto del settarismo e del dogmatismo dei sociniani155.

Lo studioso ritiene che la prudenza di Locke, e il desiderio di non essere coinvolto in dispute e

conflitti di carattere religioso, fossero all’origine di quell’atteggiamento che portò l'uomo a tacere

149 M. Firpo, Recenti studi sul Socinianesimo nel Sei e Settecento, cit., pp. 124-25. 150 M. Firpo, John Locke e il socinanesimo, cit., p. 95. 151 Cfr. H. R. Fox Bourne, The Life of John Locke, cit., I, pp. 310 - 311; II, pp. 6 ss.; M. Cranston, John Locke: A Biography, cit. pp. 233 ss.; C. A. Viano, Dal razionalismo all’illuminismo, cit., pp. 369 ss.; R. Crippa, Studi sulla coscienza etica e religiosa del Seicento, cit., pp. 154 ss. 152 Cfr. G. M. Trevelyan, La Rivoluzione inglese del 1688-89, Il Saggiatore, Milano 1964, pp. 120-126. 153 Cfr. To the Reader – Al Lettore, Lettera sulla tolleranza, in Sulla tolleranza e l’unità di Dio, cit., pp. 88 – 91. 154 Cfr. M. Montuori, Il socinianesimo di Locke e l’edizione inglese dell’Epistola sulla tolleranza, in Sulla tolleranza e l’unità di Dio, cit., p. 57 nota 15. 155 Ivi, p. 59.

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ciò che il filosofo pensava, evitando un’aperta dichiarazione di fede unitariana. Questo desiderio di

evitare estenuanti polemiche sarebbe stato all’origine della decisione di Locke di eliminare tanto

l’abregé del primo libro del Saggio dall’Extrait della Bibliothéque156 quanto di espungere dalla

Ragionevolezza qualsiasi riferimento diretto all’Unità di Dio, fermandosi alla riduzione del

cristianesimo alla fede in Gesù Messia.

Eppure, se Locke evitava nei suoi libri di esibire le prove testuali dell’Unità di Dio, tacendo, quindi, o negando di essere unitario, in cuor suo, come si è visto, non dubitava affatto che Dio fosse unico; tanto è vero che, pressato da Limborch, si risolse finalmente a dare, coll’abituale segretezza, quella dimostrazione dell’Unità di Dio che sarebbe stata al suo posto nell’Essay on Human Understanding e che si era preparato a dare, ma non aveva poi dato, nella Reasonableness of Christianity157.

Montuori ha messo in particolare risalto i rapporti tra Locke e Popple, inserendoli nel dibattito

aperto dall’Atto di Indulgenza del 1689 in Inghilterra e ricavando la conclusione secondo cui

Locke avrebbe condiviso pienamente i sentimenti espressi da Popple nella sua introduzione alla

Lettera sulla tolleranza158; d’altra parte è vero che «nel circolo di Firmin la questione della libertà

religiosa doveva essere quindi più che mai aperta e Locke, il cui celato socinianesimo lo portava,

come vedremo, a condividere la delusione degli unitariani, alle discussioni e recriminazioni degli

antitrinitari facenti capo a Firmin non dovette certo essere estraneo»159.

A conferma dell’atteggiamento di simpatia del filosofo verso la causa degli unitariani, Montuori

ricorda che alla vigilia dell’approvazione dell’Atto di tolleranza Locke inviò a Le Clerc, in Olanda,

perché la diffondesse tramite la Bibliothéque Universelle, il pamphlet di Stephen Nye: A Brief

History of the Unitarians Called also Socinians del 1687, pubblicato a spese dell’unitariano Thomas

Firmin160, autore a propria volta nel 1689 di Brief Notes on the Creed of St. Athanasius, scritto che

aveva inasprito la Trinitarian Controversy161.

156 Si tratta dell’Abstract del Saggio, tradotto da Le Clerc e pubblicato su Bibliothéque Universelle nel 1688, prima della pubblicazione del Saggio. Cfr. P. King, The Life of John Locke, cit., II, pp. 231 – 293. 157 M. Montuori, Introduzione, Tre lettere di Locke a Limborch sull’unità di Dio, in Sulla tolleranza e l’unità di Dio, cit., p. 376. 158 Cfr. M. Montuori, Il socinianesimo di Locke e l’edizione inglese dell’Epistola sulla tolleranza, in Sulla tolleranza e l’unità di Dio, cit., p. 73. 159 Ivi, p. 68. 160 Nye e Firmin erano Unitariani protestanti, che, pur riconoscendo le Scritture come sola regola di fede, ritenevano il Credo degli Apostoli una riduzione inadeguata della fede cristiana e di ciò che era necessario alla salvezza. Essi non credevano inoltre nella preesistente divinità di Cristo. Firmin, con Popple e Newton, figurava tra i nomi dei destinatari di copie gratuite delle opere di Locke nell’elenco del suo editore. Cfr. RO, pp. 85-88 e pp. 102-105; V. Nuovo, Introduction, VIN, p. xxv. 161 Anche McLachlan si riferisce ai rapporti documentati di Locke con Thomas Firmin, con i fratelli Christopher Jr. e Samuel Crell, e con Stephen Nye. Cfr. H. McLachlan, Socinianism in Seventeenth-Century England, , , , cit., pp. 289-90; RO, pp. 101 ss.

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Le successive lettere di Locke a favore della libertà religiosa, secondo questa interpretazione, non

furono altro che ulteriori tappe di una lotta al fianco degli unitariani, «alla quale Locke non seppe

sottrarsi»162.

Quanto al presunto socinianesimo lockiano, vi sono tre lettere di Locke a Limborch163 che

possono aiutare a comprendere la posizione del filosofo sull’argomento:

Può sorprendere che queste tre lettere di Locke a Limborch, e solo queste, che trattano dell’inedito argomento dell’unità di Dio, siano scritte in francese anziché in latino, familiare ad entrambi assai più del francese, e perciò, ignorando l’uno la lingua dell’altro, costantemente usato nella copiosa corrispondenza intercorsa ininterrottamente dal 1689 al 1704 fra il filosofo inglese ed il teologo olandese164.

Ad avviso di Montuori, «dopo che Stillingfleet ed Edwards avevano scoperto l’implicito

unitarismo»165 del Saggio e della Ragionevolezza, e una volta che Limborch aveva assicurato la

massima discrezione sul contenuto della sua risposta, Locke si decise ad una lunga risposta nella

sua lingua madre, affidandone la traduzione a Coste, segretario e traduttore delle sue opere. Tali

drafts risultano più ampi ed impegnativi delle lettere effettivamente inviate a Limborch.

Montuori legge le tre lettere di Locke a Limborch come «una coerente integrazione e

conclusione del capitolo decimo del quarto libro del Saggio e la prova dell’Unità di Dio come una

necessaria inferenza della conoscenza dell’esistenza di Dio che ne è l’oggetto»166 e ritiene che

l’argomento fosse stato espunto dal Saggio unicamente per amor di pace. Lo studioso ritiene

dunque Locke

Unitario e Sociniano, come i contemporanei di lui avevano supposto o sospettato; come moderni studiosi hanno perfettamente arguito non solo dalla Reasonableness ma anche dal “razionalismo” di Locke […]167.

La prima lettera di Locke a Limborch è del 29 ottobre 1697. In essa, spiega Montuori, il filosofo

rivela per la prima volta e, ciò che più conta, con inattesa franchezza, il sottinteso unitario della dimostrazione dell’esistenza di Dio fornita nel Saggio sull’Intelligenza Umana, Parte IV Cap. X, aggiungendo che l’Unità di Dio è implicita alla stessa predicazione della sua esistenza168.

162 M. Montuori, Il socinianesimo di Locke e l’edizione inglese dell’Epistola sulla tolleranza, in Sulla tolleranza e l’unità di Dio, cit., p. 75. 163 Le tre lettere furono pubblicate per la prima volta, come informa Montuori, nella redazione purgata degli originali in possesso di Limborch in: Some Familiar Letters between Mr. Locke and several of his friends, A. & J. Churchill, London 1708. Le stesse tre lettere di Locke a Limborch si ritrovano in tutte le edizioni delle Locke’s Works. Si fa qui riferimento all’edizione integrale delle lettere curata da Mario Montuori, il quale utilizza i drafts in lingua francese presso la Bodleian Library di Oxford, cfr. Sulla tolleranza e l’unità di Dio, cit., pp. 389 – 423. 164 M. Montuori, Introduzione, Tre lettere di Locke a Limborch sull’unità di Dio, in Sulla tolleranza e l’unità di Dio, cit., p. 364. 165 Ivi, pp. 365-366. 166 Ivi, p. 382. 167 Ivi, p. 383. 168 Ivi, p. 367. Cfr. Corr., n. 2340, VI, pp. 243-246.

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La versione finale della lettera che Locke inviò a Limborch risultava assai ridotta, poiché nella

versione presso la Bodleian Library si può leggere a margine delle parti eliminate: «omitted in the

letter I sent»169. In questa lettera Locke afferma di aver sempre creduto nell’unità di Dio e di aver

pensato che essa fosse razionalmente dimostrabile in modo irrefutabile. Una volta riconosciuti gli

attributi divini, il filosofo riteneva che «siamo facilmente portati a concludere, se non mi inganno,

anche alla Unità di Dio»170. Inoltre Locke fa intendere che tale dimostrazione avrebbe potuto far

parte del Saggio e che ciò non avvenne solo per amor di pace. Riferendosi alla quarta edizione del

Saggio, Locke afferma:

Avrei volentieri soddisfatto il desiderio Vostro o di qualcuno dei Vostri amici inserendovi le prove dell’Unità di Dio così come mi si presentano alla mente. Io sono incline a credere che l’Unità di Dio si possa così chiaramente dimostrare come la sua stessa esistenza e che possa essere fondata su delle prove che non lasciano alcun luogo a dubbi. Ma io voglio vivere in pace […]171.

Il filosofo spiega di non aver affrontato nel Saggio la questione dell’Unità di Dio perché cadeva

fuori del tema affrontato nel testo e perché non riteneva necessario discutere tale argomento; egli

si era infatti limitato a discutere semplicemente, come si è visto, dell’idea di Dio, «quella di un

Essere Eterno, Onnipotente e Onnisciente»172.

L’argomento principale attorno al quale ruota l’affermazione lockiana dell’unità divina è che,

una volta ammessi attributi quali l’onniscienza, l’onnipotenza e l’eternità, vi sarebbero grandi

difficoltà nel «supporre l’esistenza di due esseri onnipotenti»173, come pure sarebbe «irragionevole

supporre poi l’esistenza di un altro Essere Onnipotente»174. La conclusione non poteva che

presentare la seguente formulazione:

Dal momento che non conosco la sostanza della materia nemmeno conosco la sostanza di Dio; ma so comunque che questa Sostanza è qualcosa e che essa deve escludere da sé tutte le altre sostanze della stessa specie (sempre che ne esista alcuna). Se, dunque, Dio è Infinito e Onnipresente, questo è per me una prova che non può esservi che un solo Dio e uno solo175.

169 Cfr. M. Montuori, Introduzione, Tre lettere di Locke a Limborch sull’unità di Dio, in Sulla tolleranza e l’unità di Dio, cit., p. 367. 170 Cfr. Prima Lettera a Limborch, in Sulla tolleranza e l’unità di Dio, cit., p. 393. 171 Ivi, pp. 391-393. 172 Ivi, p, 393. 173 Ibid. 174 Ivi, p, 395. 175 Ivi, p. 397.

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A questa lettera di Locke, Limborch rispose in un primo tempo il 28 novembre 1697176 ed in

seguito177.

La risposta di Locke alla missiva di Limborch su questi temi è del 2/4 aprile 1698178; stavolta

veniva chiesto di rendere esplicita quell’unità che Descartes aveva supposto ma non dimostrato,

circa l’idea dell’Ente per sé esistente e necessario. Nella sua risposta, tuttavia, per esporre la prova

dell’unità di Dio, Locke si mantiene coerente alle premesse formulate nel Saggio, senza nominare

Descartes e senza discutere dell’idea di sostanza. Dagli attributi di Dio predicati nel Saggio Locke

deduce necessariamente la sua unità, che appunto nell’opera veniva data per implicita.

Locke, ricalcando gli argomenti della parte purgata della prima lettera, risponde alla domanda che lui stesso aveva formulato, e cioè, che chi ammette l’esistenza di Dio, ammettendo insieme che Dio è infinito, eterno, incorporeo, perfettissimo, onnisciente, ecc. ammette perciò stesso che Dio è uno e non può essere che uno, dal momento che l’infinito, l’incorporeo, il perfettissimo, l’onnisciente non può essere che, per ciascuno, uno. L’Unità di Dio è, dunque, provata da Locke dagli stessi attributi di Dio179.

Una volta ammessa l’esistenza di Dio e dei suoi attributi seguiva per Locke in modo evidente e

conseguente anche la sua unità. In questa seconda lettera, infatti, con riferimento alla prova

dell’unità di Dio, Locke ritiene che si debba in primo luogo partire dalla sua definizione:

Per risolvere una tale questione è necessario sapere, prima di arrivare a teorizzare le prove dell’Unità di Dio, che cosa si intende con la parola Dio. L’idea comune e, io credo, la verace idea che hanno di Dio coloro credono nella sua esistenza è quella di un essere infinito, eterno, incorporeo e perfettissimo 180.

Qui vediamo che Locke ripropone la definizione di Dio che Descartes dà nelle Meditazioni

filosofiche 181. Una volta chiarito questo aspetto, Locke ritiene che si possa facilmente dedurne

anche l’unità:

In realtà, un essere perfettissimo o, per così dire, perfettamente perfetto non può essere che unico dal momento che un essere perfettissimo non potrebbe mancare di nessuno degli attributi, di perfezione o gradi di perfezione a lui più necessari di possedere che di esserne privo, perché altrimenti egli ne avrebbe bisogno di tanti quanti mancano alla sua perfezione 182.

176 Cfr. Corr. , n. 2352, VI, pp. 257-261. 177 Si vedano le lettere dell’11 marzo 1698 e dell’11/21 marzo 1698: Corr., n. 2400, VI, pp. 330- 337; n. 2406, VI, pp. 346-348. 178 Cfr. Corr, n. 2413, VI, pp. 363 – 366 . 179 M. Montuori, Introduzione, Tre lettere di Locke a Limborch sull’unità di Dio, in Sulla tolleranza e l’unità di Dio, cit., p. 379 (corsivo mio). 180 Seconda Lettera a Limborch, in Sulla tolleranza e l’unità di Dio, cit., p. 407 (corsivo nel testo). 181 «Ora, per Dio intendo una sostanza infinita, indipendente, sommamente intelligente, sommamente potente, e dalla quale siamo creati sia io stesso sia tutto quanto d’altro esista (nel caso che esista anche qualcos’altro); […]». R. Descartes, Meditazioni metafisiche, a c. di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 73-75. 182 Seconda Lettera a Limborch, in Sulla tolleranza e l’unità di Dio, cit., p. 407.

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Locke ravvisa una chiara incompatibilità tra due esseri onnipotenti, come pure tra due esseri

onniscienti e onnipresenti:

Se, dunque, Dio è infinito e onnipresente, ne consegue che non esiste che un Dio ed uno solo183.

Nel congedarsi, Locke chiede a Limborch di poter conoscere la sua opinione, nonché quella di

coloro con i quali egli discuteva di tali questioni, così da poter riesaminare eventualmente le

proprie tesi. Questa richiesta di Locke, tuttavia, non venne soddisfatta.

La terza lettera di Locke - della quale esiste un draft di mano di Locke in lingua inglese - è del 21

maggio 1698184, molto più breve; il filosofo non vi aggiunge nulla che non abbia già detto in

precedenza, quando aveva fornito quella che riteneva essere una prova a priori dell’unità di Dio.

Limborch ne aveva discusso con qualcuno che tuttavia non era rimasto soddisfatto della risposta:

esigeva una previa dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio dalla quale dedurne poi l’unità.

Ma per Locke l’esistenza di Dio era data come evidente – tanto più che ne aveva ampiamente

discusso nel Saggio – e dai suoi attributi era dedotta l’unità. In questa sua terza lettera, pertanto, il

filosofo non offre alcunché di inedito ma ribadisce un punto di grande importanza, e cioè la

convinzione che a partire dalla riflessione su se stessi si possa giungere senza impedimenti

all’esistenza di Dio e alla sua intelligenza:

Io credo che chiunque rifletterà su se stesso, conoscerà senza dubbio alcuno che esiste in eterno un essere intelligente. Io credo inoltre che è evidente a chi pensi, che esiste anche un essere infinito185.

Da questo punto si giunge anche all’unità di Dio e alla sua eternità:

Ora, io dico che non vi può essere che un solo essere infinito, e che questo essere infinito dovrà essere al tempo stesso eterno, perché ciò che è infinito deve necessariamente essere infinito per l’eternità186.

***

Massimo Firpo ha affrontato la questione dei contatti di Locke con la cultura sociniana in un

dettagliato contributo del 1980187, nel quale il problema del rapporto tra Locke, la tradizione

sociniana e l’unitarismo inglese è letto nell’ambito dei dibattiti religiosi della fine del Seicento.

In un saggio precedente lo studioso aveva messo a fuoco i due problemi attorno ai quali si erano

concentrate le ricerche sul socinianesimo del XVII secolo: l’elaborazione sempre più articolata di

183 Ivi, p. 413. 184 Cfr. Corr., n. 2443, VI, pp. 405-406; trad. it. Terza lettera di Locke a Limborch, in Sulla tolleranza e l’unità di Dio, cit., pp. 416 – 419. 185 Terza lettera di Locke a Limborch, in Sulla tolleranza e l’unità di Dio, cit., p. 419. 186 Ibid. (corsivo mio). 187 M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., pp. 35- 124.

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una dottrina della tolleranza religiosa e la definizione di un razionalismo religioso che troverà

espressione nella Religio rationalis di Andrzej Wiszowaty del 1684188.

Firpo sviluppa questa volta la sua analisi a partire dagli studi del polacco Zbigniew Ogonowski il

quale, nel cogliere importanti analogie tra i presupposti intellettuali e metodologici del maturo

socinianesimo - la centralità della ragione in ambito religioso, in particolare - e i tratti centrali

della filosofia lockiana così come espressa nel libro quarto del Saggio189, ha fornito un contributo

allo studio del ruolo del socinianesimo alle origini del deismo. Ogonowski concluse tuttavia che

Locke non era sociniano, sebbene avesse simpatizzato con il socinianesimo, né tanto meno egli

poteva essere accostato al radicalismo dei free-thinkers190.

Dopo aver precisato che per Locke «l’assenso alla rivelazione non rientra nell’ambito della vera e

propria “knowledge”, bensì in quello del “judgement”»191, Firpo, seguendo il catalogo di Harrison e

Laslett, segnala che nella biblioteca del filosofo inglese erano presenti l’Opera omnia del 1656 di

Fausto Socino, le opere di Johann Crell, di Samuel Crell, di Johann Volkel (da cui il filosofo trasse

appunti manoscritti) e di Andrzej Wiszowaty192.

Quanto all’opzione religiosa del filosofo inglese, viene ricordato che questi «ufficialmente negò

sempre, respingendo fermamente ogni accusa in questo senso, non solo di essere in qualche modo

vicino ai sociniani, ma addirittura ogni diretta conoscenza del pensiero dei teologi racoviani»193, le

opere dei quali, in entrambe le Vindications, egli negò di conoscere194.

Un importante punto di vicinanza tra Locke e i sociniani viene individuato da Massimo Firpo

nella rivalutazione delle opere ai fini della salvezza - in rottura con le chiese riformate e

direttamente ricondotta alla negazione del dogma dell’espiazione vicaria di Cristo - contenuta nel

De Iesu Christo servatore di Socino, opera del 1578. Il rifiuto della giustificazione per fede, di

conseguenza, si accompagnava ad una rivalutazione del valore salvifico delle opere umane e finiva

per estendere la possibilità della salvezza anche a coloro che non avevano potuto conoscere il

Vangelo:

Occorre sottolineare con forza questo punto […] che in nessun modo può essere inteso come un riavvicinamento alla dottrina cattolica, ma che si configura piuttosto come una ripresa di temi e riflessioni teologiche che si erano espresse

188 Cfr. M. Firpo, Il rapporto tra socinianesimo e primo deismo inglese negli studi di uno storico polacco, in «Critica storica», 10 (1973), pp. 243-297. 189 Cfr. Saggio, IV, XVIII. 190 Cfr. M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., p. 41. 191 Ivi, p. 40. 192 Cfr. ivi, p. 49. 193 Ivi, p. 51. 194 Cfr. VRC, p. 219; p. 449. Cfr. anche SV, p. 181.

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con vigore nei movimenti ereticali dell’Europa cinquecentesca, per trovare poi compiuta espressione nella tradizione sociniana195.

Firpo, in particolare, distingue l’atteggiamento verso i deisti da quello nei confronti dei sociniani.

Nel primo caso si può parlare di una presa di distanza di Locke rispetto al Toland e più in generale

rispetto ai deisti, ai quali la Ragionevolezza – come si è visto - era indirizzata196; nel secondo

«sarebbe difficile riscontrare elementi di un possibile dissenso di qualche rilievo»197. Locke avrebbe

prestato attenzione alla concreta dimensione storica e all’immagine complessa del socinianesimo,

senza tuttavia perdere di vista l’avversione di cui esso era fatto oggetto:

Scorrendo la folta letteratura antisociniana del tempo, risulta chiaro che ciò che destava i timori e il coro di preoccupate denunce da parte di tanti dottori e prelati anglicani e ne ispirava gli innumerevoli scritti, era quello che a molti appariva come un vero e proprio dilagare dell’ateismo, del libertinismo, del deismo, di uno spirito violentemente anticristiano,

che sembrava voler travolgere le più venerande dottrine e istituzioni198.

E la dimensione politica era profondamente legata a quella religiosa, se John Toland, autore di

quello che è considerato il manifesto del deismo inglese199, era definito «republican atheist» e

«ennemi de Dieu et de l’Etat»200. Locke, pertanto, avrebbe avuto l’obiettivo «di liberare l’originaria

purezza e semplicità del cristianesimo dalle incrostazioni dogmatiche», anche se «le profonde

radici dell’unitarismo nel mondo ereticale cinquecentesco, la sua precisa fisionomia teologica e

financo confessionale, assumevano una connotazione negativa»201 ai suoi occhi. Al settarismo tanto

detestato insomma il socinianesimo non era estraneo – e Locke lo nota nella Epistola de

tolerantia202 e nella Second Vindication203- e tanto bastava per distaccarsene.

Firpo sottolinea questa dissociazione da parte di Locke attribuendola a «ragioni non meramente

prudenziali» e concludendo che, se i sociniani venivano accostati ad altre sette, e per Locke il

settarismo era esattamente il problema da risolvere, l’ostacolo al recupero dello spirito originario

del Vangelo, allora si comprende anche la sua «costante dissociazione dagli antitrinitari»204.

195 M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., p. 53. 196 Cfr. ivi, p. 91. 197 Ibid. 198 Ivi, pp. 93-94. 199 J. Toland, Christianity not Mysterious: or a Treatise shewing That there is nothing in the Gospel Contrary to Reason, nor Above it: and that no Christian Doctrine can be properly call’s a Mystery, London, 1696; trad. it. Il cristianesimo senza misteri, in J. Toland, Opere, a c. di C. Giuntini, Utet, Torino 2011, pp. 93 – 187. 200 G. Carabelli, Tolandiana: materiali bibliografici per lo studio dell’opera e della fortuna di John Toland, La Nuova Italia, Firenze 1975, pp. 144, 149; cit. in M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., p. 100. 201 M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., p. 111. 202 LT, p. 177, dove i sociniani compaiono, come un’altra denominazione cristiana, insieme a rimostranti, antirimostranti, luterani e anabattisti; mentre non compaiono nella Letter in lingua inglese curata da Popple. 203 Cfr. SV, p. 177. 204 Cfr. M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., pp. 112-13.

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Lo studioso ritiene quindi che il semplice silenzio di Locke sulla Trinità, o un possibile rifiuto del

dogma, non siano prova sufficiente di una sua appartenenza sociniana: «anche se esistono pochi

dubbi sul fatto che Locke fosse personalmente convinto dell’assurdità della dottrina trinitaria […]

non per questo può essere definito un antitrinitario o un unitariano»205, per concludere che

«sarebbe una rischiosa e arbitraria semplificazione voler imporre al pensiero religioso di Locke –

come a quelli del suo amico Newton – i panni stretti e riduttivi di una specifica ortodossia

teologica o confessionale»206.

Decisamente meno articolata l’interpretazione di Maurice Cranston, secondo il quale Locke non

desiderava l’appellativo di unitariano o sociniano e «and so he managed to persuade himself that

he was not a Unitarian or Socinian»207. Il risultato è stato che «The Reasonableness of Christianity

is a Unitarian or Socinian book in everything but name, and it is, in a way, odd that Locke, who

was so scrupulous about the proper usage of words, should have failed to admit it»208.

Anche ad avviso di McLachlan vi sarebbero alcuni motivi per sospettare dell’ortodossia di Locke;

per lo studioso infatti Locke era ariano209.

Le ragioni che portano ad associarlo all’unitarianismo possono essere molteplici. In primo luogo,

la simpatia verso quel movimento che predicava l’inclusione dei dissenzienti nella Chiesa, una

politica che implicava la riduzione dei testi dottrinali (favorita anche da alcuni vescovi) e che

costituiva l’obiettivo degli autori dei trattati unitariani. Un’inclusione che, mostrandosi

impraticabile, lasciò il posto alla semplice tolleranza del dissenso210.

In secondo luogo, vi è da considerare l’invito nei testi degli unitariani allo studio delle Scritture,

presentato come dovere del cristiano. La sintonia tra Locke e gli unitariani era ravvisabile, secondo

McLachlan, nell’uso da parte di questi ultimi della critica testuale, nella loro interpretazione

dell’Antico Testamento e nella esegesi del Nuovo211, come pure nella loro richiesta di tolleranza,

nell’enfasi sul profilo morale rispetto a quello speculativo, nel rifiuto del sacramentalismo e nella

concezione dei Trentanove Articoli212.

Un ulteriore elemento da considerare era la familiarità di Locke con noti unitariani, tra i quali lo

scienziato Isaac Newton e Thomas Firmin, un mercante non un uomo di lettere, promotore dei

205 Ivi, p. 114. 206 Ibid. 207 M. Cranston, John Locke: A Biography, cit., p. 390. 208 Ibid. 209 Cfr. RO, pp. 100 -107. 210 Cfr. RO, p. 84. 211 Cfr. RO, pp. 85-87. 212 Cfr. RO, pp. 84-85.

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trattati unitariani, il quale esercitò un influsso sullo sviluppo della teologia lockiana213. Firmin, i

cui interessi religiosi gli valsero persino l’ammirazione dell’arcivescovo Tillotson, godeva

dell’amicizia di diversi teologi anglicani e si sforzò di creare delle confraternite all’interno della

Chiesa ufficiale per diffondere i testi unitariani, ma senza successo. Tuttavia, benché in

considerazione di questi elementi, la conclusione di McLachlan è la seguente:

nonostante la quasi certa conoscenza da parte di Locke di alcuni di questi trattati [unitariani] e dei loro autori, la sua inclusione tra di essi è una tradizione che deve essere rigettata come non credibile 214.

La ragione principale che portava a vedere in Locke un sostenitore dell’unitarianismo era infatti

riconducibile alla possibilità che egli fosse autore di alcuni trattati unitariani215.

Richard Aaron ritiene che Locke non facesse parte degli unitariani né dei deisti, perché nelle

Vindications rivolte a Edwards egli aveva affermato di non essere sociniano e di non negare la

divinità di Cristo; egli inoltre credeva nella nascita verginale di Gesù (come afferma nella

Ragionevolezza) e nella sua risurrezione dalla morte, come pure nei miracoli che ne confermavano

l’autorità216. Il tratto che Aaron ritrova inoltre in Locke è piuttosto il riconoscimento, anche in

ambito religioso, di un sentimento (feeling) e di una intuizione (intuition) di Dio, vicina alla

conoscenza del cuore di Pascal, che si aggiungono alla ragione217, concludendo che «Locke si

distingue da deisti e unitariani non perché la sua fede nella ragione sia inferiore alla loro, ma

perché egli non pone la sua fede nella sola ragione»218.

McLachlan, che trova non soddisfacenti gli argomenti di Aaron, rimprovera a questi una

mancata familiarità con la storia dell’unitarianismo inglese, il quale non era affatto omogeneo al

suo interno, e la non corretta sovrapposizione di quello del XVII secolo con quello del XX.

McLachlan ricorda inoltre che neppure i sociniani europei dei secoli XVI e XVII rifiutavano gli

articoli di fede enumerati da Aaron e creduti da Locke, ma sottolinea che gli autori dei trattati

unitariani non erano affatto concordi su tutti i punti.

L’errore principale di Aaron sarebbe stata insomma l’identificazione di unitarismo e socianesimo,

quando invece quest’ultimo è soltanto una delle sue tre declinazioni, insieme al sabellianismo219 e

213 Cfr. R. Aaron, John Locke, cit., p. 298. 214 RO, p. 87 (trad. mia). 215 Cfr. RO, pp. 87-88. 216 Cfr. R. Aaron, John Locke, cit., pp. 299-301. 217 Cfr. ivi, p. 300. 218 Ibid. (trad. mia). 219 Il sabellianesimo, come ricorda anche il vescovo Stillingfleet, fu condannato come eresia contraria alla dottrina della Trinità. Tale dottrina rifiutava in particolare la comunicazione della divinità dal Padre al Figlio e da entrambi allo Spirito. Cfr. E. Stillingfleet, A Discourse in Vindication of the Doctrine of the Trinity: with An Answer to the Late Socinian Objections against it from Scripture, Antiquity and Reason. And a Preface concerning the Different

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all’arianesimo. A giudizio di McLachlan non sarebbe possibile ricondurre Locke al socinianesimo

non per una sua reale ortodossia, o perché sabelliano come Stephen Nye, ma perché egli avrebbe

professato l’arianesimo come Samuel Clarke220.

Locke sarebbe stato dunque un unitariano, per quanto cauto e conservatore, e precisamente un

ariano, anche se membro della Chiesa di Inghilterra221. Ciò che lo accomunava agli autori dei

trattati unitariani era la centralità assegnata all’analisi razionale della Scrittura, l’accettazione del

Credo apostolico e la professione di appartenenza alla Chiesa di Inghilterra. Inoltre il metodo

utilizzato da Locke nello studio della Scrittura è stato particolarmente importante per aver

inaugurato una forma interpretativa alla luce della critica storica - attraverso il processo logico che,

nel Saggio, veniva posto alla base di ogni interpretazione - seguita da altri studiosi unitariani.

La novità del metodo lockiano risiedeva nel principio della moderna scienza teologica biblica che

distingueva le parti del Nuovo Testamento e sostituiva all'arbitrarietà del metodo allegorico il

metodo scientifico della critica storica.

Quanto allo Spirito Santo e ai miracoli, McLachlan ricorda che Locke parlava di Holy Spirit e ne

riconosceva l’azione, ma senza accennare ad una personalità distinta dal Padre, mentre riteneva

che i miracoli dovessero essere giudicati dalla dottrina e non questa dai miracoli222.

Un’altra lettura è stata avanzata da Diego Marconi, il quale, con particolare riferimento alla

Terza Lettera sulla tolleranza, vede in Locke «un’intonazione deistica» quando «sembra suggerire

che le soprastrutture dottrinali e liturgiche che le diverse chiese aggiungono all’essenza del

Cristianesimo siano istituite “dall’interesse e dalla furberia politica di uomini intriganti”»223 e rileva

che, a giudizio del filosofo, l’intervento politico in ambito religioso «è sempre andato a danno della

vera religione»224. Per Marconi tuttavia Locke «non fu mai, neanche dopo il ’90, un ateo o un

deista»: lo studioso dà per indiscussa la fede cristiana del filosofo, anche se lo considera

«precisamente un sociniano»225.

La lettura di Marconi si fonda principalmente sull’interpretazione lockiana del testo sacro, la

quale sarebbe stata finalizzata «a cogliere la sostanziale identità dell’autentico Cristianesimo con la

religione conforme a ragione», e questo richiedeva l’individuazione di «quell’insieme (ristretto) di

Explications of the Trinity, and the Tendency of the Present Socinian Controversy [J.H. for Henry Mortlock, London 1697]; riedito: The Philosophy of Edward Stillingfleet, I-VI, ed. G.A.J. Rogers,Thoemmes, Bristol 1999, IV, p. xxii [d’ora in avanti DVT seguito dal numero di pagina]. 220 Cfr. RO, pp. 90-91. 221 Cfr. RO, p. 107. 222 Cfr. RO, p. 97. 223 D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., p. 67. 224 Ibid. 225 Ivi, p. 70.

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precetti morali e di verità teologiche che sono sicuramente documentabili sulla base della

Scrittura, in contrapposizione alle molte proposizioni che costituiscono il Cristianesimo delle

chiese, senza essere asserite esplicitamente nella Rivelazione»226. Sulla base di tale criterio - ritiene

Marconi - in assenza del dogma della Trinità «tra queste verità documentate» si deve pensare ad un

Locke «a-trinitario», o meglio, si deve ritenere che «il suo razionalismo lo fece propendere per

l’antitrinitarismo»227.

Secondo Mario Sina,,,, «questa insistenza di Locke a distinguere l’essenziale dall’inessenziale nel

credo cristiano, a negare cioè che i vari articoli di fede “are of equal necessity to be believed to

make a Man a Christian”228 e ad affermare essenziale elemento di fede solamente ciò che “is easie

to be understood by all Men”229, non è necessariamente indice di una matrice sociniana della sua

opera»230.

Anche con riferimento alla polemica con Stillingfleet, e all’accusa di negazione del dogma

trinitario, lo studioso ricorda che Locke «non era giunto esplicitamente»231 ad essa e che rimaneva

responsabilità di Toland «l’utilizzazione in senso antitrinitario della dottrina gnoseologica

lockiana»232.

Sina preferisce inquadrare la difesa lockiana del cristianesimo in un quadro più ampio di

razionalismo, parlando solo di «eventuali concessioni implicite alla dottrina sociniana» e di

«possibili aperture alle istanze deistiche»233; concludendo che la mancata presa di posizione del

filosofo a favore del dogma trinitario non «può autorizzare l’accusa della sua simpatia sociniana»234.

Seguendo questa traccia interpretativa si potrebbe arrivare a salvare anche la sincerità della

negazione, da parte di Locke, di conoscere le opere sociniane, dal momento che questa «potrebbe

essere affermata a livello di una non completa adesione del Nostro all’intero arco delle dottrine

sociniane e ad una forma di particolare razionalismo che stava a sostegno del socinianesimo»235.

Sulla medesima linea, anche se con una posizione meno sfumata, Victor Nuovo, secondo il quale

l’accusa di socinianesimo rivolta a Locke è falsa236, almeno quanto l’interpretazione che Edwards

fornì della Ragionevolezza, e non vi è prova alcuna che l’autore di questa intendesse diffondere le

226 Ibid. (corsivo nel testo). 227 Ibid. 228 VRC, p. 222. 229 Ibid. 230 M. Sina, L’avvento della ragione, cit., p. 401. 231 Ivi, p. 410. 232 Ibid. 233 Ivi, p. 413. 234 Ivi, p. 416. 235 Ivi, p. 422. 236 Cfr. V. Nuovo, Introduction, WR, p. li.

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dottrine sociniane237. Nuovo riconosce che Locke mentiva quando affermava di non conoscere la

letteratura sociniana e di non avere familiarità con la relativa interpretazione della Bibbia; osserva

che effettivamente il filosofo mise da parte l’idea dell’espiazione-soddisfazione operata da Cristo e,

nel complesso, giudica la sua replica ad Edwards evasiva, aggiungendo però che «Locke non aveva

altra scelta che essere evasivo»238.

Carlo Augusto Viano riconosce che «le proteste di Locke sono credibili nella misura in cui egli

rifiuta un’adesione dogmatica al socinianesimo», ma al tempo stesso rileva che «le idee sociniane

sono largamente presenti in The Reasonableness of Christianity»239. Una prima analogia si ritrova

nell’ interpretazione di tutto l’impianto fondamentale della redenzione, a cominciare dai contenuti

relativi alla condizione di immortalità originaria dell’uomo passando per l’interpretazione del

peccato originale, della giustificazione per fede e del valore delle opere. Ma si trattava anche di una

“analogia di metodo”, se si tiene conto del fatto che «Socino e i suoi seguaci avevano appunto

dichiarato di volersi attenere alla lettura oggettiva del testo sacro, che può essere condotta soltanto

dalla ragione»240.

Ciò che avvicinava Socino e il filosofo inglese, secondo Viano, era l’idea che la ragione non

dovesse sostituirsi alla rivelazione, ma che per mezzo di essa occorresse risalire al contenuto

autentico e genuino della Scrittura. Anche se Socino aveva difeso la dipendenza della moralità

dalla volontà divina, e negato che la ragione da sola fosse in grado di conoscere le verità religiose

fondamentali, fu inevitabile per i sociniani l’accusa di voler razionalizzare la rivelazione, tendenza

che invece, secondo Viano, era propria dei rimostranti e di Limborch in particolare. A questi

infatti deve essere attribuita una lettura radicalmente razionale del cristianesimo: «Non solo la

Bibbia va letta al lume della ragione, ma questa è l’unica lettura adatta allo spirito della

Scrittura»241. E sarebbe stata questa posizione, secondo lo studioso, ad aver avuto il maggiore

influsso su Locke, la cui Ragionevolezza avrebbe proseguito nel tentativo di mostrare che «il

cristianesimo può essere considerato come una restituzione dei valori della ragione»242, o se si

preferisce, una «liberazione della ragione umana»243.

Leggendo la maturazione del pensiero religioso lockiano in relazione ai difficili decenni della

restaurazione inglese e del proliferare del settarismo, come pure all’affermarsi di

237 Cfr. ivi, pp. li-lii. 238 Ivi, p. lii (trad. mia). 239 C.A.Viano John Locke. Dal razionalismo all’illuminismo, cit., pp. 376. 240 Ibid. 241 Ivi, p. 379. 242 Ivi, p. 380 243 Ibid.

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quell’anglicanesimo liberale al quale lo stesso Locke contribuì, Viano non ne scarta tuttavia un

possibile collegamento con il sorgente deismo, ritenendo che da questo Locke avrebbe ricevuto

«un tema fondamentale: la polemica anticlericale fondata sull’interpretazione politica del potere

dei sacerdoti»244. Lo studioso ammette però che «la funzione politica che il cristianesimo può

esplicare è nettamente diversa in Locke e nel deismo»245.

John Marshall ha dedicato uno studio accurato all’argomento del sospetto socinianesimo del

filosofo inglese, approfondendo differenti questioni alla luce del vasto repertorio bibliografico di

Locke246. Anche Marshall fa notare, come in precedenza McLachlan, che verso la fine del secolo

tendevano a sovrapporsi le posizioni dei sociniani veri e propri – i seguaci di Socino che ritenevano

Cristo un profeta divinamente ispirato e non una persona coeterna e consostanziale al Padre -,

quelle di coloro che con Ario non ritenevano Cristo una persona coeterna e consostanziale della

Trinità, ma la prima creatura creata – e quelle di coloro che ponevano l’accento sulla superiorità di

Dio Padre e la subordinazione di Gesù Cristo e dello Spirito Santo, pur resistendo alle posizioni del

socinianesimo o dell'arianesimo247. Inoltre questi ultimi condividevano le posizioni di Socino o di

Ario, ma le combinavano con elementi della Patristica o del pensiero arminiano, così da rigettare

altri elementi importanti delle loro dottrine. Per queste ragioni prendevano il nome di unitariani

(o unitari), e non di sociniani e ariani.

Marshall – che tiene ben presente l’avversione di Locke per la teologia sistematica e il

dogmatismo, come pure la sua predilezione per l’interpretazione individuale e ragionata delle

Scritture248 - ricorda che l'accusa di socinianesimo era una delle più frequenti nel XVII secolo ed

era impiegata per relegare molti pensatori nell'eresia. Come altri latitudinari, Locke avrebbe

scontato il sospetto sull’enfasi del libero volere, unita a quella sul ruolo e le capacità della ragione,

sull’etica o sul bisogno di una fede pratica, in contrasto con l’accento calvinista sulla depravazione

ereditaria dell'uomo o con la giustificazione attraverso la fede prima che con le opere. In questo

senso, dottrine come quella trinitaria finivano per essere irrilevanti249.

Ma due aspetti, in particolare, potrebbero rivelare secondo Marshall una possibile vicinanza del

filosofo inglese al socinianesimo: il mancato riferimento - nella Ragionevolezza - alla distruzione

del peccato operata da Cristo, nell’ambito della discussione circa i vantaggi della sua venuta, e la

possibilità che Locke non credesse nella Trinità. I suoi accusatori ritenevano che, per il filosofo 244 Ivi, p. 385. 245 Ivi, p. 386. 246 Cfr. J. Marshall, Locke, Socinianism, “Socinianism” and Unitarianism, cit., pp. 111- 182. 247 Cfr. ivi, p. 113. 248 Cfr. ivi, p. 116. 249 Cfr. ivi, p. 112.

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whig, Cristo non fosse una persona coeterna e consostanziale al Padre, ma un profeta divinamente

ispirato venuto ad insegnare la moralità e a presentare incentivi per la sua pratica250.

Nel suo saggio Marshall combina un’indagine dei manoscritti lockiani - redatti nel periodo di

composizione delle sue opere teologiche più importanti, che rinviano ad una considerazione

estensiva del pensiero unitariano - con l’esame dell’amicizia con unitariani quali Firmin, Newton e

Popple, prestando inoltre attenzione all'analisi di opere unitariane, del loro tono generale, come

anche dei silenzi e delle omissioni negli scritti editi di Locke.

Il tentativo di Marshall, secondo cui Locke era in molte delle sue posizioni, omissioni e

definizioni di voci essenziali del cristianesimo, ampiamente sociniano251, è di individuare i tratti

essenziali di una personalità eclettica, dalla quale emergerebbe «his position between Socinianism

and Arminianism» e «his probabile private Unitarianism, serious consideration of unitarian

thought» 252.

Marshall osserva che gli appunti di Locke del 1679 suggeriscono che egli avesse già una buona

conoscenza del pensiero ariano, e che una volta tornato in Inghilterra dal suo soggiorno in Francia

cominciò a studiare all’inizio degli anni Ottanta opere di critica biblica e sulla patristica, testi di

Isaac Vossius e dei Padri della Chiesa253, insieme a opere unitariane. Già nel 1680 sono registrate

un buon numero di opere sociniane, incluso il Catechismo racoviano e diverse opere di John

Biddle, il padre dell’unitarianismo inglese. Secondo i sociniani la Trinità era diventata una dottrina

cristiana solo attraverso la lettura patristica delle Scritture, le quali invece indicavano Dio Padre

superiore e precedente al Figlio e allo Spirito Santo. È dunque possibile che Locke avesse

cominciato a dubitare della Trinità, o che fosse diventato antitrinitario, negli anni

immediatamente precedenti al 1683254.

Da una rassegna delle opere del filosofo si evince che molte di quelle in suo possesso erano di

ispirazione unitariana, e i manoscritti rivelano che intorno alla metà del 1690 egli stesse leggendo

un buon numero di testi unitariani.

Al 1694 risale Adversaria theologica255, un elenco di temi cristiani – quali Deus, Spiritus, Anima

humana, Christus, Spiritus Sanctus - che Locke considerò nelle loro articolazioni e secondo una

250 Ibid. 251 Ivi, p. 116. 252 Ivi, p. 117. 253 Cfr. RRR, p. 139. 254 Cfr. RRR, p. 140. 255 Si tratta, come si è visto, di appunti rinvenuti da Lord King e da lui pubblicati in The Life of John Locke, con il titolo (attribuito dallo stesso Locke) di Adversaria Theologica. Due sono le parti maggiormente interessanti ai fini dell’attendibilità dell’accusa di socinianesimo nei confronti di Locke: quella relativa alla Trinità e quella sulla natura

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doppia prospettiva, quella di argomenti a favore e contrari. Marshall interpreta le voci presenti in

Adversaria teologica256, scritto che potrebbe aver avuto un scopo preparatorio rispetto al progetto

della Ragionevolezza, come prova della preferenza di Locke per il socinianesimo257. Più in

generale, lo studioso tiene conto delle letture, delle amicizie e della corrispondenza del filosofo,

come pure di una mancata esplicita professione di fede nella Trinità e di una serie di posizioni su

questioni come l'espiazione e il peccato originale, per sostenere che sono sufficienti «to suggest

that Locke was probably unitarian personally» 258. È tuttavia lasciata aperta la possibilità che «that

Locke was personally still trinitarian but considered the Trinity non –essential»259.

Con riferimento a Trinitas, Locke cita ad esempio quattro luoghi nei quali a Dio è riferito il

plurale (Gn 1, 26; 3, 22; 11, 6-7; Isaia 6, 8) mentre cita numerosi luoghi del Nuovo Testamento

sotto la voce Non Trinitas (Lc 1, 32, 35; Mc 12, 29; Gv, 17,3; 1 Cor 8, 5, 6; Gv 8, 54)260.

Con riferimento alla voce: Christus Deus Supremus – Christus non Deus supremus, Locke elenca

nel primo caso solo tre prove a favore (espiazione dei peccati; Isaia 9, 6; Rm 9, 5) mentre nel

secondo - che distingue il Figlio dal Padre e nega al Figlio la consustanzialità con Padre - sono

elencati riferimenti molto più numerosi (Gv 5, 22-23; Gv 5, 1; Lc 1, 32; Gv 14, 38; 1 Cor 8, 6; ecc).

Cristo è il Messia e la Trinità potrebbe essere apparsa a Locke come un dogma contrario alla stessa

evidenza della Scrittura261.

A tali ipotesi avanzate da Marshall ha replicato Victor Nuovo, secondo il quale Locke non

limitava le sue scelte alle dottrine ortodosse o sociniane; inoltre almeno in un caso, quanto alla

preesistenza di Cristo, egli sembra aver chiaramente rifiutato la posizione sociniana. Locke

abbandonò comunque Adversaria theologica dopo averne compilato alcune voci, e cominciò a

lavorare alla Ragionevolezza262. Anche Montuori ha osservato a tal proposito che

Di questi appunti, di questa accurata indagine testamentaria da cui esce confermata la tesi dell’unità di Dio, in cui pure doveva coerentemente concludere il discorso sulla natura del Cristo, non c’è più traccia nella Reasonableness. Questa suppone o sottintende l’Unità: si ferma alla riduzione di Cristo al Messia, ma non va oltre, evitando così di mettere in discussione il dogma della Trinità il cui assenso […] era richiesto per legge 263.

divina di Cristo. Le singole voci raccolgono gli argomenti secondo lo schema binario di tesi e antitesi. Adversaria theologica, in P. King, The Life of John Locke, cit., II, pp. 186-194; riedito in WR, pp. 19-33. 256 Si veda inoltre: V. Nuovo, Locke’s theology (1694-1704), in M.A. Stewart (ed.), English Philosophy in the Age of Locke, cit., pp. 183-215. 257 Cfr. RRR, pp. 329 ss. 258 J. Marshall, Locke, Socinianism, “Socinianism” and Unitarianism, cit., p. 178. 259 Ivi, p. 179. 260 Cfr. Adversaria Theologica, in WR, p. 24 ; RO, p. 105. 261 Cfr. Adversaria Theologica , cit., p. 25. 262 Cfr. V. Nuovo, Locke’s Theology (1694-1704), cit., pp. 190-191. 263 M. Montuori, Introduzione, Tre lettere di Locke a Limborch sull’unità di Dio, cit., p. 376.

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Quanto alla venuta di Cristo, sotto la voce Satisfactio Christi [Aff.] Locke non elencò argomenti,

mentre ne enumerò diversi per la tesi contraria: Satisfactio Christi [Neg.], secondo cui Cristo non

aveva sconfitto il peccato dell'uomo nel senso di un «full & adeguate payment to the justice of

God», quanto di un «voluntary expiatory sacrifice […] an oblation or application to the mercy of

god»264. E per tale ragione è detto nelle Scritture «that god forgives to us our sins; & not that he

received a Satisfaction, or an equivalent for them»265.

Una voce, in particolare, potrebbe suggerire una credenza lockiana nella preesistenza di Cristo.

Locke pose le sue iniziali sotto il lemma Christus non merus homo266, citando la prima Lettera di

Pietro (1, 11), dove è detto che lo Spirito di Cristo era negli antichi profeti, mentre elenca una serie

di citazioni sotto Christus merus homo267, come il passo della prima Lettera a Timoteo nel quale è

detto che «Uno solo è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù »

(1 Tm 2,5). Marshall ipotizza che potrebbe trattarsi di una lettura "ariana" di Cristo come pre-

esistente ma creato; o di una simile ad altri tipi di letture antitrinitarie. Resta comunque difficile

interpretarne il significato.

Marshall fonda la sua interpretazione sul fatto che la maggior parte delle opere citate da Locke, a

parte le Scritture, erano sociniane ed unitariane, e su altri fatti che considera pertinenti; come ad

esempio il fatto che, quando scrisse queste voci, Locke cominciò ad acquistare molti testi sociniani

per la sua biblioteca e doveva certamente averli letti.

Inoltre un riferimento di Locke alla pienezza di Dio che dimorava nel corpo del Salvatore, come

ad indicare la presenza dello spirito di Dio e non una natura divina, e la descrizione dell'assistenza

di questo spirito268, fa ritenere probabile allo studioso che Locke non credesse nella Trinità269. A

Accanto alle tesi di Marshall, e in precedenza di Montuori, va però considerato l’Essay on

Infallibility del 1661, testo nel quale Locke, riferendosi ai misteri divini che sorpassano l’umano

intelletto presenti nella Scrittura, avvertiva che chi avesse cercato di spiegare la Trinità con parole

differenti avrebbe finito soltanto per aumentarne l’oscurità, suggerendo quindi di credere in essa

pur non comprendendone il mistero e attaccando coloro che tentavano di spiegare la natura di

Dio270.

264 Adversaria Theologica, cit., p. 32. 265 Ibid. 266 Cfr. ivi, p. 27. Solo occasionalmente nei suoi libri Locke pone le sue iniziali alla fine di una nota, una indicazione per dire che egli stesso - e non un libro o un’altra persona – ne era la fonte. 267 Cfr. ivi, p. 26. 268 Si tratta di una nota manoscritta, Ms. Locke f. 30, fo. 42 r, cit. da John Marshall in Locke, Socinianism, “Socinianism” and Unitarianism, cit., p. 131. Cfr. anche RRR, p. 341. 269 J. Marshall, Locke, Socinianism, “Socinianism” and Unitarianism, cit., p. 131. 270 Cfr. Essay on Infallibility [1661], cit., in WR, pp. 69-72, qui 71.

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Marshall - il quale riconosce comunque l’assenza di un'esplicita negazione della Trinità da parte

di Locke, e quindi l’impossibilità di dimostrare che egli fosse unitariano - ipotizza che nell'ottobre

del 1694, prima di cominciare la Ragionevolezza, Locke avrebbe potuto ritenere che la dottrina

della Trinità non fosse espressa con chiarezza nelle Scritture e che pertanto non era parte della

semplice verità del Vangelo. Un desiderio irenico di spegnere la controversia potrebbe essergli

stato suggerito anche da un anonimo manoscritto ricevuto da Locke nel 1693, nel quale si

suggeriva che gli uomini non erano obbligati a conoscere o credere tutte le verità di fede271.

Vi sono tuttavia delle modalità secondo Marshall attraverso le quali, tra il 1679 e il 1683, il

pensiero di Locke – che continuò a studiare teologia durante l’esilio olandese - potrebbe venire

accostato al socinianesimo: esse non sono prova di una fede sociniana ma possono indicare che il

pensiero sociniano potrebbe aver influenzato Locke in modo significativo e che il filosofo potrebbe

aver compreso se stesso, in quegli anni, in relazione al socinianesimo piuttosto che ad altre

posizioni teologiche.

Con riferimento ai Due Trattati, Locke interpreta il brano di Genesi dove si fa riferimento al

peccato originale in un modo che si allontanava ad esempio dalla tradizione, sostenendo che le

parole usate per Adamo come singolo non dovevano essere applicate all'umanità come se egli ne

fosse rappresentante. Una tale interpretazione poteva in effetti implicare «che Locke si fosse mosso

verso un effettivo socinianesimo che considerava gli uomini peccatori a causa delle proprie azioni,

scelte, influenze ambientali e abitudini, e non a causa di una necessità di peccare, o propensione a

peccare, derivante da Adamo»272. E una visione sociniana degli effetti della Caduta potrebbe aver

contribuito a far maturare in Locke l’opposizione al governo assoluto, ritenuto da alcuni necessario

per costringere l'umanità ribelle e peccatrice273.

Quanto alla negazione – presente nella Ragionevolezza - di qualsiasi corruzione della natura

umana ereditata da Adamo, Marshall sottolinea che Locke in questo era certamente vicino al

socinianesimo. Discutendo dei vantaggi della venuta di Cristo, egli aveva taciuto circa l’espiazione

operata da Cristo e la sua opera professava un credo minimo che in un linguaggio non trinitario

richiedeva di credere solo che Gesù fosse il Messia274. Tuttavia Marshall, che pone l’accento sulla

capacità di Locke di impiegare una fraseologia in grado di sostenere sia la spiegazione unitaria che

quella trinitaria, ammette che dai manoscritti del filosofo non è possibile affermare che

l’antitrinitarismo avesse ispirato la sua opera sul cristianesimo, pur avendo Locke evitato di

271 Cfr. J. Marshall, Locke, Socinianism, “Socinianism” and Unitarianism, cit., pp. 138-139. 272 Ivi, p. 147 (trad. mia). 273 Ibid. 274 Cfr. ivi, pp. 162-164.

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presentare il messaggio trinitario come il tema centrale del Vangelo di Giovanni275. Il suo intento

sarebbe stato piuttosto quello di sottrarre attenzione alla questione della Trinità e di impegnarsi a

favore di un credo comune: «Trovare una base sulla quale i cristiani potessero accordarsi -

attraverso l'argomento in base al quale vi erano legittime differenze di opinione su molte questioni

religiose e l'accettazione pacifica delle differenze era essenziale, opponendosi a spiegazioni imposte

da qualsiasi setta - era la questione centrale per Locke»276. Semplicemente Locke non pensava che

si potessero catalogare le verità fondamentali o che qualcuno potesse dire ad un altro che cosa era

necessario credere.

Infine Marshall richiama una nota di carattere teologico della Parafrasi sulla Lettera agli Efesini

(1,10), la sola nella quale si fa riferimento alla preesistenza di Cristo – particolarmente importante

considerata l'enfasi di Locke nel parlare di Cristo come Messia non implicandone la preesistenza -

dove il filosofo suggeriva che le Scritture mostravano che «Cristo aveva il governo e la supremazia

su tutto, ed era a capo di tutto», il che potrebbe suggerire che egli credesse nella sua pre-

esistenza277. Si tratterebbe, in questo caso, di una visione divergente da quella sociniana, ma

comunque non trinitaria278.

Secondo Marshall, anche se probabilmente divergente dal socinianesimo, questa singola nota

non è di orientamento trinitario poiché nulla viene detto che lasci pensare a Cristo come ad una

persona uguale a Dio. L’interpretazione più probabile di questa nota resta anti-trinitaria: è difficile

vedere in che modo Cristo potrebbe essere stato privato di parte del suo potere, o dominio, se era

persona eterna ed eguale al Padre. Al più la nota - che enfatizza anche la morte e la risurrezione di

Cristo come quel che lo reintegra nel suo potere e lo conduce a capo della Chiesa - potrebbe

rivelare un arianesimo iniziale, nell’ambito del quale non è chiaro se la preesistenza di Cristo fosse

o meno pre-cosmica279.

L’attenzione di Locke si concentrava sulla morte e sulla risurrezione di Cristo come a ciò che gli

aveva conferito il potere; il che consente a Marshall di concludere che Locke intendeva con buona

probabilità lasciare aperte varie opzioni sull’argomento280, probabilmente perché consapevole delle

conseguenze alle quali sarebbe andato incontro sostenendo dottrine eterodosse o perché, per tutta

la vita, ebbe come suo impegno la pace nelle dispute religiose. E questo significava anche non

controbattere ad argomenti sui quali vi era un profondo dissenso, se non vi fosse stata la possibilità 275 Cfr. ivi, pp. 166-167. 276 Ivi, p. 167 (trad. mia). 277 Cfr. A Paraphrase and Notes on the Epistles of St. Paul, cit., II, pp. 806-807. 278 Cfr. A. W. Wainwright, Introduction, A Paraphrase and Notes on the Epistles of St. Paul, cit., pp. 37-39. 279 Cfr. J. Marshall, Locke, Socinianism, “Socianianism” and Unitarianism, cit., pp. 174-175. 280 Cfr. ivi, p. 176.

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di una persuasione; oppure replicare in maniera molto attenta e senza causare offesa, quando era

importante ribattere281.

b)b)b)b) Knowledge, Faith e TrinitKnowledge, Faith e TrinitKnowledge, Faith e TrinitKnowledge, Faith e Trinitarian Controversyarian Controversyarian Controversyarian Controversy: un esame delle risposte ad Edward : un esame delle risposte ad Edward : un esame delle risposte ad Edward : un esame delle risposte ad Edward

StillingfleetStillingfleetStillingfleetStillingfleet

In una serie di scritti a partire dal 1690, il vescovo di Worcester Edward Stillingfleet282 prese a

sostenere che l’epistemologia lockiana favoriva indirettamente l’unitarianismo, non però sulla base

di quanto affermato nella Ragionevolezza, ma in un’opera d’argomento non prevalentemente

religioso come il Saggio283.

Secondo il prestigioso teologo, le tesi lockiane su sostanza, natura e persona - e più in generale le

nuove idee del Saggio formulate negli anni Ottanta in Olanda – rappresentavano una minaccia per

gli articoli relativi alla Trinità e all'Incarnazione, fornendo il supporto alle tesi di deisti come John

Toland284 e di vari Unitariani, che Stilligfleet accomunava in quanto rappresentanti di un nuovo

modo di ragionare. Come ha osservato Samuel Pearson Jr., critici come Stillingfleet ritenevano che

Locke stesse distruggendo la fede nel suo tentativo di salvarla285.

281 Cfr. ivi, pp. 180-181. 282 Stillingfleet aveva approfondito il campo della storia ecclesiastica e della teologia cristiana; era tuttavia dotato di una non comune sensibilità filosofica. Cfr. J. Le Clerc, Elogio [storico] del defunto Signor Locke, cit., p. 766 nota 92. Gli scritti del Vescovo di Worcester sono presenti nei volumi a c. di: G. A. J. Rogers, The Philosophy of Edward Stillingfleet; including his replies to John Locke, I-VI, Thoemmes Press, Bristol 1999. Sulla figura e il pensiero di Stillingfleet si vedano: R. Todd Carrol, The Commonsense Philosophy of Bishop Edward Stillingfleet 1635-1699, M. Nijhoff, The Hague 1975; J. Tulloch, RT, I, pp. 411 - 463; M. A. Stewart, Stillingfleet and the way of ideas, in Id. (ed.), English Philosophy in the Age of Locke, cit., pp. 245-280; S. Hutton, La position raisonnable d’Edward Stillingfleet: la philosophie et les limites de la tolérance, in Y. C. Zarka, F. Lessay, J. Rogers (eds.), Les fondements philosophiques de la tolérance en France et en Angleterre au XVII siècle, Presses Universitaires de France, Paris 2002, I, pp. 254 -272. 283 Sulla polemica Locke-Stillingfleet si vedano: H. Fox Bourne, The Life of John Locke, cit., II, pp. 419-438; M. Cranston, John Locke, cit., pp. 410-416; J. Le Clerc, Elogio [storico] del defunto Signor Locke, cit., pp. 764-768; P. King, The Life of John Locke, cit., I, pp. 359 ss.; M. Firpo, Locke e il socinianesimo, cit., pp. 72 ss.; A. Carlini, La filosofia di Locke, cit., II, pp. 274 ss.; R.H. Cox, Locke on War and Peace, cit., pp. 23-24; J. W. Yolton, John Locke and the Way of Ideas, cit., pp. 126-140; Id., Locke and the Compass of Human Understanding, cit., pp. 111-112; 154-157; M. Sina, L’avvento della ragione, cit., pp. 408 ss.; pp. 463 – 67; W. Spellman, John Locke and the Problem of Depravity, cit., pp. 172 –75; E. D. Kort, Stillingfleet and Locke on Substance, Essence, and Articles of Faith, in « Locke Studies », 5 (2005), pp. 149-178. La polemica Locke-Stillingfleet venne riesaminata a due anni dalla morte di Locke, nel 1706, da W. Carrol in: Atheism discover’d in a Dissertation upon the Fourth Book of Mr. Locke’s Essay concerning Human Understanding, London 1706. Anche Leibniz accenna alla vicenda che coinvolse il filosofo inglese e il vescovo di Worcester: cfr. G. W. Leibniz, Die philosophischen Schriften, a c. di C. I. Gerhardt, Lorentz, Berlin; Wiedmann Leipzig 1931, pp. 235-242. 284 Su Toland si veda: C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, cit., pp. 284-290; M. Firpo, Recenti studi sul Socinianesimo nel Sei e Settecento, cit., pp. 132 ss.; PAR, pp. 136 ss. Sui rapporti tra Toland e il socinianesimo cfr. M. Firpo, Il rapporto tra socinianesimo e primo deismo inglese negli studi di uno storico polacco, cit., pp. 71 – 80. 285 Cfr. S. Pearson Jr., The Religion of John Locke and the Character of his Thought, cit., p. 142. Sulla capacità dei deisti di trarre fuori ciò che era implicito nelle premesse lockiane si trova d’accordo Michael Zuckert, Locke and the Problem of Civil Religion, in R. Horwitz (ed.), The Moral Foundations of the American Republic, cit., pp. 202-203.

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I rilievi di Stilligfleet, dal «tono altamente civile e non privo di ostentato rispetto reciproco»286,

non accusavano Locke di attaccare direttamente la Trinità attraverso un’enfasi sui limiti della

nostra idea di sostanza, ma di compromettere la capacità dei trinitari di elaborare una spiegazione

del dogma ed erano convalidati dall’uso delle tesi lockiane, ad opera del Toland, per una critica

radicale dei misteri divini: questi, infatti, «è stato a lungo identificato solo con l’autore del

Cristianesimo senza misteri e ricordato soprattutto per l’uso “improprio” delle dottrine di Locke a

sostegno della riduzione della fede entro l’orizzonte della comprensione razionale» 287.

Locke, come il free-thinker irlandese, era stato accusato di socinianesimo, anche se entrambi ne

presero le distanze. Il primo, come si è visto, nelle repliche ad Edwards; il secondo, relativamente

alla natura di Cristo, affermò che «sebbene i Sociniani respingano tale metodo, se non erro questi

ultimi e gli Ariani non possono rendere più ragionevoli le loro nozioni di un Dio-creatura

glorificato e reso degno di un culto divino, rispetto alle stravaganze delle altre sètte riguardo al

dogma della Trinità»288.

Il Cristianesimo senza misteri289 apparve nel 1696 e il suo autore, pur senza nominarlo, si riferì a

Locke parlando di un «eccellente filosofo moderno»290. Locke conosceva in parte il contenuto di

Cristianesimo senza misteri e probabilmente Toland aveva avuto modo di vedere il testo della

Ragionevolezza prima della stampa291.

Nel suo libro condannato al rogo, Toland mostra in più punti di aver appreso la lezione lockiana:

sperava «di mostrare che l’uso della ragione in campo religioso non è così pericoloso come viene di

286 M. Firpo, Locke e il socinianesimo, cit., p. 73. 287 C. Giuntini, Introduzione, J. Toland, Opere, cit., pp. 11-12. 288 J. Toland, Il cristianesimo senza misteri, cit., p. 118. 289 Sull’opera cfr: P. McGuinness, Christianity not Mysterious and the Enlightment, in P. McGuinness-A. Harrison-R. Kearney (eds.), Christianity not Mysterious, The Lilliput Press, Dublin 1997, pp. 231-242; D. M. Clarke, Toland on Faith and Reason, in ivi, pp. 293-302. Sul rapporto Toland-Locke si veda: H. Fox Bourne, The Life of Locke, cit., II, pp. 415 – 420; J. W. Yolton, John Locke and the Way of Ideas, Oxford Univ. Press, Oxford 1956, pp. 118 ss.. 290 J. Toland, Il cristianesimo senza misteri, cit., p. 145. 291 «Sulla base di questa acquisizione il libro non può non assumere un significato assai più sfumato e complesso, quasi una presa di distanze, o una difesa, o una risposta preventiva, non solo rispetto al Toland, ma anche alle accuse di cui l’Essay avrebbe potuto essere – come fu – fatto oggetto. Era un modo, da parte di Locke, di offrire una sorta di versione autorizzata sul piano della religione cristiana dei principi epistemologici da lui teorizzati, di combattere in anticipo quelle che giudicava illegittime distorsioni del suo pensiero da parte di spiriti francamente irreligiosi». M. Firpo, Locke e il socinianesimo, cit., p. 90. Per Jean-Michel Vienne, che invita a non leggere in Locke quel che Spinoza afferma della Scrittura, Toland è stato la prima vittima dell’attacco di Locke: la Ragionevolezza sembrava scritta in parte proprio contro il deismo di Toland, come prova che il cristianesimo non era una ripetizione della religione naturale destinata a dei semplici illetterati, ma presentava a tutti, letterati compresi, quel che nessuno avrebbe trovato in altro modo: anche se la religione naturale era teoricamente alla portata della ragione di ognuno, il Saggio aveva già provato la difficoltà di stabilire una morale more geometrico. Solo il cristianesimo offriva, in tal senso, un’etica coerente e dotata di un’efficace sanzione. La Scrittura per Locke era divina e indicava una morale naturale. Cfr. J.M. Vienne, De la Bible à la Scienze. L’Interprétation du singulier chez Locke, cit., p. 775.

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solito rappresentato»292; dichiarava di accettare «come articolo della mia religione solo ciò che la

più completa evidenza mi ha costretto ad accogliere»293 e di vedere la Scrittura e la ragione

«perfettamente d’accordo fra loro»294. Attribuiva inoltre all’iniziativa divina la volontà di fare della

propria ragione uno strumento di conversione295 e si mostrava interessato non agli «articoli

orientali o occidentali, ortodossi o ariani, protestanti o cattolici considerati come tali» ma

solamente a «quelli di Gesù Cristo e dei suoi apostoli»296, rivelando così una comune sensibilità con

l’ispirazione originaria della Ragionevolezza. Un’affinità confermata dalla volontà di dimostrare

«che la vera religione deve essere necessariamente ragionevole e comprensibile» e «che queste

condizioni richieste sono soddisfatte dal cristianesimo»297.

Toland attribuiva la massima importanza alla necessità di una piena comprensione e

dimostrazione di tutti gli articoli di fede, ma soprattutto riprese la distinzione, presente nel Saggio,

tra essenza nominale ed essenza reale298, sviluppando un’applicazione assai radicale della dottrina

della conoscenza in esso sviluppata affermando

che nulla può essere detto un mistero perché ignoriamo la sua essenza reale, dal momento che essa non è più conoscibile in una cosa rispetto a un’altra e non è mai concepita o inclusa nelle idee che abbiamo delle cose, o nei nomi che attribuiamo a queste ultime299.

Il Vescovo di Worcester - autore nel 1696 di A Discourse concerning the Doctrine of Christ’s

Satisfaction - comprese presto che la negazione da parte di Locke della natura aprioristica delle

idee di infinito e di sostanza, e della stessa idea di Dio, avrebbe potuto condurre alla negazione

della transustanziazione300, e quindi del sacramento dell’Eucaristia, ma attese l’uso che di essa fece

il Toland per rifiutare qualsiasi dottrina non perfettamente comprensibile dalla ragione umana,

fino agli esiti unitariani e sociniani, prima di accusare il filosofo inglese e di accomunarlo all’autore

del Cristianesimo senza misteri.

Va tenuto presente inoltre che negli anni in cui ebbe luogo la disputa Locke-Stillingfleet –

«l’ultimo duello della scolastica con la filosofia moderna», secondo lo studioso danese Harald

Høffding301 - l’assenso al dogma della Trinità era richiesto per legge.

292 J. Toland, Il cristianesimo senza misteri, cit., p. 96. 293 Ivi, p. 97. 294 Ivi, p. 99. 295 Cfr. ivi, p. 97. 296 Ivi, pp. 98-99. 297 Ivi, p. 103. 298 Cfr. Saggio, III, III, 15 ss.; III, VI, 6-7. 299 J. Toland, Il cristianesimo senza misteri, cit., pp. 145-146. 300 Sull’argomento cfr.Transubstantiation [26-28 agosto 1676], cit.; trad. it. cit., pp. 185-187. 301 H. Høffding, Storia della filosofia moderna (1912), Bocca, Milano 1950, I, p. 308.

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Il vescovo Stillingfleet dedicò pertanto nel 1697 il decimo capitolo del suo A Discourse in

Vindication of the Doctrine of the Trinity, pensato in origine per confutare le tesi degli unitariani,

alle tesi giudicate anticristiane del Saggio sull’Intelletto umano 302.

Il Discourse si componeva di dieci capitoli e una Preface, nella quale l’autore spiegava che «For

soon after, we had the several Explications set forth and compared with each other; and all

managed so, as to make the Cause to suffer by the disagreement of the Advocates for it. And from

hence they have formed a fivefold Trinity»303. Stillingfleet passava quindi a sintetizzare le

principali posizioni circa l’articolo trinitario:

1. The Ciceronian Trinity; because Tully had use the Word Personae for different Respects; Sustineo ego tres Personas; and according to this Acceptation; Three Persons in the Godhead are no more than three Relations, Capacities or Respects of God to his Creatures, which say they, is downright Sabellianism; and is no manner of Mystery, but the most intelligible and obvious thing in the World. 2. The Cartesian Trinity, which maketh three divine Persons, and three infinite Minds, Spirits and Beings to be but one God. 3. The Platonick Trinity , of three divine Co-eternal Persons, whereof the fecond and third are subordinate or inferiour to the first in Dignity, Power and all other Qualities, except only Duration. 4. The Aristotelian Trinity, which faith the Divine Persons are one God, because they have one and the same numerical Substance. 5. The Trinity of the Mobile, or that which is held by the common People, or by such lazy Divines, who only say in short, that it is an unconceivable Mystery; and that those are as much in fault who go about to explain it, as those who oppose it 304.

Nella Preface viene spiegato che lo scopo dello scritto era di render chiaro «1. That the Churches

Doctrine, as to the Trinity, as it is expressed in the Athanasian Creed, is not liable to their charges

of Contradictions, Impossibilities and pure Nonsense. 2. That we own no other Doctrine than

what hath been received by the Christian Church in the Several Ages from the Apostles Times: 3.

And that there are no Objections in point of reason, which ought to hinder our Assent to this

great point of the Christian Faith»305.

Il decimo capitolo306 è una replica all’epistemologia lockiana del Saggio e in particolare alla

dottrina che faceva derivare la conoscenza dalla percezione di una concordanza o di una

discordanza tra idee. Se dunque la sola per via per ottenere la certezza era quella del reciproco

confronto delle idee, e queste idee dovevano essere chiare e distinte, la certezza nel campo della

fede era esclusa; e così anche nell’ambito della ragione, tutte le volte in cui tali idee non fossero

state chiare e distinte. Come osservò sinteticamente Le Clerc, il Vescovo

302 Cfr. M. Sina, Nota introduttiva, Lettera di Locke al Reverendissimo Edward Stillingfleet, SER, pp. 463 – 466. 303 DVT, p. iv. 304 DVT, pp. iv-v (qui e in seguito corsivo nel testo). 305 DVT, p. vi. 306 DVT, pp. 230-292.

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in questo libro polemizzò contro alcuni pensieri del signor Locke relativi alla conoscenza delle sostanze e ad alcune altre cose, nel timore infondato che questi pensieri servissero a favorire le eresie307.

Stillingfleet spiega di aver tentato di chiarire le accuse di contraddizione circa la Trinità e di

dimostrare che essa era invece conforme al senso delle Scritture e al credo della chiesa primitiva.

Restavano tuttavia un paio di obiezioni in point of reason: «that this Doctrine is said to be a

Mystery, and therefore above Reason, and we cannot in reason be obliged to believe any such

thing» e «that if we allow any such Mysteries of Faith as are above Reason, there can be no stop

put to any absurd Doctrines, but they may be receiv’d on the same Grounds »308.

Il Vescovo comincia col notare che gli unitariani non avevano chiarito la natura e i limiti della

ragione come avrebbero dovuto, ma facevano riferimento, alcune volte, a percezione chiare e

distinte, altre a idee naturali, altre ancora a nozioni congenite. Ma il riferimento principale era ad

un «late Author» il quale aveva chiarito che la ragione non è l’anima considerata in astratto, ma

«l’anima (Soul) che agisce in un modo specifico e particolare», per poi concludere che la ragione è

«il pensiero che l’anima forma delle cose in conformità con quell’ordine»309 che sussiste fra tutte le

cose.

La questione cruciale, per Stillingfleet, era il presupposto all’origine della dottrina tolandiana:

ovvero «that we must have clear and distinct Ideas of whatever we pretend to any certainty of in

our Minds, and that the only Way to attain this certainty, is by comparing these Ideas together.

Which excludes all certainty of Faith or Reason, where we cannot have such clear and distinct

Ideas»310.

Quanto al dogma della Trinità, Stillingfleet riconosce che la nostra certezza razionale si fonda

proprio sulla conoscenza (knowledge) di ciò che è sostanza (nature of substance) e di ciò che è

persona (person) e della loro reciproca distinzione, «but if we can have no such clear Ideas in our

Minds concerning these things, as are required from Sensation, or Reflection; then, either we have

no use of Reason about them or it is in sufficient to pass any Judgment concerning them»311.

Nel caso della sostanza il problema fondamentale era costituito dal fatto che, seguendo questa

way of reason, si poteva discutere di essa finché si voleva ma «we can come to no certainty; since

we can have no clear Idea in our Minds concerning it» 312. Tenendo fermo che il fondamento della

ragione proviene dalle idee from Sensation or Reflection, se si considera che la nozione di sostanza 307 J. Le Clerc, Elogio [storico] del defunto Signor Locke, cit., p. 765. 308 DVT, p. 230. 309 J. Toland, Il cristianesimo senza misteri, cit., p. 109. 310 DVT, pp. 232-233. 311 DVT, p. 233. 312 DVT, pp. 233-234.

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non è introdotta dai sensi, né da operazioni della mente, essa finisce necessariamente per non

cadere nel perimentro della ragione: «And therefore I do not wonder, that the Gentlemen of this

new way of reasoning, have almost discarded Substance out of the reasonable part of the

World»313.

Un discorso analogo, secondo il teologo, circa l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio.

Stillingfleet, che percepì in modo chiaro le implicazioni della decostruzione della sostanza314,

come avvertì pure il rischio che proveniva dal trattare filosoficamente nozioni metafisiche che fino

ad allora i teologi - cattolici o protestanti - avevano ereditato dai propri predecessori, attaccò con

decisione la way of ideas sostenendo che sulla base dei principi lockiani non era possibile

addivenire ad alcuna certezza di ragione «If we cannot come at a rational Idea of Substance, we

can have no Principle of certainty to go upon in this Debate»315. Il Vescovo si riferiva in

particolare al primo libro del Saggio (I, IV, 18) ed espresse nel modo che segue propria posizione:

I do not say that we can have a clear Idea of Substance, either by Sensation or Reflection; but from hence I argue, that this is a very insufficient Distribution of the Ideas necessary to Reason. For besides there, there must be some general Ideas, which the mind doth form, not by meer comparing those Ideas it has got from Sense or Reflection; but by forming distinct general Notions, of things from particular Ideas. And among these general Notions, or rational Ideas, Substance is one of the first; because we find that we can have no true Conceptions of any Modes or Accidents no matter which but we must conceive a Substratum or Subject wherein they are316.

Stillingfleet riteneva che l’idea di sostanza fosse una delle prime e più naturali idee dello spirito317.

Nel considerare l’utilizzo di tale idea da parte di Cicerone e di Quintiliano, e l’uso promiscuo di

essence e substance fatto dopo Agostino318, il teologo richiamava il passo del secondo capitolo del

Saggio nel quale Locke spiega il modo in cui otteniamo una nozione della sostanza di spirito

(chiara quanto quella che abbiamo di corpo) a partire dalle operazioni della mente, dovendo

concludere che queste ultime non possono sussistere per se stesse319. Anche se dal passo è chiaro

313 DVT, p. 234. 314 L’origine dell’idea di sostanza nel Saggio è spiegata nel modo seguente: «Poiché…la mente è provvista di un gran numero di idee semplici…essa osserva altresì che un certo numero di queste idee semplici vanno costantemente insieme; e poiché si presume che esse appartengano ad una medesima cosa, e le parole sono adattate alla nostra comune comprensione…, queste idee, così riunite in un solo soggetto, vengono chiamate con un nome solo» (II, XXIII, 1; p. 325). Nella convinzione che a tale nome corrisponda una sola idea semplice, l’uomo la denomina sostanza, assumendola come sostegno delle qualità che percepisce; ma in realtà delle differenti sostanze (uomo, cavallo, acqua…) non abbiamo alcuna idee chiara. È quindi vano parlare di forme sostanziali (cfr. II, XXIII, 3). Cfr. anche Saggio II, XIII, 17-19. Su modi, sostanza e relazioni nel Saggio si veda: R. Aaron, John Locke, cit., pp. 154 – 192. 315 DVT, p. 235. 316 DVT, pp. 235-236. 317 Cfr. DVT, p. 236. 318 Cfr. DVT, pp. 237-238. 319 La conclusione di Locke è la seguente: «È dunque chiaro che l’idea di una sostanza corporea nella materia è altrettanto remota da tutto ciò che concepiamo e apprendiamo, quanto quella di una sostanza spirituale, o spirito; e perciò, dal fatto

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come possa darsi esistenza di sostanze spirituali e materiali sebbene non si possa avere di esse

un’idea chiara e distinta, Stillingfleet si domandava come ciò fosse possibile se la nostra ragione si

trovava a dipendere da idee chiare e distinte320.

