Una panda per l'eurasia

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1 Una Panda per l’Eurasia Di Pietro Acquistapace

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Il libro dell'avventura!!!

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Una Panda per l’Eurasia

Di

Pietro Acquistapace

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“Fletto i muscoli e sono nel vuoto” (Rat Man)

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Premessa necessaria

Questo non vuole essere un classico diario di viaggio, innanzitutto perche’ i diari di viaggio

sono viziati da un’ottica “turisticoentrica”; ossia dal vedere solo la superficie delle cose,

senza pensare che il magnifico paesaggio che si sta vedendo non e’ una cartolina, e le genti

che quel paesaggio lo vivono non sono dei “buoni selvaggi” messi li’ per il nostro piacere o

peggio ancora per permettere confronti tra chi sta meglio e chi sta peggio.

Non e’ un diario di viaggio anche per il tipo di viaggio stesso, ossia circa 16000 e

piu’chilometri su di una Fiat Panda, il che ne fa un potenziale resoconto mortalmente

noioso, con mattine tutte uguali di sveglia (che fosse in un sacco a pelo o in una stanza

d’albergo), controllo del mezzo e partenza, dopodiche’ ore ore ed ore di guida. Va da se che

non sara’ la dinamica delle giornate al centro di questo racconto.

Vorrei anche far notare che il resoconto segue di un anno l’esperienza, diciamo che ho fatto

sedimentare per bene le emozioni...

Quello che vorrei propormi in queste pagine e’ mettere al centro della narrazione i paesi

visitati, quasi sparendo, cosa impossibile, come spettatore soggetivo, evitando inoltre di

atteggiarmi a macho man di turno bullandomi della mia “impresa”. Vorrei invece tentare di

dare al lettore un’idea di cosa ci sia dietro la facciata dei luoghi che ho attraversato, fornire

qualche spunto per chi, nell’augurato caso lo volesse, fosse interessato ad approfondire il

tema per conto suo.

Ma di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando di un viaggio in Panda, come gia’ detto, che

ha portato me ed il mio socio, Matteo, dall’Italia alla Mongolia attraversando buona parte

dell’Europa orientale, la Turchia, l’Iran, tutti gli -stan Ex-sovietici, la Russia per poi approdare

ad Ulaan Bataar, in Mongolia. Il tutto nel contesto di un rally, per quanto disorganizzato

fosse, finalizzato alla raccolta fondi per dei progetti che gli organizzatori, un’associazione

inglese, portano avanti in Mongolia con varie realta’ non governative.

L’idea mi frullava in testa da un paio d’annetti, voglia di evadere dalla routine, di cambiare

qualcosa, insomma voglia di fare qualcosa di non ordinario. E la scoperta dell’esistenza del

Mongolrally fu una vera e propria conversione sulla via di Damasco, ops... Ulaan Bataar.

Detto fatto, alla prima occasione di pesante crisi personale mollo il mio lavoro ultasicuro e

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relativi benefit (una follia? Assolutamente si!) e mi metto alla ricerca di un compagno di

viaggio in rete, dopo che amici e conoscenti si erano tutti defilati repentinamente. Nel giro

di qualche mese conosco Matteo su un forum di viaggi, ci sentiamo al telefono e decidiamo

che si fa. Si parte!!!

Ed inizia l’organizzazione: di fronte alla quantita’ incredibile di fattori da tenere presente ho

avuto la certezza di essermi lanciato, come mio solito, all’avventura senza capire troppo

cosa stessi facendo. Le cose a cui badare erano infinite: visti, mappe, calcolo delle

tempistiche, rapporti con l’organizzazione, raccolta fondi, campagna informativa e non

ultimo la macchina. Ma la fortuna mi e’ sta benigna dato che grazie al suo lavoro Matteo ha

risolto tutta la componente tecnico-meccanica, reperimento del mezzo compreso; senza

parlare del suo incontro, per il quale renderemo sempre grazie ad un dio a scelta, con

Sergio, meccanico di rally e persona squisita.

Il primo impatto con i paesi che “affronteremo” e’ quello burocratico: la richiesta di visti

mostra come ogni Stato sia un mondo a se’; il visto kirghizo si rivela estremamente semplice

da ottenere (da notare l’iconografia consolare dal sapore statunitense), quello kazako ricalca

le procedure russe e come quest’ultimo chiede citta’ e alberghi previsti (che ovviamente

tutti mettono a caso, me compreso con il mitico Kazzol Hotel), il visto iraniano mostra una

certa tendenza al paradosso dato che se fatto per via classica consolare necessita anche di

due mesi per il rilascio (con richiesta di impronte digitali per cittadini britannici e

statunitensi) mentre se fatto on line diventa una procedura molto piu’ veloce, ma senza la

sicurezza del rilascio. Discorso a parte merita la richiesta del visto turkmeno: il primo

contatto con il paese dice moltissimo su quello che troveremo. Per entrare in Turkmenistan

esistono due tipi di visti: turistico e di transito (valido 5 giorni e con tassativa richiesta di

indicare il percorso); il visto turistico prevede una guida che dovra’ essere sempre presente

dall’ingresso nel paese fino alla fine del viaggio. Per motivi di costi (il visto turistico e’

nettamente piu’ costoso) e di logistica (la maggior parte dei turisti attraversa il paese

andando in Iran o Uzbekistan) il piu’ richiesto e’ il visto di transito ed e’ prassi comune dei

consolati turkmeni annullare all’ultimo momento l’emissione di tale visto, proponendo

l’acquisto di quello turistico. Nel nostro caso il governo turkmeno ha predisposto un visto

unico per tutti i partecipanti al Mongolrally, con risultati che vedremo in seguito.

Altro grande ostacolo, perlopiu’ comunicativo, con il quale ci trovammo a fare i conti fu la

assoluta non conoscenza da parte della maggior parte delle persone dei paesi che stavamo

per attraversare; fu quasi buffo vedere le facce confuse degli interlocutori di fronte al

rosario di –stan dopo la fatidica domanda: “che percorso farete?”. La totale mancanza di

informazione relativamente all’Asia Centrale risulta quindi lampante, il che fa abbastanza

riflettere visto che stiamo parlando di una zona, per quanto remota, strategicamente

fondamentale per il futuro dell’Europa. Ma tant’e’... In quel momento non c’era spazio per

la geopolitica ma solo per quintali di carta recante gli emblemi piu’ bizzarri, ricerca

spasmodica di informazioni su assicurazioni varie e tante tante tante mail.

Sta di fatto che dopo ennesime peripezie, il magistrale lavoro di Sergio nel preparare la

macchina, comprese prove techiche di massacro meccanico sulle alpi piemontesi, e un visto

mongolo rifatto all’ultimo minuto (due giorni prima della partenza) il momento tanto atteso

e’ arrivato: si parte alla scoperta di una parte di mondo; Eurasia a noi!

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Europe 24/07 - 28/07

Italia-Svizzera-Austria-Germania-Rep.Ceca-Rep. Slovacca-Ungheria-Romania-Bulgaria

Partiamo da casa mia, sul confine italo-svizzero e dopo due chilometri la prima disavventura.

Alla dogana, che faccio quasi quotidianamente, un finanziere dal lato italiano ferma la Panda

carica (comprese taniche e pezzi di ricambio sul tetto). Per la prima volta in vita mia sono

respinto ad una frontiera, anzi a dire la verita’ per la prima volta l’Italia si dimostra cosi’

legata a me da non volermi farmi uscire dai suoi confini... Il finanziere inizia a parlare di

bolle, dogane commerciali e altra fantascienza, col risultato che ci spedisce alla dogana

vicina, dove nessuno bada a noi tranne un finanziere elvetico che dopo avere saputo dove

andiamo commenta: “con l’aereo e’ piu’ comodo”, sicuramente avra’ anche pensato:

“quezti ‘taliani...”! Riflettendo sul finanziere emblema dell’italico attaccamento al lavoro

tramite Svizzera, Austria e Germania arriviamo in Rep. Ceca dove e’ prevista la partenza

comune. Che sensazione di liberta’ attraversare frontiere senza dogane, un pensiero a

Altiero Spinelli, Gaetano Bresci ed anche Gengis Khan; a modo loro tutti artefici di questo

risultato.

La prima casa che vediamo in Rep. Ceca, dopo essere entrati nel paese da un parco

nazionale, e’ il Bar Campionato!!! O gaudio...

L’aria che tira al “campo base” e’ quella di un raduno di folli ma tant’e’. Conosciamo qualche

team italiano e mangiamo insieme in una trattoria della zona. L’impressione e’ quella di un

paese povero, dove per pochi euro mangia un reggimento, la popolazione locale sembra

guardarci abbastanza male e nessuno parla inglese, tranne un poco la barista che il suo

tatuaggio rivela essere l”alternativa” del paese.

La non conoscenza dell’inglese si rivelera’ una costante in tutto il tragitto ceco e anche solo

comprare la “vignetta” autostradale si rivelera’ non essere cosi’ semplice, nemmeno le

strade sono il massimo.

La Rep. Ceca, anche per via del tempo, sembra grigia ed ha l’incredibile effetto di rivalutare

immensamente la Rep. Slovacca, dove le strade sono ottime e dove compare anche il sole

ad illuminare i palazzoni tristi ma colorati di Bratislava.

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In Ungheria le prime prove di mediazione culturale: incerti se arrivare in Bulgaria tramite la

Serbia o la Romania chiediamo a dei romeni; questi partono in una tirata antiserba e ci

dicono assolutamente di passare per il loro paese ma di non fermarsi ad Arad (lasciando

sottendere che la citta’ non brilla per sicurezza). Facciamo la prova poco dopo con un

bulgaro che ripete i commenti sulle guardie di frontiera serbe aggiungendo: “voi siete

italiani quindi meglio la Romania...”!!!

La Romania rivela a colpo d’occhio una poverta’ immensa (la tangenziale di Bucarest e’ in

parte sterrata e tutti vendono qualcosa alle auto in coda: dalle bottiglie d’acqua ai

telefonini), tutti o quasi parlano italiano (tutti i romeni con i quali abbiamo parlato dicono di

aver lavorato in Italia), la guardie di frontiera sono gentilissime e Arad ha mantenuto le sue

promesse con una quantita’ innumerevole di camion che corrono come pazzi (tutti in

direzione dell’Ungheria) e le strade davvero dissestate. I posti di blocco della polizia sono

ovunque, ci sono un’infinita’ di cani per le strade e per la prima volta facciamo una coda di

ore per via di un ponte dissestato, ma l’aspetto piu’ interessante sono i rom (o gitani?) che

troviamo ovunque, alcune citta’ sembrano addirittura popolate solo da “zingari”. La

Romania e’ davvero bella.

La buona impressione delle persone e’ confermata anche dalla signora che ci ospita (a

pagamento ovviamente) per la notte, anche se lei tende a sottolineare di essere di origine

ungherese.

Uscendo dal paese ci scontriamo con le prime forme di “non amicizia” interetnica: tra

romeni e bulgari sembra non correre buon sangue dato che per trovare la frontiera a

Giurgiu ci impieghiamo ore. Nessun cartello indicatore e quando provo a chiedere

indicazioni ad’un impiegata in un’agenzia di viaggi mi risponde qualcosa del tipo: “e a me

cosa interessa se vuoi andare in Bulgaria?”, ma poi sorride e mi dice la strada da prendere. Il

posto di frontiera e’ immerso nel nulla in mezzo ai campi, ma attraversare il Danubio su un

antico ponte rende il tutto migliore (compresa la tassa d’uscita dal paese presumo

finalizzata alla manutenzione del ponte). Questa ricerca delle frontiere ci accompagnera’

fino in Mongolia e come scopriro’ poi le indicazioni per arrivarvici sono un chiaro indicatore

dello stato delle relazioni diplomatiche tra i paesi confinanti.

Una volta in Bulgaria ci ritroviamo immersi nei boschi, chilometri e chilometri di vegetazione

senza vedere una casa. Unici segni di vita sono statue dalla spiccatissima retorica sovietica

che spuntano dal nulla della foresta in una stranissima unione di natura selvaggia ed atea

mistica meccanica. Cio’ nonostante la prima citta’ che incontriamo sembra Gardaland (ed il

fatto che si tratti di Veliko Tarnovo fa capire quanti chilometri senza nulla intorno abbiamo

percorso): fantasmagoriche luci colorate illuminano un castello posto sopra la cittadina, un

immenso casino’ da’ sfoggio di se’ e nelle strade una folla che nemmeno nella Saint Tropez

dei tempi d’oro...

Saltiamo la cittadina non trovando alberghi e una volta immersi nuovamente nei boschi ci

accoglie un bed and breakfast gestito da un simpaticissimo vecchietto; anche qui essere

italiani apre molte porte (e sara’ una costante del viaggio).

La Bulgaria vive dell’asse est-ovest, infatti fino al raggiungimento della strada che collega

Burgas-Plovdiv-Sofia non abbiamo incontrato nessuno camion e quasi nessuna macchina,

per contro abbiamo affrontato le prime difficolta’ dato che le strade tra Veliko Tarnovo e

Stara Zagora sono tremende, una buca unica dove davvero una velocita’ maggiore di 10km

orari puo’ distruggere la macchina. Troveremo lungo l’intero percorso pochi paesi con

strade cosi’ terribili.

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Una riflessione su cosa significhi Europa viene spontanea ma di certo si deve saper

apprezzare le diversita’, nonostante le difficolta’ che ne derivano.

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Il Bosforo come eccezione 28/07 - 31/07

Turchia

Turchia: il paese che forse mi fara’ piu’ riflettere. Subito le prime difficolta’ culturali: capire

come funziona l’autostrada esige una sosta al casello e cinque minuti di spiegazioni del

casellante. Sembra assurdo trovare difficile qualcosa che per qualcuno fa parte del

quotidiano, sicuramente sono esperienze che insegnano qualcosa. Come la prima cosa che si

impara attraversando i confini: attenzione al cambio nero! E anche quello ufficiale meglio se

lontano dalla frontiera; sta di fatto che ci perdiamo una cinquantina di euro, non per colpa

mia, e per il futuro saremo piu’ organizzati.

