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UNA PICCOLA PREVIEW DI

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3 febbraio

Sono appena rientrata; è quasi mezzanotte.Serata particolare quella appena trascorsa… Ero con i colleghi. Stavolta non abbiamo optato per la solita pizzeria a Trastevere. Mattia, il ragazzo che cura la rubrica “Cibo e salute”, ha proposto un nuovo locale, un ristorante giapponese in zona Ostiense. Eravamo una decina di persone, seduti ad un tavolo vicino l’ingresso. Praticamente ogni volta che qualcuno apriva la porta mi arrivava una folata di aria gelida sotto la maglia; ho tenuto il giacchetto addosso tutta la serata. Ma questo non è rilevante. Così come non lo erano le chiacchiere di circostanza: si parlava del più e del meno; del nuovo taglio di capelli di Anna, di Mattia e della sua macchina nuova e bla bla bla… Sì, insomma, del più e del meno. Ho ini-ziato, come faccio sempre quando mi annoio, a guardarmi intorno. Ed è proprio in quel momento che ho notato lui; un ragazzo sui 35, moro, alto. Non so cosa mi abbia colpito, so solo che non riuscivo a distogliere lo sguardo da lui. Parlava con le persone al suo tavolo, dall’altra parte della sala, non so di cosa. Lo vedevo fare delle lunghe pause tra una frase e l’altra; erano tutti lì, immobili ad ascoltarlo. Anche quando non parlava. Sembra assurdo, lo so, ma in quei momenti di silenzio sorrideva ed era come se conti-nuasse a parlare. Ma non con la voce, con lo sguardo. Uno sguardo profondo, sicuro e malinconico al tempo stesso. Ero ancora lì, a guardarlo, cercando di decifrare quegli occhi, quando Genny mi ha chiesto se fossi d’accordo. Ok… Ma a proposito di che? Le ho sorriso e ho fatto un cenno con la testa. Non devo essere stata molto convin-cente perché ha ricominciato tutto il discorso da capo. Si parlava di lavoro, della crisi nel settore editoriale e così

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via… Non che il discorso non mi interessasse, ma ultima-mente ho difficoltà a concentrarmi per più di 5 minuti su un argomento. Finisco sempre altrove; la mia mente mi riporta, martellante e incessante, al rapporto con Andrea. Per un po’, comunque, mi sono concentrata solo sulla cena e sulla compagnia dei miei colleghi. Ma poi, silenzio-samente e cercando di non farmi notare, tornavo a guardare il bel ragazzo dagli occhi profondi. Era come se in quel momento ci fossimo solo io e lui. Non c’erano i camerieri, i miei colleghi, i suoi amici, il pensiero costante di Andrea e le altre persone nel locale. Solo io e lui. Probabilmente, però, mi sono concentrata troppo perché ad un certo punto lui mi nota, mi guarda e sorride. Mi sento avvampare; quindi faccio finta di nulla, mi giro e riprendo il menù, concentrandomi sul dolce (che in realtà non volevo perché sono a dieta). E, inaspettatamente, è arrivato il cameriere a salvare la situazione. Mi si è parato davan-ti portandoci il conto e dei colorati biscotti della fortuna. Sorridevo mentre mi porgeva il mio e ho aspettato che si allontanasse per lanciare un’altra occhiata furtiva al tipo di prima… Che però stava pagando il conto ed era pronto per andarsene. L’ho visto solo andare via, aprire la porta e allontanarsi. Ho sentito di nuovo i brividi lungo la schiena, e non so se fosse per l’ultimo sguardo che ci siamo scam-biati o per l’aria fredda che veniva da fuori. Nel biscotto ho trovato un bigliettino con scritto NULLA ACCADE PER CASO. Chissà se è vero. Meglio dormirci su.

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5 febbraio

Stamattina, mentre aspettavo l’autobus per andare in centro, mi si è avvicinata una signora sulla settantina. Mi ha chiesto informazioni sulle fermate del bus, per poi iniziare a raccontarmi vita, morte e miracoli della sua famiglia. Si è sposata giovane con un uomo molto più grande di lei; la sua famiglia era contraria quindi ha dovuto lasciare il suo paesino di origine per trasferirsi a Roma. Mi ha parlato dei figli e dei nipoti. E più si addentrava nei particolari, più le brillava lo sguardo; si respirava amore nelle sue parole e nei gesti. È andata avanti per un po’; poi, ad un tratto, come colta da un’illuminazione, si è resa conto di non sapere nemmeno il mio nome. “Cassandra” le ho risposto. L’avessi mai detto... Lo sguardo le si è illuminato di nuovo: la nipote si chiama come me. È stata proprio lei a sce-glierlo in quanto appassionata di letteratura greca. D’altra parte un nome che significa “colei che trionfa” non può che essere di buon auspicio. L’ho salutata mentre la vedevo salire sull’autobus; da lì a poco sarebbe passato anche il mio.