Accanto a questo argomento, Stillingfleet poneva il problema della materia pensante e il quarto

libro del Saggio nel quale è detto che «abbiamo le idee di materia e di pensare, ma forse non

saremo mai in grado di sapere se la materia [un qualunque essere puramente materiale321] pensi o

no: essendo impossibile a noi, mediante la contemplazione delle nostre idee, e senza rivelazione,

scoprire se l’Onnipotente non abbia dato a certi sistemi di materia, acconciamente disposti, il

potere di percepire e pensare»322.

Se ne ricavava che per Locke la volontà di Dio era in grado di attribuire ad una sostanza

materiale operazioni spirituali. Tuttavia, una volta che si concedeva alla materia la capacità di

pensare, avanzava il sospetto di materialismo e per Stillingfleet non era difficile intravedere una

possibile confusione tra l’idea di materia e quella di spirito, e così l’impossibilità di provare una

sostanza spirituale in noi a partire dal pensiero:

Matter may have a Power of Thinking: and if this hold, then it is impossible to prove a Spiritual Substance in us, from the Idea of Thinking: For how can we be assured by our Ideas, that God hath not given such a Power of Thinking, to Matter so disposed as our Bodies are? 323

Ma la critica di Stillingfleet si estendeva fino a riguardare l’esistenza della sostanza più spirituale. Il

Vescovo non riusciva a conciliare la prova dell’esistenza di Dio – come formulata nel Saggio - con

la derivazione della conoscenza (certainty of knowledge) da idee chiare e distinte, che insisteva

nell’attribuire a Locke324. Come possiamo sapere che Dio esiste? Stillingfleet considerava che la

forza di tale “dimostrazione” non riposava su idee chiare e distinte ma derivava «from Principles of

true Reason»325, e dunque riteneva che, su questo punto, la way of ideas fosse stata abbandonata.

Il Vescovo osservava poi che la critica di Locke all’idea di sostanza aveva conseguenze anche per

il discorso trinitario, attraverso la nozione di persona «which arises from that manner of

che non abbiamo alcuna nozione della sostanza dello spirito, non possiamo concludere per la sua non-esistenza, più che possiamo negare l’esistenza del corpo per la stessa ragione». Saggio, II, XXIII, 5; p. 328. 320 Cfr. DVT, p. 239. 321 Così nella seconda edizione del Saggio, per evitare l’ipotesi ateistica che la pura materia possa essere l’Ente Supremo. 322 Saggio, IV, III, 6; p. 611. 323 DVT, p. 241. 324 Cfr. DVT, pp. 246-247. 325 DVT p. 251.

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Subsistence which is in one Individual, and is not Communicable to another»326, e che in tal modo

si finiva per negare la dottrina della Trinità:

And although the Argument from the Idea of God, may not be sufficient of itself to prove his Being; yet it will hold as to the excluding any thing from him, which is inconsistent with necessary Existence; therefore, if we suppose a Distinction of Persons in the same Divine Nature, it must be in a way agreeable to the infinite Perfections of it. And no objection can be taken from the Idea of God, to overthrow a Trinity of Co-existing Persons in the same Divine Essence. For necessary Existence doth imply a Co-existence of the Divine Persons; and the Unity of the Divine Essence, that there cannot be such a difference of individual Substances, as there is among mankind 327.

Per Stillingfleet «these things are said to be above our Reason, if not contrary to it, and even such

are said to be repugnant to our Religion»328; di questo passo «any Doctrine may be rejected, when

it is offer’d as a Matter of Faith upon this account, that it is above our Comprehension, or that we

can have no clear Idea of it in our Minds»329.

Stillingfleet stava attaccando, senza nominarlo, Toland, il quale sosteneva «that there is nothing

so Misterious, or above Reason in the Gospel»330, continuando tuttavia a citare passi dal Saggio

lockiano, impedendo così al lettore di distinguere il pensiero dell’autore di questo scritto dalle tesi

del free-thinker irlandese. Suo malgrado, Locke finiva per trovarsi associato a coloro che

pretendevano di eliminare il mistero dal cristianesimo, quindi alle posizioni di unitariani e

sociniani. Nelle critiche del Vescovo l’aspetto centrale era infatti la presunta adesione da parte di

Locke all’unitarianismo che sosteneva l’unicità di persona e natura di Dio.

Si è detto che la risposta di Locke non si fece attendere. Il filosofo formulò la sua difesa in tre

lunghe repliche, dal 1696 al 1699.

Nella prima Letter to the Rev. Edward Lord Bishop of Worcester331 del 7 gennaio 1696, la sola

delle tre ad avere il titolo di letter, Locke tenta di ricondurre le critiche ricevute all'insegnamento

delle Scritture, rifiuta con decisione di essere associato a quei gentiluomini «dal nuovo modo di

pensare» e si impegna a non mostrarsi come un pensatore eterodosso. A tal fine egli argomenta in

particolare contro la tesi secondo cui ciò che non poteva essere compreso doveva essere rifiutato

come divina rivelazione.

Dalla prima risposta a Stillingfleet emerge la volontà di Locke di prendere in primo luogo le

distanze dalle posizioni dei deisti; la Ragionevolezza aveva già mostrato che egli attribuiva grande

326 DVT, p. 260. 327 DVT, pp. 261-262. 328 DVT, p. 262. 329 DVT, pp. 262-263 330 DVT, p. 263. 331 LBW, pp. 3-96; pp. 467- 577.

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importanza allo studio della Scrittura, considerata come depositaria della rivelazione. Nuovamente

Locke afferma la sua disponibilità ad interrogare la Scrittura per mostrare che le proprie posizioni

non contraddicevano la rivelazione cristiana, e dichiara di non voler entrare nella Trinitarian

Controversy. Come ha osservato Sina, qui come altrove,

la decisione di Locke di rimandare per i punti più controversi e per le dottrine più oscure – pensiamo ad esempio alla dottrina dell’immortalità dell’anima umana – all’insegnamento rivelato nella sacra Scrittura, non è certamente un ripiego o una soluzione di comodo, ma è sincera espressione di fede332.

Locke in ogni caso, come ha notato Marshall, teneva a dimostrare che l'associazione dei suoi

argomenti con quelli unitariani, messa sotto accusa da Stillingfleet, era dovuta all'uso che altri

avevano fatto di essi, e in un modo che egli non aveva, almeno esplicitamente, sottoscritto333.

È importante notare anche che il filosofo dichiara in partenza di non abiurare le proprie tesi e

replica che «in tutto il mio Saggio non penso si possa trovare nulla che possa sembrare

un’obiezione [objection] contro la Trinità»334, riferendosi al «fatto che altri scrittori, facendo uso di

alcune dottrine simili alle mie, abbiano mosso obiezioni contro la Trinità» 335.

La replica lockiana procede con un riesame della dottrina della sostanza, attraverso la distinzione

tra essenza reale ed essenza nominale, aggiungendo precisazioni non presenti nel Saggio. Ma

l’aspetto forse più rilevante è costituito dal chiaro rifiuto di Locke del ricorso alle sole idee chiare e

distinte, ammettendo in diversi ambiti la validità di una conoscenza solo probabile. Del resto

Locke, analogamente ad altri pensatori del suo tempo, distingueva una natural theology da una

revealed theology: mentre dell'esistenza di Dio, secondo Locke, era possibile offrire una

dimostrazione così da ricavare una knowledge (essa è infatti condizione della nostra esistenza), di

ciò che Dio ha rivelato si possono avere soltanto beliefs, e questa convinzione era anche a

fondamento della sua fede che Dio avesse rivelato delle verità agli uomini336. Divina rivelazione di

cui i miracoli costituivano una prova, perché non si è tenuti a credere che qualcosa sia di origine

divina senza aver avuto prova della sua verità.

332 M. Sina, Nota introduttiva, Lettera di Locke al Reverendissimo Edward Stillingfleet, SER, p. 465. 333 Cfr. J. Marshall, Locke, Socinianism, “Socinianism” and Unitarianianism, cit., pp.157-158. 334 LBW, p. 4; p. 468. 335 Ibid. 336 Già nei Pensieri sull’educazione Locke, riflettendo sui limiti delle nostre facoltà e sull’opportunità di non avventurarci «in acque dove il nostro scandaglio non giunge», così da «non correre il rischio di perder noi stessi o di sprecare i nostri sforzi», aveva scritto: «Sospenderò dunque per il momento le riflessioni che ho fatte su questo argomento [dell’ambito di indagine delle nostre facoltà], il quale richiede di essere esaminato ponderatamente, ricordando sempre che le cose infinite sono troppo vaste per la nostra capacità. Noi non possiamo avere di esse una chiara conoscenza, e il nostro pensiero si confonde e si smarrisce quando vuole scrutarle troppo curiosamente». PE, pp. 301-302.

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Con un tono più pacato di quello usato in precedenza con Edwards, nella sua risposta Locke

prende in considerazione singoli passi del decimo capitolo del Discourse di Stillingfleet e procede

con l’esame degli argomenti di quest’ultimo, a partire dalla critica all’idea di sostanza per

proseguire con l’ipotesi che Dio, volendolo, sia in grado di concedere il potere di pensare ad un

qualche sistema di materia, fino alla discussione circa la dimostrazione dell’esistenza di un Essere

supremo e, nella parte terminale della Lettera, le obiezioni contro la dottrina della Trinità.

Locke non comprende l’accusa mossa da Stillingfleet di aver bandito la sostanza dall’ambito di

ciò che è razionale e afferma invece di ritenere valida tale nozione, rinviando al secondo libro del

Saggio337 per indicare i suoi continui riferimenti alla sostanza:

Queste ed altre espressioni del genere mostrano che la sostanza è supposta sempre come un qualcosa che sta al di là dell’estensione, della figura, della solidità, del movimento, del pensiero e di ogni altra idea derivata dall’osservazione, benché noi non conosciamo che cosa essa sia 338.

Non era possibile secondo Locke rinunciare alla nozione di substance, poiché «tutte le idee

semplici, tutte le qualità sensibili, fanno supporre l’esistenza di un sostrato in cui esistere e di una

sostanza in cui inerire»339. Quel che invece Locke rivendica è di essersi riferito ad essa come ad un

«misterioso sostegno», qualcosa di sconosciuto «della cui natura noi non possediamo alcuna

idea»340, richiamandosi anche alla definizione che alcuni scolastici avevano dato di essa e

precisando che ciò era altro dal bandire la sostanza dal mondo. Più semplicemente, coloro

che condividono la mia idea di sostanza – sia essa un’idea razionale o no – come un qualcosa di sconosciuto, devono convenire con me che in questo ambito essi parlano come bambini che si riferiscono a cose non conosciute341.

L’occasione consente a Locke di chiarire una delle tesi-chiave del Saggio e di spiegare

l’affermazione secondo la quale tutte le idee semplici pervengono da sensazione e riflessione, così

da poter sostenere «che queste idee semplici sono il fondamento di tutta la nostra conoscenza

(knowledge), per il fatto che tutte le nostre idee complesse, relative e generali, vengono prodotte

dallo spirito (mind) con l’astrarre, l’allargare, il comparare, il confrontare, il mettere in relazione,

eccetera, queste idee semplici e le loro plurime combinazioni l’una con l’altra»342.

337 Saggio, II, XXIII, 3-6. 338 LBW, p. 7; p. 473. 339 Ibid. 340 LBW, p. 8; p. 474. 341 LBW, p. 10; p. 477. 342 LBW, p. 11; p. 478.

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Locke ha dunque modo di far rilevare che la sua definizione di sostanza come di un substratum343

– o di un «sostegno di quelle qualità che scopriamo esistenti»344 - non era differente

dall’affermazione dello Stillingfleet345 e quindi «non racchiude in sé nessuna obiezione contro la

dottrina della Trinità»346. Non era affatto in discussione, per Locke, l’esistenza della sostanza, ma si

trattava di chiarire «che noi non possediamo altro che un’idea oscura e imperfetta di essa e che

quell’idea si forma in noi per l’abitudine nostra di supporre un qualche substratum […]. Infatti si

ammette che una grande quantità di cosa possano esistere, e che effettivamente esistano in natura,

di cui noi non possediamo alcuna idea»347. L’assenza di una idea chiara e distinta di sostanza non

implicava la sua non esistenza: tutto quel che Locke poteva affermare a tal proposito era che l’idea

generale di sostanza «è un’idea complessa, costituita dall’idea generale di qualcosa, di un ente, in

relazione a un supporto per gli accidenti»348.

Il filosofo dissente da Stillingfleet quando afferma che l’idea generale di sostanza è un’idea chiara

e distinta presente nel nostro spirito349, ribatte che «l’oscurità che io trovo nel mio spirito, quando

esamino quale positiva, generale, semplice idea di sostanza io abbia, è tale quale io confesso, ed è

superiore alle mie possibilità»350 e afferma di non comprendere la ragione per la quale le sue tesi

erano state inserite dal Vescovo nel capitolo relativo ai dogmi cristiani controversi.

Successivamente Locke esamina la questione, sollevata da Stillingfleet, della collocazione sul

medesimo piano delle sostanze spirituali e di quelle corporee, e della certezza dell’esistenza di

sostanze spirituali e corporee «benché non possiamo avere nessuna idea chiara e distinta di esse»351.

A Stillingfleet che chiedeva come ciò fosse possibile, Locke risponde di non ricordare «di aver mai

ristretto la certezza alle idee chiare e distinte (placed certainty only in clear and distinct ideas), ma

di averla riferita alla chiara e visibile connessione (connexion) di qualsiasi nostra idea, di

qualunque specie: ciò apparirà chiaramente a chi andrà a leggere i seguenti passi del mio Saggio

sull’intelletto umano (IV, IV, 18 e IV, VI, 3)»352.

Il punto più importante della questione, relativo alla conoscenza, viene chiarito da Locke

spiegando che nel Saggio il termine certainty era usato al posto di knowledge (come lo stesso

343 Cfr. Saggio, II, XXIII, 1. 344 Saggio, II, XXIII, 2; p. 326. 345 Cfr. DVT, pp. 235-236. 346 LBW, p. 13; p. 481. 347 LBW, p. 18; p. 487. 348 LBW, p. 19; p. 488. 349 Cfr. DVT, p. 238. 350 LBW, p. 28; p. 498. 351 DVT, pp. 239-240. 352 LBW, p. 29; p. 499.

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Locke avrà modo di ricordare a Stillingfleet nella sua terza risposta353) e che le idee chiare e

distinte non erano il solo fondamento della conoscenza di cui avesse parlato nel libro.

Locke spiega l’analogia tra la certezza dell’esistenza delle sostanze corporee, acquisita attraverso i

sensi, e la certezza di «something that thinks»354, a partire dall’esistenza di pensieri in noi «a cui è

evidentemente e necessariamente connesso nel mio spirito qualcosa che pensa»355, e coglie

l’occasione per rimproverare a Stillingfleet la mancata distinzione tra le proprie dottrine e l’uso

improprio di esse fatto da altri, giungendo così all’argomento della Trinità. Nel Discourse del

Vescovo, infatti, non essendo

citato altro che il mio libro e le mie parole, la gente non potrà fare a meno di pensare che sia io la persona che argomenta contro la dottrina della Trinità e che nega i misteri, contro la quale la Signoria Vostra indirizza quelle pagine356.

Come ha osservato Massimo Firpo, Locke qui sta «cercando di defilarsi prudentemente,

professando la sua ferma avversione per le polemiche di tipo controversistico e cercando di

sottrarre il suo libro alle insidie della discussione sul dogma trinitario» 357. Egli aveva sì detto che

gli uomini hanno un’idea oscura di sostanza, ma non che questa fosse oscura e relativa. E dal

tenore del Discourse di Stillingfleet non era possibile distinguere le tesi di Toland da quelle di

Locke: poiché la filosofia lockiana demoliva il concetto scolastico di sostanza, anche se non lo

eliminava del tutto, e considerato che tale concetto costituiva una base filosofica necessaria per la

dottrina della Trinità, il Vescovo indicava uno scivolamento verso il socinianesimo.

Secondo Firpo, «Stillingfleet, in realtà, non si era limitato ad avanzare sospetti sul fatto che

nell’epistemologia lockiana fosse potenzialmente implicita la negazione del dogma trinitario, ma

aveva indicato precisi sviluppi del pensiero del filosofo inglese, che non potevano non destare tutta

la sua preoccupazione»358.

Locke richiama quindi la possibilità della materia pensante359 che Stillingfleet nel suo Discourse

aveva posto in maniera assai problematica, preoccupato di salvare la dimostrabilità razionale

dell’immortalità dell’anima, dichiarando che «chiunque sostenga una simile tesi, non potrà mai più

provare l’esistenza in noi di una sostanza spirituale a partire dalla facoltà di pensare, perché egli

353 Cfr. RBW2, pp. 273-274. 354 LBW, p. 29; p. 500. 355 Ibid. 356 LBW, p. 30; p. 500. 357 M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., p. 76. 358 Ivi, p. 74. 359 Sulla materia pensante e l’accusa di scetticismo si vedano: C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, cit., pp. 276-83; M. Firpo, John Locke e il socinianesimo, cit., pp. 98-99.

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non può conoscere dall’idea della materia e del pensiero che la materia così disposta non possa

pensare»360.

Il filosofo risponde a tale affermazione sostenendo non solo che si possa provare l’esistenza di

una sostanza spirituale in noi, ma di averlo anche fatto:

Innanzitutto noi sperimentiamo in noi stessi il pensiero [thinking]. L’idea di questa azione o modo di pensare non coincide con l’idea di autosussistenza [self-subsistence], e pertanto ha una connessione necessaria con un supporto [support] o soggetto su cui inerisce; l’idea di quel supporto è ciò che noi chiamiamo sostanza [substance]. Così dal pensiero, sperimentato in noi, noi otteniamo una prova [proof] della presenza in noi di una sostanza pensante [thinking substance], che io intendo essere uno spirito [spirit]361.

Locke ammette tuttavia di non aver provato «che esiste in noi una sostanza immateriale

(immaterial substance) che pensa»362, anche se aggiunge «di poter dimostrare con il più alto grado

di probabilità che la sostanza pensante, che è in noi, è immateriale»363. Ciò implicava, come osserva

Sina, la precisazione di non aver negato la dottrina dell’immortalità dell’anima ma soltanto la sua

dimostrabilità razionale; immortalità trasportata ora interamente nel campo della rivelazione364.

Tutto ciò che non possiamo ottenere con le nostre facoltà è una knowledge dell’immortalità, ma

dobbiamo accontentarci della sua probabilità.

Per indicare una sostanza dalla quale non è completamente esclusa la materialità, Locke rievoca

la nozione che pagani quali Cicerone e Virgilio avevano di spirito (soul) e spiega l’uso che nelle

Scritture veniva fatto del termine ruach365, per poi dirsi «certo che esiste una sostanza spirituale

immateriale (spiritual immaterial substance)»366. In questo modo egli affermava l’esistenza di una

sostanza spirituale pur chiarendo che ciò non impediva «che qualora Dio, che è uno spirito

infinito, onnipotente e perfettamente immateriale, volesse dare ad un sistema di materia

sottilissima la facoltà di sentire e di agire, siffatto sistema possa, con esattezza di termini, esser

360 DVT, p. 242. 361 LBW, p. 33; p. 504 (corsivo mio). 362 Ibid. 363 LBW, p. 33; p. 505. 364 Cfr. M. Sina, Nota di commento a LBW; in SER, pp. 503-505, nn. 97 e 99. Scrive Chiara Giuntini, sulla medesima linea: «Come già Locke aveva lasciato intendere chiaramente (e come Stilligfleet aveva ben compreso), a suo parere non esistono prove filosofiche convincenti dell’immortalità individuale, verità che a suo parere è pienamente attestata solo dalla rivelazione. Non si tratta dunque di un attributo deducibile dalle proprietà naturali del pensiero nella vita terrena: una tesi perfettamente conforme all’interpretazione lockiana delle conseguenze del peccato originale, in seguito al quale i dannati saranno esclusi dal dono dell’immortalità». C. Giuntini, Il corpo immortale: filosofia e teologia nell’ultimo Locke, cit., p. 201. 365 Cfr. LBW, p. 35; p. 507. 366 LBW, p. 36; p. 508.

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chiamato spirito, anche se la materialità non fosse completamente esclusa dall’idea complessa di

esso»367.

Locke richiamava quindi la dimostrazione di una sostanza pensante esistente dall’eternità368 per

affermare che essa «ha posto dentro di noi una sostanza pensante, circa la cui immaterialità noi

non possiamo formulare (partendo dalle nostre idee) delle dimostrazioni infallibili, anche se,

partendo da queste idee, possiamo provare, con un altissimo grado di probabilità, la sua

immaterialità»369.

Ma l’accusa più grave rivolta al filosofo da parte di Stillingfleet riguardava il supposto rifiuto di

«una dottrina che ci sia stata proposta come di divina rivelazione, per il semplice fatto che non ne

possiamo comprendere il modo, specie poi nel caso che essa si riferisca alla divina essenza» e, più

in generale, la pretesa asserzione che siano le idee chiare e distinte «la sola materia e il solo

fondamento del nostro ragionamento (reasoning)»370.

Locke rifiuta decisamente la paternità di una tale affermazione, giudicandola in contrasto «con

quanto io stesso ho asserito, e che è stato attinto con grande abbondanza dal mio Saggio

sull’intelletto umano»371. Dopo aver inutilmente ricercato un chiarimento del termine reason, del

quale Stilligfleet non aveva offerto definizione, Locke potenzia la propria difesa dichiarando di non

ricordare

di aver mai detto che noi possiamo essere convinti dalla ragione di una qualche verità soltanto là dove tutte le idee che rientrano in questa convinzione sono chiare e distinte. Infatti, secondo me, la conoscenza [knowledge] e la certezza [certainty] consistono nella percezione [perception] della concordanza o discordanza delle idee, di qualunque genere esse siano, e non solo e sempre delle idee perfettamente chiare e distinte; anche se – lo devo riconoscere più esse sono chiare e distinte, tanto più favoriscono un ragionamento e un discorso più chiaro e distinto372.

Nell’allontanare da sé l’accusa principale, Locke avanzava perplessità in merito al fatto che il

Vescovo avesse «potuto polemizzare con uno, citando le parole di un altro»373, ovvero del Toland, il

quale fondava il suo ragionamento solo su idee chiare e distinte. L’uso del plurale da parte di

Stillingfleet, e le continue citazioni dal Saggio, finivano necessariamente per associare il Toland a

Locke, il quale rifiutava con decisione tale confusione e si dichiarava interdetto dal modo di

scrivere del suo interlocutore.

367 LBW, p. 36; pp. 508-509. 368 Cfr. Saggio, IV, X. 369 LBW, p. 37; pp. 509-510. 370 LBW, p. 39; pp. 512-513. 371 LBW, p. 40; p. 514. 372 LBW, p. 42; p. 516. 373 LBW, p. 42; p. 517.

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Io effettivamente dico che tutta la nostra conoscenza è fondata sulle idee semplici; ma non dico per nulla che tutto deriva da idee chiare [it is all deduced from clear ideas], e molto meno che noi non possiamo avere nessuna conoscenza certa [certain knowledge] dell’esistenza di quelle cose di cui non possediamo un’idea chiara, distinta e complessa, o che l’idea complessa deve essere tanto chiara da portare in sé l’evidenza dell’esistenza di quella cosa […]. Tutta la nostra conoscenza è fondata sulle idee semplici […] benché non sempre si riferisca a idee semplici; noi possiamo infatti conoscere la verità di proposizioni che includono idee complesse, e quelle idee complesse possono non sempre essere idee perfettamente chiare374.

Tale sottile disquisizione aveva la sua più rilevante conseguenza sul tema della divina essenza, e

precisamente sulla Trinità; per tale ragione Locke, dopo aver preso le distanze da Descartes375, al

quale Stillingfleet pure lo aveva accostato, chiarisce il passo del Saggio376 - ripreso dal Vescovo -

nel quale si evitava di fondare sulle idee la prova dell’esistenza di Dio, preferendo ad esse la

dimostrazione:

Il senso di queste mie parole non è quello di negare che l’idea di un Essere perfettissimo provi effettivamente un Dio, ma di rimproverare coloro che considerano questa la sola prova [the only proof] dell’esistenza di Dio e che tentano di invalidare tutte le altre prove. Infatti essendo la fede nell’esistenza di un Dio [the belief of a God] […] il fondamento di tutta la religione e della autentica moralità [the foundation of all religion and genuine morality] ho ritenuto che nessun argomento che potesse in qualche modo servire a inculcare la persuasione dell’esistenza di un Dio nel cuore [minds] degli uomini, dovesse venir reso invalido377.

Il centro dell’argomentazione lockiana è ancora la difesa della way of ideas e, allo stesso tempo,

l’affermazione della possibilità della certezza anche oltre l’ambito delle idee chiare e distinte. Dopo

aver ribadito con energia di non aver sostenuto che fossero queste l’unico fondamento razionale,

ma di aver solo «costituito le idee semplici fondamento di tutta la nostra conoscenza», Locke

ricorda di aver dichiarato che la soddisfazione nella ricerca della verità, per gli uomini, proveniva

«dalla considerazione, dall’osservazione e dalla retta comparazione delle idee»378. Egli riaffermava

di aver posto la certezza nella percezione della concordanza o discordanza delle idee379, e non

vedeva «la necessità di abbandonare questo fondamento della certezza dalle idee; perché il

fondamento di certezza derivato dalle idee può essere giusto, anche se nel caso presente non

venisse fatto un retto uso di esse, o non venisse fatto uso di un’idea giusta per raggiungere la

certezza richiesta»380.

374 LBW, p. 47; p. 522. 375 Cfr. LBW, pp. 48-49; pp. 523-24. 376 Cfr. Saggio, IV, X, 7. 377 LBW, p. 53; p. 528 (corsivo mio). 378 LBW, p. 54; p. 530. 379 Cfr. LBW, p. 57; p. 533. 380 LBW, p. 56 ; p. 532.

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La sua posizione veniva riassunta nel modo seguente: «Non limito la certezza alle sole idee chiare

e distinte, dal momento che la certezza può derivare da idee che non sono in ogni loro aspetto

perfettamente chiare e distinte»381.

Dopo aver riaffermato che le idee costituiscono la materia del conoscere e il fondamento della

certezza - e che la ragione può soltanto comporle in un certo modo, ma senza di esse non può

condurre alla certezza - Locke difende i princìpi non come innati ma come fondati sulla

concordanza o discordanza delle idee. Così, nel difendere la validità della via delle idee - «la via

cioè per giungere alla certezza per mezzo di esse»382, anche con riferimento all’esistenza di un

Essere infinito spirituale, egli rivendicava di averne provato l’esistenza basandosi sulle idee e non

ripudiandole, come pretendeva invece il suo interlocutore383. Ma Locke era anche profondamente

amareggiato dal constatare che un uomo erudito come Stillingfleet non giudicasse pienamente

valida la sua «proof», e chiedeva chiarimenti per correggere eventuali errori.

Sul tema della distinzione tra natura e persona si giocava l’esito della controversia: Stillingfleet

nel suo Discourse aveva notato che da sensazione e riflessione non si poteva ricavare un’idea chiara

e distinta e, «a meno che noi non possediamo concetti chiari e distinti sulla natura e sulla persona,

e sui fondamenti di identità e distinzione, siamo costretti a parlare in modo incomprensibile sul

tema trinitario»384. Ma Locke non intendeva entrare in una tale disputa e forniva un ulteriore

chiarimento sui confini tra l’ambito della ragione e quello della fede:

Non vedo come la Signoria Vostra possa, partendo dalla proclamata necessità, nella disputa trinitaria, di possedere concetti chiari e distinti di natura e di persona, eccetera, annoverare un autore, il quale può aver sbagliato la strada per giungere alle idee chiare e distinte di natura e persona, tra le file di coloro che levano obiezioni contro la Trinità per motivi razionali385.

Se dal Saggio emergeva la dichiarata impossibilità di giungere a nozioni chiare e distinte di natura

e di persona (perché tali concetti non possono giungere dalle idee semplici della sensazione e della

riflessione), questo non implicava da parte dell’autore una negazione del dogma trinitario, così da

non poter essere «an orthodox Christian»386.

381 Ibid. 382 LBW, p. 62; p. 539. 383 Cfr. LBW pp. 64-65; pp. 542-43. 384 DVT, p. 252. 385 LBW, p. 67; p. 545. 386 LBW, p. 68; p. 545.

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Entrare nella disputa trinitaria non era l’intenzione dell’autore del Saggio e pretendere di

trascinarlo su questo terreno, applicando la way of ideas alle dispute teologiche, era una mossa

azzardata: infatti, osserva Locke,

se così fosse, io potrei venir annoverato a piacimento tra coloro che pongono obiezioni contro ogni dottrina ortodossa [against all sorts and points of orthodoxy], di qualsiasi genere; potrei venir considerato un eterodosso per ciò che riguarda le dottrine della grazia, del libero arbitrio, della predestinazione, del peccato orignale, della giustificazione per mezzo della fede, della transustanziazione, della supremazia papale, e – perché no? – della Trinità387.

Nel notare che Stillingfleet dava alla sostanza il nome di natura, ricorrendo ad Aristotele, Locke

rileva da parte dell’ecclesiastico un’opposizione tra ragione e idee, e più in generale la convinzione

che la conoscenza non dipendesse completamente da queste, mentre egli si era impegnato a

spiegare che le idee erano gli unici oggetti dell’intelletto e che la ragione era la facoltà che se ne

serviva formando, a partire da esse, altre idee388. La nozione di natura non faceva eccezione: «l’idea

complessa, alla quale la parola natura si riferisce, è in ultima istanza costruita sulle idee semplici

che ci derivano dalla sensazione e dalla riflessione»389.

Vi sono due significati di natura: le proprietà essenziali di qualcosa o l’indicazione di una

sostanza, e Stillingfleet non era stato chiaro, secondo Locke, nel riferirsi all’uno o all’altro. Il

filosofo, invece, intendeva la natura umana (common nature of man) come

la somma di numerose idee, combinate in un’unica idea complessa e astratta, le quali, quando vengono ritrovate unite – pur insieme con numerose altre idee – in un qualche individuo esistente, fanno sì che si possa dire in verità che quell’essere individuale o particolare possiede la natura umana, ovvero che la natura dell’uomo è in lui390.

Nel riportare le parole di Locke in merito alla conoscibilità di sostanza, Stillingfleet le modificava.

Il filosofo faceva notare infatti di non aver sostenuto che tutte le nostre idee delle sostanze sono

imperfette e inadeguate perché si riferiscono alle essenze reali (real essences) delle cose che non

conosciamo, ma di aver detto che «tutte le idee di sostanza, che sono riferite alle essenze reali, sono

per quel rispetto inadeguate (Saggio, II, XXXI, 7)»391.

Vengono riportate nella Lettera anche altre citazioni non corrette di Stillingfleet dal Saggio

(relative alla formazione delle parole generali o al modo di considerare l’essenza), motivo per il

quale Locke invitava il suo interlocutore a rileggere quanto aveva scritto. Circa le essenze reali,

387 LBW, p. 68; p. 546. 388 Cfr. LBW, pp. 70-71; pp. 548-549. 389 LBW, p. 72; p. 551 (corsivo mio). 390 LBW, p. 74; p. 552. 391 LBW p. 78; p. 557.

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esse vengono da Locke ricondotte alla costituzione interna, o struttura, che Dio ha assegnato ad

ogni particolare creatura:

Ritengo che le essenze reali delle cose non siano tanto fondate sulla costituzione reale delle cose, quanto che siano proprio esse la reale costituzione delle cose, e pertanto senza difficoltà sostengo che in esse vi è una realtà; e proprio in base a questa realtà le ho chiamate essenze reali392.

Nella concezione lockiana non vi è negazione, ma affermazione, di una individuale costituzione di

ogni sostanza: «C’è una costituzione interna delle cose, da cui le loro proprietà dipendono. Su

questo entrambi concordiamo e la chiamiamo essenza reale»393.

Nell’ultima parte della Lettera Locke, dopo aver ammesso una costituzione interna delle cose, si

sofferma sulla loro immutabilità. A Stillingfleet che la affermava con convinzione394 il filosofo

risponde che solo la costituzione di Dio era immutabile, mentre quelle di tutti gli altri esseri

«possono essere cambiate tutte senza difficoltà da quella mano che le ha fatte, come la struttura

interna (internal frame) di un orologio»395. Ciò non implicava naturalmente che Locke

riconducesse le costituzioni delle cose esistenti (the real constitutions or essences) alle idee degli

uomini, ma le distingueva accuratamente dalla classificazione in generi e specie, che «però

dipende, e dipende completamente, dalle idee degli uomini»396.

Nel caso delle persone, sussistono differenze individuali che non possono essere ricondotte

semplicemente a differenze esteriori:

Infatti, pur supponendo che non ci fosse nessuna di tali differenze esterne, tuttavia sussisterebbe una differenza tra loro, che li pone come più individui della stessa comune natura. E qui si pone la vera idea di persona: essa sorge da quel modo particolare di sussistenza [from that manner of substance] proprio di un individuo, e non comunicabile [communicable] ad un altro397.

La questione che Stillingfleet poneva, relativa alla possibilità di comprendere la differenza tra

natura e persona presupponendo l’esistenza di una natura fissa e stabilita, è occasione per Locke di

spiegare invece la strada che aveva seguito: muovere dal termine persona, ritenendo che in sé non

significasse alcunché e che nessuna idea appartenesse ad esso, per poi ammettere, una volta

attribuita ad esso da parte di una lingua una qualche idea, che «allora quella diventa la vera idea di

392 LBW, p. 83; p. 562. 393 LBW, p. 89; p. 568. 394 Cfr. DVT, p. 259. 395 LBW, p. 91; p. 571. 396 LBW, p. 91; p. 572. 397 LBW, p. 92; p. 572.

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persona, e così pure di natura»398, e al contempo ricordare la necessità di una definizione

preliminare per tutti quei vocaboli oggetto di dispute.

Nel suo post scriptum Locke ha l’occasione di affermare la propria ortodossia, ricordando al suo

interlocutore di non aver trovato nei propri scritti «una qualche opposizione a qualcosa rivelato

nella Sacra Scrittura riguardo alla Trinità, o a qualsiasi altra dottrina»399 della Bibbia.

***

Nell’aprile 1697 Stillingfleet rispose alla lettera di Locke con lo scritto: The Bishop of Worcester’s

Answer to Mr. Locke’s Letter concerning some Passages Relating to His Essay of Humane

Understanding 400, nel quale riprendeva le affermazioni della Letter lockiana.

Il Vescovo ricordava quale fosse la questione al centro del dibattito: «What Certainty we can

have of the Nature of Substance from the simple Ideas we have by Sensation or Reflection?» e:

«whether those simple Ideas are the Foundation of our Knowledge and Certainty as to the Nature

of Substance?»401.

A partire dalle dichiarazioni del filosofo, egli riteneva che non fosse possible giungere ad alcuna

certezza o alla natura della sostanza seguendo la via delle idee402.

Come ha osservato acutamente Paul Helm, Stillingfleet fu abile nel porre il suo interlocutore

davanti al seguente dilemma: o Locke, come Toland, adottava un approccio essenzialmente

razionalistico nei confronti della rivelazione, oppure doveva riconoscere le lacune della propria

epistemologia posta di fonte ai misteri della rivelazione403.

Stillingfleet inoltre, con riferimento alla sostanza spirituale, citava significativamente Hobbes

secondo il quale la promessa di immortalità era rivolta all’uomo, e non all’anima, e il passo del

Leviatano nel quale si afferma che nelle Scritture l’anima (soul) e la vita (life) hanno lo stesso

significato404, e la Vindication hobbesiana della stessa opera nella quale si affermava che l’anima

398 LBW, p. 93; p. 573. 399 LBW, p. 96; p. 577. 400 E. Stillingfleet, The Bishop of Worcester’s Answer to Mr. Locke’s Letter concerning some Passages Relating to His Essay of Humane Understanding, Mention’d in the late Discourse in Vindication of the Trinity. With a Postscript in answer to some Reflections made on that Treatise in a late Socinian Book [printed by J. H. for H. Mortlock, London 1697]; in The Philosophy of Edward Stillingfleet, cit., V, pp. 1 – 154. 401 Ivi, pp. 19-20. 402 Cfr. ivi, pp. 20 ss. 403 Cfr. P. Helm, Locke on Faith and Knowledge, cit., p. 59. 404 Hobbes aveva appena affermato che la dottrina secondo cui l’anima dell’uomo è per natura eterna e creatura vivente indipendente dal corpo, o che un mero uomo sia immortale in una maniera diversa dalla risurrezione nell’ultimo giorno, non compariva nella Scrittura e aveva spiegato che il lamento di Giobbe (XIV) per la mortalità naturale non è in contraddizione con l’immortalità alla risurrezione: «Dunque, dove Giobbe dice l’uomo non si rialza finché i cieli non

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non era una sostanza separata ma che la risurrezione avrebbe riguradato tutto l’uomo [the Man at

his Resurrection shall be revived]405.

Tuttavia Stillingfleet riconosceva che le tesi di Locke erano state impiegate per scopi non

voluti dal suo autore; ammetteva che le sue «Words seem to express so much of a Christian Spirit

and Temper, that I cannot believe you intended to give any advantage to the Enemies of the

Christian Faith»406, pur continuando a ritenere che Locke avesse offerto a questi un’occasione per

adottare la nuova way of ideas come strumento contro i misteri della fede cristiana. Egli spiegava

anche che gli Unitarianiani erano esponenti di quel new way of reasoning, quando in risposta ai

suoi sermoni avevano parlato di idee chiare e distinte. L’epistemologia lockiana restava così sotto

accusa per aver consentito – pur al di là delle intenzioni dell’autore - a sociniani e unitarianiani di

sviluppare le proprie argomentazioni.

***

Una seconda risposta di Locke giunse nel giugno del 1697: Replay to the Right Rev. The Lord

Bishop of Worcester’s Answer to his Letter407, nella quale si diceva rammaricato dall’associazione

con unitariani e l’autore di Cristianesimo senza misteri, e spiegava che il suo unico desiderio – non

soddisfatto da Stillingfleet - era di conoscere la ragione che lo aveva trascinato in una disputa

relativa alla Trinità408.

Toland era tra i gentiluomini esponenti di quel nuovo e pericoloso way of reasoning che

presupponeva per la certezza idee chiare e distinte, e il filosofo individuava nel razionalismo

religioso la principale accusa che lo accomunava ad essi. Ma questo tipo di dottrina, lamentava

Locke, era differente da quel che lui aveva scritto nel Saggio. Tuttavia, avendo Toland prodotto

una dottrina sull’origine delle idee in accordo su alcuni punti con il Saggio409, aveva finito per

associare a questo libro il suo pensiero, facendo passare Locke come colui che considerava

necessarie alla certezza le idee chiare e distinte, «though I nowhere say, or suppose, clear and

distinct ideas necessary to certainty»410.

sono più è come se avesse detto che la vita immortale (e nella Scrittura anima e vita significano di solito la stessa cosa) non comincia nell’uomo fino alla resurrezione e al giorno del giudizio ed ha come causa non la sua specifica natura e generazione, ma la promessa». T. Hobbes, Leviatano [XXXVIII, 4], cit., p. 731. 405 Cfr. The Bishop of Worcester’s Answer to Mr. Locke’s Letter, cit., p. 56. 406 Ivi, p. 37. 407 RBW, pp. 97 – 185. 408 RBW, p. 104. 409 «Because he [Toland] agrees in some particulars with my Essay». RBW, p. 105. 410 Ibid. Locke ripete tale versione anche a p. 126 di questa Reply.

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Era insomma l’autore di Cristianesimo senza misteri ad essere in accordo su alcuni punti con gli

unitarianiani (le idee chiare e distinte) e in altri con Locke (l’origine delle idee dalla sensazione

dalla riflessione), così da costituire «the link whereby your lordship joins me to the Unitarianians,

in Objections against the Trinity in Point of Reason answered»411.

Se Toland e gli unitarianiani riponevano il fondamento della conoscenza nelle idee chiare e

distinte, era una questione che non lo rigurdava: Locke continuava a ritenere, con Stillingfleet, che

vi erano molte cose di cui esser certi anche in assenza di un’idea chiara e distinta412 e non era stata

sua intenzione quella di scrivere «any thing against truth, much less against any of the sacred

truths contained in the scriptures»413.

In questa seconda replica vi sono due importanti precisazioni che marcano la volontà del filosofo

di non essere associato ai deisti. Locke offre innanzitutto una riflessione sulla fede e sulla ragione e

sulla loro relazione, in continuità con le tesi esposte nel Saggio, pur chiarendo la loro distinzione:

«Now, my lord, I humbly conceive the certainty of faith, if your lordship thinks fit to call it so, has

nothing to do with the certainty of knowledge»414. E a partire da questa prospettiva ribadisce che la

fede non è una questione di certezza, ma di probabilità:

Faith stands by itself, and upon grounds of its own; nor can be removed from them, and placed on those of knowledge. Their grounds are so far from being the same, or having anything common, that when it is brought to certainty, faith is destroyed; it is knowledge then, and faith no longer415.

Con riferimento alle verità cristiane, Locke intende spiegare che il proprio metodo di

ragionamento in nulla minacciava la fede in esse, poiché «faith stands upon its own basis».

Pertanto, anche nell’eventualità in cui tale metodo non fosse stato valido, nessun articolo di fede

sarebbe stato alterato:

I believe, that Jesus Christ was crucified, dead and buried, rose again the third day from the dead, and ascended into heaven; let now such methods of knowledge or certainty be started, as leave men’s minds more doubtful than before: let the grounds of knowledge be resolved into what any one pleases, it touches not my faith: the foundation of that stands as sure as before, and cannot be at all shaken by it416.

411 RBW, p. 105. 412 Cfr. RBW, p. 108. Poco dopo scriverà ancora: «My notion of certainty by ideas is, that certainty consists in the perception of the agreement or disagreement of ideas, such as we have, whether they be in all their parts perfectly clear and distinct or no; nor have I any notions of certainty more than this one». Ivi, p. 123. 413 RBW, p. 114. 414 RBW, p. 146. 415 Ibid. 416 RBW, p. 147.

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L’epistemologia elaborata e presentata «makes me no party in this dispute of the Trinity, more

than in any dispute that can arise; nor of one side of the question more than another»417.

In secondo luogo, trova spazio in questa Reply una difesa della libera ricerca al di là

dell’opportunità del momento o della contingenza storica. A Stillingfleet che osservava come «in

an age, wherein the Mysteries of Faith are so much exposed, by the Promoters of Scepticism and

Infidelity, it is a thing of dangerous consequence, to start such new methods of Certainty as are apt

to leave men’s minds more doubtful than before»418, Locke rivela l’obiettivo dei suoi studi, dopo

aver notato che gli aspetti essenziali del cristianesimo non possono essere alterati da una parola

piuttosto che da un’altra:

The great end to me, in conversing with my own or other men’s thoughts in matters of speculation, is to find truth, without being much concerned whether my own spinning of it out of mine, or their spinning of it out of their own thoughts, helps me to it419.

Se perciò qualcuno aveva fatto un cattivo uso delle acquisizione lockiane, ciò non era imputabile a

colui che le aveva raggiunte, dal momento che

Arms, which were made for our defence, are sometimes made use of to do mischief; and yet they are not thought of dangerous consequence for all that. Nobody lays by his sword and pistols, or thinks them of such dangerous consequence as to be neglected, or thrown away, because robbers and the worst of men sometimes make use of them to take away honest men’s lives or goods420.

Se Stillingfleet considerava pericolosa, per un certo articolo di fede, l’affermazione che la certezza

derivasse dalla percezione di un accordo o disaccordo tra idee, altri, come Locke, la ritenevano

invece «a defence against error» 421.

***

Evidentemente non soddisfatto dalle articolate spiegazioni del filosofo, Stillingfleet tornò ancora

su questi temi nel 1698 con un terzo pamphlet - The Bishop of Worcester’s Answer to Mr. Locke’s

417 RBW, p. 152. 418 E. Stillingfleet, The Bishop of Worcester’s Answer to Mr. Locke’s Letter , cit., pp. 37-38. 419 RBW, p. 136. Nella sua successiva replica Locke spiegherà che è compito di ciascuno impegnarsi per migliorare la conoscenza e aggiungere qualcosa a quello che i predecessori hanno lasciato. Cfr. RBW2, p. 371. Sull’importanza della ricerca personale della verità si veda anche l’Epistola al Lettore del Saggio, p. 13. 420 RBW, p. 141. 421 Ibid.

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Second Letter 422 - probabilmente nella speranza che Locke illustrasse la propria dottrina sulla

Trinità.

In questo ultimo scritto sull’argomento Stillingfleet, che cominciava a risentire

dell’imprevedibile lunghezza della polemica, si vedeva confermato nelle proprie tesi, dal momento

che la reazione lockiana era per lui prova che «that your Mind is so intangled and set fast by your

Notion of Ideas, that you know not what to make of the Doctrines of the Trinity and Incarnation;

because you can have no Idea of One Nature and Three Persons, nor of two Natures and one

Person»423.

Stillingfleet ritornava sulle ragioni che lo avevano portato a ritenere le nozioni lockiane di Idea e

di Certainty incoerenti con alcuni articoli della fede cristiana, manifestava la sua resistenza ad

accettare le affermazioni del filosofo circa le idee e confermava che la principale difficoltà

nell’accettare il discorso lockiano era

to pretend to Certainty by ideas without pretending to clear and distinct Ideas, is to judge without Evidence, and to determine a thing to be certainly true, when we cannot know whether it be so or not; for how can you be sure that your Ideas agree with the Reality of things (wherein you place the Certainty of Knowledge) if there be not such Ideas of those things, that you can perceive their true Nature, and their difference from all others?424 .

A Locke che lamentava di essere stato accostato al Toland in ragione dei propri princìpi, Stilligfleet

rimprovera di avere dato a quest’ultimo «an Occasion to apply them in that manner»425 pur

riconoscendo che il suo intelocutore non avesse inteso «to give any Advantage to the Enemies of

the Christian Faith»426, e lodando la sua intenzione di fondare sulle Scritture la propria fede: egli

riconosceva al filosofo di non avere inteso criticare alcun articolo di fede che riguardasse un

mistero.

Con riferimento al Toland e alla sua opera, Stillingfleet afferma di non aver pensato che le parole

di Locke fossero state «wholly misunderstood or misapplied», ma «that he [Toland] saw into the

true Consequence of them, as they lie in your Book»427, rimproverando al filosofo di non aver

chiarito tale aspetto se non attraverso la distinzione tra Certainty of Faith e Certainty of

422 E. Stillingfleet, The Bishop of Worcester’s Aswer to Mr. Locke’s Second Letter, wherein his Notion of Ideas is Prov’d to be Inconsistent with Itself, and with the Articles of the Christian Faith [printed by J. H. for H. Mortlock, London 1698]; in The Philosophy of Edward Stillingfleet, cit., V, pp. 1 – 178. 423 Ivi, p. 5. 424 Ivi, p. 8. 425 Ivi, p. 17. 426 Ivi, p. 18. 427 Ivi, p. 21.

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Knowledge; e di conseguenza rinnovava la critica ad uno scetticismo non coerente «with the

Assurance of Faith»428 .

Una prima e importante obiezione all’argomento lockiano della possibilità della materia pensante

era l’articolo realtivo alla risurrezione dai morti e Stillingfleet, nel trovare incompatibile questo

articolo di fede con l’idea lockiana dell’identità personale429, osservava:

If it may be only a Material Substance in us that thinks, then this Substance, which consists in the Life of an Organiz’d Body, must cease by Death; for how can that, which consisted in Life, be preserved afterwards? Anf if the Personal Identity consists in a Self-consciousness depending on such a Substance as cannot be preserved without an Organiz’d Body, then there is no Subsistence of it separate from the Body, and the Resurrection must be giving a new Life. To whom? To a Material Substance which wholly lost its Personal Identity by Death430.

La seconda incoerenza tra la dottrina lockiana e gli articoli di fede cristiani colta da Stillingfleet

riguardava la Trinità e l’Incarnazione di Cristo, ovvero l’unione della natura umana e della natura

divina in una sola persona. Il Vescovo ribadiva che seguendo tale way of ideas non era possibile

giungere ad alcuna certezza circa la distinzione tra natura e persona, e questo perché non era

possibile ottenere un’idea semplice di esse «by Sensation or Reflection»431. La questione veniva

posta nei termini seguenti:

And as to Person I shew’d, that the Distinction of Individuals is not founded merely on what occurs to our Senses, but upon a different manner of Subsistence, which is in one Individual, and is not communicable to another. And as to this I said, that we may find within our selves an intelligent Substance by inward Perception; but whether that make a Person or not, must be understood some other way; for if the meer intelligent Substance make a person, then there cannot be the Union of two such Natures, but there must be two Persons. Which is repugnant to the Article of the Incarnation of our Saviour432.

Se natura e persona erano considerate da Locke solo come idee complesse e astratte, e nulla più di

mere nozioni la cui realtà era riposta soltanto nella mente, non vi era possibilità di concepire «one

428 Ivi, p. 30. L’accusa di scetticismo sarà rinnovata, Locke defunto, da Peter Browne in un pamphlet del 1728. A questo scritto replicherà Vincent Perronet (1693 – 1785), prima con una A Vindication of Mr. Locke del 1736, nella quale difenderà il filosofo dall’accusa di incoraggiare lo scetticismo e altri errori, e successivamente con una Second Vindication del 1738 in risposta all’attacco di Joseph Butler alla nozione lockiana di persona. Nel suo scritto Perronet affronta differenti argomenti: il termine idea, la sostanza, la materia pensante, il rapporto tra la fede e la ragione, ma soprattutto la tesi lockiana dell’identità personale, dimostrando una sua notevole comprensione. Locke aveva distinto l’uomo (Man) dalla persona (Person), intendendo il primo come organismo biologico e la seconda come soggetto morale animato da ragioni e da intenzioni, che riconosce obbligazioni e doveri, responsabile delle proprie azioni, consapevole di essere proprietà di Dio e di una vita futura con ricompense e punizioni eterne. Cfr. V. Perronet, A Second Vindication of Mr. Locke: wherein his sentiments relating to personal identity are cleared up from some mistakes of the Rev. Dr. Butler, in his dissertation on that subject : and the various objections raised against Mr. Locke, by the learned author of An enquiry into the nature of the human soul, are considered: to which are added reflections on some passages of Dr. Watts' Philosophical essays (1738), Thoemmes, Bristol 1991. 429 Cfr. Saggio, II, XXVII, 3 ss. 430 E. Stillingfleet, The Bishop of Worcester’s Answer to Mr. Locke’s Second Letter, cit., p. 36. 431 Cfr. ivi, pp. 45 ss. 432 Ivi, p. 46.

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Nature and three Persons»; di conseguenza Stillingfleet non vedeva come fosse ancora possibile

difendere la dottrina della Trinità: «it is plain that this Consequence follows from your own

Notions of Nature and Person; as they are set down expresly by your self in the former Letter»433.

Stillingfleet non stava accusando Locke di aver negato la Trinità e l’Incarnazione, ma non vedeva

come fosse possibile conciliare la fede in esse con le nozioni di natura e persona ricavabili dal

Saggio.

Egli inoltre rifiutava la distinzione lockiana tra fede e conoscenza, e insisteva sul punto che la

certezza della fede fosse più forte di quella della conoscenza434; infine accusava Locke di non avere

un criterio per giudicare le false idee e distinguerle da quelle vere e certe435.

La sintesi della distanza tra i due veniva formulata nel modo seguente: mentre Locke sosteneva

«that general Principles and Maxims of Reason are of little or no Use», il Vescovo replicava «that

they are of very great use, and the only proper Foundations of Certainty»436. Inoltre, mentre era

vero per Locke «that Demonstration is by Way of Intuition of Ideas, and that Reason is only the

faculty imploy’d in discovering and comparing Ideas with themselves, or with others intervening;

and that this is the only Way of Certainty», Stillingfleet riteneva «that there can be no

Demonstration by Intuition of Ideas; but that all the Certainty we can attain to, is from general

Principles of Reason, and necessary Deductions made from them»437.

A chi, come il suo interlocutore, riteneva che i giudizi dipendessero da idee, Stillingfleet

opponeva general Principles of Reason, sulla base dei quali si proponeva di render chiaro «that the

Difference of Nature and Person is not imaginary and fictitious, but grounded upon the real

Nature of things»438. Pertanto egli distingueva le proprietà essenziali degli individui, che dovevano

avere un soggetto cui inerire, e alle quali dava il nome di natura, dalle caratteristiche individuali

che li distinguevano.

Quanto all’idea di persona, Stillingfleet discute il fondamento delle distinzioni tra gli uomini:

Whether upon our observing the Difference of Features, Distance of Place, & c. or on some antecedent Ground? I affirm, that there is a Ground of the Distinction of Individuals antecedent to such accidental Differences as are liable to our Observation by our Senses 439.

E il fondamento delle individualità veniva così indicato:

433 Ivi, p. 52. 434 Cfr. ivi, pp. 76 ss. 435 Cfr. ivi, pp. 122 ss. 436 Ivi, p. 146. 437 Ibid. 438 Ivi, p. 157. 439 Ivi, p. 171.

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And the Ground I go upon is this, that the true Reason of Identity in Man is the vital Union of Soul and Body: And since every Man hath a different Soul united to different Particles of Matter, there must be a real Distinction between them, Without any respect to what is accidental to them440.

Ed era esattamente questa particolare modalità di sussistenza, fondata su una particolare relazione

di Soul e Body, irriferibile a qualsiasi altra creatura non razionale, a caratterizzare

inequivocabilmente secondo Stillingfleet la nozione di persona.

***

A questa pubblicazione seguì l’ultima, e davvero estesa, replica del filosofo: Mr. Locke’s Reply to

the Right Rev. The Lord Bishop of Worcester’s Answer to his Second Letter, datata 4 maggio 1698

e pubblicata nel 1699. A proposito della disputa che li vide coinvolti, Le Clerc mise in risalto la

«dolcezza» e il «rispetto» con cui Locke replicò al suo avversario, la «finezza» con la quale la disputa

fu condotta, come pure

la solidità della dottrina del signor Locke, l’esattezza e la chiarezza non solo nell’esporre i suoi pensieri ma anche nello sviluppare quelli del suo avversario. Ci si meravigliò pure che un uomo tanto dotto, quale era il signor Stillingfleet, avesse intrapreso una discussione in cui era dalla parte del torto completamente, dal momento che non comprendeva né i pensieri del suo avversario, né l’intima natura del problema, e che non aveva argomenti validi da opporgli 441.

In questa terza replica a Stillingfleet, Locke si sofferma su numerosi aspetti: spiega che

un’ulteriore risposta da parte sua si doveva ad un omaggio alla verità, «which is inflexible»;

attribuisce al suo interlocutore la responsabilità di averlo condotto in una tale controversia e

rivendica la necessità di lunghe repliche, poiché sebbene «my Essay having in nothing contrary to

the doctrine of Trinity, was yet brought into that dispute»442. L’’intera disputa veniva ricostruita

dal principio:

My book was brought into the Trinitarian controversy by these steps: Your lordship says, that, 1. The Unitarianians have not explained the nature and bounds of reason. 2. The author of Christianity not Mysterious, to make amends for this, has offered an account of reason. 3. His doctrine concerning reason supposes that we must have clear and distinct ideas of whatever we pretend to any certainty of in our mind. 4. Your lordship calls this a new way of reasoning. 5. This gentleman of this new way of reasoning, in his first chapter, says something which has a conformity with some of the notions in my book. But it is to be observed he speaks them as his own thoughts, and not upon my authority, nor with taking any notice of me. 6. By virtue of this, he is presently entitled to I know not how much of my book; and divers passages of my Essay are quoted, and attributed to him under the title of “the gentleman of the new way of reasoning” […] and certain unknown [..] they and these, are made by your lordship to lay about them shrewdly for several pages

440 Ibid. (corsivo mio). 441 J. Le Clerc, Elogio [storico] del defunto Signor Locke, cit., pp. 765-66. 442 RBW2, p. 196.

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together in your lordship’s Vindication of the Doctrine of the Trinity, & c. with passages taken out of my book, which your lordship was at the pains to quote as theirs, i.e. certain unknown anti-Trinitarians 443.

Locke mostra segni di impazienza e rimprovera al suo avversario un cattivo uso del linguaggio. Egli

non esitava a tornare su questioni già affrontate per chiarire di non aver fondato la conoscenza

solo su idee chiare e distinte.

Quanto all’accostamento con l’autore di Cristianesimo senza misteri, il filosofo spiega di non

voler essere associato al suo nome non per la cattiva fama che circondava quest’ultimo ma per la

distanza effettiva dalle sue posizioni:

For I am not, nor ever shall be ashamed to own any opinion I have, because another man holds the same; and so far as that brings me into his company, I shall not be troubled to be seen in it. […] For your lordship has used no small art and pains to make me of his and the Unitarianians’ company in all that they say, only because that author has ten lines in the beginning of his book, which agrees with something I have said in mine; from whence we become companions, so universally united in opinion, that they must be entitled to all that I say, and I to all that they say444.

Nel trattare più diffusamente della certezza che si può ottenere con la ragione e con le idee, Locke

spiega ancora una volta di non aver voluto fondare la conoscenza soltanto su idee chiare e distinte,

cosa che invece Stillingfleet aveva dato per certa:

I denied it to be my doctrine, that where an idea was obscure and confused, there no proposition could be made concerning it, of whose truth we could be certain. For I held we might be certain of the truth of this proposition, that there was substance in the world, though we have but an obscure and confused idea of substance […]. From all which, it is evident, that the question between us truly stated is this, whether we can attain certainty of the truth of a proposition concerning any thing whereof we have but an obscure and confused idea?445.

A Stillingfleet che gli opponeva le tesi di Descartes, Locke replicava che la questione non era da

decidersi sulla base di un’autorità e riaffermava che idee confuse ed oscure non avrebbero mai

prodotto una conoscenza chiara e certa, dal momento che non vi sarebbe stata una chiara

percezione dell’accordo o del disaccordo tra di esse; ma precisava che tutto questo non equivaleva

a portare via tutta la conoscenza446. Inoltre, le proposizioni speculative dovevano essere giudicate

solo «by their truth or falsehood, and not by the use any one shall make of them»447.

443 RBW2, pp. 204-205. 444 RBW2, pp. 227 – 228. 445 RBW2, p. 236. 446 La questione era talmente importante per Locke da modificare, in seguito alla disputa con il Vescovo e all’accusa di respingere i misteri della fede, il seguente passo del Saggio. In luogo di: «Ma idee oscure e confuse non possono mai produrre una conoscenza chiara e distinta; poiché, di quel tanto che le idee sono confuse ed oscure, di altrettanto la mente si troverà sempre nell’impossibilità di percepire chiaramente se esse concordino o discordino», la quarta edizione del 1700 recava: «Ma idee che siano confuse, a causa della loro oscurità o altrimenti, non possono produrre alcuna conoscenza chiara e distinta; perché, di quel tanto che le idee sono confuse, di altrettanto la mente si troverà impossibilitata a percepire con chiarezza se esse non concordino o discordino. Oppure, per esprimere la stessa cosa in

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Sulla certezza che si può ottenere con la fede, Locke non cedeva sulla distinzione tra il

conoscere (knowing) e il credere (believing) spiegando come soltanto in riferimento a knowledge

si potesse parlare in modo appropriato di certainty, essendo la fede un act of believing, e

nell’affermare ciò si richiamava all’autorità del Chillingworth, il quale spiegava che la fede non era

knowledge e che non era richiesta una conoscenza degli articoli di fede, e un’aderenza ad essi,

come a certezze di carattere scientifico448.

Al timore di Stillingfleet che una definizione di knowledge, intesa come percezione dell’accordo

o disaccordo tra idee, potesse minacciare la credibilità di articoli di fede quali l'esistenza di Dio, di

una provvidenza e di ricompense e punizioni in una vita futura, il filosofo risponde che ciò non era

possibile «because a definition of knowledge, which was one act of the mind, did not at all concern

faith, which was another act of the mind quite distinct from it»449.

Locke nega che per ammettere una divina rivelazione si dovesse essere certi dell’esistenza di un

essere intelligente immateriale, poiché era sufficiente a tal fine la fede – «He that believes there is

a God […] does not see the evident demonstration of it, has ground enough to admit of divine

revelation»450 – e ricorda che le Scritture chiedevano soltanto di credere in Dio; tuttavia precisa

che alcune verità di fede possono essere dimostrate (come appunto l’esistenza di Dio), sebbene la

maggior parte dei cristiani le assuma per fede e non per dimostrazione: «because though a man

may be a Christian, who merely believes that there is a God, yet that is not an article of mere faith,

because it may be demonstrated that there is a God, and so may certainly be known»451.

Anche in questa occasione Locke torna sulla questione della materia pensante, spiegando che si

trattava soltanto di un’ipotesi che teneva conto dell’onnipotenza di Dio, il quale «may, for aught

we know, superadd to some partes of matter a faculty of thinking»452, e chiarendo che questo non

gli impediva di affermare, come aveva fatto nel Saggio, «that there is an eternal, immaterial,

knowing Being»453 o di ammettere una divina rivelazione.

modo meno suscettibile di venir frainteso: chi non ha idee determinate che corrispondano alle parole che usa, con queste non potrà formare proposizioni della cui verità possa essere certo». Saggio, IV, II, 15; pp. 607-608. 447 RBW2, p. 268. 448 Cfr. W. Chillingworth, The Religion of Protestants, VI, 3. 449 RBW2, p. 282. 450 RBW2, p. 291. 451 RBW2, p. 276. 452 RBW2, p. 294. 453 RBW2, p. 293.

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� La risurrezione La risurrezione La risurrezione La risurrezione

Un passaggio molto importante di questa terza risposta di Locke a Stillingfleet riguardava uno

degli articoli di fede che questi vedeva particolarmente minacciato dalle tesi lockiane, alla cui

trattazione il filosofo finì per dedicare circa trenta pagine: la risurrezione dei morti454.

La metafisica della sostanza sulla quale Stilligfleet fondava la propria dottrina lo conduceva a

ritenere che la sostanza corporea, unita ad una determinata anima in questa vita, dovesse trovarsi

ricongiunta ad essa anche al momento della risurrezione455. Di conseguenza, secondo

l’ecclesiastico, la dottrina lockiana delle idee e la sua nozione di identità personale, nell’alterare il

fondamento di tale articolo di fede e nel lasciare fuori il corpo – o almeno il medesimo corpo - ,

non erano compatibili con la dottrina della risurrezione. Egli domandava perciò che cosa ne

sarebbe stato del proprio corpo al momento della risurrezione, non cogliendo la distinzione tra

corpo animale e uomo, che Locke aveva stabilito nel Saggio quando aveva affrontato l’argomento

dell’identità456.

Quest’ultimo articola la sua risposta seguendo una doppia direttrice: in primo luogo,

richiamandosi alle Scritture e all’autorità di San Paolo (1Cor, 6,14) risponde che «the resurrection

of the dead I acknowledge to be an article of the Christian faith»457, lasciando quindi intendere – in

coerenza con quanto affermato in precedenza - che agli uomini era richiesto di credere ad essa

sulla base di una divina rivelazione, e non di avere certezze; e osservando poi che le Scritture

parlano soltanto di risurrezione dei morti e non dello stesso corpo:

In the New Testament […] I find our Saviour and the apostles to preach the resurrection of the dead, and the resurrection from the dead, in many places: but I do not remember any place, where the resurrection of the same body is so much as mentioned458.

Si può dunque osservare come Locke, pur ammettendo che nel Giorno del giudizio sopravviva una

forma corporea459, lasci intendere che con la morte la persona cessi di esistere fino a quando non

454 Cfr. RBW2, pp. 301 – 334. 455 A convalida della sua tesi il Vescovo si richiamava a Gv, 5, 28-29, dove si parla dell’uscita di «tutti coloro che sono nei sepolcri» per la risurrezione e a 2 Cor 5, 10, in cui si fa riferimento alla comparsa davanti al tribunale di Cristo per ricevere la ricompensa delle opere compiute quando si era nel corpo mortale. Cfr. RBW2, pp. 305-8. 456 Cfr. Saggio, II, XXVII, 5-7; pp. 366-68. Sull’identità personale lockiana, che non consiste in una identità di sostanza ma in una identità di coscienza, cfr. M. Merlo, La legge e la coscienza, cit., pp. 104-113. 457 RBW2, p. 303. 458 RBW2, pp. 303-304. 459 Cfr. RBW2, pp. 303 - 304. Nelle prime tre edizioni del Saggio Locke parla di risurrezione «dei nostri corpi» (cfr. IV, III, 29) e afferma che i «corpi degli uomini risorgeranno» (IV, XVIII, 7). Nelle successive edizioni si parlerà rispettivamente di «resurrection of the dead» e «the dead shall rise and live again». Anche se in nessun luogo del Saggio,

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sarà Dio a richiamarla alla vita: una risurrezione che avverrà comunque attraverso heavenly

bodies. Commentando il capitolo quindicesimo della prima Lettera ai Corinzi, egli parlerà infatti di

corpi celesti e corpi terreni: «those who are raised to an heavenly state shall have other bodys’ » e

di «beauty and excellency of the heavenly bodys» e «of very different constitutions and qualitys

from those they had before»460; e nella medesima riflessione noterà che alla risurrezione non si

avrà un corpo di carne e sangue, dal momento che esso non è destinato al regno di Dio, come

afferma San Paolo (1 Cor 15,50)461.

Nella sua argomentazione Locke tenta di spiegare a Stillingfleet che il corpo di cui si dispone

nelle diverse età dell’esistenza è sempre il nostro corpo (nel senso di same particles of matter),

sebbene non sia sempre il medesimo corpo:

Your lordship will easily see, that the body he had, when an embryo in the womb, when a child playing in coats, when a man marrying a wife, and when bed-rid, dying of a consumption, and at last, which he shall have after his

resurrection; are each of them his body, though neither of them be the same body, the one with the other 462.

Si trattava in altri termini di comprendere che ciò che si è non è costituito esclusivamente dal

proprio corpo - e che pertanto il corpo dei risorti non potrà appartenere ai rispettivi proprietari

nella stessa forma in cui avveniva quando essi erano in vita463 - sebbene esso sia necessario per

l’azione, poiché in una vita futura a Dio non occorrerà la forma corporea per identificare gli

uomini.

E la risurrezione di Cristo avvenuta con il medesimo corpo al momento della morte, alla quale si

richiamava Stillingfleet come modello dei risorti citando la prima Lettera ai Corinzi (15, 35), non

autorizzava a ritenere - secondo Locke - che sarebbe avvenuto lo stesso per gli uomini. La morte di

Gesù era stata recente e aveva lasciato il suo corpo pressoché intatto; inoltre i suoi discepoli

avevano bisogno di identificarlo come quello del loro Maestro mediante dei segni visibili, e ciò

non poteva avvenire con un corpo di differente forma o figura464. Tutto questo portava Locke a

neppure nelle prime tre edizioni, Locke afferma che sarà il medesimo corpo a risorgere ma, appunto, che non sarà proprio lo stesso (II, XXVII, 15). Locke spiega queste variazioni nell’ultima lettera a Stillingfleet: RBW2, pp. 333-34. 460 A Paraphrase and Notes on the Epistles of Saint Paul, I, p. 252. 461 Cfr. ivi, p. 255. Merlo osserva che per Locke «il Giudizio non solo è inscritto nella continuità della coscienza ma risulta dalla coscienza stessa dei soggetti. Di conseguenza, il “grande giorno” non si inscrive nel quadro temporale tradizionale della “fine dei tempi” bensì in un momento qualsiasi del tempo». M. Merlo, La legge e la coscienza, cit., pp. 153-154 (corsivo nel testo). 462 RBW2, p. 308. 463 Locke, che porta alle estreme conseguenze il suo ragionamento, chiede cosa ne sarebbe stato di un embrione – la cui vita è il risultato dell’unione dell’anima con il corpo - «who, dying within a few hours after his body was vitally united to his soul, has no particles of matter, which were formerly vitally united to it, to make up his body of that size and proportion which your lordship seems to require in bodies at the resurrection?». RBW2, p. 311. 464 Cfr. RBW2, pp. 312 – 314.

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concludere che la risurrezione di Cristo era certamente «a proof of the certainty of our

resurrection»465, ma non della risurrezione del medesimo corpo:

It is enough that every one shall appear before the judgment–seat of Christ, to receive according to what he had done in his former life; but in what sort of body he shall appear, or of what particles made up, the Scripture having said nothing,

but that it shall be a spiritual body raised in incorruption, it is not for me determine466.

L’altra grande questione sollevata da Stillingfleet, alla quale Locke dedica una replica, riguardava il

dogma trinitario, considerato dal primo incompatibile con le nozioni lockiane di nature e di

person: se non possiamo avere un’idea semplice di natura e di persona, per sensazione e riflessione,

era il ragionamento di Stillingfleet, e se queste sono le sole vie per acquisire idee semplici, allora

non è possibile avere alcuna certezza circa la distinzione di natura e persona. A tal proposito Locke

è costretto ricordare che

The ideas signified by the sounds nature and person are each of them complex ideas; and therefore it is as impossible to have a simple idea of either of them as to have a multitude in one, or a composition in a simple. But if your lordship means, that by sensation and reflection we cannot have the simple ideas, of which the complex ones of nature and person are compounded; that I must crave leave to dissent from, till your lordship can produce a definition […] either of nature or person, in which all that is contained cannot ultimately be resolved into simple ideas of sensation and

reflection467.

Locke fa memoria del suo costante richiamo alle Scritture, spiega di leggere la rivelazione «with

full assurance that all it delivers is true»468 e illustra il proprio metodo d’interpretazione fondato

sulla comprensione di singole parole e frasi di un autore, e sulla verifica del loro significato

all’interno del testo medesimo, per poi affermare:

My lord, my Bible is faulty again; for I do not remember that I ever read in it either of these propositions, in these

precise words, “there are three persons in one nature, or, there are two natures and one person”. […] 469.

Locke non chiarisce qui se il mistero trinitario fosse o meno un articolo di fede per le Scritture, e

poiché – come egli aveva spiegato - il suo cristianesimo si fondava su quel che le Scritture

affermavano con chiarezza, si potrebbe forse ritenere che tale dogma non rientrasse tra le dottrine

che egli professava, come si è visto in precedenza. Tuttavia vi è una certa ambiguità nelle sue

parole, tale da impedire un giudizio definitivo a tal proposito:

465 RBW2, p. 316. 466 RBW2, p. 315. 467 RBW2, p. 335. 468 RBW2, p. 341. 469 RBW2, p. 343.

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I do not here question their truth [il dogma trinitario e la doppia natura di Cristo], nor deny that they may be drawn from the Scripture: but I deny that these very propositions are in express words in my Bible. For that is the only thing I deny here; if your lordship can show them me in yours, I beg you to do it 470.

L’argomento è occasione per Locke di ribadire l’impossibilità di accogliere da parte sua alcuna

proposizione, presentata come rivelazione, contraddittoria con proposizioni autoevidenti.

� Immaterialità dell’anima Immaterialità dell’anima Immaterialità dell’anima Immaterialità dell’anima

Ma la disputa con il Vescovo di Worcester era sorta non solamente intorno alla questione della

Trinità, e Locke lo ricorda, dal momento che Stillingfleet gli chiedeva di ammettere che sulla base

dei propri princìpi non era possibile dimostrare che l’anima fosse immateriale. All’obiezione del

Vescovo secondo cui, una volta ammessa la capacità di pensare nella materia, vi sarebbe stata

confusione tra l’idea di materia e quella di spirito, Locke risponde negativamente: «no more than I

confound the idea of matter with the idea of a horse, when I say that matter in general is a solid

extended substance; and that a horse is a material animal, or an extended solid substance with

sense and spontaneous motion»471.

A chi sosteneva che se Dio avesse concesso alla materia pensiero, ragione e volizione ne avrebbe

distrutto l’essenza, poiché ne avrebbe modificato le proprietà essenziali, Locke replicava che

pensiero e ragione, o «whatever excellency, not contained in its essence, be superadded to matter,

it does not destroy the essence of matter, if it leaves it an extended solid substance; wherever that

is, there is the essence of matter: and if every thing of greater perfection, superadded to such a

substance, destroys the essence of matter, what will become of the essence of matter in a plant, or

an animal, whose properties far exceed those of a mere extended solid substance? »472.

Non era in discussione, da parte di Locke, l’incapacità umana di concepire la materia pensante,

ma da qui sostenere «that God therefore cannot give to matter a faculty of thinking, is to say God’s

omnipotency is limited to a narrow compass, because man’s understanding is so» e quindi «brings

down God’s infinite power to the size of our capacities»473. Tornava la convinzione già espressa nel

470 Ibid. 471 RBW2, p. 460. 472 RBW2, pp. 460-61. 473 RBW2, p. 461.

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Saggio: l’impossibilità di concepire con il nostro intelletto qualcosa non implica che questo non sia

possibile, e i modi di Dio «are not the less excellent, because they are past our finding out»474.

Sembra che in queste riflessioni per Locke sia in discussione non tanto l’essenza della materia

quanto l’onnipotenza divina (e il significato che noi attribuiamo a tale attributo). Una questione

che egli esprime in termini che meritano di essere riportati:

If the omnipotent Creator had not superadded to the earth, which produced the irrational animals, qualities far surpassing those of the dull dead earth, out of which they were made, life, sense, and spontaneous motion, nobler qualities than were before in it, it had still remained rude senseless matter; and if to the individuals of each species he had not superadded a power of propagation, the species had perished with those individuals: but by these essences or properties of each species, superadded to the matter which they were made of, the essence or properties of matter in general were not destroyed or changed, any more than any thing that was in the individuals before was destroyed or changed by the power of generation, superadded to them by the first benediction of the Almighty475.

Non vi era dunque possibilità di provare, secondo Locke, che Dio, se lo volesse, non potrebbe

aggiungere proprietà o qualità alla materia, dal momento che una tale integrazione non avrebbe

distrutto l’essenza di questa. Né i Padri della Chiesa avevano cercato di dimostrare che la materia

non potesse ricevere un potere di pensiero e percezione476. Il problema erano semmai le nostre

«narrow conceptions», l’incapacità umana di ottenere una conoscenza di come tutto ciò potrebbe

avvenire:

For thinking being an action, it cannot be denied that God can put an end to any action of any created substance, without annihilating of the substance whereof it is an action: and if it be so, he can also create or give existence to such a substance, without giving that substance any action at all477.

Locke ribadiva che i suoi princìpi si accordavano perfettamente con la fede e non tendevano allo

scetticismo come sosteneva Stillingfleet, al quale veniva ricordato di non aver trovato «any

proposition in my book inconsistent with any article of the Christian faith» 478.

L’ultimo argomento che Locke passa quindi ad esaminare era l’accusa di aver minacciato la

credibilità dell’articolo relativo all’immortalità dell’anima, avendo sostenuto nel Saggio 479 che non

poteva essere dimostrato che vi è in noi una sostanza immateriale che pensa, sebbene ciò fosse

altamente probabile480. A Stillingfleet, che associava immaterialità e immortalità dell’anima, la

questione stava particolarmente a cuore tanto da tornarvi sopra in ogni suo intervento. Egli 474 Ibid. 475 RBW2, p. 462. 476 Cfr. RBW2, p. 469. 477 RBW2, p. 464. 478 RBW2, p. 473. 479 Cfr. Saggio, II, XXIII, 5. 480 Cfr. RBW2, pp. 474 ss.

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riteneva che una credenza nell’immaterialità dell’anima fondata unicamente sulla divina

rivelazione - in assenza cioè di una dimostrazione da parte della ragione naturale a supporto -

avrebbe seriamente posto in pericolo anche la fede nella sua immortalità.

Locke non era dello stesso avviso, dal momento che «if God has revealed that it [soul] shall be

immortal; because the veracity of God is a demonstration of the truth of what he has revealed, and

the want of another demonstration of a proposition that is demonstratively true, takes not off from

the evidence of it»481. Se Dio aveva rivelato che i corpi sarebbero risorti dopo la risurrezione - e

così le anime - come sarebbe stato possibile credere in un caso e non nell’altro? E al suo

interlocutore rivolgeva i seguenti interrogativi: «Or can any one, who admits of divine revelation

in the case, doubt of one of them more than the other? Or think this proposition less credible, the

bodies of men, after the resurrection, shall live for ever, than this, that the souls of men shall, after

the resurrection, live for ever? »482.

La rivelazione divina su questo punto era più che sufficiente per Locke. Inoltre fondare la

credenza nell’immortalità dell’anima sulla ragione naturale comportava il rischio di dover

postulare anche la sua preesistenza prima dell’unione con il corpo, come gli antichi pagani avevano

fatto prima del cristianesimo. Insistere, come faceva Stillingfleet, per una prova razionale a questo

riguardo equivaleva ad affermare che una proposizione divinamente rivelata, che non potesse

ricevere una prova dalla ragione naturale, era meno credibile di una che poteva invece ottenerla; e

questo, a sua volta, lasciava intendere secondo Locke «that God is less to be believed when he

affirms a proposition that cannot be proved by natural reason, than when he proposes what can be

proved by it »483.

Con una risposta di questo tipo Locke mostrava tutta la sua opposizione a risolvere la rivelazione

nella ragione naturale, come se non vi fosse bisogno della rivelazione stessa, chiarendo che alcune

dottrine (come quella di una vita dopo la morte o della Trinità) erano decisamente above reason e

che sottoporle a dimostrazione equivaleva ad attentare alla fede nella rivelazione. Questa volta era

Stillingfleet a finire sotto accusa:

If this be your lordship’s way to promote religion, or defend its articles, I know not what argument the greatest enemies of it could use, more effectual for the subversion of those you have undertaken to defend; this being to resolve all revelation perfectly and purely into natural reason, to bound its credibility by that, and leave no room for faith in other things, than what can be accounted for by natural reason without revelation484.