Istanbul sembra la porta dell’inferno: nelle strade il caos piu’ assoluto, con i prezzi della

benzina alle stelle (in tutto il viaggio solo la Turchia ci porra’ di fronte a questo problema) e

gli alberghi carissimi. Facciamo veloci due conti e considerando la lunghezza della Turchia,

nonche’ del viaggio, decidiamo di risparmiare andando oltre. Sono abbastanza spiaciuto per

la mancata sosta a Istanbul ma in effetti il viaggio e’ lungo e impegnativo ed impone delle

scelte, alla fine ne saro’ ripagato. In realta’ avrei voluto vedere Santa Sofia per affetto

“musicale” ma mi accontentero’di una fuggitiva capatina in piazza Sultanhamet, e mi

riprometto di tornarci. La delusione aumenta col fatto che il ponte che ci troviamo a fare e’

il ponte nuovo e non quello vecchio e famoso, vabbe’... A mitigare il malumore la straba

visione nel traffico di un vecchio camion scoperto a fare le veci di un carro funebre islamico

verde come la bandiera che ricopre la bara, la prima di una lunghissima serie di situazioni

inusuali.

Altro elemento che colpisce una volta in Turchia e’ la curiosita’ che suscitiamo nella

popolazione, tutti ci guardano e moltissimi ci salutano dalle macchine che ci superano,

sinceramente non me l’aspettavo; come non mi aspettavo la quantita’ di donne velate, la

Turchia si mostra subito per quello che si rivelera’ essere: un paese islamico e decisamente

osservante. Nel mio immaginario personale non avevo mai associato il paese anatolico e

l’islam in maniera cosi’ netta. L’islam sara’ l’elemento caratterizzante di tutto il tragitto

turco, gia’ nella periferia di Istanbul moschee svettano nel mezzo di quartieri fatiscenti, al

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centro di spiazzi circondati da case popolari delle piu’ povere. Anche lungo la strada le

moschee sono innumerevoli. Ogni area di sosta ha una propria sala di preghiera, con entrate

differenti per uomini e donne, mentre, per contro, nel market non si vede una birra. Queste

“moschee-autogrill” fanno riflettere anche solo per l’uso sconsiderato di tubi al neon

fosforescenti, qualcosa che sta tra La Mecca e Las vegas...

Il Bosforo e’ una colata di cemento immensa, solcata da innumerevoli tir diretti agli

altrettanto innumerevoli capannoni industriali, decisamente un’area di commerci in pieno

fermento. E tornando al lato umano non posso dimenticare un kebabbaro di Gebze ed il

piccolo aiutante (penso il figlio) che si industriano per prepararci un panino con le poche

cose che hanno in negozio cercando di presentarlo il meglio possibile, decisamente non un

posto turistico. La tenerezza di tanti atteggiamenti umani mi accompagnera’ fino all’arrivo a

Ulaan Bataar.

Passato il Bosforo e’ un’altro pianeta. La strada, che nel giro di pochi chilometri passa

dall’essere quasi un’autostrada allo sterrato con lavori in corso pressoche’ ovunque, e’

deserta e corre nel nulla. La stessa Ankara e’ un ammasso di palazzoni che si elevano nel

vuoto, intorno niente: i turchi costruiscono in verticale nonostante lo spazio a disposizione

con effetti sorprendenti, quasi un set da film post-atomico. E a rendere il tutto piu’ surreale

continua anche l’impossibilita’ di trovare una birra.

Passata Ankara e’ la Cappadocia, paesaggi bellissimi ed incantevoli, con la strada che si alza

nel nulla verso altipiani fino a 2000 metri. I paesaggi sono mozzafiato, interrotti solo dai

numerosi cantieri stradali. Incontriamo solo pochi camion improbabili (la Turchia asiatica ha

decisamente un parco mezzi antiquato) e ci stupiamo dall’attraversare pochissimi paesi ma

tutti popolatissimi, come riportato regolarmente dal cartello di ingresso, vere e proprie oasi

di condomini popolari che si ergono nel deserto degli altipiani. Incontriamo anche il primo, e

non sara’ putroppo l’ultimo, incidente serio; qui le strade si prestano davvero a correre

come pazzi, e questo sara’ monito dato che e’ si’ un viaggio di piacere ma non e’ certo facile.

Sosta a Sivas dove la notte ci ricordera’ che siamo in un paese islamico, e per giunta all’inizio

del ramadan. Infatti il meritato riposto e’ interrotto dal muezzin che con un impianto stereo

degno di un concerto metal chiama i fedeli alla preghiera (questo lo presumo visto che con

la mia conoscenza della lingua locale potrebbe anche avere annunciato i saldi al centro

commerciale). Inoltre nella reception da’ sfoggio di se’ un calendario del ramadan alle spalle

del computer aperto su facebook. Questa sara’ l’unica volta che il muezzin ci svegliera’ e la

Turchia davvero sara’ il paese dove il fattore religioso risultera’ piu’ “presente”e, come

vedremo, lo sara’ anche piu’ che in Iran.

Dopo Sivas la foschia rende il viaggio piu’ monotono e l’unico fatto degno di nota e’ la sosta

ad un benzinaio nei dintorni di Erzurum che ci offre’ il the, lo sorseggiamo in compagnia di

numerosi camionisti che approfittano del rifornimento per fare una sosta rigenerante.

L’ultimo giorno in Turchia sara’ il gran finale: arriviamo in una citta’ di frontiera decisamente

brutta da dove si vede l’Ararat svettare, e su consiglio di un poliziotto arriviamo in un

campeggio altamente improbabile gestito da un olandese altrettanto improbabile, che ci

dice vivere in Turchia da decenni. Piazziamo la tenda tra pulcini e tacchini e ci accorgiamo

che tutti, ma davvero tutti, stanno grigliando! L’olandese ci informa trattarsi di zona kurda,

ci dice anche che i kurdi sono molto conservatori e ci vende birra avvolta in carta di giornale

e sovraprezzata. Sara’ un vecchio hyppie ma di certo ha senso degli affari. In serata

scopriremo che l’alcool non e’ cosi’ malvisto, perlomeno dall’olandese e dal socio turco, e

che anche diversi kurdi mimetizzano vodka in bottiglie d’acqua.

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Abbiamo la fortuna di assistere ad un matrimonio kurdo, che si rivela spettacolare: canti

tradizionali rifatti su base techno e danze con movimenti lentissimi nonostante la musica

degna della miglior discoteca tra Rimini e Brescia, aggiungiamo che il look medio e’ alquanto

imbarazzante... Ma finisce che ci offrono la torta degli sposi! Nel frattempo l’olandese e’

completamente sbronzo e ci dice circa 500 volte di salire al castello da dove si vede l’Ararat

mentre il suo socio turco, anche piu’ sbronzo, sfoggia il suo inglese con un “how are you”

ripetuto circa un migliaio di volte ad ogni incontro, e calcolando le dimensioni lillipuziane del

campeggio significa ogni quaranta secondi...

Al mattino saliamo al castello ma la foschia non rende merito al panorama, si punta verso il

temutissimo (da me no, ma dall’opinione pubblica mondiale si) Iran.

Ripenso alla serata appena trascorsa nonche’ ai primi giorni di viaggio, e mi sento un po’

disorientato, e va bene cosi’!

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Sorridi, sei in Iran! 31/07 – 05/08

Iran

Siamo in Iran! Quello che viene presentato come il terribile Iran! Spauracchio della geopolitica

internazionale; ed e’ davvero il paese che non ti aspetti. Probabilmente l’Iran e’ stata la sorpresa piu’

positiva dell’intero viaggio, ma andiamo con ordine...

Lasciamo la Turchia da un posto di frontiera sperso nel nulla, intruppati in una coda interminabile di

camion che attendono di entrare in Iran. In uscita mi fermano, sale un po’ di panico poi, una volta

negli uffici della polizia turca scopro che i loro sistemi non leggono il mio passaporto poiche’,

essendo nuovo, presenta una diversa numerazione; questo mi fa riflettere sul fatto che anche per le

carte d’identita’ i cittadini italiani possono avere problemi: negli scorsi anni in Italia i rinnovi sono

spesso stati fatti con un semplice timbro, il che rende il possessore a rischio di possibili

respingimenti, essendo la procedura non riconosciuta all’estero.

D’ora in poi ogni dogana esigera’ il fare molta attenzione dato che ovunque troveremo cambiavalute

decisamente poco onesti che vendono moneta per meta’ del valore. Il consiglio e’ quello di cambiare

piccole cifre se non si e’ sicuri del tasso di cambio e tenere gli occhi aperti per vedere il

comportamento delle altre persone per capire quanto la situazione sia normale e quanto sia invece

una “trappola per turisti”.

Al controllo di frontiera iraniana l”omino che ti aiuta” e’ di importanza notevole, in cambio di cifre da

concordare, e soprattutto trattare, questi personaggi aiutano con lo svolgimento delle pratiche,

indirizzando verso uffici e funzionari, velocizzando cosi’ l’ingresso nell”asse del male”...

La dogana si presenta abbbastanza caotica con file di bus in attesa di ingresso e con i doganieri che

pesano tutti i bagagli, da qui dispute infinite tra i militari ed i possessori di borsoni sequestrati, fino a

sfiorare vere e proprie risse; presumo ci siano per i cittadini iraniani rigide leggi sull’importazione di

merci. Per noi occidentali l’incubo si chiama “carnet de douane”, un documento relativo

all’autovettura, decisamente complicato da ottenere in Italia e discretamente costoso, ma in ogni

caso il tutto si conclude con il solo controllo del numero di telaio da parte del funzionario. E in ultimo

la tessera del carburante: l’Iran riesce ad essere un importante paese produttore che raziona la

benzina!!! Il paese manca infatti, abbastanza incredibilmente, di impianti di raffinazione e di fatto

esporta, per poi reimportarlo, il petrolio che produce... Noi riusciamo a saltare la tessera, o meglio

nessuno ci chiede di farla, il che ci permettera’ di fare alcune interessanti constatazioni sul

quotidiano iraniano. In ogni caso la tessera per gli stanieri costa circa 5 volte il prezzo pagato dagli

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iraniani al quale va aggiunto il costo della benzina che, ovviamente, per gli stranieri e’ maggiorato;

per l’islam il tasso di interesse e’ considerato usura, non ho notizie in merito al furto legalizzato...

L’impatto con l’Iran e’ incredibile: per le strade ci sono ovunque ritratti di Khomeini e di quelli che

presumo essere martiri, non so se della rivoluzione o della guerra con l’Iraq. Solo il fastidio di dossi

dello stesso colore del manto stradale, e quindi invisibili, rovinano l’attenzione con la quale osservo

cio’ che mi circonda. L’architettura islamica e’ bellissima, ma quello che colpisce e’ il fatto che

ovunque posi lo sguardo veda iraniani sorridenti che salutano, e questa sara’ una costante. Il popolo

iraniano si rivelera’ di una squisitezza commovente, con una voglia di contatto con lo “straniero” che

fa riflettere. L’Iran e’ l’unico paese attraversato in tutto il viaggio dove comunicare in inglese non e’

stato un problema ed anche lo stile di vita, per quanto visto, e’ decisamente sopra la media dei paesi

centroasiatici e della stessa Turchia. Basti sapere che tutte, ma davvero tutte, le macchine che

abbiamo incrociato in Iran ci hanno salutato, e con una vera e propria tecnica: colpo di clacson da

dietro, sorpasso, tutti gli occupanti compreso l’autista che si lanciano fuori dal finestrino per

salutarci in fase di sorpasso, una volta sorpassato noi fase di rallentamento per farsi superare a loro

volta, bis della scena del saluto ma dall’altro lato della vettura!

Preciso che so di avere visto pochissimo e molto in fretta quindi sottolineo che sono tutte mie

impressioni personali e magari completamente lontane dal vero, ma tant’e’...

Un capitolo a parte le donne iraniane: semplicemente bellissime. In frontiera ho avuto un paio di

innamoramenti ma quello che stupisce e’ il non trovarsi di fronte a neri lenzuoli tanto amati dai

mezzi di (dis)informazione ma ragazze, e donne, vestite all’occidentale con soltanto lo Hijab a

coprirne i capelli. Ad “aggravare” la situazione il loro rivelarsi estremamente civette e sorridenti; non

sono mai stato tanto guardato da una donna in vita mia... Prima di essere sepolto da una valanga di

critiche qualche ulteriore precisazione: come vedremo non sara’ ovunque cosi’ e la zona al confine

turco ha una notevole appartenenza etnica azera. In ogni caso sento che per l’Iran sto avendo un

vero e proprio colpo di fulmine. Si lo so, viverci e’ tutta un’altra cosa, che noiosi i professorini...

Una parola anche sugli uomini: le fattezze persiane sono incredibili, volti e pizzetti che sembrano

usciti direttamente dai manuali di storia!

Torniamo a noi: arrivati a Tabriz due ragazzi conosciuti nel traffico danno prova della gentilezza

iraniana e ci scortano per la citta’ alla ricerca di un albergo, episodio divertente il fraintedimento

sulla parola camping, come scopriamo quando vi ci portano. Infatti tale prola per i due ragazzi

significa semplicemente mettere una tenda in un prato, anche se trattasi del piu’ grande parco di

Tabriz. Finiamo in ogni caso in un albergo niente male che ci permette anche di mettere la macchina

nei sotterranei, il primo giorno in Iran e’ decisamente positivo.

Ci addentriamo nel paese mentre inizia il ramadan e l’unione di questi due fattori fanno si che le

donne siano sempre bellissime ma meno civettuole e piu’ velate, ed allo stesso tempo gli uomini

siano piu’ “seri” e meno propensi al saluto ma la stragrande maggioranza delle persone incontrate si

comporta ancora come descritto in precedenza. Mi aspettavo con il ramadan di trovare negozi o

luoghi dove mangiare chiusi, invece tutte le attivita’ commerciali sono aperte. L’unica differenza dal

resto dell’anno sta nel fatto che fino al tramonto gli unici clienti di ristoranti e negozi sono stranieri.

Lungo la strada per Qazvin incontriamo un team di italiani con i quali abbiamo fatto amicizia alla

partenza: sono senza gasolio per la loro ambulanza e li aiuto facendo da intermediario con un

camionista iraniano che vende loro qualche litro di carburante. I ragazzi ci raccontano delle loro

disavventure all’ ingresso in Iran: sono stati obbligati a fare la tessera del carburante (pagata 300

euro) ed hanno avuto diversi problemi per sdoganare l’ambulanza. Probabilmente il diverso

trattamento e’ dovuto al fatto che il diesel in Iran e’ usato solo dai camion, quindi da mezzi

commerciali, da qui presumo diverse tassazioni in cui ritrovare l’origine dei problemi che si sono

trovati ad affrontare. Il team amico si trova anche di fronte allo strano modo di dire i prezzi proprio

degli iraniani: in Iran infatti viene comunemente omessa l’ultima cifra, in pratica spostano la virgola,

creando, in chi non ne fosse a conoscenza, vera e propria confusione.

