Un prete qualunque

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Il testo, in forma romanzata, anche se la vicenda narrata è ispirata alla vita di un prete che il sottoscritto ha realmente conosciuto, è incentrato appunto sulla biografia di un sacerdote, che muove dalle origini, risalenti all'inizio del secolo scorso, nell'immediatezza della conclusione della Grande Guerra, e si spinge fino alla contemporaneità, cioè alla metà degli anni Novanta.

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FRANCESCO ROSSI

UN PRETE QUALUNQUE

(Romanzo)

Alla “simpatica” memoria di Don Tarquinio:

un prete “vero”, per niente “qualunque”,

al quale questa storia, molto “liberamente”,

è ispirata!

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Ogni possibile riferimento ad eventi o a personaggi storici o a situazioni di fatto vaconsiderato come ricompreso all’interno di un contesto fondamentalmente letterario,frutto della fantasia dell’autore.

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Capitolo terzo

Confermazione

Il ritorno alla “vita normale” dopo la fine della guerra per Don Libertino era statoscandito dal rientro a casa.

Alla gioia per aver riabbracciato i propri cari sopravvissuti allo “sconquasso” delconflitto era presto subentrato l’impegno per il suo primo incarico da sacerdotediocesano in un paese poco lontano da quello di origine: non avrebbe infatti potutoesercitare un mandato pastorale nella comunità in cui era nato ed era vissuto finoall’ordinazione prima di cinque anni.

All’inizio della sua “carriera ecclesiastica” non avrebbe certo potuto aspirare a nulla dipiù di una collaborazione con il parroco in carica in qualche paese di provincia, dove,magari, l’avrebbe confortato la prospettiva di subentrargli una volta che l’anziano prete,titolare della parrocchia, non fosse stato più in grado di svolgere da solo tutti i compiticonnessi con il mandato pastorale.

Così infatti era accaduto: Don Libertino fu assegnato a fare da vice al parroco di unpaese vicino a quello d’origine come primo incarico quale sacerdote.

Rispetto alle miserie che aveva avvertito indirettamente nella Grande Città in periodo diguerra, in un ambiente più “dimesso” quale quello che lo accolse a partire dal 15settembre del 1944, giorno della Beata Vergine Maria Addolorata, avrebbe avuto mododi immergersi direttamente nel vissuto di una piccola comunità, non certo rimastaimmune dalle sofferenze lasciate dal conflitto.

Borgo rurale come all’epoca tutti quelli della Valle che attorno alla Città che le dà ilnome si spinge quasi fino alla costa, uno dei tanti Castelli che da secoli ne formavano ilterritorio di campagna nel “cuore” della Marca Anconetana, all’apparenza gli erasembrato un paese qualunque, tra quelli nei quali si sarebbe sentito alla stregua di unumile esecutore di un mandato con ben poche aspettative di gratificazione personale.

La situazione storica, del resto, non consentiva che si fantasticasse di progetti pastoraliambiziosi, con l’intento di evangelizzare più di quanto la tradizione non avesse giàoperato in questo senso.

In un borgo un po’ isolato in collina dell’entroterra della Marca Anconetana, comequello in cui avrebbe intrapreso la sua prima “missione apostolica”, al ruolo del preteveniva assegnata una funzione fondamentalmente di rappresentanza, a partel’autorevolezza di cui era “spontaneamente” considerato depositario dalla popolazione,per lo più composta, ovviamente, da contadini mezzo analfabeti, se non appenascolarizzati.

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I figli di questa povera gente non potevano di sicuro aspirare a ben più di un’istruzioneelementare, garantita da quel “presidio” che esercitava la funzione di “scuola rurale”:benemerita iniziativa del Regime appena eclissatosi, che però, almeno, aveva consentitouna rigida alfabetizzazione primaria a generazioni di alunni “di campagna”.

Il prete in generale, parroco o “attendente” che fosse, veniva ritenuto, come in realtà era,una delle poche, se non l’unica, persona dotata dell’istruzione sufficiente per informare e“fare opinione” rispetto alla comunità formata dalla “gente semplice” del luogo.