481 RBW2, p. 476. 482 RBW2, p. 477. 483 RBW2, p. 481. 484 RBW2, p. 482.

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Locke, nel citare anche le riflessioni di Cicerone sull’anima485, difendeva dunque la rivelazione

contro la fiducia dei deisti in una ragione naturale, e al medesimo tempo propugnava una fede

pura, semplice, chiara, intelligibile, la cui essenza era stata indicata nei suoi scritti precedenti:

I gratefully receive and rejoice in the light of revelation, which sets me at rest in many things, the manner whereof my poor reason can by no means make out to me: omnipotency, I know, can do any thing that contains in it no contradiction; so that I readily believe whatever God has declared, though my reason find difficulties in it, which I cannot master486.

La questione della risurrezione e di una vita oltre la morte aveva d’altra parte un’importanza

rilevante anche nell’ambito dell’etica lockiana, e per questo non si poteva ritenere che il filosofo

volesse metterla in qualche modo in discussione, dal momento che consentiva di ritenere gli

uomini «free enough to be made answerable for their actions, and to receive according to what

they have done»487.

Se la dichiarata impossibilità di fornire certezze su determinate questioni aveva fatto guadagnare

a Locke l’accusa di scetticismo da parte di Stillingfleet, era ormai chiaro che l’impianto

razionalistico del Saggio era stato confermato dagli scritti successivi, e che la sua novità riposava in

buona parte sulla distinzione capitale tra knowledge e faith. Quest’ultima, a propria volta, poggiava

su una belief of God, ritenuta dal filosofo «the foundation of all religion and genuine morality»488.

E questa belief era propria della «vastly greater majority of mankind», la quale «in all ages of the

world, actually believed a God»489.

Si osserva da queste riflessioni come la disputa tra Locke e Stillingfleet, la quale ebbe termine

solo con la morte del Vescovo nel 1699, offra rilevanti precisazioni su diverse questioni affrontate

dal filosofo nei suoi scritti precedenti, di carattere non solo epistemico ma utili anche per la

ricostruzione del suo pensiero in ambito teologico ed esegetico.

485 «Cicero was willing to believe the soul immortal; but when he sought in the nature of the soul itself something to establish that his belief into a certainty of it, he found himself at a loss. He confessed he knew not what the soul was». Ivi, p. 487. Locke si riferiva in particolare al primo libro delle Tuscolanae Disputationes sul disprezzo della morte: M. Tullio Cicerone, Le discussioni tusculane, in Opere politiche e filosofiche, a c. di N. Marinone, UTET, Torino 1995. 486 RBW2, p. 492. 487 Ibid. Su un giudizio finale nel quale si dovrà rispondere a Dio si vedano i seguenti luoghi: ST, p. 101; T2, 21; LT, p. 169; Saggio I, III, 6; II, XXVIII, 8. Cfr. anche RC, p. 210; p. 175. 488 RBW2, pp. 493-494. 489 RBW2, p. 494.

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239

c) c) c) c) I rapporti con il deismo: continuità e divergenzeI rapporti con il deismo: continuità e divergenzeI rapporti con il deismo: continuità e divergenzeI rapporti con il deismo: continuità e divergenze

Nella comprensione del rapporto tra il nascente deismo del XVII secolo e il pensiero di Locke si

deve tener conto della mediazione del platonismo di Cambridge, e in particolare del Whichcote,

secondo il quale, come si è visto, l’uomo dispone di due luci: quella della ragione e quella delle

Scritture. La prima pertanto non deve essere trascurata, perché anch’essa di origine divina.

Come è stato osservato, «con l’arminianesimo, il socinianesimo e la filosofia di Herbert il

Whichcote è imparentato per via della convinzione, tipicamente deista, di una “luce naturale”

presente in ogni uomo e sufficiente a condurlo ai princìpi fondamentali della religione»490.

Se a caratterizzare in modo particolare le dottrine di Whichcote era stata l’idea che la religione

fosse in se stessa sempre la medesima, in ogni luogo e in ogni tempo, mentre erano i culti e le

specifiche dottrine a subire una variazione da religione a religione; come pure l’insistenza, rispetto

a Herbert, sul carattere naturale (e quindi etico) della religione, e poi sul suo carattere razionale, è

possibile tuttavia rintracciare uno sfondo comune con il pensiero lockiano proprio nella battaglia -

combattuta dal Whichcote e da tutti i deisti - a favore della razionalità del cristianesimo: «Quello

cioè che Whichcote combatte è soprattutto l’atteggiamento della fede cieca, il quale conduce a una

sfiducia nella ragione umana. Al contrario, per Whichcote la ragione è proprio la fiaccola accesa da

Dio nello spirito umano al fine di illuminargli il cammino della religione»491.

Con il termine deismo si fa riferimento alla dottrina di una religione naturale o razionale,

fondata non su una rivelazione storica ma sulla manifestazione naturale che la divinità fa di sé alla

ragione dell’uomo492. Come momento dell’illuminismo, questo si diffuse in prevalenza fuori

dell’Inghilterra, dove i deisti erano di numero inferiore ai loro oppositori. Quasi tutti gli illuministi

francesi, tedeschi e italiani erano deisti, anche se non tutti utilizzavano il medesimo termine per

indicare il riferimento comune delle loro credenze religiose.

Il deismo come corrente intellettuale e religiosa che intende il mondo come progetto divino,

prediligendo il primato dell'ordine impersonale, si accompagnava nel XVII secolo all'esigenza di

una religione vera, naturale, in opposizione ad una offuscata da aggiunte e corruzioni. Il popolo

inglese, che ebbe occasione dopo la Guerra civile di riflettere sui costi elevati della faziosità

490 A. Plebe, Il platonismo inglese, cit., XIII, p. 503. 491 Ibid. 492 In questo senso il deismo si è configurato come un aspetto dell’illuminismo, di cui fa parte. Sul deismo, e le sue origini inglesi, si vedano: E. Cassirer, La filosofia dell’illuminismo, cit., in part. pp. 241-251; PAR, pp. 136 - 155; P. Hazard, La crisi della coscienza europea (1935), a c. di P. Serini, Il Saggiatore, Milano 19832; C. Motzo Dentice di Accadia, Preilluminismo e deismo in Inghilterra, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1970. Cfr. anche M. Firpo, Recenti studi sul Socinianesimo nel Sei e Settecento, cit., pp. 130 ss.

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religiosa, animò durante la Restaurazione una reazione diffusa contro il fanatismo e l'entusiasmo;

aspetto sul quale si sofferma anche Locke nel diciannovesimo capitolo del quarto libro del Saggio,

dando voce all’esigenza di una religiosità più semplice, meno elaborata dal punto di vista dottrinale

e più familiare con la ragione.

In quest’opera, come si è visto, forte è la presa di posizione contro superstizione e fanatismo,

atteggiamenti che avevano come presupposto una rimozione della ragione e l’abbandono al

fideismo; e non senza motivo Locke ritenne opportuno aggiungere un capitolo nella quarta

edizione, in seguito allo scambio con Stillingfleet, al fine di precisare il ruolo determinante della

ragione anche in materia di fede. Egli aveva un modello illustre nell’opera Enthusiasmus

Triumphatus di Henry More, sebbene le prospettive dei due fossero differenti: mentre More

classificava l’entusiasmo come una forma di isteria legata a forme di immaginazione, Locke è più

interessato ad esaminare le pretese che scaturivano da tale fenomeno493.

Questi intendeva difendere la fede come atto ragionevole da fanatici che, dietro pretesa di

rivelazioni e ispirazione divina, vantavano una maggiore familiarità con Dio, senza tuttavia saper

rendere ragione del proprio comportamento, e arrivando a sostenere qualunque infondata

opinione. Il bersaglio polemico erano in primo luogo i quaccheri:

[Essi] Vedono la luce infusa nel proprio intelletto, e non possono essere in errore: essa è là, chiara e visibile, come la luce del sole; si manifesta, e non ha bisogno di alcun’altra prova tranne la propria evidenza […]. Con questi argomenti si fanno forza, e sono sicuri che il ragionare non ha niente a che vedere con ciò che essi vedono e sentono in se stessi: le cose di cui hanno una esperienza sensibile non ammettono dubbio, non hanno bisogno di prova494.

Il solo antidoto a tale entusiasmo viene individuato da Locke nella corretta distinzione tra ambito

della ragione e ambito della rivelazione: solo chi è disposto a sottoporre la propria fede al tribunale

della ragione, e la fa sempre accompagnare da questa, sarà in grado di evitare i pericoli di un

fanatismo religioso che aveva dimostrato di poter scatenare sanguinosi conflitti495.

[Dio] quando illumina la mente con la luce soprannaturale, non estingue quella che è naturale. Se vuole che noi assentiamo alla verità di una qualche proposizione, o dà la prova di quella verità coi metodi consueti della ragione naturale, o altrimenti ci fa sapere che è una verità cui vuole noi diamo l’assenso nostro per la Sua autorità, e ci convince che essa viene da lui, mediante qualche contrassegno intorno al quale la ragione non può cadere in errore. La ragione dev’essere il nostro ultimo giudice, e guida, in tutto 496.

493 Sull’argomento si veda il saggio di N. Jolley, Reason’s Dim Candle: Locke’s Critique of Enthusiasm, in P. Anstey (ed.), The Philosophy of John Locke: New perspectives, cit., pp. 179 - 191. 494 Saggio, IV, XIX, 8; p. 796 (corsivo mio). 495 Locke torna più volte sull’impossibilità di ricevere ciò che contraddica una conoscenza chiara e distinta, oltre che sulla necessità che la ragione vagli ogni aspetto della rivelazione e sia l’ultimo giudice in tutto, cfr.: Saggio, IV, XVI, 14; IV, XVIII, 5-6 e 10; IV, XIX, 14. 496 Saggio IV, XIX, 14; p. 801.

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Locke riteneva che la rivelazione avesse un carattere soprannaturale e non mise mai in discussione

tale aspetto, al punto da ritenere i miracoli il contrassegno, il sigillo, dell’approvazione divina. La

prova di un’origine divina della rivelazione non risiede perciò in una convinzione interiore, per

quanto potente possa essere, ma nell’oggettiva testimonianza dei miracoli497. Proprio perché si

tratta di una comunicazione non ordinaria, la rivelazione deve essere avvalorata da segni speciali:

per il cristianesimo lockiano «miracoli e compimento delle profezie sono prove della rivelazione

che nessun uomo ragionevole può rifiutare»498. Perciò la ragione deve guidare l’uomo in tutto,

anche nella vita di fede, e questi deve consultarla per stabilire se una rivelazione proviene o meno

da Dio, dal momento che soltanto la ragione può consentire all’uomo di distinguere il vero dal

falso.

Differente era la posizione dei deisti: in termini generali il loro atteggiamento era ostile verso i

miracoli, sebbene pochi di essi arrivassero a mettere in questione la loro realtà. Anche se venivano

messi in dubbio alcuni resoconti biblici, non si discuteva l’intervento divino nel corso del mondo. I

deisti rigettavano piuttosto il valore dei miracoli, nel ritenere che non potessero provare la verità

della rivelazione499.

Come concezione filosofica sorta nel XVII secolo, pur ammettendo Dio come causa del mondo, il

deismo rifiutava tanto il principio di autorità religiosa quanto la rivelazione, sostenendo una

religione priva di dogmi e di un culto positivo; una sorta di piattaforma comune a tutte le religioni

intessuta di princìpi morali cui l’uomo può giungere in forza della sua ragione.

Le dispute intorno a tale indirizzo furono inaugurate dai platonici di Cambridge, e prima di loro

da Herbert di Cherbury, anche se la distinzione tra teismo e deismo – il cui tratto essenziale è la

497 Per Locke i miracoli sono possibili, non sono una superstizione (cfr. Leviatano, XXXVII) e sono il segno della verità di una rivelazione, Dio ne è autore. Diversamente, per Hobbes «se qualcosa deve essere considerata un miracolo, lo decide dunque lo Stato in quanto ragione pubblica, public reason, in contrapposizione alla private reason del suddito. Con ciò il potere sovrano è all’apice della propria potenza: è il più alto rappresentante di Dio in terra». C. Schmitt, Sul Leviatano, cit., pp. 92-93. 498 RED, p. 106 (trad. mia). 499 Va osservato tuttavia che i deisti avevano differenti posizioni circa i miracoli. Toland sosteneva che non potessero essere contrari alla ragione e si mostrò scettico verso quelli riferiti dal Vecchio Testamento, affermando che non più di un terzo di essi erano reali (cfr. Il cristianesimo senza misteri, cit., pp. 174-177). Collins sembrava accettare i miracoli, tuttavia non li considerava sufficienti a fornire autorità ad un profeta che cercava di provare qualcosa di contrario alla religione naturale. Tindal, sebbene ostile ai miracoli, non arrivava a negarli esplicitamente né sosteneva che i deisti li negassero. Bolingbroke accettava i miracoli come fatti straordinari per attestare la rivelazione di Gesù agli uomini. Cfr. RED, pp. 97-100; G.V. Lechler, Geschichte des Englischen Deismus , pp. 289 ss.

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negazione della rivelazione e la riduzione del concetto di Dio alle caratteristiche che la ragione

può scoprire - si trova formulata solo in Kant500.

Tratto comune ai deisti era la considerazione che la religione non contenesse né potesse

contenere alcunché di irrazionale501, nell’assumere come criterio di razionalità la ragione lockiana

più che quella cartesiana; essi pertanto consideravano la verità della religione come presente alla

ragione stessa, e in tal senso ritenevano superflua la rivelazione storica. Quanto ai cardini della

religione naturale, per i deisti erano davvero esigui: esistenza di Dio, creazione divina del mondo,

remunerazione del male e del bene in una vita futura.

Quanto al concetto di Dio, non vi era accordo: i deisti inglesi – tra i maggiori, oltre a Herbert,

comparivano Toland, Matthew Tindal, Anthony Collins (con il quale Locke intrattenne una

corrispondenza502) e il terzo conte di Shaftesbury, Anthony Ashley Cooper - ritenevano che Dio

fosse responsabile non solamente del governo del mondo fisico, ma anche di quello morale, mentre

i francesi come Voltaire attribuivano a Dio un atteggiamento di sostanziale indifferenza503.

Viano coglie una vicinanza tra Locke e il deismo nell’ambito di quella che considera la polemica

anticlericale fondata sull’interpretazione politica del potere dei sacerdoti, come formulata nella

Ragionevolezza del cristianesimo504. Tuttavia lo studioso riconosce che mentre il deismo «aveva

dato una interpretazione radicalmente politica anche del cristianesimo, che, da questo punto di

500 Nella Dialettica trascendentale, prendendo in considerazione l’argomento della conoscenza dell’essere originario, Kant spiega che la teologia si basa o sulla semplice ragione (theologia rationalis) o sulla rivelazione (revelata): «A sua volta il primo tipo di teologia pensa il suo oggetto o semplicemente mediante la ragion pura, per mezzo di meri concetti trascendentali (ens originarium, realissimum, ens entium) e si chiama teologia trascendentale, oppure mediante un concetto che essa deriva dalla natura (della nostra anima), come è quello di somma intelligenza, e dovrebbe essere chiamata teologia naturale. Colui che dunque ammette soltanto una teologia trascendentale viene chiamato deista, colui che ammette anche una teologia naturale viene chiamato teista. Il primo ammette che, in ogni caso, noi possiamo conoscere l’esistenza di un essere originario mediante la semplice ragione, anche se di esso noi abbiamo un concetto semplicemente trascendentale, cioè solo quello di un essere che possiede ogni realtà, la quale però non può essere determinata più precisamente. Il secondo afferma che la ragione è in grado di determinare più precisamente l’oggetto secondo l’analogia con la natura, cioè come un essere che contiene in sé, mediante intelletto e libertà, il fondamento originario di tutte le altre cose. Dunque, con il concetto di essere originario il deista si rappresenta semplicemente una causa del mondo (senza poter decidere se mediante la necessità della sua natura o mediante la libertà); il teista invece un creatore del mondo. […] Poiché con il concetto di Dio si è soliti intendere non semplicemente una natura eterna che opera ciecamente, come radice delle cose, bensì un essere sommo che, mediante intelletto e libertà, dev’essere il creatore delle cose – e soltanto questo è il concetto che ci interessa – allora si potrebbe, a rigore, contestare al deista ogni fede in Dio, e lasciargli unicamente l’affermazione di un essere originario, ossia di una causa suprema. Tuttavia, poiché nessuno può essere incolpato di voler negare qualcosa per il solo fatto che non osa affermarla, allora è più moderato e più giusto dire che il deista crede in un Dio, ma il deista crede in un Dio vivente (summa intelligentia)». I. Kant, Critica della Ragion Pura, Bompiani, Milano 2007, [II, ii, cap. III, sez. VII] pp. 911 – 913. 501 Cfr. J. Toland, Il cristianesimo senza misteri, cit., pp. 174-75. 502 Su Collins si veda: G.V. Lechler, Geschichte des Englischen Deismus , cit., pp. 217 – 239. Sullo scambio epistolare tra Locke e Collins cfr. Corr., VII - VIII. 503 Cfr. Voltaire, Trattato di metafisica, a c. di P. Rossi, Il Solco, Città di Castello 1947; Dizionario filosofico, Bompiani, Milano 2013. 504 Cfr. C.A. Viano, John Locke: dal razionalismo all’illuminismo, cit., pp. 385 ss.

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vista, era collocato sullo stesso piano delle altre religioni storiche»505, cosicché esso «non era

privilegiato sulle altre religioni, non era considerato depositario di una verità assoluta e […] tutt’al

più si poteva riconoscere che esso era essenziale per la sussistenza della società europea nata dal

Medioevo»506, Locke attribuiva invece ad esso un carattere privilegiato, e precisamente la funzione

di depurare il rapporto religioso da una possibile deformazione politico-sacerdotale, e lo indicava

come « una delle vie per la realizzazione del regno della ragione»507.

Jean-Michel Vienne ha osservato che sebbene Locke sia a volte annoverato tra i deisti sono stati

Tindal, Collins e Toland a riprendere le sue tesi, e che egli si oppose invece a più riprese ai deisti,

affermando in modo esplicito che il cristianesimo non era riducibile alla religione naturale ad

opera della ragione508. Vienne, in un saggio dedicato al ruolo dell’interpretazione lockiana delle

Scritture e alle sue regole, cita il primo paragrafo della Ragionevolezza come esempio di critica

rivolta a quelli che considerava «également ignorants de la vraie religion»: tanto coloro che

snaturavano la religione per mezzo di un fideismo pessimista, quanto coloro che facevano di Gesù

Cristo un semplice rinnovatore, il predicatore di una pura religione naturale, facendo così violenza

ai Vangeli509.

Nel suo studio, Samuel Hefelbower ha esplorato il tipo di relazione che poteva sussistere tra

Locke e il deismo inglese, in considerazione del fatto che le origini di quest’ultimo sono

rintracciabili in un arco di tempo che si estendeva dagli ultimi anni del XVII secolo alla metà del

secolo XVIII. Pertanto, gli anni di maggiore attività per Locke furono anche quelli del primo

deismo.

Circa un possibile collegamento tra deismo e filosofia lockiana sono state avanzate diverse

ipotesi: Hefelbower ha giudicato storicamente insostenibile la possibilità che il primo sia stato

all’origine delle tesi religiose di Locke. Altri studiosi hanno sostenuto piuttosto il contrario,

essendo Locke un leader intellettuale passato alla storia come padre dell’empirismo inglese510.

Secondo John W. Yolton, le relazioni tra Locke e il deismo sono complesse, anche se pare

indubitabile che il filosofo non si considerò mai un oppositore della religione rivelata511. Secondo

Pearson, la posizione religiosa di Locke non sembra pienamente riflessa dal deismo, né

505 Ivi, p. 385. 506 Ivi, pp. 385-86. 507 Ivi, p. 386. 508 Cfr. J.M. Vienne, De la Bible à la Science. L’Interprétation du singulier chez Locke, cit., pp. 774 - 775. 509 Ivi, p. 775. 510 Cfr. C. Fabro. Introduzione all’ateismo moderno, cit., pp. 215-216. 511 Cfr. J.W.Yolton, Locke and the Compass of Human Understanding, cit., p. 173.

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nell’anglicanesimo latitudinario né nel successivo modello di Stato secolare americano512. Un

ulteriore punto di vista considera Locke e i deisti come il “prodotto” di un medesimo Zeitgeist, dal

momento che erano accomunati da una protesta contro l’eredità scolastica e l’intolleranza a favore

della libera ricerca. In tal senso, insieme ai deisti, i platonici di Cambridge e i fondatori della

filosofia inglese avrebbero costituito un unico fronte513.

Diversi studiosi della storia del pensiero inglese hanno offerto plausibili interpretazioni di tale

questione, con esiti non sempre convergenti: secondo Friedrich Überweg la filosofia dei deisti

inglesi è stata in effetti influenzata da Locke514. Per lo storico e teologo luterano Gotthard Lechler,

Locke non avrebbe inteso opporsi al sistema di fede allora vigente, ma ha senz’altro avuto

un’influenza nel plasmare il movimento deista, in relazione al quale la sua filosofia può essere

considerata una tappa515 .

Seguendo una linea interpretativa non troppo distante, Harald Høffding ha visto in Locke un

«fondatore del razionalismo religioso»516, non rilevando contraddizioni tra la sua religione e la sua

filosofia, e ponendo piuttosto l’accento sui presupposti teologici, conseguiti per via razionale, senza

i quali non sarebbe stata possibile, ad avviso di Locke, alcuna etica517. Pur riconoscendo il punto di

vista della fede rivelata, lo studioso danese ha osservato che la rivelazione rappresentava per il

filosofo inglese «un ampliamento della religione naturale fondata per mezzo della ragione» 518 e lo

ha presentato come colui che «combattendo la teologia della chiesa»519 aveva a cuore un

cristianesimo accessibile agli ultimi. Høffding giudica inoltre di valore minimo da un punto di vista

filosofico la letteratura deistica, e riconosce a Locke una notevole influenza su pensatori successivi

come Voltaire520.

Secondo una tale interpretazione il deismo non sarebbe stato che uno stadio successivo di un

medesimo indirizzo - il razionalismo inglese - del quale anche Locke avrebbe fatto parte. In tal

512 Cfr. S. Pearson Jr., The Religion of John Locke and the Character of his Thought, cit., p. 147. 513 Più radicale la tesi del filosofo Leslie Stephen, il quale ravvisando una continuità tra la filosofia della religione del filosofo inglese e le dottrine deistiche insiste sul fatto che Locke è stato il maestro di Toland, che come Collins fu suo discepolo. In questo senso Locke sarebbe stato il padre di quella generazione di filosofi che negava la religione positiva e finiva per opporre tra loro ragione e rivelazione. Quella di Locke sarebbe stata la “scuola” dei deisti, tanto che la sua figura potrebbe essere collocata all’origine tanto dell’empirismo quanto del deismo. I deisti avrebbero sviluppato in senso razionalista la filosofia di Locke, come ad esplicitare quel che era implicito nelle tesi lockiane. Cfr. RED, pp. 12 – 20. 514 Cfr. ivi, pp. 17-18. 515 Cfr. G.V. Lechler, Geschichte des Englischen Deismus, cit.. pp. 154 ss. 516 Cfr. H. Høffding, Storia della filosofia moderna, cit., I, p. 315. 517 Cfr. ivi, p. 314. 518 Ibid. 519 Ivi, p. 315. 520 Ibid.

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senso Locke e i platonici di Cambridge ne avrebbero rappresentato il primo periodo, mentre i

deisti la seconda parte.

Dal confronto tra le posizioni di Locke e quelle dei deisti, emergono in ogni caso importanti

elementi di continuità, insieme a significative differenze.

I due principali aspetti in comune tra Locke e il deismo sono tanto l’applicazione della ragione in

ambito religioso, con conseguente rivendicazione dei suoi diritti (ad esempio una conoscenza

dell’esistenza di Dio ottenuta non per rivelazione o per esperienza, ma per dimostrazione) - unita

alla difesa o riscoperta di una religione naturale (o razionale) che poneva il culto autentico in una

vita virtuosa521 -, quanto l’insistenza sul principio di tolleranza come valore supremo, con l’intento

di realizzare una pax philosophica e religiosa in grado di superare le distinzioni culturali.

Più in generale, secondo Hefelbower, Locke e i deisti si collocavano nell’orizzonte di Hooker

quanto all’uso del medesimo concetto di natura, dal momento che tutti i principali pensatori

inglesi del tempo cercavano di fondare le istituzioni sociali sui princìpi naturali. In questo senso sia

Locke sia i deisti avrebbero aderito al medesimo orientamento liberale che promuoveva la libera

ricerca e sottoponeva ogni cosa al vaglio della ragione522.

Ma i punti di convergenza si fermano qui, per lasciare posto alle divergenze. Se Hooker aveva

sostenuto che l’uomo è condotto alla verità per mezzo della rivelazione e della ragione, e che

attraverso la luce di quest’ultima – che proviene da Dio – si è in grado di distinguere il bene dal

male, per i deisti la ragione si trovava invece in una posizione di superiorità rispetto alla

rivelazione. In questo senso il razionalismo che plasmò la cultura del XVII secolo avrebbe dato vita

tanto al filone conservatore di Locke quanto al deismo. Hooker, i platonici di Cambridge e lo stesso

Locke, seguendo l’impostazione proveniente dalla Scolastica, ritenevano che la rivelazione fornisse

quel che la ragione da sola non poteva ottenere, salvaguardando così un nucleo di verità superiori

ma non contrarie alle sue capacità; mentre i deisti rimuovevano in maniera radicale, da quello che

ritenevano il vero cristianesimo, un ambito above reason523. E una delle maggiori divergenze

riguardava appunto i miracoli.

521 Fabro giudica ambigua la posizione di Locke nei confronti del cristianesimo: «da una parte essa pretendeva di difendere la religione e la personalità morale di Cristo contro la critica dei libertini, dall’altra riconosceva nella religione soltanto gli elementi razionali respingendo implicitamente, ma non meno categoricamente, gli elementi propri e caratteristici del Cristianesimo quale religione storica rivelata». Per tale ragione Locke viene considerato da una parte degli studiosi come uno dei fondatori del deismo. Cfr. C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, cit., p. 272. 522 Cfr. RED,,,, pp. 63-64. 523 Cfr. RED, pp. 71-82.

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Non vi sono elementi per sostenere che Locke abbia messo in dubbio i miracoli: egli li considerava

come convalida (o garanzia) delle verità rivelate. Si appellava ad essi di frequente, giudicandoli una

testimonianza di Dio per convincere gli uomini dell’autenticità di una rivelazione:

benché sia facile al potere onnipotente realizzare ogni cosa attraverso una volontà immediatamente operativa, e costringere ogni strumento a servire ai suoi fini, anche in modo contrario alla propria natura, tuttavia la sua [di Dio] sapienza non è volta, di solito, a profondere (se posso dir così) miracoli, tranne che in casi che li richiedano, per mettere in evidenza che qualche rivelazione o qualche missione vengono da lui 524.

Secondo la comprensione lockiana, nei Vangeli i miracoli certificavano la messianicità di Gesù ed

erano le credenziali che Dio assegnava a chi recava un suo messaggio nel mondo.

Locke enfatizza i miracoli ogni volta che fa riferimento alla rivelazione, nella convinzione che

questa fosse confermata dai primi525. Così era stato per Tillotson, l’interlocutore del filosofo per le

questioni teologiche526, e l’amico Boyle. I miracoli erano così determinanti che metterli in

discussione avrebbe significato mettere in dubbio la rivelazione stessa527. Secondo la lettura di

Samuel Hefelbower, vi sarebbe stata dunque una evidente discontinuità tra Locke – il quale

scorgeva nei miracoli la testimonianza divina delle verità bibliche - e i deisti, che attaccavano

invece l’origine divina delle Scritture.

In un breve saggio, A Discourse of Miracles528, Locke ebbe modo di esporre la propria dottrina. Si

definisce miracolo «un’operazione sensibile, che, essendo superiore [above] alla comprensione

524 RC p. 153; p. 92 (corsivo mio). 525 Carl Schmitt ha sottolineato il significato politico dei miracoli nel XVII secolo, questione che impegnò anche Hobbes, ritenuto uno dei primi e arditi critici di ogni fede nei miracoli (cfr. Leviatano, XXXVII, cit., pp. 705 – 721): «Nel giudicare la teoria hobbesiana dei miracoli non si deve dimenticare che il problema aveva allora un significato concreto e immediatamente politico. Guarigioni miracolose attraverso l’imposizione delle mani erano proprie dell’ufficio del re e costituivano un’emanazione e un segno del carattere sacrale della sua persona che, come afferma anche Hobbes, “è maggiore di quella di un semplice laico”. […] Per il popolo inglese le guarigioni miracolose sono rimaste ancora a lungo un’istituzione essenziale per la monarchia. […] Riguardo alla questione tanto spinosa della fede nei miracoli Hobbes si atteggia in modo del tutto agnostico. Egli muove dal presupposto che nessuno può sapere con sicurezza se un fatto è un miracolo o non. […] La sua critica suona già del tutto illuministica; a questo proposito Hobbes si presenta come l’autentico inauguratore del Settecento». C. Schmitt, Sul Leviatano, cit., pp. 90-91. 526 Tillotson considerava la conoscenza naturale di Dio il fondamento delle idee di bene e di male e della religione rivelata. La natura umana veniva vista come dato dal quale si potevano ricavare verità religiose senza rivelazione. Cfr. RED, pp. 51-52. Su Tillotson si veda inoltre G.V. Lechler, Geschichte des Englischen Deismus , cit., pp. 143 – 150. 527 Cfr. RED, pp. 94-95. 528 L’idea di questo piccolo saggio venne a Locke dalla lettura dell’Essay on Miracles (1701) di William Fleetwood, fellow di Eton e in seguito vescovo di St. Asaph e poi di Ely, e di una Letter to Mr. Fleetwood del 1702, sullo stesso soggetto, scritta come risposta dal teologo Benjamin Hoadly, poi vescovo di Bangor, pubblicata anonima. Il saggio di Locke, che figurava tra i manoscritti da pubblicare dopo la sua morte, reca la data 1701/2 in fondo al testo ed apparve nel 1706 nei Posthumous Works of Mr. John Locke [pp. 215-231]. Si può considerare come un tentativo, da parte di Locke, di arrivare ad una definizione soddisfacente di “miracolo”. Locke considerava la definizione di Fleetwood (“miracolo è un’operazione straordinaria che Dio solo può compiere”) troppo ristretta e riteneva insufficiente anche la risposta di Hoadly, che invece non offriva alcuna definizione di miracolo. Sullo scritto lockiano si vedano: T. B. Mooney, A. Imbrosciano, The Curious Case of Mr. Locke's Miracles, cit., pp. 147-168; V. Nuovo, Introduction, WR, pp. xxxvi-xxxvii.

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dello spettatore e contraria, secondo il suo modo di vedere, al corso stabilito della natura, è

considerata da lui come divina»529.

Si danno pertanto quattro condizioni affinché si possa parlare propriamente di miracolo: 1) deve

trattarsi di un’operazione sensibile; 2) «superiore alla comprensione» di colui che vi assiste, 3) il

quale la giudica «contraria al corso stabilito della natura» 4) e al medesimo tempo «divina»530. Colui

che vi assiste è uno spettatore e colui che presta fede al resoconto del fatto si mette nella

condizione di uno spettatore.

In questa definizione di miracolo torna l’accento posto da Locke tanto sull’esperienza sensibile (il

miracolo è qualcosa che ci arriva per mezzo dei nostri sensi, sulla base dei quali lo sperimentiamo

come contrario al corso naturale degli eventi) quanto sull’elemento soggettivo, ovvero sul giudizio

personale che conduce qualcuno a ritenere di essere di fronte ad una sospensione del corso

naturale di un evento, riconducibile in ultima analisi ad un intervento di carattere divino531.

Ma Locke considera pure due obiezioni ad una definizione di questo tipo. Secondo tale

formulazione infatti un miracolo può essere qualcosa di molto incerto, poiché si trova a dipendere

dal giudizio dello spettatore, così che quel che è miracolo per uno non lo sarà per un altro532. Tale

obiezione per Locke non ha consistenza, dal momento che il miracolo è quello che sorpassa la

forza della natura secondo leggi stabilite e fisse; e non può essere considerato miracolo se non

l’evento che si ritiene al di sopra di quelle leggi. Tuttavia Locke è consapevole della debolezza della

comprensione umana dei processi naturali, oltre che dei fenomeni soprannaturali, e dal momento

che ciascuno è in grado di giudicare quelle leggi in base alla propria conoscenza della natura e della

sua forza, non si può evitare che quel che uno ritiene miracolo per un altro non lo sia. È sempre

vero inoltre per il filosofo che l’ultima determinazione, anche in quest’ambito, compete alla

ragione. Sembra che Locke sia stato sempre persuaso di ciò, tanto da aver annotato nel 1681 che

529 «A miracle then I take to be a sensible operation, which, being above the comprehension of the spectator, and in his opinion contrary to the established course of nature, is taken by him to be divine». DM p. 44; p. 585. 530 Secondo Mooney e Imbrosciano Locke segue qui un semplice sillogismo: poiché miracolo è ciò che verifica le quattro condizioni citate, e poiché esse rientrano nella categoria della rivelazione, allora i miracoli cadono nella categoria della rivelazione. T. B. Mooney, A. Imbrosciano, The Curious Case of Mr. Locke's Miracles, cit., pp. 161-62. 531 Mooney e Imbrosciano ritengono le tesi di Locke sui miracoli incoerenti con il resto del suo sistema filosofico, aspetto che emergerebbe in particolare dal confronto tra il Saggio e il Discourse. Secondo gli studiosi, anche dopo aver ricevuto una definizione di miracolo, «we are left with a conflict between Locke’s naturalistic epistemology and his protestations of faith, such that it is very difficult to reconcile what amount to contradictions in his writings». Ivi, p. 158. 532 Su questo aspetto cfr. ivi, p. 164.

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la ragione deve giudicare che cosa sia miracolo e che cosa non lo sia, cosa che è molto difficile da determinare, non conoscendo quanto si estenda il potere delle cause naturali e quali strani effetti esse possano produrre533.

La seconda possibile obiezione alla definizione di miracolo proposta è che una nozione così ampia

finirebbe per estendersi ad operazioni che non hanno alcunché di straordinario o di

soprannaturale in se stesse, per invalidare così l’uso di miracoli a garanzia della divina

rivelazione534. Locke risponde a tali obiezioni che

Per conoscere che una qualche rivelazione viene da Dio, è necessario conoscere che il messaggero che l’annuncia è inviato da Dio, e che non può essere conosciuto se non attraverso alcune credenziali date a lui da Dio stesso. […] Dobbiamo tener presente che la divina rivelazione riceve conferma soltanto da quei miracoli che sono operati per rendere testimonianza della divina missione di colui che annuncia la rivelazione. Tutti gli altri miracoli che sono operati nel mondo, per quanto numerosi e grandi siano, non riguardano la rivelazione 535.

Il miracolo viene presentato come il sigillo divino che consente di discriminare il vero messaggio

di origine divina dai messaggi dei ciarlatani, motivo per il quale credervi è ragionevole. Il filosofo

considera insomma i miracoli indicatori infallibili di una rivelazione: essi sono credenziali di un

messaggero divino se, e solo se, sono impiegati per verificare la vera religione i cui princìpi sono

già accettati. Non è mancato pertanto chi ha visto in questa spiegazione nient’altro che una petitio

principii – poiché credere ad un miracolo viene a dipendere dalla fede in Dio e la fede nella cura

provvidenziale di Dio per l’umanità è la garanzia del miracolo stesso - ed ha ravvisato più in

generale una discrasia tra il Saggio, la Ragionevolezza e il piccolo saggio sui miracoli536.

Locke insiste comunque nel ricondurre il miracolo ad un potere «greater and superior»537, il che

permette di spiegare perché nel mondo pagano, dove era ammessa una pluralità di culti e a nessuna

divinità si attribuiva la pretesa di essere l’unica, neppure vi era necessità di miracoli per stabilire il

culto dell’una o dell’altra, o per confermare articoli di fede; e tale è la ragione per la quale, secondo

Locke, non si ricordano miracoli raccontati da scrittori greci o romani per confermare la dottrina o

la missione di qualcuno. Le pretese rivelazioni del paganesimo semplicemente non richiedevano

l’attestazione dei miracoli. I miracoli infatti - come credenziali di un messaggero che annuncia

533 On Religion - Ms. Locke f. 5, pp. 33-38 [3 aprile 1681] in P. King, The Life of John Locke, cit., I, pp. 230-234; ora in D. Wootton, John Locke: Political Writings, cit., pp. 238-240; trad. it. in Ragione, rivelazione, miracolo, entusiasmo, SER, p. 192. 534 [...] «The notion of a miracle thus enlarged, may come sometimes to take in operations that have nothing extraordinary or supernatural in them and thereby invalidate the use of miracles for the attesting of divine revelation». DM, p. 44; p. 586. 535 DM, pp. 44-45; pp. 586-587. 536 Cfr. T. B. Mooney, A. Imbrosciano, The Curious Case of Mr. Locke's Miracles, cit., p. 159 e p.161. 537 DM, p. 47; p. 590.

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una religione divina - non possono avere luogo laddove non si suppone anche l’esistenza di un

unico e vero Dio:

Tra tutti coloro che sono venuti nel nome dell’unico vero Dio, affermando di portare da parte sua una legge, ritroviamo nel corso della storia una chiara narrazione di sole tre persone, cioè di Mosè, Gesù e Maometto538.

I teisti, i quali credono in un Dio saggio e buono, spiegano tali eventi soprannaturali alla luce della

fede. Nella prospettiva lockiana non si può rifiutare di credere a colui che viene con un messaggio

divino da consegnare al mondo se la sua predicazione è supportata da un miracolo, le sue

credenziali hanno diritto, per così dire, ad essere accolte:

Per esempio, Gesù di Nazareth si proclama inviato da Dio: egli con una parola calma una tempesta nel mare. Uno considera questo come un miracolo, e di conseguenza non può che accogliere la sua dottrina. […] E’ chiaro da tutto questo che, dove il miracolo viene ammesso, la dottrina non può essere rifiutata: essa giunge a colui che riconosce il miracolo con la certezza di una attestazione divina e non c’è più dubbio sulla sua verità 539.

Per il filosofo, quando si riceve un messaggio come inviato da Dio, non si ha garanzia maggiore di

quella che la ragione umana è in grado di fornire e nel caso di Cristo il numero, la varietà e la

grandiosità dei miracoli compiuti per confermare la sua dottrina recavano segni così evidenti di un

potere divino straordinario che la verità della sua missione resterà certa e indiscutibile fino a

quando chi vi si opponga non opererà miracoli maggiori di quelli suoi e dei suoi Apostoli540.

Di fronte a dichiarazioni straordinarie - come Son of God - segni altrettanto straordinari come i

miracoli erano necessari per attestarne la credibilità. Per Locke i miracoli, nel caso del

cristianesimo, sono accreditati nella storia come azioni di Dio in virtù delle quali l’uomo può

ragionevolmente accettarne la rivelazione. Ma Locke precisa anche che

non può essere considerata divina nessuna missione, che presenti qualcosa di difforme dall’onore dell’unico, vero, invisibile Dio, o in contrasto con la religione naturale e con le norme della moralità, perché non si può supporre che Dio, che ha manifestato agli uomini l’unità e la maestà della sua eterna divinità e le verità della religione naturale e della moralità con la luce della ragione, insegni il contrario attraverso la rivelazione: questo sarebbe distruggere l’evidenza della ragione e la sua funzione, senza di cui gli uomini non sono capaci di distinguere la divina rivelazione dall’impostura diabolica541.

538 DM p. 45; p. 588. 539 DM p. 46; p. 589. 540 Cfr. DM p. 47; p. 591. Mooney e Imbrosciano ravvisano in questa dichiarazione di Locke l’affermazione di una superiorità del cristianesimo che porta a respingere una pretesa di rivelazione o di miracoli da parte di altre religioni, e dunque una conferma della circolarità della sua riflessione. Id., The Curious Case of Mr. Locke's Miracles, cit., p.165. 541 DM, p. 48; p. 593.

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Secondo Locke non si può ritenere che attraverso la rivelazione Dio abbia rivelato cose

indifferenti, o di scarsa importanza, o che possono essere scoperte con l’uso delle facoltà naturali,

ma solo verità [truths] soprannaturali che si riferiscono alla gloria di Dio e di grande rilevanza per

l’uomo. I miracoli, in tal senso, rinviano ad un potere superiore e dominante. Attraverso tali segni

– come guida chiara e sicura - l’uomo può condurre il proprio esame delle religioni rivelate:

Infatti poiché si ritiene che questi segni soprannaturali siano gli unici mezzi che Dio ha per convincere gli uomini, in quanto creature ragionevoli, della certezza che qualcosa che egli intende rivelare provenga da lui, egli non può mai consentire che gli siano strappati di mano, per servire agli scopi e stabilire l’autorità di un agente a lui inferiore e in lotta contro di lui542.

Segni analoghi avevano accompagnato Mosè inviato ai figli di Israele per condurli fuori dall’Egitto;

i miracoli sono considerati pertanto come «la base su cui la divina missione sempre si fonda» e non

soltanto «operazioni contrarie [contrary to] alle leggi fisse e stabilite della natura»543. Leggi stabilite

che comunque soltanto i filosofi, al massimo, «possono pretendere di determinare»544 e non tutti gli

uomini.

A differenza di Le Clerc, Locke non riteneva la superiorità di un fatto al corso ordinario della

natura sufficiente per individuare un miracolo, e dunque opera di Dio, poiché ammetteva

l’esistenza di diversi poteri superiori all’uomo (una tesi condivisa con Hoadley), come quelli di

angeli buoni e cattivi con «capacità che superano di molto le nostre povere capacità e limitate

conoscenze»545.

Nel tornare quindi al confronto con il deismo, si osserva che alla fine del XVII secolo - in

particolare con Charles Blount546, il Toland del Cristianesimo senza misteri e il Tindal di

Christianity as Old as the Creation del 1730 – questo aveva attaccato l’autorità della Scrittura, la

dottrina dei miracoli e l’autorità della Chiesa, presentando l’esperienza religiosa come una

rivelazione interiore. In tal senso, il modo migliore per rendere culto a Dio consisteva secondo i

deisti in una pratica di vita morale, l’elemento essenziale di una religione.

Locke preferiva riferirsi invece ad una Law of Faith unita ad una Law of Works, ritenendo che

un esame attento della rivelazione non eliminava i misteri in essa presenti; per tale ragione egli

542 DM, p. 49; p. 594. 543 DM, p. 50; pp. 595-596. 544 DM, p. 50; p. 596. 545 DM, p. 50; p. 596. Su questo aspetto cfr. A. Besussi, La gerarchia delle creature in Locke: osservazioni e problemi, in «Il Politico», 55 (1990), pp. 275-292. 546 Cfr. C. Blount, The Oracles of Reason [A Summary Account of the Deist Religion], London, 1693, pp. 87-96, in V. Nuovo (ed.), John Locke and Christianity, cit., pp. 149-153.

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riconosceva anche i miracoli e un ambito above reason che i deisti invece scartavano547. Egli

ammetteva entrambe le fonti della ragione e della rivelazione, e assegnava alla prima il compito di

stabilire l’autenticità della seconda548.

Quanto alla rivelazione, Locke non la riteneva superflua ma la riconosceva indispensabile nelle

Sacre Scritture, il cui studio doveva essere condotto alla luce della ragione549.

Con riferimento alle due tendenze che si confrontavano nel XVII secolo, la conservatrice e la

liberale, Locke mostrò senz’altro, sia in ambito politico sia in ambito scientifico, una tendenza

liberale, mentre i deisti non manifestavano attenzione a questi due ambiti. In teologia e in ambito

religioso Locke era un razionalista e critico quanto al metodo, ma conservatore nei risultati550;

laddove i deisti si dimostrarono razionalisti e critici nel metodo e nei risultati ostili al cristianesimo

positivo551.

Dalle divergenze osservate si può concludere che mentre il teista, pur muovendo dalla religione

naturale, resta aperto ai misteri della religione rivelata, il deista fa a meno della rivelazione552. Così

in Locke non si trova una separazione che diventa opposizione, o conflitto, tra religione naturale

(razionale) e religione rivelata, come invece accadrà per i free-thinkers. Inoltre il filosofo inglese

respingeva le idee innate o notitiae communes, a differenza del padre del deismo Herbert di

Cherbury, al quale Cornelio Fabro muove la seguente obiezione: «se l’uomo è capace di farsi da sé,

anzi trova innata in se stesso una religione e un’etica naturale, che bisogno c’è di una religione

rivelata, accusata di essere piena di misteri e simboli incomprensibili che dividono gli uomini fra

loro?»553.

Se Dio si riduceva per il deismo ad un principio metafisico che ha per l’uomo e con il mondo un

significato di causa cosmica e un rapporto di causa-effetto, in questo senso il deismo può essere

547 «The discussion of miracles in the late 17th and early 18th centuries provides a bench mark indicating the positions of various authors within the polemics of the debate on the roles of reason, faith and revelation. The tide of rationalism which had gained great momentum in Europe and Britain during the 17th century […] had begun by rejecting much of the categories of scholastic thought». T. B. Mooney, A. Imbrosciano, The Curious Case of Mr. Locke's Miracles, cit., p. 148. 548 Sul ricorso lockiano alla Scrittura, osserva Cornelio Fabro: «Locke riduce la verità del suo “Cristianesimo ragionevole“ a due: 1. che esiste un Dio; e 2. che Gesù Cristo è il Messia. Nella prima verità si compendia tutta la religione naturale, nella seconda invece è espressa la sostanza della religione rivelata. Certamente l’uomo può con la ragione salire fino a Dio e seguendo la legge naturale può prestare a Dio il suo ossequio con la propria vita e ottenere così da Dio il perdono delle sue manchevolezze, ciò ch’è anche in perfetto accordo col Vangelo. Tuttavia ciò non bastava. Benché le opere della natura, in ciascuna delle loro parti, bastassero per mostrare ch’esiste un Dio, tuttavia – osserva Locke – gli uomini facevano così poco uso della loro ragione che non riuscivano a vedere questo Essere supremo […]». Id., Introduzione all’ateismo moderno, cit., p. 271. 549 Sulla necessità di essere familiari con la dottrina della Scrittura sin dall’infanzia, si veda anche: PE [191], pp. 254-255. 550 Cfr. Saggio, IV, XVIII, 5-6. 551 È la conclusione di Hefelbower, cfr. RED, p. 41. 552 Cfr. C. Fabro. Introduzione all’ateismo moderno , cit., p. 249. 553 Ivi, pp. 231-232.

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considerato allora una tappa verso l’ateismo554; per i deisti d’altra parte non era in discussione la

superiorità della religione naturale rispetto a quella rivelata. Dal momento che essi consideravano

la vera religione chiara e ragionevole, la ragione umana era ritenuta sufficiente per raggiungere ciò

che era necessario alla salvezza. Si riconosceva pertanto, da parte loro, solo la possibilità di una

rivelazione, la cui validità dipendeva in ogni caso dalla conformità o meno alla ragione.

Locke invece era senz’altro un teista555, per il quale l’esistenza di un Dio Creatore, del quale il

mondo e gli uomini sono proprietà esclusiva, era punto di partenza verso ogni direzione del

pensiero; e in ambito propriamente spirituale la figura di Cristo, come si è visto nel capitolo

precedente, assumeva una indiscussa centralità. Nella Ragionevolezza, secondo Cornelio Fabro,

«egli accetta e dimostra con la S. Scrittura che Cristo si è presentato come Messia, ch’è risorto da

morte per salvare l’uomo, e che l’uomo si salva con la fede in Cristo e con le buone opere»556.

Quanto all’interpretazione biblica, Locke prediligeva una comprensione del senso letterale, ma

sempre in considerazione dello sfondo storico e delle condizioni di composizione dei testi557.

L’opzione per il senso letterale era da ricondursi, come ha notato Sina, al rispetto che Locke

nutriva per la Sacra Scrittura e al desiderio di comprenderla nel suo senso autentico, dal momento

che l’interpretazione allegorica era la via privilegiata per veicolare imposizioni dogmatiche: e

«anche per questa opzione egli fu debitore ai teologi inglesi ed olandesi»558.

Vienne, nella centralità assegnata da Locke alle Scritture, ha visto un’attenzione tutta speciale

alla singolarità: esisteva per il filosofo un privato, un ambito riservato al singolo; egli avrebbe

quindi difeso uno spazio tanto per il culto privato, quanto per una liturgia comunitaria in una

società religiosa, come anche per credenze particolari e persino eterodosse. Secondo il filosofo

whig si dava soprattutto una salvezza accordata ai peccatori dal Messia (che verosimilmente, ad

avviso dello studioso francese, egli non avrebbe considerato come Dio). E tutto questo costituiva

per lui una ragione più che sufficiente per leggere con molta attenzione i Vangeli e le lettere di San

Paolo, e di darsi anche un metodo nel fare ciò559. Pochissimi altri secondo Vienne hanno avvertito,

con la medesima sensibilità di Locke, che attraverso la singolarità passava tanto la conoscenza

quanto la credenza: «si je dois croire par moi-même, il est inévitable que je doive comprendre par

554 Cfr. ivi, p. 226. 555 Cfr. G. A. J. Rogers, John Locke, God and the Law of Nature, in G. Canziani, M. A. Granada, Y. C. Zarka (a c. di), Potentia Dei. L’onnipotenza divina nel pensiero dei secoli XVI e XVII, cit., p. 549. 556 Cfr. C. Fabro. Introduzione all’ateismo moderno, cit., p. 271. 557 Cfr. RED, pp. 24 – 25. 558 M. Sina, Introduzione a Locke, cit., p. 116. 559 Cfr. J. M. Vienne, De la Bible à la Science. L’Interprétation du singulier chez Locke, cit., pp. 775 – 776.

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moi-même; à l’individualité de l’acte de compréhension, doit correspondre l’individualité de

l’adhésion»560.

560 Ivi, p. 776. Sulla necessità di ricercare la verità in prima persona cfr. Saggio, I, IV, 23; p. 90.

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Capitolo quartoCapitolo quartoCapitolo quartoCapitolo quarto

Una dottrina politica a fondamento teologico Una dottrina politica a fondamento teologico Una dottrina politica a fondamento teologico Una dottrina politica a fondamento teologico

Nel presente capitolo si prenderà in esame la teoria politica di Locke in relazione ai suoi

presupposti teologici, con particolare riferimento alla creazione da parte di Dio come descritta

nelle Scritture.

Una delle tesi più rivoluzionarie di questa teoria ha riguardato l’affermazione dell’uguaglianza di

tutti gli uomini, e dall’analisi che segue emerge l’esigenza di spiegare tale principio attraverso

assunti di carattere biblico, nonché di leggerlo in relazione tanto alla libertà e quanto alla legge

fondamentale di natura che prescrive che tutti devono essere conservati quanto più è possibile1.

Come ha sostenuto Martin Seliger, l’intenzione di Locke era quella di dirigere «l’imperativo

assoluto dell’uguaglianza naturale contro quella subordinazione che “potrebbe autorizzarci a

distruggerci reciprocamente, come se fossimo fatti per l’uso altrui, o come se vi fosse una categoria

inferiore di creature”(T2, 6)»2.

La dottrina politica lockiana, come ha notato anche Rawls, consta di due parti: una teoria della

legittimità – e «la legittimità di un regime è una condizione necessaria affinché si abbia l’obbligo

politico di osservare le sue leggi»3 - e una teoria del dovere e dell’obbligo politico delle persone4.

Locke si trova ad affrontare l’incommensurabile problema di “chi” debba avere il potere5 - posto

che gli uomini sono eguali tra loro e si trovano naturalmente privi di un superiore comune sulla

terra - e si confronta con la difficoltà che inevitabilmente sorge quando si vuole conciliare una

legge fondamentale opera di uomini (quella che si potrebbe chiamare una costituzione moderna)

1 T2, 183. 2 M. Seliger, Locke’s Natural Law and the Foundation of Politics, in «Journal of the History of Ideas», 24 (1963), pp. 337-54; ora in CA, II, pp. 34-51, qui 37 (trad. mia). 3 J. Rawls, Lezioni di storia della filosofia politica, cit., p. 143. Sulle basi del potere politico legittimo cfr. anche R. W. Grant, John Locke’s Liberalism, The University of Chicago Press, Chicago - London 1987, pp. 52- 178. 4 Ibid. 5 Cfr. T1, 106 e 122. Su questo argomento in relazione all’autorità divina cfr. G. Forster, John Locke’s Politics of Moral Consensus, cit., pp. 225 – 230.

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con l’esistenza di un Essere supremo6 e dei suoi comandamenti rivelati dalle Scritture. Da questo

punto di osservazione, il problema era quello di come conciliare la sovranità umana con

l’onnipotenza divina.

Nel suo complesso la riflessione presente nei Due Trattati, diretta a confutare la teoria politica

dell’assolutismo come formulata in particolare da Filmer - fondata cioè sul diritto divino e il potere

paterno di Adamo7 - presuppone quella sulla legge di natura presente nei Saggi giovanili8. Una tale

confutazione infatti, come ha mostrato Dunn, poggiava sulla tesi che la dottrina assolutistica fosse

falsa prima di tutto da un punto di vista morale9.

Nelle pagine che seguono si tenterà di esaminare l’impianto argomentativo sotteso alla teoria

politica di Locke, a partire dalla constatazione che i princìpi della sua filosofia civile – e in

particolare l’uguaglianza tra gli uomini e la giustificazione della resistenza in una costituzione

mista – richiedono una fondazione più profonda di quanto possa apparire ad una prima analisi, e

che il loro ingresso nella storia della filosofia politica è stato reso possibile da un’elaborazione non

ristretta al solo ambito politico. Essa infatti ha abbracciato tanto l’antropologia quanto la teologia.

Un tale impianto argomentativo aveva due radici: in primo luogo, l’affermazione di un Dio che

ha creato gli uomini, i quali sono sua fattura e proprietà10, e di una legge che regola la loro

esistenza terrena come legge di natura, conosciuta da essi per mezzo della ragione e della

rivelazione11. Questa legge, che nei Saggi giovanili veniva presentata come volontà di Dio, si

identifica nei Due Trattati con la ragione: «La legge, che doveva governare Adamo, era la stessa che

doveva governare tutta la sua discendenza, e cioè la legge di ragione»12.

La seconda radice di questo impianto argomentativo ha a che vedere con la natura di Dio. La

concezione teistica lockiana, di derivazione biblica, rinviava infatti ad una onnipotenza limitata

dalle proprie perfezioni: il potere di Dio sul creato era assoluto e indivisibile, ma non arbitrario e

6 Cfr. T1, 85. 7 Su Filmer e il patriarcalismo cfr. K. I. Parker, The Biblical Politics of John Locke, cit., pp. 67 – 93. 8 Questo aspetto è stato evidenziato, tra gli altri, da Giuseppe Bedeschi, il quale ha insistito su una continuità tra le due opere e ha osservato che solo la teorizzazione della legge di natura, in effetti, poteva costituire un argine al potere civile. Cfr. G. Bedeschi, Locke e le origini del costituzionalismo, cit., pp. 260-264. 9 Cfr. PPL, p. 231. 10 Sparkes sostiene che il nucleo centrale della dottrina politica lockiana abbia una base teologica, riferita ad una dottrina della creazione molto simile a quella tomista, sebbene Locke non la elabori ma la assuma come presupposto. Secondo Sparkes questa impostazione non è nascosta ma è presente in modo evidente nei suoi scritti, e ha la sua fonte nella legge di natura come sistema costruito a partire dall’attività creatrice di Dio. Cfr. A. W. Sparkes, Trust and Teleology: Locke’s Politics and his Doctrine of Creation, cit. Sull’orizzonte teologico delle tesi lockiane si veda anche M. Nicoletti, L’individuo e le sue relazioni a partire dal Second Treatise di John Locke, in G. Chiodi, R. Gatti ( a c. di), La filosofia politica di Locke, cit., pp. 113 – 121. 11 Cfr. T2, 8; 10; 16. 12 T2, 57; p. 266. Cfr. anche T2, 6. Ma sulla legge di natura che, anche nei Due Trattati, scaturisce dalla volontà di Dio cfr: T2, 8 e 135.

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dispotico. Si trattava di una sovranità divina limitata da giustizia, misericordia e sapienza, ma

anche da una legge eterna, immutabile e rivelata13. E, soprattutto, dalla fedeltà divina ai patti (in

tal senso la Covenant Theology sviluppata da Locke nella Ragionevolezza del cristianesimo è

decisiva per la comprensione di questa concezione, come Harris e Tetlow hanno avuto il merito di

sottolineare14).

Nell’ambito di questa prospettiva teologica l’idea di un potere civile illimitato, arbitrario,

assoluto, era semplicemente inconcepibile, e in definitiva moralmente ripugnante, dal momento

che colui che avesse governato senza - o contro - una norma avrebbe finito per assegnarsi una

prerogativa superiore a quella di Dio stesso, il quale governa e giudica solo per mezzo di leggi fisse

e stabilite15. Qui risiedeva la differenza tra un governante legittimo e un tiranno16.

Come ha acutamente osservato Michael Zuckert, «il punto della teoria lockiana non è certo

quello di sostenere la tesi anarchica per la quale nessuna autorità è legittima, ma di insistere sulla

questione del come l’autorità diventa legittima, del come deve essere costituita e di che cosa debba

fare affinché sia e rimanga legittima, ovvero moralmente giustificata»17.

A partire da un’analisi della concezione antropologica lockiana e della legge di natura, si passerà

quindi a prendere in esame lo stato di natura come presentato nei Due Trattati e a considerare

l’origine dei princìpi fondamentali della conservazione di sé e del genere umano da un lato, e della

proprietà dall’altro; origine riconducibile al loro carattere di prescrizioni divine. Ciò consentirà di

riconoscere, come ha perfettamente osservato Rawls a differenza di Strauss, «che per Locke quasi

tutti i diritti naturali sono derivativi» in quanto egli li vedeva «come conseguenti dalla legge di

natura fondamentale»18.

13 Si riporta di seguito una annotazione di diario del primo agosto 1680, On the Idea of God (o The Idea We Have of God), importante per la comprensione della concezione lockiana di Dio, dove Locke scrive: «Whatsoever carries any excellency with it, and includes not imperfection, that must needs make a part of the idea we have of God. So that with being, and the continuation of it, or perpetual duration, power and wisdom and goodness must be ingredients of the perfect or super-excellent being which we call God, and that in the utmost or an infinite degree. But yet that unlimited power cannot be an excellency without it be regulated by wisdom and goodness; for since God is eternal and perfect in his own being, he cannot make use of that power to change his own being into a better or another state; and therefore all the exercise of that power must be in and upon his creatures, which cannot but be employed for their good and benefit, as much as the order and perfection of the whole can allow to each individual in its particular rank and station. And, therefore, looking on God as a being infinite in goodness as well as power, we cannot imagine he hath made anything with a design that it should be miserable, nut that he hath afforded it all the means of being happy that its nature and state is capable of. And though justice be also a perfection which we must necessarily ascribe to the Supreme Being, yet we cannot suppose the exercise of it should extent further than his goodness has need of it for the preservation of his creatures in the order and beauty of that state that he has placed each of them in; […]». MS. Locke f. 4, cit., in D. Wootton, John Locke: Political Writings, cit., pp. 237-238. 14 Cfr. I. Harris, The Politics of Christianity, cit; J. Tetlow, John Locke’s Covenant Theology, cit. 15 Cfr. S. Dworetz The Unvarnished Doctrine: Locke, Liberalism, and the American Revolution, cit., pp. 150-151. 16 Sui limiti al potere legislativo cfr. T2, 142. 17 LL, p. 7 (trad. mia). 18 J. Rawls, Lezioni di storia della filosofia politica, cit., p. 127.

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Tenendo sullo sfondo questi aspetti, si passerà ad esaminare l’idea di sovranità popolare e la

derivazione teologica del concetto politico di “patto”, della prerogativa, della nozione di trust e

della giustificazione della resistenza in una costituzione mista.

a)a)a)a) ««««We are all the property of him who made usWe are all the property of him who made usWe are all the property of him who made usWe are all the property of him who made us»: uguaglianza e creaturalità »: uguaglianza e creaturalità »: uguaglianza e creaturalità »: uguaglianza e creaturalità

Locke non apre il suo trattato con una questione giuridica o illustrando un’indagine storica, ma nel

rispondere a Filmer che riconduceva alla creazione la sovranità di Adamo egli delinea una

prospettiva di carattere antropologico, articolando una difesa della libertà dell’uomo che faceva

discendere dal suo stato creaturale.

Come ha fatto osservare Mario D’Addio «libertà e uguaglianza sono i princìpi caratterizzanti lo

stato di natura: princìpi che trovano la loro giustificazione sul piano etico-religioso, in quanto gli

individui debbono essere considerati tutti creature di Dio, sì che non può ammettersi alcun criterio

di precostituita subordinazione degli uni nei confronti degli altri, ma si richiede una mutua

collaborazione»19.

I Due Trattati espongono la dottrina politica di Locke e presentano gli argomenti principali della

sua riflessione: gli uomini come proprietà di Dio; la ragione come facoltà che conferisce all’uomo

superiorità su tutte le creature terrestri; la semplicità, la chiarezza e la permanente validità della

legge di natura; la distinzione tra potere politico e potere paterno; la società civile stabilita per

scopi secolari - bene pubblico e conservazione; la concezione dell’autorità politica come potere

fiduciario e la giustificazione della rivoluzione20.

19 M. D’Addio, Storia delle dottrine politiche, ECIG, Genova 2002, p. 194. 20 Cfr. RRR, pp. 205 ss. Per un’ampia illustrazione dei princìpi relativi alla dottrina politica lockiana si vedano: G. Bedeschi, Locke e le origini del costituzionalismo, cit., pp. 257 - 287; Id., Storia del pensiero liberale, Laterza, Roma-Bari 20035, pp. 6-8; 49-72; J. Rawls, Lezioni di storia della filosofia politica, cit., pp. 111-167; LL, pp. 129-200; M. Merlo, Potere naturale, proprietà e potere politico in John Locke, in G. Duso (a c. di), Il Potere, Carocci, Roma 1999, pp. 157 – 176; R. W. Grant, John Locke’s Liberalism, cit., in part. 179-205; M. Seliger, The Liberal Politics of John Locke, George Allen, London 1967; M. D’Addio, Storia delle dottrine politiche, cit., pp. 191-199; P. Manent, Storia intellettuale del liberalismo, Ideazione editrice, Roma 2003, pp. 105 – 135; A. Pandolfi, Locke, in Id. (a c. di), Nel pensiero politico moderno, Manifestolibri, Roma 2004, pp. 279 – 318; E. Sciacca, Interpretazione della democrazia, Giuffré, Milano 1988, pp. 13 – 28; M. Seliger, Locke, Liberalism and Nationalism, in J. W. Yolton (ed.), John Locke: Problems and Perspectives, cit., pp. 19-33; E. De Beer, Locke and English Liberalism: The Second Treatise of Government In Its Contemporary Setting, ivi, pp. 34-44. Si veda inoltre: J. Dunn, What is Living and What is Dead in the Political Theory of John Locke, in Id., Interpreting Political Responsibility, Cambridge University Press, Cambridge 1990, pp. 9-25.

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A lungo trascurato, tanto che solo nel 1947 si è avuta un’edizione statunitense che conteneva

entrambi i Trattati21, il primo di essi espone in undici capitoli, oltre alla prefazione, la risposta

lockiana al Patriarcha di Filmer22.

Nell’ambito di una prospettiva storica, Locke concede che la prima forma di governo fosse una

proiezione politica dell’autorità paterna sulla famiglia, una monarchia patriarcale che poneva il

governo nelle mani di uno solo23, ma è ben attento a distinguere i fondamenti e gli scopi del potere

paterno (conferito dalla natura, limitato e per il vantaggio dei figli) e di quello politico (volontario,

a garanzia dei possessi e della conservazione dell’uomo)24.

Inoltre, ammettere che questa forma di monarchia patriarcale era, in origine, la forma di governo

dominante non implicava che fosse la sola o la migliore soluzione, dal momento che gli uomini

potevano agire altrimenti e istituire altre forme di governo sulla base della propria libertà. Così

accadde quando essi «stimarono necessario esaminare con più cura l’origine e i diritti del governo,

e di escogitare il modo di reprimere gli eccessi e prevenire gli abusi di quel potere, ch’essi avevano

affidato alle mani di un altro unicamente per il loro proprio bene e che vedevano invece operato a

loro danno»25. Come ha fatto notare Pareyson, per Locke si tratta

di sostituire al concetto della monarchia assoluta, propugnata dagli Stuart, il concetto della monarchia temperata dalla legge, sostenuto dai parlamentari e dal partito whig. Si tratta, cioè, di sostituire a un mito un principio: al mito assolutistico del diritto divino il principio democratico del consenso popolare 26.

Filmer faceva discendere dall’affermazione di una libertà naturale dell’uomo – che egli riteneva

inconcepibile - una negazione della creazione: non si poteva sostenere l’una senza l’altra. Ma

Locke non intendeva mettere in questione la creazione: egli ne fa invece il presupposto indiscusso

della propria riflessione, non trovando difficoltà ad affermare la libertà dell’uomo e al contempo la

21 Cfr. LL, p. 129. Sul Primo Trattato, e la scarsa attenzione riservata ad esso dagli studiosi, si veda anche C. Tarlton, A Rope of Sand: Interpreting Locke’s First Treatise of Government, in «Historical Journal », 21 (1978), pp. 43-73, ora in CA, III, pp. 87-120. 22 Cfr. D. Wootton, Introduction, John Locke: Political Writings, cit., p. 13. Sul Primo Trattato cfr. K. I. Parker, The Biblical Politics of John Locke, cit., pp. 95-122. Zuckert suddivide in tre parti il Primo Trattato: la prima comprende prefazione e primi due capitoli, seguita da una seconda parte (capp. III-VII) nella quale Locke espone le sue obiezioni alle tesi di Filmer sulla sovranità politica di Adamo - suddivisa a propria volta in una parte scritturistica (capp. III-V) e in una parte naturale (capp. VI-VII). Infine una terza parte (capp. VIII-XI) nella quale Locke avanza ancora una volta due argomenti, biblico e naturale, per confutare la tesi filmeriana della successione del presunto potere di Adamo. Cfr. LL, pp. 130-34. 23 Cfr. T2, 74; 76; 105-107; 110. 24 Cfr. T2, 71; 173; 174. 25 T2, 111; p. 311 (corsivo mio). 26 L. Pareyson, Introduzione, Due Trattati, p. 30.

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sua creazione ad opera di Dio. Quel che egli contesta invece, da subito, è la concessione originaria

della sovranità ad Adamo da parte di Dio, al momento della sua creazione27.

[Adamo] fu creato, e cioè cominciò ad esistere, per potere immediato di Dio, senza intervento di genitori e senza la preesistenza di alcun altro della stessa specie che lo generasse, quando piacque a Dio […]28.

Questa dichiarazione costituisce il pilastro di entrambi i Trattati, poiché stabilisce un punto fisso a

partire dal quale poter ricavare una forma di convivenza civile, dei doveri e dei diritti, fino alla

formulazione di una compiuta teoria della sovranità29. Ma non l’uomo soltanto; per Locke

l’intero cosmo è opera di Dio. Egli creò ciascuna parte di esso per i suoi scopi ed attribuì ad ognuna una relazione specifica con la finalità del tutto. Il cosmo è una gerarchia ordinata, una “grande catena dell’essere”, in cui ogni specie ha il suo posto ed il suo rango 30.

Locke sta difendendo dunque un’antropologia: l’uomo è stato creato con una natura propria31, e la

legge naturale è profondamente radicata nella natura umana32. Deve essere notato tuttavia che la

concezione lockiana di natura umana è senz’altro complessa e non priva di criticità, e meriterebbe

un approfondimento specifico. Se da un lato Locke la riteneva fissa e stabile, cosicché se si

approfondisce la sua conoscenza è possibile comprendere come dall’essere derivi un dover essere,

dall’altro egli mostra di ritenere la natura umana una realtà dinamica che stimola il soggetto a

migliorarsi, a perfezionarsi, a sviluppare se stesso attraverso l’educazione, l’appendimento, la

conoscenza e la pratica della virtù33.

Tuttavia quel che è rilevante in questa sede è l’affermazione di una creazione diretta da parte di

Dio – ribadita dal filosofo in più occasioni34 - la quale consente a Locke di motivare l’uguaglianza

27 Cfr. T1, 81-83; 105-107 e 120-127. 28 T1, 15; p. 89. 29 «Tutti gli uomini sono uguali perché la definizione originaria della loro condizione giuridica è l’insieme di doveri di cui sono debitori nei confronti di Dio. La “giurisdizione o dominio” sotto cui vivono è quella di Dio. I doveri che hanno nei suoi confronti richiedono il possesso da parte loro di un certo tipo di libertà e questa è un’esigenza logica, non un fatto contingente relativo alla psicologia umana o all’organizzazione sociale. I doveri che la religione esige da loro richiedono delle scelte autonome prima di poter essere realizzati». PPL, p. 144. Sulla condizione di natura che implica tanto diritti quanto doveri cfr. anche W. von Leyden, Hobbes e Locke, cit., p. 147. 30 PPL, p. 107. 31 Si veda anche: SLN, VI, p. 77. 32 Su questo legame cfr. G. A. J. Rogers, John Locke. God and the Law of Nature, in G. Canziani, M. Granada, Y.C.Zarka (a c. di), Potentia Dei. L’onnipotenza divina dei secoli XVI e XVII, cit., pp. 549-559, qui 556. 33 Sulla centralità dell’educazione e il significato della virtù civile per Locke, la cui riflessione avrebbe fornito argomenti tanto ai federalisti quanto agli antifederalisti statunitensi, si veda l’approfondito saggio di Robert Horwitz: John Locke and the Preservation of Liberty: A Perennial Problem of Civic Education, in Id. (ed.), The Moral Foudations of the American Republic, cit., pp. 136 – 164. 34 Cfr. SLN, VI, p. 77; Saggio, I, I, 5; II, XXVIII, 8; IV, X, 4-6; La condotta dell’intelletto, cit., p. 680. Zuckert rileva tuttavia alcune divergnze dall’insegnamento biblico da parte di Locke, la più importante delle quali riguardava la

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naturale e originaria di tutti gli uomini: esattamente perché gli uomini sono fattura di Dio, non

avrebbe potuto darsi alcuna concessione di dominio ad Adamo (o ai suoi discendenti) su altri esseri

umani, e quindi sull’umanità: «In altri termini, gli uomini sono uguali fra di loro poiché hanno

uguali doveri verso Dio»35.

L’obiettivo polemico di Locke era la disuguaglianza difesa da Filmer, il quale sosteneva una

supremazia da parti di alcuni che avevano ricevuto un diritto di governo, di origine divina, sul

resto dell’umanità36. A Filmer che si richiamava al dominio concesso sui viventi della terra (Gen 1,

28) e alla subordinazione biblica di Eva ad Adamo (Gen 3,16)37, per sostenere l’esclusività della

monarchia assoluta, Locke spiega come la prima forma di supremazia si riferisse esclusivamente

alle creature irragionevoli (escludendo quindi l’uomo) e come la seconda fosse da intendersi nei

termini di un potere coniugale e non politico38.

La disuguaglianza era il presupposto che Filmer cercava di salvaguardare richiamandosi alle Sacre

Scritture39. Appellandosi all’atto creatore descritto in Genesi, e ad una signoria che Adamo avrebbe

ricevuto per comando sul mondo intero, egli piegava le Scritture ad una giustificazione del

dominio gerarachico dell’uomo sulla donna, sui propri figli e, in senso più ampio, del sovrano sui

sudditi. Ogni potere politico, in quest'ottica, derivava dalla potestà paterna concessa da Dio al

primo uomo sulla moglie Eva e sui suoi figli e servi. Adamo era stato pertanto il primo patriarca e il

primo re. Questa potestà - nella sua persona e attraverso la sua persona - era passata così ai suoi

successori; il suo potere trasmesso per eredità ai re veterotestamentari e a quelli successivi di tutti i

regni. Pertanto, nella prospettiva filmeriana, anche un re salito al trono in seguito ad usurpazione

era un sovrano legittimo secondo la volontà di Dio.

dottrina della creazione. Secondo la Bibbia essa implicava un ordine nel mondo (che riflette l’intelligenza del suo creatore) e la subordinazione delle creature al loro Autore. Nel caso dell’uomo, essendo questi creato ad immagine di Dio, non vi è una determinazione ma una libertà nel seguire certe leggi. Tuttavia, per la Bibbia, l’uomo in quanto creatura ha davanti a sé la strada dell’obbedienza. E’ a questo punto che Zuckert vede una divaricazione tra Locke e l’insegnamento biblico: laddove il Dio biblico lascia libero l’uomo di obbedire, il “saggio e benefico principe” lockiano, instaura semplicemente leggi di libertà (T2, 42). E finché l’uomo si comprende come creatura, non potrà instaurare tali leggi. Cfr. LL, p. 143. 35 Anche Pasquale Pasquino è attento a sottolineare l’origine teologica del criterio dell’uguaglianza, cfr. I limiti della politica. Lo stato di natura e l’ “appello al cielo” nel Secondo Trattato sul governo di John Locke, «Rivista di Filosofia», 75 (1984), pp. 369-395, qui 379. 36 Come ha sostenuto Jeremy Waldron, «Il Primo Trattato non è altro che la difesa della proposizione che gli uomini sono, originariamente, gli uni uguali agli altri; è una difesa del fondamento a partire dal quale procede il Secondo Trattato». J. Waldron, God, Locke, and Equality, cit., p. 19. 37 Cfr. R. Filmer, Osservazioni intorno all’origine del governo sul Leviatano del signor Hobbes (1652), p. 165, cit. in T1, 14. Cfr. inoltre T1, 55. 38 Cfr. T1, 27 e 47-48. 39 Cfr. N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà, cit., pp. 88-89.

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Non vedo allora come i figli di Adamo o di chicchessia possano esser liberi dalla soggezione verso i loro genitori. E dal momento che questa soggezione dei figli ai loro padri è l’origine di ogni autorità legale, per disposizione di Dio stesso, ne consegue che il potere civile è d’istituzione divina non soltanto in generale, ma anche nella sua attribuzione specifica ai genitori più anziani, il che esclude del tutto la nuova distinzione di moda, che assegna a Dio soltanto il potere universale e assoluto, lasciando alla scelta del popolo il potere relativo, cioè quello che si riferisce alla speciale forma di governo40.

Nel Patriarca venivano respinti con decisione tanto il giusnaturalismo quanto la teologia scolastica,

che sostenevano invece l’uguaglianza e la libertà degli uomini; come ha osservato Nicola

Matteucci,

L’opera sostiene, senza mezzi termini, il diritto divino dei re e quindi il dovere dell’obbedienza al sovrano: essa è diretta contro i cattolici come contro i calvinisti, contro Bellarmino come contro Calvino, in una decisa confutazione della letteratura monarcomaca di entrambe le sponde; e ha come vero fine quello di ribadire la superiorità del re in materia religiosa, controbattendo la tesi del Bellarmino della superiorità del papa sul re 41.

Ma la subordinazione biblica di Eva ad Adamo poteva essere interpretata anche come un privilegio

di questo e dei suoi eredi maschi, o come un privilegio degli uomini sulle donne, o dei mariti sulle

mogli42. Le opere di Filmer inoltre

ponevano tutta una serie di problemi circa l’origine contrattuale del governo, i quali furono tutti risolti nei Due Trattati: come e perché gli uomini devono sottomettersi ad un governo, se erano nati liberi ed eguali; in che modo può durare una società politica attraverso le generazioni se gli uomini non erano soggetti ai loro genitori e dovevano individualmente dare il consenso per entrare in società; perché una società politica non sarebbe crollata nel caso del ritiro del consenso da parte di quelli che lo avevano dato. […] Per Filmer ogni affermazione che lasciava il giudizio ultimo al popolo […] avrebbe necessariamente condotto all’anarchia 43.

Locke rifiuta con decisione questo scenario. Egli rigetta la disuguaglianza e nel farlo si richiama

alle medesime fonti di Filmer - le Scritture - che questi aveva letto fondandosi

su una teologia naturale (teologia, perché tutta fondata sulla Bibbia; naturale, perché conforme alla natura, alla natura dell’uomo sociale) per istituire una stretta analogia fra il potere che hanno i padri sui figli con quello che ha il re sul suo popolo: fra diritti naturali di un padre e quelli di un re non vi è altra differenza che l’ampiezza e l’estensione, dato che entrambi governano secondo la propria volontà e non secondo le leggi o i voleri dei figli o dei sudditi 44.

E il tema dell’uguaglianza è lo stesso che mette in movimento la riflessione politica lockiana: «La

disputa inizia quando si cerca di formulare la domanda: in che misura un uomo può avere potere

su di un altro uomo se si tiene conto del potere che ha su se stesso» 45 .

40 R. Filmer, Patriarca o il potere naturale dei re, cit., p. 596. 41 N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà, cit., p. 88. 42 Cfr. J. Waldron, God, Locke, and Equality, cit., p. 22. 43 RRR, pp. 206 – 207 (trad. mia). 44 N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà, cit., p. 89. 45 PPL, p. 108.

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Appellandosi all’innato amore per la libertà proprio dei “gentiluomini” inglesi, e attraverso una

lettura ragionata della Scrittura, Locke smonta in modo minuzioso le argomentazioni dell’

avversario, a cominciare dalla distinzione tra potere “politico” e potere “paterno”, che Filmer

sovrapponeva. La tesi di questi non era sostenibile per Locke né da un punto di vista logico né da

un punto di vista biblico: o vi è un solo padre, il re, e allora i sudditi – anche se padri - non possono

avere alcun potere sui propri figli; oppure se tutti i padri, in quanto tali, hanno il potere politico,

verrebbe necessariamente distrutto il potere del re46.

Deve essere sottolineato che Locke non rifiuta l’argomento teologico per sostenere la libertà e

l’uguaglianza degli uomini, ma scende sul medesimo terreno del suo avversario, quello delle Sacre

Scritture, rovesciando con notevole abilità retorica l’uso che ne era stato fatto 47.

In uno studio dedicato al modo in cui il pensiero politico di Locke potrebbe aver influenzato la

sua comprensione del cristianesimo, Ian Harris ha concentrato la sua attenzione su un punto

importante di divergenza tra lui e Filmer scarsamente considerato. Prima ancora che l’origine della

sovranità, a dividere i due avversari sarebbe stata la dottrina circa la Caduta di Adamo e le sue

conseguenze48.