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Tocca anche a noi fare benzina, e senza tessera. Scopriamo presto la cosa non essere assolutamente

un problema visto che tutti i benzinai vendono benzina in nero registrandola con prezzo iraniano, ma

facendola pagare con il prezzo per stranieri, su altre tessere o non registrandola affatto.

Ultima annotazione in tema di carburanti sono le code infinite di auto alle stazioni di servizio del gas,

sembra che l’uso di macchine a GPL sia molto diffuso nel paese.

Andando verso Teheran la polizia aumenta visibilmente, cosi’ come le immagini dei martiri, di

Khomeini, di Khamenei e del Presidente; praticamente su ogni muro. Fuori dalle citta’ ci sono file di

tralicci dell’alta tensione ovunque e le persone sono meno espansive, anche se tutti salutano

sempre. Teheran appare come una citta’ di palazzoni tristi e dalle tangenziali infinite e

complicatissime, infatti ci perdiamo. Sempre a Teheran possiamo constatare la fama della guida

iraniana, tutti infatti guidano in maniera spericolata infilandosi ovunque per sorpassare e facendo le

manovre piu’ bizzarre nello spazio di pochi centimetri. Nel giro di qualche minuto assistiamo a due

retromarce da fantascienza: una su una rampa di accesso alla tangenziale (aveva sbagliato uscita) ed

una in una rotonda trafficatissima (le retro alla rotonda e’ da standing ovation), il bello e’ che

nessuno suona e che non fanno incidenti...

Stiamo andando a sud verso Isfahan, che sara’ meta di un paio di giorni di sosta.

Andando verso sud ci imbattiamo nella tomba di Khomeini, appena fuori Teheran. In realta’ non si

vede molto ma si notano le guardie armate all’ingresso e la quantita’ di pullman nel parcheggio, un

po’ come a Gardaland... Si nota molto di piu’ la scuola coranica di fronte al mausoleo, nonche’ i

cartelli che annunciano i lavori di ammodernamento ed allargamento dell’edificio gia’ imponente.

Continuando verso meridione il caldo aumenta, siamo sui 45 gradi, e la strada corre dritta in una

zona arida e quasi desertica. Arriviamo a Qom, la citta’ santa sede di un’importantissima scuola

coranica, che ci accoglie con un cartello che la indica come “capitale della Jihad”. Qui le donne sono

tutte velate e tendono a distogliere lo sguardo mentre gli uomini continuano a salutarci ed ad

affiancarci con i motorini.

Isfahan e’ bellissima: la Naghshe Jahan, ossia la “piazza grande” toglie il fiato, qui si affacciano la

moschea dello Sciah ed il palazzo dei Savafidi; fantastico anche il bazar coperto, enorme, dove

l’odore delle spezie stordisce e trasporta in un’altra dimensione. Vediamo anche il ponte Khaju con i

suoi portici, ma il fiume in secca, e da molti anni (come ci dice un negoziante che parla itaiano e si

presenta come sosia di Fernandel, in effetti e’ identico!).

A contornare il tutto un’inflazione economica che rende la moneta (il rial) talmente instabile che

cambiare valuta quotidianamente si rivela notevolmente vantaggioso.

Due giorni in una citta’ da paradiso ma il viaggio e’ ancora lungo, prossima tappa il Turkmenistan.

Risalendo verso Teheran noto come verso il Mar Caspio corra una catena di monti alla cui base ci

sono campi coltivati ed un accenno di zona industrale, e da qualche parte noto pure un edificio che

mi ricorda una centrale nuclerare, e probabilmente lo e’!

La strada corre calda e monotona, e purtroppo assistiamo a qualche incidente serio, il caldo e

l’assenza di curve favoriscono i colpi di sonno. Notiamo che il parco camion iraniano e’ vecchissimo

mentre nel frattempo la strada sale lungo altipiani desertici.

L’ultima notte iraniana la passiamo in un albergo dall’aspetto estremamente lussuoso nei pressi di

Sabzevar. Entro fantozzianamente da una scalinata imponente, ed il ragazzo alla reception mi

accoglie con un inglese oxfordiano che presto ci sommerge di domande su come il suo paese e’ visto

nel nostro, forse meglio non dire tutta la verita’... Per la prima volta siamo registrati con tanto di

modulistica, sembra davvero un albergo di “regime” (compresi i ritratti di ordinanza appesi al muro)

ma come ogni istituzione di regime si rivela molto fumo e poco arrosto dato che le camere non

corrispondono affatto allo sfarzo della facciata e della hall.

Ultima citta’ che attraversiamo e’ Mashad, dovei oltre alla polizia nelle strade compare l’esercito, io

trascorro due ore alla ricerca di una buca delle lettere per spedire una cartolina... Su di noi incombe

lo spettro della chiusura del confine turkmeno ed io scambio continuamente le cassette delle offerte

che sono ovunque, essendo la carita’ un dovere per l’islam, per buche delle lettere; ma ne trovo una

ed un vecchio islamico seduto nei pressi con bastone e barba bianca mi guarda, io lo guardo e

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mostro la cartolina, lui annuisce, io imbuco, grazie vecchio islamico!!! Prima di lasciare la citta’

ancora una prova della gentilezza iraniana quando chiedo a unl passante dove abbia comperato il

pane che ha in mano (il pane iraniano e’ buonissimo) e lui mi ci accompagna, facendo pure un

prestito al negoziante, perche’ questo possa darmi il resto, alla faccia dell’”asse del male”!

Fuori da Mashad il deserto e quella che sembra una vera tempesta di sabbia con mulinelli che si

alzano in una zona decisamente povera, dove lungo la strada sono sparsi pochi negozi vuoti.

Ci inerpichiamo sui monti del Panoramiso, i paesaggi sono incredibili ed intorno solo vuoto, vediamo

solo un paio di villaggi che mi chiedo ancora come possano sopravvivere cosi’ remoti su quei monti;

dopo qualche ora di nulla e salite arriviamo al confine con il Turkmenistan, da dove si gode il

paesaggio delle vallate sottostanti, ed i gentilissimi, anche loro, funzionari iraniani ci aprono le porte

verso il paese piu’ “misterioso” del nostro viaggio: il Turkmenistan.

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Il deserto dei pirati 05/08 – 07/08 Turkmenistan

Il primo impatto con il Turkmenistan e’ significativo: nemmeno siamo entrati che un militare si

avvicina per chiedere se abbiamo un “regalino” per lui... D’ora in poi, in tutto lo spazio ex-sovietico,

questo sara’ il leit-motiv di ogni frontiera.

Il posto di confine turkmeno e’ un luogo paradossale, se non altro per il fare orario di ufficio con

chiusura nel fine settimana, come ha ben capito un team spagnolo che attende nel piazzale da 24

ore che qualcuno si degni di dar loro il “benvenuto” in Turkmenistan! L’eta’ media di poliziotti e

soldati (in divisa da rangers) e’ davvero bassa, una frontiera presidiata da adolescenti... Una volta

entrati scopriamo che fanno solo visti per tre persone alla volta dato che, come ci spiega il

funzionario, si sono stancati di fare visti individuali dato che dal mattino sono arrivate troppe

persone!!! Troviamo uno svedese che sembra disperato, scopriremo essere una sua caratteristica, e

siamo pronti per il visto. Veniamo subito dirottati alla banca (la porta di fianco) dove una matrona

incinta e dai modi spicci riceve i pagamenti e rilascia una ricevuta da riconsegnare al funzionario.

Tutta la dogana turkmena sembra popolata da queste imponenti matrone che danno ordini a tutti,

siano essi civili o militari. Altra caratterisica che si impone e’ la burocrazia imperante negli uffici, tutti

pieni di personale dove uno legge, uno firma, uno timbra e gli altri non fanno niente, si prospetta

davvero un paese interessante...

Per fortuna conoscendo in anticipo le usanze locali sono munito di numerosi cd della peggior musica

italiana, da Pupo a Toto Cutugno passando per i Ricchi e Poveri. Restando in tema la popolarita’ di

Toto Cutugno nel mondo ex-sovietico e’ qualcosa di geopoliticamente preoccupante, tutte le

frontiere ci hanno accolto con la stessa frase: “Italiano? Toto Cutugno!” Qualcosa su cui riflettere...

Al rilascio del visto, che nel nostro caso e’ di transito, viene richiesto il percorso che faremo e, come

spiegato nella premessa, su questo le procedure sono rigide.

Per attraversare il Turkmenistan in direzione dell’Uzbekistan esistono due strade: la prima piu’

trafficata che, tramite la strada principale del paese, attravero l’oasi di Mary arriva al confine nei

pressi di Bukhara e la seconda che taglia il deserto del Karakum da sud a nord per arrivare in

Uzbekistan nella regione autonoma del Karakalpakstan. Scegliamo la via del deserto in quanto

interessati a vedere il cratere di gas di Darvaza che brucia incessantemenre da decenni.

Usciti dal posto di frontiera scendiamo verso la capitale Ashgabat che ci accoglie con un arco di

marmo riportante le effigie presidenziali, decisamente il minimalismo non e’ di casa qui.

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La citta’ sembra uscita da un fumetto e certe zone ricordano davvero Gotham City; il marmo bianco

e’ ovunque, anche nei condomini, ci sono fontane che cambiano colore ed edifici che mi sembrano la

replica della Casa Bianca. La polizia e’ ovunque, e diventa isterica quando scendo dalla macchina per

filmare il palazzo presidenziale urlandomi di tutto ma in lingue a me fortunatamente sconosciute.

Il Turkmenistan e’ uno stato che vive di rendita grazie ai suoi giacimenti di gas, inoltre e’ in gran

parte desertico quindi non densamente abitato. Ne consegue una certa ricchezza, nonostante le

contraddizioni come gli slum dietro al palazzo presidenziale, che si accompagna ad una leadership

autoritaria e con il vizio di autocelebrarsi attraverso imponenti opere pubbliche e monumenti, come

la statua del precedente presidente costruita per ruotare con il sole, ma che non troviamo. Uno

strano personaggio dalle fattezze occidentali ci dice che il nuovo presidente ha fatto smontare il

monumento e l’ha trasferito fuori citta’, aggiungendo (in Italiano) che “e’ finita la commedia!”, se lo

dice lui...

Tentiamo poi di trovare un albergo ma i prezzi sono folli. Come scopriro’ poi in rete il governo

Turkmeno ha costruito nella capitale alberghi di super lusso per dare un’immagine di ricchezza,

peccato che questi alberghi siano sempre vuoti. Mentre continuiamo nella ricerca sale la tensione

per via della leggenda mai chiarita, dato che forse e’ realta’, che nella capitale turkmena viga il

coprifuoco e gli stranieri trovati in strada dopo una certa ora possano essere arrestati. Decidiamo

quindi di lasciare la citta’ per puntare verso il deserto ma sbagliamo strada e finiamo per imboccare

la via che porta al palazzo presidenziale; inutile dire che siamo fermati da un nugolo di poliziotti che

dopo brevi spiegazioni ci aiutano disegnandoci la mappa per raggiungere la via verso il cratere. Da

notare che tutti i poliziotti turkmeni ai quali abbiamo chiesto qualcosa sono finiti per fare dei

disegnini... La ricerca del cratere si rivelera’ una delle imprese piu’ massacranti di tutto il viaggio.

Abbiamo poblemi con la benzina ma siamo in pieno deserto e non ci sono benzinai, e’ il primo

problema serio che incontriamo. Passiamo la notte vicino ad un bivacco di camionisti sotto un cielo

stellato che piu’ stellato non si puo’, mentre vediamo che dove ci sono camion ci sono venditori di

acqua e carne alla griglia. Le strade sono piene di topini che attraversano e anche qualche specie di

volpe bianca fa la sua comparsa. Stavolta siamo davvero stremati.

Al mattino grazie alla benzina di un turkmeno riusciamo a proseguire per scoprire poi di essere quasi

arrivati al confine uzbeko, avendo abbondantemente superato la zona del cratere. Tutta la giornata

sara’ una rincorsa a questa meta con un continuo avanti e indietro nel deserto ogni volta sbagliando

di circa 100 chilometri. Per fortuna le nuvole attenuano il caldo che altrimenti non sarebbe stato

sopportabile. Come vedremo poi questa giornata trascorsa su strade ricoperte di stranissimi dossi

(come bolle createsi per il calore) non sara’ positiva per la salute della macchina, considerato che

riusciamo anche ad insabbiarci e solo l’aiuto di un camionista del luogo ci permettera’ di proseguire.

Alla fine troviamo in una specie di area di servizio un ragazzo gia’ conosciuto in precedenza (e che ha

piu’ volte sottolineato di non essere turkmeno ma kazako) che ci porta al cratere con la sua jeep

dietro modico compenso. Il posto non e’ segnalato, nessun cartello indicatore e ci si arriva attraverso

un minuscolo sentiero tra la sabbia, ma una volta davanti al cratere si e’ ripagati dalla fatica fatta per

trovarlo: e’ enorme, le fiamme sono altissime e di notte si vedono a decine di chilometri, sembra

davvero meritato il nome di “porta del diavolo” con il quale viene solitamente chiamato.

Nella stessa area di servizio dove abbiamo trovato la nostra “guida” ritroviamo anche lo svedese del

giorno prima in compagnia di un team svizzero con problemi di benzina, e dopo un the tutti assieme

rigorosamente su tappeto ed in compagnia di svariate persone del luogo, ci aiutiamo a vicenda.

Ora possiamo puntare verso l’Uzbekistan lungo la strada cosparsa di dromedari e, in prossimita’ del

confine, di posti di blocco. Come vedremo nei giorni successivi la presenza di polizia all’ingresso di

citta’ e villaggi sara’ elemento ricorrente.

L’ultimo centinaio di chilometri si rivelano quasi impossibili, con strade ricoperte di “bolle” e crateri,

al punto che per guidare si deve continuamente sterzare in uno stile di guida assurdo al punto di

diventare quasi divertente, soprattutto se lo fai con in mano un bottiglione da due litri di birra

turkmena!!!

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L’ultima notte turkmena si rivela degna dalla fama del paese, ci fermiamo in un albergo di

Köneürgenç che ci chiede un prezzo folle in dollari, dando il resto in manat considerando la valuta

locale pari al dollaro, siamo troppo stanchi per discutere e d’altronde siamo una cittadina di

frontiera tra Turkmenistan ed Uzbekistan...