Nel “clima” di accese contrapposizioni degli anni immediatamente successivi alla finedella guerra anche in un piccolo paese la figura che rappresentava in loco l’Istituzioneecclesiastica godeva, poi, di quel rispetto che ad essa proveniva dalla considerazionepresso il “gregge” dei fedeli di impersonare una missione di rilevanza superiore a quelladella pura e semplice curatela di anime.

Anche nelle occasioni del vivere più quotidiano al prete si ricorreva per ottenere quasiuna “sanzione di ufficialità” alle circostanze più rimarchevoli della vicenda collettiva efamiliare, in cui i singoli erano in vario modo ed a diverso titolo inseriti.

“Rituali” di aggregazione tra i più comuni, del genere di cerimonie organizzate percelebrare ricorrenze della vita “di casa” come di paese, non potevano non prevedere lapresenza “qualificata” del parroco.

Appunto quest’ultimo si era in lunghi anni di mandato pastorale conquistato la stima e,quasi, la venerazione del popolo cristiano affidatogli, ma un “avventizio della tonaca”sicuramente avrebbe, almeno in avvio, trovato non poche difficoltà nel conseguirenell’animo dei fedeli uno spazio corrispondente a quello che il più anziano “collega” datempo si era riservato.

Il “pretino fresco fresco” di studi romani in un contesto quale quello della miseriapostbellica, per giunta in un paese di campagna dell’entroterra di Marca, appariva un“lusso” persino immeritato per il rude “gregge” d’anime di una piccola parrocchia rurale.

Del resto, l’impeccabile “cera” che Don Libertino aveva da subito sfoggiato lo facevaapparire agli occhi della gente non tanto un “vanesio” confortato dal ruolo di rispetto chela funzione sacerdotale gli comportava, quanto piuttosto un privilegio in più per i fedelisottoposti in qualche modo alla sua “cura”, da “esibire” con orgoglio a confronto con lecomunità vicine, piccole e rurali alla pari di quella che aveva avuto l’onore diaccoglierlo.

Certo di “apprendistato” si sarebbe trattato per lui, alle prese con il primo servizio da“ecclesiastico confermato” nelle sue prerogative per “investitura seminariale”, ma pursempre di una “militanza” dalla quale avrebbe dovuto attingere le motivazioni piùprofonde, per poi “spiccare il volo” verso altro più prestigioso e “maturo” incarico.

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Negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, una volta superatal’“emergenza” della Ricostruzione, materiale e morale, dopo le divisioni fratricidedell’ultimo periodo di ostilità, si stavano schiudendo all’azione della Chiesa, per la“conquista delle coscienze”, spazi di autonomia insospettabilmente vasti, sempre che sifosse vinta la “concorrenza” nella medesima direzione dell’Antagonista più temibile infatto di formazione di una coscienza civile e di educazione ai valori di una morale,pubblica ed individuale, condivisa.

Al senso di fratellanza, da cui veniva a priori esclusa qualunque connotazione di parte,che aveva sostenuto il fronte antifascista nelle ultime fasi della guerra si era infattigradualmente sostituita una divisione, persino “manichea”, tra opposte visioni delmondo, quasi due Chiese di segno radicalmente contrario.

Certo, nei piccoli paesi la crudezza di una contrapposizione, anche violenta, traschieramenti “avversari” lasciava il posto ad un ardore polemico che, pur nei casi di piùacceso dispiegamento, non oltrepassava “regolarmente” i limiti di una contesa piùretorica che di effettiva “concorrenza”, a scopo di “proselitismo” ideologico.

Anche “animati” scontri verbali finivano ordinariamente in una “divaricazione” quasiper “appartenenza indotta”, per emulazione, magari perché si veniva trascinati da unaparte più che dall’altra semplicemente per il rispetto o l’ammirazione che legava i singolia qualche figura ritenuta più autorevole all’interno della “fazione” più “accessibile”.