Filmer aderiva alla dottrina, di origine agostiniana ma nota e diffusa nel XVII secolo, che vedeva

in Adamo non solamente il progenitore dell’umanità ma anche il suo unico rappresentante; in

questo senso, egli era stato la controparte nell’alleanza con Dio e la sua trasgressione aveva

rappresentato quella di tutti gli uomini. Ciò aveva reso tutta l’umanità soggetta alla punizione

conseguente. In breve, secondo tale dottrina tutti gli uomini agli occhi di Dio erano una sola cosa

in Adamo e la punizione per la sua trasgressione doveva necessariamente ricadere sull’umanità

complessivamente considerata. Facendo leva sul medesimo assunto, Filmer poteva giustificare

anche la trasmissione del potere politico: quel che era stato dato ad Adamo, era stato concesso

anche alla sua posterità49.

Locke ritenne decisivo spezzare questo nesso analogico attraverso una nuova dottrina politica,

ma per farlo, spiega Harris, egli aveva bisogno anche di un’altra interpretazione della Caduta e dei

suoi effetti50. I princìpi sui quali egli costruì tanto l’attacco alla dottrina di Filmer quanto una teoria

46 Cfr. T1, 105. 47 Waldron, a tal proposito, ha osservato che «la maggior parte dello sforzo filosofico nel Primo Trattato è di tipo ermeneutico: egli lotta in modo filosofico con il problema dell’interpretazione dei testi biblici». J. Waldron, God, Locke, and Equality, cit., p. 191 (trad. mia). 48 Cfr. I. Harris, The Politics of Christianity, cit., pp. 197-198. Si veda anche la riflessione che Harris sviluppa altrove: The Mind of John Locke, cit., pp. 233-240. 49 Cfr. I. Harris, The Politics of Christianity, cit., pp. 198-201. 50 Cfr. T1, 45-47 e 111.

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ad essa alternativa erano incompatibili, infatti, con l’argomento della rappresentanza in Adamo

dell’umanità.

In primo luogo, ciò si doveva alla concezione lockiana di identità personale delineata nel Saggio:

per Locke la persona è un essere intelligente dotato di una propria individualità, unico, distinto da

tutti gli altri – «ognuno è a se stesso ciò che egli chiama se stesso»51 - e non sovrapponibile o

sostituibile ad essi. Era dunque inconcepibile, secondo questa prospettiva, che in Adamo fosse

rappresentato ciascun individuo della sua posterità. In secondo luogo, ciò che è altrettanto

importante, i princìpi lockiani derivavano da una interpretazione letterale delle Scritture.

Applicando tale criterio, Locke risponde a Filmer che la concessione biblica del dominio sulle

creature (Gn 1, 28) - che questi riteneva rivolta al solo Adamo -, essendo nell’originale del testo

espressa al plurale doveva essere intesa come rivolta all’umanità in generale e non aveva un

carattere politico, né tanto meno legittimava un dominio assoluto e monarchico52. Quanto al passo

di Genesi in questione (3,16), esso si riferiva solo ad una forma di autorità coniugale, interna al

vincolo matrimoniale, e non includeva alcuna sovranità all’esterno di tale relazione: ne risultava

che «il presupposto filmeriano di un certo cristianesimo non si accordava con la dottrina politica di

Locke»53.

Harris osserva che il medesimo ragionamento veniva seguito da Locke in ambito politico, dove

egli aveva stabilito che l’unica rappresentanza possibile era per consenso: in tal senso, ammettere

un ruolo rappresentantivo di Adamo, in ambito teologico, avrebbe implicato un’analoga

ammissione nella teoria politica54. E questo era ciò che Locke si sforzava di combattere: «le

implicazioni politiche della tesi agostiniana, infatti, contrastavano con la dottrina politica di

Locke»55.

Alla luce delle differenti interpretazioni che della Caduta e delle sue conseguenze erano state

avanzate nel XVII secolo in Inghilterra, Harris legge il silenzio di Locke sul peccato originale nei

Saggi sulla legge di natura, e l’incompatibilità dichiarata con la dottrina di derivazione agostiniana

dei Due Trattati, come indizi del rifiuto di una visione che imputava all’uomo un difetto morale o

una propensione naturale al peccato56. Questo non impediva a Locke di cogliere una certa

debolezza e fragilità umana, attribuite però non all’eredità della Caduta del primo uomo bensì alla

51 Saggio, II, XXVI, 11; p. 371. Si veda anche Saggio, II, XXVI, 27. 52 Cfr. T1, 29; 40. 53 Cfr. I. Harris, The Politics of Christianity, cit., p. 205 (trad. mia). 54 Cfr. ivi, p. 204. 55 Ibid. 56 Cfr. ivi, pp. 205-207.

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natura. E comunque non disgiunte dalla possibilità di giungere alla virtù con lo sforzo personale e

l’educazione57.

Al di là dell’interpretazione di Harris, centrata sulle possibili implicazioni politiche della Caduta,

dalle tesi formulate nei Due Trattati si può osservare come «Filmer, che pretende di fondarsi

interamente sulla Scrittura, non fa che torcerla a sostenere la propria tesi, senza tener conto del

chiaro e ovvio significato dei testi biblici, i quali sono, invece, tutti contro di lui. Nella Scrittura,

infatti, non v’è alcuna prova del potere assoluto di Adamo o dei patriarchi, né tanto meno

dell’eredità legittimistica del potere […]»58.

Zuckert ritiene che la struttura del Primo Trattato abbia poco o nulla a che fare con Filmer e ha

letto l’insistenza di Locke sui temi biblici - presenti nella sua teoria accanto ad elementi

naturalistici - come una prova dell’interesse lockiano per una comprensione biblica della politica59.

Locke insomma avrebbe travestito un argomento eminentemente politico con abiti teologici.

È una lettura che non ha trovato d’accordo ad esempio Victor Nuovo, il quale pure non ha

mancato di rilevare un collegamento tra la Ragionevolezza e i Due Trattati, individuandone un

legame nascosto nella figura del primo uomo: come nella prima opera Locke distingue

attentamente l’Adamo progenitore del genere umano dall’Adamo peccatore che avrebbe trasmesso

ai posteri la sua trasgressione, così nei Trattati egli rifiuta l’idea filmeriana secondo cui l’autorità

politica discendeva da Adamo per decreto divino, o che una concessione fatta a lui potesse valere

anche per i suoi successori. Nuovo spiega inoltre che questo segreto collegamento doveva sfuggire

ai più - dal momento che entrambe le opere furono pubblicate anonime, e attribuite ad autori

diversi - ma certamente non a Locke. Questi insomma avrebbe letto «nella Ragionevolezza le

conclusioni del suo primo lavoro, e cioè che Adamo non aveva diritto ad essere il sovrano o il

rappresentante di “milioni” che non avevano mai sentito parlare di lui e non lo avevano

autorizzato, o acconsentito, a ciò»60. Per Nuovo tuttavia una tale lettura non implica, come sostiene

Zuckert, che Locke volesse presentare in vesti teologiche un argomento di carattere politico, ma

certamente non poteva non avere implicazioni anche di natura politica. Se infatti Gesù come

57 Cfr. ivi, pp. 208-210. 58 L. Pareyson, Introduzione, Due Trattati, p. 15. 59 Il primo argomento che in questo senso emergerebbe prepotentemente dalla riflessione lockiana sulle Scritture è secondo Zuckert «una variante della posizione classicamente associata a Tommaso d’Aquino», che considera ragione e rivelazione strade per l’accesso alla verità che hanno entrambe origine in Dio e che quindi non possono contraddirsi. Nel fare propria questa impostazione, Locke avrebbe trovato nelle Scritture una conoscenza altrimenti inaccessibile alla ragione, assegnando a quest’ultima l’importante compito di vagliare l’autenticità della rivelazione. Per lo studioso statunitense vi è inoltre uno stretto legame tra i temi della teoria della rivelazione in generale e le nozioni bibliche che Locke spiega, e attraverso questa strada si possono cogliere le implicazioni politiche del Primo Trattato. Cfr. LL, pp. 137 – 146. 60 V. Nuovo, Locke’s Christology, cit., p. 142 (trad. mia).

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Messia è il Signore, e lui solo è re, tutti gli altri sovrani non possono esserlo per decreto divino: «il

diritto di sovranità, nella storia sacra, appartiene solo al Messia»61.

***

La concezione dell’uguaglianza tra gli uomini rappresenta una delle maggiori novità presenti nella

dottrina politica lockiana, qualcosa di davvero straordinario per l’epoca in cui venne formulata.

Tuttavia, nonostante la sua forza dirompente, non si trattava di una novità assoluta se si tiene ad

esempio presente l’insegnamento della Seconda Scolastica62. Lo stesso Filmer apre il suo Patriarca

ricordando che la tesi secondo cui gli uomini nascono liberi, e con un diritto di scegliere la forma

di governo che preferiscono, si era affermata con la teologia scolastica come ipotesi di scuola, per

essere «in seguito diffusa dai papisti posteriori come teologia genuina»63. E per introdurre la propria

riflessione egli trascrive anche alcuni passi del cardinal Bellarmino64 nei quali il teologo gesuita

61 Ibid. 62 Nel XVI secolo l’Università di Parigi divenne il centro della rinascita del pensiero tomista, decisivo per lo sviluppo della moderna teoria politica del diritto naturale. L’Università di Salamanca ospitava invece i maggiori contributi per lo sviluppo della scienza giuridica spagnola, ad opera di domenicani come Francisco de Vitoria, tra i fondatori del diritto internazionale, Domingo de Soto e Bartolomé de Medina. Dalla metà del Cinquecento le dottrine presentate dai domenicani vennero riprese e studiate dai gesuiti, i quali cominciarono a diffonderle in Italia, in Francia e in Spagna. In questi autori si trova una concezione dello Stato che potremmo definire moderna. Tra i maggiori filosofi gesuiti della Seconda Scolastica si considerano Francisco Suarez, Louis de Molina e Juan de Mariana. Al centro del pensiero dei tomisti nel Cinquecento si ritrova in modo particolare la confutazione di due aspetti della teoria politica luterana: l’esaltazione protestante della Sola Scriptura e una concezione della Chiesa come congregatio fidelium, comunità degli eletti di Dio, concezione dalla quale derivava il rifiuto delle gerarchie ecclesiastiche. I tomisti avversavano la concezione luterana dell’uomo, secondo la quale essendo questi radicalmente peccatore non avrebbe potuto realizzare un riflesso della giustizia divina nel mondo. Sulla Seconda Scolastica si rinvia alla bibliografia presente in: F. Todescan, Il problema del diritto naturale fra Seconda Scolastica e giusnaturalismo laico secentesco, in F. Arici – F. Todescan (a c. di), Iustus ordo e ordine della natura, Sacra Doctrina e saperi politici fra XVI e XVIII secolo, Convegno di studi, Milano 5-6 marzo 2004, CEDAM, Padova 2007, pp. 2 – 8. Si vedano inoltre: G. Fassò, Storia della filosofia del diritto: L’età moderna, cit., II, pp. 59-70; C. Giacon, Introduzione, R. Bellarmino, Scritti Politici, Zanichelli, Bologna 1950, pp. vii- xlviii. Su Vitoria si vedano: F. Todescan, Il problema del diritto naturale fra Seconda Scolastica e giusnaturalismo laico secentesco, cit., pp. 15-18; S. Langella, Teologia e legge naturale. Studio sulle lezioni di F. De Vitoria, G. Brigati, Genova 2007; M. Ormas, La libertà e le sue radici, cit., pp. 246 – 285; F. De Vitoria, De iure belli, ed. it. a c. di C. Galli, Laterza, Bari-Roma 2005; A. Lamacchia, Francisco de Vitoria e l’innovazione moderna del “Diritto delle genti” - Introduzione a, F. de Vitoria, Relectio de Indis. La questione degli Indios, Ed. Levante, Bari 1996, pp. ix-xciv. 63 R. Filmer, Patriarca o il potere naturale dei re, cit., p. 591. 64 San Roberto Bellarmino (1542-1621) è stato tra i più raffinati scrittori gesuiti del suo tempo. Entrò nelle controversie religiose intorno alla predestinazione e alla grazia - in particolare quella tra domenicani “tomisti” e gesuiti “molinisti” - come pure in quelle di ordine politico-ecclesiastico tra la Santa Sede e l’Inghilterra (quanto al giuramento di fedeltà richiesto ai cattolici da Giacomo I). Portò avanti l’attacco principale alle tesi teologiche e politiche del luteranesimo, e prese parte all’esame da parte del Sant’Uffizio del caso Galilei. Il teologo occupa un posto di rilievo anche nell’ambito del pensiero politico. Il punto di partenza della sua teoria è la dottrina del diritto naturale, secondo la quale la legge di natura tiene insieme una relazione con la natura umana e con il suo Creatore e nel bene naturale è ricompresa la volontà divina. Egli si opponeva sia al tentativo dei riformatori di derivare la legge naturale dalla rivelazione sia al dilagante volontarismo. Bellarmino, in particolare, afferma con Vitoria che il potere politico è solo in generale immediatamente da Dio, ed ha come soggetto la moltitudine, mentre nelle forme particolari (monarchia, aristocrazia, democrazia) è di diritto umano e attuato da deliberazioni positive degli uomini. Il consenso rende legittimo il potere. Per Bellarmino pertanto il potere civile, pur derivando da Dio come fonte originaria, è conferito al sovrano dal popolo ed implica dei limiti nell’esercizio dell’autorità, oltre alla possibilità di una resistenza nei suoi confronti. Se infatti il potere risiede nel popolo,

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affermava l’uguaglianza naturale degli uomini, l’istituzione umana del potere civile e la necessità

che il popolo conferisca, per legge di natura, il suo potere ad un sovrano per consenso. A

Bellarmino, secondo cui il potere viene da Dio mediato però da una deliberazione e da un’elezione

umana65, Filmer rispondeva per confutare il «primo ed erroneo princincipio»66, dal momento che

aborriva la pericolosa conclusione che i gesuiti ne traevano: il potere attribuito al popolo di punire

o deporre il principe che violasse le leggi del regno:

Questa enormità, cioè a dire la tesi secondo cui i re rimangono soggetti alle censure dei sudditi e possono da essi esser deposti, discende necessariamente, secondo quanto dicono i suoi stessi sostenitori, da quella prima affermazione d’una supposta eguaglianza e libertà naturale degli uomini e del loro diritto a scegliere la forma di giverno che preferiscono67.

A partire dall’affermazione della libertà e dell’uguaglianza naturale degli uomini, si osserva come

Locke dimostri più di una convergenza con la teoria politica dei tomisti del Cinquecento68, in una

prospettiva contraria ad esempio a quella luterana, almeno su tre punti: la centralità di una legge di

natura, l’origine popolare della sovranità (e quella consensuale del governo)69 e la legittimità della

resistenza. La peculiarità della figura di Locke risiede d’altra parte in una speciale collocazione tra

la tarda Scolastica, che aveva proseguito nel solco della tradizione medioevale, dei suoi concetti e

del suo linguaggio, e il momento di rottura rappresentato dalla Rivoluzione scientifica del XVII

secolo e dal sorgere della scienza moderna.

questo potrà riprenderselo in modo legittimo; il tirannicidio, in quest’ottica, è però delimitato da rigorosi limiti legali. Bellarmino sostenne inoltre, quanto ai rapporti tra stato e chiesa, la distinzione tra il potere ecclesiastico e il potere civile, riconoscendo a questo un’originale giurisdizione e una giurisdizione indiretta del pontefice negli affari temporali. Le tesi politiche bellarminiane sono presenti nelle Controversie, in particolare nel secondo e primo volume di queste (II. I membri della Chiesa, III, ii-xii, in Id. Scritti politici, cit., pp. 225 - 249; I. Il Sommo Pontefice, V, i- x, in ivi, pp. 301-329), nel Trattato sull’Autorità del Sommo Pontefice sul potere politico contro Guglielmo Barclay (1610), in Id., Scritti politici, cit., pp. 331-370; e nel De officio principia cristiani del 1619. Importante, in tal senso, anche la polemica con il re inglese: Apologia pro responsione sua ad librum Jacobi Britanniae regis (1609). L’Opera omnia di Bellarmino è a c. di J. Fèvre, I-XII [Paris 1870-1874]; rist. anast. New York-Frankfurt am Main 1965. Di e su Roberto Bellarmino si vedano: Scritti politici, a c. di C. Giacon, cit.; Scritti spirituali, 1615-1620, a c. di M. De Rosa, Morcelliana, Brescia 1997, in part. III, pp. 7-238; Autobiografia (1613), a c. di G. Galeota e P. Giustiniani, Morcelliana, Brescia 1999; C. Giacon, La Seconda Scolastica, I problemi giuridico-politici, Bocca, Milano 1950, III, pp. 35-53; 225-248; J. Brodrick, San Roberto Bellarmino, Ancora, Milano 1965. 65 Cfr. R. Bellarmino, De Laicis (III, 6), in Scritti politici, cit., pp. 233-36; cit. anche da R. Filmer, Patriarca o il potere naturale dei re, cit., pp. 594-595. 66 R. Filmer, Patriarca o il potere naturale dei re, cit., p. 593. 67 Ivi, p. 592. 68 Si noti, a tal proposito, che anche la conoscibilità certa dell’esistenza di Dio per via razionale è tesi cattolica, come ribadito dal Concilio Vaticano I. Cfr. Cost. dogm. sulla divina rivelazione Dei Verbum, 18 novembre 1965, I, n. 6. 69 «Locke si trova, paradossalmente, a concordare con il cattolico Bellarmino, che aveva insistito nell’interpretare come solo umana – e non divina – la valenza del potere politico. Non si tratta di un errore di strategia culturale. Piuttosto, è un autorevole modo di ribadire la natura intramondana del potere politico». S. Ciurlia, Pensiero liberale, principio di tolleranza e costituzionalismo in Locke, in « Arché. Rivista di filosofia e di cultura politica», 8 (2009/2011), pp. 97 – 104, qui 100.

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Nel XVII secolo un potente argomento della polemica del partito tory (anglicano ed erede dei

Cavalieri) consisteva nell’accusa, rivolta alle dottrine del partito whig (di orientamento

latitudinario, vicino alle classi medie mercantili ed erede delle Teste rotonde), di discendere dalla

teoria cattolica romana. Entrambi i partiti si dichiaravano monarchici, tuttavia i tories si

schieravano a favore del diritto divino dei re e della non resistenza al sovrano, mentre i whigs

intendevano controllare politicamente la prerogativa del re (un potere arbitrario lasciato nelle

mani del sovrano per il bene del popolo) che, specie nella prima parte del secolo, era stata

ampiamente dilatata. In molti trattati realisti contro i presbiteriani (i calvinisti difensori della

Chiesa di Scozia) si sosteneva che le conseguenze promosse da papisti e presbiteriani fossero

analoghe: questi venivano accusati di essere degli anarchici, dal momento che sottraevano autorità

alla Corona per conferirla al Papa o al popolo. Una considerazione di carattere empirico che

divenne presto prova di una comune radice teorica70. Come ha osservato Mark Goldie,

Alla fine del 1710 i Tories stavano sfruttando la stessa associazione emotiva tra il papato e l’ideologia whig, e nell’anno del processo di [Henry] Sacheverell la tipica successione era: “Mariana, Suarez, Bellarmino, Hotman, Buchanan, Bradshaw, Milton, Baxter, Owen, Goodwin, Sydney, Locke”. Da buon aristotelico, Locke credeva che il governo fosse una trovata e un’istituzione umana. Da buon biblista, egli trasse questa dottrina da San Pietro, quando comandava “di vivere sottomessi ad ogni umana autorità” (1 Pt 2,13). E sosteneva che Hooker fosse l’ultimo grande scrittore inglese ad averlo professato fermamente71.

La tesi fondamentale secondo la quale gli uomini sono naturalmente liberi ed eguali ha condotto a

considerare gli autori della Seconda Scolastica come i fondatori del pensiero democratico. La

necessità di argomentare contro la teoria patriarcale, per mostrare invece che il diritto e il dominio

paterno andava distinto dal dominio politico legittimo, era stata perfettamente avvertita anche da

questi autori: «L'asserzione basilare avanzata dai tomisti su questa condizione originale o naturale è

che essa va raffigurata come uno stato di libertà, uguaglianza e indipendenza»72.

Nel Secondo Trattato Locke sviluppa una linea di pensiero per molti aspetti in continuità con la

dottrina tomista della Seconda Scolastica e descrive lo stato naturale come una stato di perfetta

libertà di agire nell’ambito della legge di natura, di completa indipendenza dalla volonta altrui e di

perfetta uguaglianza, dove tutti hanno un naturale diritto alla vita, alla libertà e alle cose procurate

con il proprio lavoro (e per tale ragione si è ad un tempo legislatori e giudici).

All’inizio del Secondo Trattato, quando viene descritta la condizione in cui si trovano

naturalmente tutti gli uomini, Locke fa riferimento - in primo luogo - ad una condizione di libertà:

70 Cfr. M. Goldie, John Locke and Anglican Royalism, cit., in part. pp. 160 – 164. 71 Ivi, p. 162 (trad. mia). 72 Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 228.

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Per ben intendere il potere politico e derivarlo dalla sua origine, si deve considerare in quale stato si trovino naturalmente tutti gli uomini, e questo è uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e disporre dei propri possessi e delle proprie persone come si crede meglio, entro i limiti della legge di natura, senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di nessun altro 73.

Accanto a tale condizione vi era quella di perfetta uguaglianza:

È anche uno stato di eguaglianza, in cui ogni potere e ogni giurisdizione è reciproca, nessuno avendone più di un altro, poiché non vi è nulla di più evidente di questo, che creature della stessa specie e dello stesso grado nate, senza distinzione, agli stessi vantaggi della natura, e all’uso delle stesse facoltà, debbano anche essere eguali fra di loro, senza subordinazione o soggezione, a meno che il signore e padrone di esse tutte non ne abbia, con manifesta dichiarazione del suo volere, posta una sopra le altre, e conferitole, con chiara ed evidente designazione, un diritto incontestabile al dominio e alla sovranità74.

Per ammissione dello stesso Locke una tale nozione di uguaglianza era direttamente ripresa dal

primo libro della Politica ecclesiastica (VIII, 7) di Hooker:

Questa eguaglianza naturale degli uomini [this natural equality of men], il giudizioso Hooker la considera così evidente in se stessa e fuori d’ogni dubbio, ch’egli ne fa il fondamento di quell’obbligazione al mutuo amore fra gli uomini su cui erige i doveri che abbiamo gli uni verso gli altri e da cui deriva i grandi principi della giustizia [justice] e della carità [charity]75.

In seguito Locke parlerà dell’uomo nello stato di natura come «eguale al maggiore e soggetto a

nessuno»76. A proposito di questa rivoluzionaria affermazione di uguaglianza Dunn ha osservato:

Cristo (e San Paolo) non appaiono direttamente nel testo dei Due Trattati ma la loro presenza ci può sfuggire difficilmente quando incontriamo l’affermazione dell’uguaglianza normativa di tutte le creature umane in virtù della loro appartenenza alla medesima specie. […] Nell’Inghilterra del XVII secolo bastava dimenticare il Vangelo (il che accadeva spesso e volentieri) perché non vi fossero problemi di alcun genere nel giustificare l’ineguaglianza. […] Lungi dall’essere estrinseca, la teologia era il solo possibile fondamento significativo per l’eguaglianza77.

In questa sede è opportuno evidenziare che Locke sviluppa la nozione di uguaglianza tra gli

uomini a partire dal loro stato creaturale, egli parla infatti di «creature della stessa specie e dello

stesso grado [creatures of the same species and status]», e conseguentemente pone al di sopra di

esse un «signore [lord] e padrone [master]»78, il quale è anche loro legislatore79. Del potere creatore

di Dio Locke aveva già parlato nel Primo Trattato quando, riferendosi all’uomo, aveva spiegato che

73 T2, 4; p. 229. 74 Ibid. (corsivo mio). 75 T2, 5; p. 230. 76 T2, 123; p. 318. 77 PPL, pp. 120-21. 78 T2, 4; p. 229. 79 Su questo cfr. SLN, IV, pp. 41-42; VI, p. 67.

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Dio lo “fece a sua immagine, secondo sua somiglianza”: lo costituì creatura intelligente, e quindi capace di dominio, perché comunque fosse l’immagine di Dio, la natura intellettuale ne era certamente una parte, e fu propria della specie intera […]» 80.

Sempre nel primo dei Due Trattati, Locke aveva fatto riferimento al potere di dare la vita - che

consiste nel «formare e costruire una creatura vivente, modellarne le parti e forgiarle e accordarle

ai loro usi, e, dopo averle proporzionate e adattate insieme, introdurvi un’anima vivente»81 - e ad

un ipotetico diritto di distruggere la propria fattura, chiedendosi: «Ma chi è così impudente da

giungere all’ardire di attribuire a se stesso le incomprensibili opere dell’Onnipotente? Colui che in

principio ha creato, e ancora continua a creare anime viventi, colui soltanto può ispirare il soffio

della vita»82. Poco dopo, con riferimento al corpo umano, aveva aggiunto che «la struttura di una

parte soltanto è sufficiente a convincerci di un autore onnisciente, il quale ha un diritto così

evidente su di noi in quanto sua fattura [workmanship], che una delle denominazioni usualmente

riferite a Dio nella scrittura è “Dio nostro creatore” e il “Signore nostro creatore”»83.

Con riferimento alla legge di natura, Locke spiega senza ombra di equivoco perché essa obbliga

tutti a non recar danno ad altri nella vita, nella salute, nella libertà o nei possessi,

perché tutti gli uomini, essendo fattura di un solo creatore onnipotente e infinitamente saggio, tutti servitori di un unico padrone sovrano [servants of one sovereign master], inviati nel mondo per suo ordine e per i suoi intenti, sono proprietà di colui di cui sono fattura, creati per durare fin tanto che piaccia a lui, e non ad altri [we are all the property of him who made us, and he made us to last as long as he chooses, not as long as we choose]84.

Con questa celebre dichiarazione Locke sottrae la proprietà della vita umana non soltanto

all’arbitrio altrui ma anche al proprio, per attribuirlo in via esclusiva ad un omnipotent and

infinitely wise maker. È qui manifesto che la creazione biblica è posta da Locke come presupposto

originario per la riflessione dei Due Trattati, e segnatamente per la difesa della libertà e

dell’uguaglianza umane, dalle quali discendono poi per logica conseguenza l’origine convenzionale

del governo, la sovranità popolare, la monarchia mista o limitata, che Locke accoglie in modo

diretto da Hooker e in modo indiretto dalla tradizione democratica del XVI secolo85. Come ha

80 T1, 30; p. 105. 81 T1, 53; p. 127. 82 Ibid. 83 Ibid. 84 T2, 6; p. 231 (corsivo mio). Su questo aspetto cfr. in part. J. Waldron, God, Locke, and Equality, cit., pp. 113-114; 162-164. 85 Una delle differenze più evidenti tra il pensiero politico luterano e quello dei teorici gesuiti del XVI secolo riguardava l’origine delle società politiche. Per i luterani questa veniva decretata direttamente da Dio, l’ordine politico era pertanto l’esito della volontà divina. Secondo gli autori della Seconda Scolastica i governi secolari erano costituiti invece,

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osservato von Leyden, «quel che Locke ha cercato di stabilire sino a questo punto è, in primo

luogo, che esiste un autore della legge, un potere superiore a cui l’uomo giustamente è soggetto, e,

in secondo luogo, che questo autore della legge ha espresso una volontà, e questa è la legge di

natura»86.

L’uguaglianza alla quale fa riferimento il filosofo deve essere vista dunque non come un artificio

retorico ma come un postulato morale, alla base tanto del dovere di rispettarsi e di non

danneggiarsi reciprocamente quanto del rifiuto di un governo per diritto divino. È un’uguaglianza

biblicamente fondata il punto d’appoggio dell’opposizione lockiana dell’assolutismo.

La giustificazione di questa uguaglianza è di origine teologica poiché discende direttamente

dall’idea che Dio abbia creato tutti gli uomini e che li abbia dotati di ragione. Come ha sostenuto

Martin Seliger, il filosofo postulava il possesso della ragione come condizione per trovarsi sotto il

dominio della legge di natura87.

Va notato poi che Locke fa sempre riferimento ad «all men, every man», sia riferendosi all’

uguaglianza nello stato di natura e all’osservanza della legge di natura88, sia riferendosi all’ingresso

nella società civile89, sia con riferimento alla decisione di appartenere ad una comunità politica una

volta adulti, dando il proprio consenso90. E lo stesso accade nel parlare della rivolta contro un

sistema politico stabilito91.

Dove invece si trova una distinzione tra gli uomini, e l’accenno ad un requisito censitario, è

soltanto con riferimento al diritto di voto per l’elezione di un governo legittimo: «alla quale

rappresentanza nessuna parte del popolo, che sia incorporata, può pretendere se non in

proporzione al contributo che apporta al pubblico […]»92.

originariamente, dai propri membri come mezzi per realizzare dei fini mondani. Tommaso, diversamente da Agostino che considerava lo Stato e le sue leggi come una necessità storica dipendente dal peccato originale e dalla corruzione da esso introdotta, aveva sostenuto – seguendo Aristotele – che lo Stato fosse una necessità naturale derivante dalla natura dell’uomo in quanto uomo. Secondo la prospettiva dei tomisti ogni realtà statuale non ha un’esistenza naturale ma è risultato di un’azione concertata da parte degli uomini, di un loro accordo. Da uno stato di natura immaginario veniva dedotta la necessità di una società politica. Si trattava, per così dire, di un espediente che consentiva di mettere in luce e di chiarire il rapporto tra le leggi positive e i principi di giustizia naturale. Cfr. Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., pp. 217 – 218. 86 W. von Leyden, John Locke and Natural Law, cit., p. 10. 87 Cfr. M. Seliger Locke’s Natural Law and the Foundation of Politics, cit., p. 37. 88 Cfr. T2, 4; 7; 15; 54; 113. 89 Cfr. T2, 6-7; 13; 19; 21. 90 Cfr. T2, 95-99. Sulla decisiva differenza tra Hobbes e Locke si veda il dettagliato saggio di Dino Pasini che illustra il differente fondamento delle loro società politiche, la paura e il consenso, anche in relazione alle rispettive antropologie: Hobbes e Locke: paura e consenso, in «Cahiers Vilfredo Pareto», 61 (1982), pp. 145-175. 91 Cfr. T2, 127 e 222. 92 Cfr. T2, 158; p. 348.

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Nel XVII secolo, il criterio convenzionale per il diritto di voto era la proprietà93. Tuttavia,

osserva Tully, «nel dimostrare che ogni uomo è proprietario della sua vita, libertà, persona, azione

e alcuni possessi, Locke estende il diritto di voto ad ogni maschio adulto»94. Si trattava

sostanzialmente di capire se la proprietà era fissata nella terra e quindi ristretta a pochi, come

ritenevano Filmer, Grozio e Puferdorf, oppure se includeva qualsiasi diritto, e pertanto riguardava

tutti, come suggerivano Cumberland e Locke95.

Per una giusta comprensione della nozione lockiana di uguaglianza si deve tener presente inoltre

che Locke, mentre credeva che gli uomini hanno gli stessi diritti naturali, non esitava ad

ammettere che essi non sono egualmente dotati dalla natura. Per non fornire un motivo di

fraintendimento alle sue dichiarazioni sull’uguaglianza, egli precisa che la stessa natura che ha

provvisto gli stessi vantaggi per tutti, ha previsto anche un uso differente di questi vantaggi e una

giusta preminenza dovuta all’età, alla virtù, al talento o al merito96. Come pure la giusta precedenza

degli «industriosi e ragionevoli» per l’acquisto della proprietà97. E tutto ciò non era in

contraddizione con quanto aveva affermato, poiché «l’eguaglianza di cui parla Locke è una

condizione di eguale diritto alla nostra libertà naturale, uno stato di uguale giurisdizione su noi

stessi in base alla legge di natura»98.

L’importante distinzione introdotta da Locke, insieme ad esempio alla differenza tra marito e

moglie nell’ambito dei rapporti familiari99, all’annientamento dei criminali che si riducono allo

stato animale100 o alla legittimità della condizione di schiavitù conseguente ad una guerra giusta101,

non ha smesso di interrogare e di far ritenere che egli non sia rimasto fedele fino in fondo al

paradigma egualitario che tentava di affermare. D’altra parte il fondamento teologico

dell’affermazione dell’uguaglianza naturale degli uomini, seppure evidente, incontrava più di una

difficoltà nella società inglese del XVII secolo.

Virginia McDonald, nel riflettere sugli esiti politici delle premesse lockiane, ha sostenuto in un

suo saggio che Locke di ciò sarebbe stato consapevole, non essendo riuscito a sciogliere del tutto

93 Cfr. J. Tully, A Discourse on Property, cit., p. 173. 94 Cfr. Ibid. (trad. mia). 95 Cfr. ivi, p. 174. 96 Cfr. T2, 54. 97 T2, 34; p. 253. 98 J. Rawls, Lezioni di storia della filosofia politica, cit., p. 124. 99 Cfr. T2, 82. 100 Cfr. T2, 10, 11, 16, 172, 181. 101 Cfr. T2, 85. Cfr. anche The Foundamental Constitutions of Carolina (1670), in A Collection of Several Pieces of Mr. John Locke Never Before Printed, or not Extant in His Works (1720), cit.; ora in D. Wootton (ed.), John Locke: Political Writings, cit., pp. 210-232; qui artt. 107 e 110, p. 230.

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questa incoerenza102. Secondo la studiosa Locke era impegnato a delineare «an extraordinary

political paradigm»103, in opposizione al paradigma del proprio tempo e contesto socio-economico.

Si sarebbe dunque determinata un’inevitabile tensione tra i due paradigmi, e nel pensiero dello

stesso Locke, ovvero tra le istanze etiche ed intellettuali del nuovo paradigma politico e quelle

economiche, sociali e culturali del modello dominante al suo tempo. Nella parziale partecipazione

di Locke ad entrambi i paradigmi, e nella tensione che ne derivava, McDonald individua la chiave

di lettura per la comprensione del pensiero politico del filosofo inglese:

Locke’s extraordinary equality paradigm, grounded in a theological metaphysical foundation of the spiritual equality of all men, confronted the normal non-egalitarian paradigm of his own society and his own socio-economic milieu104.

Secondo una tale lettura, Locke non sarebbe stato pronto a trarre fino in fondo le conseguenze di

un’affermazione tanto radicale come quella dell’uguaglianza tra gli uomini, che gli giungeva

dall’impostazione cristiana del suo pensiero, e avrebbe cercato di introdurre dei correttivi: così da

un lato «we find Locke specifically limiting the election of representatives to men of property»,

dall’altro «he was never forced to question or determine who the “people” were»105.

Il punto controverso dell’argomento sollevato da Virginia McDonald – che giudica, in ogni caso,

di estrema rilevanza l’attenzione ai presupposti teologici della dottrina del pensatore inglese106 -

risiede nel fatto che, nel definire le fasi dello stato di natura e della società civile, non vi sarebbe

mai stato un confronto diretto tra il paradigma ideale che Locke stava sviluppando a livello teorico

e il paradigma socio-economico del suo tempo. E neppure la Rivoluzione whig rappresentò

un’occasione per tale confronto, dal momento che si realizzò senza spargimento di sangue107.

***

Nello studio dell’uguaglianza lockiana un contributo assai rilevante è stato offerto da Jeremy

Waldron, il quale, muovendosi nella prospettiva di Dunn quanto alla centralità dell’elemento

teologico per Locke, e, in parte, seguendo Laslett quanto alla considerazione di Filmer come suo

diretto avversario108, ha preso la visione religiosa lockiana molto più seriamente di altri studiosi e

102 Cfr. V. McDonald, A Guide to Interpretation of Locke the Political Theorist, cit., pp. 602-604. 103 Ivi, p. 602. 104 Ivi, p. 603. 105 Ivi, p. 604. 106 Ibid. 107 Ibid. 108 Anche Dunn è d’accordo con Laslett nel ritenere che Locke nei Due Trattati non si rivolgesse a Hobbes: PPL, p. 103.

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ha posto l’accento sulla rilevanza che il suo pensiero politico può avere oggi per noi. Ad avviso di

Waldron non è possibile mettere tra parentesi la dimensione teologica del pensiero lockiano, e ciò

è tanto più vero con riferimento alla nozione di uguaglianza (ma un discorso analogo vale per la

definizione di umanità109) per come è possibile ricavarla dal Saggio, dai Due Trattati, dalle Lettere

sulla tolleranza e dalla Ragionevolezza. L’importanza di tale principio è costituita infatti dal suo

porsi come compiuta teoria di basic equality acquisita integralmente dal canone della filosofia

politica110. E la dottrina lockiana è ancora più straordinaria, secondo Waldron, se si considera

l’avversario con cui egli si confrontava. Di fronte all’affermazione filmeriana di un diritto divino

del sovrano e alla difesa del patriarcalismo, la posizione lockiana appariva radicale, sconsiderata,

valida al massimo come ipotesi filosofica111.

Secondo lo studioso, che solleva anche dubbi circa la validità dello schema rawlsiano

dell’uguaglianza112, il principio lockiano di basic equality riposa su una dottrina di carattere

religioso ed è impossibile coglierne la portata – specie in termini politici - senza prendere al

medesimo tempo in considerazione il teismo lockiano113; teismo che tuttavia Waldron non

riconduce semplicemente al workmanship model - a differenza, ad esempio, dell’importanza che

Zuckert attribuisce ad esso - bensì al particolare statuto dell’essere umano, creato secondo le Sacre

Scritture ad immagine di Dio:

Locke’s equality claims are not separable from the theological content that shapes and organizes them. The theological content cannot simply be bracketed off as a curiosity. […] And so there is no way round it – Lockean equality is not fit to be taught as a secular doctrine; it is a conception of equality that makes no sense except in the light of a particular account of the relation between man and God 114.

Si deve altresì osservare che Waldron è mosso dall’intenzione di mostrare una coerenza sostanziale

tra le opere di Locke (diversamente da Laslett) e, in particolare, quanto alla concezione di essere

umano. Un ostacolo a questo intento è costituito evidentemente dalla differenza che emerge tra la

visione anti-essenzialistica e scettica del Saggio, dove l’uomo è definito «a corporeal rational

109 Cfr. J. Waldron, God, Locke, and Equality, cit., pp. 46-48. 110 Sul principio di uguaglianza cfr. ivi, in part. pp. 1, 6, 44-54, 62-66, 80-85, 109, 120. Recentemente una critica alle tesi di Waldron è stata sviluppata da J. Tate, Dividing Locke from God: The Limits of Theology in Locke’s political Philosophy, in «Philosophy Social Criticism», 39 (2013), pp. 133-164. Tate rimprovera in particolare a Waldron di aver cercato a tutti i costi una coerenza tra le opere del filosofo inglese. 111 Cfr. J. Waldron, God, Locke, and Equality, cit., p. 5. 112 Cfr. ivi, p. 45. 113 Cfr. ivi, pp. 228 ss. Sull’importanza del riconoscimento di una relazione ontologica con Dio per accostarsi agli argomenti centrali del pensiero di Locke cfr. G. A. J. Rogers, John Locke. God and the Law of Nature, cit., p. 558. 114 J. Waldron, God, Locke, and Equality, cit., p. 82.

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creature»115 e quella dei Due Trattati, per venire a capo della quale Waldron ricorre al concetto di

rassomiglianza [resemblance]116. Tutto ciò con l’intento di definire la relazione tra il possesso di

determinate qualità e le conseguenze politiche e normative associate all’uguaglianza.

Waldron, che intende sottolineare la rilevanza per Locke di un certo tipo di relazione con Dio

alla base dell’uguaglianza, radicata in ultima analisi in una capacità di astrazione funzionale alla

scoperta dell’esistenza di Dio e dei nostri doveri117, non esita a considerare il filosofo inglese un

“egualitario radicale” e ne mette in luce la posizione di controtendenza rispetto alla political

correctness del suo tempo, che certamente non andava a vantaggio della sua rispettabilità in

ambito filosofico e politico118. Ciononostante «l’eguaglianza era qualcosa che egli prese molto

seriamente, come una premessa morale e politica»119. La grande forza del principio in questione è

dimostrata, secondo Waldron, dal fatto che il filosofo ritenne opportuno fornire ad esso il

fondamento più forte che un principio potesse avere, quello appunto teologico120.

Non a caso Waldron, nell’ambito della discussione su un liberalismo politico non coinvolto con

presupposti di natura religiosa, manifesta la sua perplessità relativamente ad una concezione

utilitaristica di uguaglianza, o fondata semplicemente su caratteristiche comuni agli esseri umani, e

rileva che l’uguaglianza di base è così decisiva per i molteplici aspetti di una visione etica da

richiedere un tipo speciale di difesa, in grado cioè di sostenere quelli che sono considerati i punti

di partenza dell’argomentazione pubblica [public justification] e, allo stesso tempo, prevalere su

quei punti di vista che sostengono la legitimità di distinzioni tra categorie o gradi di esseri umani;

pur precisando che da tutto ciò non discende che l’uguaglianza di base debba essere religiosamente

fondata121.

115 Cfr. Saggio, III, XI, 16. 116 Cfr. J. Waldron, God, Locke, and Equality, cit., pp. 55-56; 66-67; 226. 117 Cfr. ivi, pp. 78-81. 118 Sulla posizione controcorrente del filosofo inglese, rispetto agli stessi whigs del tempo, cfr. anche D. Wootton, Introduction, John Locke: Political Writings, cit., pp. 11-12. 119 J. Waldron, God, Locke, and Equality, cit., pp. 5-6 (trad. mia). 120 Da una prospettiva diversa muove invece Wilson McWilliams, che in un suo saggio accosta lo stato di natura di Hobbes a quello di Locke e vede l’affermazione dell’uguaglianza non come riconoscimento di uguale valore ma come «una concessione per necessità politica». Locke avrebbe ridotto l’uguaglianza ad un prezzo necessario per l’ordine e la pace civile. Cfr. W. C. McWilliams, On Equality as the Moral Foundation for Community, in R. Horwitz (ed.), The Moral Foundations of the American Republic, cit., pp. 282-312, qui 299-300. 121 Cfr. J. Waldron, God, Locke, and Equality, cit., p. 14.

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b) b) b) b) Legge di natura e volontà divinaLegge di natura e volontà divinaLegge di natura e volontà divinaLegge di natura e volontà divina

Il tema dell’uguaglianza e della libertà rinvia in Locke alla dottrina della legge di natura, che

Zuckert ha definito «il problema per antonomasia della [sua] filosofia politica»122. L’argomento

rappresenta un ulteriore punto di continuità con la posizione dei teorici del Cinquecento e di

rottura con quella luterana.

Si tratta di un tema particolarmente dibattuto, vi sono infatti numerosi e approfonditi studi che

hanno provato ad indagare la concezione lockiana di legge di natura123. Ad avviso di von Leyden,

nonostante Locke abbia sostenuto la dottrina della legge di natura per tutta la sua vita, incontrò

difficoltà nel conciliarla con le dottrine della maturità124. Vi era infatti per lui, in primo luogo, il

problema di fondare una posizione razionalistica – i tentativi dei Saggi sulla legge di natura125 e del

Saggio sull’intelletto umano - in relazione ad una teologia naturale, successivamente sfumato nella

conclusione della Ragionevolezza, tendente ad un volontarismo fideistico. A questo si aggiungeva

lo sforzo di conciliare una teoria della volontà di carattere edonista126 con una teoria razionalistica

della natura del bene127; e l’intenzione di Locke di provare a dimostrare una scienza morale,

desiderio annunciato e mai portato a compimento nonostante gli inviti di Tyrrell e di Molyneux128.

122 LL, p. 25. Cfr. inoltre G. Fassò, Il diritto naturale, ERI, Torino 1972, pp. 62-64; 125-126. 123 Cfr. T2, 5-6; 11-12. Al tema della legge di natura lockiana sono stati dedicati innumerevoli contributi, si segnalano di seguito quelli più rilevanti per la presente ricerca: PPL, pp. 219- 232; LL, pp. 169-200; S. P. Lamprecht, The Moral and Political Philosophy of John Locke, Columbia University Press, New York 1918; R. I. Aaron, John Locke, cit., pp. 264-66, 271-272; J. W. Gough, John Locke’s Political Philosophy, cit., in part. pp. 1- 26; J. Colman, John Locke’s Moral Philosophy, cit., pp. 29-50; 177-83; R. H. Cox, Locke on war and peace, cit., pp. 45 – 105; L. Strauss, On Locke's Doctrine of Natural Right, in «Philosophical Review», 61 (1952), pp. 475-502; J. Tully, A Discourse On Property: John Locke and his Adversaries, cit., pp. 35 – 50; W. Euchner, La filosofia politica di Locke, cit., pp. 191 – 210; M. Sina, Introduzione a Locke, cit., pp. 14 – 19; N. Bobbio, Locke e il diritto naturale, Giappichelli, Torino 1963; J. Byrne, The Basis of the Natural Law in Locke’s Philosophy, in « Catholic Lawyer », 10 (1964), pp. 55-63, 87; ora in CA, II, pp. 52-62; F. Oakley - E. W. Urdang, Locke, Natural Law, and God, in « Natural Law Forum», 11 (1966), pp. 92-109; ora in CA, II, pp. 63-83; M. Seliger, The Liberal Politics of John Locke, cit., pp. 45-81; J. Yolton, John Locke, cit., pp. 47-65; S. B. Drury, John Locke: Natural Law and Innate Ideas, in « Dialogue», 19 (1980), pp. 531-45; ora in CA, II, pp. 84-97; J. Rawls, Lezioni di storia della filosofia politica, cit., pp. 121 – 130; J. Colman, Locke’s empiricist theory of the law of nature, in P. Anstey (ed.), The Philosophy of John Locke: New Perspectives, cit., pp. 106 – 126; J. Waldron, God, Locke, and Equality, cit., pp. 131-134. 124 Cfr. W. von Leyden, , , , Introduction, John Locke: Essays on the Law of Nature, cit., pp. 71-82. 125 Cfr. PPL, pp. 31-39. 126 Cfr. Ethica - Ms. Locke c. 42B, p. 224 [1692]; ora in WR, pp. 15-16. 127 Si vedano i seguenti manoscritti lockiani sulla moralità: Ethica 92 - MS Locke c 42, pars II, p. 224 [1692] in WR, pp. 15-16; Ethica - Ms c 28 f. 113 [1693-94?] in M. Goldie, Political Essays, cit., pp. 319-320; Morality - Ms Locke c 28, ff. 139-140 v [1692-1696?] in M. Goldie, Political Essays, cit., pp. 267-269; Ethica B - Ms Locke c 28, f. 141 [1693] in M. Goldie, Political Essays, cit., pp. 328-329; Thus I Thinke - Ms Locke c 28, ff. 143-144 v. [senza data] in P. King, The Life of John Locke, cit., II, pp. 120-122. La traduzione italiana di questi manoscritti è a c. di M. Sina in SER, pp. 167-174. 128 Cfr. Saggio, III, XI, 16; IV, III, 18; Of Etick in General, cit.; trad. it. Etica in generale, SER, pp. 160-166.

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Secondo Zuckert, «all’origine di quasi tutte le difficoltà con la legge naturale lockiana, e in

generale con la sua filosofia, come è quasi unanimemente riconosciuto, c’è la problematica

relazione nel suo pensiero tra l’elemento razionale e quello religioso »129.

Dunn ha rimarcato che la dimostrazione della legge di natura era «impossibile in linea di

principio e l’evoluzione delle sue idee ha prodotto in Locke una chiara consapevolezza delle

difficoltà di una tale impresa»130.

Ad avviso di Troeltsch «la sua [di Locke] teoria politica del costituzionalismo si collega senza

dubbio col diritto naturale cristiano di concezione calvinistica e scolastica», anche se subito dopo

aggiunge che nel diritto naturale lockiano si trova «un empirismo utilitaristico, dal quale poi però

[Locke] non di rado prende le mosse per cercare di riavvicinarsi agli antichi concetti. […] Questa

legge naturale dell'interesse bene inteso si trova , è vero, sotto la direzione divina, è ripetuta ed

esposta nel decalogo, ed è quindi d'accordo con la rivelazione divina; ma le sue creazioni servono

soltanto al bene degli individui, non all'onore di Dio»131.

Secondo Hans Aarsleff132, Martin Seliger133, Richard Ashcraft134 e Wolfgang von Leyden135 è

compito di una élite di “studiosi” di questa legge di natura quello di creare un generale accordo su

di essa attraverso un governo che la faccia propria, impegnandosi così a garantire

autoconservazione e felicità degli individui136. La legge di natura in tal senso è ciò che aggrega e

tiene unita una comunità che attraverso un governo limitato difende il diritto di proprietà.

Gli studiosi di Locke tendono a raccogliersi su due posizioni prevalenti: coloro che rilevano

una sostanziale incoerenza nel pensiero morale del filosofo, e in speciale modo tra i Saggi sulla

legge di natura e l’epistemologia del Saggio137, e coloro che preferiscono guardare alla totalità del

129 LL, p. 26 (trad. mia). 130 PPL, p. 219. 131 E. Troeltsch, Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani, cit., II, pp. 343-344. 132 H. . . . Aarsleff, The State of Nature and the Nature of Man in Locke, in J. W. Yolton (ed.), John Locke: Problems and Perspectives, cit., pp. 99- 136. 133 M. Seliger, Locke’s Natural Law and the Foundation of Politics, cit., in part. pp. 44-45. 134 R. Ashcraft, Locke’s State of Nature: Historical Fact or Moral Fiction?, cit., pp. 898-915. 135 W. von Leyden, Hobbes e Locke, cit., p. 180. 136 Sull’accesso alla legge di natura da parte di chi la studia e coltiva la ragione cfr. T2, 6, 12 e 124; Saggio, I, III, 24. 137 Sul contrasto la teoria della legge di natura dei Due Trattati e l’epistemologia del Saggio si veda P. Laslett, Introduction, Two Treatises of Government, cit., pp. 79 ss. Si vedano inoltre: D.E. Flage, Locke and Natural Law, in «Dialogue», 39 (2000), pp. 435-460; S. Zinaich Jr., Locke’s Moral Revolution: from Natural Law to Moral Relativism, in «Locke Newsletter», 31 (2000), pp. 79-114. Sulla discontinuità tra il Saggio e i Due Trattati cfr. N. Bobbio, Studi lockiani, in Da Hobbes a Marx, cit., p. 95. L’interpretazione di Strauss, come si vedrà, si discosta dalle altre in quanto ritiene la dottrina lockiana in sé coerente ma attribuisce le difficoltà e le apparenti contraddizioni dei testi alla scrittura di Locke e al modo di presentare la propria dottrina.

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pensiero lockiano, evitando di mettere in contrapposizione gli scritti del filosofo138, fino a

promuovere un atto di fede nella unità del pensiero di Locke139.

Ha osservato Ruth Grant, la quale ravvisa una continuità in tutta la produzione lockiana, e in

particolare tra il Saggio e i Due Trattati, che la dottrina del filosofo si deve comprendere all’interno

di una presa di posizione epistemologica distante tanto dallo scetticismo quanto dall’assolutismo. È

a partire da un esame dell’intelletto umano che si può leggere infatti la visione lockiana del

governo civile e si può affrontare l’interrogativo politico per eccellenza: «Chi decide? Che cosa può

essere lasciato alla determinazione individuale e che cosa invece deve essere stabilito da

un’autorità?». Se gli uomini non fossero in grado di conoscere con certezza alcunché, e se non vi

fossero quindi basi per stabilire un accordo su ciò che è giusto e ciò che non lo è, non resterebbe

che la forza a governare la vita in società. D’altra parte, se gli uomini nelle proprie azioni fossero

tutti governati da princìpi innati di giustizia non occorrerebbero né la coercizione né un governo.

La ragion d’essere della politica si colloca all’altezza di questa intersezione: essa «è possibile perché

gli uomini sono in grado di distinguere nelle loro vicende tra giusto e sbagliato, ed è necessaria sia

perché gli uomini spesso falliscono nel fare quel che è giusto sia perché qualcosa deve essere

stabilito per convenzione o lasciato al giudizio»140.

Uno dei meriti del Saggio sarebbe dunque, secondo la studiosa, quello di stabilire «tanto la

possibilità di una scienza politica normativa quanto l’impossibilità di una pratica politica

scientifica»141. Ciò significa che, attraverso il ragionamento, è possibile definire i diritti e i doveri

degli uomini secondo un modello matematico, «ma l’arte di governo rimane un’arte»142, e non è

mai disgiunta dall’esperienza e dagli effetti che è in grado di produrre: «nessuna teoria politica può

essere giusta se, quando tradotta in pratica, conduce alla miseria»143.

138 Sulla sostanziale coerenza e unità del pensiero etico-politico lockiano cfr. in particolare: W. von Leyden, John Locke and Natural Law, cit., in part. pp. 3-5; Id., Hobbes e Locke, cit., pp. 204 e 219. Si vedano inoltre: P. Abrams, Introduction, Two Tracts, cit., pp. 84 ss.; S. Pearson Jr., The Religion of John Locke and the Character of his Thought, cit., p. 142; N. Bobbio, Studi lockiani, cit., p. 121; H. Aarsleff, The State of Nature ant the Nature of Man in Locke, cit.; PPL, p. 24; R. Polin, John Locke’s Conception of Freedom, in J. Yolton (ed.), John Locke: Problems and Perspectives, cit., pp. 1-18; R. Grant, John Locke’s Liberalism, cit., in part. pp. 24-26; M. Merlo, La legge e la coscienza, cit., pp. 120 ss. Anche John Colman considera la teoria della conoscenza lockiana come il tentativo di fornire un fondamento alla conoscenza morale, e ritiene il presunto edonismo di alcuni scritti non incoerente con la legge di natura di quelli giovanili. Lo studioso pone innanzitutto il problema della conoscenza del contenuto della legge morale per riflettere in particolare sulla tesi dell’obbligazione morale, e prova ad approfondire la dimostrabilità dell’etica di cui Locke aveva parlato nel Saggio senza riuscire a produrre però una scienza morale. Cfr. J. Colman, John Locke’s Moral Philosophy, cit., in part. pp. 178 – 234. 139 Come suggerisce Waldron, cfr: God, Locke, and Equality, cit., pp. 50-52. 140 R. Grant, John Locke’s Liberalism, cit., p. 50 (trad. mia). 141 Ibid. 142 Ibid. 143 Ibid.

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Per comprendere l’importanza assegnata da Locke all’etica (e in particolare alla legge di natura),

mostrata dal giovanile interesse per l’argomento e per l’educazione intesa come abitudine alla

virtù, che costituisce il tratto distintivo dell’uomo insieme alla ragione, si deve considerare che

«per Locke i concetti di libertà e di legge sono legati. […] L’uomo virtuoso è l’uomo libero»144.

Dunn ha ritenuto che Locke non potesse fornire una disamina della legge di natura più articolata

di quella che ci ha lasciato, dal momento che il suo indirizzo di studi lo aveva posto in una

condizione che gli impediva di seguire a tal proposito tanto la dottrina tradizionale quanto di

elaborarne un’altra coerente con i propri princìpi epistemologici. Per tale ragione la legge di

natura resta essenziale nel suo impianto teorico, pur presentando delle increspature145. Così Dunn

ha posto l’accento sulla diretta relazione tra la riflessione lockiana in ambito etico e la definizione

di un agire pratico, che a suo avviso avrebbe rappresentato il reale intento del filosofo:

Quindi la maggior parte delle discussioni di etica che Locke stesso non pubblicò nelle successive versioni del Saggio si riferiscono direttamente al problema di come gli uomini possono essere condotti a mettere in pratica i princìpi morali che erano stati capaci di percepire come razionali. Lo strumento coercitivo che adopera per porre la società del suo tempo di fronte a questi obblighi era la sua interpretazione personale della rivelazione cristiana, la Ragionevolezza del cristianesimo146. […] È dunque corretto considerare le intenzioni pratiche del Saggio e della Ragionevolezza come convergenti: da un lato Locke analizza la natura della conoscenza morale, dall’altro considera le occasioni effettive di vivere in conformità con questa conoscenza147.

Nei giovanili Saggi sulla legge di natura, Locke aveva elaborato una propria dottrina

sull’argomento148. Una continuità tra la riflessione lockiana, il pensiero dei platonici inglesi del

primo Seicento e le dottrine giusnaturalistiche della tarda Scolastica si coglie in questo caso nel

riconoscimento di una legge di natura e, precisamente, del suo statuto di legge divina, come pure

nell’affermazione della sua conformità all’ordine della creazione e alla natura razionale dell’uomo,

e nell’accento posto sulla sua obbligatorietà universale.

In coerenza con il rifiuto delle idee innate, Locke ritiene tuttavia che la ragione umana possa

giungere alla conoscenza della legge di natura non perché questa sia impressa nell’animo degli

uomini, dal momento che non tutti mostrano di averne cognizione, ma a partire dall’esperienza e

dall’esercizio della ragione149.

144 J. Yolton, John Locke, cit., p. 50. 145 Cfr. PPL, pp. 219-22. 146 PPL, p. 224. 147 PPL, p. 231. 148 Cfr. M. Sina, Nota introduttiva, in SER, pp. 83 – 86. 149 Su questo aspetto ha insistito in particolare John Yolton. Dopo aver citato gli studi di Laslett che hanno retrodatato la composizione dei Due Trattati ad anticipazione degli eventi del 1688, egli ricorda la pubblicazione dei Saggi sulla legge di natura a cura di von Leyden e polemizza con Leo Strauss, il quale non aveva avuto accesso alla pubblicazione dei Saggi né ai manoscritti della Lovelace collection, e la cui interpretazione di Locke viene definita quasi interamente erronea.

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In otto brevi saggi giovanili il filosofo aveva affrontato le questioni relative all’esistenza della

legge di natura e alla sua conoscibilità (I-V), alla sua obbligazione (VI, VII) e al suo fondamento

(VIII)150. La lettura dei Saggi consente di cogliere secondo von Leyden, che ne ha messo in luce la

continuità rispetto alle opere successive, l’impianto religioso del sistema del filosofo inglese, poiché

tutto l’edificio intellettuale è costruito sulla premessa dell’esistenza di Dio, del suo essere creatore,

dei suoi attributi di saggezza e bontà, e di un ordine che Egli ha stabilito: «Tutto l’argomento

lockiano deriva qui dalla Scolastica e non presenta nulla di originale ad eccezione forse

dell’insistenza sul ruolo svolto dalla percezione sensibile. […] Una volta mostrato che la ragione

dell’uomo può condurre alla scoperta di determinati princìpi razionali, egli ne conclude che

l’uomo è moralmente obbligato ad accettare queste scoperte della propria ragione»151.

Secondo Yolton, che prima di confutare punto per punto le tesi di Strauss illustra la propria interpretazione della teoria lockiana, l’uso che il filosofo inglese ha fatto della law of nature deve essere valutato nel contesto della dottrina della conoscenza innata. Nel XVII secolo la terminologia e gli esempi della legge naturale (che Dio esiste, che le promesse vanno mantenute, che i genitori devono essere onorati…) ricorrevano in molti scrittori, nella forma ingenua di verità scritte in modo indelebile nei cuori degli uomini. Locke non fu il primo ad attaccare la “forma ingenua” di questa teoria ma ha formulato l’argomento più esteso contro di essa. Quella di Locke sarebbe stata pertanto una critica alla forma ingenua della dottrina della law of nature, e il suo tentativo quello di organizzare le possibili obiezioni in un modo tale che i sostenitori di tale dottrina sarebbero stati condotti a esprimere in termini precisi quel che argomentavano. Secondo Locke, o la teoria afferma qualcosa che è strano e non si può verificare, o la teoria dichiara un fatto ovvio, e cioè che alcune verità sono riconosciute come autoevidenti una volta acquisito un maturo uso delle nostre facoltà razionali. Locke era pronto a riconoscere verità e principi autoevidenti, ma preferiva limitare l’innatismo della forma ingenua di verità stampate nella mente o nel cuore. Secondo Yolton, il filosofo non ignorava che la sua polemica contro la conoscenza innata rischiava di essere interpretata come un attacco alla law of nature ma metteva espressamente in guardia da questa interpretazione, sostenendo nel Saggio che vi è differenza tra una legge innata e una legge di natura, cioè tra qualcosa che è stampato nelle menti degli uomini e qualcosa che possiamo conoscere attraverso l’applicazione delle nostre facoltà naturali. L’esplicito empirismo lockiano non deve oscurare, secondo Yolton, la fondazione razionalistica della sua teoria della conoscenza. Quel che è rilevante infatti è il suo appello ad una verità autoevidente. La legge di natura per Locke fornisce una solida e stabile fondazione della bontà morale. Egli sosteneva nei Saggi che tale legge (o regola morale) non è conosciuta per iscrizione, tradizione o consenso ma attraverso la ragione accompagnata dall’esperienza sensibile, e pretendeva quindi di offrire una fondazione esperienziale, empirica, alla legge morale in opposizione a coloro che le assegnavano una base innata. Cfr. J. W. Yolton, Locke on the Law of Nature, cit., pp. 16-33; trad. it. Locke a proposito della legge di natura, cit., pp. 30-55. 150 Sina nota che la riflessione lockiana sul tema della legge di natura venne influenzata dalle Laws di Richard Hooker e dalle opere di Robert Sanderson (De Obligatione Conscientiae e De Juramenti Promissorii Obligatione, 1647), di John Selden (De Iure Naturali et Gentium, iuxta Disciplinam Ebraeorum, 1640), di Ugo Grozio (De Iure Belli ac Pacis, 1625) e di Samuel Pufendorf (Elementa Jurisprudentiae Universalis, 1660). Cfr. M. Sina, Introduzione, SER, p. 15. Locke aveva acquistato le opere di Pufendorf in Francia alla fine degli anni Settanta e potrebbe anche averlo incontrato a Parigi. Ne raccomanda la lettura in Some Thoughts concerning Education (PE [186], pp. 245-246) e in Some Thoughts concerning Reading and Study for a Gentleman, in The Educational Writings of John Locke,, cit., p. 400. Il Pufendorf volontarista morale, che pone le basi dell’etica nella volontà o nella legge di un superiore e fa derivare bene e male, giusto e ingiusto, da una legge, in assenza della quale non è possible un giudizio morale; come pure l’idea che tale giudizio derivi da una correlazione tra azione, prescrizione e sanzione di un legislatore in termini di ricompense e punizioni, deve aver influenzato Locke e la sua dottrina. Cfr. S. Pufendorf, Principi di diritto naturale (1672), a c. di N. Bobbio, Paravia Torino 1952; RRR, p. 202. Sul pensiero giuridico e religioso di Pufendorf si vedano: F. Todescan, Il problema della secolarizzazione nel pensiero giuridico di Samuel Pufendorf, III, Giuffrè, Milano 2001. Si veda inoltre: G. Fassò, Pufendorf, in Scritti di filosofia del diritto, I-III, a c. di E. Pattaro, C. Faralli, G. Zucchini, Giuffrè, Milano 1982, III, pp. 1205-1206; Id., Giusnaturalismo, ivi, pp. 1300-1303. 151 W. von Leyden, John Locke and Natural Law, cit. p. 10 (corsivo mio).

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Secondo Dunn «il motivo che abbiamo per credere in una legge di natura è l’esistenza di Dio» 152,

anche se non è qui che essa viene dimostrata. Quando Locke illustra nei Saggi giovanili l’esistenza

di Dio, e la base volontarista sulla quale fonda i doveri dell’uomo, spiega che le obbligazioni morali

sono vincolanti perché sorgono da comandi di Dio:

[…] questa legge [la legge di natura] possiede tutti i requisiti di una legge avente forza obbligante. Dio infatti, autore di questa legge, ha voluto che essa costituisse la regola della nostra condotta morale e della nostra vita, e l’ha resa perciò sufficientemente di pubblico dominio, così che chiunque può apprenderla, purché abbia la volontà di applicarsi con diligente cura e di rivolgere la mente alla conoscenza di essa. Pertanto, dunque, poiché per produrre una obbligazione non si richiede altro al di fuori dell’autorità, del giusto e fondato potere di chi è al comando e infine della manifestazione della sua volontà, nessuno può dubitare che la legge di natura obbliga il genere umano153.

Nei Pensieri sull’educazione Locke parla di leggi morali «sparse qua e là nella Bibbia» e

raccomanda di farle imparare a memoria da piccoli, così da avere nel corso della vita «sempre

pronta e alla mano una regola da cui farsi guidare»154. Secondo il filosofo la legge di natura ha un

carattere obbligante e si configura come obbligo in senso proprio; in primo luogo perché è volontà

di Dio ed Egli è al di sopra di tutte le cose che ha creato («A lui siamo dunque soggetti in forza di

un supremo diritto e di una suprema necessità»155); in secondo luogo, perché questa legge è nota

grazie al lume naturale; in terzo luogo, perché se la legge di natura non ha carattere obbligante,

non lo hanno neppure la legge divina positiva né la legge umana positiva156. Come fa notare

Spellman,

L’idea di una legge di natura sinonimo di una legge fondamentale contenuta nelle Scritture risale alla Scolastica medioevale e ai tempi di Locke rimaneva un assioma dell’umanesimo cristiano. L’Aquinate aveva detto che l’uomo ha un doppio accesso alla Parola di Dio: fede e ragione. E Richard Hooker – il cui primo libro delle Leggi Locke aveva letto prima di mettere mano ai Saggi – si richiamava a Tommaso nell’equiparare le “leggi del retto agire” ai comandi della retta ragione. Al centro della teoria della legge naturale vi era probabilmente l’identificazione della volontà eterna di Dio e l’ordine di ragione157.

Dopo aver distinto il diritto naturale dalla legge di natura, Locke ne offre una definizione:

Questa legge di natura può dunque essere descritta come disposizione della volontà divina, conoscibile per mezzo del lume naturale dell’intelletto, indicante ciò che è conforme o difforme dalla natura razionale, e per ciò stesso espressa con la formulazione di un ordine o di un divieto158.

152 PPL, p. 33. 153 SLN, VI, p. 66. 154 PE [159], p. 210. 155 SLN, VI, p. 67. 156 Ibid. 157 W. M. Spellman, John Locke and the Problem of Depravity , cit., pp. 54 – 55 (trad. mia). 158 SLN, I, p. 5.

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La legge naturale secondo Locke proviene da Dio ed esprime la Sua volontà159, dunque Dio ne è la

sorgente ultima160; è universale, valida in tutti i luoghi e i tempi; si radica nella natura umana, la

quale è immutabile; è accessibile alla ragione (o meglio, ad una ragione rettamente applicata);

stabilisce quel che deve o non deve esser fatto; è vincolante, poiché obbliga tutti gli uomini; non

può essere modificata, dal momento che «non è in potere dei sudditi abolire a proprio piacimento

le leggi; né certo intende abolirla Dio […]»161; possiede un’autorità morale sulle regole di condotta

di una certa società.

L’aspetto problematico emerge quando Locke passa a formulare affermazioni circa la forza

obbligante della legge naturale. Dopo aver mostrato che la ragione umana può guidare alla

scoperta di determinati princìpi razionali, conclude che l’uomo è moralmente obbligato ad

accogliere queste scoperte della ragione. Egli cioè

comincia con determinate affermazioni di fatto, come quelle sulla natura umana, che non contengono giudizi di valore; passa quindi ad affermazioni metafisiche e teologiche che non contengono argomenti morali; e da esse elabora una conclusione su ciò che gli uomini devono fare, come se la conclusione di un valido argomento potesse contenere qualcosa come un “dovrebbe”, che non è contenuto nelle premesse162.

Il problema però, nota von Leyden, è che «dal dire che Dio ci comanda di fare certe azioni non

possiamo inferire che dovremmo [we ought] farle, neppure se aggiungiamo l’ulteriore premessa

che Dio ci comanda di obbedire [to obey] ai suoi Decreti»163. Locke tenta di far derivare allora

l’obbligazione morale in altro modo e di giungere ad una fondazione puramente razionale

dell’etica: «Per Locke la ragione non ci indica solo quali sono i doveri dell’uomo, ma allo stesso

tempo rende vincolanti i suoi doveri; è dunque una fonte di obbligazioni autonoma»164.

Sussiste in ogni caso nella prospettiva lockiana un’armonia tra i princìpi dell’obbligazione morale

e la natura razionale dell’uomo, e poiché la natura umana manifesta una regolarità, la ragione

scopre regole morali permanenti. Locke sembra interessato a mostrare che

159 Cfr. T2, 135. 160 In conclusione a Of Etick in General si legge che «per collocare la moralità sulle sue proprie basi, e su fondamenti tali che possano comportare un’obbligazione, dobbiamo per prima cosa provare una legge, la quale sempre presuppone un legislatore: uno che sia superiore e abbia il diritto di impartire ordini, ed anche il potere di premiare e punire secondo il tenore della legge stabilita da lui. Questo legislatore sovrano che ha stabilito regole e confini alle azioni degli uomini è Dio, loro Creatore, la cui esistenza noi abbiamo già provato». Etica in generale, SER, p. 166. 161 SLN, VII, p. 77. 162 W. von Leyden, John Locke and Natural Law, cit., pp. 10-11 (trad. mia). 163 Ivi, p. 11. 164 Ibid.

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dal concetto di natura umana (se correttamente definito) seguono proposizioni di tipo morale o in modo analitico o attraverso le regole della deduzione, proprio come nelle matematiche: date certe definizioni, accettiamo alcune proposizioni come autoevidenti altre come dimostrabili 165.

Nei maturità, e in particolare nella Ragionevolezza, Locke si mostrerà assai dubbioso circa

l’autosufficienza della ragione nella scoperta della legge naturale, fino ad affermare in modo

esplicito che «nemmeno attraverso una serie di deduzioni evidenti che partono da principi

indubitabili si giunge alla sistemazione completa della “legge di natura”»166, ed accentuerà il ruolo

svolto dalla rivelazione. Come ha fatto notare Matteucci, riferendosi al periodo giovanile,

per Locke, in questi anni, il fondamento di questa obbligatorietà resta la volontà divina, ma è una volontà divina “razionale”, più vicina a S. Tommaso che a Occam, al “giudizioso” Hooker che ai “fanatici” puritani, che, coerenti, traevano da un punto di partenza volontaristico conclusioni opposte. La rivelazione, infatti, viene subito esclusa dal Locke come sussidio per scoprire la legge naturale 167.

Era infatti nell’ambito di un ritorno al pensiero di Tommaso D’Aquino, e di una reazione anti-

protestante, che andava compreso il richiamo degli esponenti della Seconda Scolastica ad un

universo governato da un complesso di leggi disposte secondo un ordine gerarchico, che aveva al

vertice la lex aeterna o divina, rivelata da Dio nelle Scritture.

Vanno tuttavia fatte alcune precisazioni se si vuole stabilire un confronto tra le tesi lockiane e le

dottrine politiche dei tomisti del Cinquecento168, che riguardano rispettivamente l’origine della

legge di natura; la sua conoscibilità; la necessità di una conformità ad essa da parte delle leggi

umane.

***

A.1) Per quanto riguarda l’origine della legge di natura, per Locke come per i tomisti del

Cinquecento, essa fornisce un modello di condotta umana e non può che avere un solo autore: Dio

creatore. Locke è particolarmente chiaro su questo. Nei Saggi sostiene che non è la ragione ad

165 Ivi, p. 12. 166 RC, p. 196; p. 154. 167 N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà, cit., p. 97. 168 Al di sotto della legge eterna era posta la lex naturalis, considerata come la legge che Dio infonde nell’uomo. Inferiore ad essa era collocata quindi la legge positiva umana, stabilita dall’uomo per governare le società politiche. Era infatti la nozione di diritto naturale, in particolare, ad essere ripresa dalla Scuola di Salamanca. Ciò le consentiva «di ribadire che esiste un ordine naturale del diritto, le cui leggi possono essere scoperte attraverso lo studio e l’esperienza. Esse sono accessibili mediante la ragione» (M. Ormas, La libertà e le sue radici, cit., p. 245); un aspetto che offriva una valida base di riferimento comune a credenti e non credenti, come dimostrava il frequente richiamo ad Aristotele, a Cicerone e ai giuristi romani, al fine di una comprensione delle condizioni e delle regole di giustizia. La legge naturale forniva dunque una struttura morale all’interno della quale dovevano operare tutte le leggi umane, se si intendevano come “vere” leggi. Pertanto se una legge non fosse derivata dal diritto di natura non avrebbe avuto una forza vincolante e ad essa non si doveva obbedienza. Il diritto naturale era considerato intimamente giusto (intelligibile), ma allo stesso tempo imperativo, in quanto incarnava la volontà di Dio.

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istituirla o a prescriverla, ma ne è solamente interprete, «dal momento che la ragione, essendo

unicamente una facoltà dell’animo e una parte di noi, non può dare leggi a noi stessi»169. Chiarito

ciò, Locke aggiunge:

Dio infatti, autore di questa legge, ha voluto che essa costituisse la regola della nostra condotta morale e della nostra vita, e l’ha resa perciò sufficientememte di pubblico dominio, così che chiunque può apprenderla, purché abbia la volontà di applicarsi con diligente cura e di rivolgere la mente alla conoscenza di essa170.

Anche nel Saggio egli si esprime in termini analoghi, sostenendo che Dio aveva il diritto di dare

agli uomini una norma, una legge in base alla quale governarsi, poiché questi sono sue creature171 .

I gesuiti tomisti, pur richiamandosi al sistema gerarchico di leggi che per San Tommaso

governavano l’universo (lex aeterna172, lex naturalis173, lex humana174), adottavano circa la legge di

natura una posizione intermedia tra quella dei realisti e quella dei nominalisti. Essi collegavano

infatti «il diritto naturale alla volontà di Dio e quindi alle leggi divine ed eterne» 175. La legge di

natura incarnava la qualità di legge sia in quanto intellectus (intrinsecamente giusta e conforme

alla ragione), sia in quanto voluntas (è volontà di Dio): «Questi teorici aderiscono dunque ad una

posizione tomista intermedia, posta tra i realisti precedenti da una parte, per i quali la legge di

natura era legittima semplicemente perché era giusta, e i nominalisti successivi dall’altra, per i

quali era legittima semplicemente in quanto esprimeva la volontà di Dio»176.

Sulla legge naturale lockiana si consuma un’ulteriore frattura con i luterani, i quali si trovavano

nell’impossibilità di riconoscerla dal momento che consideravano l’uomo incapace di comprendere

la volontà di Dio e di vivere secondo una vera legge, a causa di una natura peccaminosa177. I

seguaci di Lutero non ritenevano che tutti gli uomini fossero sempre capaci, in egual misura, di

consultare e di seguire una legge “scolpita nei loro cuori”, e di conseguenza rifiutavano di ricorrere

al diritto naturale come criterio per giudicare o mettere in questione il comportamento di chi

deteneva l’autorità. Il sovrano, considerato inferiore solo a Dio, si trovava di conseguenza ad

esercitare un potere assoluto, come aveva mostrato il trattamento riservato a Thomas More e a

169 SLN, I, p. 5. Nella Ragionevolezza Locke ribadirà: «L’esperienza ci dimostra che la conoscenza della morale, con la sola luce naturale (per quanto possa apparire auspicabile una cosa del genere) si sviluppa e progredisce ben poco in questo mondo». RC, pp. 195-196; p. 153. 170 SLN, VI, p. 66. 171 Cfr. Saggio, II, XXVIII, 8. 172 Cfr. La Somma Teologica, I-II, q. 93, II, cit., pp. 718-726. 173 Cfr. La Somma Teologica, I-II, q. 94, II, cit., pp. 727-735. 174 Cfr. La Somma Teologica, I-II, qq. 95-97, II, cit., pp. 736-757. 175 Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 218. 176 Ibid. 177 Cfr. Y. Bizeul, Le droit naturel dans la tradition protestante, cit., in part. pp. 445-450.

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John Fisher, i quali si erano opposti alla volontà di Cromwell di giustificare i poteri della legge su

base totalmente positivista.

È degno di nota inoltre che, nel secondo dei due Tracts giovanili relativi alle questioni

indifferenti178, Locke abbia distinto quattro tipi di legislatore e di leggi secondo un ordine

gerarchico179. Al livello più elevato era posta la legge divina:

È quella che, data da Dio agli uomini, è per costoro regola e norma di vita; e poiché essa o diventa nota attraverso il lume della naturale della ragione insito nei mortali, oppure viene promulgata e manifestata da una rivelazione soprannaturale, ancora si divide in legge naturale e legge positiva180.

Entrambe venivano chiamate da Locke con il nome di “legge morale” con cui egli intendeva

«quella grande norma del retto e del giusto e fondamento eterno di ogni bontà e malvagità

morale»181. Al di sotto di questa egli poneva la legge umana, relativa alle cose indifferenti, «sancita

da qualcuno che detiene comando e diritto sugli altri»182. I legislatori umani agiscono in ogni caso

sotto la legge divina, allo scopo di darne applicazione. Ad un livello ancora inferiore Locke

collocava la legge fraterna (o legge di carità), propria del cristianesimo, in virtù della quale i

cristiani si astengono dal compiere determinati atti per non indurre altri in errore. Infine Locke

indicava una legge privata, «quella che l’uomo impone a se stesso e che, dopo aver imposta una

nuova obbligazione, rende necessarie le cose che erano ancora indifferenti e svincolate da leggi

precedenti»183.