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8 febbraio

Oggi sessione di coaching con Manuel; ci siamo incontrati nel suo ufficio. Mi ha chiesto se stessi continuando a scrivere il diario e ha appreso con un sorriso il fatto che non abbia mollato. Certo, forse potrei aggiornarlo con più frequenza… Ma per ora va bene così, scrivo quando mi sento ispirata. Poi abbiamo iniziato a parlare dei miei obiettivi personali e professionali, di quello che vorrei realizzare nella vita, dei miei sogni nel cassetto. Ci ho riflettuto un attimo; a me la mia vita così com’è non dispiace. Vivo in un appartamen-tino dignitoso, svolgo un lavoro creativo, sono circondata da persone che amo e che a loro volta mi amano. Eppure un desiderio ci sarebbe. È un sogno che mi porto dietro da quando ero adolescente: lavorare per una grandissima rivi-sta di moda americana come illustratrice. In pratica quello che faccio qui. Ma in America. E in grande. Parlando con Manuel ho deciso di mettere il mio sogno per iscritto, nero su bianco. Ora che l’ho fatto guardo il foglio affisso nella mia bacheca: leggerlo, vederlo lì, lo fa sembrare più reale. Più tangibile.

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20 febbraio

In questi giorni sto leggendo un libro che mi ha suggerito Manuel. Parla dell’importanza di vivere nel momento pre-sente senza lasciarsi influenzare dal passato (no rimpianti) o proiettarsi nel futuro (no seghe mentali). Che a livello teorico sembra un concetto banale, ma metterlo in pratica nella vita quotidiana è tutta un’altra storia. Io ci provo a non pensare, a concentrarmi su me stessa, ma puntualmen-te le preoccupazioni per il lavoro, il pensiero di Andrea, la fine della nostra storia, l’ansia per il futuro… Tutto mi destabilizza e mi riporta in un vortice di pensieri ed emo-zioni che non riesco a controllare. E quindi leggo il libro, sperando di riuscire ad imparare. Vivere nel presente. Proprio in radio stamattina è passata una canzone che parlava di questo, affidarsi alla vita e vivere il momento.Mi è tornata in mente la frase del biscotto della fortuna.

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29 febbraio

Ok ok ok… Non so da dove cominciare. Cercherò di andare per ordine… Oggi pomeriggio mi trovavo di passaggio in zona san Pietro. Camminavo veloce, con la borsa in mano e le tavole per la rivista nell’altra. Ho superato un bar, sentivo della musica all’interno, ma non mi sono soffermata ad ascoltare; ho continuato a passo svelto sulla strada. Pochi metri dopo sono passata vicino ad un altro bar; di nuovo sento una musica provenire da dentro e, non so perché, stavolta rallento. La radio trasmette la canzone che ho sentito qualche giorno fa; riconosco il verso “vivere nel presente”. Istintivamente butto un occhio dentro il bar e vedo un volto familiare. Non riesco a crederci; è il ragazzo del ristorante giapponese! Parla con un uomo che lo sta salutando, si alza, paga il conto e se ne va. Lui resta seduto, sorseg-giando il caffè. Non so quale forza mi abbia spinto in quel momento, ma decido di farmi coraggio, aspetto che esca e mi avvicino. “Scusa…” No, ok, l’ho fatto davvero. L’ho chiamato senza avere idea di cosa dirgli. Mi guarda con un’aria interrogativa. A quel punto non mi resta che presentarmi, cercando di sfoggiare il migliore dei miei sor-risi. Ricambia la stretta di mano; si chiama “Marco”. La sua mano è calda, la stretta energica. Ormai sono in ballo; gli dico di averlo notato al ristorante giapponese. Lui im-provvisamente sembra ricordarsi di me o, almeno, della serata. Mi sorride con quegli occhi che raccontano più di quanto potrebbe dire a parole. Io non riesco a dire molto e perdo l’occasione. Lui va di fretta; mi dice che gli ha fatto piacere conoscermi e si allontana.

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Sento un nodo alla gola; avrei voluto chiedergli il numero di telefono, dirgli che quella sera al ristorante giappone-se non riuscivo a distogliere lo sguardo da lui, che avevo percepito qualcosa. Ecco cosa avrei voluto dirgli; eppu-re dalla mia bocca è uscito solo un “Ciao Marco” appena sussurrato.