Il parroco in questa più “mimata”, che realmente “combattuta”, contesa di “spiriti” e diumori sull’attualità poteva “giocare” un “ruolo strategico”, nel senso che godeva delprestigio ideale per spostare nel proprio “campo”, più affine per valori alla prospettivadella visione cristiana della Storia e della vita associata, un numero consistente di “neutrispettatori”, quella “maggioranza silenziosa” di attendenti che durante il fascismo ed aguerra ancora in corso si era rivelata determinante per orientare l’“epopea” dellaResistenza verso un ancoraggio moderato rispetto a quello che si riconoscevanell’attuazione della rivoluzione del proletariato.

Del resto, il parroco poteva contare su un’“arma segreta” al servizio della Causa della“restaurazione borghese” in seno agli equilibri della ricostruenda società italianapostbellica: gli era concesso, cioè, di avvalersi della voce che avrebbe ricondotto alla“ragionevolezza” “teste calde” infatuate dalla prospettiva della rivincita delle masselavoratrici per il futuro assetto da conquistare alla vita nazionale, “depurata” dalla“purulenta infiltrazione” del fascismo.

Al parroco era attingibile, con la facilità della predica e del “sussurro confidente” alle“orecchie discrete” delle madri e delle spose, la “sepolta nel silenzio”, per anticatradizione, “spiritualità domestica” femminile.

Quando c’era da intervenire per riportare sulla “retta via” qualche caro “traviato” dallamilitanza giovanile nel fronte dell’intransigenza “iconoclasta” rispetto agli inveterati“rapporti di forza” nella società e della irreligione, professata con disprezzo per le forme

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secolari di un mortificante “servaggio” delle coscienze, era infatti al prete che le “donnedi casa” si rivolgevano, per “espiare” l’infamante sciagura di un “sovversivo” in senoalla famiglia.

Il “pretino piovuto” di bel nuovo da Roma faceva in questo senso più paura del parrocodi lunga data e di provato valore nel “campo avversario”.

Il fatto che ancora non si conoscesse a fondo da parte dei più in loco rappresentavaun’incognita incontrollabile, tanto più inquietante nel senso che sarebbe risultato menoricattabile del vecchio parroco, per eventuali “trascorsi ideali” nell’area dellaConservazione.

Del resto Don Libertino, almeno fino a quel momento, non aveva pensato ad altro che astudiare, avendo incontrato come riferimenti ideali, anche tra i più “aperti” alle “novità”del pensiero e del mondo moderno, soltanto figure di prelati, quelli che avevanocontribuito alla propria “vocazione” come quelli che ne avevano istruito il bagaglio diesperienze conoscitive e spirituali negli anni del Seminario e, quindi, in quelli della piùavanzata formazione teologica.

Non si poteva pertanto nemmeno speculare su trascorsi che sarebbe stato difficilepersino ricostruire, dato che la fama di quel sacerdote “misterioso”, immediatamenteprima e dopo l’arrivo in paese, non aveva portato con sé notizie di “gesta eroiche” o di“discorsi memorabili” dichiaratamente “schierati” pro o contro l’impegno per una Causaappena un po’ “indipendente” dai rigidi dettami della dottrina e del magisteroecclesiastici.

Un “prete qualunque”, quindi, era stato affiancato al parroco ormai in procinto di ritirarsia “vita privata”, perché forse con le “armi” della parola e dell’esempio il popolo di Diosi sarebbe preparato a “passare dalla parte giusta” nell’imminenza del“riposizionamento” della società italiana al momento opportuno nell’ottica dei cattolici,per farsi trovare pronti all’atto di “dettare” le norme che avrebbero regolato le sorticollettive ed individuali nella rinata vita italiana, una volta rinnegata la dittaturanazionalista e corporativa.

Certo, elaborare queste prospettive in un contesto angusto come quello di un piccolopaese di campagna non avrebbe sminuito in nulla una “deriva” che, si avvertiva, sisarebbe estesa con ben più ampio “respiro”.