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A misura di turista, ma senza macchina...

7/08 – 11/08

Uzbekistan

La frontiera uzbeka, che ovviamente era debitamente nascosta, si presenta come un cumulo di

immondizie in una strada sterrata. Un buon inizio... Va comunque detto che in realta’ non siamo

propriamente in Uzbekistan, ma nella regione autonoma del Karakalpakstan, il che come vedremo

ha una certa rilevanza.

Passiamo i controlli in compagnia del solito svedese il quale inizia a prendere a martellate la sua

vecchia Mercedes per “aggiustare” non so cosa, una scena buffissima. Sono stupito che non lo

arrestino per il rumore che fa, in Italia penso sarebbero intervenuti i reparti d’assalto! Ma lo stupore

prosegue allorche’ le guardie di confine passano al setaccio la sua auto (un vero e proprio caos su

quattro ruote) trovandoci addirittura un motorino!!! A me sembra incredibile che quel motorino

sprovvisto di qualunque tipo di documento sia arrivato fino a li’, penso che ogni poliziotto incontrato

abbia diplomaticamente adottato la tattica dello “sparisci e non farti piu’ vedere”.

I poliziotti, uno dei quali perlustra ogni centimetro della Panda, sono incuriositi dalla macchina ed

oltre a fare domande su domande vogliono salirci, e scherzando uno di loro dice che vuole fare

anche lui il Mongolrally ma, dato da sottolineare, non come primo team uzbeko ma come primo

team karakalpako. In frontiera riceviamo poi la notizia dataci da un militare, che e’ lo stereotipo della

fisionomia russa, dela chiusura del confine con il Tagikistan nei pressi di Samarcanda, dovremo

quindi fare una lunga deviazione verso nord-est.

L’Uzbekistan ci accoglie con un caldo umido, e la poverta’ della regione autonoma e’ evidente nelle

strade dove ritroviamo semafori, stop e gente che ci si ferma... Troviamo anche una marea di posti di

blocco, ci fermano due volte in dieci minuti, ed un fiorente cambio nero. Intorno a noi ci sono

ovunque donne dai vestiti coloratissimi e una sensazione di miseria. Gli uzbeki si rivelano insistenti

nel chiedere soldi, siamo davvero lontani dal pianeta turkmeno, e le possibilita’ di truffa sono

concrete: i benzinai non espongono il prezzo della benzina e bisogna chiedere prima di pagare il

numero di litri richiesto, ovviamente tempo dieci minuti e si impara: prima chiedere il prezzo, poi

fare benzina!

La strada per Buchara e’ terribile, totalmente distrutta dai lavori in corso. La percorriamo in

compagnia dello svedese e di una coppia scozzese alla velocita’ di 10 chilometri orari, evitando

buche e camion che procedono in carovana, per contro il tramonto e’ di uno splendido colore viola.

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Stremati ci accampiamo da qualche parte lungo la strada che corre parallela al confine turkmeno,

siamo ancora nel Karakum e, visto quello che ci circonda, probabilmente la regione autonoma non

gode del favore del governo centrale per quanto riguarda le politiche di investimento pubblico.

Nella notte mi faccio portare, da due ragazzini venuti a curiosare, a comprare dell’acqua, ovviamente

in nero da quello penso essere un meccanico o un fabbro, e scopro che i prezzi uzbeki sono “a caso”

dato che, il giorno dopo, in un vicino negozio dal quale presumo essere venuta l’acqua della notte

prima, i prezzi sono piu’ alti. Ai ragazzini ho anche dato uno dei palloni portati da Matteo, che con i

miei cd saranno la nostra salvezza alle frontiere ex-sovietiche.

Procedendo verso Buchara inziano le prime noie meccaniche: la Panda ha perso molta acqua, inizia

quindi anche la preoccupazione. Lungo la strada, che migliora sensibilmente, ci sono molti camion

bulgari ed ucraini, nonche’ posti di blocco all’entrata di ogni paese, cosi’ come era stato in

Turkmenistan; ma alla fine arriviamo a Buchara.

Troviamo un albergo nel quartiere ebraico in pieno centro e ci dedichiamo al turismo, sempre in

compagnia degli scozzesi e dello svedese. Meritato riposo: birra e shashlik nella piazza principale, la

Lyabi-Hauz, davanti alla bellissima fontana. La sensazione girando per Buchara e’ che tutto sia a

misura di turista e poco autentico, tutto e’ infatti troppo “pulito”, compreso l’Ark, la cittadella, dove

nei sotterranei ci sono anche i manichini che raffigurano Storddart e Connolly, due delle vittime del

“Grande gioco” ottocentesco.

Sistemato, a pagamento, il problema della registrazione (che in Uzbekistan e’ obbligatoria) per la

notte passata in macchina e senza Gustav, lo svedese, che resta a Buchara con una Mercedes da

demolire ed un visto afghano, si parte per Samarcanda, siamo sulla via della seta e dopo Buchara ci

sono distese di prati e campi coltivati.

A Samarcanda saranno due giorni di turismo, albergo di lusso con piscina (e con ufficio postale) e

ristoranti da Lonely Planet (che gli scozzesi hanno sempre in mano); le spese stanno decisamente

lievitando.

Come Buchara anche Samarcanda si presenta “ricostruita” per i turisti con le mosche dalle facciate

bellissime e gli interni cadenti; e che sia una citta’ abituata ai turisti si percepisce anche dal numero

di bambini che mendica cibo al ristorante per poi farsi trovare fuori dall’albergo... Bambini che sono

tantissimi e che si tuffano ovunque ci sia acqua, una fontana nei quartieri popolari,la citta’ vecchia,

vicino alla sinagoga, era stata letteralmente trasformata in una piscina. I bambini tentano di parlare

inglese e salutano in tutte le lingue, uno addirittura in giapponese!

In ogni caso il fascino di Samarcanda e’ fortissimo e la citta’ racchiude dei gioelli come la moschea di

Bibi Khanum, la piu’ grande dell’Asia Centrale.

Tuttavia l’Uzbekistan non mi ha colpito, e gli uzbeki sembrano confermare la cattiva fama della quale

godono presso gli altri popoli centroasiatici, personalmente non vedo l’ora di arrivare sulle

montagne tagike.

Lasciata Samarcanda e’ un’odissea: tutti i benzinai sono chiusi, arriviamo addirittura a pensare possa

trattarsi di uno sciopero, il che mi lascia perplesso, e solo grazie alla generosita’ di un benzinaio (ed

alla sua onesta’ visto il mancato rincaro) riusciamo ad uscire dalla zona di chiusura delle stazioni di

servizio. Infatti come ci dicono dei ragazzi la serrata riguarda solo la regione di Samarcanda e come

scopriro’ poi si tratterebbe in realta’ di uno dei mezzi che la “mafia” locale usa per fare pressioni sul

governo centrale e per gestire i prezzi della benzina.

Uscire dall’Uzbekistan si rivelera’ impresa ardua, dato che, come impareremo durante il viaggio, e

come gia’ detto, uno dei principali indici rivelatori dello stato delle relazioni internazionali tra paesi

confinanti e’ la chiarezza nelle indicazioni per trovare i posti di confine. Uzbekistan e Tagikistan non

sono mai stati ottimi vicini e quindi noi impieghiamo un pomeriggio per riuscire a trovare la

frontiera, dopo aver chiesto a circa 100 persone ognuna delle quali con una propria teoria, compresi

dei militari che ci dicono essere la frontiera addirittura chiusa, ma noi sappiamo che in realta’ e’

soltanto quella di Samarcanda a non essere percorribile. Probabilmente lungo quel tratto di confine

e’ in corso una qualche “operazione di polizia” contro alcuni movimenti islamici uzbeki che dalle loro

basi in Tagikistan compiono azioni contro il governo uzbeko. L’Uzbekistan e’ infatti il paese centro-

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asiatico dove e’ piu’ forte la presenza islamica, anche radicale, soprattutto in aree come la valle di

Ferghana.

Fatto sta che impieghiamo davvero ore e ore per raggiungere la frontiera con il Tagikistan, che corre

lungo il Syr Daria ed e’ circondata da tralicci dell’alta tensione; con noi sono in attesa i soliti

camionisti ucraini e bulgari, piu’ un polacco. Per rendere l’idea di quanto sia stato difficile trovare il

posto di confine dico solo che ad un certo punto stavamo per incodarci alla frontiera sbagliata ed

ancora oggi non ho capito se era qulla con il Kirghizistan o con il Kazakistan...

L’avventura uzbeka si chiude in bellezza: la macchina viene passata al setaccio con tanto di controllo

tramite cani antidroga e ce la caviamo con la “perdita” di un paio di guanti da meccanico ed il solito

pallone (in tutti i paesi attraversati le guardie di confine sembrano essere bambini troppo cresciuti

con una forte propensione al calcio ed alla peggiore musica italiana). L’ultimo poliziotto ci chiede

bellamente dei dollari: quando e’ troppo e’ troppo!

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Rotture d’alta quota 11/08 – 17/08

Tagikistan

Dopo avere rischiato di sbagliare frontiera siamo arrivati alla frontiera Tagika che appare alquanto

improbabile, con un cancello di ferro chiuso che viene prontamente, piu’ o meno, aperto quando e’ il

nostro turno di entrare nel paese.

Le guardie di confine ci accolgono con un preoccupantissimo “welcome” ed infatti di li’ a pochi

minuti si entra nel magico mondo dell’inventiva centroasiatica.

Fatti 5 metri in suolo tagiko da una roulotte esce un grasso baffone con una divisa ineccepibile

(sembra un cadetto di marina in un telefilm da seconda serata) che, come da legge tagika, ci

disinfetta le ruote della macchina!!! Poi entro con lui nella roulotte e chiede compenso. Facendo il

finto tonto e gli lascio solo i pochi sum uzbeki rimasti, venendo poi cacciato come “pezzente”. Altri 5

metri, letteralmente, ed un militare mi chiama nel suo ufficio, non guarda nemmeno i documenti

andando dritto al sodo: vuole soldi. Niet! Seconda figura da pezzente... Ormai disperiamo di riuscire

ad usicre dal posto di frontiera di Ali’ Baba’ e i quaranta tagiki quando arriviamo all’ultimo ufficio

dove il funzionario ci accoglie cantando Toto Cutugno! Ci fa pagare la tassa sulla macchina ma non ci

deruba, dando pure il resto... Si merita un cd!

Appena il tempo di notare come i tratti somatici tagiki siano molto diversi da quelli uzbeki e

turkmeni e siamo in viaggio. Attraverso strade senza luci, percorse da macchine senza luci, arrivamo

a Kojand che invece e’ piena di luci e di gente, tra cui moltissimi di etnia russa, tanto da sembrare

una piccola Las Vegas...

Fuori dalla citta’ campi coltivati, pecore e mucche e commerci di bordo strada con la vendita “al

dettaglio” di angurie e meloni, come in Uzbekistan; a differenza del paese vicino pero’ in Tagikistan si

vendono pomodori e non mele. La strada inizia a salire (il Tagikistan ha un’altezza media di circa

3000 metri) e a tratti buoni si alternano tratti di lavori in corso dove le buche sono enormi e le

dimensioni fanno sembrare la strada una mulattiera. Facciamo un passo a quota 3378 metri ma in

prossimita’ di un secondo passo ci troviamo in una situazione davvero poco piacevole: stanno

scavando la galleria per evitare di risalire la montagna e le condizioni sono tremende. Nel tunnel non

ci sono luci, le buche sono veri e propri crateri e come se non bastasse a tratti la galleria e’ allagata;

sale un po’ di panico. Ci accodiamo ad un camion che procede a 10 km orari ma almeno riusciamo a

vedere le buche nascoste dall’acqua. Una volta usciti la sopresa: c’e’ il casello autostradale!!! Il

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Tagikistan e’ pieno di caselli autostradali, nemmeno troppo economici come non lo e’ la benzina, piu’

cara che nei paesi precedenti (escludendo la Turchia).

Di fatto l’asse che collega nord e sud del paese, Kojand a Dushanbe, e’ a tratti impraticabile, il che si

somma al fatto che tra le due parti del Tagikistan non corrano buoni rapporti tanto che il nord ha

volonta’ separatiste, ma in compenso le strade sono ricoperte di manifesti celebranti l’anniversario

dell’indipendenza.

Dushanbe e’ davvero brutta, ma in compenso troviamo un team italiano conosciuto alla partenza.

Sono un gruppo di ragazzi in preda a crisi isteriche e nervosismi vari: hanno rotto il loro furgone (un

vero ferrovecchio) e sono bloccati nella capitale da giorni, con in piu’ problemi di dissenteria in via di

risoluzione. In ogni caso ci portano al loro albergo, che si rivela l’ennesima struttura del vecchio

regime sovietico con moltissime camere tutte vuote. Giusto per fare un po’ di multiculturalismo la

cena e’ in un ristorante messicano con il team milanese, un italiano che lavora per qualche

organizzazione internazionale (che ci racconta come la corruzione sia diffusa e la polizia sia usa a

chiedere soldi) ed un inglese che e’ arrivato in moto dal Kenia...

Nella capitale ci sono ovunque merci russe, come il kvas e la birra Baltika, mentre in Uzbekistan

erano molto diffuse quelle tedesche.

Il giorno dopo lasciamo i ragazzi alle decisioni sul loro futuro, dopo che il loro furgone stava pure per

prendere fuoco, e partiamo verso il Pamir. Uscire da Dushanbe non e’ per niente facile, e c’e’ polizia

ovunque: fuori citta’ ci fermano continuamente ai posti di blocco per “registrarci”. La Panda torna ad

arrampicarsi verso passi di 3000 metri lungo una strada costeggiante un fiume e aiutiamo anche tre

tagiki rimasti senza benzina; l’aiuto reciproco per il carburante e’ una costante per gli automobilisti

centroasiatici, decisamente non si tratta di andare in ufficio in macchina... In questa occasione

scopriamo la totale incapacita’ tagika di valutare le distanze, tutti hanno sempre dato risposte

diverse ad ogni richiesta di informazioni!

Per contro i paesaggi tagiki sono splendidi, un vero paradiso per chi ama la montagna ed infatti,

come vedremo, non sono pochi gli amanti del trekking o del cicloturismo, abbastanza estremo, che

visitano questo paese. Fatto un piccolo guado al buio, aiutati da tre camionisti, arriviamo al confine

della regione autonoma del Gorno-Badakhshan dove uno dei militari addirittura vuole la mia

macchina fotografica, mi salvo dicendo che le foto sono per la mamma!!!