178 Un primo di scritto in inglese è del 1660. In polemica con un saggio di Edward Bagshaw Jr. che si opponeva alla reintroduzione del cerimoniale anglicano, Locke sosteneva la legittimità dell’intervento del magistrato in materia di religione per rendere obbligatorie pratiche di culto in sé indifferenti, a scopo di uniformità: Question: whether the Civill Magistrate may lawfully impose and determine the use of indifferent things in reference to Religious Worship. Nel biennio 1660-62 Locke scrisse un secondo breve trattato, questa volta in latino, non rivolto a Bagshaw e privo di richiami polemici, sul medesimo tema: An magistratus civilis possit res adiaphoras in divini cultus ritus asciscere easque populo imponere? Affirmatur. I Two Tracts, mai pubblicati da Locke, sono comparsi a c. di C. A. Viano, in John Locke: Scritti editi e inediti sulla tolleranza, Taylor, Torino 1961; e poi, con alcune correzioni, a c. e con introduzione di Philip Abrams (Cambridge University Press, New York 1967). Si utilizza qui la traduzione italiana a c. di P. de Gennaro: Se il magistrato civile possa legalmente imporre e determinare l’uso di cose indifferenti in rapporto al culto religioso, in Due Trattati, pp. 418 – 476; Id., Se il magistrato civile possa accogliere cose indifferenti nei riti del culto divino e imporle al popolo. Si risponde affermativamente, in Due Trattati, pp. 477 – 501. Per una lettura critica dei Tracts si veda M. Merlo, La legge e la coscienza, cit., pp. 13-30. 179 Se il magistrato civile possa accogliere cose indifferenti nei riti del culto divino e imporle al popolo, cit, pp. 485-88. Sul punto cfr. anche P. Abrams, Introduction, John Locke: Two Tracts, cit., pp. 22-23. 180 Se il magistrato civile possa accogliere cose indifferenti nei riti del culto divino e imporle al popolo, cit, p. 485. 181 Ivi, p. 486. 182 Ibid. In un’annotazione del Journal del 21 aprile 1678, Locke scrive: «A civil law is nothing but the agreement of a society of men, either by themselves, or one or more authorized by them, determining the rights, and appointing reward and punishments, to certain actions of all within that society». Ms Locke f. 3, pp. 111-112; in D. Wootton, John Locke: Political Writings, cit. p. 236. 183 Se il magistrato civile possa accogliere cose indifferenti nei riti del culto divino e imporle al popolo, cit., p. 487.

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Nel Saggio Locke tornerà su una struttura normativa triadica, dopo aver definito il criterio

morale come «conformità o discordanza delle nostre azioni volontarie rispetto a qualche legge»184,

riferendosi alla legge di Dio, a quella delle società politiche e alla legge del costume come a norme

attraverso le quali gli uomini confrontano le loro azioni185.

A.2) Un altro aspetto da considerare, quanto al rapporto di Locke con la dottrina scolastica del

Cinquecento, riguarda la conoscenza della legge di natura. Egli concorda per un verso con

l’orientamento tomista nel sostenere che la legge naturale è accessibile a tutti gli uomini in quanto

creature razionali, indipendentemente quindi da una rivelazione186, ma per un altro se ne distacca

dal momento che egli non riteneva innata tale legge. Per il filosofo non si tratta di una

prescrizione della ragione, «in quanto la ragione, più che istruire e prescrivere questa legge di

natura, la ricerca e la ritrova, sancita da un potere superiore, insita nell’animo nostro, senza

esserne dunque autore, bensì interprete»187.

Nel capitolo terzo dei Saggi, dopo aver affermato l’esistenza di una legge di natura, ed averne

sostenuto la conoscenza attraverso il lume naturale, Locke passa ad investigare le origini di tale

conoscenza e a confutare la tesi di quanti ritengono la legge di natura iscritta nell’animo

dell’uomo188.

La facoltà alla quale Locke fa riferimento per l’accesso alla legge di natura, dopo aver respinto

l’iscrizione189, la tradizione190 e il consenso191, è la ragione; ma «la ragione, di cui qui parla Locke,

non è sostanzialmente diversa da quella “candle of the Lord” che il platonico di Cambridge

Nathanael Culverwell aveva riconosciuto come strumento idoneo al raggiungimento delle verità

etico-religiose»192.

Anche Yolton è d’accordo nell’osservare che per Locke è il lume della ragione a riconoscere

come veri i precetti a fondamento della morale. Questa è una sorta di massima generale che li

racchiude tutti, una sorta di elenco di precetti evidenti ad un essere razionale che trovano in Dio la

propria giustificazione, in quanto sono volontà di Dio:

184 Saggio, II, XXVIII, 5; p. 391. 185 Cfr. Saggio, II, XXVIII, 7 – 10. Sull’immutabilità della legge eterna si veda: Saggio, II, XXI, 57; p. 291. 186 «I tomisti avanzano un'altra rivendicazione in contrasto con la prima: poiché la legge di natura è anche giusta ragione, non abbiamo bisogno di possedere alcuna conoscenza della rivelazione o della legge divina positiva per essere in grado di comprendere e di seguire i suoi principi essenziali». Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 221. 187 SLN, I, p. 5. 188 Cfr. SLN, III, pp. 27 ss. 189 Cfr. SLN, II, p. 18. 190 Cfr. SLN, II, pp. 19 ss. 191 Cfr. SLN, V, pp. 45 ss. 192 M. Sina, Introduzione a Locke, cit., p. 15.

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Appare quindi chiaro, senza difficoltà, che Dio vuole che l’uomo faccia qualcosa: e questo era il secondo requisito necessario alla conoscenza di qualsiasi legge, cioè la volontà di un potere superiore circa le cose che noi dobbiamo fare: più esattamente, il fatto che la divinità voglia che noi facciamo qualcosa193.

Quanto a ciò che dobbiamo fare, Locke propone due criteri di deduzione che aderiscono ad una

struttura antropologica di derivazione creazionista e recuperano un finalismo di matrice tomista,

poiché

lo possiamo dedurre in parte dalla finalità di tutte le cose, le quali, in quanto traggono origine da un atto di condiscendenza della volontà divina e sono opera di un creatore sommamente perfetto e sapiente, non sembra che siano da lui destinate ad altro scopo che alla gloria di se stesso, a cui tutto deve essere riportato; in parte possiamo anche dedurre il fondamento e la regola stabilita del nostro dovere dalla costituzione dell’uomo stesso e da tutto il complesso delle facoltà umane194.

Nel quarto saggio il giovane Locke illustra la propria tesi: la conoscenza della legge di natura

proviene dall’esperienza sensibile e dalla ragione, senza dover invocare la rivelazione o ricorrere

ad una tradizione, poiché

Se queste facoltà si prestano aiuto a vicenda, se cioè il senso fornisce alla ragione le idee delle cose sensibili particolari e mette a sua disposizione la materia del discorso, e se la ragione a sua volta offre al senso una guida, ordina fra loro le immagini delle cose oggetto della percezione sensibile, altre ne forma successivamente, alcune ne produce di nuove, allora non vi è nulla di tanto oscuro, di tanto nascosto, di tanto lontano da ogni comprensione che la mente, capace di tutto con l’aiuto di queste facoltà, non possa arrivare a comprendere con la riflessione e con il raziocinio 195.

Come ha ben mostrato von Leyden, tale legge si chiama “naturale” dal momento che può essere

acquistata attraverso le naturali facoltà dell’uomo, quali la percezione sensibile e la ragione: in

quanto legge di ragione essa non obbliga infatti gli infanti, gli idioti e gli animali196.

A.3) Vi è poi un ultimo aspetto da considerare nel confronto tra Locke e i tomisti del

Cinquecento circa la legge di natura e riguarda la conformità ad essa delle leggi umane: le leggi

civili sono giuste nella misura in cui sono fondate sulla legge morale di natura197. Risiede qui «la

tesi lockiana della indiscutibile superiorità della legge naturale sulla legge positiva, la quale quindi

ha vigore, cioè è vera e propria legge, in quanto è fondata in ultima istanza sulla legge naturale»198.

193 SLN, IV, p. 43. Su Dio e la sua volontà come vero fondamento della morale si veda anche: Saggio, I, III, 6. 194 SLN, IV, pp. 43-44. 195 SLN, IV, p. 36. 196 Cfr. W. von Leyden, John Locke and Natural Law, cit., p. 7. 197 Cfr. W. Euchner, La filosofia politica di Locke, cit., pp. 231 – 234; W. von Leyden, Hobbes e Locke, cit., p. 146. 198 Cfr. G. Bedeschi, Locke e le origini del costituzionalismo, cit., p. 264.

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Tale conformità va considerata alla luce del presupposto teorico fondamentale della tradizione

giuridica, e politica, inglese, che tendeva a «non avvertire mai la possibilità di un contrasto fra il

diritto naturale e la common law, fra la perfezione di un diritto oggettivo, scritto nella natura, e

l’imperfezione di un diritto elaborato nel tempo dagli uomini»199; contrasto che veniva considerato

possibile solo con una statute law. Per quel che riguarda i pensatori tomisti,

tutti questi teorici insistono sul fatto che se le leggi positive create dagli uomini per se stessi debbono incarnare il carattere e l’autorità di vere leggi, devono essere sempre compatibili con i teoremi della giustizia naturale forniti dalla lex naturalis. Quest’ultima quindi mette a disposizione una struttura morale al cui interno devono operare tutte le leggi umane 200 .

Sulla medesima linea si muove Locke, che aveva dietro di sé la forza attribuita alla common law

dalla tradizione inglese, insieme al costante richiamo ad un’esperienza che si costruisce nel tempo

e collega tra loro le generazioni. Richiamo esposto con autorità da Richard Hooker201.

Secondo Locke «per tutta la vita di un uomo in società e sotto il governo politico, le obbligazioni

della legge di natura rimangono valide, e solo in quanto sono fondate su questa legge le leggi

municipali dei paesi sono leggi giuste»202. E ciò costituiva senz’altro anche il principale stumento

di limitazione per il potere politico, dal momento che «il governo è così limitato sia dalla legge

naturale sia dai diritti degli uomini»203. Come ha spiegato Merlo, «il potere politico legislativo

dichiara la legge di natura, ne è quasi il “guardiano notturno”»204.

Nel primo dei due Tracts giovanili sulle cose indifferenti, a Restaurazione appena avvenuta,

Locke aveva spiegato quale tipo di libertà in rapporto alle leggi auspicava per il suo Paese:

Tutta la libertà che posso augurare al mio paese e a me stesso è quella di godere della protezione di leggi stabilite dalla prudenza e dalla previdenza dei nostri antenati e restaurate dal felice ritorno di Sua Maestà: un corpo di leggi così ben composto che, questa nazione, finché accettava di sottoporvisi, sarebbe sempre stata sicura d’esser superiore ai suoi vicini […]205 .

199 N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà, cit., p. 65. 200 Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 218. 201 Alla fine del Cinquecento, scrive Matteucci, «Richard Hooker esprimeva con forza in The Laws of Ecclesiastical Polity la tesi tradizionale, basata sul fatto che la società è un prodotto storico, un organismo vivente, e, come tale, respinge volontà estranee, fondandosi, piuttosto, sulla consuetudine e sulla rappresentanza congiunte. In altri termini, la ragione ha sempre come misura la storia e non ne è la misura, deve sottostare all’evidenza della tradizione e dello sviluppo storico». Id., Organizzazione del potere e libertà, cit., pp. 65-66. 202 W. von Leyden, John Locke and Natural Law, cit., p. 6 (trad. mia). 203 Ibid. 204 M. Merlo, La legge e la coscienza, cit., p. 152 (corsivo nel testo). 205 Se il magistrato civile possa legalmente imporre e determnare l’uso di cose indifferenti in rapporto al culto religioso, cit., p. 422.

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E aveva delineato un’ontologia legalistica della morale, dove tutte le leggi derivano ultimamente

da Dio:

Nessuno ha un potere naturale originario né può disporre dell’umana libertà tranne Dio stesso, dalla cui autorità fondamentalmente tutte le leggi derivano la loro obbligatorietà, in quanto o sono direttamente ordinate da lui o sono stabilite da un’autorità che da lui deriva206 .

La moralità è espressione della volontà di Dio, l’uomo ne viene a conoscenza per mezzo della

ragione (qui, legge di natura207) e delle Scritture, e con ciò conosce il bene e il male. Ma non tutte

le azioni rientrano nel perimetro della legge morale, e «tutte le cose non comprese in quella legge

sono perfettamente indifferenti»208.

Quanto alla conformità della legge civile con quella di natura, si ricordi che per Locke la forza

obbligante della prima dipende dalla seconda, come si afferma chiaramente nei Saggi209. È

sufficiente inoltre un richiamo alla condizione originaria che egli definisce stato di natura, che si

esaminerà più avanti. Locke descrive le condizioni dell’uomo in una tale condizione originaria

come precarie e a volte penose. Una caratteristica importante dello stato di natura è che i diritti

fondamentali che l’uomo possiede in virtù della propria ragione e responsabilità210 - e della

capacità, razionalmente fondata, di perseguire la felicità211 - non sono sufficientemente protetti e

l’uomo di conseguenza non può essere pienamente tale: la sua vita è a rischio, la sua proprietà è

minima e così la sua sopravvivenza. Il suo benessere – o felicità - non è realizzabile212. Egli si trova

in uno stato di indigenza, di bisogno, di cattività213. L’ingresso nella società civile è il solo rimedio

per gli inconvenienti che si verificano214.

Ma sopra la società civile di Locke si trova Dio e una legge naturale che non si dissolve con

l’uscita dallo stato di natura e, per questo, fa da limite al potere sovrano costituito: «per via che è

razionale, l’uomo, secondo Locke, è eternamente soggetto alla legge naturale, che è essa stessa una

legge razionale, indipendentemente dal fatto che egli viva o meno in una società stabilita»215.

206 Ivi p. 425. 207 Ibid. 208 Ibid. 209 Cfr. SLN, VII, pp. 61-68. 210 Sulla responsabilità dell’io lockiano per le sue azioni e le loro conseguenze cfr. LL, p. 11. 211 Cfr. T2, 61. 212 Sul perseguimento della felicità per Locke come impulso fondamentale, a differenza della paura in Hobbes, cfr. LL, pp. 10-12. 213 Cfr. T2, 32; 37; 38, 40-43. 214 Cfr. anche Saggio, IV, III, 18. 215 W. von Leyden, John Locke and Natural Law, cit., p. 6 (trad. mia).

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Si danno dunque per il filosofo dei diritti naturali e inalienabili che hanno in Dio la propria

sorgente216, e come ultima risorsa anche un appello al cielo. L’obbedienza degli uomini non è

perciò incondizionata, come in Hobbes, ma condizionata al rispetto di questa legge di natura, e in

particolare del diritto alla vita e alla proprietà217.

Quel che Locke intendeva porre in risalto è che la legge vigente nello stato di natura non viene

affatto meno con l’ingresso nella società politica, e soprattutto che le leggi opera del legislatore non

devono entrare in contrasto con essa:

Le obbligazioni della legge di natura non cessano nella società, ma in molti casi diventano più coattive, e per mezzo delle leggi umane hanno connesse con sé penalità note a costringere ad osservarle. Così la legge di natura sussiste come una norma eterna per tutti gli uomini, sia per i legislatori che per gli altri. Le norme che i legislatori fanno per le azioni degli altri debbono, non meno che le loro proprie azioni e quelle degli altri, esser conformi alla legge di natura, cioè a dire alla volontà di Dio di cui quella è manifestazione […]218.

È la legge di natura che fornisce i precetti fondamentali per vivere insieme – non danneggiare vita,

salute, libertà, possessi altrui219 – e per questo non può né deve essere abbandonata con l’ingresso

nella società ma semmai riaffermata, promulgata. A tal proposito osserva D’Addio,

Il potere legislativo, per quanto debba essere considerato quale massima autorità nell’ambito della società politica, quale fonte di tutte le norme cui il cittadino è tenuto a prestare obbedienza, deve essere sottoposto, secondo Locke, ai limiti posti dalla legge di natura, che non si identifica, come sosteneva Hobbes con il diritto positivo dello Stato, ma sussiste come sistema di princìpi che disciplinano l’attività legislativa220.

Ciò significa che il governo è limitato dai precetti di questa legge, e dai diritti degli uomini che

Locke rintraccia in essa, e che vi sono dunque cose che il legislativo non può fare (ad esempio

privare qualcuno della sua vita o della sua proprietà). Come ha notato Tully, il legislatore esercita

la sua attività prudenziale nell’adattare le leggi alla legge di natura, considerata come modello e

come guida; ed è esattamente questa l’arte di governo221.

216 Come è scritto nell’Epistola de Tolerantia «et jura sibi a Deo et natura concessa». Cfr. Epistola de Tolerantia, in J. Locke, Sulla tolleranza e l’unità di Dio, ed. M. Montuori, cit., p. 310. 217 Tommaso d’Aquino considerava il diritto di proprietà parte della legge di natura. Al termine del Cinquecento si andava perfezionando tuttavia il concetto di ius gentium ad opera dei teorici gesuiti, visto come aspetto del diritto positivo. Una volta ammesso lo ius gentium, si poteva sostenere che il diritto di proprietà fosse istituito da una autorità non superiore a quella che istituiva le altre leggi, con l’importante conseguenza che i diritti proprietari avrebbero potuto essere alterati, o persino aboliti, senza che con questo fosse violata la giustizia naturale. Locke fornì la soluzione al problema, sostenendo che il diritto di proprietà era un diritto di natura e non un privilegio della legge positiva. 218 T2, 135; pp. 328-329. 219 Cfr. T2, 6 - 8; 128 e 172. 220 M. D’Addio, Storia delle dottrine politiche, cit., pp. 196-197. 221 Cfr. J. Tully, A Discourse on Property, cit., p. 166.

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È perché l’uomo, nello stato di natura, non ha un diritto arbitrario di distruggere se stesso o altri,

o di sottrarre la proprietà altrui, che tale potere non può essere concesso neppure nella società

civile. Il diritto naturale ha insomma nella teoria lockiana una forza propria e vincolante:

la legge positiva, per essere valida deve essere fondata su di esso. Questa è una concezione opposta a quella del positivismo giuridico, che ha proprio in Hobbes il suo massimo esponente, secondo la quale la legge è valida solo quando è efficace e cioè quando il sovrano, che la promulga, ha la capacità di farsi obbedire 222 .

Per Hobbes, infatti, «la legge naturale è eterna, divina e scritta soltanto nei cuori. Ma pochi sono

coloro che scrutano nei propri cuori e che sanno leggere ciò che c’è scritto. Quindi, quali cose

siano da fare e quali da evitare le apprendono dalle leggi scritte; e le fanno o evitano a seconda che,

in base alle punizioni che prevedono, sembri loro utile o dannoso»223. Diversamente, l’ imperatività

della legge di natura è un carattere essenziale per l’autore dei Due Trattati :

è perché egli crede che tale legge sia la legge dello stato di natura, e che questo stato non sia annullato quando viene rimpiazzato dalla vita dell’uomo in società, che per lui [Locke] la legge naturale rimane valida anche nella società civile e stabilisce limiti al governo politico224.

Nel Secondo Trattato tanto la libertà quanto l’uguaglianza presuppongono infatti la legge di natura.

E questa viene spiegata da Locke in ragione del proprio teismo razionalistico:

Legge di Dio e legge di natura s’identificano: coincidono entrambe nel concetto di legge di ragione. Infatti sia la rivelazione che la natura hanno per il Locke un carattere razionale: il Locke interpreta razionalmente la scrittura ed è convinto della razionalità dell’ordine naturale225.

Nello stato di natura gli uomini, trovandosi in uno stato di perfetta libertà ed uguaglianza, sono

esposti al rischio costante che le loro vite e i possessi vengano loro sottratti o danneggiati. Questo

non significa tuttavia che in tale condizione essi siano privi di una legge, poiché questa è la legge di

ragione,, la quale sarebbe perfettamente sufficiente a governarli se nell’uomo non vi fosse anche

depravazione. Come ha osservato Rawls,

La legge di natura basterebbe a governarci se non fosse per la corruzione e la depravazione di alcune persone degenerate. Non ci sarebbe alcun bisogno di dividerci in società civili dotate ciascuna di un’autorità politica distinta, e così di separare “questa grande comunità naturale” (T2, 128). […] Questo stato, sebbene sia uno stato di libertà, non è uno stato di licenza: è vincolato da una legge di natura e di ragione (T2, 6)226 .

222 N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà, cit., p. 98. 223 Leviatano, II - appendice al Leviatano, cit., p. 1193. 224 W. von Leyden, John Locke and Natural Law, cit., p. 6 (trad. mia). 225 L. Pareyson, Introduzione, Due Trattati, p. 32. 226 J. Rawls, Lezioni di storia della filosofia politica, cit., p. 122.

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Devono pertanto costituirsi società civili dotate di autorità politica, e gli uomini rinunciare ad

essere esecutori dei propri diritti naturali.

Alcuni passaggi della Ragionevolezza del cristianesimo, testo nel quale si enumerano i vantaggi

apportati dalla venuta di Cristo, illustrano il valore spirituale, morale e civile che Locke attribuiva

alla legge di ragione e consentono di comprendere il ruolo della virtù nella sua filosofia politica.

Egli spiega che nelle società pagane regnavano prima di Cristo idolatria e politeismo, non vi era

conoscenza del vero Dio e si era determinata una frattura tra religione e virtù. Le leggi civili erano

promulgate nell’interesse dei governanti e di coloro che volevano mantenere in soggezione i

sudditi. Anche i sacerdoti pagani usavano il proprio potere presso il popolo non per rendere culto a

Dio ma per limitare le capacità di indagine della ragione227.

Nel prendere in considerazione il ruolo della virtù nelle società precristiane e pagane, Locke

spiega che questa era competenza pressoché esclusiva delle scuole filosofiche, ma pochi le

frequentavano per essere edotti sui loro doveri. I sacerdoti invece proponevano cerimonie, riti

solenni e precetti: alla santità di vita e alla virtù si anteponeva an expiatory Sacrifice.

Tuttavia Locke osserva che la virtù era necessaria a tenere insieme e a conservare le comunità,

nonché a contribuire alla pace dei governi, ragione per la quale essa veniva insegnata dalle leggi

civili, le quali vincolavano gli uomini soggetti al potere dei governanti228.

Il punto rilevante è che tali leggi, in quanto opera di coloro che avevano come unico scopo la

conservazione del proprio potere, non andavano oltre quegli aspetti che consentivano di tenere gli

uomini in soggezione; o al massimo si limitavano a perseguire prosperità e benessere temporale229,

non avendo un fondamento stabile.

Con questo richiamo alle società pagane Locke pone due importanti questioni politiche: egli

vuole far comprendere quale sia il ruolo, e il fine, delle leggi nella società civile, e al contempo

porta l’attenzione sulla necessità di un fondamento che le oltrepassi, al quale la virtù non era

estranea.

Le società pagane costituivano il caso opposto. Tuttavia la legge di natura, in un contesto del

genere, non era del tutto ignota: era nota a coloro, una minoranza esigua, che attraverso l’esercizio

della propria ragione erano riusciti a scoprirla. La gran parte dell’umanità ne era all’oscuro, anche

perché per una ragione priva di assistenza era una scoperta assai ardua – e Locke era perfettamente

consapevole dei limiti di una ragione esposta alle passioni:

227 Cfr. RC pp. 194-95; p. 151. 228 Cfr. RC, p. 195; p. 151. Si veda anche Saggio I, III, 6, dove è affermata la relazione tra virtù e pubblica felicità. 229 Cfr. ibid.

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La maggior parte dell’umanità non ha né tempo per vagliare tali catene di ragionamento, né, per mancanza di

educazione ed abitudine, capacità di giudicarle230.

In un tale stato di oscurità e di ignoranza della legge di natura si inseriva il messaggio cristiano. Ad

avviso di Locke Cristo ha svelato in primo luogo la legge morale, fornendo anche alla ragione – con

una autorità indiscutibile - quegli elementi che le valgono come presupposti231. Essendo per la sola

ragione un compito troppo arduo quello di elaborare ogni aspetto della moralità, è via più sicura

per la maggior parte dell’umanità che qualcuno, inviato da Dio, proclami agli uomini i propri

doveri e ne richieda l’obbedienza232. Da questo punto di osservazione Cristo ha promosso

un’emancipazione morale, rivelando la legge che deve governare la condotta dell’uomo.

Gesù Cristo, nel Nuovo Testamento, ci ha dato proprio una tale legge morale, però per la seconda delle vie che abbiamo detto, attraverso la rivelazione. Abbiamo ricevuto da lui una regola completa e sufficiente a guidarci, e consona a quella della ragione233.

Congiunta alla legge morale si trovava nel messaggio di Cristo la rivelazione di una vita

ultraterrena, attraverso la proclamazione della risurrezione e di una felicità destinata a

ricompensare la pratica della virtù234.

Locke attribuisce a Cristo, in terzo luogo, la rivelazione del culto gradito a Dio, non più quello

cerimoniale delle società pagane ma quello della mente e del cuore. In tal senso Cristo ha

radicalmente rivoluzionato la vita spirituale degli uomini235. Secondo una tale lettura il

cristianesimo era non soltanto

l’evento centrale della storia soprannaturale dell’umanità, ma l’evento capitale della stessa storia terrena degli uomini. Cristo veniva sì a riscattare l’uomo dalla caduta di Adamo, ma veniva anche a portare una nuova civiltà, fondata sul diritto naturale, nella quale le leggi non sono soltanto strumenti di oppressione a favore dei governanti e la religione soltanto un insieme di pratiche superstiziose volte ad assicurare il potere ai sacerdoti236.

Il cristianesimo per Locke aveva stabilito insomma i presupposti di una nuova civiltà, le cui norme

avrebbero consentito una giusta convivenza tra gli uomini, e dove il culto religioso sarebbe stato

autentico e personale, non solo esteriore e monopolio di una casta sacerdotale. 230 RC, p. 195; p. 152. 231 Cfr. RC, pp. 195-98; pp. 153-156. 232 Ibid. 233 RC p. 198; p. 156. Cfr. anche Ethica 92, nel quale Locke dà un contenuto alla felicità che ricalca il precetto cristiano dell’amore al prossimo e della carità: Ms Locke c 42, pars II, p. 224, cit.; trad. it. Etica 92, SER, pp. 167-168. 234 Cfr. RC, pp. 203-204; pp. 105 - 107. 235 Cfr. RC, pp. 201-202; pp. 163 - 164. 236 C. A. Viano, John Locke: Dal razionalismo all’illuminismo, cit., pp. 382-83 (corsivo mio).

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La fede in Gesù Son of God era condizione necessaria per la salvezza, e dunque per

l’immortalità237, ma fatta eccezione per questo aspetto «il cristianesimo è la promulgazione della

legge naturale»238. Se prima della venuta di Cristo le acquisizioni dei filosofi che erano giunti alla

conoscenza della vera legge morale con la loro ragione non potevano avere la pretesa di diventare

norme universali, con la diffusione del cristianesimo esse diventavano, per così dire, patrimonio

comune, «sanzionate da un’autorità riconosciuta da tutti, espresse in un linguaggio

immediatamente intelligibile»239.

Nel quadro lockiano la ragionevolezza del cristianesimo era la forza storico-sociale capace di

promuovere un progresso civile e di porsi all’origine di una evoluzione dinamica dei rapporti

etico-giuridici umani; una volta resa manifesta la legge morale, anche le società civili non

poterono non adeguarvisi: «In questo senso il cristianesimo è una restaurazione della legge di

natura, in quanto riconosce e promuove il rispetto dei singoli, cioè la loro partecipazione alla

libertà»240.

Dalla lettura che Viano dà del cristianesimo lockiano, come di «una forza positiva di

liberazione»241 nella storia, si possono ricavare importanti implicazioni di filosofia politica, relative

alla dottrina delle libertà e dei diritti naturali; alla legge non come strumento di oppressione a

favore dei governanti ma per la conservazione del genere umano e il bene comune242; l’esigenza di

un governo limitato; il rifiuto della costrizione e il valore della persuasione razionale nelle

questioni di fede.

c) c) c) c) Lo stato di natura tra storia e moraleLo stato di natura tra storia e moraleLo stato di natura tra storia e moraleLo stato di natura tra storia e morale

Si è fatto cenno alla condizione originaria dell’uomo che Locke denomina stato di natura –

«Uomini che vivono insieme secondo ragione, senza un superiore comune sulla terra, che abbia

237 Ad avviso di Viano, Locke assume da Hobbes la tesi che la fede nell’unico articolo secondo cui Gesù è il Cristo inviato da Dio e annunciato nell’Antico Testamento, e l’obbedienza alle leggi naturali, sono le sole condizioni per entrare nel futuro regno di Dio. Anche se Locke interpretava la legge naturale in modo diverso da Hobbes. Cfr. ivi, p. 386. 238 Ivi, p. 384. 239 Ivi, p. 383. 240 Ivi, p. 384. 241 Ivi, p. 387. 242 Cfr. T2, 123-124; 131; 134-136. Si veda inoltre: LT, p. 168.

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autorità a giudicare tra di loro: questo è propriamente lo stato di natura»243 - e alla quale egli dedica

una riflessione nel Seconto Trattato244.

I pericoli maggiori, in questa condizione, possono derivare da uomini degenerati e ciò perché,

essendo tutti sovrani, «e non essendo, i più, stretti osservanti dell’equità e della giustizia», viene a

trovarsi «incerto e malsicuro» il godimento della proprietà245, che nella versione lockiana

comprende «vite, libertà e averi»246.

Vi sono alcuni studiosi che hanno letto tale stato – «la pietra angolare del pensiero politico

lockiano»247 - secondo una categoria di carattere storico, altri che invece l’hanno respinta,

intentendolo come una certa forma di rapporto umano e non esclusivo di una condizione

precedente all’avvento della società civile248. Wolfgang von Leyden ha chiarito che in svariati

luoghi Locke «considera lo stato di natura come una condizione presente e futura piuttosto che

riferita solamente al passato»249, e questo per il semplice fatto che la vera condizione degli uomini

per Locke è quella naturale, non quella civile.

Di rilievo è l’interpretazione di Richard Ashcraft, il quale proprio a partire dalla discussione dello

stato di natura ha provato ad illustrare l’approccio lockiano ai temi politici, seguendo per un verso

Laslett quanto alla lettura “storica” di Locke - inserito nel proprio contesto di uomo del XVII

secolo - e non considerando i Due Trattati come parola definitiva sulla legge di natura, la quale

viene compresa nella sua profondità solo alla luce della Ragionevolezza del cristianesimo250.

Ashcraft ha avuto il merito di superare la contrapposizione tra differenti interpretazioni dello

stato di natura lockiano e di far notare che la straordinaria forza della dottrina dei Due Trattati

risiede nella capacità di tenere insieme due istanze fondamentali del pensiero politico, quella etica

e quella prudenziale (o empirica)251. Secondo Ashcraft si dovrebbe parlare di doppia valenza dello

243 Cfr. T2, 19; pp. 241-242. 244 Cfr. T2, 4-15. 245 T2, 123; p. 318. 246 Ibid. 247 R. Ashcraft, Locke’s State of Nature: Historical Fact or Moral Fiction?, cit., p. 915 (trad. mia). 248 Sullo stato di natura lockiano si vedano: LL, p. 7; M. Seliger, The Liberal Politics of John Locke, cit., pp. 83-91; W. von Leyden, Hobbes e Locke, cit., p. 145 ss.; R. Goldwin, Locke’s State of Nature in Political Society, in «Western political Quarterly», 29 (1976), pp. 126-35; R. Goldwin, John Locke, in L. Strauss, J. Cropsey (eds.), Storia della filosofia politica, cit., pp. 247-293; R. Nozick, Anarchy, State, and Utopia, Basil Blackwell, Oxford 1974, in part. pp. 10-25, 137-138, 287-292; P. Pasquino, I limiti della politica, cit., in part. pp. 373- 380; J. Waldron, John Locke: Social Contract versus Political Anthropology, in “Review of Politics”, 51 (1989), pp. 3-28; A. Cavarero, La teoria contrattualistica nei “Trattati sul Governo” di Locke, in G. Duso (a c. di), Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, FrancoAngeli, Milano 1993, pp. 149- 190, in part. 154-160. Più recentemente ne ha scritto anche G. Forster, John Locke’s Politics of Moral Consensus, cit., pp. 239-245. 249 W. von Leyden, Hobbes e Locke, cit., p. 146. 250 Cfr. R. Ashcraft, Faith and Knowledge in Locke’s Philosophy, cit., pp. 118 ss. 251 Cfr. R. Ashcraft, Locke’s State of Nature: Historical Fact or Moral Fiction?, cit., pp. 898-915. Cfr. anche J. Tully, A Discourse On Property: John Locke and his Adversaries, cit., p. 28.

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stato di natura lockiano, dal momento che il filosofo l’avrebbe pensato tanto come descrizione

storica, riferendosi ad un’evoluzione della forma di governo in relazione alle fasi di sviluppo della

proprietà nella società umana, quanto come descrizione di una condizione morale dell’esistenza

umana252.

Il presupposto dal quale Ashcraft muove è la funzione della teoria politica: per Locke, questa

aveva tanto il compito di spiegare l’origine di una società politica e l’estensione del potere, quanto

di chiarire il fine del governo civile e l’arte di governare gli uomini in società. Il conseguimento di

tale obiettivi comportava un’indagine estesa alla natura della società civile che finiva per cadere

nel perimetro della filosofia morale, quando cercava di indagare i diritti naturali degli uomini e i

relativi doveri. Per Locke anche la prudenza faceva parte di questo studio sulle origini del governo,

intendendo con questo termine l’arte di governare all’interno di una certa comunità politica253.

Insomma, la grande domanda che Locke stava ponendo nei Due Trattati «non è se esista un

potere, né donde esso provenga, ma chi debba averlo»254.

Locke, secondo Ashcraft, adotta un approccio genetico alla politica: la sua teoria si sviluppa come

teoria delle origini255. E un esame delle origini del governo può essere certamente di carattere

storico, ma alla fine si rivela non adeguato allo scopo, dal momento che la storia registra diverse

origini per i governi. O quanto meno esso si rivela adeguato soltanto per coloro che hanno già

chiari i princìpi della moralità e sono perciò in grado di formulare un giudizio sulle azioni umane.

In tal senso diventava necessario nel quadro lockiano un ricorso alla legge di natura o alla legge

divina rivelata256.

Dopo aver mostrato nel Primo Trattato che assumere la Bibbia come documento storico

sull’origine del governo non offriva affatto supporto alle tesi di Filmer, Locke avrebbe

successivamente spostato la base del proprio discorso, non insistendo più nel fornire una

descrizione storica delle società politiche ma appellandosi a quella finzione morale denominata

stato di natura, aprendo il Secondo Trattato con una sua definizione etica e legalistica.

252 Ashcraft attraverso un esame dettagliato del Secondo Trattato osserva che i suoi primi quattro capitoli tracciano la cornice morale per la discussione sul governo, il quinto (Della proprietà) è invece impostato storicamente, il sesto (Del potere paterno) unisce argomenti di tipo storico e altri di tipo morale, il settimo (Della società politica o civile) ritorna sul piano dell’etica fornendo i criteri per distinguere le diverse forme di governo. A partire poi dalla sezione n.100 del capitolo ottavo (Dell’origine delle società politiche) Locke torna ad un esame storico delle origini del governo. Cfr. R. Ashcraft, Locke’s State of Nature: Historical Fact or Moral Fiction?, cit., p. 912, n. 96. Sul doppio significato dello stato di natura lockiano si veda inoltre H. Aarsleff, The State of Nature and the Nature of Man in Locke, cit., pp. 99-101. 253 Cfr. R. Ashcraft, Locke’s State of Nature, cit., pp. 898-99. 254 T1, 106; p. 174. 255 Cfr. R. Ashcraft, Locke’s State of Nature, cit., p. 899. 256 Cfr. T1, 124.

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Ashacraft si mostra critico verso le posizioni di Strauss o di Cox257, e considera in prima istanza

l’uscita dallo stato di natura, che per Locke si realizza attraverso un accordo/patto per stabilire un

giudice imparziale258. Ashcraft rileva che la situazione di miseria, caos e anomia che Cox

attribuisce allo stato di natura lockiano – descritto come condizione nella quale la pace è

un’eccezione, e sovrapposto sostanzialmente a quello di Hobbes - è distante dall’idea di Locke, il

quale si limita a parlare di anarchia intesa come assenza o dissoluzione di governo, di una

condizione cioè in cui è assente un superiore comune sulla terra259. Questa è senz’altro una

situazione in comune tra stato di natura e stato di guerra, ma a giudizio di Locke non era

sufficiente a sovrapporli260.

Il problema fondamentale dello stato di natura indicato da Locke non è tanto l’impossibilità di

una convivenza tra gli uomini, quanto il fatto che in tale condizione ciascuno si trova giudice della

propria causa, ed essendo gli uomini soggetti alle passioni esso può tramutarsi in uno stato di

guerra. Anche se vi è una legge di ragione, vi sono anche ignoranza (di tale legge), passioni e

interessi. Lo stato di natura tende quindi a degenerare in uno stato di guerra, con il rischio di

infrazione del principio di conservazione.

257 Cox ritiene che la questione centrale per Locke sia il potere dell’uomo sulla natura. L’interpretazione della legge di natura e della società politica lockiana si concentra, nel suo studio, sulla concezione lockiana delle relazioni internazionali, sebbene su tale aspetto compaia nel Secondo Trattato solo un breve riferimento al cap. XVI. Particolare attenzione viene dedicata da Cox, allievo di Leo Strauss e lettore attento di Natural Right and History, alla concezione lockiana della legge di natura e della condizione naturale dell’uomo. Cox tenta di comprendere in quale relazione si trovi la filosofia di Locke - quando concepisce le relazioni internazionali come uno stato di natura - con il pensiero moderno. A tal fine lo studioso ricorda la contrapposizione “generalmente accettata” tra Locke, per il quale la pace sarebbe immanente e naturale, e Hobbes, che la avrebbe ritenuta invece per certi aspetti “contro natura”, riconducibile ad una differenza tra le loro rispettive idee di stato di natura. Tale distanza emerge ad esempio dal confronto tra due sezioni del Secondo Trattato (T2, 6 e 19) che fanno riferimento direttamente ad esso e alcuni passi del Leviatano, opera nel quale lo stato di natura è descritto come una condizione di guerra. Attraverso l’esame del Primo Trattato, e di altri manoscritti di Locke, Cox cerca di mostrare che la concezione lockiana dello stato di natura - al di là di un’apparenza che il filosofo stesso avrebbe voluto dare - era invece “fondamentalmente” hobbesiana e che lo stesso mercantilismo del filosofo nascondesse una priorità attribuita all’autoconservazione. Locke sarebbe stato in grado, secondo Cox, di seguire apparentemente la legge naturale tradizionale, come formulata da Hooker, ma di aderire in realtà ad una concezione moderna e assai più radicale di questa, molto vicina a quella di Hobbes. Riferimenti a Hooker come alla Bibbia sarebbero stati quindi solo specchietti per le allodole. Hobbes, d’altra parte, era ripetutamente sotto attacco per il suo rifiuto di fondare il vero ordine morale su una legge immutabile che aveva il suo ultimo fondamento nella legge di Dio, e di centrarlo invece su una filosofia materialista che negava la trascendenza di una dimensione spirituale. Cox trova conferma inoltre dell’eccessiva prudenza di Locke, e del contrasto tra quanto egli affermava pubblicamente e quanto invece rivelato dai suoi scritti privati, nell’esposizione delle sue dottrine propriamente teologiche: il filosofo non negò mai in maniera esplicita il dogma della Trinità, senza tuttavia dichiarare in modo altrettanto esplicito di credere in essa, e si sforzò di apparire su tali questioni perfettamente ortodosso. I riferimenti a Hooker, come anche alla Bibbia, avrebbero pertanto celato secondo la comprensione di Cox una filosofia radicale ben lontana da quella tradizionale. Cfr. R. H. Cox, Locke on war and peace, cit., in part. pp. xv-xx; 1 – 105. 258 Cfr. T2, 89, 125, 131. 259 Cfr. T2, 198, 203, 219. 260 Cfr. LL, p. 5. Su uno stato di natura lockiano differente dallo stato di guerra, che tende però a diventarlo, cfr. anche P. Manent, Storia intellettuale del liberalismo, cit., in part. p. 124.

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Ciò che caratterizza la condizione naturale dell’uomo per Locke è semplicemente una pace

incerta, ma stato di natura e stato di guerra non coincidono261. Egli dedica infatti ad essi due

capitoli distinti del Secondo Trattato, rispettivamente il secondo e il terzo. Sussiste, per il filosofo,

una

differenza fra lo stato di natura e lo stato di guerra, i quali, per quanto taluni li abbiano confusi, sono così distanti come lo sono fra loro uno stato di pace, benevolenza, assistenza e conservazione reciproca e uno stato di ostilità, malvagità, violenza e reciproca distruzione 262.

Caratteristica peculiare dello stato di natura è una vita in comune secondo ragione in assenza di un

superiore comune sulla terra che abbia autorità a giudicare tra gli uomini263, mentre si ha uno stato

di guerra nel caso di «forza, o un’intenzione dichiarata di forza sulla persona di un altro», in

assenza di un superiore comune cui appellarsi264: gli uomini seguono la regola della forza, mossi

dalla volontà di usare violenza all’altro e da ostilità – non sforzandosi di vivere secondo ragione265.

E nel caso di una aggressione sussiste un “diritto di guerra” contro l’ aggressore.

La mancanza di un giudice comune fornito di autorità pone tutti gli uomini in stato di natura: la forza esercitata senza diritto sulla persona di un uomo introduce lo stato di guerra, vi sia o meno un giudice comune266.

Come ha spiegato anche Zuckert, lo stato di natura non è altro che la condizione morale (o

descrizione morale) dello stato in cui Dio e la natura “gettano” l’uomo, in assenza cioè di un

superiore comune sulla terra267.

È interessante notare che Zuckert osserva il modo in cui Locke arriva a pensare uno stato di

natura diversamente da Hobbes: esso non è infatti una conseguenza delle passioni degli uomini, ma

dei loro diritti naturali. Gli uomini – considerati o come proprietà di Dio o in quanto proprietari di

se stessi – possiedono, in modo esclusivo, le proprie persone e azioni. Inoltre l’individuo lockiano

non ha un naturale “diritto a tutto” come in Hobbes268, e di conseguenza il potere politico non

sorge da una rinuncia a questo diritto illimitato e dalla sua consegna nelle mani del sovrano. Ne

segue che gli uomini da liberi ed eguali sono anche moralmente liberi, e nessuno ha diritto di

261 Cfr. anche R. Goldwin: John Locke, in L.Strauss, J. Cropsey, Storia della filosofia politica, cit., pp. 249-54. 262 T2, 19 ; p. 241. 263 Cfr. T2, 19. 264 Ibid. 265 Cfr. T1, 131. 266 T2, 19; p . 242. 267 Cfr. LL, p. 7. 268 Per natura «ogni uomo ha diritto ad ogni cosa, perfino al corpo di un altro», se lo ritiene necessario alla propria sopravvivenza. Cfr. Leviatano, [I, XIV, 4] ed. cit., pp. 215.

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comandare o di usare la forza contro un altro, a meno che Dio non abbia concesso i suoi “diritti

proprietari” a qualcuno. Della qual cosa Locke non trova riscontro né per via razionale né dalla

rivelazione. Gli uomini pertanto si trovano moralmente in uno stato di natura, cioè in una

condizione di uguaglianza rispetto all’autorità, e rinunciano solo a quella parte di diritti

indispensabile al conseguimento dei beni nella vita civile e per assicurare la protezione di quelli

fondamentali269. Locke, insomma, ci consegna «un’analisi dell’essere umano come libero,

responsabile e razionale, laddove Hobbes grossomodo negava tutti e tre i caratteri»270.

La legge di natura, che continua ad avere validità nella società civile, ha a proprio fondamento la

pace, la benevolenza, la mutua assistenza, l’autoconservazione; lo stato di guerra invece

l’inimicizia, la violenza e la reciproca distruzione. Allo scopo di scongiurare tale stato si rende

necessaria una autorità, un’uscita dallo stato di natura attraverso l’ingresso in una società civile,

dove è stabilito un giudice comune. L’autorità esclude infatti «la permanenza dello stato di guerra,

e la controversia è decisa da questo potere»271.

Locke afferma inoltre che, indipendentemente dalle modalità con le quali si costituirono

effettivamente le società politiche e il governo venne posto nelle mani di uno solo, «è certo ch’esso

non fu affidato se non per il pubblico bene e la pubblica sicurezza, ed è per questi scopi che

nell’infanzia delle società politiche generalmente se ne servirono coloro che lo possedevano»272.

La centralità della conservazione è un aspetto decisivo per la comprensione della filosofia

lockiana:

È dunque il principio di conservazione che regge lo stato di natura, governa lo stato civile e risolve lo stato di guerra, che dà origine alla società naturale e motiva il passaggio alla società politica, che instaura e istituisce il potere e lo rovescia con la rivoluzione, che conferisce a ciascun individuo il potere esecutivo della legge di natura e rimette nelle mani d’un potere superiore l’esecuzione della legge civile, che, insomma, dà ragione di tutti gli aspetti del divenire logico della società e dello stato273.

Secondo Ashcraft, quando Locke parla dello stato di natura non ignora affatto la violenza e il

conflitto tra gli uomini274, e non intende descrivere uno stato idilliaco di pace e di sicurezza, ma si

limita a delineare quale deve essere lo scopo della legge di natura275. La sola condizione morale

269 Su questa lettura cfr. LL, pp. 6-8. 270 LL, p. 9 (trad. mia). 271 T2, 21; p. 243. 272 T2, 110; p. 310. 273 L. Pareyson, Introduzione, Due Trattati, p. 39. 274 Cfr. T2, 6-13 . 275 Cfr. R. Ashcraft, Locke’s State of Nature, cit., pp. 906-907.

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accettabile, per Locke, è quella di uno stato di natura governato dalla legge di natura,

indipendentemente dal fatto che l’uomo aderisca perfettamente ad essa o meno.

Per Ashcraft si vede allora come la legge di natura, cioè l’elemento morale, sia congiunto a quello

politico, poiché è proprio la norma tra uomo e uomo276 a rivestire un insostituibile ruolo

aggregante: in virtù di essa – la quale è comune a tutti – il genere umano forma una comunità277.

Ad avviso di Ashcraft Locke era assai più raffinato della maggioranza dei suoi interpreti: egli

riconosceva che in un stato di natura ideale gli uomini sarebbero stati delle divinità, ma sapeva

anche che avessero abbandonato la legge di natura non sarebbero stati altro che bestie. Il suo

obiettivo era perciò quello di mostrare che era possibile vivere secondo la legge di natura, e, in

virtù di ciò, che gli uomini sono agenti morali liberi e responsabili.

Ma l’impossibilità di accostare Locke a Hobbes, e i rispettivi stati di natura, risiede secondo

Ashcraft anche in un argomento di carattere teologico. Mentre Hobbes considerava la validità

della legge di natura solo in una società civile, cioè sotto un governo, poiché giudicava incapaci gli

uomini di potervi aderire fuori di esso278, Locke avrebbe continuato ad avere fiducia nella capacità

degli uomini di poter seguire la legge di natura – o, se si preferisce, di obbedire alla volontà di Dio

- anche al di fuori di una società civile, o di una organizzazione politica, in quanto li riteneva

agenti morali279. E una tale capacità sarebbe stata inevitabilmente negata da una identificazione tra

stato di guerra e stato di natura, che infatti Locke si guardò dal compiere280.

Nello stato di natura si può verificare il caos di un’aggressione e l’uso conseguente della forza per

autodifesa, ma la maggior parte degli uomini, essendo in grado di seguire la legge di natura, è

capace di contenere le proprie azioni nei limiti. Alla forza delle passioni Locke contrapponeva la

capacità (pur non perfetta) dell’uomo di vivere secondo ragione. L’umanità stessa viene collocata

in un ambiente che è in definitiva espressione di una volontà creatrice buona, e pertanto armonico

e pacifico esso stesso: «Lo stato di natura lockiano è uno nel quale gli uomini possono, e a volte no,

vivere secondo le regole della comune equità»281.

276 Cfr. T2, 172 . 277 Cfr. T2, 128 . 278 Sul teismo di Hobbes e l’osservanza della legge naturale, cfr. W. von Leyden, Hobbes e Locke, cit., pp. 107-113. 279 Nel citato manoscritto Of Etick in General Locke scrive che «le azioni morali sono soltanto quelle che dipendono dalla scelta di un agente intelligente e libero». Etica in generale, SER, p. 162. 280 Cfr. R. Ashcraft, Locke’s State of Nature, cit., p. 902. 281 Ivi, p. 907 (trad. mia).

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300

Tale questione conduce direttamente, secondo Ashcraft, all’Autore della legge di natura282.

Hobbes, nel negare qualsiasi conoscenza dell’identità morale divina, rendeva sufficiente per la

validità della legge di natura un potere divino assoluto. Locke rifiuta questa idea e difende un Dio

che è al contempo buono e ragionevole, il quale non potrebbe aver dato agli uomini delle regole

impossibili da seguire in condizioni naturali283. Lo stato di natura era per Locke una condizione

indefinita, aperta: abbandonati alla legge naturale, contrariamente a quanto Hobbes riteneva, gli

uomini non sarebbero automaticamente piombati in uno stato di guerra284. Questa era certamente

una possibilità, ma non l’esito inevitabile: che tra gli uomini debba naturalmente sussistere uno

stato di guerra, o di inimicizia, Locke non lo concede285.

Ashcraft legge in questa posizione anche il rifiuto lockiano della negazione hobbesiana della

libera volontà, ovvero del suo determinismo286, e in definitiva di un universo concepito in termini

meccanicistici: anche Hobbes aveva ammesso una perfetta libertà nello stato di natura, ma non una

libertà intesa come libero volere, e Locke nel difendere da Filmer la liberà naturale (una libertà

molto più vicina alla tradizione aristotelico-cristiana, che implicava responsabilità) doveva

elaborare una posizione alternativa ad entrambi. Per questo motivo la concezione di libertà, come

Locke la intende, è inseparabile dalla legge di natura e da un certo evidente razionalismo: è libero

colui che non dipende dalla volontà di alcuno ma che ha come propria norma la legge di natura, o

di ragione; non è libero colui che fa quel che gli aggrada lasciandosi determinare dalle passioni287.

La ragione hobbesiana era invece una ragione tutta strumentale, che lasciava ampio margine a

queste ultime, e a quella più di tutte considerata in grado di agire sull’uomo: la paura288.

Locke riconosce tuttavia che la legge di natura poteva essere abbandonata e questo poneva colui

che la ripudiava in uno stato di guerra con gli altri:

Allora infatti, egli, avendo abbandonato la ragione, che Dio ha dato onde costituisca la norma fra uomo e uomo, e il vincolo comune con cui il genere umano è unito in una sola comunità e società, […] si espone ad esser distrutto dalla persona offesa, e dagli altri uomini che le si uniranno nell’esecuzione della giustizia, come un qualsiasi altro animale feroce o dannoso essere irragionevole, con cui gli uomini non potrebbero avere né società né garanzia 289.

282 Anche secondo Zuckert, Locke differisce da Hobbes su molte questioni tra cui quella religiosa, essendo positivamente orientato ad essa a differenza del secondo, che associava la religione alla superstizione e al timore di forze invisibili (cfr. Leviatano, VI, 36, ed. cit., p. 95). Cfr. LL, p. 15. 283 Cfr. The Idea We Have of God - Ms Locke f. 4, pp. 145-151, in D. Wootton, John Locke: Political Writings, cit., pp. 237-238. 284 Cfr. R. Ashcraft, Locke’s State of Nature, cit., pp. 902-903. 285 Sulla differenza tra stato di natura di Hobbes e stato di natura di Locke cfr. anche N. Bobbio, Studi lockiani, cit., pp. 103-104. 286 Su questo concorda anche Zuckert cfr. LL, pp. 9-11. 287 Cfr. T2, 22. Si veda anche T2, 6; Saggio, IV, III, 18. 288 Cfr. LL, p. 10. 289 T2, 172; p. 359.

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Merito di Ashcraft è stato quello di aver messo a tema la profonda integrazione tra antropologia,

etica e politica nella definizione lockiana di stato di natura. L’uomo di Locke è in grado di stipulare

o di rompere accordi, e la stessa natura umana era per lui in uno stato di medietà, sospesa tra bene

e male, come incapacità tanto di vivere in adesione perfetta ad una norma quanto di farne

completamente a meno290.

Ashcraft sottolinea inoltre che la distanza tra i due stati di natura, hobbesiano e lockiano, non

poteva che avere risonanze anche di natura morale: in uno stato in cui è naturale essere in guerra

gli uni con gli altri291, non può trovarsi distinzione tra un uso legittimo e illegittimo della forza, né

appello alla coscienza o al giudizio personali, né separazione tra “innocente” e “aggressore”;

situazioni invece tutte chiaramente distinte da Locke292.

Si consideri in conclusione che Ashcraft, nel sostenere la tesi di uno stato di natura lockiano

comprensibile attraverso categorie di natura morale, ricorre, per individuare la distinzione tra

questo stato e lo stato di guerra, al secondo libro del Saggio, nel quale è spiegato che il giudizio

morale poggia su un accordo o un disaccordo delle nostre azioni volontarie a qualche legge293.

Risulta dunque fondamentale stabilire in che cosa consista la vera legge della moralità: per Locke

essa si identifica con la legge di natura prescritta alle sue creature da Dio, e lo stato di natura è

realmente governato da essa. Lo stato di guerra è governato invece dalla forza che gli uomini

decidono di adottare come regola delle loro azioni.

Quanto alla concezione storica dello stato di natura, Ashcraft fa notare come in Locke sia

associata ad uno sviluppo di carattere economico, avendo egli diviso sostanzialmente in due i

periodi di evoluzione dell’umanità. Nelle «prime età del mondo» i possessi degli uomini non erano

290 Si tratta di un appunto presente nel Journal, forse la bozza della lettera a Denis Grenville datata 13/23 marzo 1678, con una intestazione a margine: Scrupulosity [20 marzo 1678] - MS f. 3, pp. 69-79; ed. in H.R. Fox Bourne, The Life of John Locke, cit., I, pp. 390-393. Si veda inoltre Corr., n. 374, I, pp. 555-560. Questa riflessione è parzialmente cit. da R. Ashcraft, Locke’s State of Nature, cit., p. 907. Dunn fa notare che per Locke «alcuni uomini erano più peccatori degli altri, più lenti nella ricerca dell’identificazione dei loro obblighi morali e più pronti nell’essere allettati dalle loro passioni corrotte. Locke accetta quindi la realtà di una razionalità differenziale. Ma non si tratta di una differenza di classe o puramente intellettuale, ma piuttosto di una differenza morale». PPL, p. 229. 291 Per Hobbes la condizione umana è una condizione di guerra di ogni uomo contro tutti gli altri (cfr. Leviatano, I, XIV, 4, cit., p. 213) e in tale condizione «ogni uomo ha diritto ad ogni cosa, perfino al corpo di un altro» (cfr. Leviatano, I, XIV, 4, cit., p. 215). Un aspetto, quest’ultimo, che Locke nega quando afferma la proprietà di se stessi, cfr. T2, 27. 292 Come ha osservato Zuckert, Locke sa e può riconoscere la giustizia naturale e l’ingiustizia: la violazione del diritto (o proprietà) di un altro è ingiusta. Per Hobbes è impossibile dichiarare che qualcosa è ingiusto prima che il sovrano lo abbia stabilito. Zuckert, pertanto, ritiene che Locke sia molto più vicino di Hobbes alle tesi tradizionali di natura e giustizia, proprie ad esempio di Hooker. Cfr. LL, p. 4. 293 Saggio, II, XXVIII, 8. Anche Hans Aarsleff per la comprensione dello stato di natura lockiano, e delle apparenti incoerenze del suo pensiero, rinvia al Saggio. Inoltre lo studioso distingue due stati di natura: uno stato puramente astratto preso da Locke come guida e modello, e uno stato di natura che invece identifica con il comportamento degli uomini nei loro rapporti reciproci. Cfr. Id., The State of Nature and the Nature of Man in Locke, cit., pp. 101-102; p. 131.

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molto ampi e non vi erano molte possibilità di violare i diritti proprietari altrui, dal momento che

tutto ciò che si coltivava, raccoglieva e usava, prima che andasse perduto, era particolare diritto di

qualcuno294, cosicché era più che sufficiente una forma di governo con poche leggi: «Così al

principio tutto il mondo era come l’America, e forse più di quanto questa non lo sia ora, perché in

nessun luogo si conosceva qualcosa di simile al denaro»295.

Nelle età successive la «mala concupiscenza» che corruppe gli uomini, inducendoli «in una falsa

concezione del vero potere e del vero onore»296, unita ad ambizione e lussuria, determinò un

cambiamento297. L’introduzione della moneta come bene universale di scambio complicò le

transazioni tra gli uomini, favorendo controversie che dovevano essere risolte per mezzo di leggi e

di un giudice comune.

Secondo Ashcraft, che giudica evidente come la creazione della società politica sia in Locke una

risposta alle nuove esigenze economiche di uomini che vivono una seconda fase della monarchia, è

precisamente a questo punto che il discorso lockiano scivola dal piano della descrizione storica al

piano della prescrizione morale: «con la crescita della ricchezza materiale, emerge lo Stato

lockiano, con la sua divisione del potere politico, i suoi giudici imparziali e una molteplicità di

leggi»298. Uno Stato disegnato insomma per assicurare protezione e stimolo all’industriosità onesta

degli uomini.

d) d) d) d) Autoconservazione e proprietà: comandi diviniAutoconservazione e proprietà: comandi diviniAutoconservazione e proprietà: comandi diviniAutoconservazione e proprietà: comandi divini

L’affermazione di una creazione da parte di Dio, come si visto, risulta essenziale per la difesa

dell’uguaglianza degli uomini. Ma comporta anche la dichiarazione di doveri in capo ad essi299.

Locke afferma che «il saggio e infinito Creatore di tutti noi, e di tutte le cose intorno a noi, ha

adattato i nostri sensi, facoltà e organi alle esigenze della vita, e ai compiti cui dobbiamo assolvere

quaggiù»300 e che «siamo provvisti di facoltà […] sufficienti a scoprire nelle creature quanto basta a

294 Cfr. T2, 36-38 e 106-107. 295 T2, 49; p. 263. 296 T2, 111; p. 310. 297 Locke riprendeva questo modello di evoluzione storica direttamente da Hooker, il quale nella Politica ecclesiastica ( I, 10) aveva distinto un’età primitiva, in cui si viveva secondo la volontà di un solo uomo, e quella nella quale vennero istituite leggi per conoscere i propri doveri e sanzioni per i trasgressori. 298 R. Ashcraft, Locke’s State of Nature, cit., p. 911 (trad. mia). 299 «Per lontani che essi siano da una conoscenza universale o da una comprensione perfetta di tutto ciò che esiste, i lumi di cui dispongono bastano loro a distinguere ciò che è per loro di assoluta importanza sapere: poiché, grazie a questi lumi, possono pervenire alla conoscenza di Colui che li ha fatti, e alla comprensione dei loro doveri». Saggio, I, I, 5; p. 24. 300 Saggio, II, XXIII, 12; p. 332 (corsivo mio).

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condurci alla conoscenza del Creatore, e alla conoscenza dei nostri doveri» 301. Vi sono dunque per

Locke dei compiti che l’uomo deve assolvere.

La dottrina dei doveri, nella filosofia politica lockiana, è controversa. Non manca infatti chi vede

una discontinuità tra il filosofo inglese e la Scuola di Salamanca, addebitando tuttavia a questa la

responsabilità di aver posto «le premesse per una rottura della relazione fra Legge naturale di

ascendenza stoico-tomistica e diritti naturali. Da tale rottura nascerebbe la filosofia politica

liberale dei diritti dell’uomo che, alla legge naturale intesa come fondata sulla “natura umana”

definita dalla Rivelazione, contrappone i diritti individuali intesi come “pretese”»302. Sotto accusa,

in questo caso, è la distinzione che Hobbes nel Leviatano elabora tra ius e lex303: comincerebbe qui

la divaricazione tra la dottrina tomista della lex naturalis e quella dello ius naturale, che si sarebbe

poi tradotto nei natural rights della tradizione liberale.

In questa sede appare tuttavia necessario superare tale lettura. Come ha fatto notare Michael

Zuckert, affermando che ciascuno ha la proprietà della propria persona Locke contraddice in modo

aperto le affermazioni di Hobbes sui diritti, e marca la differenza tra la propria nozione di diritto

naturale e quella hobbesiana: i diritti che gli uomini hanno per natura non sono pure libertà, come

Hobbes prendetendeva, ma entità morali di quel genere che implica limiti e obbligazioni304. Per

Hobbes non si dava invece l’altro lato, ma tutti hanno un diritto a tutto, inclusa la persona

dell’altro. Condizione che li poneva di conseguenza in stato di conflitto permanente.

Leo Strauss, nel suo noto saggio sul diritto naturale, ha messo in evidenza quella che considerava

invece una continuità tra Hobbes e Locke, tornandovi successivamente305. Strauss ha visto in Locke

“il più influente” dei maestri moderni del diritto naturale, e precisamente un individualista

difensore dei diritti naturali ma non dei doveri306. Nel sostenere che Locke avrebbe spostato

301 Ibid. 302 M. Ormas, La libertà e le sue radici, cit., p. 283. 303 Secondo Hobbes «il diritto (right) consiste nella libertà di fare o di non fare, mentre la legge (law) determina e costringe a una delle due cose, cosicché la legge e il diritto differiscono tanto quanto l’obbligazione e la libertà, che sono incompatibili in una ed una stessa materia». Id., Leviatano, I, XIV, 3, cit., p. 213. Locke riprende questa distinzione nei Saggi, quando, con riferimento alla legge di natura, afferma che questa «deve essere distinta dal diritto naturale: il diritto consiste infatti nell’avere libero uso di qualcosa, la legge invece è ciò che ordina o proibisce di fare qualcosa». SLN, I, p. 5. 304 Cfr. LL, p. 4. Del medesimo avviso Maurizio Merlo, quando osserva che «diversamente da concezioni (che possono farsi risalire a Grozio e a Hobbes) che affermano l’esistenza di diritti naturali soggettivi che precedono la legge naturale (sicché questa non svolge che una funzione di limitazione e preservazione del diritto naturale), la via battuta da Locke giunge al diritto naturale come riconoscenza e contropartita di ciò che la legge naturale impone o pribisce. […] i diritti naturali degli individui cedono di faccia alla dipendenza ontologica della creatura dal divino». M. Merlo, La legge e la coscienza, cit., p. 38. 305 Cfr. L. Strauss, Che cos’è la filosofia politica?, cit., in part. pp. 57 – 60. 306 Secondo Strauss, al contrario di come i suoi scritti sembrano suggerire e di un’apparente fedeltà alla tradizione, Locke «non può avere ammesso alcuna legge di natura in senso stretto» (cfr. Diritto naturale e storia, cit., p. 217), per poi aggiungere che «egli si discosta notevolmente dall’insegnamento tradizionale della legge di natura e segue l’esempio di

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l’accento dai doveri e dalle obbligazioni naturali ai diritti di natura, lo studioso ha visto che

l’individuo – l’ego – si trovava così ad essere il centro e la fonte del mondo etico307. Dunque,

nonostante le apparenze di segno contrario, Locke «è un edonista»308, sebbene di stampo

particolare. Nel suo pensiero

il desiderio della felicità e la ricerca della felicità hanno il carattere di un diritto assoluto, di un diritto naturale. Vi è dunque un diritto naturale innato, mentre non vi è alcun dovere naturale innato309.

Secondo Strauss «la felicità ha come presupposto la vita; perciò il desiderio di vita ha la precedenza

sul desiderio della felicità in caso di conflitto» e «il più fondamentale di tutti i diritti è di

conseguenza il diritto di conservare se stessi»310. Solo leggendo Locke come se nascondesse il suo

reale pensiero, secondo lo studioso, è possibile ricavare una dottrina della legge di natura coerente,

la quale doveva essere assai vicina a quella di Hobbes, se si ammette che le leggi di natura per l’uno

come per l’altro sono “teoremi” relativi a ciò che favorisce la conservazione e la difesa dell’uomo

contro i suoi simili311.

Secondo tale interpretazione, Locke avrebbe ricavato la logica del costituzionalismo da uno stato

di natura inteso comunque come guerra di tutti contro tutti. Egli si sarebbe cioè opposto alla

conclusione di Hobbes sulla base tuttavia di una medesima visione dello stato di natura, nel

tentativo di mostrare che il principio hobbesiano dell’autoconservazione richiede in realtà un

governo limitato e soggetto al consenso di una maggioranza.

Ma Locke è stato anche un innovatore e Strauss coglie la novità della sua dottrina sulla proprietà,

che si distinguerebbe dagli insegnamenti del suo predecessore: nella concezione lockiana gli

uomini entrano nella società civile per conservare o difendere la proprietà che hanno acquisito

Hobbes» (ivi, p. 218). Le incoerenze contenute nei testi del filosofo avrebbero celato per Strauss una posizione vicina all’insegnamento hobbesiano, soprattutto con riferimento a Dio e alla moralità, che Locke avrebbe tenuto nascosta dietro una superficie tradizionale, evitando di dichiararla in maniera esplicita per timore che potesse danneggiare la sua persona e la ricezione della propria dottrina politica. Da alcuni passaggi di Locke – che si riferiscono in massima parte alla presentazione di Gesù e di antichi filosofi presente nella Ragionevolezza i quali adottavano un atteggiamento prudente e si esprimevano in maniera criptica (RC, pp. 147-150; pp. 83-87)-, Strauss inferisce che il filosofo considerasse legittimo il parlar cauto, o quanto meno avallasse una comunicazione ispirata ad elevata prudenza, «quando un’assoluta franchezza impedirebbe una nobile azione che si cerca di compiere, o esporrebbe chi l’adopera ad una persecuzione, o metterebbe in pericolo la pace pubblica […]» (Diritto naturale e storia, cit., p. 207). Alla tesi di Strauss si può in primo luogo obiettare che il fatto che Locke autorizzasse un certo comportamento altrui non prova che egli lo praticasse a propria volta. Inoltre va ricordato che il testo straussiano non teneva conto dei Saggi sulla legge naturale che furono pubblicati successivamente. 307 Cfr. L. Strauss. Diritto naturale e storia, cit., p. 242. 308 Ivi, p. 243. 309 Ivi, p. 223 (corsivo mio). 310 Ivi, p. 224. 311 Cfr. ivi, p. 225.

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nello stato di natura, il diritto di proprietà si trova così ad essere un corollario del diritto

fondamentale all’autoconservazione. Tuttavia la proprietà che deve essere salvaguardata non è

proprietà statica ma proprietà dinamica. Ne segue che «gli uomini entrano in società non tanto per

conservare, quanto per aumentare il loro possesso»312.

Strauss sostiene quindi che la dottrina lockiana della proprietà – e con essa il pensiero politico -

avesse un carattere rivoluzionario non solo rispetto alla tradizione biblica ma ugualmente rispetto

a quella filosofica. Locke avrebbe tentato infatti di giustificare un’acquisizione illimitata di

ricchezza e «nella sua discussione tematica sulla proprietà nulla è detto circa un qualsiasi dovere di

carità»313.

Tra gli studiosi che hanno contestato la validità e le tesi dell’approccio straussiano vi sono in

particolare John Yolton, del quale si è detto314, Wolfgang von Leyden e Martin Seliger.

Quest’ultimo si è soffermato particolarmente sulla prudenza lockiana. Discutendo l’approccio di

Strauss e di Cox, Seliger avanza l’argomento del diritto di resistenza e di rivoluzione teorizzato da

Locke: il fatto che i Due Trattati furono pubblicati anonimi, a causa del triste destino di Algernon

Sydney – giustiziato per tradimento - che certamente Locke aveva presente315, indebolisce

notevolmente la tesi interpretativa straussiana, dal momento che era assai improbabile che Locke,

per esporre il proprio argomento filosofico, oltre all’anonimato, si impegnasse a nascondere anche

le sue vere intenzioni attraverso una scrittura esoterica316.

d. 1. La dottrina dei doverid. 1. La dottrina dei doverid. 1. La dottrina dei doverid. 1. La dottrina dei doveri

Al di là di interpretazioni controverse come quella di Strauss317 - il cui approccio, secondo

Zuckert, è stato in grado di attirare tanta ostilità da parte della letteratura recente perché al

312 Ivi, p. 240. 313 Ivi, p. 242. Ma sappiamo che non è così, cfr. T1, 42; T2, 5-6. Cfr. inoltre Etica 92, dove la felicità è legata da Locke all’amore per gli altri, al compimento del dovere e ad atti di amore o di carità; SER, p. 168. 314 Yolton si è mostrato particolarmente critico quanto al metodo dello studioso tedesco, definito “irresponsabile”. Lo studioso ha accusato Strauss di omissioni di passaggi chiave nei testi lockiani, come pure di citazioni di frasi o di parole brevi e spezzate, e non di testi completi, per giunta fuori contesto, che finiscono per impedire al lettore di farsi una idea corretta del pensiero di Locke. Cfr. Id., Locke on the Law of Nature, cit., in part. pp. 20-24; p. 31, n. 5 e n. 10. 315 Locke consiglia anche la lettura del Sydney, per l’ambito politico, in Some Thoughts concerning Reading and Study for a Gentleman, in The Educational Writings of John Locke, cit., p. 400. 316 Cfr. M. Seliger, The Liberal Politics of John Locke, cit., pp. 35-36. 317 Sulle interpretazioni della tesi di Strauss si vedano: C. Monson Jr., Locke and His Interpreters, in «Political Studies», 6 (1958), pp. 120-133, ora in CA, III, pp. 13-26, in part. 13-18; S. B. Drury, The Political Ideas of Leo Strauss, Macmillan, Basingstoke 1988. S. Holmes, Truths for Philosophers Alone, in «Times Literary Supplement», 1-7 dicembre 1989, pp.

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medesimo tempo radicale e potente318 - Locke nel settimo dei Saggi sulla legge di natura era stato

piuttosto chiaro nel precisare che questa stessa legge è anche sorgente di doveri per gli uomini. E

se l’autoconservazione e la proprietà possono essere considerati diritti, essi si devono intendere

anche come doveri319. O, se si preferisce, gli uomini hanno dei diritti naturali perché hanno dei

doveri naturali320. Come ha notato anche Rawls,

Dovremmo mettere in chiaro che i nostri diritti naturali dipendono dai nostri doveri precedenti, ossia dai doveri imposti dalla legge di natura fondamentale e dal nostro dovere di obbedire a Dio, che ha autorità legittima su di noi. Così, nella visione di Locke, intesa come una dottrina teologica, noi non siamo fonti autoautenticanti di pretese valide, nel senso in cui ho usato questa espressione per caratterizzare la concezione della persona nella giustizia come equità. Questo perché le nostre pretese sono fondate, nella concezione di Locke, su doveri precedenti nei confronti di Dio321.

Quanto alla tesi lockiana, dopo aver spiegato che la legge di natura non è variabile, poiché «non

dipende da una volontà fluttuante e mutevole, ma bensì dall’ordine eterno delle cose», il filosofo

aggiunge:

A me sembra in effetti che alcune condizioni fondamentali delle cose siano immutabili e che alcuni doveri abbiano origine dalla necessità, e questi non possono essere diversamente da come sono, non perché la natura o (per meglio dire) Dio non ha potuto fare l’uomo diversamente da come è stato fatto, bensì perché una volta fatto in questo modo, guidato dalla ragione e dalle altre sue facoltà, nato per questa condizione di vita, seguono necessariamente dalla sua condizione originaria alcuni suoi doveri stabiliti, che non possono essere diversi da come sono322.

Posto insomma che Dio è il creatore del genere umano, e che ne è per così dire il sovrano, «questo

diritto naturale non sarà mai abrogato», poiché «nella sua infinita ed eterna sapienza [Egli] ha

creato l’uomo in maniera tale che questi doveri propri della legge naturale fossero una

conseguenza necessaria della stessa natura umana»323.

Nei Pensieri sull’educazione, discutendo della reputazione, Locke spiega che «la virtù consiste

nella conoscenza che l’uomo ha del proprio dovere e nella soddisfazione che prova obbedendo al

Creatore, e seguendo, con la speranza di piacergli e di averne ricompensa, i dettami di quella Luce

che Dio gli ha data»324.

1319-24; J. Dunn, Justice and Interpretation of Locke’s Political Theory, in «Political Studies», 16 (1968), pp. 68-87. Sul dibattito intorno alla scrittura di Locke: LL, pp. 82 – 106. 318 Cfr. LL, p. 38. 319 «Poiché i due diritti, all’autoconservazione e ai mezzi di sussistenza, sono scoperti dalla ragione naturale, ipso facto essi derivano dalla legge di natura». J. Tully, A Discourse On Property, cit., p. 4 (trad. mia). 320 Cfr. ivi, p. 63. 321 J. Rawls, Lezioni di storia della filosofia politica, cit., pp. 128-129 (corsivo mio). 322 SLN, I, p. 5 (corsivo mio). 323 SLN, VII, p. 77. 324 PE [61], p. 68.

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Anche nei Due Trattati Locke parla di doveri che abbiamo gli uni verso gli altri325 e di

obbligazioni che sorgono in seno alla famiglia326. Una domanda importante, quindi, è: quali sono

questi doveri?

Nel Primo Trattato troviamo espresso innanzitutto, con parole inequivocabili, il dovere

dell’autoconservazione. La prima e più importante legge di natura è che l’umanità sia conservata:

L’istinto dell’autoconservazione, essendo il primo e più forte istinto che Dio ha introdotto negli uomini, inserendolo fra i principi stessi della loro natura, è il fondamento del diritto che ogni singola persona ha sulle creature per il proprio particolare uso e sostentamento327.

Locke spiega che la prima intenzione della natura è l’incremento del genere umano328 e che il

numero degli uomini è preferibile all’estensione dei domini329. Nel riflettere sul significato di

Genesi 1,28, su cui Filmer si basava per sostenere il dominio concesso ad Adamo da Dio, Locke si

richiama all’ordine divino rivolto agli uomini di essere fecondi e di moltiplicarsi, e quindi al diritto

di servirsi di cibo e di altri comodi della vita, di cui il Creatore li aveva forniti in abbondanza,

senza farli dipendere dalla volontà altrui330.

È possibile anche leggere questo dovere di autoconservazione una legge rivelata («siate fecondi e

moltiplicatevi», Gn 1, 28) espressa in termini razionali, e pertanto uno dei princìpi basilari della

legge di natura. Nuovamente si trova conferma del carattere biblico-teologico dell’assunto

principale del pensiero lockiano.

Sembra inoltre che il rispetto della vita, in ogni sua forma, fosse per Locke una preoccupazione

fondamentale, tanto da considerarne necessario l’apprendimento sin da piccoli. Nei Pensieri

sull’educazione viene descritta come estremamente diseducativa l’abitudine dei bambini di

tormentare e uccidere animali per gioco, poiché essa «a poco a poco indurirà il loro animo anche

verso gli uomini; e chi si diletta facendo soffrire o uccidendo le creature inferiori, non sarà capace

di esser compassionevole o benevolo per quelle della sua stessa specie»331. Vale la pena riportare

per intero l’indicazione pedagogica che seguiva :

I bambini debbono venir educati sin dal principio ad aver orrore di tomentare o di uccidere qualsiasi creatura vivente; e bisogna anche insegnar loro a non guastare o distruggere qualsiasi cosa, a meno che ciò non serva alla conservazione o al

325 Cfr. T2, 5. 326 Cfr. T2, 52 – 83. 327 T1, 88; p. 160. Cfr. anche T2, 8, 25, 149. 328 Cfr. T1, 41; 54; 59; 86. 329 Cfr. T2, 42. 330 Cfr. T1, 41. Cfr. anche T1, 86-87. 331 PE [116], p. 160.

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profitto di qualche altra cosa di qualità più elevata. Ed in verità se ogni uomo fosse conscio del rispetto che si deve alla vita altrui, per quanto da lui dipende – come davvero è dovere di tutti, e secondo i principi che regolano la nostra religione, la politica e la morale – il mondo sarebbe più tranquillo e più benigno di quanto non è332.

Locke compose una lunga nota del suo diario sull’idea di Dio il primo agosto 1680, a partire non

dalle Scritture ma dall’idea naturale di Dio nell’uomo333. Qui spiegava che Dio è eterno e perfetto,

che non poteva far uso del suo potere per modificare il suo essere in uno stato migliore o

differente, e che tutto il suo potere doveva quindi essere rivolto alle sue creature, e non poteva

essere impiegato che per il loro bene. Nella nota si spiegava anche che l’onnipotenza poteva non

essere un’eccellenza senza la saggezza e la bontà, e che il peccato di Adamo non danneggiò o

influenzò in alcun modo Dio ma fu punito solo perché l’offesa dei progenitori costituiva un danno

per la conservazione delle altre creature.

Marshall, che fa riferimento al manoscritto, ne conclude che «secondo Locke, la conservazione

delle creature di Dio era il maggior interesse di Dio stesso», e osserva che nei Due Trattati «questo

doveva essere un principio predominante»334. In tal senso l’enfasi sulla conservazione dell’umanità

non stava semplicemente ad indicare che per Locke il suo contrario equivaleva ad un fallimento

nella conservazione della proprietà di Dio, ma implicava un vanificare le sue opere, un

impedimento alla sua bontà e in definitiva un ostacolo alla sua giustizia335.

Dio, essendo saggio, ha creato tutto con uno scopo, e anche l’uomo, sua creatura, riflette una

finalità stabilita che egli può ricavare dall’esperienza e dalla riflessione. L’uomo comprende con la

sua ragione i propri doveri, quelli verso Dio e verso gli altri esseri umani. Lo scopo della creatura

umana è vivere secondo ragione: di ciò fa parte non soltanto il culto a Dio, ma la vita in società con

altri uomini336. E la legge naturale prescrive innanzitutto l’autoconservazione: è il primo istinto

dell’uomo ed è anche quel che la ragione gli prescrive di fare.

Accanto ad esso sussiste il dovere di conservare tutto il genere umano: per questo fine l’uomo è

spinto ad entrare in società ed è animato da una naturale propensione a stringere legami, per la

quale dispone del linguaggio.

Vediamo dunque che il principio di autoconservazione nell’uomo, del quale Dio è autore, ha

nella teoria lockiana tre importanti implicazioni: la conservazione della specie; l’istituzione della

332 Ibid. 333 Si tratta dello scritto The Idea We Have of God , cit., pp. 237-238; parzialmente cit. da RRR, pp. 141-142. 334 RRR, p. 144 (trad. mia). 335 Cfr. ibid. Sull’idea che a Locke premesse più conservare un ordine che l’umanità, seguendo una vecchia concezione propria della metafisica scolastica, cfr. P. Abrams, Introduction, Two Tracts on Government, cit., p. 77. 336 Cfr. T2, 77.