La lunga giornata finisce a Khalaikum, lungo il confine afghano, in una casa privata dove la scelta e’

dormire sui tappeti dentro casa o nel cortile in riva al fiume, un sogno...

La strada verso Khorog costeggia il fiume, che funge da confine con l’Afghanistan, e sull’altra riva si

possono vedere i villaghi afghani. Tutto procede tranquillamente, compreso l’incontro con una

formazione di carri armati tagiki. Khorog e’ una cittadina, e l’ufficio del turismo del Pamir e’

composto da ragazzi giovanissimi e gentili, sembra decisamente una zona piacevole ed a riprova di

cio’ il numero di turisti incontrati, molti in bici.

I primi guai pero’ iniziano presto, giusto all’inizio dell’M-41, l’autostrada del Pamir che taglia tutta la

regione ed arriva a Murgab. Tali guai si materializzano sotto forma, ovviamente, di poliziotti, che

all’ennesimo posto di blocco vogliono sia pagata una cifra nemmeno troppo bassa per poter

proseguire. Sotengono infatti che secondo il visto dovremmo passare da sud lungo le strade del

Pamir vero e proprio, cosa che a ripensarci avrei fatto volentieri ma, col senno di poi, sono contento

di non avere fatto visto che la Panda iniziava a dare segni di cedimento. Fatto sta che quelle strade

sono una delle maggiori attrazioni del paese passando per ghiacciai e passi d’alta quota, ma inutile

rivangare, abbiamo pagato (togliendomi la soddisfazione di spaventarli) e ci siamo avviati verso

Murgab sostando per la cena in un posto che diverra’, purtroppo per noi, conosciuto: il sanatorio di

Jelondi. Ufficialmente, come detto, un sanatorio, ma viste le facce sarei piu’ propenso per qualche

centro legato a tossicodipendenza o altre problematiche sociali.

Ed ecco che accade cio’ che non doveva: appena dopo Jelondi la macchina si rompe!!! Un semiasse

e’ andato, ci penseremo domani. Dormiamo in macchina su un altipiano che credo essere a circa

3500 metri nel nulla piu’ assoluto davanti a delle catene montuose mozzafiato, tra le quali penso di

riconoscere l’Hindu Kush, fa freddissimo.

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Ci svegliamo ed e’ ferragosto, un freddo ferragosto. Rompere la macchina in un posto piu’ bello era

difficile, il panorama e’ stupendo e ci sono pure le marmotte. Fermo una macchina, di marca cinese

come molte auto in Tagikistan (in Uzbekistan erano coreane) e torno al sanatorio. In realta’ l’autista

mi voleva portare a Khorog in cambio di soldi, breve discussione e mi faccio lasciare a Jelondi. Qui

trovo un ragazzo conosciuto la sera prima che parla inglese. Mi dice che andra’ a studiare in Polonia,

con la quale ci sono scambi di studenti e insegnanti, e mi dice che le “genti del Pamir” sono portate

per le lingue, ecco perche’ a Khorog molti parlavano inglese.

Insieme al “giro del sanatorio” cerchiamo una soluzione: concordiamo di caricare la macchina su un

camion e portarla a Khorog, prendo un taxi (che si rompe tre volte in cinque minuti) annuncio la cosa

a Matteo e torno al sanatorio, dove mi attendono cattive notizie. Mi dicono infatti che il meccanico

“quello bravo” e’ in ferie (andare da altri viene sconsigliato vista la cattiva fama della citta’), e che le

strade sono chiuse per una visita presidenziale, ma che possiamo andare comuque a prendere la

macchina.

Parto con un gruppo decisamente improbabile, tra cui un ragazzo dalla faccia inquietante in

mimetica e denti d’oro, e, con un camion sovietico del ’73, un vero bisonte che necessita riparazioni

praticamente ogni chilometro ci avviamo, sulle note di musica russa sparata a tutto volume dal

mangiacassette del mezzo. La Panda arriva al sanatorio, dopo che una ruota ha sfondato il pianale

marcio del camion, paghiamo il trasporto in benzina e concludiamo la giornata cenando con altri

stranieri, tedeschi e francesi, che mi stupisco di trovare li’; in realta’ il sanatorio e’ la sola struttura

nell’arco di moltissimi chilometri, da qui il suo fungere anche da pensione.

Al mattino tutto il paese assiste il camionista che ripara la macchina, senza ne’ ponte ne’ buca, e

ripartiamo. I Tagiki sono incredibili, una poverta’ assoluta e tanta arte di arrangiarsi, non stupisce

che il governo sia alle prese con il problema dei traffici legati all’essere il paese rotta di passaggio

per l’eroina proveniente dall’Afghanistan.

La strada continua a salire e guardando la cartina mi viene il dubbio che la macchina si sia rotta in

prossimita’ di un passo ad oltre 4000 metri. Vediamo le prime yurta (che sono piu’ tipicamente

kirghize) ed i primi yak, siamo stupiti da come per delimitare i confini amministrativi si usino statue

di stambecchi e veneri varie...

In giro ci sono molti turisti in bici, tra i quali tanti francesi, e le strade non sono per niente belle;

meno male che cumuli di pietre indicano i punti dove il bordo ha ceduto o ci sono buche

particolarmente pericolose. Ci sono anche una marea di camion cinesi ma i camionisti dalle

fisionomie sembrano uighuri, ed infatti uno di loro si rivolge a noi con un “salam”. Verso Murgab

rimaniamo piu’ volte senza benzina, e colgo l’occasione per chiaccherare con le “genti del Pamir” che

mi spiegano quello tagiko essere il piccolo Pamir mentre quello grande sta in Afghanistan. Con

qualche difficolta’ arrivamo a Murgab ed all’usuale posto di blocco. I militari sembrano poverissimi

ma ci regalano della benzina senza nemmeno volere dei soldi, quando l’abito non fa il monaco...

Finiamo la lunga giornata in una guest house alquanto bizzarra, senza nessuna insegna, trovata per

caso e retta da una donna originaria della capitale trasferitasi a Murgab per sfuggire al traffico. La

signora, parlando un russo velocissimo, ci accoglie con the, pane e patate con cipolle, mentre

l’elettricita’ va e viene. Oltre a noi solo una coppia di ragazzi polacchi.

Al mattino da un meccanico dai tratti cinesi compro della benzina sfusa fatta in casa (il Pamir e’

praticamente sprovvisto di carburante) e noto che nella piazza principale c’e’ una statua di Lenin. Gli

abitanti hanno fisionomie cinesi come il meccanico e ovunque si vedono gli alti cappelli kirghizi.

Dopo murgab il nulla: gruppi di case e stalle abbandonate, quello che presumo essere un vecchio

posto di frontiera abbandonato anche’esso e tutte le (poche) insegne fanno pensare che siamo

ormai in “territorio kirghizo”. La strada arriva al passo piu’ alto dell’M-41 ad oltre 4600 metri e la

vegetazione si fa rada, davvero un paesaggio desolante, non auguro a nessuno di rimanere in panne

qui. Infatti in giro non c’e’ nessuno e i cumuli di pietre continuano a segnare i punti in cui il disgelo

ha eroso la strada, mentre intorno ci sono laghi e fiumi.

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La strada corre lungo una rete di filo spinato posta alla base di alcune alture, presumo sia la

delimitazione con la terra di nessuno cinese, ed infine arriviamo al confine tra Tagikistan e

Kirghizistan, un paio di container spersi a 4200 metri d’altitudine...

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Alti cappelli e lunghe discese

17/08 – 21/08

Kirghizistan

Una discesa lunghissima in una terra di nessuno di 20km: il bordo strada a tratti e’ franato e

dobbiamo proseguire anche in fuoripista... Poi, la dogana kirghisa, chiusa! Ci arriviamo senza benzina

e mentre un temporale in quoto tuona minaccioso. Quando ci fanno entrare come sempre ci

prendono per francesi (ci sono davvero molti turisti francesi in Asia Centrale) e barattiamo un

pallone con 5 litri di benzina: un graduato vuole regalare il pallone al figlio che e’ li’ con lui. La prima

cittadina che incontriamo e’ Sari-Tash, un postaccio posto tra Tagikistan e Cina, vero crocevia di

traffici non propriamente legali. Ma, proprio mentre stiamo per entrare nella guest-house di una

ragazza dai tratti cinesi, che sottolinea vivamente che il suo e’ un albergo, il semiasse si rompe di

nuovo... Con la ragazza andiamo alla ricerca di un vicino semimeccanico ma niente, se ne riparlera’

domani... Al mattino carichiamo la Panda sul cassone del camion del semimeccanico che si rivela un

energumeno camionista e partiamo verso Osh, il centro della regione, per trovare un vero

meccanico.

La strada e’ un immenso cantiere con operai cinesi al lavoro per allargarla, mentre ai lati si vedono

enormi branchi di capre e asini. Il camionista durante il viaggio ci dice cosa pensa degli uzbeki,

semplicemente li vorrebbe tutti sgozzati (dicasi amicizia tra i popoli), fa sorpassi da testamento in

salita e in curva (un particolare modo di guidare centroasiatico per risparmiare benzina) nonostante

la velocita’ di crociera sia di circa 20km orari. Nei modi di fare i kirghisi ricordano i cinesi, soprattutto

nel rapporto con il denaro: chiedono sempre il massimo e non fanno sconti, a costo di rimetterci; per

non trattare, il “nostro" camionista rifiuta un passaggio a due italiani incontrati a Sari-Tash. In

Kirghizistan ho visto i primi segni di un certo “laicismo” nei saluti, che variano oltre all’onnipresente

“salam”. Inoltre c’e’ un largo uso del russo che altrove viene invece sostuito dalla lingua locale: a

Dushanbe un passante mi aveva corretto dicendomi “qui siamo in Tagikistan”! Da notare che,

insieme al Kazakistan, il Kirghizistan anche dopo l’indipendenza ha mantenuto il russo come lingua

ufficiale, seppur assieme al kirghiso.

Superato un valico dopo Sari-Tash il paesaggio umano cambia radicalmente: tornano a vedersi i

benzinai, a bordo strada i ragazzini vendono pomodori ed i campi sono affollati di mucche. Vedo

anche la prima scritta di tifo calcistico dall’inizio del viaggio, mentre nelle strade ricompaiono anche i

camion, perlopiu’ cinesi, ed i paesini sono ornati di monumenti sovietici ricchi di retorica e celebranti

soldati ed operai.

Page 26: Una panda per l'eurasia

26

Arrivati ad Osh ci dedichiamo alle riparazioni della macchina. Il camionista ci porta in un immenso

autoparco che sembra essere una sorta di centro del fai da te automobilistico, disseminato di spazi

dove riparare la propria macchina e di negozi di ricambistica; ovunque ci sono inoltre vecchi

pullmann usati tedeschi. Grazie a due meccanici (o presunti tali) ripariamo la macchina, non senza

difficolta’, e poi andiamo dal gommista per sistemare anche le ruote. Alla fine ce la caviamo con una

spesa sicuramente non piccola ma non eccessiva viste le riparazioni fatte.

Finiamo poi in un albergo consigliato da un kazako che ci sciorina un tot di luoghi comuni sui popoli

confinanti compreso quello dei kirghisi stupidi e cattivi, di certo la tolleranza non e’ di queste parti...

Bisogna ricordare che Osh e’ stata epicentro nel 2010 di gravissimi scontri interetnici tra kirghisi e

uzbeki, costati la vita a piu’ di cento persone, come testimoniano alcune case a tutt’oggi dalle

facciate riportanti i segni di incendi e devastazioni. In ogni caso le varie etnie sono facilmente

distinguibili per la notevole differenza nel modo di vestire, con i kirghisi indossanti i tipici alti

cappelli. A Osh si rivede anche la moschea e si ascolta il richiamo del muezzin. In particolare i segni

dell’islam come i minareti e le donne velate sono numerosi lungo il confine uzbeko, in special modo

nella zona di Jalal-Abad, dove sono anche molto frequenti i posti di blocco della polizia, non per via

dell’ordine pubblico ma bensi’ per rilevare la velocita’ delle auto... Le strade sono infatti tornate ed

essere decisamente belle e la voglia di correre e’ forte. Veniamo fermati due volte in cinque minuti

con il vecchio trucco dell’eccesso di velocita’. La modalita’ e’ sempre la stessa: si viene fermati per un

limite di velocita’ superato, che in realta’ non e’ stato oltrepassato, e la polizia richiede il pagamento

di una multa esorbitante, in contanti e possibilmente in dollari. Fingendo di non capire ce la caviamo

in entrambi i casi e ce ne andiamo.

I paesaggi sono incredibili: dopo un enorme lago di un blu cristallino passiamo per una delle

numerose aree protette dove ai lati della strada vendono miele di ogni tipo. A farci compagnia una

visita ufficiale cinese, scortata dalla polizia, che ritroveremo diverse volte lungo il tragitto. Arrivati ad

un passo di 3586 metri circondato da yurte e mandrie di cavalli inizia una discesa infinta che porta a

Bishkek, con la macchina che continua ad avere qualche problema, compresa una perdita di benzina

ed una gomma bucata riparata da un sorridente meccanico con attrezzature che in Europa e’ ormai

difficile anche solo vedere.

Avvicinandosi alla capitale iniziano a vedersi sempre piu’ macchinoni, numerose le marche

tedesche, e tantissime auto riportano il contrassegno della Germania; probabilmente il paese risente

degli accordi commerciali fatti a suo tempo dalla UE. Il Kirghizistan e’ infatti uno dei paesi

centroasitici dove piu’ forte e’ stata la penetrazione occidentale nel tentativo di allontarlo da Mosca,

nonostante il governo kirghiso abbia poi ritirato la concessione dell’importante base militare di

Manas all’esercito statunitense, che la usava come punto d’appoggio per la guerra in Afghanistan.

La meta di giornata e’ Kara-Balta, nei pressi della capitale, alla quale arriviamo dopo la discesa che

sembrava non volesse finire mai piu’. La citta’ appare subito molto buia e non troppo

raccomandabile, non si vedono alberghi e veniamo subito fermati ad un posto di blocco misto di

polizia e militari. A differenza delle precedenti la situazione sembra piu’ seria e ci stiamo

rassegnando a dover elargire qualche “mazzetta” quando il gruppo in uniforme parte (goffamente)

all’inseguimento di due macchine sfrecciate nei pressi, cogliamo l’occasione per allontanarci e

puntare su Bishkek.

La piu’ importante citta’ del Kirghizistan appare subito brutta (ci sono anche delle ciminiere),

circondata da un incendio enorme, e strapiena di casino’ e locali notturni, al punto da sembrare

abbastanza surreale. Il paesaggio urbano sembra decisamente “occidentale” e per la prima volta in

tutto il viaggio si vede chiaramente un accenno di prostituzione, come nell’albergo dove alloggiamo

dato che nell’atrio incontro due ragazze che sembrano abbastanza evidentemente essere escort.

Intorno tra la popolazione tantissime persone di chiara etnia russa, mentre il taxista che ci ha

accompagnato all’albergo sembra tedesco.

Nuova meta il lago Issyk Kul, detto il piccolo mare kirghiso, che ci apprestiamo a raggiungere in

compagnia di un team di ragazzi delle isole Shetland. Fuori dalla capitale si vedono ovunque murales

di stampo sovietico ricchi di falci, martelli e stelle rosse; uno addirittura incitante all’amicizia con

Page 27: Una panda per l'eurasia

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l’Iran!!! A bordostrada i bambini vendono pesche ed ogni casa ha un piccolo banchetto che propone

bevande; da segnalare poi le fermate dei pullmann tutte belle e decorate con mosaici, una

addirittura a forma di cappello.

La prima citta’ sul lago e’ tremenda: palazzi fatiscenti, Lenin ovunque ed un cementificio

semidistrutto, quest’ultimo rivelatore del fatto che i sovietici impiantassero industrie ovunque ci

fosse un corso o una distesa d’acqua. Come se non bastasse la citta’ e’ disseminata di cartelli

pubblicitari dell’Unicredit... Mi rivolgo quindi all’ufficio del turismo, aperto tre giorni prima e

firmando il libro degli ospiti come primo cliente!!!. La citta’ turistica e’ circa 100km piu’ avanti, si

continua quindi per la strada che costeggia il lago dove numerosi sono i venditori di pesce. Passiamo

vari cimiteri islamici e moschee che sembrano prefabbricate (la cupola sembra fatta di un materiale

che pare alluminio) ed arriviamo in una vera e propria Rimini kirghisa. A Cholpon-Ata (questo il nome

della citta’) sembra davvero di stare al mare, compresi bagnanti armati di ceste da pic nic e discoteca

di infimo livello popolata di ragazzini vestiti in maniera improponibile, giusto a 20 metri dalla casa

dove dormiamo e trovata grazie ad un ragazzo che si e’ creato una sua attivita’ di guida turistica fai

da te... Osservando i tentativi di approccio e l’attivita’ dei pusher sembra davvero di stare in una

qualunque discoteca di un nostro centro balneare minore.

Colazione con carne fritta e cipolle e si torna a Bishkek, dato che il confine con il Kazakistan prossimo

al lago si raggiunge attraverso strade davvero impercorribili. Noto nuovamente ovunque statue di

lavoratori e lavoratrici che guardano il sole dell’avvenire, viene davvero da chiedersi se qui ci sia mai

stata una desovietizzazione. Il paese sembra in fallimento, tutti chiedono soldi, anche per dare

semplici informazioni, e mentre rifletto osservo un cartellone del governo kirghiso dove compare la

bandiera del Giappone, riferentesi a qualche accordo commerciale raggiunto.

Penso di avere capito perche’ dopo l’indipendenza la politica kirghisa sia stata quella di “mettersi”

all’asta per il miglior offerente tra USA e Russia. Oltre a vecchi modelli di auto tedesche vediamo

anche numerose auto di produzione sovietica; il Kirghizistan sembra davvero vivere dell’usato altrui

ed in un’altra epoca...

Il tempo di vedere un pullmann d giornalisti spagnoli scortato dalla polizia ed il Kirghizistan ci saluta

con l’ennesimo posto di blocco a caccia di multe, giusto prima della frontiera, e stavolta vogliono

addirittura 50 dollari; la solita tecnica del “finto tonto” ci permette di avviarci, dopo qualche tempo,

verso il Kazakistan, e senza pagare dazio!

Page 28: Una panda per l'eurasia

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“La tua polizia quanto chiede?” 21/08 – 25/08

Kazakistan

Questa la domanda che mi sono sentito rivolgere dall’autista kazako di un carroattezzi, e questa

domanda racchiude molto di un viaggio in Kazakistan. La polizia del paese e’ infatti rinomata per la

sua corruzione e per il suo usare gli automoblisti, specie se stranieri e occidentali, come bancomat!

La frontiera kazaka appare come le porte dell’inferno: caotica come quella iraniana ma molto piu’

cupa. I militari hanno facce minacciose e spintonano la massa di gente che preme per entrare, donne

comprese, minacciando di gettare le loro mercanzie nel fiumiciattolo che scorre nei pressi.

Addirittura una guardia di confine con il volto coperto dal passamontagna estrae un coltello da

guerra minacciando un gruppetto di donne, che di rimando gli semi-ridono in faccia; il solito pallone

salvavita e passiamo... Certo che desta impressione vedere queste scene all’ingresso di quello che

risulta come il colosso economico centroasiatico e, teoricamente, il paese piu’ “evoluto e

occidentale” dell’area,

Il Kazakistan appare dapprima come una distesa di colline brulle per poi diventare un’immensa

pianura dal cielo nuvoloso e dal clima un po’ freddo. Lungo le strade, che corrono dritte, una marea

di Mercedes e Toyota, nonche’ i soliti pullmann tedeschi usati, che hanno qualcuna il volante a

destra e qualcuna a sinistra. I primi campi coltivati ci portano ad Almaty che ci accoglie con un gran

traffico e con la prima chiesa, ortodossa, incontrata da quando abbiamo lasciato l’Europa.

Con sopresa scopriamo che gli alberghi costano un sacco di soldi, finiamo cosi’ in un hotel

chiaramente del periodo sovietico: centiania di camere, intonaco che cade a pezzi e ascensore che

va solo al terzo piano dove c’e’ l’addetta alla distribuzione chiavi!!! In serata insieme agli scozzesi

andiamo nell’albergo piu’ lussuoso della citta’ a trovare un loro amico americano (decisamente

benestante per via dei vari locali che gestisce in patria) e constatiamo che anche dove alloggiano i

ricchi kazaki il lusso e’ apparente, dato che qualche pezzo di intonaco e’ decisamente da rifare.

Qui apprendiamo una notizia che fa riflettere: un ragazzo inglese del Mongolrally sta rischiando la

vita dopo essere caduto da 10 metri d’altezza; era in un pub ubriaco di whisky, e questo fa pensare...

Ha senso questa corsa folla popolata da decine e decine di ragazzotti che sfrecciano lungo l’Eurasia

solo per poi vantarsi di averlo fatto? Io personalmente ho preso la cosa come un modo di vedere

(anche solo di sfuggita) posti che altrimenti avrei difficilmente visitato, e il mio prendere appunti e’

un tentativo di andare, anche solo minimamente, oltre la superficie di cio’ che vedo. Ma gli episodi in

cui ho visto team ubriachi, ripartire da un posto lasciando cumuli di immondizie e fare un gran casino

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mi hanno lasciato davvero perplesso, non mi stupisce che in Mongolia il Mongolrally non sia amato,

come dice Alfredo, il mio amico che da anni vive ad Ulaan Bataar. In ogni caso la serata prosegue con

un ristorante cinese, la cui cucina e’ nettamente differente da quella che conosciamo in Europa

come cinese; attraversando la citta’ si puo’ vedere come il centro sia una distesa di negozi dalle

firme euopee destinati a shopping di lusso: si va dalle italiane Scavolini e Zegna alle gioiellerie

francesi e svizzere, ma a me che colpisce di piu’ e’ un insegna che appare profetica, stiamo parlando

della Kazinvestbank!!!

Prima di ripartire visita al centro commerciale, l’americano spende, e qui scopro che sembra di

essere in Europa dato che l’edificio pullula di negozi occidentali, anche i prodotti sono occidentali, e

pure le ragazze vestono all’occidentale. Unica differenza il bancone della vodka decisamente oltre gli

standard occidentali, compresa una bottiglia regalo a forma di Kalashnikov!

Decisamente questo americano, che fa il Mongolrally da solo, conferma i miei pregiudizi anti-USA:

spocchioso, arrogante, ed una tendenza a fare il leader che non mi piace. Ma adesso basta, la

tendenza alla generalizzazione centroasiatica mi sta contagiando...

Lungo la strada il sole tramonta su un’enorme distesa piatta, che ricorda la savana. Siamo una

minicomitiva di tre macchine che si ferma a bordostrada per lavare i vetri improvvisando un

autolavaggio, taglia bottiglie di plastica per bere vino rosso presso un benzinaio e si accampa in

un’area di sosta (spiazzo di terra battuta circondato da immondizie) per cenare e dormire...

Procedendo verso Qaraganda sembra di essere in una tabula rasa elettrificata: il paesaggio non

cambia, sempre piatto, mentre a bordo strada continuano le statue di animali e persone immerse

nel nulla. Unica nota di rilevo l’incontro con un team di ragazze canadesi, amiche dell’americano, che

arrivano dopo essere entrate in Kazakistan, se non sbaglio, dalla parte occidentale del paese invece

che da sud come noi. Come gia’ detto i russi ovunque ci fosse acqua hanno posto industrie, e

risalendo verso nord il Kazakistan e’ pieno di fiumi e laghi, da qui un paesaggio dove i fili elettrici la

fanno da padrone e dove l’inquinamento e’ un problema serio; non e’ nemmeno un caso che piu’ ci

si inoltre verso nord piu’ aumentano le macchine dalla targa russa. Infatti le regioni settentrionali del

paese vedono una forte minoranza russa il che per il governo kazako potrebbe diventare un

problema dato che le aree di insediamento russo sono anche le aree piu’ ricche e produttive.

Superata Balkash si vedono delle alture e sullo sfondo addirittura montagne, mentre ai lati della

strada sono numerose le mandrie di cavalli. Ma... La Panda si rompe di nuovo, stavolta un problema

elettrico: non parte piu’ ed esce del fumo. Uno dei ragazzi scozzesi, che di lavoro e’ meccanico, prova

a darci una mano ma un fusibile si e’ bruciato. Lascio quindi Matteo e vado con gli altri in citta’ a

cercare un meccanico. Mentre aspetto il carroattrezzi due kirghisi si intrattengono mettendomi a

conoscenza del fatto che i kirghizi sono brutta gente, evidentemente un’opinione diffusa in

Kazakistan, ed altre simpatiche perle di “internazionalismo” post-sovietico.

Il conducente del carro attrezzi invece mi istruisce sulla corruzione della polizia kazaka facendomi la

famosa domanda e chiamando un sacco di persone per vantarsi del fatto che stesse andando a

prendere un macchina italiana del Mongolrally. Recuperata la macchina si ritorna in citta’ per finire

in un albergo con sala scommesse annessa. Io sono decisamente stanco e mi dedico a mangiare

panini e bere birra, con la commessa che ha un 10% su tutto, guardando Villareal-Odense in

compagnia di due kazaki che hanno ediventemente scommesso sul Villareal... Come se non bastasse,

lo scambio di mail con l’organizzazione del Mongolrally continua a non chiarire le procedure per far

entrare la Panda in Mongolia: dato che la nostra macchina e’ piu’ vecchia del limite consentito dalla

corsa importeremo la macchina come privati e non tramite Mongolrally, pur con il loro appoggio, ma

fino ad oggi su questo punto non si e’ fatta chiarezza e la Mongolia si avvicina sempre piu’...

Il giorno seguente lo si passa in un’officina di ragazzi gentilissimi, e la macchina sembra non avere

nulla. Io scambio la mia email con un ragazzo dai tratti russi che mi dice la sua ragazza parlare

italiano, e con il quale sono in contatto ancora adesso, peccato non aver potuto partecipare al suo

recente matrimonio. Osservando i tratti somatici noto che russi e kazaki sono molto mescolati, i russi

sono davvero tanti, anche se un ragazzo (dai tratti kazaki) mi dice chiaramente che la lingua kazaka

e’ piu’ bella del russo... Chiaccheriamo per un po’ e anche qui la chiaccherata finisce sulla corruzione

Page 30: Una panda per l'eurasia

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della polizia che in Kazakistan sembra davvero essere uno dei principali argomenti di conversazione.

I ragazzi infatti si premurano di chiedere se abbiamo avuti problemi con i poliziotti, ma

fortunatamente finora non ne abbiamo avuti. Tutti hanno il mito di Almaty, come in tutto il

Kazakistan, anche se le ragazze di Qaraganda non sono da meno per look non certo castigato e arie

da “vamp”...

Il nord del paese ha strade pessime, per via dei numerosi fiumi e laghi, e sono piene di camion

europei usati. Superiamo Pavlodar dalla moschea affiancata alla chiesa ortodossa (ed entrambe

costruite in uno stile disneylaniano) e ci fermiano nell’ultimo paesino kazako, chiedendo ad un

benzinaio dove poter trovare un posto dove dormire; il benzinaio mi disegna una mappa che sembra

un quadro, mancano solo le case per essere degna di Google Maps e tutte le persone presenti ci

vogliono aiutare. Finiamo cosi’ in casa di una simpatica affittacamere dal figlio ciccione, simpatico

pure lui e aspirante albergatore. Mieto successi con il mio dizionario italiano-russo ma una ragazza

non prende troppo bene la mia non conoscenza delle differenze tra lingua kazaka e lingua russa.

La piovosa mattina seguente la strada verso la frontiera e’ pessima, come quasi tutte le strade verso

le frontiere, e per chiudere in bellezza un poliziotto ci accoglie al posto di confine sfoggiando il suo

italiano: “Mafia? Good!”

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L’arte di sapersi arrangiare 25/08 – 26/08

Russia

In Russia e’ stato davvero un passaggio molto veloce, per vari motivi. Innanzitutto per motivi

geografici, dato che non esistono vie dirette tra Kazakistan e Mongolia. I due paesi infatti

non confinano per soli 38km di montagne, divisi da Cina e Russia. Per la Cina non e’ stato

richiesto il visto in quanto la possibilita’ di guidare un autovettura in territorio cinese e’

fortemente limitata da una rigida regolamentazione, quindi Russia. A proposito della Cina

dico solo brevemente che, una volta arrivati al traguardo, ho lasciato la macchina ad Alfredo

e me ne sono partito per questo affascinante paese innamorandomene. Ho scoperto una

terra ricca di fascino e contraddizioni, della quale magari scriveremo in altra occasione.