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famiglia; la proprietà337. Il dovere di custodire e conservare anche gli altri riguarda innanzitutto i

propri figli338, sui quali non si ha potere di vita o di morte339, come Locke affermerà anche nel

Secondo Trattato:

[…] Adamo ed Eva, e dopo di essi tutti i genitori, sottostettero, per legge di natura, all’obbligazione di conservare, nutrire e educare i figli, ch’essi avevano generato, non come loro propria fattura, ma come fattura del loro creatore, l’Onnipotente, al quale dovevano renderne conto340.

Questa era anche la principale ragione a giustificazione del diritto dei figli a subentrare nel

possesso delle proprietà paterne341. Dalla conservazione della specie derivano quindi i rapporti che

costituiscono la famiglia, ovvero il rapporto coniugale ordinato alla cura filiale. La società tra uomo

e donna, sebbene

consista principalmente in quella comunione e in quel diritto dell’uno sul corpo dell’altro [in the togetherness of bodies and right of access to one another’s bodies] che è necessario al suo fine precipuo, ch’è la procreazione, tuttavia essa porta con sé mutuo aiuto e assistenza, e anche una comunione di interessi, qual è necessaria non soltanto onde riunire la loro cura e affezione, ma anche alla loro comune prole, che ha diritto ad esser nutrita e mantenuta da loro, sino a che non diventi capace di provvedere per sé342.

Tale dovere di conservazione si estende poi a tutti gli altri membri del genere umano: ciascun

individuo dovrebbe, nella misura in cui è possibile, «preservare il resto dell’umanità»343. In questa

sede occorre prestare attenzione alla motivazione che Locke avanza a sostegno di tale dovere:

«poiché siamo forniti delle stesse facoltà e partecipiamo tutti d’una sola comune natura», non può

esservi «una subordinazione tale che ci possa autorizzare a distruggerci a vicenda, quasi fossimo

tutti gli uni per uso degli altri»344, perciò

come ciascuno è tenuto a conservare se stesso e a non abbandonare volontariamente il suo posto, così, per la medesima ragione, quando non sia in gioco la sua stessa conservazione, deve, per quanto può, conservare gli altri [everyone ought … to do as much as he can to preserve the rest of mankind] e non può, se non nel caso di far giustizia d’un offensore,

337 Cfr. L. Pareyson, Introduzione, Due Trattati, pp. 32-33. 338 Cfr. T1, 89. 339 A Filmer che argomentava come i padri avessero un potere sui propri figli, Locke risponde che i genitori non creano i loro figli ma sono solamente «l’occasione dell’esistenza di questi», i quali restano opera, e quindi proprietà, divina. Cfr. T1, 54. 340 T2, 56; p. 266. Su questo cfr. anche T2, 53; 57-58. 341 Cfr. T1, 88-90. Si veda l’articolo del Solari, Il fondamento naturale del diritto successorio in Giovanni Locke, in «Atti della Reale Accademia delle Scienze di Torino», 59 (1923-24), pp. 745-774; ora in Id., La filosofia politica, I-II, a c. di L. Firpo, Laterza, Bari 1974, I, pp. 251-283. 342 Cfr. T2, 78; p. 282. 343 T2, 6; pp. 231-32. Cfr. anche T2, 128. La tesi esposta qui da Locke rende difficile sostenere un suo presunto individualismo radicale; lo avvicina piuttosto ad una visione più elaborata della comunità umana intesa come famiglia. 344 T2, 6; pp. 231.

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sopprimere o menomare a un altro la vita o quanto contribuisce alla conservazione della vita, come la libertà, la salute, le membra del corpo o i beni345.

Locke sta spiegando che - in quanto proprietà di Dio - ciascuno è tenuto a conservare se stesso, ma

che anche l’altro – gli altri – sono fattura e proprietà di Dio, e sussiste verso di loro un medesimo

dovere, almeno fino a che ciò non entri in competizione con la propria conservazione346.

Evidentemente solo se l’uomo è creato da Dio, e questi ha su di lui dei diritti di proprietà, l’uomo

non possiede se stesso né può cedere questi diritti. Il dovere di conservazione può essere inteso

allora secondo due modalità: esso è tanto un dovere attivo di conservare la vita altrui, che nell’etica

lockiana si traduce nella regola cristiana di fare ad altri quel che si vuole per sé347; quanto un

dovere passivo, che consiste nell’astenersi dal minacciare la vita, la libertà, la salute e i beni altrui.

Da qui discende, soprattutto, il fine del governo, che per Locke è la salvaguardia di tutti348.

Inoltre, dall’affermazione di un Dio artefice e padrone delle nostre vite non può che discendere

anche il divieto di disporre della propria vita349. Riferendosi al potere dispotico, che è il potere

assoluto sulla vita altrui, Locke spiega

Questo è un potere che non è conferito dalla natura, perché la natura non ha fatto di queste distinzioni fra gli uomini, né può esser trasmesso da un contratto, perché l’uomo, non avendo neppure lui questo potere assoluto sulla propria vita, non può conferirlo ad altri, ma non può esser altro che l’effetto del rischio a cui l’aggressore espone la propria vita quando si pone in stato di guerra con un altro350.

345 Ibid. (corsivo mio). 346 Cfr. J. Rawls, Lezioni di storia della filosofia politica, cit., pp. 125 – 26; J. Tully, A Discourse on Property, cit., p. 173. 347 Cfr. Saggio, I, III, 7. 348 Cfr. T2, 134-135; 159. Si veda anche J. Tully, A Discourse On Property, cit., pp. 161-62. 349 Peter Laslett ha visto quasi una contraddizione tra l’affermazione secondo cui «ognuno ha la proprietà della propria persona» (T2, 27) e il divieto di disporre della propria vita che deriva per l’umanità dall’essere opera divina. P. Laslett, Introduction, Two Treatises, cit., p. 100. Ma Locke parla della proprietà di sé nel capitolo quinto del Secondo Trattato, all’interno di un discorso più ampio relativo alla proprietà e alla sussistenza. Egli non parla, in questo caso, di quel genere di proprietà che deriva dall’essere artefici di qualcosa, ma di un possesso legato ad una finalità, ovvero di una capacità di disporre di sé “per” la propria sopravvivenza, che rende perciò titolari del lavoro che si svolge e unici fruitori dell’opera ottenuta. Anche Michael Zuckert ha notato che Locke ricorre a due argomenti apparentemente alternativi nella sua dottrina dei diritti naturali: il workmanship argument (siamo fattura di Dio e sua proprietà) e la proprietà di se stessi. In entrambi i casi le conseguenze morali e politiche sono le medesime - escludere la pretesa giuridica sulla vita e sul corpo dell’altro, che Hobbes invece affermava presentando un modello naturale di uomo che ha diritto a tutto - ma la relazione tra i due argomenti non è priva di difficoltà. Locke, secondo Zuckert, sembra preferire in certi casi il workmanship argument, ma potrebbe aver nutrito incertezze quanto alla possibilità di dimostrare effettivamente l’esistenza di un Dio creatore al quale vincolare la propria tesi. La principale differenza che Zuckert individua sta nel fatto che il workmanship argument riposa su una teologia naturale che Hobbes apparentemente non seguiva, mentre la proprietà di se stessi deriva da una analisi approfondita da parte di Locke dei concetti fondamentali della filosofia politica di Hobbes. La proprietà di se deriva dalla natura dell’io, che reca con sé la naturale esigenza di conservazione. L’io per Locke non è un’entità fissa, già data, come Hobbes la intendeva, e ciò aveva conseguenze anche sul sistema dei diritti. Cfr. LL, pp. 4-5. 350 T2, 172; p. 359.

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Di tale divieto si dà una doppia declinazione: il divieto del suicidio351 e l’impossibilità che un

potere sulla propria vita venga trasferito ad altri con l’ingresso nella società civile, poiché non si

può conferire ad altri un potere maggiore di quello che si possiede352.

Un potere sulla vita altrui è escluso da Locke dalle possibilità di una convivenza pacifica secondo

ragione e relegato invece tra i rischi possibili di un uso della forza tra gli uomini, quindi proprio di

uno stato di guerra.

In terzo luogo, dal dovere di autoconservazione deriva la necessità della proprietà comune del

genere umano, della proprietà privata dell’individuo e del lavoro per acquisirla353.

Locke spiega che Dio comandò all’uomo di lavorare354, ed è la sua stessa condizione nel mondo ad

esigere che lui si dedichi a questa attività355. Si tratta di un dovere che si radica nel comando divino

ai Progenitori di crescere e di moltiplicarsi, e su queste basi Locke riconosce e teorizza la proprietà

intendendola come il risultato (al quale si ha diritto) dell’attività del proprio corpo:

Ma se la proprietà ha come fine l’autoconservazione, e cioè è diretta all’uso, è razionale che vi sia un principio di appropriazione in base al quale dalla cosa in possesso si tragga il massimo e la massima utilità possibile, e questo principio è ragionevole che sia il lavoro, come quello che trasforma la materia prima in oggetto utile, e cioè corrispondente ai bisogni356.

Anche il diritto naturale alla proprietà trova dunque significato alla luce della dottrina affermata

nella Bibbia, in base alla quale gli uomini possedevano in origine beni in comune. Il Creatore

prescrisse loro di dominare sul bestiame e sugli animali selvatici. Il diritto di proprietà si presenta

come il corollario (o la condizione) necessario ad adempiere la prescrizione di conservare se stessi.

Mario D’Addio a tal proposito ha scritto: «il diritto alla vita, che si esprime nella libertà,

indipendenza ed autonomia del singolo, implica, secondo Locke, il diritto al pieno godimento dei

beni acquisiti dall’individuo. […] In conseguenza di tale diritto l’uomo, mediante il lavoro, fa sue,

cioè fa rientrare nella propria personalità, tutte le cose che ha trasformato con il suo lavoro»357.

351 Cfr. T2, 6. Come ha perfettamente osservato Maurizio Merlo, «diversamente da Hobbes e Rousseau, l’individuo lockeano non è in alcun modo padrone di se stesso». M. Merlo, La legge e la coscienza, cit., p. 98 (corsivo nel testo). 352 Cfr. T2, 23 e 135. 353 Su questo aspetto si è soffermato in particolare David Snyder, il quale considera inseparabile la dottrina dei diritti da quella dei doveri nella teoria lockiana e, in opposizione a Macpherson, ha ricondotto la proprietà al comando divino di lavorare, realizzando il quale essa diventa possibile. Cfr. D. Snyder, Locke on Natural Law and Property Rights, in «Canadian Journal of Philosophy», 16 (1986), pp. 723-750, ora in CA, III, pp. 362-384. 354 Cfr. T1, 45-46. Sulla necessità del lavoro come segno della goodness divina per gli uomini, che sono così preservati dai danni dell’ozio e della vita sedentaria cfr. Labour - Morgan Library, Ms. Adversaria 1661, in D. Wootton, John Locke: political Writings, cit., pp. 440-442. Si veda inoltre l’illuminante lettura che Hannah Arendt dedica alla filosofia di Locke e al lavoro: Vita Activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2005, in part. pp. 58 – 96. 355 Cfr. T2, 32. 356 L. Pareyson, Introduzione, Due Trattati, p. 33. 357 M. D’Addio, Storia delle dottrine politiche, cit., p. 195.

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Il fondamento, e al tempo stesso il limite della proprietà, è il lavoro: nelle Scritture esso può

apparire come una condanna causata dal peccato originale, ma in Locke diventa principio di

appropriazione. Egli non dubitava che Dio fosse l’unico Signore e proprietario del mondo intero358

e che la proprietà umana sulle cose create altro non sia che la libertà di usarle, consentita da Dio359.

Per questo,

Il diritto di proprietà è, essenzialmente, anteriore all’istituzione della società, non dipende dal consenso altrui o della legge politica; o ancora, il diritto di proprietà è un diritto proprio dell’individuo solo, strettamente connesso alla crescita impellente che ha di nutrirsi, non è in alcun modo un diritto “sociale”; o ancora, la proprietà nella sua essenza è naturale, non è assolutamente il risultato della convenzione360.

Due però sono i limiti intrinseci del diritto di proprietà361. Uno è costituito dal dovere di lasciarne

anche agli altri per il loro sostentamento, l’altro dalla possibilità d’uso del prodotto del lavoro (non

è legittimo il possesso superiore al proprio consumo, che deperisce o viene sprecato)362. Inoltre ve

n'è uno dato dalla sua causa: è legittima la proprietà derivata dal lavoro effettivamente compiuto.

Questi limiti naturali all’appropriazione vengono superati dalla moneta, che è il mezzo per

possedere legittimamente più di quanto consenta il sistema della proprietà limitata dal principio

della soddisfazione di tutti.

1.1. Il confronto Macpherson - Tully

Sul tema delle proprietà, e sul lavoro come suo fondamento, molto è stato scritto da parte di

studiosi di differente orientamento363. Anche su questo aspetto si sono confrontate,

tendenzialmente, due linee interpretative: la prima, che ha situato il pensiero lockiano all’interno

del capitalismo emergente e del colonialismo del XVII secolo, vi ha visto in chiave sociale ed

economica una difesa dei diritti proprietari, del principio di utilità e in definitiva

358 Cfr. T1, 39 . 359 Cfr. T2, 6 e 27. 360 P. Manent, Storia intellettuale del liberalismo, cit., p. 113. 361 Cfr. W. von Leyden, Hobbes e Locke, cit., p. 154. 362 Sui limiti alla proprietà cfr. P. Manent, Storia intellettuale del liberalismo, cit., pp. 113-116. 363 Si vedano in particolare: R. Nozick, Anarchy, State, and Utopia, cit., pp. 174-178; R. Lemos, Locke’s Theory of Property, in «Interpretation», 5 (1975), pp. 226-244; ora in CA, III, pp. 343-361; T. Baldwin, Tully, Locke and Land, in «Locke Newsletter», 13 (1982), pp. 21-33; N. J. Mitchell, John Locke and the Rise of Capitalism, in «History of Political Economy», 18 (1986), pp. 291-305; J. Waldron, The Right to Private Property, Clarendon, Oxford 1988; J. Rawls, Lezioni di storia della filosofia politica, cit., pp. 154 ss.; M. Seliger, The Liberal Politics of John Locke, cit., pp. 141 – 170; R. Goldwin, John Locke, cit., pp. 259 – 72; J. Yolton, Property, in Id., A Locke Dictionary, cit., pp. 183 – 188; J. Kelly, Storia del pensiero giudirico occidentale, cit., pp. 273-276; 290-292.

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dell’accumulazione capitalista364. La seconda ha tentato invece di inserire anche la teoria della

proprietà lockiana in una visione di carattere morale, e segnatamente cristiana, ispirata ad una

legge natura che rivela il progetto divino per l’uomo, del quale fa parte tanto il dovere di

conservare l’umanità quanto l’inalienabilità del lavoro, il dovere di carità e la priorità del bene

comune sui diritti proprietari considerati in senso assoluto365.

È alla luce di questi due modelli interpretativi che va letto il confronto tra le tesi di Crawford B.

Macpherson e quelle di James Tully.

Nel suo studio del 1962 Macpherson ha mostrato i risultati di un’applicazione della metodologia

marxista in sede di storiografia filosofica al fine di mostrare che la società civile lockiana è

integralmente soggetta ad istanze di carattere economico. Mettendo in risalto l’importanza della

moneta nella dottrina lockiana, come modalità attraverso la quale poter scardinare i limiti naturali

alla proprietà, e, allo stesso tempo, una idea della sovranità la cui funzione si identificava con la

difesa della proprietà e la salvaguardia dei possessi diseguali, Macpherson ha visto in Locke il

teorico dell’accumulazione all’origine della società borghese o capitalistica366.

Mentre Tully contesterà in primo luogo la lettura comunemente accettata dell’individualismo

lockiano367, Machperson insiste su un possessive individualism del filosofo: l’individuo possessivo è

qualcuno che desidera salvaguardare quel che è solo “suo”, le proprie capacità e i prodotti del

proprio lavoro.

Secondo Macpherson l’intera dottrina lockiana della proprietà si configura come una

giustificazione del diritto naturale ad una appropriazione individuale illimitata, la cui radice va

ricercata nella tesi del lavoro come proprietà esclusiva dell’uomo368. In questo modo risultavano

azzerati sia gli obblighi sia le funzioni sociali del lavoro e della proprietà.

In una prospettiva di questo tipo la religiosità di Locke è considerata come un involucro

esteriore, del quale si può fare a meno senza compromettere il nucleo centrale del suo pensiero.

Macpherson non intende sottovalutare l’importanza delle convinzioni religiose del filosofo inglese,

364 Si vedano di Macpherson, insieme a Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, anche Locke on Capitalist Appropriation, in «Western Political Quarterly», 4 (1951), pp. 550-566; ora in CA, III, pp. 267 – 284; Id., The Social Bearing of Locke’s Political Theory, in «Western Political Quarterly», 7 (1954), pp. 1-22. 365 Cfr. J. Tully, A Discourse On Property, cit.; Id., A Reply to Waldron and Baldwin, in «Locke Newsletter», 13 (1982), pp. 35-55. 366 Cfr. C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, cit., p. 264. Quella di Locke teorico della proprietà privata «e non solo della proprietà privata in generale, bensì della proprietà privata borghese, dell’accumulazione illimitata di ricchezza», è una lettura che ha riscosso consensi. Cfr. G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, cit., p. 54; Id., Locke e le origini del costituzionalismo, cit., p. 269. Per una lettura critica delle tesi di Macpherson cfr. N. Bobbio, Studi lockiani, cit., pp. 108-116; W. von Leyden, Hobbes e Locke, cit., pp. 157-162. 367 V. infra. 368 Cfr. T2, 27.

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ma non ritiene che abbiano una rilevanza anche politica. Egli ha tentato quindi di restituire alla

dottrina della proprietà lockiana il significato che essa doveva avere per il filosofo e per i suoi

contemporanei, concentrandosi sul tema dell’appropriazione illimitata: Locke avrebbe delineato il

modello di individualista possessivo e proprietario. Lo studioso ritiene inoltre che Locke abbia

fornito una base morale alla società capitalistica:

Locke abbandonò la propria strada per trasformare il diritto naturale di ogni individuo alla proprietà necessaria per sopravvivere (e a cui applicare il proprio lavoro), in un diritto naturale di appropriazione illimitata, con cui era permesso ai più industriosi di acquisire tutta la terra, non lasciando agli altri alcun modo di vivere che non fosse la vendita della disponilibilità del proprio lavoro369 .

Il nuclo centrale dell’individualismo lockiano viene individuato nell’asserzione

secondo cui ogni uomo è per natura unico proprietario della propria persona e capacità – proprietario assoluto nel senso che per ciò egli non deve niente alla società – e, in senso specifico, proprietario assoluto della propria capacità lavorativa: ogni uomo è perciò libero di alienare la sua capacità di lavorare370.

Locke apre il Secondo Trattato con una dottrina della legge naturale, che è la ragione confermata

dalla rivelazione371; ma l’accumulazione è ancora contenuta entro limiti stretti. Questi limiti

riguardavano da un lato le esigenze degli altri uomini, affinché l’appropriazione non andasse a

pregiudizio di altri372, dall’altro la convenienza, poiché non era utile espandere i possessi più di

quanto il lavoratore e la sua famiglia potessero usarne373. Tuttavia,

eliminando le due limitazioni iniziali […] l'intera teoria della proprietà viene ad essere una giustificazione di un diritto di natura non solo alla proprietà diseguale, ma anzi, all'appropriazione individuale illimitata. Fondamento di questa giustificazione è appunto la tesi che il lavoro di un uomo è sua proprietà personale374.

Se dunque nello stato di natura l'appropriazione è soggetta a limitazioni, Macpherson legge le

affermazioni di Locke nel capitolo sulla proprietà come una loro rimozione.

L’introduzione del denaro – «qualcosa di durevole che si può tenere senza che vada perduto»375 -

ha consentito di rimuovere l’ostacolo che impediva l’appropriazione illimitata in un senso morale,

ovvero in accordo con la legge di natura o di ragione. Ma essa rimuoveva anche l’ostacolo tecnico

che aveva impedito l’appropriazione illimitata nel senso di conveniente. Locke avrebbe fatto

369 C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, p. 263. 370 Ibid. 371 Cfr. T2, 31. 372 Cfr. T2, 33. 373 Cfr. T2,46. 374 C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, cit., p. 253. 375 T2, 47; p. 262.

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cadere insomma la dottrina tradizionale della legge naturale e trasformato il diritto naturale di

conservazione/sussistenza in diritto di appropriazione illimitata.

A partire dall’assunto tradizionale che la terra e i suoi frutti erano stati dati in origine agli uomini per l’uso comune, [Locke] ha rovesciato le posizioni rispetto a quanti derivavano da questo assunto teorie restrittive dell’appropriazione capitalistica, e ha cancellato le obiezioni morali che fino ad allora erano state di ostacolo all’appropriazione capitalistica illimitata376.

Macpherson sottolinea quindi un’altra decisiva novità della dottrina lockiana della proprietà,

ovvero la tesi che il lavoro di un uomo è suo personale ed è un diritto naturale venderlo in cambio

di un salario, per la propria sussistenza. Anche se Locke non avrebbe seguito Hobbes fino in fondo:

Per Hobbes, non solo il lavoro era una merce, ma la vita stessa era di fatto ridotta a una merce. Per Locke, la vita resta sacra e inalienabile, benché il lavoro (e la propria “persona”, intesa come capacità lavorativa personale) fosse una merce377.

Una distinzione tra vita e lavoro che avrebbe riflettuto il «concorso nel suo pensiero dei residui dei

valori tradizionali e dei nuovi valori borghesi»378. La straordinaria conseguenza è stata che «la

concezione tradizionale che proprietà e lavoro fossero funzioni sociali, e che l'autorizzazione a

possedere implicasse obblighi sociali»379 risultava rimossa.

Modificando in maniera sottile la natura dei diritti e della razionalità, Locke avrebbe fornito –

secondo Macpherson - un fondamento morale all’appropriazione capitalistica, formulando una

“teoria borghese” della cosiddetta società di mercato, a partire dall’idea che l’individualità è

oggetto di proprietà; in questo modo si teorizzava una individualità che si può realizzare

pienamente solo attraverso l’accumulazione della proprietà e dunque realizzata da alcuni, e solo a

spese degli altri.

***

Un attento riesame del concetto lockiano di proprietà è stato proposto negli anni Ottanta da James

Tully, secondo cui l’esito della teoria di Locke sulla proprietà privata era opposto a quello di

Filmer, Grozio e Pufendorf380. Su questo punto anche Dunn rigetta la tesi di Macpherson (e

376 C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, cit., p. 253. 377 Ivi, p. 252. 378 Ibid. 379 Ivi, p. 253. 380 Mentre per Filmer la proprietà privata illimitata della terra è naturale, per Grozio e Pufendorf è convenzionale, ma in quanto precede la costituzione politica il sovrano ha il dovere di proteggerla. Per Locke la premessa circa la proprietà privata è duplice: ciascuno deve avere i mezzi necessari ad una vita dignitosa; ciascuno deve poter lavorare e godere dei frutti del proprio lavoro. Queste sono due premesse ineludibili e delinenano il quadro normativo nel quale per Locke si inscrive un sistema di proprietà, la cui validità è subordinata al rispetto di questi due presupposti. La dottrina della

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indirettamente quella di Strauss) su Locke, sottolineando che questi appoggiava la proprietà privata

fondata sul lavoro personale e riteneva che tutti gli uomini avessero un diritto alla sussistenza

fisica che sopravanzava i diritti di proprietà di altri uomini381.

Nell’ambito di una riflessione più ampia, volta a rendere esplicito il ruolo del Saggio nella

dottrina politica del filosofo inglese, e soprattutto a partire da una ricostruzione del contesto e

delle dottrine su legge di natura e natural rights del XVII secolo, Tully illustra un modello

concettuale sulle relazioni tra Dio e l’uomo nel quale si rintracciano le premesse epistemologiche e

teologiche di Locke, denominato workmanship model 382.

Di fronte alle differenti, e a volte opposte, interpretazioni della nozione lockiana di proprietà

fornite dai socialisti inglesi e francesi, e da autori come Stocks383 e Macpherson nel XX secolo,

Tully intende rintracciare le radici di questa controversa dottrina, che a suo giudizio non possono

prescindere dal modello sopra citato. Dal momento che Locke prima di presentare la sua teoria

della proprietà era partito da un esame della relazione tra Dio e l’uomo, Tully ritiene opportuno

discutere tale relazione.

Tra le conclusioni alle quali giunge lo studioso, una delle più rilevanti riguarda la concezione

antropologica lockiana: «una premessa fondamentale del pensiero politico di Locke,

contrariamente alla cattiva comune interpretazione, non considera l’uomo come un individuo

isolato ma piuttosto lo considera nelle sue relazioni con altri uomini e con Dio»384.

Quanto alla concezione di Dio, Tully ritiene che, pur non considerando Dio dipendente dal

mondo, Locke considerasse l’uomo in una relazione di continua ed intima dipendenza da questo

Essere superiore, tanto nel ricevere la vita quanto nel continuare ad esistere, e che anche la sua

filosofia politica sia segnata da questa dipendenza unilaterale dell’uomo, dalla quale seguivano

obbligazioni naturali 385. Come si legge nel manoscritto Ethica B, alla voce Law,

proprietà per Locke è legata in modo indissolubile al diritto naturale al prodotto del proprio lavoro e costituisce il mezzo per assicurare gli altri diritti fondamentali. Alla luce di questa assunzione, e della politica fiscale regia del 1680 e del 1685-88, è da leggersi anche l’affermazione lockiana secondo cui non è legittima una tassazione senza il consenso della maggioranza (T2, 140). Tully pertanto ritiene che non si possa parlare nel suo caso di un diritto “assoluto” alla proprietà o di una proprietà privata incondizionata della terra. Piuttosto la proprietà rientrava tra quei diritti e doveri relativi alle cose necessarie alla vita e alla conservazione dell’umanità. Cfr. J. Tully, A Discourse On Property, cit., pp. 168-176. 381 PPL, p. 247. 382 Cfr. J. Tully, A Discourse On Property, cit., pp. 3-50. Si tratta di un modello molto importante per la comprensione di Locke, come osserva anche John Rawls, cfr. Id., Lezioni di storia della filosofia politica, cit., p. 49. 383 J. L. Stocks, Locke’s contribution to political theory, in J. L. Stocks, G. Ryle (eds.), John Locke: Tercentenary Address, Oxford University Press, Oxford 1933. 384 J. Tully, A Discourse On Property, cit., p. 11 (trad. mia). 385 Cfr. ivi, pp. 35-36.

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L’origine e il fondamento di tutta la legge è la dipendenza. Un essere dipendente dotato di intelligenza è sotto il potere, la direzione e il dominio di colui dal quale egli dipende e deve raggiungere quei fini che gli sono stati indicati dall’essere superiore. Se l’uomo fosse indipendente, non potrebbe avere nessuna legge che non fosse la sua propria volontà e non avrebbe nessun fine al di fuori di se stesso. Sarebbe un dio per se stesso e la soddisfazione della sua propria volontà sarebbe la sola misura e il solo fine di tutte le sue azioni386.

Secondo una posizione che Tully colloca a metà strada tra volontarismo e razionalismo, l’uomo

lockiano è soggetto alla volontà divina in modo morale, ovvero è capace di usare la propria ragione

per scoprire la legge di natura e scegliere di agire in conformità ad essa, partecipando all’ordine

divino in un modo che si addice solo ad una creatura razionale. Così ragionando, Locke evita di

considerare le leggi di natura vincolanti solo in quanto espressioni della volontà divina oppure solo

in quanto ottenibili per via razionale387. Certamente la volontà divina è la fonte dell’obbligazione

anche per Locke, tuttavia la ragione svolge un ruolo non secondario, avvicinandosi così alle tesi di

razionalisti388.

Secondo Tully, il criterio al quale il filosofo whig si appella per giustificare le leggi naturali è il

modo in cui Dio ha fatto l’uomo, come nel caso del desiderio di autoconservazione; e in quanto

desiderio di Dio, è un comando anche razionale. Ne segue che i desideri dell’uomo sono razionali

nella misura in cui coincidono con i desideri divini per l’uomo, cioè con la legge di natura. E

questo implicava per Locke che non tutti i desideri dell’uomo dovevano essere considerati

razionali, e che quanto poteva essere desiderabile non poteva per ciò stesso essere qualificato come

un diritto389.

386 Ethica B – Law - Ms. Locke, c. 28, f. 141 [1693], cit.; trad. it. Etica B, in SER, p. 172. 387 Cfr. J. Tully, A Discourse On Property, cit., p. 41. 388 L’interpretazione di Tully differisce ad esempio da quella di Philip Abrams, secondo il quale Locke rompe con la legge naturale tradizionale senza tuttavia seguire Hobbes. Abrams sottolinea che Locke cita Hooker in due occasioni nei giovanili Two Tracts : nel primo Tract, replicando a Bagshaw, dice di aver letto solo la Prefazione delle Laws e in quello latino comincia l’analisi della legge citando la definizione dal primo capitolo della Politica Ecclesiastica, mentre non cita Hobbes. Secondo Abrams il debito di Locke verso Hooker è discutibile: questa citazione avrebbe avuto lo scopo di distrarre l’attenzione dal proprio volontarismo (a fondamento della legge non sta la ragione, ma la volontà divina; il Dio ebraico non è inteso come Ragione, come sarà il Logos greco, la sua legge non è valida perché razionale, ma esclusivamente perché voluta da lui), che era visto da Locke come la sola posizione in grado di supportare un certo grado di autoritarismo politico. La visione della legge di Hooker era invece differente: l’obbligazione non deriva da una supposta autorità del legislatore ma dallo scopo autoevidente della legge, cioè quello di realizzare un ordine. Per Locke era una posizione affascinante: egli avrebbe voluto occuparsi delle leggi e non del legislatore, come base sufficiente dell’obbligazione, e nel Tract in latino cerca di risolvere la questione della legge senza richiamarsi al potere. Ma quel che lo distanziava da Hooker – secondo Abrams - era il grande assunto cristiano dell’accesso alla natura e agli scopi di Dio, che per il teologo anglicano era indiscutibile. La generazione di Locke non avrebbe conosciuto invece questa fiducia, e per questo egli dovette discutere la legge in termini volontaristici. Cfr. P. Abrams, Introduction, Two Tracts, cit., p. 70. Sull’argomento si veda anche Laslett, il quale afferma che la Politica Ecclesiastica fu di estrema importanza per il pensiero politico di Locke, che lo acquistò nel giugno del 1681, scegliendone estratti che annotò sul proprio diario e che trascrisse anche nel Secondo Trattato. Cfr. P. Laslett Introduction, Two Treatises of Government, cit., pp. 56-57. 389 Locke stava dicendo che le leggi naturali sono conosciute dalle loro cause finali o fini, e non dalla loro essenza, e che la legge di natura armonizza l’attività umana in modo da coinvolgere tutta la comunità così che anche la moralità di un’azione doveva essere valutata tenendo sempre conto della conservazione dell’umanità. E ciò naturalmente significava legare la moralità agli scopi e al volere di Dio. Questo tipo di dottrina della legge di natura – osserva Tully – secondo cui

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La legge fondamentale di natura, come si è visto, prescrive innanzitutto che l’uomo conservi se

stesso e, più in generale, la sua specie. A tal fine Locke sottolinea come Dio abbia provvisto le sue

creature di un ambiente con il nutrimento e tutto quel che occorre alla vita390. Tully assume che

nello stato di natura lockiano vi sia un dominio comune sul creato391, ma che vi siano anche diritti

di proprietà per realizzare gli scopi divini – l’appropriazione come primo dei mezzi per la

conservazione dell’umanità392. Restava dunque da capire in che modo tali diritti di appropriazione

dovevano essere distribuiti, e il lavoro - secondo Tully - è la chiave per comprendere la risposta di

Locke393.

In completo dissenso da Macpherson, Tully ritiene che la dottrina lockiana sia una teoria limitata

dei diritti, dal momento che il filosofo inglese, muovendosi costantemente nell’ambito di una legge

di natura, riconduceva tutti i diritti ai fini stabiliti da Dio, al cui vertice vi era la conservazione

dell’umanità394. Egli avrebbe di conseguenza elaborato una spiegazione di carattere teorico del

modo in cui la proprietà deve essere distribuita secondo la legge e i diritti naturali, aspetto che

secondo Tully rende i Due Trattati non una giustificazione della proprietà privata ma semmai una

difesa del bene comune inglese395.

Locke non avrebbe inteso difendere un diritto ad una proprietà assoluta ed esclusiva per sé, ma il

diritto dell’uomo di fare uso dei mezzi per il proprio mantenimento e per quello di altri396.

Egli intendeva porre l’accento anche sul dovere d’uso e di miglioramento del bene lavorato397,

escludendo in modo chiaro un potere di vita su un altro e riconoscendo un diritto al superfluo del

fratello bisognoso per dovere di carità398. Quest’ultima, insieme all’eredità, era considerata da

Locke un titolo d’acquisto della proprietà, oltre al lavoro399.

tutte le cose devono essere riferite agli scopi divini è tradizionalmente tomista: l’uomo non è libero di stabilire i fini ultimi, ma è libero (e ha il dovere) di stabilire i mezzi per realizzarli in circostanze date. Cfr. J. Tully, A Discourse On Property, cit., pp. 46-48. 390 Cfr. T1, 86. 391 Cfr. T2, 26. 392 Cfr. J. Tully, A Discourse On Property, cit., p. 121. 393 Cfr. ivi, pp. 118 ss. 394 Sul finalismo che Locke riprenderebbe da Aristotele, teso in ultima analisi alla felicità, cfr. LL, pp. 10-11. Cfr. anche H. Aarsleff, The State of Nature and the Nature of Man in Locke, cit., pp. 121; 126-127. 395 Cfr. J. Tully, A Discourse On Property, cit., p. 130. 396 Cfr. T1, 88. 397 Cfr. T2, 37; 40-43. 398 Cfr. T1, 42. Sul dovere di carità cfr. anche LT, p. 142 e p. 146. Tully ricorda a tal proposito le indicazioni pedagogiche dei Pensieri sull’educazione e le considera come parola definitiva di Locke sul tema della proprietà (A Discourse On Property, cit., p. 176). Locke spiega infatti che «per ciò che riguarda il possesso delle cose, insegnate ai bambini a far parte agli amici di ciò che hanno, con facilità e con larghezza; […] L’avidità e la brama di avere in nostro possesso e sotto il nostro dominio più di quanto ci occorre, essendo l’origine di tutti i mali, dovranno essere subito ed energicamente combattute, cercando in pari tempo di sviluppare la qualità contraria, cioè la disposizione a donare e a dividere con gli altri». PE [110], p. 144. 399 Cfr. T2, 42.

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Ma Tully enfatizza altresì la dimensione familiare – cioè comunitaria - della proprietà, notando

che «la forma standard di diritto proprietario non è per Locke un diritto individuale, ma un diritto

comune goduto da tutta la famiglia e, se necessario, da un nucleo di affini»400, e ciò perché egli era

consapevole che la conservazione dell’umanità passava attraverso la conservazione della sua unità-

base: la famiglia401. Tully ritiene pertanto che Locke abbia distrutto il fondamento dei diritti

individuali, l’idea cioè che il proprietario fosse il patriarca capo di una famiglia, che era stato

invece di Grozio, Hobbes, Filmer e Pufendorf402. Ad un’impostazione gerarchica della famiglia,

Locke avrebbe sostituito quella di una società di base – la famiglia - caratterizzata dalla comunanza

dei beni e dalla reciproca assistenza.

Quanto alla lettura classista di Macpherson, Tully ritiene che questi abbia riformulato la

relazione padrone-servo nei termini di una relazione capitalista-proletario sulla base di

un’inferenza non corretta, a partire dall’affermazione lockiana di un diritto naturale a procurarsi i

mezzi di sussistenza con il lavoro. Esaminando con attenzione il passo nel quale Locke spiega che

«un uomo libero può farsi servo di un altro col vendergli, per un certo tempo, il servizio che

prende a prestare, in cambio di una paga che riceve»403, Tully spiega che il filosofo si riferisce ad un

contratto che presuppone chiaramente la libertà di entrambi i contraenti e che pertanto «la

relazione padrone-servo è una relazione volontaria sia nello stato di natura sia nella società

civile»404.

Laddove non vi sia questa condizione (la libertà di fare o meno un accordo), e non vi sia

alternativa per uno dei due, allora l’uomo non è libero e la relazione padrone-servo non può

sorgere: «Se un uomo è condotto dalla necessità a lavorare per un altro, la relazione si basa sulla

costrizione e si configura, ipso facto, come rapporto tra signore e vassallo»405.

Il presupposto del capitalista è invece l’appropriazione di tutta la terra disponibile, cosicché il

lavoratore è costretto a lavorare per un altro uomo; ma Locke stava esplicitamente negando che il

400 J. Tully, A Discourse On Property, cit., p. 133 (trad. mia). 401 Cfr. T1, 88-89. Una tesi condivisa da Michael Zuckert, il quale rifiuta l’idea che Locke avesse in mente uno stato di natura individualistico e atomistico, e trova in lui un’affermazione della radice comunitaria dell’umanità. L’io lockiano, per Zuckert, è molto distante dall’io astratto dei liberali al quale si riferiscono ad es. i comunitaristi moderni; è invece un io che vive di esperienze e scambi con il proprio ambiente. Cfr. LL, p. 7. Sul nucleo familiare come elemento chiave in Locke per la spiegazione dell'origine dello Stato e dell'uscita dallo stato di natura si veda inoltre: G. J. Schochet, The Family and the Origins of the State in Locke's Political Philosophy, in J. Yolton, John Locke: Problems and Perspectives, cit., pp. 81-98. Anche per Fassò tanto in Pufendorf quanto in Locke l’assoluto individualismo, cioè uno dei caratteri che si attribuiscono alla scuola del diritto naturale, «non sussiste affatto». Cfr. G. Fassò, Storia della filosofia del diritto: L’età moderna, cit., II, p. 162. 402 Cfr. J. Tully, A Discourse On Property, cit., p. 133. 403 T2, 85; p. 286. 404 J. Tully, A Discourse On Property, cit., p. 137 (trad. mia). 405 Ibid.

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padrone potesse costringere un uomo a lavorare per lui in condizioni simili, così da ridurlo in

schiavitù406.

Tully conclude che tutto ciò impedisce di scorgere nella teoria lockiana una figura di capitalista:

questi «non solamente non appare mai nei Due Trattati, ma non c’è posto per lui»407. Locke

distingue infatti lo status del servo da quello dello schiavo – contrariamente a Filmer, che li

identificava - e a differenziarli era proprio una condizione di libertà o di costrizione: il servo non è

interamente alla mercé di un altro uomo, è padrone della propria persona e volontà, ed offre

solamente il proprio lavoro in cambio di una paga; lo schiavo non è in possesso della sua vita o

libertà, né delle sue azioni, e dunque neppure è capace di proprietà408.

In conclusione, secondo Tully – che richiama inoltre gli studi di Ryan409 e di Hundert410 -

Macpherson ha imputato a Locke una relazione economica fondata sulla forza che il filosofo

inglese al contrario stigmatizzava411. Come è stato osservato, il capitalista nell’acquisto del lavoro di

un agente e nella sua direzione distrugge la sua autonomia, e questo per Locke implicava la

distruzione della sua umanità, quella combinazione di ideazione e di esecuzione che rende un

essere umano come Dio. Da questo punto di vista colui che viene diretto nelle sue azioni è come

uno schiavo, al quale Locke contrappone la figura del servo, il quale conserva invece una sovranità

sul proprio lavoro e sulla propria volontà. È questo aspetto che Tully mette in primo piano e che

oppone all’analisi di Macpherson, anche alla luce di una analisi storica delle relazioni socio-

economiche del tempo in cui Locke scriveva, in quanto costituisce a suo avviso il principale

impedimento che la teoria lockiana offriva al totale controllo/possesso del processo capitalistico412.

Quanto alla moneta, Tully ritiene che Locke segua il modello aristotelico e ne illustra

l’introduzione ponendo l’accento sulla bramosia che derivava dalla diseguaglianza dei possessi e dal

baratto: con la moneta diventava possibile eccedere i limiti della giusta proprietà dal momento che

consentiva un accumulo non deperibile413.

Come nella Politica di Aristotele, anche in Locke l’ingresso della moneta discende dal baratto,

avviene per consenso in una società prepolitica e soddisfa il bisogno umano di accumulare più di

406 Cfr. T1, 42 e T2, 36. 407 J. Tully, A Discourse On Property, cit., p. 138. Si veda, su questa linea, M. Merlo, La legge e la coscienza, cit., pp. 121-122. 408 Cfr. T2, 85. 409 A. Ryan, Locke and the Dictatorship of the Bourgeoisie, in «Political Studies», 13 (1965), pp. 219-30. 410 E. Hundert, The Making of homo faber: John Locke Between Ideology and History, in «Journal of the History of Ideas», 33 (1972), pp. 3-22. 411 Cfr. J. Tully, A Discourse On Property, cit., p. 138. 412 Cfr. ivi, pp. 141-45. 413 Cfr. T2, 46.

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quanto si abbia bisogno414. L’aspetto problematico è rappresentato dal fatto che l’invenzione della

moneta consente di accrescere i possessi415 e la popolazione, e ciò minaccia di condurre ad una

situazione nella quale alcuni sono esclusi dall’esercizio dei propri diritti naturali. È questo che

rende indispensabile l’istituzione della società politica416.

Per Tully la motivazione principale per l’ingresso nella società politica si rinviene allora

nell’analisi lockiana della moneta: per Locke, «le relazioni sociali conducono naturalmente ad una

giusta società solamente quando il denaro è assente; esso distrugge quest’ordine naturale e il

governo è allora necessario per costituire un nuovo ordine di relazioni sociali che ricondurranno le

azioni degli uomini alle intenzioni di Dio»417.

Solo alla luce di quanto sopra, secondo Tully, si può comprendere correttamente la posizione

lockiana: «La proprietà e la società politica stanno così come mezzi necessari all’adempimento degli

altri doveri morali dell’uomo, quei doveri religiosi che sostengono e confortano se stessi e gli

altri»418 e che hanno come sfondo la cura divina per l’umanità.

e) e) e) e) L’appello a Dio nel cielo: obbligo politico e limiti del potere L’appello a Dio nel cielo: obbligo politico e limiti del potere L’appello a Dio nel cielo: obbligo politico e limiti del potere L’appello a Dio nel cielo: obbligo politico e limiti del potere

La questione fondamentale per la genesi dei Due Trattati «non è se esista un potere, né donde esso

provenga, ma chi debba averlo»419. Se infatti gli uomini sono tra loro uguali e liberi, il sorgere

dell’autorità e della comunità politica richiede una riflessione.

Il problema del passaggio dallo stato di natura alla società civile è decisivo nella teoria politica

lockiana, così come la nascita di un governo legittimo420, dal momento che per Locke è solo nei

confronti di quest’ultimo che si ha un obbligo politico. Non la proprietà, o il potere paterno, ma

esclusivamente il consenso [consent] dà origine secondo Locke ad un’autorità politica legittima, e

pertanto all’obbligo politico.

414 Cfr. J. Tully, A Discourse On Property, cit., p. 147. 415 Cfr. T2, 48-49. 416 Cfr. T2, 123 e 136. 417 J. Tully, A Discourse On Property, cit., p. 154 (trad. mia). 418 Ivi, p. 175. 419 T1, 106; p. 174. 420 Cfr. T2, 104; 106. Tully arriva a leggere la modalità con cui gli uomini costituiscono secondo Locke il legislativo – «l’anima che dà forma, vita e unità alla società politica» (T2, 212) - come una imitazione di Dio stesso: «nel realizzare una forma di governo gli uomini imitano la creazione dell’uomo da parte di Dio, quando essi attribuiscono un’anima e una vita alla loro società». L. Tully, A Discourse On Property, cit., p. 160. Si vedano inoltre: J. Rawls, Lezioni di storia della filosofia politica, cit., pp. 131-147; M. Seliger, The Liberal Politics of John Locke, cit., pp. 267-293; F. Battaglia, Introduzione, Antologia degli scritti politici di John Locke, Il Mulino, Bologna 1962, pp. 5-33, in part. 29 ss.

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In questa tesi cruciale Tully rileva l’opposizione del filosofo alle dottrine sull’istituzione divina

del governo che si stavano affermando al suo tempo: dal momento che le teorie sul diritto divino

dei re apparvero solo nel XVI secolo in Europa, e in Inghilterra nel XVII, Filmer era considerato da

Locke un «riformatore della politica»421. Il filosofo manifestava così una posizione conservatrice,

che aveva spiegato sostenendo che, con il venir meno del principio per il quale gli uomini non

sono naturalmente liberi, «i governi devono tornare alla maniera antica, di essere costituiti con il

concorso e il consenso degli uomini»422.

La fedeltà di Locke alla “vecchia maniera” è un conservatorismo radicale – un invito a tornare agli antichi, fondamentali principi della politica. Sembra essere questa anche una giusta descrizione della sua collocazione all’interno della tradizione della legge di natura, poiché egli riedificò il costituzionalismo in opposizione all’uso innovativo della legge di natura fatto da Grozio e da Pufendorf per stabilire l’assolutismo. Certamente Locke vedeva se stesso in questa luce 423.

Seguendo Aristotele, Locke rintraccia nella natura umana una inclinazione alla socialità e questo

ha condotto a ritenere che il suo stato di natura fosse, fondamentalmente, benigno424. Tuttavia egli

fa ugualmente riferimento alle inclinazioni, alle passioni e agli affetti che generano conflitto e

disgregazione425 e, alla luce di ciò, troviamo espressa la necessità di un cambiamento di condizione,

di un’uscita dallo stato di natura. La nascita della società politica si configura allora come esito di

una decisione umana, non di una costrizione né di una provvidenza divina.

In primo luogo è il principio di autoconservazione a spingere gli uomini verso una parziale

limitazione del potere individuale di essere esecutori della legge di natura, a favore di un potere

“superiore” che la renda esecutiva426. La società politica sorge con il fine di conservare e

promuovere i beni e la libertà degli uomini: tutti i membri della società devono essere perciò

salvaguardati427. In tal senso, la comunità e le istituzioni di governo sono un prodotto artificiale,

atto a soddisfare un certo scopo428.

421 T1, 106; p. 174. 422 T1, 6; p. 80 (corsivo mio). «Molto presto nella sua vita Locke giunse alla conclusione che qualsiasi giustificazione dell’autorità politica dovesse provenire o da una diretta designazione divina o per consenso del popolo» R. Ashcraft, Locke’s State of Nature: Historical Fact or Moral Fiction?, cit., p. 912 (trad. mia). 423 J. Tully, A Discourse On Property, cit., p. 157 (trad. mia). 424 Cfr. T2, 77. 425 Cfr. T2, 13. Sull’influenza delle passioni, come pure dei pregiudizi, della presunzione e dello spirito gregario si veda anche La Condotta dell’Intelletto [§§ 3; 34; 41], SER, pp. 640-646; 703-705; 712-715. 426 Cfr. T2, 89. 427 Cfr. T2, 149; 159. 428 Su questo aspetto cfr. A. W. Sparkes, Trust and Teleology: Locke’s Politics and his Doctrine of Creation, cit., pp. 125-126.

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Tully ha spiegato che Locke costruisce la società politica secondo il modello aristotelico delle

quattro cause429. La causa materiale della civitas è il potere naturale che gli uomini detengono nello

stato di natura, il quale consiste nel fare di tutto per conservare se stessi e gli altri430 e nel punire le

trasgressioni della legge naturale431. A questo potere – e non ai propri diritti naturali – si rinuncia

con l’ingresso nella società civile.

La causa efficiente è il consenso, attraverso il quale si diventa membri del commonwealth432. La

maggioranza decide l’attribuzione del potere stabilendo anzitutto il legislativo, inteso come corpo,

che farà leggi per tutti «secondo che il pubblico bene della società richieda»433.

La causa formale si identifica con la collocazione del potere supremo, il legislativo, e sarà

oligarchica o democratica in base alla costituzione434. Ciò comporta che, in caso di dissoluzione del

governo, la società continua a sussistere anche se priva di forma: così se la società si dissolve (come

nel caso di un’invasione straniera) anche il governo è compromesso; ma se il governo è dissolto

non necessariamente lo è anche la società435.

La causa finale, ovvero lo scopo del governo, si identifica invece con la conservazione della

comunità, dei suoi membri e della loro proprietà436, che costituisce anche il contenuto della legge

di natura. Il fine della società politica (e quindi del legislativo) è il bene comune di tutti e di

ciascuno: «Come Cumberland e Suarez, Locke impiega il bene comune come un principio

distributivo. Dal momento che il bene comune è il fine naturale della conservazione applicata alla

società politica, equivale al bene o conservazione di ciascuno»437. Per Locke lo Stato si pone in

primo luogo a salvaguardia del principio di conservazione: la sua origine è convenzionale e siglata

dal consenso438.

429 Cfr. L. Tully, A Discourse On Property, cit., pp. 158 ss. 430 Cfr. T2, 129. 431 Cfr. T2, 136. 432 Cfr. T2, 99. Sul consenso espresso e il consenso tacito cfr. T2, 119 – 122. 433 T2, 89 ; p. 289. 434 Cfr. T2, 132. 435 Cfr. T2, 211. 436 Cfr. T2, 135; 143; 171. 437 L. Tully, A Discourse On Property, cit., p. 163 (trad. mia). 438 I teorici della Seconda Scolastica prestavano particolare considerazione alla socialità degli uomini, al loro bisogno di vivere in comunità e ritenevano la loro condizione naturale “sociale”, anche se non politica. L’uomo dunque è non solo in grado di creare una società politica, ma in qualche modo deve crearla. I tomisti avevano dedotto la necessità di una società politica a partire dalla nozione di uno stato di natura immaginario; in tale condizione, priva di leggi positive, gli uomini sono liberi ed eguali, ma - in assenza di una sottomissione alle norme di diritto positivo - esposti anche a crescenti ingiustizie e incertezze. Bellarmino considerava un errore non riconoscere che la società politica non è concessa da Dio ma è opera dell’uomo, e che «la base della sovranità non è la grazia, bensì la natura» (cfr. De membris Ecclesiae, III). E così Suarez, il quale riteneva il potere politico instaurato dagli uomini per i propri scopi, secondo la legge di natura. Secondo Suarez, se gli uomini avessero continuato a vivere in società prepolitiche sarebbero stati esposti a crescenti ingiustizie e incertezze. Ciò che rendeva necessaria una società politica era dunque la ricerca del benessere e la conservazione del bene comune. Per Suarez Dio non conferisce il potere in sé ma soltanto la capacità di creare una

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È opportuno ricordare che già nel giovanile Saggio sulla tolleranza si trovava una definizione del

potere politico che aveva per fine il bene, la conservazione e la pace tra i membri, dalla quale si

evince il carattere limitato della monarchia inglese439. Locke afferma

che tutta quanta la fiducia, il potere e l’autorità di cui il magistrato è investito non ha altro scopo che quello di essere usata per il bene, la conservazione e la pace degli uomini che fanno parte della società alla quale egli è preposto, e che perciò questo soltanto è e deve essere il canone e il criterio a cui egli deve commisurare e adattare le sue leggi e su cui deve modellare e organizzare il suo governo. Infatti, se gli uomini potessero vivere insieme pacificamente e tranquillamente senza unirsi nella subordinazione a determinate leggi ed entrare a far parte di una società politica, non ci sarebbe nessun bisogno affatto di magistrati o di politica, poiché questi sono costituiti al solo scopo di preservare in questo mondo gli uomini dalla frode e dalla violenza reciproca; sicché ciò che è stato scopo dell’instaurazione del governo dovrebbe, esso soltanto, essere il criterio della sua azione440.

Anche nella Lettera sulla tolleranza egli spiega che i beni civili che lo Stato è tenuto a conservare e

promuovere sono «la vita, la libertà, l’integrità fisica e l’assenza di dolore, e la proprietà di oggetti

esterni, come terre, denaro, mobili, ecc»441.

Nella Seconda Lettera sulla tolleranza Locke cita Hooker, il quale, richiamandosi alla prima

Lettera di Pietro (2, 13), aveva definito le società politiche invenzione e istituzione umana442 e nel

Primo Trattato spiega che la monarchia assoluta poggiava sulla negazione della libertà naturale

degli uomini443.

L’origine della società politica non risiede semplicemente in una naturale propensione dell’uomo

a vivere in società, secondo Locke, ma «nell’evitare e rimediare a quegl’inconvenienti dello stato di

natura, che necessariamente conseguono al fatto che ciascuno è giudice nella propria causa, con

l’istituzione di un’autorità riconosciuta»444.

società politica, così che essa sia al medesimo tempo possibile e necessaria agli uomini. Circa il modo in cui avviene il passaggio dallo stato di natura alla società politica, per i tomisti si attuava comunque attraverso il consenso: il popolo delega i suoi poteri a qualcuno per il bene comune e la conservazione della comunità. Con l'introduzione del "consenso" veniva pertanto salvaguardata la libertà umana. Cfr. F. Suarez, Trattato delle leggi e di Dio legislatore, III, a c. di O. De Bertolis, F. Todescan, Cedam, Padova 2013, in part. capp. I-IV, pp. 5-48. Per una presentazione del pensiero di Suarez si veda inoltre: D. Alonso-Lasheras S.J., Francisco Suarez, teologo morale, in ivi, pp. IX-XXXIX. Come ha osservato Skinner, i tomisti «si allontanarono deliberatamente dal tipo di filosofia scolastica elaborato da Ockham e dai suoi discepoli, avvertendo che esso era troppo intimamente legato alle eresie dei luterani, soprattutto nella sua analisi scettica sui poteri del raziocinio umano. In sua vece, i tomisti ritornarono alle premesse fondamentali della via antiqua, sostenendo la capacità di usare la ragione per fornire le basi morali della vita politica. Fu sulla base di questo rifiuto della via moderna, che sorse la teoria ortodossa della Controriforma sulla società politica». Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 217. 439 Cfr. PPL, pp. 41-55. 440 ST, pp. 89-90. 441 LT, p. 135. 442 Seconda lettera sulla tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, cit., p. 253. 443 Cfr. T1, 6. Sulla persistenza, nella monarchia assoluta, di un giudice privato si veda: M. Prospero, La politica moderna, Carocci, Roma 2006, pp. 59-63. 444 T2, 90; p. 289.

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È nel passaggio alla società politica che si coglie infatti la distanza di Locke da Filmer e la sua

vicinanza alla linea tomista della Seconda Scolastica: il consenso, e non il diritto paterno,

determina il sorgere di un governo e l’obbligo politico. E il consenso, per come Locke lo intende,

ha un doppio contenuto: l’associazione dei membri (pactum unionis) e la soggezione ad un

magistrato (pactum subjectionis)445, cosicché la modalità di fondazione della società politica,

mediata da una legge di natura, è un aspetto essenziale che avvicina la teoria politica di Locke alla

dottrina dei tomisti gesuiti e lo allontanava dalla maggioranza dei teorici politici anglicani,

rappresentati dall'assolutismo del Filmer, affine alla teoria luterana della potenza446. Come ha

rilevato Skinner,

Nel sottolineare la capacità innata di tutti gli uomini di comprendere la legge di natura, il principale obiettivo polemico dei tomisti era quello di sconfessare la tesi ereticale secondo cui l'instaurazione delle società politiche fosse stata decretata direttamente da Dio. Era loro intenzione al contrario poter asserire che tutti gli Stati secolari dovessero essere stati originariamente costituiti dai propri cittadini come mezzo per soddisfare i loro fini puramente mondani 447.

Con riferimento a questa vicinanza, Pareyson ha osservato che per Locke

la considerazione politico-filosofica è la continuazione delle dottrine democratiche del Cinquecento intorno al diritto di resistenza e alla sovranità popolare ch’entra in funzione all’atto di una violazione della costituzione da parte di uno qualsiasi degli organi di governo insigniti di sovranità dallo stesso popolo sovrano448 .

Anche Locke, sulla base della propensione all’autoconservazione, unita alla debolezza umana della

volontà morale, era giunto alla conclusione che nella comunità naturale in cui Dio ha collocato

l'umanità non si riuscirebbe a prosperare e a stento si potrebbe sopravvivere449. Può essere

interessante osservare inoltre che in tal senso furono proprio i gesuiti tomisti a segnare la frattura

con l’ordine precedente, al quale aderivano invece i luterani, i quali, riconducendo alla volontà

445 Cfr. T2, 14. Si veda su questo G. Bedeschi, Locke e le origini del costituzionalismo, cit., p. 274. 446 La tesi della non-resistenza al sovrano era sempre stata la dottrina della Chiesa anglicana. L’università di Oxford nel 1683 pubblicò un manifesto dove la non-resistenza incondizionata era proclamata ufficialmente come dottrina della Chiesa d’Inghilterra, anche se nel 1688, in occasione dello sbarco di Guglielmo in Inghilterra, il clero si rifiutò di sostenerla. Cfr. G. Trevelyan, La rivoluzione inglese del 1688-89, cit., pp. 33 e 90. 447 Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 226. Anche nel caso di Vitoria, Soto, Molina e Suarez, spiega Skinner, il popolo deve fornire il proprio consenso e la propria approvazione prima che un governante salga al potere. Il consenso veniva invocato da questi autori esattamente per spiegare come per un individuo libero sia possibile diventare suddito di uno Stato legittimo (cfr. ivi, p. 237). 448 L. Pareyson, Introduzione, Due Trattati, cit., p. 24. 449 Secondo Suarez le condizioni di vita in assenza di una società politica sarebbero alquanto primitive: famiglie divise, vita umana più breve, assenza di arti e funzioni necessarie all’uomo, il quale non potrebbe conoscere ciò di cui avrebbe bisogno. La pace potrebbe essere difficilmente conservata e una totale confusione sarebbe l’esito conclusivo. Cfr. F. Suarez, Trattato delle leggi e di Dio legislatore, III, c. I, 3, cit., pp. 10-11.

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divina anche l’origine delle società politiche, rendevano il sovrano un “principe devoto” con

doveri anche religiosi, investito di un’autorità che finiva per diventare assoluta.

***

A Filmer che parlava di eredità, di concessione, di usurpazione o di elezione, a proposito di chi

fosse legittimato a governare, mostrando così di avere a cuore non la legittimità di un governo ma

la sua effettività, Locke risponde con l’intenzione di risalire al titolo positivo che dà origine ad un

governo; da questa esigenza proviene l’affermazione della possibilità che esso si formi per consenso

degli uomini, designazione positiva di Dio, successione o contratto450.

L’idea lockiana che il passaggio dallo stato di natura alla società civile debba avvenire per

consenso451 è conseguenza logica dell’iniziale affermazione di libertà e uguaglianza degli uomini452:

Essendo gli uomini tutti naturalmente liberi, uguali e indipendenti, nessuno può essere rimosso da tale stato, ed essere sottomesso al potere politico altrui, senza il suo consenso. Consenso che gli permetterà di accordarsi con altri uomini onde unirsi e mettersi in società, per la loro conservazione, per la sicurezza reciproca, la tranquillità di vita, per il pacifico godimento della loro proprietà privata e per essere maggiormente al riparo dagli insulti di chi volesse nuocere e far loro del male453.

La società politica non è considerata da Locke come dono divino o come risultato della

provvidenza, ma come l’esito di un accordo – o patto - stipulato tra gli uomini. Ciò che dà origine e

rende stabile una società politica per Locke è la decisione di uomini liberi, e non - come

sostenevano gli assolutisti454 - il potere paterno455. Da questo segue anche l’illegittimità del governo

assoluto, poiché è incocepibile il consenso ad un potere assoluto: «Così, contro Filmer, Locke

sostiene che il consenso è una condizione necessaria della società politica, ma contro Hobbes

sostiene che non è sufficiente»456.

Come opportunamente ha messo in evidenza Ashcraft, Locke considerava la monarchia assoluta

incompatibile con la società civile, e la escludeva pertanto dal novero delle forme di governo

450 Su questo si veda N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà, cit., p. 91. 451 Cfr. T2, 102, 104, 105, 106, 112, 119, 175, 198. Su questo aspetto della filosofia politica lockiana cfr: W. Euchner, La filosofia politica di Locke, cit., pp. 213 – 231; J. Dunn, Consent in the Political Theory of John Locke, in « Historical Journal», 10 (1967), pp. 153-82; ora in CA, III, cit., pp. 524-556; P. Riley, On Finding an Equilibrium between Consent and Natural Law in Locke’s Political Philosophy, in «Political Studies», 22 (1974), pp. 432-452; ora in CA, III, pp. 557-583; A. Cavarero, La teoria contrattualistica nei “Trattati sul Governo” di Locke, cit., pp. 163 ss. 452 Cfr. T2, 87. 453 T2, 95; p. 297. 454 Cfr. P. Anderson, Lo Stato assoluto, Mondadori, Milano 1980. 455 Cfr. T2, 99. 456 R. Ashcraft, Locke’s State of Nature: Historical Fact or Moral Fiction?, cit., p. 912.

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civile. Poiché in una monarchia assoluta non si ha un giudice comune al quale appellarsi, dal

momento che il legislativo e l’esecutivo sono concentrati in una sola figura, essa si configurava ai

suoi occhi semplicemente come una variante dello stato di natura457.

Il principio di autoconservazione se fonda da un lato la società politica, dall’altro limita il potere

sovrano dal momento che questo non può attentare alla proprietà di qualcuno e soprattutto non

può concentrare in una sola figura tutti i poteri458. E qui Locke polemizza con Hobbes in

particolare, e con l’idea di un potere privo di limiti anche se di origine contrattuale459. Un

individuo non può consentire la propria schiavitù, né può cedere un potere di vita o di morte sulla

propria persona che anch’egli non ha, o avere l’intenzione che la propria condizione di vita

peggiori460.

e. 1. e. 1. e. 1. e. 1. «This is only a fiduciary power«This is only a fiduciary power«This is only a fiduciary power«This is only a fiduciary power » : il patto » : il patto » : il patto » : il patto politico come politico come politico come politico come relazione fiduciariarelazione fiduciariarelazione fiduciariarelazione fiduciaria

Una volta chiarita la centralità in Locke del consenso per l’obbligo politico di uomini liberi,

possiamo ora individuare la natura che egli attribuisce al potere politico.

Quando si riferisce al consenso, e ai limiti posti al potere civile, Locke ha in mente un potere

legittimo, dal momento che anche una tirannia è una forma di governo; egli sottolinea perciò più

volte che la concessione del potere politico dipende da una fiducia popolare, e che la prima viene

meno quando la seconda viene meno.

Ora, per comprendere quale significato di consenso Locke avesse in mente, occorre in primo

luogo distinguere l’uso che egli fa di tre termini: contract, compact e trust.

Notiamo in primo luogo che Locke utilizza la parola contract in soli tre ambiti461: riferendosi al

matrimonio come contratto tra l’uomo e la donna462; quando discute del rapporto servo-padrone463

e, infine, con riferimento agli accordi «liberi e volontari» tra gli uomini464.

457 Cfr. ivi, pp. 913-14. 458 Cfr. T2, 143. 459 Locke si era espresso in precedenza contro questa tesi nel Saggio sulla tolleranza: «Ci sono altri che affermano che l’intero potere ed autorità che il magistrato detiene deriva dalla concessione e dal consenso del popolo. A costoro io dico che non è possibile supporre che il popolo conferisca a una o più persone una autorità sopra se stesso che abbia scopo diverso dalla propria salvaguardia, o che estenda i limiti della loro giurisdizione al di là dei limiti di questa vita». ST, p. 91. 460 Cfr. T2, 131. 461 Pare opportuno richiamare la distinzione tra contratto [contract] e patto [covenant] tracciata da Hobbes, il quale aveva osservato che con il primo si intende «il mutuo trasferimento del diritto» (Leviatano, I, XIV, 9, p. 219) mentre nel secondo caso «uno dei contraenti può consegnare, da parte sua, la cosa oggetto del contratto e lasciare che l’altro faccia la sua parte successivamente in un tempo determinato, fidandosi nel frattempo di lui; allora il contratto, per parte sua, si

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Si trova poi il termine compact, che Locke impiega in un numero limitato di occasioni,

principalmente per indicare l’accordo dal quale ha origine la società politica: egli parla di contratto

originario [original compact] quando si riferisce all’atto con gli individui si incorporano in una sola

società, costituiscono il corpo politico [commonwealth] e si sottomettono all’obbligazione della

maggioranza465, oppure riferendosi allo status di sudditi o membri di una società politica («si

diventa tali soltanto entrandovi attualmente, con un impegno positivo, e con una promessa

[promise] e un contratto [compact] espressi»466). L’autore dei Due Trattati definisce come segue

l’accordo a riunirsi in una società politica: «il contratto [compact] che vi è o vi dev’esser fra

gl’individui [individuals] ch’entrano in un corpo politico [commonwealth] o lo costituiscono»467.

Un ulteriore richiamo al compact si ha con riferimento al potere di fare leggi per la

conservazione del genere umano che «trae origine unicamente dal contratto [compact] e

dall’accordo [agreement] e dal mutuo consenso [mutual consent] di quelli che costituiscono la

comunità»468. Si può pertanto concludere che per patto Locke intenda «l’atto con il quale si esce

dalla “confusione e disordine” dello stato di natura e si dà luogo alla società»469.

***

Vediamo ora come Locke pensa invece l’origine del governo, l’atto con cui si pone questo nelle

mani di qualcuno, l’investitura del sovrano. Per esprimere la natura propria del potere politico, e

dunque il rapporto tra governanti e governati, egli utilizza – assai significativamente - il termine

trust 470.

chiama patto o accordo [pact or covenant]; oppure entrambe le parti possono contrattare al momento per adempierlo in seguito; in questi casi, poiché chi deve adempierlo nel futuro riceve fiducia, l’adempimento del patto si chiama mantenimento della promessa [keeping of promise]) o fiducia [faith] e il suo mancato adempimento (se è volontario) violazione della fiducia [violation of faith]». Id., Leviatano, (I, XIV, 11) cit., pp. 219-221 (corsivo nel testo). 462 Cfr. T2, 81 e 82; ma Locke utilizza in questo caso anche il termine compact, spiegando che «la società coniugale è costituita da un contratto volontario [by a voluntary compact] fra uomo e donna», il quale consiste principalmente «in quel diritto dell’uno sul corpo dell’altro [right of access to one another’s bodies]». T2, 78; p. 282. 463 Cfr. T2, 85. 464 Cfr. T2, 194; p. 373. 465 Cfr. T2, 97 e 99; LT, p. 167. Si veda su questo C.A.Viano, Dal razionalismo all’illuminismo, cit., pp. 249 ss. 466 T2, 122; p. 317. 467 T2, 99; p. 300. 468 T2, 171; p. 358. 469 M. Merlo, Potere naturale, proprietà e potere politico in John Locke, cit., p. 162. 470 Cfr. T2, 105; 110; 112; 142; 147; 149; 155; 156; 161; 164; 167; 202; 221; 222; 226; 227; 228: 231; 239; 240; 242.

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Nel Secondo Trattato, per indicare ciò da cui l’esecutivo trae la sua autorità Locke non ricorre al

termine contract ma impiega il vocabolo trust471: si tratta di un aspetto estremamente rilevante,

che distingue da tutte le altre la teoria politica del filosofo inglese e ci consente di coglierne la

derivazione teologica, nonché la dimensione morale472.

Secondo Onorato Bucci «è sulla base di questa consapevolezza storico-linguistica del testo

biblico, e quindi del recupero della terminologia pattizia concernente l’Alleanza (berith, διαθήκη,

foedus), che Locke fonda la sua dottrina contrattualistica»473.

Sulla differenza tra obbligazione politica e obbligazione derivante dal contratto-scambio si è

soffermato Gianfranco Miglio, il quale ha messo in evidenza come la prima si distingua dalla

seconda quanto ai soggetti e alla struttura del rapporto che si genera, nonché con riferimento ai

limiti, al contenuto e al fattore tempo. Miglio ha osservato che mentre l’obbligazione politica si

caratterizza per un rapporto fiduciario, stabilito in ultima analisi sulla fedeltà, il rapporto

contrattuale funziona tanto meglio quanto più sono definite con esattezza le condizioni della

relazione di scambio, laddove sono anche previsti casi di forza maggiore, all’opposto di quel che

accade invece nel rapporto di fedeltà, per concludere che «un vincolo politico che non poggiasse

sulla fedeltà sarebbe un vincolo su cui nessuna aggregazione politica potrebbe mai fondarsi»474.

Se applichiamo questa conclusione di Miglio alla dottrina lockiana noteremo che quando fa

riferimento al potere sovrano Locke ha in mente proprio un potere che si affida a qualcuno, che si

mette nelle mani di altri su base fiduciaria, «onde sia esercitato secondo il meglio della loro

abilità»475, sempre per il bene pubblico476 e comunque sottoposto all’autorità di una legge

471 Cfr. T2, 149 e 156. Per una illustrazione generale della nozione di obbligo/obbligazione come momento genetico di una convivenza politica e come fonte della legittimazione, anche con riferimento allo sviluppo del suo significato a partire dall’eredità antica di obligatio, e in considerazione della differenza tra obligatio come lex civilis in Hobbes e come trust in Locke, si veda la voce curata da Lorenzo Ornaghi: Obbligo politico, in «Enciclopedia delle Scienze Sociali», Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1996, VI, pp. 286-295, in part. 290-291. Cfr. anche J. Dunn, Trust, in R. Goodin, P. Pettit (eds.), A Companion to Contemporary Political Philosophy, Basil Blackwell, Oxford 1993, pp. 638- 644; M. Merlo, Potere naturale, proprietà e potere politico in John Locke, cit., pp. 165-169. Anche Guido Fassò osserva che in Locke i limiti al potere «più che dalla volontà dei contraenti sono posti infatti allo Stato dalla legge di natura e dal rapporto di fiducia (trust) stabilito fra governanti e governati dal consenso (consent) di questi ultimi»; «Lo Stato lockiano nasce infatti non tanto dal pactum subiectionis quanto dalla concessione di una fiducia (trust) da parte del popolo ai governanti: idea che non rientra, a rigore, nello schema del contratto sociale giusnaturalistico secentesco». Id., Storia della filosofia del diritto: L’età moderna, cit., II, pp. 162-163 e 166. Cfr. anche G. Solari, La formazione storica e filosofica dello stato moderno, Guida, Napoli 1974, p. 51. 472 Sullo sfondo morale della promessa in Locke cfr. M. Button, Contract, Culture, and Citizenship: Transformative Liberalism from Hobbes to Rawls, Pennsylvania State University Press, University Park 2008, pp. 87 – 171, in part. 97 – 104. 473 O. Bucci, L’eredità giudaico-cristiana nella dottrina contrattualistica europea, Giuffré, Milano 2007, pp. 91-92. 474 G. Miglio, Lezioni di politica, I-II, a c. di D. G. Bianchi e A. Vitale, Il Mulino, Bologna 2011 (Scienza della politica – II), pp. 153-185, qui p. 178. 475 T2, 147; p. 339. Sul significato della fiducia nella teoria politica di Locke cfr. W. von Leyden, Hobbes e Locke, cit., pp. 189-204.

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promulgata. Da questo punto di vista non si deve trascurare l’importanza che aveva per Locke un

Dio il cui governo sul creato è sottoposto ad una legge stabilita ed immutabile, di infinita giustizia,

sulla base della quale anche le creature ricevono un giudizio finale.

Inoltre il termine trust, che sottintende un affidamento, una fiducia profonda, rinvia ancora una

volta ad un assenso individuale477; aspetto che sta o cade con l’elemento consensuale valorizzato da

Locke478. Anche nei Saggi sulla legge naturale Locke aveva richiamato l’attenzione sul fatto che la

fiducia costituisce il «vincolo interno della società stessa»479.

Ma il miglior esempio di ciò che Locke intende con trust si ha nel Secondo Trattato, dove

riferendosi al legislativo afferma che «non è che un potere fiduciario di deliberare in vista di

determinati fini [this is only a fiduciary power to act for certain ends]» e che «rimane sempre nel

popolo il potere supremo di rimuovere o alterare il legislativo, quando vede che il legislativo

delibera contro la fiducia in esso riposta [when they find it acting contrary to the trust that had

been placed in it]»480.

In altre parole, proprio in quanto il potere supremo presuppone un atto di fiducia, si può dire che

è soggetto ad un reale limite che comporta la possibilità che essa venga ritirata.

Addirittura, riferendosi al re, al supremo esecutore, Locke parla di «una duplice fiducia posta in

lui [He has a double trust put in him]», che riguarda «la partecipazione al legislativo e la suprema

esecuzione della legge»481. Ma non bisogna dimenticare che tutto questo aveva sempre come

sfondo una legge di natura:

[…] d’altro canto, senza la legge naturale è impossibile pensare a un adempimento fedele dei contratti, e quindi è impossibile il costituirsi stesso della società civile o politica; infine, se non esistesse la legge naturale, il potere dei governi

476 Cfr. in part. T2, 156 e 167. Si veda anche il primo Tract del 1660, sulla fiducia reciproca che intercorre tra il principe che cerca il bene del popolo e il popolo che gli presta obbedienza: Se il magistrato civile possa legalmente imporre e determinare l’uso di cose indifferenti in rapporto al culto religioso, in Due Trattati, cit., p. 420. 477 È degno di nota che Hobbes faccia riferimento ad una fiducia/fede congiunta con l’assenso interiore e derivante da una persuasione d’animo, distinguendola dalla professione esteriore: cfr. De Cive [XVIII, 4], ed. cit., pp. 236-238. Anche Hobbes aveva poi introdotto la fiducia/trust con riferimento al patto (covenant) che, a differenza del contratto, ha luogo quando almeno una delle parti ha tempo per adempiere la propria obbligazione. In tal caso, osserva Hobbes, l’adempimento del patto prende il nome di mantenimento della promessa (keeping of promise) o fiducia (faith). Cfr. Leviatano [I, XIV, 11], ed. cit. pp. 219-221. 478 Recentemente Evan Fox-Decent ha fatto ricorso all’idea di relazione fiduciaria per spiegare l’esercizio legittimo dell’autorità di un governo e lo stato di diritto, come pure il rapporto tra legge e moralità, così da riflettere sul modo in cui tale idea può costituire il fondamento del dovere di obbedire alle leggi. La riflessione secondo la quale la “giusta” relazione tra lo Stato e i cittadini è di tipo fiduciario è esplicitamente lockiana, sebbene Fox-Decent citi Locke solo di passaggio e tenda a proiettare molte delle tesi del filosofo whig su Hobbes. Cfr. E. Fox-Decent, Sovereignty’s Promise: The State as Fiduciary, Oxford University Press, Oxford 2011. 479 SLN, VIII, p. 88. 480 T2, 149; p. 340. 481 T2, 222; p. 393.

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sarebbe illimitato e irresponsabile, e gli interessi dei cittadini non avrebbero tutela alcuna482.

Alla luce del discusso legame tra il Saggio e i Due Trattati, inoltre, non è di scarsa importanza

rilevare che nella nozione di trust è implicita una fiducia-assenso molto vicina a quella espressa dal

termine faith483, un assenso individuale che chiede il mantenimento di un impegno, di una

promessa. Una fiducia che può essere anche tradita484.

La stessa espressione fiduciary power utilizzata da Locke rinvia al latino fides (da cui fidelis),

termine che stava ad indicare un principio dal forte valore pragmatico, che garantiva il rapporto

tra due parti. La fides non era semplicemente una credenza religiosa, ma l’impegno solenne, la

lealtà, la veracità nel mantenere la parola data: su di essa si fondava l’alleanza tra gli Stati, il

matrimonio, l’amicizia485. Sulla fides era stabilito l’ordine complessivo di una comunità, sorto da un

accordo che implicava la fiducia delle parti ed escludeva l’inganno.

Possiamo dunque intendere il consenso lockiano che introduce gli uomini nella società politica

come un altro nome di fides486.

Vaughan ha osservato che attraverso la nozione di trust Locke intendeva evidenziare come la

posizione del sovrano non fosse di perfetta uguaglianza rispetto ai sudditi e suggerire così una

concezione assai più radicale: quella di una sua subordinazione, dal momento che la fiducia che

egli riceveva poteva essere ritirata: «The terms of the trust are liable to be revised at any moment

by those who granted it; nay, or any strict interpretation of the analogy, the trust itself is liable to

be entirely revoked»487.

Tuttavia la centralità che Locke assegna al concetto di trust, e il suo valore politico, prima che

dai Due Trattati si comprende dalla Lettera sulla tolleranza, dove sono indicati coloro che non

hanno diritto alla tolleranza dal magistrato. Tra di essi vi sono gli atei:

482 Cfr. G. Bedeschi, Locke e le origini del costituzionalismo, cit., pp. 263. Sul medesimo aspetto osserva perfettamente Mark Button: «The obligation to keep promises, and hence the very thing that makes such an act meaningful at all, can only come from the antecedent, binding authority of God and God’s will». Id., Contract, Culture, and Citizenship, cit., pp. 102. 483 Cfr. Saggio IV, XVIII, 2. Per Locke infatti la fede è un assenso dato ad una proposizione sul credito [trust] di colui che la professa come proveniente da Dio, cioè per rivelazione. 484 Cfr. in part. T2, 221. 485 Cicerone riteneva che etimologicamente la radice di fides riprendesse il verbo fio, parlandone nel libro quarto del De republica come di una realizzazione di quel che si è promesso o detto («Fides enim nomen ipsum mihi videtur habere, cum fit quod dicitur»). M. T. Cicerone, De republica, IV, 7, 7 in Opere politiche e filosofiche, cit., I, p. 355. Si consideri inoltre l’importanza attribuita alla fides da Cicerone nel Laelius de amicizia (cfr. L’amicizia, Milano, Bur 2007). Locke conosceva e apprezzava Cicerone, consigliando i suoi scritti – insieme a quelli di Virgilio, Livio e Cesare - per apprendere il giusto modo di parlare e di scrivere, cfr. Some Thoughts concerning Reading and Study for a Gentleman, in The Educational Writings of John Locke, cit., pp. 399-400; PE [184-186], pp. 244-246. 486Sul rilievo del rapporto fiduciario per Locke cfr. J. Kelly, Storia del pensiero giudirico occidentale, cit., pp. 273 – 276. 487 C. Vaughan, Studies in the History of Political Philosophy before and after Rousseau, I, cit., p. 146.