La “terribile” frontiera russa, il temibile ingresso nel paese di quello che fu il socialismo reale

si rivela... il confine piu’ facile da attraversare di tutto il viaggio!!! Giusto mezzo controllo ed

una dichiarazione da firmare, ed anche qui siamo riconosciuti come team del Mongolrally; la

gara ha ormai i suoi percorsi fissi e le guardie di confine ormai sono abituate a strane

macchine con a bordo strane persone. E dal Kazakistan sono principalmente due i posti di

confine attraversati dai team del Mongolrally: quello vicino Pavlodar (ossia quello di cui

stiamo parlando) e quello vicino Semey (tristemente famosa per le radiazioni dovute

all’essere stata poligono nuclerare sovietico). Scegliere una strada invece che un’altra puo’

fare grandi differenze in paesi dove la manutenzione del manto stradale non e’ all’ordine del

giorno. E per questo uno dei lati piu’ interessanti del Mongolrally e’ lo scambio di

informazioni tra equipaggi ed il nascere di leggende dovute al passaparola, come e’ stato

per noi il caso delle voci di chiusura delle frontiere tagike con il Kirghizistan.

La russia si presenta subito verde, ricca di foreste e campi coltivati, nonche’ corvi in ogni

dove. I primi paesi sembrano poveri ma anche qui le ragazze “si tirano a lucido” il piu’

possibile... Nei bar vedo i primi tatuati (e anche molto) che non sono ex-detenuti. In

Kirghizistan addirittura un poliziotto mi aveva mostrato con orgoglio i suoi tatuaggi

chiaramente fatti in cella, e spesso mi chiedevano, visto i miei abbastanza evidenti, se avevo

conosciuto le patrie galere italiche...

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Mi colpisce che i benzinai per la prima volta dall’inizio del viaggio rifiutano euro e dollari,

sembra che qui non ci sia la fame di valuta forte che abbiamo incontrato lungo tutto il

percorso...

Il tempo di acclimatarci in questo angolo sperduto di Russia che un nuovo guaio ci assale: su

di una buca presa a 10km orari si rompe una balestra!!! Cerchiamo un meccanico, e lo

troviamo anche... Il pomeriggio lo passiamo quindi ad assistere un vero e proprio artista che,

tentando di adeguare una diversa balestra a quella rotta, crea un nuovo assetto per la

macchina decisamente piu’ aggressivo. Infatti per poter agganciare un nuovo pezzo al

vecchio il Leonardo degli Altai rialza tutta la parte posteriore della macchina con un gioco di

saldature e bilanciamenti!!! Il risultato finale e’ visibile nella foto di copertina... In Russia la

capacita’ di arrangiarsi da soli e’ evidente dal fatto che ogni area di sosta ha buche e

rudimentali ponti affinche’ ognuno possa farsi da se’ controlli e riparazioni del caso.

La notte ci coglie lungo la strada per Barnaul e la stanchezza si fa sentire, il viaggio e’

davvero massacrante e manca ancora la parte forse piu’ dura: la Mongolia con la sua totale

assenza di strade (se non intorno alla capitale). Dormiamo quindi parcheggiati in un

benzinaio e sfortuna vuole che quando mi decido a visitare il bar presente nell’area di sosta

questo chiuda... Barnaul appare come una cittadona, un vero centro di snodo con i suoi

numerosi svincoli che portano ovunque. Infatti per trovare la direzione giusta dobbiamo

fermarci in un autogrill e chiedere indicazioni a due metronotte, e facendo la mia seconda

colazione. La prima era stata in un supermercato che aveva appena aperto e dove mi sono

caricato di dolci e torte salate appena sfornate, ignorando in maniera sacrilega il reparto di

birra piu’ grande che abbia mai visto in vita mia...

La pioggia ci segue anche sugli Altai. Il paesaggio e’ bellissimo, la strada sale per i boschi e

sembra di essere in qualche valle alpina. Il posto e’ chiaramente turistico come denotano i

numerosi campeggi lungo il fiume e le altrettanto numerose pensioni a bordo strada.

Procedendo verso il confine mongolo dopo un bivio finisce la zona turistica e la strada

diventa sempre piu’ una tipica strada di montagna, stretta e ripida.

Durante una sosta da un gommista una scena divertente: un cucciolo apprendista cane

pastore si affanna a rincorrere una mucca mostratasi molto interessata alla nostra

macchina, in questo angolo di Russia le mucche sono tantissime dando ancora di piu’

l’impressione di essere sulle Alpi.

Tra un tornante e l’altro incontriamo un team la cui ambulanza ha la targa tedesca, come

scopriremo poi si tratta invece di un gruppo di ragazzi romeni, che rappresentano i primi

partecipanti di questo paese al Mongolrally. Con questi ragazzi faremo gran parte del

tragitto in terra mongola.

Inizia a salire un po’ di preoccupazione dato che sappiamo la frontiera mongola avere degli

orari di chiusura e sapendo anche che tra Russia e Mongolia la terra di nessuno e’ lunga ben

45km, forse qualcuno meno, e si sta facendo tardi...

Arriviamo al confine e veniamo controllati piu’ lasciando il paese di quando vi siamo entrati.

Siamo sempre in compagnia dei ragazzi romeni e con loro scopriamo che una volta passato il

cancello di uscita dalla Russia, esattamente in quel punto finisce l’asfalto; la terra di nessuno

si presenta come una pista di terra battuta che si inoltra nel nulla, un inizio che lascia

presagire quello che troveremo una volta in Mongolia.

Il tempo di riabituarsi alla guida sullo sterrato ed arriviamo al posto di confine mongolo, che

ovviamente troviamo chiuso. Ma il Mongolrally non e’ ormai piu’ una novita’ per le guardie

di confine dei vari paesi, ed infatti quelle mongole ci stanno aspettando per aprirci il

cancello e farci entrare. Siamo in Mongolia! Ma per stanotte si dorme sul piazzale, in

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compagnia di un’altra decina di team, perlopiu’ inglesi e canadesi. Una grossa parte del

viaggio e’ fatta, resta ora forse quella piu’ difficile. Non e’ un caso che la maggior parte degli

equipaggi abbandoni la corsa dopo essere entrati in Mongolia: il paese infatti e’ cosparso di

piste, mentre strade asfaltate esistono solo per circa 300 chilometri attorno Ulaan Bataar. Ci

attendono giorni faticosi, ma finora la stanchezza e’ stata premiata dai paesaggi e dalle

esperienze fatte. Tornando alla Russia e’ stato davvero un passaggio fugace, ma la

disponibilita’ delle persone incontrate ed i panorami visti invitano a pensare ad un ritorno

con piu’ calma in un futuro prossimo.

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Il fascino indiscreto del vuoto 25/08 – 01/09

Mongolia

Ci svegliamo in Mongolia!!! Sembra quasi impossibile a credersi, ma non siamo ancora arrivati a

destinazione e la parte forse piu’ dura inizia adesso: saranno pochi giorni ma di fatica!

Colazione nel parcheggio della dogana e via, ma ci dimentichiamo un piccolo particolare... le pratiche

relative all’autovettura! Sono un po’ teso per tutte le difficili comunicazioni con l’organizzazione in

merito a questo punto, ed il mio vedere spesso nero non aiuta. Tuttavia i funzionari mongoli sono

gentili, ci chiedono solo un documento che provi il valore della macchina essendo piu’ vecchia del

consentito. Matteo ha la ricevuta di acquisto e dato che la macchina e’ stata regalata da un suo

cliente il valore delle tasse di importazione viene calcolato in termini decisamente favorevoli. Tutti i

computer degli uffici doganali sono dotati di internet e siti di quotazione auto ma fortunatamente

non e’ nota la differenza tra Panda e Panda 4X4, sta di fatto che non dobbiamo pagare nulla al

momento ed una volta arrivati le tasse per svincolare l’auto dal Mongolrally non saranno

elevatissime. L’ultimo controllo e’ fatto da una doganiera carinissima che sembra arcigna ma si

scioglie alle parole magiche: Toto Cutugno, un vero lasciapassare!

Si parte davvero, in compagnia dei ragazzi romeni verso Ulaan Bataar, decidendo di passare da sud.

La via nord infatti e’ troppo rischiosa per i numerosi laghi e le frequenti inondazioni.

Il primo impatto con la Mongolia consiste in un vento fortissimo, al punto da rendere difficile l’uscire

dalla macchina ed un cielo che minaccia pioggia; il famoso cielo blu della Mongolia, non terso come il

cielo di Giugno visto da me l’anno precedente, ma sempre di ineguagliabile bellezza. Le strade

semplicemente non esistono, lo spazio e’ infinito e le piste corrono numerose e parallele, con la

principale al centro che spesso e’ anche quella dal fondo peggiore; per orientarsi non serviranno

cartine ma vere e proprie mappe topografiche, dato che i punti di riferimento sono i fiumi e le

montagne in lontananza. Ogni altura diventa cosi’ un elemento fondamentale per capire la propria

posizione tenendo conto che in un paese grande 5 volte l’italia e con tre milioni di abitanti (di cui

piu’ della meta’ nella capitale) le persone alle quali chiedere informazioni lungo la strada non sono

molte...

Nel primo villaggio, dove passeremo la notte, gli spunti di riflessione non mancano: infatti veniamo

assaltati da una miriade di bambini che sembrano molto poveri. Ma oltre al mendicare qualcosa

hanno un atteggiamento abbastanza aggressivo, al punto da arrivare a tirare sassi alle macchine.

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In ogni caso ci fermiamo nella gher di una signora che scopriamo essere insegnante d’inglese con tre

figli che studiano all’universita’ in tre continenti diversi. La gher e’ grande, piu’ spaziosa delle

consuete tende di feltro mongole; come ci fa notare la signora, e lo sottolinea per qualche decina di

volte, ne’ lei ne’ la gher sono mongole ma bensi’ kazake. C i troviamo infatti nella regione autonoma

di Bayan-Olgii dove l’etnia e’ kazaka e la religione seguita e’ l’islam, mentre nel resto della Mongolia

la popolazione e’ buddista. Come ci dice la nostra “padrona di gher” costumi e tradizioni kazaki sono

assolutamente differenti da quelli mongoli, e da come ne parla la cosa sembra non dispiacerle.

Osservando meglio la tenda che ci ospita in effetti le differenze da quella classica mongola sono

diverse: innanzitutto e’ piu’ grande e sembra essere piu’ curata nei dettagli decorativi, non vi e’ lo

spazio dedicato agli antenati (di solito un piccolo altare) e non vi sono strumenti di lavoro all’interno.

Sembra inoltre mancare degli aspetti piu’ simbolici che tanta importanza hanno nella cutura

mongola.

La sveglia ci riserva un cielo limpido e privo di nuvole, inizio a riconoscere il cielo mongolo, anche se

l’estate volge ormai al termine e di notte fa freddo, tanto che trovo ghiacciato il fiume dove vado a

lavarmi i denti. La zona del lago Tolbo non e’ decisamente tra le piu’ turistiche del paese ed i

paesaggi sono tendenzialmente sempre uguali, cambia solo il fondo delle pessime piste.

Mentre procediamo iniziano le prime forature ed affrontiamo il primo guado, per fortuna piccolo, e

lungo la strada compaiono i primi cammelli, che aumentano sempre di piu’. Attraversiamo qualche

villaggio, dove i bambini che sembrano poverissimi letteralmente si gettano sotto la macchina,

affrontiamo un guado piu’ grosso, con l’aiuto di alcuni fuoristada, e arriviamo a Khvod, la citta’ piu’

grande della regione.

Qui vediamo una moschea e incontriamo numerosi team, approfittiamo della sosta per comprare

viveri per il proseguio del viaggio, ben sapendo che il menu’ mongolo, come sperimentato in un

ristorante di Olgii e’ composto quasi esclusivamente da carne di yak o montone.

Nuove forature: giunge il momento di mettere le gomme tassellate, mentre rumoracci della Panda

sono colonna sonora mentre continuiamo a percorrere una distesa infinita di nulla, finche’ al calare

del sole, decidiamo con i nostri compagni di viaggio che e’ giunta l’ora del riposo. Per evitare di

venire investiti, siamo infatti nel mezzo di un’immensa distesa di piste, montiamo un telone che

rifletta i fari degli altri veicoli. Il tempo di vedere un branco di cammelli che viene a farci visita ed il

sonno prende il sopravvento...

La notte e’ fantastica, nel cielo miliardi di stelle e tantissime sono cadenti, un senso di pace

incredibile; la Mongolia ha davvero il cielo piu’ bello che io abbia mai visto in vita mia.

Stiamo andando verso Altay, dove c’e’ un meccanico che fa da punto raccolta per il Mongolrally, e ne

abbiamo bisogno. I guadi diventano sempre piu’ grossi ed impegnativi ed intorno a noi continua la

distesa di nulla. Fa davvero strano incontrare altri team in queste condizioni, le macchine spuntano

da ogni parte, ognuna con il suo percorso: non essendoci strade ovunque ci sia suolo e’ un percorso!

Dopo il rituale scambio di saluti ormai la domanda classica che ci si fa tra equipaggi e’: “e tu cosa hai

rotto?” il che dice molto delle condizioni nelle quali ci stiamo avvicinando ad Ulaan Bataar...

Ci accampiamo in un mini villaggio di qualche gher dove assistiamo sia a scene spiacevoli, ossia

bambini che bloccano la macchina mettendosi davanti e adulti che ridono e incoraggiano, sia a scene

stupende, ossia un tramonto talmente bello che non avrei pensato potesse esistere. Piazziamo le

tende nel recinto degli anmali e al mattino con grande stupore scopriamo di essere vicino alla

fermata di un pullmann, che nella notte e’ effettivamente passato!!!

Dopo una notte ventosissima, quasi le tende se ne volavano via, si punta verso Altay con il suo

meccanico. In effetti il car service e’ una sorta di ritrovo per equipaggi, tanto che ad un certo punto

ce ne saranno stati una decina contemporaneamente. I meccanici sono incredibili, aggiustano tutto,

sono allo stesso tempo meccanici, gommisti, saldatori e chi piu’ ne ha piu’ ne metta. Quando

arriviamo stanno saldando un’ambulanza spezzatasi in due!

La citta’ e’ minuscola ma per gli standard mongoli enorme. Ci dedichiamo a recuperare le forze con

ristorante, ed una volta di piu’ constatiamo come il menu’ mongolo sia davvero ridotto, internet e

spesa, anche se stranamente molti negozi alimentari non hanno pane e acqua. Fuori citta’ si sfata il

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mito delle jeep mongole sfreccianti a 1000km all’ora lungo le piste, infatti ne troviamo una ribaltata

e decisamente non in buone condizioni. Il tempo di allontanarsi un po’ da Altay e ci fermiamo in

prossimita’ di alcuni team inglesi, tra i quali un ragazzo che compira’ 19 anni in nottata nel mezzo del

nulla, decisamente una festa che ricordera’ a lungo...

Mi sveglio con un senso di malessere; la Mongolia e’ implacabile. L’immensita’ di questo paese a

volte fa sentire davvero soli con se’ stessi e mette di fronte ai propri limiti suscitando molti pensieri,

ma bisogna proseguire... Scena buffa quando ci ritroviamo in 5 team tutti che abbiamo sbagliato

strada, dopo poco siamo su un pianoro con team che sfrecciano in ogni direzione, una scena

incredibile, ma sia come sia e’ evidente che ci siamo persi... Ci ritroviamo con due ragazzi inglesi

davvero molto british, impassibili e che non fanno una piega di fronte a nulla; hanno un’espressione

come se stessero andando a vedere la finale del Wimbledon Open in compagnia della regina... Siamo

scesi abbastanza a sud e le piste iniziano ad essere sabbiose, dato che il deserto non e’ lontano, e

finiamo a dover affrontare un guado serio. Nei pressi c’e’ un gruppo di gher e le persone che ci

vivono hanno fatto del guado una fonte di sostentamento, infatti con un trattore agganciano la

Panda e si parte! Ci siamo davvero persi, ci si orienta con il sole e le montagne ma e’ davvero dura

trovare la strada su una carta topografica. Le piste, molto brutte, salgono e scendono colline e gli

inglesi, che ad un certo punto tiriamo fuori dal fango, ci sono sempre dietro, spero che non siano

cosi’ british da non osare dire che secondo loro la direzione e’ un’altra; anche chiedere nelle gher

non aiuta molto: tutte le persone alle quali chiediamo indicazioni, pur essendo molto disponibili, non

fanno che indicare vaghi punti verso l’orizzonte!!!

Perdiamo anche la pista minore, una botta sotto la macchina ci fa spaventare e, come se non

bastasse, dal tetto vola via una ruota di scorta che rimbalza sul cofano... Scendo a rincorrerla come

nel miglior film comico e quando torno gli inglesi stanno lavando i vetri della macchina! Bayanhongor

sembra non arrivare mai, ormai ci si orienta con qualunque cosa, pali della luce compresi: se c’e’

corrente elettrica ci sara’ qualcosa che la utlizza. Decisamente la Mongolia stimola l’ingegno...

Ed infine arriviamo. Sosta dal meccanico e cena in un ristorante che mescola la cucina cinese con il

cibo mongolo, traendone un risultato buonissimo. In citta’ nessuno conosce il Mongolrally, ma ad un

benzinaio si avvicina un’altra Panda che ci chiede se va tutto bene; ci dice essere il referente locale

del Mongolrally. Fa strano tornare a dormire in un letto, e farsi una doccia: siamo tornati alla civilta’.

E a riprova di cio’ le ragazze per strada sono “fashion” e di notte per la prima volta sento la sirena

della polizia mongola, ma una bella dormita e’ dovuta, assolutamente!

UB (il modo comune di chiamare Ulaan Bataar) ci aspetta, dobbiamo arrivarci! Quindi sveglia presto

e via. Neanche da dire che le strade sono tremende. In Mongolia infatti e’ caratteristico che l’asfalto

sia presente in citta’ e per qualche chilometro al di fuori di essa. Ma il freddo (d’inverno -50 gradi e

oltre) e l’assenza di manutenzione ne fanno presto delle trappole piene di crateri davvero pericolosi,

tanto che e’ piu’ consigliabile cercare le piste che guidare sull’asfalto. Inutile dire che ci perdiamo

nuovamente, finendo stavolta a valicare colline su mulattiere che presto finiscono lasciando il posto

a delle vere pietraie; addirittura ci ritroviamo a spaventare un gregge di capre arrivandogli alle

spalle; e tutto perche’ per errore abbiamo aggirato un gruppo di gher invece di passare a fondovalle.

Ma poi siamo sull’asfalto!!! Significa che la meta e’ vicina, circa 400km, e siamo felici. Gli inglesi sono

sempre dietro senza dire una parola e filano come stambecchi sui terreni piu’ impervi. Siamo

sull’asfalto ma questo non implica che si possa correre, la strada infatti riserva infinite sorprese,

mentre il paesaggio diventa quello classico di ogni documentario sulla Mongolia: colline e prati verdi.

Il primo impatto con Ulaan Bataar e’ quello di una citta’ abbastanza brutta e trafficata, dove le

ciminiere, in particolare quella della centrale termolettrica, svettano allegramente. La capitale

mongola e’ prevalentemente riscaldata a carbone e cio’ ne fa una citta’ davvero inquinata, anche

tenendo conto del fatto che si trova in una conca circondata per tre lati da alture.

Sulle colline che fanno da sfondo ad UB si intravedono diversi monasteri buddisti, ma il piu’

importante, quello di Gandan, si trova in citta’.

Arrivare in centro e’ relativamente facile, sempre dritto! I palazzi moderni, come quelli di piazza

Suchbataar, si alternano ad edifici piu’ vecchi, alcuni antichi, e delle vere e proprie torri di vetro

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svettano sulla capitale. Per le strade le persone appaiono vestite in maniera occidentale, anche

ricercata, e coloro che vengono dalla “campagna” (come in Mongolia chiamano tutto cio’ sia al di

fuori di Ulaan Bataar) si riconoscono subito per l’indossare capi d’abbigliamento tradizionali come il

caratteristico del, una sorta di pesante cappotto. UB e’ il cuore pulsante del paese, accogliendo le

sempre piu’ numerose persone che abbandonano la vita nomade in cerca di fortuna e migliori

condizioni di vita. Una citta’ difficile dove l’alcool e’ purtroppo un problema ancora presente; a tale

riguardo e’ consigliabile evitare mongoli ubriachi per non risveglaire il loro spirito guerriero. La

Mongolia sembra infatti vivere nel mito di Gengis Khan (o piu’ correttamente Chinggis Khaan) ed il

suo nome appare ovunque: sui ristoranti, sulle sigarette, sulla birra, vodka e persino l’aereoporto si

chiama cosi’.

La capitale ed il resto del paese sono due mondi diversi se non contrapposti, e tutto cio’ non fa che

aumentare il fascino di questo paese meraviglioso.

Con qualche fatica troviamo il punto di arrivo del Mongolrally, in una zona centrale ma un po’

defilata. Mi aspettavo qualcosa di piu’ maestoso invece e’ soltanto una palazzina con un paio di

striscioni sul balcone e una marea di macchine parcheggiate nel piazzale. Ma in ogni caso SIAMO

ARRIVATI!!! Rompendo il filo della frizione entrando nel parcheggio e nel giorno del “No Alcool Day”,

una degna conclusione di questa folle avventura!!!

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Considerazioni finali e postilla anti-accademica

Probabilmente ho mancato il mio obiettivo, ma raccontare questo viaggio non e’ stato facile come

non e’ stato facile il viaggio stesso. Da circa meta’ percorso la fatica ha iniziato a farsi sentire

aumentando sempre piu’, incidendo notevolmente sulla qualita’ delle note prese e sulla capacita’ di

osservare. Con la fatica sono poi aumentate tutte quelle cose che nei resoconti di viaggio non si

dicono: ossia gli screzi e le tensioni che sarebbe ipocrita negare. D’altronde il tipo di viaggio si

prestava a questi possibili problemi ma l’importante e’ che questi aspetti, fisiologici in un viaggio

massacrante, non abbiano compromesso il risultato finale. Finito il viaggio mi sono preso una

vacanza, e dopo due settimane ad UB, aspettando il mio amico Alfredo, me ne sono andato in Cina

per un mesetto come gia’ detto, alla scoperta di un paese non amato dai mongoli. In Cina ribadisco

di avere scoperto un paese fantastico, sia per le persone che per i luoghi, ma questa e’ un’altra

storia...

Il resoconto del viaggio e’ quindi strettamente legato alla freschezza di chi prende appunti, sono

quindi consapevole che purtroppo elementi di noia sono presenti in questo scritto, e me ne scuso.

Sono stati passaggi velocissimi di pochi giorni in paesi che meritano ognuno mesi di soggiorno, e

quindi non ho la pretesa di avere capito qualcosa di questi paesi, quello che ho scritto sono solo le

mie impressioni.

Per tutto cio’ invito professorini, pignoli e amanti del dettaglio a non perdere il loro tempo

facendomi osservazioni e correzioni, so benissimo che non ho visto nulla ma in questo tipo di viaggio

di piu’ non si poteva fare. Evitate quindi di sfoggiare qui la vostra erudizione e la vostra pedanteria,

qualunque commento e consiglio non dall’alto di una cattedra sara’ invece ben accetto.

Ringrazio chi ha letto fino a questo punto e spero di avere trasmesso anche solo un poco delle

emozioni che ho provato nel fare questo viaggio. Putroppo le foto e le parole non rendono quello

che puo’ essere il sorriso di un iraniano, la fierezza di un tagiko o la bellezza di un tramonto mongolo.

Mi piacerebbe riuscire a far capire cosa si prova a sentirsi “altrove”, nel bene e nel male.

Di sicuro la cosa piu’ importante e’ riflettere sempre su quello che viene presentato: non ho visto un

Iran come immaginavo cosi’ come non mi aspettavo una Turchia come ho visto. Ribadisco che sono

solo impressioni di un turista e solo per pochi giorni, e magari non ho davvero capito niente: c’est la

vie...

Volutamente non ho parlato molto dell’orgnanizzazione del Mongolrally, forse il lato che piu’ mi ha

dato da pensare. Il Mongolrally non e’ amato in Mongolia e se in parte cio’ e’ riconducibile al

carattere dei mongoli in parte cio’ e’ anche dovuto al fatto che una volta arrivati si e’ letteralmente

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assaliti da persone che vogliono comprare il mezzo e tutto quello che vi e’ all’interno. Molti team si

ripagano in questo modo parte delle spese del viaggio, ma poi le auto vengono vendute ad

acquirenti mongoli e spesso non hanno vita lunga. Vero che comprare un auto che ha fatto un

viaggio del genere e pretendere che sia in ottime condizioni e’ perlomeno ingenuo ma ho visto

troppi “affari” gravitare intorno all’arrivo dei team. Con tutto cio’ non voglio mettere in discussione

la serieta’ dell’organizzazione ed i fini benefici dei soldi ricavati, ma in ogni caso va registrato che

adesso di associazioni ce ne sono due e non sono in buoni rapporti, ma e’ un discorso che conosco

troppo poco per permettermi di dare giudizi.

Un ringraziamento doveroso e sincero va a Sergio, il nostro meccanico che meccanico di rally lo e’

davvero, con officina a Bra (Autosport-Bra) senza il quale non saremmo mai arrivati. Sergio ha

davvero la passione dei motori e, conosciuto Matteo, ha reso la Panda un gioiello senza volere quasi

nulla in cambio. Sergio e’ stato il terzo componente dell’equipaggio, spesso direttamente presente

tramite telefono per dare consigli e aiutarci nei momenti difficili; quasi piu’ preoccupato lui di noi...

Ed infine un mio saluto personale a Matteo, che ha affrontato la sfida di partire per un viaggio del

genere con qualcuno appena conosciuto in rete. Due caratteri non facili, spesso in contrasto ma

anche questo fa parte del viaggio. Spero i momenti piu’ difficili non abbiano rovinato il ricordo di

questa avventura. Sicuramente senza di lui non sarei arrivato, Matteo ha guidato nei pezzi piu’

difficili, e mi piace pensare che senza di me non sarebbe arrivato nemmeno lui.

Per chiunque pensa che non potra’ mai visitare questi posti il consiglio e’ semplice: fate il primo

passo, che sia un biglietto o altro, e tutto il resto verra’ da se’!

P.S. Le cartine non sono certo il massimo, ma mentre tentavo di farle il paradiso ha chiuso per lutto,

quindi apprezzate l’impegno... Non ho fatto 16.000 miglia in Panda in condizoni oggettivamente

difficili per sentire lamentele sui puntini troppo scuri nei percorsi di google maps!!!

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Bibliografia e contatti

Per chiunque fosse interessato riporto una brevissima bibliografia direttamente dal blog creato

prima della partenza, aggiungendo il link a qualche mio piccolo spazio virtuale dove tento di

trasmettere qualcosa in merito a quello che provo per questi paesi, cercando altresi’ di affrontare il

discorso in maniera decisamente piu’ approfondita e meno “turistica”:

-Morgan D., Breve storia dei Mongoli, Mondadori; Una storia del popolo mongolo completa ed

essenziale. Indispensabile per chi ama la Storia.

-Ossendowski F., Bestie Uomini e Dei, Edizioni Mediterranee; Un avvincente, e a tratti incredibile,

racconto di uno dei periodi più turbolenti della storia mongola.

-Zamboni M.-Lindo Ferretti G., In Mongolia in retromarcia, Giunti; Impossibile non citarlo, è stata

la mia porta per la Mongolia

-Anonimo, Storia segreta dei Mongoli, Tea; Testo scritto da un contemporaneo di Temucin (Gengis

Khan)

-Hopkirk, Il grande gioco, Adelphi; Un bellissimo libro sull'Asia Centrale, l'Iran e la loro centralità

geopoltica, di ieri ma anche di oggi.

-Castellan Georges, Storia dei Balcani (XIV-XX secolo), Argo; Paesi che solo sfioreremo ma che io

amo con tutto il cuore

-Capisani R. Giampaolo, I nuovi khan, BEM; Un libro per per avvicinarsi all'Asia Centrale ex-

sovietica

Per ulteriori consigli di lettura nonche’ informazioni aggiornate, per quanto possibile, e link tematici:

La mia pagina facebook dedicata a Mongolia e Asia Centrale (ma non solo)

Il mio blog Farfalle e trincee che tratta soprattutto di geopolitica energetica ma che tocca spesso le

zone visitare in questo viaggio

E da ultimo chiunque volesse contattarmi puo’ farlo tramite mail [email protected]

oppure direttamente via facebook , dove potrete trovare circa 2000 foto relative a questo viaggio ed

altri viaggi, nonche’ le foto mandatemi da Sergio ed una presentazione del viaggio fatta da Matteo.

Anche foto tecniche del motore della Panda.

Sperando di sentirvi presto, un cordiale saluto.