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In quarto e ultimo luogo, non devono in nessun modo essere tollerati coloro che negano che esista una divinità. Per un ateo, infatti, né la parola data, né i patti, né i giuramenti, che sono i vincoli della società umana, possono essere stabili o sacri; eliminato Dio anche soltanto col pensiero, tutte queste cose cadono488.

È essenziale capire che nel XVII secolo i giuramenti erano molto frequenti e richiesti in molteplici

occasioni della vita sociale e politica; altrettanto spesso, di conseguenza, erano disattesi, al punto

che il Test Act votato nel 1673 legava una carica civile o militare non ad un giuramento di

conformità ma alla partecipazione all’eucaristia secondo il rito della Chiesa d’Inghilterra; ciò al

fine di escludere dalle cariche i cattolici, i quali non avrebbero mai partecipato ad un sacramento

ereticale489.

Quanto agli atei, Locke li riteneva i nemici di Dio, i suoi negatori, e questa era una ragione

sufficiente per credere che avrebbero distrutto - o che non avrebbero mantenuto - i patti490. Dal

momento che non ammettono un aldilà, un giudizio, delle ricompense o delle punizioni per la

propria condotta, essi non sono realmente vincolati ai propri impegni e non sono meritevoli di

fiducia: «gli atei negano il principio stesso d’ordine soprannaturale, sul quale si basa l’umana

convivenza e pertanto lo stesso principio della tolleranza che ne costituisce la base essenziale»491.

Si comprende allora perché Locke li considerasse pericolosi per la società politica e nemici di

questa: lo Stato sorge da una accordo fiduciario, e ciò presupponeva innanzitutto la fiducia tra le

parti coinvolte492. Sabetti riconduce questa esclusione degli atei alla «struttura stessa del

giusnaturalismo lockiano, per il quale la garanzia di un patto, al quale gli uomini aderiscono per la

488 LT, p. 172. Cfr. anche p. 160. 489 Cfr. G. Trevelyan, La rivoluzione inglese del 1688-89, cit., p. 26. 490 Sull’importanza di mantenere i patti e le promesse come regola della moralità cfr. Saggio, I, III, 5. Locke esclude dalla tolleranza anche i cattolici ma con una motivazione differente. In una lettera del settembre 1659 al suo compagno di studi Henry Stubbe, il quale aveva difeso in un suo scritto (Essay in Defence of the Good Old Cause; or a Discourse Concerning the Rise and Extent of the Power of the Civil Magistrate in Reference to Spiritual Affairs) la causa rivoluzionaria e auspicato uno Stato repubblicano garante della libertà e della tolleranza, Locke si mostrava scettico sulla realizzabilità di quest’ultima sostenendo che ne dovevano comunque essere esclusi i cattolici. Una posizione che manterrà con il passare del tempo: «L’unica perplessità che mi rimane è come la libertà che voi accordate ai Papisti (che, sono d’accordo con voi, dovrebbe venir loro negata solo in ciò che riguarda lo Stato) possa essere compatibile con la sicurezza della Nazione (che è lo scopo del governo). Non vedo infatti come essi possano allo stesso tempo obbedire a due autorità differenti, che perseguono interessi contrari specialmente quando anche ciò che sia distruttivo nei confronti dei nostri ha il supporto di un concetto di infallibilità e di santità che essi suppongono derivato direttamente da Dio, basato sulle Scritture e sulla altrettanto sacra tradizione, non limitato da alcun contratto e perciò non responsabile di fronte ad alcuno». Id., Letter to Henry Stubbe, in D. Wootton, Political Writings, cit., pp. 137-139; trad. it. di M. Andreolli, Lettera a Henry Stubbe, in Due trattati, pp. 415-417, qui 416. 491 A. Sabetti, John Locke: La religione tra “ragione” e “rivelazione”, cit., p. LXXVII. Cfr. anche M. Merlo, La legge e la coscienza, cit., p. 56. 492 Anche nel caso dell’esclusione dei cattolici era comunque in gioco la fiducia, poiché essi dipendevano da un’autorità esterna: «Era difficile, infatti, stabilire i limiti delle due società o riporre fiducia in persone che potevano essere assolte da qualsiasi giuamento o impegno, meritandosi perciò stesso il paradiso». M. Tedeschi, La libertà religiosa nel pensiero di John Locke , cit., p. 12. Sul dovere di fedeltà ai patti, come legge divina, si veda inoltre il primo dei due Tracts giovanili lockiani: Se il magistrato civile possa legalmente imporre e determinare l’uso di cose indifferenti in rapporto al culto religioso, in Due Trattati, cit., p. 425.

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difesa dei propri individuali interessi – il diritto borghese garantito dalla lex naturae -, sta nel

rispetto di una legge posta da dio stesso a fondamento di ogni vivere civile, quella che determina

conseguentemente la condanna dell’ateismo»493.

L’ateismo, insomma, è per Locke «la negazione della legge stessa che regola qualsiasi comunità

organizzata, la negazione degli stessi diritti naturali e della stessa libertà dell’uomo. Una tale

negazione non può apparire a Locke che come una scelta ideologica capace, ove essa prevalesse

nella vita civile, di inficiarne completamente il fondamento, e quindi di determinare la rovina

delle istituzioni»494.

Laslett ha osservato che Locke è attento a distinguere il processo del contratto che crea una

comunità (contratto di società o patto di associazione) dal processo per mezzo del quale la

comunità affida il potere politico ad un governo (contratto di governo o patto di sottomissione),

sebbene essi possano avere luogo contemporaneamente e quest’ultimo non sia un contratto in

senso stretto495. Affinché vi sia un contratto è necessario infatti che entrambe le parti ottengano

qualcosa496, e questo avrebbe implicato qualcosa che i sudditi avrebbero dovuto dare al governo.

Ma era precisamente quel che Locke voleva evitare, insistendo sulla possibilità che la fiducia

[trust] riposta nei governanti poteva essere ritirata dai sudditi quando il potere avesse deliberato

contro tale fiducia497. Per questa ragione, nota Laslett, Locke non allude ad un patto fiduciario

generico ma si riferisce sempre a “questo” o a “quel” patto: egli intende cioè mettere in evidenza

solamente la natura fiduciaria del potere politico, intendendo dire che tutte le azioni dei

governanti sono limitate dal fine posto al governo: il bene comune, la pace della comunità

governata498.

In questa sede occorre rilevare che la nozione di patto (covenant) è di origine biblica499: è il Dio

dell’Antico Testamento che stabilisce un’Alleanza con il popolo eletto, assume un impegno,

celebra una promessa che si dispiega nel compiere la giustizia, quindi nel conservare le generazioni

del suo popolo. Nelle Scritture il primo patto è stabilito con Abramo (Gn 15 e 17), il secondo è

concluso con il popolo di Israele sul Sinai (Es 19 e 24).

493 A. Sabetti, John Locke: La religione tra “ragione” e “rivelazione”, cit., p. LXXVII (corsivo e minuscole nel testo). 494 Ibid. 495 Cfr. P. Laslett, Introduction, Two Treatises, cit., pp. 112-116. 496 È la ragione per la quale Locke utilizza ad esempio il termine contract riferendosi ai coniugi e al rapporto servo-padrone, entrambi casi nei quali una parte deve qualcosa all’altra. Cfr. T2, 81, 82; 85. 497 Cfr. T2, 149 e 240. 498 Cfr. P. Laslett, Introduction, Two Treatises, cit., p. 113. Si veda anche R. Grant, John Locke’s Liberalism, cit., p. 87. 499 Sul tema del patto nelle Scritture si veda l’articolata riflessione di M. Walzer, All’ombra di Dio, trad. it. Paideia, Brescia 2013, pp. 19-30.

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Dio chiede di essere riconosciuto, entra in relazione con il popolo che ha eletto, lo libera dalla

schiavitù, lo guida nella Terra promessa e affida ad esso una legge (Es 20,2). Ma tale patto implica

un impegno anche da parte del popolo, che si realizza nel camminare alla presenza di Dio nella

storia nella fiducia che Egli è presente, lo guida e lo accompagna: la fede del popolo è un persistere

nella fiducia nel Dio autore dell’Alleanza.

Nelle Scritture è Dio che chiede fiducia al suo popolo attraverso un patto, il quale comporta una

vita secondo determinate leggi. Ed è un accordo di pace e di assistenza condizionato ad una fede

che in ambito biblico ha anche il significato di fedeltà, ovvero di libera e personale adesione ad

esso500.

Nella propria visione contrattualista Locke fa propria la nozione biblica di covenant, e in

particolare quella di fiducia in essa implicita, per giustificare la cessione del potere all’autorità

politica entro certi limiti. La nozione biblica di patto viene a trovarsi desacralizzata per diventare il

paradigma delle relazioni politiche, tramutata nell’idea di un “patto sociale” che trae la propria

legittimazione dal consenso501.

In luogo della polarità “Dio - popolo eletto”, nella prospettiva di Locke si trova quella

“legislativo-popolo”, laddove Dio non viene tuttavia neutralizzato, o eliminato, ma semmai

collocato ad un livello superiore, posto a garanzia dell’equilibrio di un tale quadro concettuale,

come causa e fine di tutte le cose. Una tale analogia, ricavata direttamente dalle Scritture,

implicava evidentemente una teologia ancora teistica.

A tal proposito Gerhard Oestreich ha fissato tra il XVI e il XVII secolo la trasposizione sul piano

politico del concetto religioso di patto (o covenant) - proprio in particolare del calvinismo -

nell’ambito della dottrina contrattualistica dello Stato502. Trasposizione che ha unificato altresì il

doppio significato – quello sociale e di soggezione - di patto:

Per un certo periodo nella storia continentale-europea e per un periodo più lungo nella storia anglosassone-americana si è stabilita una stretta connessione, anzi un’interna armonia dell’idea di patto religioso con la teoria del contratto, sia esso di associazione che di dominio. La comunità politica e sociale deve costituire un patto di fronte a Dio in analogia con la

500 È degno di nota che nell’episodio biblico dell’Alleanza tutto il popolo, e ogni membro, aderisce al patto impegnandosi a fare quel che Dio aveva chiesto, dando quindi il proprio consenso. Cfr. Es 19, 7-8. 501 Charles Taylor, circa la svolta avvenuta con la modernità, ha spiegato che «la nuova forma di socialità rese più difficile l’adesione a forme forti di autorità sacrale, che rivendicavano il diritto di intervenire nella società e nella politica in modi non rispettosi o addirittura indipendenti dall’ordine. Per lo stesso motivo vennero incrinate le varie credenze e pratiche su cui avrebbe potuto basarsi tale autorità sacrale forte; ad esempio quella nozione forte di sacro […] che lo concepisce come qualcosa di situato in persone, luoghi, tempi o atti contrapposti ad altri considerati invece “profani”». C. Taylor, L’età secolare, cit., p. 307. 502 Cfr. G. Oestreich, Die Idee des religiösen Bundes und die Lehre von Staatsvertrag, in Geist und Gestalt des frühmodernen Staates. Ausgewählte Aufsätze (Berlin, 1969), pp. 157-178, qui p. 173; cit. in P. Prodi, Il Sacramento del potere, Il Mulino, Bologna 1992, pp. 390-391.

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comunità religiosa che è un patto di Dio con l’uomo. […] Il nuovo ideale di Stato e di società fondato sul contratto è stato rivestito di entusiasmo religioso: esso è l’idea sociale del protestantesimo calvinista503.

Il patto che mira alla difesa dei diritti naturali, originato dalla rinuncia a provvedervi da sé, crea un

potere pubblico che si riparte in un potere di fare leggi per la conservazione comune (legislativo) e

in un potere di renderle esecutive - il potere di punizione e di riparazione, «che però è inteso da

Locke come quel potere che deve applicare la legge e quindi corrisponde piuttosto nella

terminologia moderna al concetto di potere giudiziario»504. Così «nella difesa della libertà e della

proprietà la legislatura controlla il potere esecutivo e la comunità controlla il governo»505.

Ad essi Locke aggiunge il potere federativo, relativo ai rapporti tra gli Stati506. L’esecutivo

dipende dal legislativo ed è da esso limitato, ma comprende anche la prerogativa, prevista per

temperare leggi troppo rigide507. Di essa Locke dà una definizione:

Questo potere di deliberare, secondo discrezione, per il pubblico bene senza la prescrizione della legge, e talvolta anche contro di essa, è ciò che si chiama prerogativa: perché, dal momento che in alcuni governi il potere di far leggi non è sempre in funzione, ed è di solito troppo numeroso, e perciò troppo lento, per il disbrigo necessario all’esecuzione, e dal momento ch’è impossibile prevedere, e in conseguenza provvedere, con leggi a tutti i casi e bisogni che riguardino il pubblico, o fare leggi tali che non rechino danno quando siano eseguite con inflessibile rigore in tutti i casi e su tutte le persone che cadono sotto di esse, è lasciata alla discrezione del potere esecutivo una certa libertà d’azione per fare molte cose che la legge non prescrive508.

La studiosa Ruth Grant distingue due sensi del potere arbitrario in Locke. Il primo, sostantivo, si

ha quando il potere non viene usato per lo scopo legittimo della conservazione della comunità; il

secondo, formale, quando il potere non viene esercitato in accordo con regole o leggi stabilite, ma

in modo appunto arbitrario. Il caso della prerogativa rientra per Locke in questo secondo senso,

anche se inteso più come potere discrezionale che arbitrario509.

Locke spiega che il potere impiegato per il bene della comunità, e dunque «conformemente alla

fiducia e ai fini del governo», non è posto in discussione neanche dal popolo, ma semmai giudicato

503 G. Oestreich, Die Idee, p. 177, cit. in P. Prodi, Il Sacramento del potere, cit., p. 391. 504 A. Ravà, Le dottrine del secolo Decimosettimo in Inghilterra e in Olanda, Cedam, Padova 1932, p. 178. Sul potere giudiziaro cfr. W. von Leyden, Hobbes e Locke, cit., pp. 184-188. 505 G. Sabine, Storia delle dottrine politiche, cit., p. 433. 506 Cfr. T2, 146. Sulla divisione dei poteri in Locke si vedano: M. D’Addio, Storia delle dottrine politiche, cit., I, pp. 476-478; G. Miglio, Lezioni di politica, cit., (Storia delle dottrine politiche – I) pp. 270-273; R. Gatti, Filosofia politica, La Scuola, Brescia 2011, p. 117; G. Bedeschi, Locke e le origini del costituzionalismo, cit., pp. 278-279; M. Seliger, The Liberal Politics of John Locke, cit., pp. 324-339. Sulla priorità del legislativo si veda inoltre: P. Manent, Storia intellettuale del liberalismo, cit., pp. 126-134. 507 Cfr. T2, 14; 159-168; in part. 160-164; 166. Sulla prerogativa cfr.: PPL, pp.173-182; J. Kelly, Storia del pensiero giudirico occidentale, cit., p. 296; M. Seliger, The Liberal Politics of John Locke, cit., pp. 339-349; 353-356; W. von Leyden, Hobbes e Locke, cit., pp. 211 – 219; G. Miglio, Lezioni di politica, cit., (Storia delle dottrine politiche – I) pp. 273-274; P. Pasquino, I limiti della politica, cit., p. 382. 508 T2, 160, p. 351 (corsivo mio). 509 Cfr. R. Grant, John Locke’s Liberalism, cit., pp. 72 ss.; 163-164.

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«incontestabile»510. Il popolo cioè non discute la prerogativa «fin ch’essa è in misura tollerabile

impiegata per l’uso cui è destinata»511; «ma se sorge una controversia fra potere esecutivo e il

popolo» questa si risolverà stabilendo se «l’esercizio di tale prerogativa tenda al vantaggio o al

danno del popolo»512.

Locke è impegnato, in questa parte del Secondo Trattato, nella definizione delle caratteristiche

del potere legittimo: la società civile esiste solo dove c’è un giudice comune tra i membri di questa

società; ma il giudice non può essere né uno di loro, né un monarca assoluto, il quale resterebbe in

uno stato di natura rispetto ai suoi sudditi513. Gli uomini hanno un giudice comune solo quando

sono sottoposti alle medesime regole e possono appellarsi ad una medesima autorità riconosciuta in

caso di controversie: una legge comune è il loro giudice superiore.

Un primo importante correttivo tuttavia è che il legislativo e l’esecutivo siano posti in mani

differenti, altrimenti non vi sarebbe imparzialità514. Inoltre le medesime leggi che si applicano ai

governati si applicano anche ai legislatori, con una periodica turnazione che renda i legislatori

nuovamente sudditi. E questo era un ulteriore punto di distanza da Filmer, per il quale qualcuno

doveva necessariamente essere superiore alla legge stessa e la sovranità del re era incompatibile

con la sottomissione di questi alle leggi515.

Nella prospettiva fiduciaria di Locke, invece, quel che è stato concesso una volta potrebbe essere

ritirato in seguito, e per Grant si tratta di un aspetto cruciale per comprendere quella che secondo

il filosofo era la differenza tra potere politico e potere dispotico516.

La relazione fiduciaria illumina pertanto anche la prerogativa. Locke ne illustra la funzione

attraverso una teleologia, spiegando che essa si giustifica sulla base del fine del governo, che è il

bene della comunità, e del fatto che l’interesse del buon principe non può che essere questo:

pertanto, «la prerogativa non può consistere in altro che nel permesso, dato dal popolo ai

governanti, di fare, di loro libera iniziativa, varie cose per il pubblico bene, quando la legge taccia,

e talvolta anche contro l’immediata lettera della legge, e nel consenso del popolo quando ciò venga

fatto»517.

510 T2, 161; p. 352. 511 Ibid. 512 Ibid. 513 Cfr. R. Grant, John Locke’s Liberalism, cit., pp. 73-74. 514 Cfr. T2, 91. 515 Cfr. R. Grant, John Locke’s Liberalism, cit., pp. 75-76. 516 Cfr. Ivi, p. 77. 517 T2, 164 ; p. 353.

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Come ha spiegato Sparkes, Locke ha molto chiara la distinzione tra l’agire con autorità e senza

autorità: «Avere autorità, per Locke, significa essere titolati moralmente ad esercitare il potere sul

popolo e avere il dovere di usare quel potere solo per certi fini»518.

Egli ammette pertanto un ambito fuori la lettera della legge, proprio in quanto essa non può

coprire ogni singolo caso, ma è attento nel fissarne rigorosamente i limiti: 1) intanto è sempre il

popolo a concedere tacitamente tale facoltà deliberativa, 2) e a condizione, comunque, che le

azioni conseguenti siano in vista del bene pubblico519. Questo è ciò che propriamente distingueva

per Locke la prerogativa dalla schiavitù nei confronti di un principe assoluto, ed entrambe le

condizioni erano difese in considerazione del fatto che «i principi non sono che uomini»520 e che

deviazioni, anche rilevanti, dal fine del governo erano sempre possibili.

Ma la gigantesca questione che la prerogativa poneva era un’altra, quella della titolarità della

decisione ultima: «Chi giudicherà quando di questo potere si fa un retto uso?»521.

Laddove vi è una divisione di poteri, il potere esecutivo è subordinato e responsabile verso

quello legislativo e può essere mutato522. Mentre solo se il legislativo non viene convocato, quindi

nel caso in cui la prerogativa riguardi proprio la convocazione del legislativo, un abuso di essa

richiede una appello extracostituzionale523.

Si comprende allora perché per Locke, che aveva ricevuto un’educazione puritana centrata sulla

Covenant Theology524, il cui spirito era particolarmente pervasivo tra il 1630 e il 1640 in

Inghilterra, il potere politico si trovasse a dipendere da una fiducia che poteva essere ritirata di

fronte alla violazione dei diritti fondamentali525. Posti infatti limiti inamovibili al potere -

autoconservazione, libertà e proprietà526 - la resistenza diventa legittima quando sono violati527.

518 A. W. Sparkes, Trust and Teleology: Locke’s Politics and his Doctrine of Creation, cit., p. 123 (trad. mia). 519 Cfr. T2, 165. 520 T2, 165; p. 354. 521 T2, 168; p. 355. Osserva Schmitt, «Per la dottrina dello stato di diritto di Locke e per il razionalistico XVIII secolo, lo stato d’eccezione era qualcosa di incommensurabile». Id.,Teologia politica: definizione della sovranità, in Le categorie del politico, cit., p. 40. 522 Cfr. T2, 152. 523 Cfr. T2, 155 e 167-168. Cfr. R. Grant, John Locke’s Liberalism, cit., pp. 84-85. 524 Si veda ad es. la centralità che Dunn attribuisce alla vocazione in Locke: «…presenterò la teoria sociale di Locke come un’esplorazione di questa dottrina puritana e del suo significato sociale, così come si presenta una volta che sia stato eliminato il contesto sociale di una comunità teocratica. […] Locke, infatti, come altri pensatori protestanti del sedicesimo e diciassettesimo secolo, concepiva la vocazione come la condizione di vita alla quale era piaciuto a Dio di chiamare un certo individuo». Cfr. PPL, in part. pp. 235 – 278, qui 246 e 253. 525 Cfr. T2, 221. Si veda anche R. Grant, John Locke’s Liberalism, cit., p. 87. Si potrebbe leggere qui il consenso/fiducia dell’individuo in parallelo all’assenso nel sistema epistemologico lockiano, di cui si discute nel Saggio (IV, XVI e XX), e nella Condotta dell’intelletto (§ 33), entrambi volti a salvaguardare la volontà personale del singolo e pertanto la sua libertà. Inoltre, secondo Marshall, con la tesi secondo la quale tutti dovevano fornire il proprio consenso individuale alla società politica «Locke dava voce ad un argomento che era stato descritto da alcuni contemporanei – il Dryden di Absalom and Achitophel – come direttamente analogo all'argomento contro il peccato originale, poiché si riteneva irragionevole pensare che Adamo potesse aver peccato per coloro che non erano stati chiamati ad agire per lui. In questo

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Nella dottrina lockiana – a differenza di quella hobbesiana - il diritto di resistenza, di rovesciare

cioè un potere che si corrompa e di crearne uno nuovo, fa capo infatti alla fondamentale legge di

natura che prescrive la conservazione di tutti quanto più è possibile528.

e. 2. «e. 2. «e. 2. «e. 2. «The common escape that God has provided for alThe common escape that God has provided for alThe common escape that God has provided for alThe common escape that God has provided for all menl menl menl men»»»»

Nel suo saggio sulle radici teologiche della Rivoluzione inglese, Baskerville ha fatto notare che la

Riforma protestante creò non solo un nuovo tipo di pietà ma anche un nuovo tipo di politica. E il

puritanesimo inglese, in particolare, creò un nuovo tipo di persone: il cittadino, l'attivista, il

radicale ideologicamente coinvolto; furono i predicatori puritani, osserva Baskerville, a portare in

politica una passione e un’urgenza che la trasformavano per la prima volta in una questione in

grado di decidere non solo il destino terreno ma anche quello dell'anima: «Il sermone non era

semplicemente un medium ma esso stesso una dichiarazione politica»529.

Come ha rilevato Tully, uno degli aspetti fondamentali della dottrina lockiana e della teoria

positiva della proprietà naturale è nelle sue implicazioni pratico-politiche, «[Locke] attacca la

giustificazione della politica regia e pone il diritto di resistere agli atti illegittimi del re nelle mani

di ogni cittadino»530. D’altra parte i lettori del Secondo Trattato difficilmente avrebbero potuto

fraintendere il senso di queste parole:

modo Dryden intendeva mostrare che se si rifiuta un governo istituito per diritto divino a favore di uno costituito per consenso, logicamente si doveva rifiutare anche il peccato originale. Locke conosceva sicuramente l'opera di Dryden, che era un attacco a Shaftesbury, e dunque la relazione concettuale che Dryden suggeriva». J. Marshall, Locke, Socinianism, “Socinianism”, and Unitarianism, cit., p. 147 (trad. mia). Cfr. anche RRR, pp. 145 ss. 526 Cfr. T2, 212 e 221-243. 527 Sulla resistenza cfr. RRR, pp. 205-291; J. Kelly, Storia del pensiero giudirico occidentale , cit., pp. 275-276; PPL, pp. 193 – 217; R. Grant, John Locke’s Liberalism, cit., pp. 155 – 178; R. A. Goldwin, Locke, cit., pp. 281 – 287; M. Merlo, Potere naturale, proprietà e potere politico in John Locke, cit., pp. 170-174; A . Cavarero, La teoria contrattualistica nei “Trattati sul Governo” di Locke, cit., pp. 185-190. 528 Una decisiva differenza tra Hobbes e Locke riguarda appunto la resistenza. Come ha osservato Schmitt, «nello Stato assoluto di Hobbes un diritto di resistenza, come “diritto” sullo stesso piano del diritto statuale, è, da ogni punto di vista, sia pratico sia giuridico, un controsenso e un’assurdità. Il tentativo di resistere al Leviatano, meccanismo tecnicamente perfetto di comando, strapotente e capace di annientare ogni opposizione, è praticamente del tutto privo di speranza. Ma la formulazione giuridica di un diritto a una siffatta resistenza è impossibile già come questione o come problema. Manca ogni possibilità di impostare un diritto di resistenza, non importa se debba essere un diritto soggettivo oppure oggettivo: per esso non c’è assolutamente posto nello spazio dominato dall’irresistibile grande macchina. […] Può ben accadere che lo Stato cessi di funzionare e che la grande macchina venga distrutta dalla ribellione e dalla guerra civile; ma ciò non ha nulla a che fare con un “diritto di resistenza”». C. Schmitt, Sul Leviatano, cit., pp. 82-83. 529 Cfr. S. Baskerville, Not Peace but a Sword: The Political Theology of English Revolution, cit., pp. 8-9 (trad. mia). 530 J. Tully, A Discourse on Property, cit., p. 172 (trad. mia).

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Il legislativo, dunque, ogniqualvolta trasgredisce questa norma fondamentale della società, e, per ambizione, timore, sconsideratezza o corruzione, tenta di porre in possesso proprio o in mani altrui il potere assoluto sulle vite, libertà o averi del popolo, con questa infrazione della fiducia perde il potere che il popolo ha posto nelle sue mani per fini del tutto opposti, e questo potere ritorna al popolo, che ha il diritto di riprendere la sua libertà originaria, e provvedere, con l’istituzione di un nuovo legislativo, secondo che ritiene opportuno, alla propria sicurezza e tranquillità, che è il fine per cui si trova in società531.

La dottrina della resistenza legittima discendeva direttamente dalla tesi del consenso532, ma a ben

vedere si comprende nei suoi presupposti solo all’interno di un equilibrio di cui proprio Dio è

garante. Nello specificare che si deve governare secondo leggi stabilite e promulgate; che esse

debbono avere come fine il bene del popolo; che non si possono imporre tasse sulla proprietà senza

il consenso del popolo e che il legislativo non può trasferire ad altri il potere di fare leggi, Locke

dichiara:

Questi sono i limiti che la fiducia [trust] in esso posta dalla società e dalla legge di Dio e della natura, ha fissato al potere legislativo di ogni società politica in ogni forma di governo533.

Riflettendo su questo passo, Sparkes spiega che «Locke vuole dire che vi sono limiti morali all’uso

del potere, e che il patto politico né crea né sostituisce tali limitazioni. In questo senso, il

legislativo è vincolato alla legge di Dio e di natura; ma che certi uomini abbiano il potere

legislativo, o che vi sia un legislativo, non è questione di cui si occupi la legge di Dio e di natura,

ma risultato di una convenzione politica. Locke sta tentando così di percorrere un sentiero stretto

tra Hobbes che, almeno apparentemente, predicava un assolutismo di tipo convenzionalista e

Filmer, il quale con la teoria patriarcale della sovranità predicava un assolutismo “naturalista”»534.

Sparkes tuttavia continua a vedere in Locke la preminenza dell’individuo che non ha bisogni

sociali, ma soltanto necessità di protezione sociale mentre è intento a perseguire propri scopi

531 T2, 222; p. 393 (corsivo mio). 532 Tra i teorici tomisti, Suarez aveva affrontato il tema nella Defensio fidei in relazione al popolo inglese sottomesso al re eretico Giacomo I, sostenendo la legittimità dell'autodifesa solo nel caso in cui vi fosse stato pericolo per la conservazione dello Stato o per la vita dei suoi cittadini. Se un re avesse trasformato il suo diritto in una tirannide, in modo tale che il suo dominio fosse divenuto manifestamente pericoloso per gli interessi dello Stato, sarebbe stato legittimo per la comunità far uso dei propri poteri naturali per difendersi. Se non si fosse verificato un grave pericolo per lo Stato, e l’esistenza della collettività non fosse stata realmente minacciata, l’atteggiamento giusto sarebbe stato quello di sopportare. Quindi, pur ammettendo la legittimità della resistenza, Suarez ne fissava il limite. Soprattutto a questo proposito si osserva come le riflessioni dei teorici della Seconda Scolastica abbiano contribuito ad un avanzamento su questo tema e al sorgere del pensiero costituzionale. Cfr. F. Suarez, Defensio Fidei Catholicae adversus anglicanae sectae errores, in Opera omnia (1856-1878), I-XXVIII, apud Ludovicum Vivès, Parisiis 1859, vol. XXIV. 533 T2, 142; p. 335. 534 A. W. Sparkes, Trust and Teleology: Locke’s Politics and his Doctrine of Creation, p. 124 (trad. mia).

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individuali, tanto da includerlo nella prospettiva di Agostino che concepisce il governo come un

semplice rimedio al peccato535.

D’altra parte si vede bene che è lo stesso sistema lockiano dei diritti naturali ad introdurre un

correttivo al contrattualismo puro che non riconosce alcun elemento dovuto, precedente e

indipendente al patto stesso: che il sovrano debba riconoscere e rispettare certi diritti presuppone

che vi sia anche un giudice di ultima istanza al quale ricorrere per la loro violazione. Locke sembra

esserne consapevole quando afferma:

Non voglio ora discutere se i prìncipi siano esenti dalle leggi del loro paese, ma questo è certo, che essi sono tenuti ad assoggettarsi alle leggi di Dio e della natura. Nessuno, e nessun potere può dispensarli dalle obbligazioni di quella legge eterna536.

Non senza ragione Locke parla conseguentemente di un appello a Dio nel cielo537. Egli solleva

l’argomento nel Secondo Trattato, affrontando la questione della dissoluzione del governo. Su

questo tema Locke, più che al pensiero tomista, appare vicino alle posizioni dei calvinisti radicali

della metà del Cinquecento, Ponet e Goodman, e a quella del Buchanan. L’umanista scozzese viene

citato nel Secondo Trattato con riferimento al diritto del popolo di resistere e di difendersi

dall’offesa di un sovrano ostile, mentre secondo i più (ad eccezione, appunto, del Buchanan) agli

individui non resterebbe altro che sopportare pazientemente538.

L’istanza religiosa, in questo caso, appare difficilmente discutibile. Quando Locke cita l’appello

al cielo, discutendo inizialmente dello stato di guerra, si richiama all’episodio biblico di Iefte e

degli Ammoniti, narrato nel libro dei Giudici (XI, 27). La citazione gli consente di sottolineare la

titolarità della decisione quando non vi può essere sulla terra un giudice e di sostenere che, in un

caso simile, «non rimane che l’appello a Dio nel cielo»539. Successivamente, al termine del capitolo

sulla conquista (XVI), Locke richiama l’episodio del secondo libro dei Re (18, 7) nel quale è Dio

stesso ad aiutare Ezechia contro il re di Assiria:

Dal che risulta chiaro che scuotere un potere che su qualcuno è stato istituito dalla forza e non dal diritto, per quanto abbia nome di ribellione, tuttavia non è un’offesa davanti a Dio, ma è cosa ch’egli ammette e autorizza, anche se sono intervenute promesse e patti, se ottenuti con la forza540.

535 Cfr. ivi, p. 125. 536 T2, 195 ; p. 373. 537 Cfr. T2, 20-21; 168; 176; 241; 242. 538 Cfr. T2, 233. 539 T2, 21; p. 243. 540 T2, 196 ; p. 374.

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La tradizione calvinista, su questo punto, non era distante da quella cattolica541. Nel 1674 il realista

Henry Foulis, in History of the Wicked Plots, aveva evidenziato un collegamento tra l’ideologia

dei calvinisti radicali e la tradizione cattolica: i radicali calvinisti non erano altro che gli eredi della

Scolastica cattolica. Alla corrente neotomista della Controriforma veniva attribuita la teoria

secondo la quale il potere politico risiedeva nel popolo, il quale aveva un diritto di resistenza

contro il suo principe. Dottrina che nella versione calvinista aveva condotto l’Inghilterra alla

guerra civile542. E ciò portava a credere che «le fondamenta principali della teoria calvinista della

rivoluzione furono edificate interamente dai loro avversari cattolici»543.

La dottrina lockiana sembra confermare la tesi di Foulis e le accuse del partito tory circa un

collegamento tra il cattolicesimo e la tradizione whig, mediato dai radicali protestanti:

La teoria della rivoluzione popolare sviluppata dai calvinisti radicali negli anni Cinquanta del XVI secolo era destinata ad entrare nella corrente principale del pensiero costituzionale moderno. Se diamo uno sguardo ai Two Treatises of Government – il testo classico della politica radicale calvinista – scritto da Locke più di un secolo dopo, troviamo che la stessa serie di conclusioni viene in misura notevole difesa con gli stessi argomenti544.

541 Skinner sottolinea un aspetto di distanza profonda tra la posizione di Ponet, Goodman e Knox da un lato, e quella di Locke dall’altro, circa origine e scopi della società politica. I calvinisti radicali del 1550 muovono dal presupposto che la società politica si formi per sostenere le leggi di Dio e consista nella pratica della vera religione, quella calvinista. Tale società è ordinata da Dio e la tirannide è una forma di eresia. La resistenza diventa allora un dovere religioso, che ha il suo fondamento nella promessa/patto di difendere le leggi divine. Non si tratta affatto di un diritto morale. Anche i teorici ugonotti francesi (Mornay, Beza) - richiamandosi a propria volta alle tesi scolastiche - avevano sostenuto negli anni ’70 del Cinquecento la necessità della costituzione delle società politiche allo scopo di assicurare il benessere del popolo, che veniva equiparato al diritto di godere delle proprie proprietà, comprese vita e libertà (cfr. Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., pp. 470-472). Ma il merito vero e proprio degli ugonotti, secondo Skinner, è stato quello di «compiere il trapasso storico da una teoria puramente religiosa della resistenza (…) ad una teoria autenticamente politica della rivoluzione, basata sul concetto di un contratto che dava origine ad un diritto morale (e non soltanto religioso) di resistere a qualsiasi governante che non ottemperava al suo corrispondente obbligo di perseguire il benessere del popolo in tutti i suoi atti pubblici». Tuttavia per gli ugonotti la resistenza rientrava ancora nell’ambito del dovere (ivi, p. 480). È invece Locke a considerare questa nei termini di un diritto di resistere, goduto dal popolo in virtù della natura e dei fini della società politica, la quale sorge per garantire sicurezza, protezione dei beni fondamentali e tranquillità. Nell’ultimo capitolo del Secondo Trattato Locke sostiene che quando è infranta la fiducia (trust) posta nel governante, questi perde il potere che il popolo ha messo nelle sue mani; potere che torna al popolo, il quale istituisce un nuovo legislativo al fine di garantire la propria sicurezza, pace e tranquillità. Pertando, dai calvinisti radicali degli anni Cinquanta la resistenza è ammessa ma è fondata su una teoria in ultima analisi religiosa, che poneva al centro la supremazia delle leggi di Dio, il dovere di difendere la vera fede da parte dei sudditi e la conservazione dell’uniformità religiosa. Con gli ugonotti rivoluzionari si passa ad una teoria della rivoluzione fondata su basi puramente politiche, che tuttavia continuava a presentare la resistenza essenzialmente come un “dovere”. Con Locke si compie l’approdo ad una teoria politica secolare che non si richiama (almeno direttamente) ad argomenti di tipo religioso, e che considera la resistenza come un diritto nel momento in cui viene meno il patto originario. In tutte e tre le dottrine, tuttavia, si assume che tra popolo e sovrano sia in vigore un patto, la cui violazione instaura una tirannia e apre alla resistenza. Cfr. Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., pp. 343- 344. 542 Cfr. M. Goldie, John Locke and Anglican Royalism, cit., p. 161. 543 Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 461. 544 Ivi, p. 343. Skinner si riferisce all’ultimo paragrafo del Secondo Trattato (T2, 243), nel quale Locke pone il problema di chi dovrà giudicare se un governo compie o meno i propri doveri, e afferma che l’autorità di tale risposta risiede non solo nei magistrati inferiori e negli alti rappresentanti del popolo, ma negli stessi individui, ovvero nel popolo (community, people) che ha il diritto di agire come sovrano. Locke dimostra così di sostenere la teoria privatistica della resistenza.

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Secondo Locke, una dissoluzione del governo si può verificare in più di un caso. Il primo di essi

consiste in un attacco esterno e si ha quando una conquista dissolve dall’esterno società e

governo545 .

Vi sono poi casi di resistenza dovuti a dissoluzioni interne: in primo luogo, quando il legislativo

viene alterato, «infranto o dissolto»546 e il popolo è tanto libero di resistere alla forza di chi

vorrebbe governare senza autorità quanto di costituire da sé un nuovo legislativo547.

In secondo luogo, quando il supremo potere esecutivo abbandoni il proprio ufficio, aprendo

all’anarchia e portando alla dissoluzione di fatto del governo, dal momento che le leggi non

possono essere eseguite548. Anche in questo caso il popolo ha la libertà di istituire un nuovo

legislativo.

Vi è poi un ulteriore caso in cui il legislativo o il principe (o entrambi) agiscano contro il proprio

trust, ovvero quando violino il patto fiduciario stabilito con il popolo, tentando di aggredire la

proprietà dei sudditi o di rendere altri signori di essa549. In quest’ultimo caso si verifichebbe

l’esercizio di una forza senza autorità, che immette in uno stato di guerra.

L’alterazione o soppressione, con la forza, del legislativo sopprime il giudice comune, toglie l’unico ostacolo allo stato di guerra tra gli uomini. […] Questo stato di guerra appare un male maggiore dello stato di guerra tra i membri della società civile, in quanto comporta l’abrogazione arbitraria dei diritti naturali, tra i quali vi è il diritto del popolo a opporre forza a forza, a difendersi con la forza dal tiranno 550.

Al popolo, sciolto dall’obbedienza, non resta in questo caso che «il comune rifugio che Dio ha

offerto a tutti gli uomini [the common escape that God has provided for all men] contro la forza e

la violenza»551. Durante la Restaurazione, d’altra parte, non erano mancati casi di conflitto tra

legislativo ed esecutivo, di abusi della prerogativa da parte del re o di azioni parlamentari contro le

libertà e le proprietà dei sudditi. In casi del genere, se il legislativo si fosse reso signore delle vite e

degli averi del popolo, non vi sarebbe stato giudice sulla terra e non restava che un

diritto alla rivoluzione per combattere un potere illegittimo, in quanto non rilasciato dal popolo: è questo un diritto antecedente e superiore a tutte le leggi positive umane, da esercitarsi come extrema ratio, contro un potere senza diritto, che è soltanto tirannia. Il diritto di resistenza, enucleato in Francia durante le guerre di religione, si conclude in una

545 T2, 211. Cfr. R. Grant, John Locke’s Liberalism, cit., pp. 147 – 148 e 159. 546 T2, 212; p. 387. 547 Cfr. T2, 212 – 218. 548 Cfr. T2, 219. 549 Cfr. T2, 221. 550 M. Merlo, Potere naturale, proprietà e potere politico in John Locke, cit., p. 171. 551 «…Quando i legislatori tentino di sopprimere e distruggere la proprietà del popolo o di ridurlo in schiavitù sotto un potere arbitrario, si pongono in stato di guerra con il popolo, il quale è con ciò sciolto da ogni ulteriore obbedienza, e non gli rimane che il comune rifugio che Dio ha offerto a tutti gli uomini contro la forza e la violenza». T2, 222; p. 393.

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giustificazione della rivoluzione o in un “diritto alla rivoluzione”, che, sotto certi aspetti, sembra una contraddizione in termini, perché il diritto è uno strumento per risolvere pacificamente i conflitti umani. Ma qui il diritto significa soltanto che il popolo non è dalla parte del torto, perché ad essersi messo fuori dalla legge è proprio il re o il Parlamento: il popolo è il giudice di ultima istanza, perché è il mandante e gli altri sono i suoi mandatari 552 .

Nell’ottica contrattualista lockiana la resistenza collettiva all’esecutivo si identificava con una

riassunzione del potere da parte dell’assemblea costituente originaria, cioè del popolo

(community), che ha diritto di ristabilire il legislativo553; a differenza di quel che riteneva Filmer.

Secondo questi infatti qualsiasi affermazione secondo cui “il popolo” dovesse giudicare – o peggio,

che i cittadini individualmente considerati dovessero giudicare – avrebbe necessariamente

condotto all’anarchia554. Ciò a conferma che per Locke il potere naturale non veniva alienato con il

sorgere della società politica ma solamente ceduto su base fiduciaria, e al popolo sarebbe ritornato

quando coloro che lo esercitavano avessero agito contro la fiducia concessa, ovvero contro la

costituzione:

È così che la comunità conserva sempre il potere supremo di preservarsi dagli attentati e dalle intenzioni di chicchessia, anche dei suoi legislatori, ogniqualvolta questi siano così insensati o perversi da concepire e perseguire intenzioni contarie alle libertà e proprietà dei sudditi555.

Locke chiariva inoltre che non vi era possibilità di dissoluzione attraverso un semplice ritiro del

consenso, dal momento che il governo non era stabilito sul consenso in modo tale che un ritiro di

questo avrebbe condotto alla sua dissoluzione, ma nel senso appunto di una fiducia, così che il

popolo è libero di resistere e di ricostituire un governo solo quando tale fiducia sia stata violata556.

A ben vedere, tuttavia, il significato della resistenza teorizzata da Locke si rivela nella sua novità

e originalità non solo in forza del motivo per cui gli uomini decidono di entrare nella società

politica:

il fine per cui essi eleggono e conferiscono autorità al legislativo è che si facciano leggi e si stabiliscano norme, come salvaguardia e difesa delle proprietà di tutti i membri della società, a limitare il potere e moderare il dominio di ogni parte o membro della società stessa557.

552 N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà, cit., p. 106. 553 Cfr. T2, 155. 554 Cfr. RRR, p. 207. 555 T2, 149; p. 341. Su questo aspetto cfr. J. Tully, A Discourse on Property, cit., p. 160. 556 Cfr. RRR, p. 208. Come ha notato Dunn, «il profondo desiderio che gli uomini hanno della sicurezza crea una dipendenza psicologica nei confronti dei loro governanti che dà a questi un’enorme libertà di azione. Errori ed ingiustizie casuali che possono commettere saranno accettati senz’altro dai loro sudditi. Solo la distruzione del clima di fiducia minaccerà il loro effettivo controllo e una distruzione di tal genere può essere causata solo dalla loro estrema cattiva condotta». PPL, p. 214. 557 T2, 222; p. 393. Cfr. anche T2, 123; 135; 171; 239. Su questo aspetto cfr. C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, cit., pp. 225 ss.

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Ma si comprende tenendo conto innanzitutto della “cornice teocentrica” all’interno della quale si

colloca la dottrina lockiana: solamente Dio in virtù della sua azione creatrice è sovrano assoluto del

suo regno e dell’universo, ed è anche il solo a detenere legittimamente questo tipo di sovranità, in

modo cioè non arbitrario558. E ciò doveva implicare per Locke che qualsiasi sovrano terreno fosse a

propria volta suddito di Dio. Questa sudditanza, nelle intenzioni di Locke, non doveva però essere

confusa con una designazione o autorizzazione del cielo, né con la derivazione da Dio di un potere

mondano, alla maniera di Filmer, ma piuttosto doveva essere considerata nei termini di un ordine

gerarchico umano-divino del quale tutte le creature fanno parte, sovrani inclusi559.

Per Locke Dio è l’Autore, e al medesimo tempo vertice, di questo ordine, e solo alla sua

benevolenza potevano pertanto ricorrere coloro che vedevano tradita la propria fiducia560. In altre

parole, solo l’affermazione di un potere reale e completo di Dio sul cosmo e sulle creature ha

permesso a Locke di “contenere” il potere sovrano (umano) entro certi limiti e di tenere insieme,

coerentemente, tanto l’affermazione dell’uguaglianza di tutti gli uomini quanto la legittimità di

un’autorità politica sovrana e di un commonwealth561.

Quando è in pericolo la conservazione del diritto del popolo, e viene meno la fiducia costitutiva

del patto, nella visione lockiana resistere è legittimo ed è un diritto. L’azione del popolo, in questo

caso, lungi dall’essere sovversiva, ristabilisce il vecchio ordine violato ed assume pertanto un

carattere conservatore: il legislativo, o il sovrano, che vengano meno al trust sono i veri rebels562.

Probabilmente qui, più che altrove, l’istanza religiosa lockiana si rivela nella sua logica

trasparenza.

Inoltre, come Maurizio Merlo ha sottolineato, in Locke non vi è soltanto una “resistenza

residuale” o di riserva, dal momento che per il filosofo non occorre attendere che il governo sia

558 Cfr. V. Nuovo, Locke’s Christology, cit., p. 144. Sulla sovranità assoluta con cui Dio governa l’universo, temperata dalla sua saggezza e bontà, cfr. T2, 166. Anche nei Pensieri sull’educazione Locke fa riferimento a Dio che «ha creato e governa tutte le cose». PE [136], p. 181. 559 Cfr. A. Besussi, La gerarchia delle creature in Locke: osservazioni e problemi, cit., pp. 279 – 280. 560 Cfr. anche T2, 204. Dunn sottolinea che la ribellione, la caduta nello stato di guerra, è peccato ma che deve essere attribuito a chi vi dà inizio, cioè al principe ingiusto. E Dio sarà il giudice della legittimità dell’appello che gli viene rivolto. Cfr. PPL, pp. 215-217. 561 Cfr. T2, 133. 562 Cfr. T2, 226. Sembra opportuno richiamare la riflessione dell’Aquinate sulla deposizione del sovrano empio: «Perciò sembra meglio provvedere contro la crudeltà della tirannide, non già con la privata presunzione di alcuni, ma con la pubblica autorità. E invero se il diritto appartiene ad un popolo di eleggersi un re, non si può dire che da lui un re sia ingiustamente deposto; o che ingiustamente sia raffrenata la sua autorità, quando tirannicamente egli ne abusi. Né si deve credere che una moltitudine, anche se si era assoggettata per sempre, si comporti infedelmente, destituendo il tiranno; perché questi non essendosi comportato fedelmente nel governo come è dovere di un re, ha meritato che non gli sia mantenuto il patto dai sudditi [quod ei pactum a subditis non reservetur]». De Regimine Principum, I, VI, cit., pp. 108-109.

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dissolto563: il popolo può agire anche per anticipazione e provvedere ad istituire un nuovo

legislativo prima che il vecchio cada per le ragioni viste (cioè per oppressione, inganno o consegna

ad un potere straniero): «La resistenza anticipa e previene i tentativi del legislativo di imporre un

potere arbitrario sul popolo e la sua proprietà, essa “colpisce” a sua volta, risponde colpo su colpo

(T2, 235). L’eguaglianza di potere è forza contro forza, ed essa ritorna nella forma della guerra, ma

con il diritto di punire con forza l’offensore»564.

La resistenza, per come la intende Locke, è comunque possibile in quanto l’esercizio del potere

arbitrario mette fine al governo ma non alla società politica (community, body of the people o

commonwealth), la quale continua a sussistere e non si dissolve, riunendo in sé il legislativo e

l’esecutivo.

La dissoluzione del governo, in altri termini, non è sufficiente a far piombare la comunità in uno

stato di natura. Il vero passo in avanti compiuto da Locke, rispetto a teorie rivoluzionarie

precedenti, riguarda esattamente la collocazione dell’autorità di resistere nel corpo del popolo, e

persino nelle singole persone se private dei loro diritti. La rivoluzione per Locke è l’ultima difesa

contro la minaccia di un potere assoluto incompatibile con la società civile: «Il diritto alla

rivoluzione è l’ultimo bastione del governo legittimo e di una costituzione della società conforme

alla legge di natura»565.

Julian Franklin ha avanzato un’elaborata lettura della teoria costituzionale sulla sovranità566.

Secondo lo studioso questa ha fatto il suo ingresso nella tradizione politica con Locke, il quale ha

insistito sul diritto del popolo (la comunità politica intesa come entità distinta) di sostituire non

solo i suoi governanti sulla base di una giusta causa, ma di modificare anche la stessa forma di

governo. Una tale idea, come si è visto, apparve estremamente radicale al suo tempo e venne

rigettata dagli stessi whigs567.

Locke, secondo Franklin, avrebbe tenuto presente nell’elaborazione della sua dottrina, e in

particolare per la dissoluzione del governo, le tesi che George Lawson potrebbe aver elaborato tra

il 1654 e il 1656, pubblicate successivamente in Politica sacra et civilis (1660), dopo aver letto

questo testo nel 1679. Locke inoltre, che finì così per allontanarsi dalle posizioni del proprio

563 Cfr. T2, 220. Sulla “resistenza preventiva” cfr. R. Grant, John Locke’s Liberalism, cit., p. 167. 564 M. Merlo, Potere naturale, proprietà e potere politico in John Locke , cit., p. 173. 565 J. Tully, A Discourse on Property, cit., p. 173. 566 J. Franklin, John Locke and the Theory of Sovereignty, Cambridge University Press, Cambridge 1978. 567 In realtà Locke non era stato il primo in assoluto a proporre una tale dottrina, prima di lui George Lawson, alla vigilia della guerra del 1642, aveva fatto riferimento alla dissoluzione del governo e al potere, in capo al popolo, di costituire una nuova autorità. Ma fu Locke che diede a tale ipotesi una formulazione tale da renderla «il solo principio di resistenza coerente con i rapporti di sovranità nell’ambito di una costituzione mista». Ivi, p. 1 (trad. mia).

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partito, non avrebbe ignorato la forza dirompente dei propri argomenti e avrebbe cercato, per tale

ragione, di introdurre più o meno velatamente una rassicurazione per i suoi contemporanei

precisando che gli uomini non modificano facilmente le forme di governo, che difficilmente essi si

convincono ad emendare i difetti della propria costituzione e che, nel caso dell’Inghilterra, vi era

sempre stata la tendenza a conservare quella composta da re, Lords e Comuni568.

Franklin spiega che le tesi di Locke erano in accordo solo fino ad un certo punto con quelle dei

whigs; questi infatti avanzarono una teoria che giustificava la resistenza ad un tiranno senza

negare tuttavia l’indipendenza del re d’Inghilterra dal Parlamento e la sua supremazia nella

costituzione: Giacomo II era colui che deliberatamente aveva perduto il titolo di fedeltà, avendo

tentato di sovvertire la costituzione e ripudiato la legge inglese. E questa era una posizione di

whigs come Gilbert Burnet e altri. I whigs tuttavia non intendevano riconoscere che la

conseguenza del comportamento di Giacomo poteva essere la dissoluzione del governo e quindi un

ritorno del potere al popolo.

La Rivoluzione del 1688 aveva posto però un problema costituzionale di ampia portata: un re

poteva essere deposto, e la successione alterata, senza il suo consenso? Alcuni tories proposero di

lasciare il titolo a Giacomo II ma di affidare l’esercizio del potere a sua figlia Maria; altri ritennero

invece che l’abdicazione di Giacomo II aprisse direttamente la successione di Maria, ma Guglielmo

lasciò intendere che non sarebbe rimasto in Inghilterra come semplice consorte, e ciò fu decisivo

per il successo delle posizioni whigs.

Tale partito non intendeva sostenere la dissoluzione del governo ma semmai una continuità in

accordo con la costituzione, interpretando la fuga di Giacomo come un’abdicazione che aveva

lasciato vacante il trono569. Per questo quando nel 1690 i Due Trattati sul governo furono

pubblicati la posizione di Locke non fu benvenuta: ammettere la dissoluzione come conseguenza

dell’atto di Giacomo avrebbe aperto la via ad una democrazia radicale e probabilmente anche ad

una rivoluzione sociale, dal momento che si agitava lo spettro di un ritorno nello stato di natura570.

Per tale ragione la tesi del trono vacante era la costante dei trattati whig degli anni Novanta e dei

primi anni del XVIII secolo. Un importante whig del tempo, William Atwood, pur apprezzando

molto i Due Trattati, obiettava alla tesi della dissoluzione il diritto del popolo di scegliere un’altra

forma di governo.

568 Cfr. T2, 223. 569 Cfr. G. Trevelyan, La rivoluzione inglese del 1688-89, cit., pp. 112-113. 570 Cfr. J. Franklin, John Locke and the Theory of Sovereignty, cit., pp. 98-105.

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Un’altra modalità di opposizione alla tesi della dissoluzione proveniva dall’amico di Locke, James

Tyrrell, il quale conosceva i Due Trattati e aveva compreso che egli ne era l’autore, nonostante il

suo silenzio sull’argomento. Anche Tyrrell, allarmato dal radicalismo della tesi lockiana, preferiva

optare per la tesi del trono vacante e nel suo Bibliotheca Politica sostenne che il Parlamento si era

limitato a far sì che esso non restasse tale571.

Franklin si domanda dunque perché Locke, pur conoscendo le tesi ufficiali whig, abbia insistito

nel difendere la propria dottrina. Se da un lato lo studioso riconduce all’estremo radicalismo di

questa tesi la prudenza quasi morbosa che caratterizzava il comportamento del filosofo - insieme al

tentativo ossessivo di nascondere la paternità dei Due Trattati anche gli amici più intimi (se si fosse

diffusa la notizia che ne era l’autore, Locke si sarebbe esposto a persecuzioni e la sua reputazione

sarebbe stata seriamente danneggiata) -, riconosce dall’altro che per Locke la tesi whig del trono

vacante era, sul piano dei princìpi, impossibile da sostenere e foriera di confusione572.

Locke aveva perfettamente compreso che la questione da chiarire era se le Camere potevano

passare sopra un re in carica e i suoi eredi immediati per collocare sul trono un altro sovrano. Per i

whig del tempo questo era possibile di fronte ad un trono vacante; ma il punto era che la

dichiarazione di un trono vacante implicava già un’esclusione legittima del re e dei suoi eredi, e ciò

significava rimettere alle Camere il potere di deporre un sovrano e di alterare la linea successoria, e

affermarne così la supremazia. Ma questo era ciò che i whig non volevano ammettere.

L’argomento si avvitava pertanto in una petitio principii.

I Whigs pagavano così un prezzo elevato in termini di incoerenza logica rifiutando di riconoscere il potere costituente nel popolo inteso come un’entità legale distinta dal Parlamento. Essi intendevano sostenere che un re era indipendente dalle due Camere per avallare una costituzione mista; ma allo stesso tempo sostenevano che un re poteva essere rimosso per giusta causa e la legge di successione alterata. Ma non potevano combinare queste due tesi senza ammettere che il governo era stato dissolto573.

Franklin considera il Secondo Trattato un’opera rigorosa, costruita su salde premesse, e interpreta

la tesi di Locke circa la dissoluzione del governo (e del ritorno del potere al popolo) come un

contributo fondamentale alla teoria generale della sovranità. Per la prima volta, per risolvere il

problema della resistenza in una costituzione mista veniva teorizzata l’introduzione di «una chiara

e coerente distinzione tra il potere costituente e ordinario, che è universalmente applicata. Essa

stabilisce il principio che nessun corpo rappresentativo, democraticamente eletto, può alterare le

procedure costituzionali, o le libertà costituzionalmente riservate agli individui, senza il consenso

571 Cfr. ivi, pp. 105-109. 572 Cfr. ivi, pp. 112- 114. 573 Ivi, p. 116 (trad. mia).

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generale del popolo. In una forma o nell’altra è un principio presente in tutti i sistemi

costituzionali»574.

Certamente non era tale nel XVII secolo, ma lo sarebbe diventato solo con l’introduzione del

suffragio universale e la lenta definizione dei doveri del corpo rappresentativo verso i suoi elettori.

È per questa ragione che possiamo trovare oggi quasi ovvia tale dottrina, dal momento che essa

rappresentò un’espressione pressoché completa della teoria costituzionale della sovranità:

L’idea di Locke di un’autorità costituente doveva diventare, con altri aspetti della sua dottrina, una fonte importante delle teorie repubblicane e democratiche. Lawson e Locke erano nel migliore dei casi repubblicani, e comunque moderatamente575.

Segnatamente, per Franklin, si sarebbe trattato di una via che Locke riteneva plausibile per

introdurre un cambiamento costituzionale nel 1689576, sebbene non fosse questo il suo principale

obiettivo, né l’intento che lo portò a scrivere i Due Trattati, dal momento che «il suo interesse

dominante nel 1679 e 1680 era semplicemente quello di trovare, replicando a Filmer, una

giustificazione per la resistenza teoricamente coerente in una costituzione mista»577.

Nel fare ciò, secondo Franklin, Locke si ispirò direttamente a Lawson, volgendo la sua tesi in una

forma e in un linguaggio tali da renderla imprescindibile per le generazioni successive578.

574 Ivi, p. 124. 575 Ivi, p. 125. Sull’attualità di Locke e dei suoi principi si veda inoltre D. Wootton, Introduction, John Locke:Political Writings, cit., pp. 10-11. 576 Cfr. J. Franklin, John Locke and the Theory of Sovereignty, cit., p. 122. 577 Ivi, p. 123. 578 Franklin spiega che vi sono attualmente pochi grandi sistemi nei quali il potere esecutivo è costituzionalmente indipendente dal legislativo, uno di questi è la Costituzione degli Stati Uniti nella quale il problema affrontato da Locke è risolto sia attraverso l’elezione quadriennale del presidente sia con il potere, in capo al Congresso, di sottoporlo ad impeachment e di rimuoverlo, previsto proprio per evitare il dilemma dell’Inghilterra nel XVII secolo. Cfr. ivi, pp. 123-124.

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f) Tolleranza e urgenza soteriologicaf) Tolleranza e urgenza soteriologicaf) Tolleranza e urgenza soteriologicaf) Tolleranza e urgenza soteriologica

Se si presta attenzione alla biografia di Locke (l’educazione puritana seguita dal clima della

restaurazione di Oxford, l’incontro con Ashley Cooper e la progressiva adesione ad un

anglicanesimo di tendenza latitudinaria) e ai suoi scritti, la questione della tolleranza si presenta

come un argomento di riflessione permanente1: per quasi quarant’anni «Locke si batté per la

tolleranza religiosa, cioè per il non intervento dello stato in materia di religione»2.

Mario Tedeschi, in considerazione dei limiti di questa dottrina, e con riferimento al rapporto tra

gli scritti giovanili e le Lettere della maturità, attribuisce a Locke «una posizione intermedia

proprio perché non è riuscito a pervenire all’unica possibile, quella di una totale libertà di

religione e di coscienza»3. Tuttavia egli riconosce che « Locke risulta il più moderno dei teorici

della tolleranza religiosa, quello che più di qualsiasi altro ha incontrato il favore dei giuristi con

l’avvento delle Carte costituzionali e della teorizzazione delle libertà fondamentali, perché più di

ogni altro ha sottolineato l’aspetto politico della tolleranza stessa»4.

La posizione lockiana, del resto, è discussa: è noto che il filosofo - il quale conosceva le dottrine

di Castellion5, Aconcio6 ed Episcopio7 - non perverrà mai ad una tolleranza totale8. Giffin ha

1 Sul tema si rinvia alla bibliografia presente in: J. Locke, Scritti sulla tolleranza, cit., pp. 80-84. Si vedano inoltre: M. Tedeschi, La libertà religiosa nel pensiero di John Locke, cit., pp. 7-29; J. Coffey, Persecution and Toleration in Protestant England, 1558-1689, Longman, Harlow-London 2000; M. L. Lanzillo, Tolleranza, Il Mulino, Bologna 2001, in part. pp. 85-90; M. Sina, Il cammino di Locke verso la dottrina della tolleranza religiosa, in Id. (a c di), La tolleranza religiosa. Indagini storiche e riflessioni filosofiche, Vita e Pensiero, Milano 1991, in part. pp. 199-222; M. Merlo, La legge e la coscienza, cit., pp. 58-74; J. Mitchell, John Locke and the Theological Foundation of Liberal Toleration: A Christian Dialectic of History, in «Review of Politics», 52 (1990), pp. 64-83; G. Bedeschi, Storia del pensiero liberale, cit., pp. 67-72; J. Bury, Storia della libertà di pensiero, cit., in part. pp. 81-91; J. T. Moore, Locke on Assent and Toleration, in «The Journal of Religion», 58 (1978), pp. 30-36, ora in CA, II, pp. 183 – 190; S. Kessler, John Locke’s Legacy of Religious Freedom, in «Polity», 17 (1984/85), pp. 484-503, ora in CA, II, pp. 191 – 209; W. Euchner, La filosofia politica di Locke, cit., pp. 239 – 241; H. Kamen, Nascita della tolleranza, cit., pp. 231-234; F. Battaglia, Introduzione, Antologia degli scritti politici di John Locke, cit., pp. 5-19; R. H. Bainton, La lotta per la libertà religiosa, il Mulino, Bologna 19824, pp. 227-249; N. Bobbio, Le ragioni della tolleranza, in L’età dei diritti, cit., pp. 235-252. 2 D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., p. 71. 3 M. Tedeschi, La libertà religiosa nel pensiero di John Locke, cit., p. 29. 4 Ivi, p. 9. 5 L’umanista francese Sébastien Castellion riprese gli argomenti di Guillaume Postel che riteneva le verità morali del cristianesimo evidenti a tutti gli uomini razionali, ragione per la quale egli giudicava non necessario costringere le coscienze individuali e mai giustificabile il farlo. Castellion, che inizialmente si unì a Calvino a Strasburgo, avvertì in seguito il disagio per la sua intolleranza religiosa ed entrò in dissenso con lui. Nel suo De haereticis an sint persequendi propose una tesi tipicamente umanistica: l’essenza del cristianesimo consiste nel tentare di vivere in modo pio e giusto in questo mondo, nell’attesa della venuta del Signore. Tutte le dispute dottrinali erano pertanto irrilevanti ai fini di una vita autenticamente cristiana, mentre una verità religiosa accetta a tutti gli uomini razionali si trova all’origine delle varie religioni. Non vi era perciò una giustificazione per forzare le coscienze individuali. Su Castellion cfr.: Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, cit., p. 353; E. Troeltsch, Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani, cit., II, pp. 580-83; S. Zweig, Castellio contro Calvino, Fiorentino, Napoli 1945; H. Kamen, Nascita della tolleranza, cit., pp. 76-82.

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lasciato aperto l’interrogativo se Locke difendesse la tolleranza in quanto razionalista e nemico

dell’assolutismo, oppure per ragioni puramente pragmatiche9; Dunn ha concluso che su questo

specifico tema non è stato possibile giungere a soluzioni definitive, evidenziando che «le idee di

Locke nel corso della sua vita rimasero profondamente e fantasticamente incoerenti»10.

Marconi individua comunque altrove l’originalità del filosofo inglese sull’argomento e ritiene

che l’interesse della sua opera vada «ricercato nella maniera in cui egli utilizza il vasto materiale

culturale già elaborato nelle situazioni più diverse […]. Locke non inventò né il problema della

tolleranza, né la sua soluzione; piuttosto, egli diede un contributo di rilievo alla costruzione di una

società tollerante»11.

Con l’avvicendamento ai vertici del Christ Church College, l’allontanamento del tollerante

Owen e l’ingresso nel 1659 di Edward Reynolds, si era diffuso in Inghilterra un certo fanatismo

religioso. La stabilità era l’esigenza primaria e l’autorità appariva come l’unico mezzo per

ottenerla12.

In un clima di contrasti profondi Locke scrisse i giovanili pamphlet sul magistrato civile. Ad

avviso di Marconi troviamo espressa qui con chiarezza l’idea che la stabilità del supremo potere

politico sia requisito indispensabile di ogni convivenza13. In questi scritti di carattere

sostanzialmente accademico, nei quali si discuteva dell’estensione dell’autorità politica in ambito

religioso, «l’argomento a favore del potere molto esteso dell’autorità politica viene presentato come

una conseguenza della relazione tra Dio e l’universo creato, un prerequisito funzionale per la

realizzazione degli scopi divini nell’uomo»14. Giustamente Dunn ritrova qui una religione che

«appare solo come una forza coercitiva, non creativa»15.

6 Cfr. H. Kamen, Nascita della tolleranza, cit., pp. 83-84. 7 Cfr. ivi, pp. 156-157. 8 Cfr. M. Tedeschi, La libertà religiosa nel pensiero di John Locke, cit., p. 11. 9 Cfr. F. C. Giffin, John Locke and Religious Toleration, in «Journal of Church and State», 9 (1967), pp. 378-390. 10 Cfr. PPL, pp. 41 ss., qui 44. 11 D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., p. 12. A questo proposito, Micah Schwartzman in un suo saggio ha sostenuto che i tentativi di sviluppare argomenti dagli scritti lockiani non religiosamente connotati - a partire dalla convinzione che tali nuclei argomentativi debbano essere riformulati per parlare ad un pubblico pluralistico e secolare - hanno finito per oscurare e distorcere la natura religiosa della linea seguita da Locke a difesa della tolleranza. In tal senso, Schwartzman sottolinea il ruolo che gli argomenti di carattere religioso possono svolgere a favore dei princìpi del liberalismo politico. Cfr. Id., The Relevance of Locke’s Religious Arguments for Toleration, in «Political Theory», 33 (2005), pp. 678-705. 12 Sull’esigenza, avvertita da Locke, di ordine e stabilità si veda anche il primo Tract del 1660: «Non è senza motivo che la tirannia e l’anarchia sono giudicate i più dolorosi flagelli che possano abbattersi sull’umanità[…]. Quanto a me, nessuno può avere maggiore rispetto e venerazione per l’autorità di quanto ne abbia io». Id., Se il magistrato civile possa legalmente imporre e determinare l’uso di cose indifferenti in rapporto al culto religioso, in Due Trattati, pp. 420-421. Cfr. anche D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., p. 16. 13 D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., p. 19. 14 PPL, p. 24. 15 PPL, p. 29.

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Il giovane Locke mostra un pensiero religioso non ancora compiuto, dove Dio è presentato

«molto più come una garanzia d’ordine, un centro effettivo di repressione, che non come la fonte

di un particolare tipo di esperienza qualitativamente valida»16. E la tolleranza non può essere un

diritto religioso, «perché una tale concessione sarebbe incompatibile con i poteri dei quali sono

necessariamente investite le autorità umane per il controllo della malvagità degli uomini»17.

Come ha osservato Viano,

nelle opere politico-religiose giovanili erano rimaste le grandi interpretazioni teologiche della società: il potere politico si richiama alla legge naturale, intesa come il piano divino della società, il fenomeno religioso si risolve in un rapporto tra la coscienza e la divinità18.

Secondo Marshall, a partire dal 1667 i manoscritti lockiani mostrano una tendenza al superamento

del calvinismo che aveva segnato la prima formazione del filosofo, e una consapevolezza della tesi

arminiana di una fede attiva in contrasto con la giustificazione per sola fede, come pure argomenti

propri di una teologia morale orientata in senso arminiano e latitudinario, che potrebbero indicare

un crescente interesse del filosofo per queste tematiche19.

Negli anni che intercorsero tra la Restaurazione e la Rivoluzione del 1688 l’Inghilterra è segnata

dalla persecuzione di un numero elevato di protestanti dissidenti, molti dei quali scelsero la rovina

economica e la prigione pur di praticare forme di culto che il Parlamento aveva dichiarato illegali

con il Clarendon Code (1662-65)20. È soltanto tra il 1660 e il 1667 – con in mezzo la parentesi

diplomatica a Cleves, dove calvinisti, cattolici e luterani vivevano pacificamente insieme – che si

verifica uno «scivolamento radicale nel pensiero di Locke»21.

Al 1666 - anno del ritorno di Locke ad Oxford - risale l’incontro con Anthony Ashley Cooper,

titolare di un ministero finanziario e interessato alla politica coloniale. Fu questi a spingere Locke

allo studio dei problemi che riguardavano il governo e la Chiesa d’Inghilterra. Egli era infatti

«persuaso che i veri nemici dell’Inghilterra non fossero i dissenzienti protestanti, ma i cattolici. Nel

corso della sua intera vita politica, egli perseguì, sia nella politica interna che nella politica estera,

l’annientamento dell’influenza del “partito papista”, giungendo fino a montare, attraverso un uso

16 PPL, p. 25. 17 PPL, p. 27. 18 C. A. Viano, John Locke. Dal razionalismo all’illuminismo, cit., p. 194. 19 Cfr. RRR, pp. 119 ss. 20 Cfr. Trevelyan, Storia d’Inghilterra, cit., pp. 518 ss.; Id., La Rivoluzione inglese del 1688-89, cit., pp. 23-28; G. Mosca, Storia delle dottrine politiche, cit., pp. 197 - 206. Sulla tolleranza in Inghilterra si veda: H. Kamen, Nascita della tolleranza, cit., pp. 161 - 190; 202 - 215. 21 Cfr. S. Pearson Jr., The Religion of John Locke and the Character of his Thought, cit., pp. 143-144.

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cinico delle testimonianze, un inesistente “complotto papista” che portò all’esecuzione di una

ventina di cattolici innocenti»22.

In un’epoca che aveva assoluto bisogno di tolleranza ed era piombata invece in una rigida

persecuzione religiosa, Locke rivide le tesi dei due precedenti pamphlet nel suo Saggio sulla

tolleranza del 1667, «primo risultato della collaborazione politica tra Locke e Ashley»23, che rimase

incompiuto, trovando una pubblicazione solo ad opera di Henry Fox Bourne nel 187624. Qui egli

sottrasse all’autorità del magistrato le questioni di culto e preparò lo schema di una nuova politica

ecclesiastica25.

Locke osserva che magistrati e politica «sono costituiti al solo scopo di preservare in questo

mondo gli uomini dalla frode e dalla violenza reciproca»26, ricorda che lo scopo dell’instaurazione

di un governo deve essere al tempo stesso il criterio della sua azione e attacca la tesi di una

concessione divina della monarchia27. La funzione del governo è ancora quella di mantenere la

pace civile, che tuttavia è posta accanto alla salvaguardia, al benessere e alla tranquillità dei sudditi

in questa vita28. Da perseguire, comunque, attraverso un potere limitato e non assoluto, perché «il

magistrato, in quanto magistrato, non ha nulla a che fare col bene delle anime o col loro interesse

in un’altra vita»29.

Nell’abbozzo di questo giovanile Saggio sulla tolleranza, Locke afferma inoltre:

1. Ammetto che ci siano solo due generi di cose che hanno diritto alla tolleranza. Il primo è costituito da tutte le opinioni puramente speculative, come la credenza nella trinità, nella caduta, negli antipodi, negli atomi: cose che non si riferiscono in nessun modo alla società. 2. Il luogo, il tempo ed il modo del culto di dio. In entrambe queste cose, sembra che i papisti e tutta quanta l’umanità abbiano diritto ad essa30.

Questo scritto giovanile non si limita tuttavia ad indicare gli aspetti ai quali estendere la tolleranza:

in esso si afferma che

22 D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., p. 28. 23 Ivi, p. 35. 24 È il primo scritto di Locke apertamente e fondatamente favorevole alla tolleranza. Sul manoscritto (non di mano di Locke) della Lovelace Collection, che rappresenta la versione più tarda, è basata l’edizione di Carlo A. Viano che ne ha fornito anche la traduzione italiana (Scritti editi e inediti sulla tolleranza, cit., pp. 81-107). 25 Cfr. D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., in part. pp. 30-35; C. A. Viano, L’individualismo introvabile e la teoria lockiana della tolleranza, in G. Chiodi – R. Gatti (a c. di ), La filosofia politica di Locke, cit., pp. 11-31; B. Henry, Lessici dei diritti, pragmatica della tolleranza. Una parziale rilettura di un testo lockiano, ivi, pp. 173 – 189, in part. pp. 182-189. 26 ST, p. 90. 27 Ibid. 28 Cfr. ST, p. 91. 29 ST, p. 102. 30 ST, p. 123 (corsivo e minuscole nel testo).

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è fuori discussione che il magistrato abbia il potere ed il diritto di indebolire, reprimere o distruggere un partito costituito da uomini che la religione o un’altra cosa qualsiasi ha unito, mettendo palesemente in pericolo il suo governo31.

Circa i papisti, la posizione lockiana appare qui ambivalente: se da un lato essi come «tutti gli altri

uomini hanno diritto alla tolleranza del loro culto e delle loro opinioni speculative»32; dall’altro

non hanno diritto ad essa «in quanto hanno adottato nella loro religione come verità fondamentali

svariate opinioni che sono opposte a qualsiasi governo, e per esso deleterie, tranne che per quello

del papa»33.

Vi è poi un altro aspetto che viene messo qui in rilievo e riguarda un’altra categoria di opinioni:

c’è un terzo genere di opinioni ed azioni che in se stesse non danneggiano né avvantaggiano l’umana società, ma possono volgere la loro influenza al bene o al male unicamente in ragione delle caratteristiche dello Stato e delle sue condizioni specifiche […]: esse hanno diritto alla tolleranza soltanto nella misura in cui non interferiscono col vantaggio pubblico,

né contribuiscono in alcun modo a creare difficoltà al governo34.

L’incontro con Shaftesbury, presso la cui dimora Locke si trasferì poco dopo il loro incontro, con

buona probabilità deve essere stato determinante per la posizione che il filosofo manifesta verso i

cattolici in questo scritto35, anche se il tema della tolleranza attraversa tutta la sua riflessione:

[Locke] torna a più riprese e in più luoghi sul tema, fin dai lavori giovanili, e termina la sua vita ancora impegnato su problemi religiosi, senza però risolvere, come è stato giustamente notato, il rapporto tra tolerance e toleration, cioè tra l’attitudine meramente filosofica e l’aspetto politico-giuridico del concetto36.

Nel novembre del 1668 Locke divenne membro della Royal Society di Londra. Contestualmente,

per volere del suo protettore, assunse la carica di segretario dell’associazione dei Lords Proprietors

of Carolina, probabilmente contribuendo alla compilazione della sua Costituzione nel 166937. Gli

31 ST, p. 126. 32 Ibid. 33 Ibid. Locke aveva affrontato questo aspetto anche nella citata lettera a Stubbe, dove tra l’altro il fine del governo – contrariamente a quanto avverrà nelle opere maggiori – veniva identificato con la sicurezza della nazione. Cfr. Lettera a Henry Stubbe, in Due trattati, p. 416; D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., p. 17. 34 ST, pp. 109-110. 35 Locke giustifica, e giustificherà, l’esclusione dei cattolici dalla tolleranza sul piano meramente politico, non religioso. La loro esclusione era motivata dall’interesse per la salvezza dello Stato. Questi, infatti, obbedendo ad un principe straniero, avrebbero creato uno Stato nello Stato e, di conseguenza, posto a repentaglio quello del quale erano membri. Vi era dunque una motivazione differente all’origine dell’esclusione dei cattolici e degli Unitariani dalla tolleranza religiosa, come avverrà nell’Atto di Tolleranza del 1689: nel secondo caso l’esclusione implicava un giudizio in materia religiosa, mentre la libertà dei cattolici «poteva danneggiare la sicurezza della nazione poiché dipendeva da un’autorità esterna, e con interessi contrastanti, che si riteneva infallibile». M. Tedeschi, La libertà religiosa nel pensiero di John Locke , cit., p. 12. 36 Ivi, p. 7. 37 The Foundamental Constitutions of Carolina (1670), cit., trad. it. La costituzione fondamentale della Carolina, in M. Tedeschi, La libertà religiosa nel pensiero di John Locke, cit., pp. 164-166.

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artt. 95 – 110 della Carta affrontano la questione religiosa. Vi si afferma innanzitutto (art. 95) che

«a nessuno sarà permesso di essere un uomo libero della Carolina, o di avere alcuna proprietà o

abitazione in essa, se non riconosce un Dio; e quel Dio deve essere adorato pubblicamente e

solennemente »38.

Negli articoli successivi si spiega che «al parlamento spetterà prendersi cura della costruzione

delle chiese, e della pubblica manutenzione del personale ecclesiastico da essere impiegato

nell’esercizio della religione, in conformità alla Chiesa di Inghilterra; e questa essendo la sola

religione vera e ortodossa […] sarà così anche della Carolina (art. 96)»39.

Con riferimento ai nativi del luogo, e più in generale a tutti coloro che professavano altri credi

religiosi, si afferma che essi potevano «per via del buon trattamento e della persuasione e tutti quei

modi convincenti di gentilezza e mitezza adatti alle regole e ai disegni del Vangelo, essere persuasi

ad abbracciare la verità e accettarla senza finzione (art. 97)»40 e che era loro facoltà essere membri

di una chiesa, attraverso l’iscrizione ad un registro su base volontaria, come pure di abbandonarla

cancellandosi da questo (art. 105)41.

Inoltre, i termini che dovevano necessariamente costituire una chiesa o una professione erano i

seguenti: vi è un Dio; questo Dio doveva essere adorato pubblicamente; ciò era dovere di ogni

uomo (art. 100) e durante le assemblee religiose nulla si sarebbe detto «in modo irriverente o

sedizioso del governo o del governatore o di questioni di stato»42.

D’altra parte nel pensiero lockiano la questione della tolleranza intercettava quella dei rapporti

tra governo ecclesiastico e governo civile, secondo una distinzione tra i due poteri43. Ad avviso di

Tedeschi, dai primissimi scritti sulla tolleranza fino alle ultime Lettere «Locke era divenuto solo

meno assolutista, più propenso ad una separazione della società civile da quella religiosa, ma non

certo ad una valorizzazione della libertà di coscienza che, come prima, continuava a rifiutare.

Quelle che erano sostanzialmente mutate erano le posizioni politiche di Locke: la tolleranza

seguiva le vicende di queste e continuava ad essere vista come sempre in sua funzione»44.

38 Ivi, p.164. 39 Ibid. 40 Ivi, p. 165. 41 Cfr. ivi, p. 166. 42 Ibid. 43 Si veda lo scritto lockiano On the Difference Between Civil and Ecclesiastical Power (1673-1674) – Ms. Locke c 27 e, in P. King, The Life of John Locke, cit., II, pp. 108-119; trad. it. Sulla differenza tra potere civile e potere ecclesiastico, in Due Trattati, cit., pp. 514- 519. 44 M. Tedeschi, La libertà religiosa nel pensiero di John Locke, cit., p. 26. Sulla continuità tra gli scritti contro la tolleranza e quelli a favore di essa cfr. D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., p. 18.

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La lettura di Tedeschi è assai discutibile. Locke è infatti piuttosto chiaro sulla libertà di coscienza

nelle sue Lettere relative alla tolleranza. Discutendo del fine per cui si entra in società, e della

libertà che resta a ciascuno per ciò che riguarda la vita futura e per conseguire la salvezza

personale, egli afferma nella prima Lettera che «si deve obbedienza in primo luogo a Dio, e poi alle

leggi»45. E all’obiezione: «se il magistrato ordina con un editto qualcosa che la coscienza singola

giudica illecito?», Locke risponde: «se lo stato viene amministrato in buona fede, e gli intendimenti

del magistrato sono effettivamente rivolti al bene comune dei cittadini, ciò accadrà raramente. Se

poi si dà il caso che avvenga, affermo che il privato deve astenersi da un’azione che sia illecita in

base ai dettami della sua coscienza; ma deve sottoporsi a una pena che, per lui che la sopporta, non

è illecita»46.

Inoltre, in precedenza, con riferimento all’inefficacia della forza in materia di convinzioni

religiose, Locke domandava che speranza poteva avere di salvarsi chi fosse stato costretto a «metter

da parte i dettami della sua ragione e della sua coscienza e ad abbracciare ciecamente i dogmi del

suo sovrano, ed adorare Dio al modo stabilito dalle leggi della sua patria»47. Medesimi toni e

argomenti egli impiegava nella Terza Lettera48.

Al di là però della libertà di coscienza, che Locke evidentemente difendeva, si trova nella Lettera

sulla tolleranza una capitale definizione dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa a partire

dall’indicazione dei rispettivi compiti:

ritengo che si debba innanzitutto far distinzione tra materia civile e religiosa, e che si debbano fissare convenientemente i confini tra chiesa e stato49 .

Viene pertanto fornita una definizione dello Stato:

Lo Stato è, a mio modo di vedere, una società umana costituita unicamente al fine della conservazione e della promozione dei beni civili. Chiamo beni civili la vita, la libertà, l’integrità fisica e l’assenza di dolore, e la proprietà di oggetti esterni, come terre, danaro, mobili ecc. 50 .

45 LT, p. 168. 46 Ibid. 47 LT, p. 137; si veda anche p. 153. 48 Cfr. Terza Lettera sulla tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, cit., in part. p. 278. 49 LT, p. 135. Sulla separazione dei due ambiti (politico e spirituale) come opera e volontà di Cristo, e dunque sul carattere essenzialmente teologico dell’argomento al quale Locke ricorre per fondare la tolleranza: cfr. J. Mitchell, John Locke and the Theological Foundation of Liberal Toleration: A Christian Dialectic of History, cit, in part. pp. 65 – 72. 50 LT, p. 135.

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«Fuori da quei confini, che definiscono la sfera del pubblico – ha osservato Marconi -, il governo

non ha alcuna autorità; ma ciò non mette in forse la sua stabilità, perché né le opinioni né le azioni

autenticamente private la mettono in pericolo»51.

Locke spiega perché la giurisdizione del potere civile debba essere limitata ai soli beni chiamati

civili (life, liberty, property), e perché da essa vada esclusa la salvezza dell’anima: in primo luogo,

«la cura delle anime non è affidata al magistrato civile più che ad altri uomini »52. In secondo

luogo, perché il potere dell’autorità civile «consiste interamente nella costrizione. Ma consistendo

la religione vera e salutare nella fede interiore, senza la quale nulla ha valore presso Dio, la natura

dell’umano intelletto è tale, che esso non può essere costretto da alcuna forza estrinseca»53. In terzo

luogo, «poiché anche ammesso che l’autorità delle leggi e la forza delle pene fossero efficaci a

convertire gli spiriti umani, purtuttavia ciò non gioverebbe affatto alla salvezza delle anime»54.

Come ha fatto notare Dunn «se gli uomini non avessero bisogno della società politica per vivere

insieme in pace non ci sarebbe bisogno di governo. Quindi questo e nessun altro è lo scopo del

governo»55.

Una volta chiarito questo, Locke passa ad una definizione di Chiesa: essa è

una libera società di uomini che si uniscono volontariamente per adorare pubblicamente Dio nel modo che credono gradito alla divinità al fine della salvezza delle anime. Dico che è una società libera e volontaria56.

La Chiesa è un’associazione di uomini che si riuniscono volontariamente; Locke fa quindi propria

la concezione di una società che persegue fini puramente spirituali. Nella Ragionevolezza egli

aveva chiarito che cristiano è chi accetta Gesù come Messia e, allo stesso titolo, egli è membro

della Chiesa; il che naturalmente non implicava l’appartenenza ad una chiesa nazionale, e meno

ancora ad una setta, ma l’essere membro del Regno di Cristo. Per Locke

Il fine di una società religiosa è, come si è detto, il culto pubblico di Dio e l’acquisizione della vita eterna per mezzo di esso. A ciò dunque deve tendere ogni ordinamento; da questi confini devono essere limitate tutte le leggi ecclesiastiche57.

51 D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., p. 34. 52 LT, p. 136. 53 Ibid. 54 LT, p. 137. 55 PPL, p. 54. 56 LT, p. 138 (corsivo nel testo). 57 LT, p. 141.

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Quel che è essenziale in questa sede è notare come per Locke «la chiesa non è mediatrice di

salvezza»58: essa consente all’individuo di onorare pubblicamente Dio, ma un’appartenenza ad essa

non lo priva di un personale giudizio circa la propria salvezza.

I poteri dello Stato sono esercitati invece per conservare e promovere i beni civili: ovvero vita,

libertà, salute, proprietà, senza inteferire nelle coscienze59. Esso non può imporre quindi articoli di

fede, dogmi o forme di culto, e non fa propria alcuna dottrina religiosa. D’altra parte è pur vero

che nell’aderire ad una chiesa gli uomini non rinunciano ad alcun diritto naturale, pertanto questa

non ha poteri coercitivi sopra di loro, ad eccezione, nei casi più gravi, dell’espulsione (o

scomunica). Tuttavia, come ha fatto notare Victor Nuovo, sia nel caso della Chiesa che in quello

dello Stato Locke mette in risalto la centralità dell’assenso individuale come momento fondativo di

quella società: «il governo per consenso e l’associazione volontaria sono applicazioni dello stesso

principio, la libera scelta basata su un giudizio individuale»60.

Con questa sottolineatura Nuovo non intende sostenere che il filosofo avvertisse in maniera

consapevole una “coincidenza” del principio fondativo della Chiesa con quello dello Stato, ma

rileva che a partire dal 1682 Locke era impegnato in riflessioni di natura teologica e di natura

politica; era dunque assai probabile che il medesimo «principio fosse presente nella sua mente

mentre rifletteva sulla chiesa ed era presente anche quando stava prendendo in considerazione i

princìpi del governo»61.

In entrambi i casi l’individuo deve cedere qualcosa che è suo: «il potere di far rispettare la legge,

in primo luogo la legge di natura, e il diritto di interpretare la Law of Faith nella predicazione e nel

regolamento del culto pubblico»62. Nuovo chiarisce tuttavia che il parallelo tra la costituzione di

una chiesa e quella di uno Stato non è perfetto: mentre un individuo può abbandonare senza

conseguenze una certa chiesa, che è una particolare società di natura religiosa, non può fare lo

stesso nel caso del patto civile, poiché il magistrato conserva il diritto di esigere obbedienza dai

sudditi e di costringerli, ove necessario. Inoltre, mentre un ordine civile è soggetto a dissoluzione

quando il magistrato vìola il patto fondativo, come si è visto, «la chiesa universale – altrimenti nota

come Regno di Dio, dominio di Cristo – non può essere dissolta, sebbene la storia sacra cominci

con un tentativo del genere»63.

58 D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., p.44. 59 Cfr. LT, p. 168. 60 V. Nuovo, Locke’s Christology, cit., p. 144 (trad. mia). 61 Ivi, p. 145. 62 Ibid. 63 V. Nuovo, Locke’s Christology, cit., p. 144.

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Accanto a quest’analogia tra il principio fondativo di uno Stato e quello di una chiesa, vi è

tuttavia un altro aspetto da considerare che riguarda la rappresentanza; come ha rilevato Marshall,

Locke era esplicito: gli uomini potevano essere rappresentati negli affari civili ma non in quelli religiosi, perché la fede religiosa non era in loro potere mentre le azioni civili erano sotto il potere della loro volontà. Gli uomini dovevano poter rendere culto nel modo che ritenevano migliore e non dovevano essere impediti nel farlo quando avevano un’aspettativa di ricompense celesti prevalenti. Essi potevano essere soggetti ad una autorità religiosa solo dietro consenso, e potevano abbandonare una chiesa ogni qual volta sentivano che non rappresentava i loro interessi 64.

Locke condivideva con Fausto Socino e i suoi seguaci una dottrina irenica che respingeva

categoricamente l’uso della forza in ambito religioso, come pure la difesa della libertà in materia di

fede enunciata dal Catechismo di Racovia65, che egli conosceva.

Come il consenso al patto civile è libero, originario e volontario, al fine di ottenere dalla vita

associata dei benefici, così è volontario e libero il consenso a far parte di una chiesa, sebbene allo

scopo di rendere culto alla divinità secondo le modalità che si ritengono ad essa gradite e sulla base

di una fede individuale. Il magistrato – a differenza della figura del “principe devoto” dei luterani –,

in quanto detiene un’autorità che consiste nella costrizione, deve esclusivamente operare affinché i

sentimenti religiosi non conducano a conflitti di sette che mettano a rischio l’unità e la sicurezza

dello Stato. Egli non può invece prendersi cura delle anime, né della loro salvezza.

Locke in tal modo si opponeva alle dottrine luterane che vedevano nel “principe devoto” la

garanzia e la difesa della vera religione, e poteva farlo attraverso il suo individualismo religioso,

che consisteva nell’affermazione di una responsabilità individuale nella ricerca della vera religione

e al dovere di un giudizio personale in materia di fede66. Questioni dalle quali faceva discendere

una politica di tolleranza.

Il compito del magistrato non sarà quello di intervenire nell’ambito delle fedi individuali, ma di

impedire semplicemente che queste si trasformino in azioni pericolose per la società. Le chiese, dal

canto loro, non possono pretendere che chi viene espulso per cause religiose sia colpito e

condannato anche dallo Stato. In questo caso il riferimento polemico era al potere di deposizione

che i cattolici riconoscevano al Papa. Si dispiega così la posizione moderata attribuita a Locke:

64 RRR, p. 214 (trad. mia). 65 Cfr. H. Kamen, Nascita della tolleranza, cit., pp. 123-124; J. Bury, Storia della libertà di pensiero, cit., pp. 82-84. 66 Con riferimento ai temi della filosofia politica lockiana, Dunn afferma: «E le credenze religiose di tutti gli uomini (o, più esattamente, di tutti ad eccezione dei cattolici romani e degli atei) avevano pieno diritto di essere tollerate perché credere in Dio è qualcosa che ognuno, in linea di principio, può fare soltanto da solo, in quanto individuo; un conformismo dottrinario e di osservanza imposto non era dunque solamente assurdo e inutile, ma anche un’offesa contro il valore fondamentale dell’autenticità religiosa». Id., La teoria politica di fronte al futuro, cit., p. 71.

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In materia di Chiesa e Stato, come nell’ambito della ragione e della rivelazione, e dal principio della sua vita pubblica alla fine, [egli] fu un portavoce della moderazione, di quella libertà sufficiente a consentire una risposta individuale alle richieste della ragione e della coscienza, senza minacciare la pace sociale67.

Quel che Locke intendeva rompere, almeno ad un livello concettuale, era l’alleanza tra Corona e

clero anglicano che aveva determinato e segnato la Restaurazione68. Sebbene risultasse chiaro dai

Due Trattati il giudizio su Carlo II come un tiranno, Locke non era più generoso nei confronti del

clero anglicano, il cui principale obiettivo era la conservazione di un monopolio politico

impedendo la tolleranza religiosa, per conseguire il quale non esitava a schierarsi a difesa di un

rigido assolutismo monarchico e del principio della non-resistenza al sovrano69.

Dopo la Restaurazione, l’Atto di Uniformità del 1662 aveva ristabilito la Chiesa di Stato (e il

Libro ufficiale di Preghiere) per mezzo dell’imposizione di un rigido anglicanesimo70, imponendo

la conformità liturgica – e l’esclusione dei non conformisti dagli uffici civili e dalle università -

senza concessioni ai puritani in materia di culto o di episcopato. Tutto ciò condusse al Clarendon

Code, e inaugurò vent’anni di persecuzioni verso i dissidenti.

Il parlamento anglicano, sempre più rigido custode dell’ortodossia, si oppose fermamente ai

tentativi di Carlo II di instaurare un regime più tollerante verso i Dissenters, ritenendo che il

calvinismo avesse già una volta distrutto la pace civile, e ciò non avrebbe dovuto ripetersi71. Per i

Lords, la gentry, i vescovi si trattava di riaffermare una supremazia economica, sociale e politica,

oltre che «di colpire a morte […] l’aborrito partito puritano »72.

Agli occhi di Locke la Corona era stata in più occasioni il supporto alla bramosia di potere

temporale da parte del clero anglicano, e non il contrario, con conseguenze non meno nefaste73. La

distinzione che egli proclamava, pertanto, non si riferiva in primo luogo a Stato e Chiesa intesi

come due ordinamenti sovrani, ma tra uno Stato che assicura a tutti libertà religiosa e di culto, e le

67 S. Pearson Jr., The Religion of John Locke and the Character of his Thought, cit., p. 146 (trad. mia). 68 Il principio anglicano o presbiteriano della Chiesa di Stato, ovvero dell’uniformità religiosa obbligatoria, in base alla quale il cittadino doveva anche essere credente, era stato infranto per la prima volta da Cromwell e dalla sua rivoluzione militare: «fu proprio il suo indipendentismo, il suo non conformismo, a fargli sentire l’importanza della libertà religiosa: ogni uomo aveva il diritto di aderire in piena libertà di coscienza alla propria Chiesa, semplice associazione volontaria di uomini e donne cristiani». Una “tolleranza” che però non si estendeva a cattolici, episcopali e sociniani. N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà, cit., p. 81. 69 Sulle rivendicazioni da parte del clero di un potere separato dal governo civile, e stabilito da Dio stesso, e sul sostegno alla monarchia jure divino «per ricompensare i prìncipi per gli ingrati compiti eseguiti», all’origine delle calamità che hanno devastato la cristianità, cfr. Sacerdos, trad. it. cit., in part. pp. 506-507. 70 Cfr. D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., p. 24. 71 La Dichiarazione di indulgenza del 1672, che revocava le leggi penali contro i non anglicani, venne presto limitata dal primo e secondo Test Act (1673, 1678) con i quali si volle impedire l’ingresso dei non anglicani in Parlamento e nel servizio civile, e quello di cattolici e puritani nell’esercito. Mentre per le cariche politiche e le magistrature il requisito diventava la partecipazione all’eucaristia di rito anglicano. 72 D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., p. 22. 73 Cfr. A. Sabetti, John Locke: La religione tra “ragione” e “rivelazione”, cit., pp. XIII- XV, nn. 7-8.

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chiese come libere associazioni di individui che agiscono nella società civile, e che indirettamente

– in modo cioè mediato - possono contribuire a formare un giudizio morale o filosofico.

Da questa divisione dei compiti tra Stato e Chiesa, per mezzo della quale il filosofo inglese si

avvicinava al pensiero tomista della Controriforma, mentre se ne allontanava al momento di

sottrarre giurisdizione alla Chiesa, discendeva la necessità di una politica di tolleranza74, la quale

era una richiesta a tutti gli effetti di carattere politico:

La dottrina lockiana della tolleranza completa la teologia civile e afferma la libertà di culto e di coscienza per le chiese e le sette, fatta eccezione per quelle che insistono nel rendere la religione una questione politica. Tra queste ultime – che non devono essere tollerate e alle quali bisogna negare un riconoscimento civile – vi sono implicitamente [quelle di] cattolici, maomettani, antinomiani e Levellers 75.

A ben vedere la politica di tolleranza lockiana si può ricondurre ad almeno tre istanze: la prima di

carattere epistemologico; la seconda di carattere teologico (in via di definizione all’incirca dal 1682

al 1695, anno della pubblicazione della Ragionevolezza) e una terza di carattere politico.

Quanto all’istanza di tipo epistemologico, la tolleranza è un’esigenza che deriva da una struttura

antropologica fallibile e impossibilitata a giungere alla verità nella sua totalità76, come pure dal

particolare statuto della faith, che, come Locke aveva spiegato nel Saggio, non è una conoscenza

dimostrabile77. La necessità di un giudizio individuale nelle questioni di fede – e della conseguente

illegittimità di un’imposizione - trova quindi il suo fondamento nei limiti della comprensione

umana tracciati nel Saggio, e ribaditi nella Seconda Lettera sulla tolleranza («E la ricerca e la

riflessione non garantiscono dall’errore neppure uomini colti ed esperti, senza l’intervento

specifico della grazia di Dio»78). L’impossibilità di ricorrere alla violenza era per Locke logica e

necessaria conseguenza della condizione umana, dal momento che «punire qualcuno per farlo

ricercare finché non trova la verità, senza che ci sia un giudice della verità, equivale a punirlo per

non si sa che»79. Come ha notato Marshall,

La dichiarazione di Locke della necessità di un giudizio individuale in tema di religione, dal Saggio sulla tolleranza in avanti, si basava su una serie di motivi tra i quali i limiti della comprensione umana, l’enorme fallibilità degli uomini

74 Uno dei maggiori teologi sociniani, Johannes Crell, nelle sue Vindiciae pro religionis libertate (1632) – testo che riscosse ampia fortuna nel XVIII secolo - aveva teorizzato una distinzione tra Stato e Chiesa sulla quale fondare la richiesta di tolleranza, e in questo senso esso costituiva un testo di “dottrina politica”. La tolleranza religiosa diventava quindi tolleranza politica. Cfr. F. De Michelis Pintacuda, Socinianesimo e tolleranza nell’età del razionalismo, La Nuova Italia, Firenze 1975, p. 87. 75 E. Sandoz, A Government of Laws, cit., p. 80 (trad. mia). 76 Cfr. La Condotta dell’intelletto [3 e 34], cit., pp. 640 ss.; 703 ss. 77 Cfr. M. Merlo, La legge e la coscienza, cit., p. 59. 78 Seconda Lettera sulla tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, cit., p. 205. 79 Ivi, p. 232.

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nelle questioni religiose, la medesima potenziale fallibilità di magistrati e sudditi, e in particolare l’inefficacia della forza sull’intelletto […]80.

Per Locke non era certo compito dei magistrati e delle leggi civili stabilire la veridicità di credenze

religiose, perché i primi erano uomini come tutti gli altri, con i medesimi limiti quanto alla

scoperta della verità, e inoltre non avevano alcun potere sull’interiorità della coscienza. Compito

dei magistrati e delle leggi era invece di provvedere alla sicurezza degli individui, i quali però in

certe circostanze avrebbero avuto bisogno di protezione da opinioni pratiche contrarie alla

conservazione o all’interesse della società civile. E questo era il solo spazio che per Locke si apriva

ad una possibile coercizione. Come si legge in un manoscritto del 1688, dal titolo Pacifick

Christians :

Nessun uomo o società umana ha alcuna autorità di imporre opinioni e interpretazioni a qualcuno, neppure al più misero dei cristiani; in materia religiosa infatti ognuno deve per conto suo conoscere, credere e rendersi responsabile81.

Il pensiero di Locke pertanto si trasforma, matura, non è statico82. Mentre nel Saggio del 1667 la

tolleranza era questione eminentemente politica e si proclamava la rinuncia ad imporre la fede, nel

tardo Locke la tolleranza è un bene, un valore in sé, e non semplicemente un dispositivo utile e

prudenziale. Nel corso di venti anni Locke rielabora il proprio concetto di tolleranza arrivando ad

uno positivo, passando cioè da un distanziamento dalle varie istanze religiose di tipo pragmatico ad

una necessità dettata dalla consapevolezza che tutti siamo fallibili e nessuno possiede una verità

religiosa da poter imporre:

Io affermo che quell’unico, angusto sentiero che conduce al cielo non è più noto al magistrato che ai privati cittadini; e perciò io non posso seguire con sicurezza una guida che, mentre può ignorare la via giusta tanto quanto me, d’altra parte certamente non può non essere meno sollecito della mia salvezza di quanto lo sia io stesso83.

Il rapporto religioso – e siamo all’istanza di natura teologica - nella visione cristiana di Locke

riguarda il singolo e Dio, pertanto in alcun modo può essere imposto84. Come ha messo in evidenza

Dunn, l’aspetto da considerare qui è che «i doveri religiosi sono intrinsecamente dipendenti dalla

80 RRR, p. 214 (trad. mia). 81 Cfr. Pacifick Christians - Ms c. 27, f. 80 a-b [1688], cit.; trad. it. Regole per una società di cristiani pacifici, in Due Trattati, pp. 527-528. 82 Cfr. G. Fiaschi, Locke o dell’ambiguità di un moderno, in G. Chiodi-R.Gatti (a c. di), La filosofia politica di Locke, cit., pp. 33 – 62, in part. 50-62. 83 LT, p. 151. 84 Cfr. ST, p. 92; LT, p. 153. Ciò significa «che per quanto un individuo arrivi seriamente e responsabilmente a certe convinzioni, né la qualità del suo sforzo, né la posizione politica e sociale dell’individuo stesso, lo autorizzano a mettere le proprie convinzioni al posto di quelle di un altro. La fede non funziona in questo modo». PPL, p. 51.

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convinzione. La convinzione non può essere generata dalla costrizione, o lo può essere solo nel

senso molto speciale di una pressione psicologica divina. Non è possibile avanzare delle pretese

contro lo statuto specificamente religioso delle convinzioni religiose altrui basandosi sulle

proprie»85.

La tolleranza viene difesa sulla base dello statuto della religione che richiede a ciascuno

un’assunzione di responsabilità e la cura della propria anima, e che si misura proprio

dall’autenticità e dalla sincerità personali:

Infatti, ogni parola proferita con la bocca e ogni atto compiuto nelle pratiche esteriori del culto non solo non giova alla salvezza, ma le nuoce, se non si è persuasi nel profondo del cuore che tutto ciò è vero e gradito a Dio, poiché a questo modo agli altri peccati che devono essere espiati con la religione si aggiunge a coronamento la simulazione della religione stessa e il disprezzo della divinità, perché si offre a Dio Onnipotente un culto che si pensa essergli sgradito 86 .

Locke ricorre inoltre all’argomento del “risarcimento”, secondo il quale un uomo non può

costringere un proprio simile a fare qualcosa per cui, se si rivelasse errato, non potrebbe esserci un

risarcimento adeguato:

Se in altre cose gli ubbidisco, quali che siano i mali che ne subisco, egli è in grado di offrirmi una riparazione in questo mondo; ma se mi costringe ad una religione erronea, egli non può in alcun modo risarcirmi nell’altro mondo87.

Si comprende tutto ciò, naturalmente, solo se si tiene presente che per Locke «aderendo ad una

chiesa, l’individuo non aliena il proprio giudizio, ma si limita ad esprimere la sua (provvisoria)

coincidenza con altri giudizi individuali, fermo restando che egli pagherà di persona per la sua

scelta di fondo e per tutte quelle che ne derivano»88.

Al magistrato, di conseguenza, è affidato il compito di tracciare solo delle linee di demarcazione

di uno spazio religioso comune che consenta il mantenimento della pace comune, per eliminare la

violenza dai rapporti civili; ma non gli è concesso di avere a cuore la salvezza del singolo, perché

egli per primo non conosce i modi e le vie di questa salvezza89. Vi è dunque una incompetenza di

fondo che si va ad aggiungere alla tendenza – osservata da Locke – alla corruzione del potere

temporale, cioè all’orgoglio, all’ambizione e alla sete di dominio del potere mondano90.

85 PPL, p. 51. 86 LT, p. 136. 87 ST, p. 92. Cfr. inoltre LT, p. 150. 88 D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., p. 44. 89 Cfr. LT, pp. 151—153. 90 Lo nota in particolare V. Nuovo, Locke’s Christology, cit., p. 146.

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Al fondo della posizione lockiana, che escludeva peraltro un commonwealth cristiano91, dal

momento che non considerava compatibili Vangelo e potere temporale, si scorge in definitiva

un’implicazione di realismo politico: per mantenere l’ordine di una comunità occorre rinunciare

ad imporre una verità, anche se solamente sul piano dell’ordine sociale. Restava infatti fermo il

dovere di ricerca personale92: per Locke il problema soteriologico era il problema fondamentale, e

non perdeva mai la sua urgenza.

In due appunti manoscritti Locke riflette su aspetti di natura ecclesiologica.

Ecclesia, voce composta durante la Crisi dell’Esclusione e sotto la minaccia di un re cattolico, si

riferisce alla Chiesa come associazione volontaria e consiste in una breve riflessione sul XV

capitolo del I libro della Politica ecclesiastica di Hooker, nella quale il teologo anglicano

distingueva tra la chiesa come società soprannaturale e la chiesa come comunità sociale, dalle

origini naturali e storiche93. A Locke interessava la distinzione tra i due tipi di chiesa per

sviluppare alcune deduzioni: in primo luogo, la chiesa è una società volontaria, pertanto non si può

essere costretti a farne parte; in secondo luogo, non si potevano imporre pratiche liturgiche o

cerimonie contro la propria coscienza; infine era inteso che l’accordo tra i cristiani nell’ambito di

una chiesa doveva avvenire per consenso e che la ragion d’essere di una tale società era il culto

pubblico di Dio94.

Risale invece al 1698 un’annotazione dal titolo Error, nella quale si spiega che le divisioni tra

cristiani derivano da differenti convinzioni circa la verità95. Nell’appunto viene detto che ogni

setta ha opinioni proprie alle quali si dà il nome di ortodossia; coloro che vi aderiscono sono detti

ortodossi e sulla via della salvezza, coloro che le mettono in dubbio sono detti eretici e considerati

nell’errore96.

Da questo breve scritto emerge l’attenzione con cui Locke guardava alle questioni religiose e al

dovere di un esame individuale e ragionato di ciò che si professava. Egli afferma infatti che

laddove una ricerca onesta giunga ad una conclusione erronea non vi è colpa, perché dovere di

ogni cristiano è cercare la verità: «colui che esamina, e dopo un giusto esame prende un errore per

91 Cfr. LT, pp. 162-163. 92 Cfr. La Condotta dell’intelletto [8 e 23], cit., pp. 659 - 660; 680. 93 Si tratta di un lemma del Common-Place Book del 1682 pubblicato per la prima volta dal King. Cfr. Ecclesia, cit.; trad. it. in Due Trattati, pp. 508-509. 94 Cfr. ivi, p. 509. 95 Si tratta di una nota del Common-Place Book, anch’essa pubblicata dal King; cfr. Error, cit., ora in WR, pp. 81- 83. 96 Cfr. WR, p. 81.

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verità ha fatto il suo dovere più di colui che invece professa la verità (perché le verità in se stesse

non può possederle) senza aver esaminato se fosse vera o meno»97.

Locke in coerenza con la Ragionevolezza spiega che il cristianesimo si configura come una

norma di vita morale e non come sistema di dogmi, aggiungendo che «non possiamo essere salvati

senza compiere ciò che è la fede esplicita in quel che Dio nel Vangelo ha reso assolutamente

necessario da credere per la salvezza e obbedire a quel che Egli ha qui comandato. Per un uomo

che crede in Gesù Cristo - inviato da Dio come salvatore del mondo - il primo passo per

l’ortodossia è una sincera obbedienza alla sua legge»98.

Viene stabilita inoltre la differenza tra l’ortodossia del cristianesimo e quella delle diverse sette

cristiane: mentre nel primo caso è richiesto di credere quel che è assolutamente necessario per la

salvezza, nel secondo è richiesta una professione di fede (profession of believing) in una serie di

articoli che costituiscono il sistema di ogni chiesa, ma senza una sincera obbedienza ai relativi

doveri99.

La politica di tolleranza era insomma una necessità per la salvezza individuale, essa “occorreva”

al singolo per maturare un’autentica persuasione interiore e per il perseguimento della propria vita

futura. Tuttavia tale politica è stata indiscutibilmente uno dei “frutti” del razionalismo cristiano del

filosofo. La tolleranza di Locke è in definitiva l’esito della sua personale lettura del Vangelo come

annuncio di benevolenza, di mitezza e di carità100.

Questo tipo di argomentazione conduce direttamente alla cristologia di Locke e alla sua idea di

salvezza, la quale può provenire esclusivamente dall’autenticità di ciò che si crede: «Una via che

intraprendo contro coscienza non potrà mai condurmi alle sedi dei beati. Posso arricchire con un

mestiere che detesto; posso essere guarito da medicine su cui ho dei dubbi; ma non posso esser

salvato da una religione di cui dubito, da un culto che detesto»101.

Victor Nuovo ha osservato che la richiesta lockiana della tolleranza viene avanzata (almeno in

parte) in considerazione dell’assenza di una legge di natura, o comando divino, che assegni al

magistrato civile una giurisdizione sulla cura delle anime, come pure di una legge che nei Vangeli

stabilisca un potere ecclesiastico sulla terra: la religione, pertanto, è interamente sottoposta alla

giurisdizione di Cristo102.

97 Ibid. (trad. mia). 98 WR, p. 82 (trad. mia). 99 Cfr. WR, p. 83. 100 Cfr. LT, p. 131 e 134; Regole per una società di cristiani pacifici, cit., pp. 527-529. 101 Cfr. LT, p. 153 (corsivo mio). Cfr. anche V. Nuovo, Locke’s Christology, cit., pp. 145-146. 102 Cfr. V. Nuovo, Locke’s Christology, cit., pp. 145-146.

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La politica di tolleranza si comprende allora alla luce della cristologia lockiana e della peculiarità

che il filosofo assegnava al cristianesimo, come dottrina alla quale aderire per mezzo della fede in

Gesù Messia, il quale chiede ai suoi discepoli una libera accoglienza di lui come re e come modello:

«Da ciò segue che le società cristiane fondate sulla terra devono costituirsi come libere associazioni

volontarie che hanno delle proprie costituzioni, ma che non possono costringere ad aderire ad

esse»103.

Come ha sostenuto Pearson, il filosofo opta per la tolleranza sulla base della natura stessa del

rapporto religioso, che richiede ad ogni uomo di assumersi la responsabilità della propria salvezza

ed è basato soprattutto sulla sincerità interiore104.

Tale richiesta di tolleranza celava infine anche una ragione politica (nonché economica), che si

comprende nell’ottica più ampia del progetto di Shaftesbury per l’Inghilterra e, poi, di Guglielmo

d’Orange105. Locke tiene sempre presente la necessità umana di un ordine politico, della pace che

egli considerava in costante pericolo e non acquisita in modo definitivo. Dall’ordine politico sorge

la società civile, e anche un fiorente commercio106. In questo senso, come ha messo in evidenza

Nicola Matteucci, chiedere libertà religiosa significava chiedere libertà politica.

Le origini del liberalismo europeo si radicano nell’intreccio fra il dibattito costituzionale e la

richiesta di una “tolleranza” religiosa che diventa col tempo l’affermazione di un diritto alla libertà

religiosa, e quindi alla libertà politica:

Con Locke la tolleranza non è più la richiesta di una setta perseguitata, ma il vero e proprio fondamento del nuovo Stato. La libertà religiosa contiene in sé non solo la libertà di culto, perché la prima senza la seconda non avrebbe senso, ma anche la libertà di associazione, la libertà di pensiero, la libertà di diffonderlo con ogni mezzo 107.

Dalla Lettera sulla tolleranza avrebbe preso forma, secondo Colin Kidd, una teologia civile [civil

theology] costruita sulla distinzione tra opinioni “speculative” e opinioni “pratiche” degli articoli

di fede. Ma, prima ancora, essa distigueva tra materia civile e religiosa, tra la funzione politica, e i

relativi beni da tutelare, e la funzione religiosa con fini propri108. Come è noto, infatti, mentre le

opinioni “speculative” di una credenza terminavano semplicemente in una comprensione, e

103 Ivi, p. 146 (trad. mia). 104 Cfr. S. Pearson Jr., The Religion of John Locke and the Character of his Thought, cit., pp. 144 – 145. 105 Cfr. D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., pp. 32-33; S. Ciurlia, Pensiero liberale, principio di tolleranza e costituzionalismo in Locke, cit., p. 99. 106 Sulle conseguenze economiche nefaste della repressione del dissenso religioso, cfr. D. Marconi, Introduzione, Scritti sulla tolleranza, cit., p. 26. 107 N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà , cit., p. 107. 108 Cfr. C. Kidd, Civil Theology and Church Establishments in Revolutionary America, in «The Historical Journal», 42 (1999), pp. 1007 – 1026, qui 1014.

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avevano un diritto assoluto alla tolleranza, le opinioni “pratiche” non si limitavano alla sfera

interiore individuale ma infuenzavano anche volontà e comportamento, e da questo punto di vista

potevano ricadere sotto la giurisdizione del governo civile nella misura in cui rappresentavano un

ostacolo alla pace civile. La soluzione lockiana è stata quella di disegnare uno Stato che potesse

legittimamente “regolare” le opinioni pratiche, senza compromettere la propria neutralità

religiosa109.

La tolleranza era pertanto da escludere in tutti quei casi di opinioni contrarie all’interesse della

società civile o a regole morali utili alla sua conservazione110; dottrine segrete in violazione di

giuramenti e di tradimento al re (secondo le quali i re scomunicati perdevano i loro regni e non si

doveva mantenere la parola con gli eretici); dottrine in base alle quali il dominio era fondato sulla

grazia, o che assegnavano un privilegio particolare negli affari civili, o che si riutavano di tollerare

altri uomini su questioni puramente religiose111. Qualunque gruppo o chiesa che predicava le

suddette dottrine non doveva essere tollerato.

Locke si riferiva a certe dottrine socialmente sovversive, incluse quelle associate alla teologia politica cattolica romana che minacciavano di alterare la fedeltà del suddito. Dall’altro lato gli atei minacciavano le costruzioni che si fondavano sulla fiducia – giuramenti e promesse – dai quali la società dipendeva112.

Cattolici e musulmani non dovevano essere tollerati perché si riconoscevano soggetti ad una

giurisdizione diversa da quella civile; i primi in particolare riconoscevano al Papa un potere di

deposizione nei confronti del sovrano che lasciava intendere un’ostilità contro gli “eretici” per

conto di un’altra istituzione sovrana113.

È nella Seconda Lettera sulla tolleranza che si discute tuttavia una delle tesi più rilevanti di

Proast: Locke nega che la coercizione in ambito religioso, indiretta e a distanza, possa produrre

qualche utilità e osserva che le punizioni corporali sono piuttosto capaci di distogliere da quella

religione che vi fa ricorso,

perché ogni volta che si difende qualcosa in nome della sua utilità, non basta affermare, come voi dite, ed è il massimo che si possa dire a suo favore, che quella cosa può servire; ma bisogna considerare non soltanto quel che può produrre, ma quel che è probabile che produca: e il suo uso dovrebbe essere determinato dalla probabilità che ne scaturisca un bene o un male maggiore114.

109 Ibid. 110 Cfr. LT, p. 170. 111 Cfr. LT, pp. 170 – 171. 112 C. Kidd, Civil Theology and Church establishments in revolutionary America, cit., p. 1014 (trad. mia). 113 Cfr. LT, pp. 171-72. 114 Seconda Lettera sulla tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, cit., p. 195.

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A Locke semplicemente non sembrava possibile mettere in dubbio che «una religione che è da Dio

non ha bisogno per prevalere dell’assistenza di un’autorità umana»115.

Ma la teologia civile di Locke, ha osservato Sandoz, se ridotta ad un dogma minimo di princìpi di

tolleranza e articoli di intolleranza, tutelati da una legge positiva e giustificati da un appello alla

legge di natura, rischia di avere come risultato una radicale privatizzazione della vita dello spirito,

e un’idea del governo civile come espressione di una provvidenza universale, immanente alla

storia, nell’ordine naturale dell’umana ragione. Ad avviso di Sandoz, il tentativo del filosofo

inglese non sarebbe stato semplicemente di provvedere una soluzione brillante agli annosi

problemi della politica del tempo, ma avrebbe rappresentato un’iniziale formulazione di una

concezione radicalmente immanente dell’esistenza umana, che, una volta mediata dagli illuministi

e dalla Rivoluzione francese, avrebbe stimolato il sorgere della democrazia totalitaria come sorella

deforme della democrazia liberale. Le ideologie del XIX secolo francesi e tedesche ne sarebbero

state un esempio116.

Secondo l’interpretazione avanzata invece da Michael Zuckert, Locke avrebbe perfettamente

condiviso con gli antichi l’idea che la società civile non può riposare su una fondazione puramente

razionale o filosofica, anche semplicemente per il fatto che la maggior parte degli uomini non è in

grado di filosofare. Egli si sarebbe dunque impegnato a dimostrare la necessità di una religione

civile (civil religion), e il suo scopo primario sarebbe stato quello di spiegare che il cristianesimo -

se opportunamente compreso - non era semplicemente vero ma era anche civile, nella misura in

cui si presentava come guida per l’ordine politico117. E la tesi fondamentale che Zuckert pone a

fondamento della sua riflessione è l’affermazione, presente nella Ragionevolezza, secondo cui non

potendo la gran parte dell’umanità conoscere, deve perciò credere118.

Questo tentativo lockiano sarebbe stato portato avanti al prezzo di una riduzione ai minimi

termini del cristianesimo, il solo modo – ad avviso di Zuckert - per non costituire una fonte di

controversie e, al medesimo tempo, per servire da supporto all’ordine morale e politico di una

società civile. Inoltre i due criteri che Locke stabilì, affinché il cristianesimo potesse effettivamente

svolgere la sua funzione di religione civile - in ciò superando tutte le etiche di carattere filosofico,

115 Ivi, p. 188. 116 E. Sandoz, A Government of Laws, cit., pp. 81-82. 117 Cfr. M. Zuckert, Locke and the Problem of Civil Religion, in R. Horwitz (ed.), The Moral Foundations of the American Republic, cit., pp. 181-203; ora in LL, pp. 147-168. Zuckert solleva accanto a questa tesi principale la questione dell’esito di un tale tentativo, che a suo giudizio non avrebbe avuto successo a causa dei princìpi di una filosofia moderna, quale era appunto quella di Locke. Ma è un problema che, in questa sede, passa in secondo piano. 118 Cfr. RC, p. 186; p. 138. Si veda inoltre su questo punto: S. Forde, Natural Law, Theology, and Morality in Locke, cit., p. 406.

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che si limitavano ad offrire una felicità puramente terrena - erano una conformità rigorosa alle

Scritture e un accordo con la ragione, fino a legarle tra loro suggerendo che solo una comprensione

letterale e ragionata dei testi sacri ne avrebbe fatto emergere il carattere ragionevole119.

Tuttavia Locke, fa notare Zuckert, non manca di ricordare nella Second Vindication che nel

nome del cristianesimo erano state combattute guerre e si erano consumati importanti scismi,

attribuendo in parte la causa di ciò al carattere monoteistico del giudeo-cristianesimo, ovvero alla

sua chiusura circa la possibilità di altre divinità120.

Anche se Locke associava principalmente al cattolicesimo l’imposizione di credi e di articoli di

fede, si rendeva conto che la Riforma non aveva modificato la situazione: tutte le sette offrivano

un cattivo esempio, pronte ad imporre propri articoli di fede a tutti gli altri, tanto da condurre a

guerre civili e regidici. Ogni cambio di governo era accompagnato da un conflitto religioso: «In tal

modo, come spiega Locke, il cristianesimo, soprattutto quello riformato, non era servito da

religione civile»121.

Zuckert suggerisce pertanto di intendere le dottrine principali di Locke come uno sforzo, da

parte sua, di replicare ai due modi in cui il cristianesimo aveva storicamente fallito come religione

civile. Locke avrebbe quindi conservato la forma della teologia riformata, modificandone però il

contenuto: l’unico articolo di fede che egli difendeva, nel lasciare aperta o indefinita la questione

della divinità di Gesù (e di conseguenza la dottrina della Trinità), era sufficientemente ampio da

poter comprendere un buon numero di sette, come pure ariani e sociniani, e ottenere al medesimo

tempo il consenso anche di coloro che credevano nel dogma trinitario, come ad esempio i cattolici:

«Locke intendeva sconfiggere il settarismo sanguinario della cristianità conducendo gli uomini ad

una formula così estesa dell’articolo di fede fondamentale»122.

Questa regola di fede, insieme alla dottrina esposta nella Lettera sulla tolleranza, sono dunque

interpretate da Zuckert come il tentativo di chiudere una dolorosa storia di lacerazioni e conflitti,

prolungatasi per oltre mille anni. Zuckert riconosce inoltre che nella Ragionevolezza Locke non

fornisce dettagli circa il legame che sussiste tra legge di ragione, o di natura, e le esigenze della

società civile, e neppure spiega quali tipi di regimi politici la legge di natura supporterebbe, ma

presume che il filosofo aveva inteso limitare questi argomenti ai soli Due Trattati.

119 Cfr. LL, p. 154. 120 Cfr. ivi, p. 150. Il riferimento al cristianesimo come motivo di disordini, tumulti e spargimento di sangue, «dovuto solo al fatto che i membri del clero, col difforndersi del Cristianesimo e del suo dominio, reclamavano il diritto ad un sacerdozio derivato loro in quanto successori di Cristo, e perciò indipendentemente dal potere civile» è presente anche nella nota Sacerdos, cit., p. 505. 121 LL, p. 151 (trad. mia). 122 Ivi, p. 153.

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Anche il pentimento, che come si è visto viene considerato nella Ragionevolezza indispensabile

almeno quanto la fede all’interno del Covenant of Grace, e quindi per la vita eterna, consisteva in

un sincero proponimento di seguire le leggi di Dio e si esprimeva in una nuova vita di impronta

evangelica123. Locke, in questo modo stava affermando «un collegamento molto chiaro tra le

sanzioni divine e le azioni umane in questa vita, di gran lunga più semplice del legame presente

nella maggior parte della teologia riformata»124. E poiché il contenuto profondo di questa legge di

Dio altro non era che la legge di ragione, o di natura, i cui precetti governano anche la società

civile, se ne conclude che «le opere che Dio ricompensa e punisce nell’aldilà sono precisamente

quelle che soddisfano o minacciano le esigenze della vita civile»125.

123 Cfr. RC, pp. 181-183; pp. 130-133. Ma è un tema che ritorna ad es. nella Lettera sulla tolleranza: LT, p. 132. 124 M. Zuckert, Locke and the Problem of Civil Religion, cit., p. 153 (trad. mia). Sulle leggi morali come argine ai desideri sregolati, e sul ruolo decisivo e necessario che ha il pensiero dell’aldilà, con la prospettiva di premi e castighi (la cui conoscenza per Locke non è innata ma si deve, appunto, al cristianesimo) cfr. anche Saggio, I, III, 13. Estendendo ulteriormente la tesi di Zuckert, si può ritenere che nella prospettiva di Locke ricompense e punizioni possano contribuire a mantenere gli uomini nella legalità, posta come condizione l’identità tra legge naturale e legge civile. 125LL, p. 153.

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CONCLUSIONECONCLUSIONECONCLUSIONECONCLUSIONE

Al termine di questa ricerca quella teologica è emersa come una delle prospettive interpretative

cui ricorrere per comprendere la filosofia politica di Locke, ma assai significativa, come si è cercato

di mostrare, anche per discutere alcune interpretazioni che si sono imposte in ambito storiografico.

La prospettiva teologica di Locke rappresenta una sfida che chiede di essere presa sul serio, e

ben più che il prezzo da pagare affinché il suo liberalismo potesse diventare attendibile, dissipando

così i sospetti di un individualismo utilitaristico sottotraccia126.

Studiosi come Dunn, Rawls, Tully, Waldron, Marshall ritengono che non si possa trascurare

l’impianto fondamentalmente religioso di un pensatore razionalista come Locke senza rischiare di

fraintenderne il messaggio profondo. È a partire da questa “avvertenza” che tale studio ha voluto

individuare e sviluppare i principali argomenti di derivazione teologica nella filosofia lockiana,

muovendo da colui che, più di altri, viene citato con ammirazione: Richard Hooker.

La tesi di un individualismo radicale, che considera un soggetto sovrano assoluto di se stesso e

vede nella società politica niente più di un contratto per la protezione - e l’accumulazione - della

proprietà, variamente e da più parti attribuita a Locke, si rivela ad un’analisi attenta fuorviante;

comunque difficile da conciliare con i presupposti teologici qui esaminati.

Due aspetti, in sede conclusiva, si vogliono brevemente richiamare. Il primo attiene al nodo del

rapporto tra libertà e uguaglianza mediato dalla legge di natura, che costituisce «il presupposto

essenziale del più maturo pensiero politico di Locke»127. Quando si tende a rimuovere il ruolo della

legge di natura nel suo pensiero, si tende inevitabilmente a considerare la libertà lockiana come

una libertà astratta, assoluta: tale legge per Locke era una disposizione della volontà divina, dalla

quale dipendeva anche la forza obbligante della legge civile128, e immutabile in quanto originata da

una volontà immutabile129.

126 Cfr. C. A. Viano, L’individualismo introvabile e la teoria lockiana della tolleranza, cit., p. 25. 127 G. Bedeschi, Locke e le origini del costituzionalismo, cit., p. 261. 128 Cfr. SLN, VI, p. 68. 129 Cfr. SLN, VII, pp. 76-77.

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Nel Secondo Trattato si afferma che lo stato di libertà al quale ci si riferiva non era affatto uno

stato di licenza e che, in ogni caso, «non si ha la libertà di distruggere né se stessi né qualsiasi

creatura in proprio possesso»130. Si tratta di un passo sovente trascurato. Tale libertà viene infatti

costantemente associata da Locke all’uguaglianza di creature fattura e proprietà di un unico

Signore e proprietario di esse; eguali tra loro in quanto create a sua immagine131. E questo

onnipotente creatore non ha soltanto un diritto al comando su queste creature132, ma sull’universo

intero133. Egli è il legislatore, l’autore della legge di natura, senza la quale «il potere dei governi

sarebbe illimitato e irresponsabile, e gli interessi dei cittadini non avrebbero tutela alcuna»134.

Successivamente Locke chiarirà che la libertà che aveva in mente non era quella temuta da

Filmer, di fare o di vivere cioè secondo il proprio capriccio, ma consisteva «nell’avere una norma

fissa secondo cui vivere, comune a ciascun membro di quella società, e fatta dal potere legislativo

in essa istituito; cioè a dire la libertà di seguire la mia propria volontà in tutto ciò in cui la norma

non dà precetti, senza esser soggetto alla volontà incostante, incerta, sconosciuta e arbitraria di un

altro […]»135, mentre i Saggi avevano tanto respinto un’etica di tipo utilitaristico quanto chiarito la

sua prospettiva finalistica136.

Un secondo aspetto da richiamare in conclusione riguarda la natura del potere politico. Locke

impiega il termine patto per riferirsi all’atto con il quale gli uomini si associano realizzando un

unico corpo politico, il pactum unionis, abbandonando così lo stato di natura137. Ma per indicare

l’affidamento del potere sovrano nelle mani di qualcuno egli utilizza significativamente il termine

trust, che al medesimo tempo fonda e limita l’obbligo di soggezione a questo potere. Un

vocabolo/concetto dalla potente connotazione religiosa, che implica una relazione fiduciaria

stabilita sull’elezione di un sovrano da parte del suo popolo e sull’impegno a prestargli obbedienza.

Come afferma Sabine, si deve a Locke l’aver fatto notare che «la società ed il governo inglesi sono

due cose distinte; il secondo esiste per il benessere della prima, ed è giusto mutare un governo che

minacci seriamente gli interessi sociali»138.

130 T2, 6; p. 231. 131 Cfr. T1, 30. 132 Cfr. SLN, IV, pp. 42-43. 133 Cfr. SLN, IV, pp. 40-41; VI, p. 67; T2, 166. 134 Cfr. G. Bedeschi, Locke e le origini del costituzionalismo, cit., p. 263. 135 T2, 22; p. 244. 136 Cfr. SLN, IV e VIII. Si veda anche la Lettera sulla Tolleranza dove le due società, civile e religiosa, sono distinte sulla base dei fini perseguiti (LT, pp. 135-138), mentre i fini del matrimonio sono individuati nel Secondo Trattato (T2, 78 e 83). Sul finalismo di Locke cfr. G. A. J. Rogers, John Locke. God and the Law of Nature, in G. Canziani, M. Granada, Y.C.Zarka (a c. di), Potentia Dei. L’onnipotenza divina dei secoli XVI e XVII, cit., p. 557. 137 Cfr. T2, 14. 138 G. H. Sabine, Storia delle dottrine politiche, cit., p. 431.

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Ma la natura di un governo fondato sulla fiducia se da un lato getta luce sulla conseguente

teorizzazione di una resistenza, quando tale fiducia viene tradita, dall’altro rinvia all’identità di

Colui che solo - nella sua onnipotenza – è in grado di offrire un rifugio comune al popolo oppresso:

significativamente Locke trae la celebre immagine dell’appello al cielo, destinata a tanta fortuna,

dall’episodio biblico di Iefte presente nel Libro dei Giudici.

L’idea di Dio che Locke sviluppa a partire dalla dimostrazione del Saggio sull’intelletto umano,

e che costituisce il presupposto di tutto il suo discorso politico (del quale è parte anche la dottrina

della proprietà), è quella di un Essere eterno che ha creato e preserva tutti gli esseri dell’universo,

che vuole la conservazione delle sue creature e che mantiene una sovranità completa sulla sua

opera139. La monarchia assoluta pertanto, prima ancora che essere incompatibile con l’esistenza dei

diritti naturali di uomini creati a sua immagine, è di fatto impossibile da conciliare con l’unico

potere assoluto legittimo dell’universo, perché derivante da una creazione: quello, appunto, divino.

Il pensiero lockiano occupa un posto a sé nell’elaborazione teorica sull’origine dello Stato

poiché gode del singolare privilegio di essere insieme tradizionale e moderno.

La riflessione di Locke sul potere sovrano è tradizionale quando si inscrive in un quadro

religioso, e precisamente cristiano. Affermare l’opportunità di liberare lo Stato (government) da

compiti religiosi e dal condizionamento ecclesiastico, e difendere la necessità che ciascuno sia

lasciato libero di scegliere la propria strada verso il cielo, è caposaldo indiscutibile di tutto il suo

impianto teorico. Ma non va confuso con un appello alla laicizzazione della teoria politica, o con

l’invito a depurare quest’ultima da elementi di carattere religioso, e non si comprende come tale

messaggio sia stato talvolta sovrapposto al pensiero di Locke fino ad alterarlo profondamente,

considerato che i suoi termini fondamentali sono, come si è cercato di mostrare, propriamente di

derivazione teologica. La stessa separazione tra Stato e Chiesa è affermata e difesa dal filosofo

innanzitutto come garanzia di libertà religiosa.

Locke non vuole la sacralizzazione della politica, ma semmai che questa riconosca una

dimensione sacra, al di sopra e al di là delle vicende umane, che - in certo modo - la limita.

Il principe non è la manifestazione del divino, il “vicario” dell’Onnipotente. Come essere

umano egli è subordinato come tutti gli altri ad una legge i cui termini sono la misura delle azioni

umane; la sua autorità è legittima fintantoché rispetta una legge di natura che la precede, di cui

egli non è autore e che, in un momento determinato della storia, la rivelazione cristiana ha reso

139 Cfr. SLN, IV, p. 41; Deus, SER, pp. 207-210; PE [136], p. 181.

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manifesta nella sua integralità140, dando ad essa un fondamento certo. Se il principe trasgredisce

tale legge, ponendosi in tal modo contro la fiducia accordatagli da quella comunità di creature

fattura e proprietà di un Altro – e mutando quindi il suo potere da legittimo a illegittimo - non

resta che un appello al cielo, ovvero all’unico Onnipotente.

Per questo nella teoria politica lockiana l’elemento liberale, ovvero il limite posto al potere

politico, è di carattere etico-teologico, in quanto è ultimamente fondato su una legge superiore

stabilita da Dio, che è anche legge di ragione, o meglio è la ragione medesima141.

Il quadro politico-normativo lockiano si “tiene” in quanto presuppone questa garanzia: quella di

una autorità trascendente posta al di là, e al di sopra, della comunità degli uomini142. Un’autorità

creatrice e legislatrice al tempo stesso143. Come pure esso si caratterizza per la difesa intransigente

di un assenso individuale al patto di ingresso nella società civile, analogo per rilevanza e per

conseguenze all’assenso che si accorda ad una fede religiosa, il quale si accompagnava ad una

responsabilità personale: nessuno può rispondere di un peccato commesso da altri.

Tutto questo aveva una rilevanza anche politica. Come ha opportunamente osservato Fassò -

riferendosi ai coloni della Nuova Inghilterra che si consideravano “popolo eletto” e si

richiamavano all’alleanza del patto biblico -, l’idea che Dio

avesse limitato il proprio potere riconoscendo agli uomini la possibilità di stringere con lui un patto che lo vincolava, comportava che una certa libertà gli uomini la possedessero. Se gli uomini erano liberi nei confronti di Dio, se Dio stesso non chiedeva loro di obbedire alle sue leggi senza essersi prima assicurato il loro consenso, nessun potere terreno avrebbe potuto pretendere da loro una sottomissione incondizionata144.

Questa era, in sintesi, la dottrina di Locke. Ad essa si può ricondurre quella svolta che troverà

compimento solo nel XVII secolo, quel passaggio cioè da una concezione essenzialmente teocratica

- quale era appunto quella del puritanesimo nel quale egli fu educato - ad una democratica; e ciò fu

possibile attraverso la mediazione di una dottrina etico-politica centrata sul Covenant of Grace,

ricavata dalle Scritture.

Per la medesima ragione si ravvisa una profonda unità tra le opere del filosofo, tanto che non è

possibile esaminare la sua dottrina politica prescindendo dalla riflessione del Saggio su faith e

140 Cfr. G. Fassò, Storia della filosofia del diritto: L’età moderna, cit., II, pp. 178-179. 141 Cfr. ivi, p.159. 142 Il patto stipulato sulla Mayflower dai Padri Pellegrini l’11 novembre 1620 recitava: «In the name of God […] Do by these Presents, solemnly and mutually in the Presence of God and one another, covenant and combine ourselves together into a civil Body Politick, for our better Ordering and Preservation, and Furtherance of the Ends aforesaid […]». H.S. Commager (ed.), Documents of American History, I, Appleton-Century Crofts, New York 1958, pp. 15-16. 143 Cfr. SLN, IV, pp. 39- 41. 144 G. Fassò, Storia della filosofia del diritto: L’età moderna, cit., II, p. 241.

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reason: se la fede nel Dio cristiano per Locke è prima di tutto ragionevole, e la legge di natura è

legge di ragione, la sua etica e la sua politica fondate sulla ragione sono anche perfettamente in

accordo con l’istanza religiosa, e hanno in questo Dio il loro presupposto.

Ma quello di Locke, dicevamo, è anche un pensiero moderno. La sua modernità tuttavia, più

che il risultato di una teorizzazione della sovranità dell’individuo su se stesso145, derivava da una

consapevolezza di un’unità religiosa ormai in frantumi. Si può riscontrare in Locke quella che

Böckenförde ha chiamato “l’altra faccia” del processo storico della nascita dello Stato, ovvero

quella “mondanizzazione” dell’ordinamento politico, «nel senso dell’uscita da un mondo politico-

religioso unitario e preesistente verso una sua finalità e legittimazione (politica) concepita in senso

mondano»146.

La scissione confessionale, il pluralismo religioso, persino il settarismo, avevano reso ormai

necessaria un’autorità secolare. Tuttavia in Locke questa è ancora lontana dal tradursi in una

separazione dell’ordinamento politico da ogni forma di credo religioso. E di ciò sono testimonianza

tanto le Lettere sulla tolleranza quanto la polemica con Filmer, che era sì contro il diritto divino e

costruita sulla tesi di un potere fiduciario che sorge dal basso, dal consenso di creature razionali,

libere ed eguali – il quale, per questo, perdeva la sua aura sacrale, la propria invulnerabilità, per

ritrovarsi confinato tra le cose umane - ma tutta elaborata a partire da presupposti di origine

biblica.

Possiamo ricorrere nuovamente a Böckenförde per definire i termini di questa svolta:

Quando si parla di secolarizzazione in rapporto alla nascita dello Stato, si pensa per lo più alla cosiddetta dichiarazione di neutralità rispetto alla questione della verità religiosa, che venne pronunciata e tradotta in pratica da molti uomini di Stato e pensatori politici per trovare, di fronte alle perpetue guerre di religione che scossero l’Europa nei secoli XVI e XVII, un nuovo fondamento universale dell’ordinamento politico, di là e indipendentemente dalla religione, o da una religione determinata147.

Il punto è che la neutralità lockiana assume in questo processo una forma del tutto singolare:

quella di una tolleranza religiosa inscritta in un ordinamento dai presupposti dichiaratamente

cristiani, in uno Stato sostanzialmente cristiano, dove dato per acquisito un tale orientamento

religioso si rinunciava però a stabilire quale fosse la “vera” chiesa e quale confessione dovesse

145 Per un esame del rapporto lockiano tra libertà, ragione ed educazione (nei bambini come negli adulti), anche con riferimento all’autogoverno, cfr. lo studio di P.A. Schouls, il quale ha posto in relazione il pensiero di Locke e di Descartes: Id., Reasoned freedom, Cornell University Press, Ithaca and London 1992, in part. pp. 145-175. 146 E.-W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione (1991,1999), a c. di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 34. 147 Ivi, p. 35.

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prevalere sulle altre (Locke rifiutava infatti di considerare come chiese differenti le diverse

confessioni cristiane), e dove ci si limitava a convergere su un nucleo di fede ridotto al minimo.

Proprio di questa svolta, destinata a tanta fortuna, si vogliono sottolineare infine due aspetti

decisivi per la presente ricerca, che aprono certamente a ulteriori sviluppi.

Quanto alla contrapposizione tra Locke e Filmer, dalle pagine precedenti è emerso come questa

non fosse affatto stabilita tra una interpretazione del potere sovrano fondata sulle Scritture - volta

a giustificare il diritto divino dei re - e un’altra di carattere razionalista e secolare. Locke, nel

Primo Trattato in particolare, accetta infatti la sfida di Filmer, adotta cioè le Scritture come guida e

come riferimento, ma a differenza del suo avversario ne ricava un’altra lettura, che verosimilmente

egli doveva ritenere quella vera.

Locke, in altre parole, non rifiuta il piano della Parola rivelata, non mette da parte (o in dubbio)

i riferimenti biblici tratti da Genesi – la creazione, la creaturalità dell’uomo, la sovranità di Dio sul

cosmo –, come pure dall’Esodo, dal Levitico, dal Deuteronomio, ma li assume traendo da essi un

insegnamento differente da quello del suo avversario, attraverso uno sforzo di carattere

ermeneutico. E Locke non poteva rifiutare la rivelazione delle Scritture semplicemente perché la

considerava una via alla verità come la ragione, dal momento che provenendo entrambe da Dio

non potevano contraddirsi. Il Saggio lo aveva sufficientemente spiegato.

Dai Due Trattati non si ricava una dottrina secolare, depurata da riferimenti biblici, ma una

dottrina ispirata ad un razionalismo teologico secondo l’insegnamento di quella teologia

latitudinaria e liberale che, da Hooker in avanti, faceva memoria delle riflessioni di Chillingworth,

di Tillotson, del platonismo di Cambridge, senza dimenticare l’apporto del socinianesimo e

dell’arminianesimo: Locke attinge da questa teologia elementi critici ed esegetici rielaborandoli

con originalità.

Quanto al secondo aspetto, relativo all’idea di Dio, non deve essere sottostimata la centralità che

tale nozione assume in questo studio: il Dio di Locke, una volta dimostrata la sua esistenza, in virtù

dei suoi attributi resi noti dalla rivelazione conserva una sovranità assoluta sul cosmo, ma è allo

stesso tempo misericordioso e giusto. La sua è una volontà buona, oltre che onnipotente, che

desidera e opera il bene delle sue creature.

Ristabilendo nella propria dottrina la sovranità divina sulle creature e sull’universo, Locke fissa

anche quel limite invalicabile ad ogni potere terreno che nella storia umana si pretende come

assoluto, e perciò fasullo, dal momento che aspira a soppiantare la sola sovranità che

legittimamente lo è. In maniera inequivoca egli afferma l’esistenza di un potere superiore capace di

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“contenere” ogni sovranità umana, che proprio in ragione della sua trascendenza può impedire che

questa travalichi i propri fini e la propria funzione, limitata al bene pubblico e alla pace dei sudditi;

e, quando ciò accade, può garantire il ristabilirsi della giustizia.

Si giunge così ad un punto decisivo per la teoria politica in esame, che riguarda la figura di

Cristo: Locke, come si è visto, credeva con Hobbes che Gesù era il Cristo inviato da Dio, il Messia,

e riteneva questa professione sufficiente per la salvezza.

Per il cristianesimo lockiano, dove si fa memoria della nascita, vita, sofferenza, morte e

risurrezione di Cristo, annunciate dalle profezie delle Scritture148, la rivelazione ha offerto agli

uomini la conoscenza del Dio unico, del vero culto, oltre a quella dei propri doveri e di una vita

dopo la morte. Ma Locke dà anche un preciso significato all’identità di questo inviato: egli parla in

più occasioni di Cristo come di colui che porta la pace sulla terra, del “Principe della pace”149, pur

non istituendo alcuna società politica particolare e non introducendo nuove forme di governo.

Al medesimo tempo l’autore del Saggio riteneva la pace anche il fine di un governo umano150, e

di pace avvertiva - come i suoi contemporanei – l’urgenza. Non era concepibile per lui un ordine

politico che non si impegnasse ad assicurare pace stabile e tranquillità. Il ruolo di Cristo e del suo

Vangelo, in questo senso, non era estraneo alla vita civile e all’ordine politico. Così dalle Lettere

emerge la premura per un ordine essenzialmente cristiano, costruito cioè intorno ad un nucleo

minimo di verità volto a disinnescare i conflitti di carattere religioso e a consentire la protezione

dei diritti naturali, verità che dovevano essere necessariamente poche ed intelligibili a tutti151.

Quel che contava agli occhi del filosofo era prendere posizione, perché «in alcune materie di

grande importanza, specialmente in quelle religiose, gli uomini non possono permettersi di

rimanere sempre fluttuanti e incerti: essi devono abbracciare e professare una dottrina o

un’altra»152.

148 Cfr. SV, p. 172. 149 Cfr. RC p. 114; p. 35. Anche nella Lettera sulla tolleranza Locke fa uso dell’espressione Prince of peace, quando riferendosi a coloro che fanno uso di armi per l’avvento della vera religione e della Chiesa di Cristo, scrive: «Se costoso bramassero sinceramente la salvezza delle anime, come la guida della nostra salvezza, seguirebbero le sue orme, e imiterebbero l’esempio eccellente del principe della pace, che inviò i suoi ministri a soggiogare le genti e a raccoglierle in una chiesa, non armati di ferro, non di spada, non di violenza, ma provvisti del Vangelo, di un messaggio di pace, di costumi santi e del suo esempio». LT, p. 134; cfr. anche p. 146 e Terza Lettera sulla tolleranza, cit., p. 281. 150 Cfr. Sulla differenza tra potere civile e potere ecclesiastico, in Due Trattati, cit., p. 514; Se il magistrato civile possa legalmente imporre e determinare l’uso di cose indifferenti in rapporto al culto religioso, in Due Trattati, p. 438; Se il magistrato civile possa accogliere cose indifferenti nei riti del culto divino e imporle al popolo. Si risponde affermativamente, in Due Trattati, p. 479. Si vedano inoltre: LT, p. 167 e p. 169; T1, 106; T2, 95; 131; 134; 212, 226. 151 Il legame tra la pace, i diritti e una costituzione democratica è stato colto da Bobbio, il quale ha riconosciuto, esplicitando quel che in Locke è presente in forma implicita, che la protezione dei diritti degli uomini è alla base delle costituzioni democratiche, le quali a propria volta sono le sole in grado di dirimere pacificamente i conflitti. Vale però anche l’inverso. Senza pace non vi è protezione dei diritti dell’uomo. Cfr. N. Bobbio, L’età dei diritti, cit., pp. vii-xxi. 152 La Condotta dell’intelletto, 6, SER, p. 651.

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Ma il discorso teologico entra in relazione con quello politico non soltanto come riferimento

per una convivenza civile pacifica, lo è anche ad un livello più profondo, dove la mediazione è

costituita dalla virtù153, indispensabile tanto alla vita morale quanto alla conservazione della società

che prende il nome di civitas e che Locke traduce con commonwealth154.

I Pensieri sull’educazione intendevano educare un uomo capace di autocontrollo, che trova la

felicità come membro attivo della società, che coltiva un senso di umanità, conosce la giustizia, la

liberalità e rispetta la vita altrui155, e perciò anche i diritti degli altri. È esattamente la virtù il ponte

tra la vita buona nella polis e il cristianesimo, laddove essa «consiste nella conoscenza che l’uomo

ha del proprio dovere e nella soddisfazione che prova obbedendo al Creatore»156.

Per Locke il cristianesimo trasmesso dai Vangeli era la via dell’autentica moralità e per la

pratica di quei precetti originari della legge di natura che rendono un uomo virtuoso. Egli credeva

nell'educazione, nella docilità della mente umana, e riteneva che gli uomini potessero progredire

sulla strada della virtù, della conoscenza e della salvezza, ammonendosi e correggendosi a

vicenda157.

E la virtù per Locke era indispensabile alla vita civile, era in certo modo il vincolo della società

e il sostegno dello Stato, la condizione perché potesse darsi un governo limitato e una libertà che

non venisse confusa con l’arbitrio158. La libertà infatti può essere del bene come del male, e solo

una virtù che emerge dalla formazione del carattere e dall’educazione ne avrebbe impedito la

corruzione.

La moralità, e la responsabilità che la accompagnava, consentiva all’individuo il governo di sé, in

fondo il presupposto a partire dal quale giustificare l’opposizione ad una concezione assoluta della

sovranità e per teorizzare un ordine civile definito da poche, essenziali, finalità:

153 Cfr. Virtus [Ms. Morgan Libray, Adversaria 1661, pp. 10-11] in Locke On Money, I-II, edited with an introduction, notes, critical apparatus P. Kelly, Oxford 1991; trad. it. Virtus, SER, pp. 158-159. Inoltre il «legame indissolubile fra la virtù e la pubblica felicità» è stabilito esplicitamente da Locke nel Saggio [I, III, 6], e Dio è indicato come il suo autore. Sulla rettitudine morale in relazione alla vita civile cfr. anche LT, p. 166. 154 Cfr. T2, 133. 155 Cfr. PE [110 e 116-117]; pp. 144 - 147; 160 – 163. 156 PE [61]; p. 68. 157 «Poiché la religione cristiana che professiamo non è una scienza speculativa che fornisce concetti alla mente o argomenti alla lingua, ma è una regola di rettitudine che influenza la nostra vita, avendo Cristo dato se stesso "per redimerci da tutte le iniquità e per purificare attraverso se stesso un popolo zelante nelle opere buone" (Tito 2,14), noi professiamo che l'unico compito delle nostre pubbliche assemblee sia, lasciandone ivi da parte ogni controversia e ogni questione speculativa, quello di esortarci, istruirci e incoaraggiarci l'un l'altro ai doveri di una retta vita (è riconosciuto essere questo il grande scopo della religione), e quello di pregare DIo affinché ci assista con il suo spirito per illuminare il nostro intelletto e porre freno alla nostra corruzione, in modo che possiamo rendergli un giusto e ben accetto servizio e mostrare la nostra fede attraverso le nostre opere proponendo a noi stessi e agli altri l’esempio di Gesù Cristo Nostro Signore e Salvatore come grande modello da imitare». Regole per una società di Cristiani pacifici, cit., p. 528. Cfr. inoltre LT, p. 137. 158 Cfr. ST, pp. 101-102.

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Devo soltanto osservare che la fede in una divinità non deve essere annoverata fra le opinioni puramente speculative, dato che essa è a fondamento di ogni moralità, ed influenza l’intera vita e le azioni degli uomini, e senza di essa un uomo non deve essere considerato altrimenti che una delle specie più pericolose di bestie selvagge, e quindi incapace di far parte di una società qualsivoglia159.

Perseguire la virtù significava per Locke approfondire, in ultima istanza, la conoscenza di Dio e

delle sue leggi. Una conoscenza destinata a rimanere incompiuta e vaga, senza la rivelazione

cristiana.

159 ST, p. 95.

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382

BIBLIOGRAFIABIBLIOGRAFIABIBLIOGRAFIABIBLIOGRAFIA 1.1.1.1. Opere di John LockeOpere di John LockeOpere di John LockeOpere di John Locke The Works of John Locke, I-X, Printed for Th. Tegg etc., London 1823; ed. anastatica Scientia Verlag, Aalen 1963.

1.1.1.1.1.1.1.1. Edizioni principali e criticheEdizioni principali e criticheEdizioni principali e criticheEdizioni principali e critiche

The Clarendon Edition of the Works of John Locke, con apparato critico e note esplicative dei testi, è cominciata nel 1973 per iniziativa dell’Università di Oxford (Clarendon Press), sotto la direzione generale di P. H. Nidditch. Se ne elencano i volumi finora pubblicati, unitamente ad edizioni critiche precedenti e a quelle edite dall’Università di Cambridge: I. An Early Draft of Locke's Essay together with Excerpts from his Journals, ed. R.I.

AARON - J. GIBB, Oxford 1936. II. Essays on the Law of Nature, The latin Text with a Translation, Introduction and

Notes, together with transcripts of Locke’s shorthand in his Journal for 1676, ed. W. VON LEYDEN, Oxford 1954 [repr. 1958, with corrections; 1965; 1970].

III. Two Treatises of Government, ed. P. LASLETT, Cambridge University Press, Cambridge 1960 [19672; 1988 student edition].

IV. Two Tracts on Government, ed. and translation P. ABRAMS, Cambridge University Press, Cambridge 1967.

V. Epistola de Tolerantia – A Letter on Toleration, latin text edited with a preface R. KLIBANSKY; english translation with an introduction and notes J. W. GOUGH, Oxford 1968.

VI. An Essay Concerning Human Understanding, ed. P.H. NIDDITCH, Oxford 1975. VII. The Correspondence of John Locke, I-VIII, ed. E.S. DE BEER, Oxford 1976 – 1989. VIII. A Paraphrase and Notes on the Epistles of Saint Paul, I-II, ed. A. W. WAINWRIGHT,

Oxford 1987. IX. The Educational Writings of John Locke, ed. J. AXTELL, Cambridge University Press,

London 1968. X. Drafts for the Essay Concerning Human Understanding and Other Philosophical

Writings – Drafts A and B, ed. P. H. NIDDITCH - G. A. J. ROGERS, I, Oxford 1990. XI. Locke On Money, I-II, ed. P. KELLY, Oxford 1991. XII. The Reasonableness of Christianity: as Delivered in the Scriptures, ed. and

transcriptions of related manuscripts J. C. HIGGINS-BIDDLE, Oxford 1999.

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XIII. An Essay Concerning Toleration and Others Writings on Law and Politics (1687-1683), ed. J.R MILTON – P. MILTON, Oxford 2006.

XIV. Vindications of the Reasonableness of Christianity, ed. V. NUOVO, Oxford 2012. XV. Theological Manuscripts, ed. V. NUOVO, Oxford (in corso di pubblicazione).

1.2.1.2.1.2.1.2. Altre edizioni maggioAltre edizioni maggioAltre edizioni maggioAltre edizioni maggioriririri An Essay Concerning Human Understanding (1894), I-II, ed. A. CAMPBELL FRASER, Dover, New York 1959. Two Treatises of Government, introduction W. S. CARPENTER, Dutton, London - New York 1924. An Essay Concerning Human Understanding, I-II, edited with introduction J. W. YOLTON, Dent-Dutton, London and New York 1961 [ed. based on the 5th ed. 1706; revised 1965; reprint 1971]. A Letter Concerning Toleration, a c. di M. MONTUORI, Nijhoff, The Hague 1963. Lettre sur la tolérance, ed. R. KLIBANSKY – R. POLIN, Presses Universitaires de France, Paris 1965. A Letter Concerning Toleration, translation W. POPPLE, ed. J. TULLY, Hackett, Indianapolis 1983. Some Thoughts Concerning Education, ed. J. W. YOLTON - J. S. YOLTON, Oxford 1989. Questions Concerning the Law of Nature, translation R. HORWITZ, J. STRAUSS CLAY, D. CLAY, Cornell University Press, Ithaca N.Y. 1990. Two Treatises of Government, ed. M. GOLDIE, Dent, London; Tuttle, Rutland (Vermont) 1993. The Political writings of John Locke, ed. D. WOOTTON, Penguin, New York 1993. Political Essays, ed. M. GOLDIE, Cambridge University Press, Cambridge 1997. Writings on Religion (2002), ed. V. NUOVO, Clarendon, Oxford 2004.

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1.3. 1.3. 1.3. 1.3. Miscellaneous PapersMiscellaneous PapersMiscellaneous PapersMiscellaneous Papers e manoscritti citati e manoscritti citati e manoscritti citati e manoscritti citati

Virtus [1661] Morgan Library, Ms Adversaria 1661, pp. 10-11.

Essay on Infallibility [1661-1662] Public Records Office 30/24/47/33.

On the Difference Between Civil and Ecclesiastical Power [1673-1674] – Ms Locke c 27 e.

Faith and Reason [24-26 agosto 1676] Ms Locke f. 1, pp. 415-421.

Transubstantiation [26-28 agosto 1676] Ms Locke f. 1, pp. 421-429.

Knowledge [1° settembre 1676] Ms Locke f. 1 pp. 430-432.

Scrupulosity [20 marzo 1678] Ms f. 3, pp. 69-79.

Law [21 aprile 1678] Ms Locke f. 3, pp. 111-112.

On the Idea of God (o The Idea We Have of God) [1° agosto 1680] Ms Locke f. 4, pp. 145-151.

On Religion [3 aprile 1681]Ms Locke f. 5, pp. 33-38.

On Enthusiasm [1682] Ms. Locke f 6, pp. 20-25.

Superstitio [1682] Ms Locke d. 10, p. 161.

Traditio [1682] Ms Locke d. 10, p. 163.

Ecclesia [1682], Ms Locke d. 10, Lemmata Ethica, pp. 43-44.

De S. Scripturae Authoritate [1685] Ms Locke c. 27, ff. 69-72.

Of Ethick in General [1686-1687?] Ms Locke c. 28, ff. 146-152.

Pacifick Christians [1688]- Ms c. 27, f. 80 a-b.

Scriptura Sacra [1692], Ms Locke d. 1, p. 177.

Peccatum originale [1692] Adversaria 1661, pp. 294-295.

Ethica 92 [1692?], Ms Locke c 42, pars II, p. 224.

Morality [1692-1696?] Ms Locke c 28, ff. 139-140 v.

Ethica B [1693] Ms Locke c 28, f. 141.

Ethica [1693-1694?] Ms c 28 f. 113.

Homo ante et post lapsum [1693-1694?] Ms Locke c. 28, fo. 113v.

Adversaria Theologica [1694] Ms Locke c 43.

Thus I thinke [senza data] Ms Locke c 28, ff. 143-144 v.

Deus - Descartes’s Proof of a God, from the Idea of Necessary Existence Examined [1696] - Ms

Locke c. 28, f. 119-120.

Redemption – Death [1697] Ms Locke c. 27, ff. 112-113.

Error [1698] Adversaria 1661, pp. 320-321.

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On the Priesthood of Christ: Analysis of Hebrews, LL 2864- Ms Locke 9, p. 107.

Sacerdos [1698] Adversaria 1661, p. 93.

Resurrectio et quae sequuntur [1699?] Ms Locke c.27, ff 162-177.

1. 4. 1. 4. 1. 4. 1. 4. Principali edizioni e traduzioni della Principali edizioni e traduzioni della Principali edizioni e traduzioni della Principali edizioni e traduzioni della Ragionevolezza del cristianesimo Ragionevolezza del cristianesimo Ragionevolezza del cristianesimo Ragionevolezza del cristianesimo The Reasonableness of Christianity, as Deliver’d in the Scriptures, A. and J. Churchill, London 1695. The Reasonableness of Christianity, as Deliver’d in the Scriptures, with A Vindication of the same, from Mr. Edward’s Exceptions, A. and J. Churchill, London 1696. Que la Religion Chrétienne est très raisonnable, telle qu’elle nous est représentée dans l’Ecriture Sainte, trad. P. COSTE, H. Wetstein, Amsterdam 1696. Le Christianisme raisonnable, tel qu’il nous est représenté dans l’Ecriture Sainte, trad. P. COSTE, L’Honoré et Chatelain, Amsterdam 1715. The Reasonableness of Christianity with "A Discourse of miracles" and part of "A third letter Concerning toleration", edited, abridged, and introduced I. T. RAMSEY, Standford University Press, Standford 1958. La Ragionevolezza del cristianesimo, saggio introduttivo e note A. SABETTI, trad. I. CAPPIELLO, La Nuova Italia, Firenze 1976. The Reasonableness of Christianity: as Delivered in the Scriptures, edited and introduced G. W. EWING, Regnery Gateway, Washington 1989. Scritti filosofici e religiosi di John Locke, a c. di M. SINA, Rusconi, Milano 1979. Scritti etico-religiosi di John Locke, a c. di M. SINA, UTET, Torino 2000. La Ragionevolezza del cristianesimo quale si manifesta nelle Scritture, trad. it. M. SINA, in J. Locke, Scritti etico-religiosi, cit., pp. 285-429. 2. Bibliografie2. Bibliografie2. Bibliografie2. Bibliografie H. O. CHRISTOPHERSEN, A Bibliographical Introduction to the Study of John Locke, (I Kommission hos Jacob Dybwad, Olso 1930) riedito Franklin, New York 1968.

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