Era proprio dal “piccolo mondo antico” dell’immutabile, almeno all’apparenza, esistenza“da cortile” che gradualmente si sarebbero propagati a tutta una Nazione, in attesa delproprio orientamento ideale da imporre come maggioritario, una mentalità, un modo disentire, una cultura nel senso più “ordinario” del termine, funzionali all’affermazione diun’egemonia ideologica radicata e tale da penetrare nei più vasti strati della popolazionecivile.

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Sotto la tonaca di un prete appena “fatto” poteva quindi nascondersi tutto un mondo difinzione, da smascherare con la più vigile attenzione.

La fervida fantasia di qualche politicante “malato di spionaggio” avrebbe magarispeculato sul fatto che l’abito talare celasse la “controfigura” di un emissario diorganizzazioni “vocate” per “missione statutaria” ad infiltrare propri “uomini di fiducia”,assolutamente insospettabili, nel “campo avverso”.

Un “prete qualunque” avrebbe più di altri potuto generare sospetti inquietanti attornoalla propria persona: perché inviato da Roma in un piccolo paese di provincia, una sortadi “guardia bianca” messa a proposito in una posizione “defilata”, dalla quale“anticipare” meglio, con indisturbata “quiete”, da un’angolazione assai “riservata”,l’evoluzione degli eventi in un contesto come quello derivante dalla fine della guerra,tanto più singolare in quanto era stato preso “a pretesto” quale luogo privilegiato diosservazione proprio un’insignificante, minuscola comunità “di periferia”…?

Troppo “libera” era infatti apparsa fin dalla sua prima comparsa la condotta del nuovoprete.

Non che avesse destato il dubbio che non si trattasse di un sacerdote vero e proprio,dotato di tutti i crismi per operare in “autentica” legittimità di mandato; nessuno avrebbeinfatti seriamente eccepito che tale non potesse essere ritenuto a pieno titolo.

C’era però qualcosa nel suo modo di fare abituale, a giudizio degli animi più accortinello scrutare tra le “pieghe della tonaca”, più d’un segno inquietante il quale destassequalche sospetto in merito alla rispondenza al “rigore dogmatico” che, all’epocaspecialmente, si associava alla figura di un prete qualunque.

L’aspetto fisico stesso ne rivelava dei tratti per cui si sarebbe pensato che alla giovinezzasi fosse, quasi artificialmente, sovrapposta la cera di un’incipiente maturità, al limite diuna senescenza precoce.

Non troppo slanciato nel profilo, Don Libertino assommava infatti in sé taluni aspettiche sembravano dichiararne esplicitamente l’età giovanile, ma non dava l’idea, adun’attenta osservazione, che la propria figura tradisse completamente, senza possibilitàdi equivoco, i suoi anni.

Una certa avvenenza avvertibile nei tratti del viso si presentava come “attutita” da una,per così dire, ottusità di fondo, se la bellezza del viso veniva accostata alla modesta, nelcomplesso, estensione dei lineamenti nel resto della figura.

Non alto si poteva certo definire, forse perché la particolare conformazione del capo ne“atterrava” quasi la tensione del corpo ad un ben diverso slancio, che in realtà si aveval’impressione che fosse stato come rattenuto dalla “zavorra” della testa, sagomata inmodo da rendersi alla vista un blocco geometrico irregolare, a metà tra il parallelepipedo“incavato” ai lati e la sfera alquanto schiacciata “sui fianchi”.

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Si sarebbe ipotizzato che una simile difformità di alcuni tratti fisici, tra i più appariscentiquelli che culminavano in una “calotta” del genere, derivasse da una tensione allo studioed alla riflessione, che ne aveva quasi modificato i lineamenti originari.

Allo stesso modo si sarebbe potuto legare questo “lato” poco “edificante” dellapersonalità di Don Libertino ad un’infanzia comunque stentata che, se non proprio“attanagliata” dalla miseria, tuttavia era stata messa a dura prova dalle privazioniconseguenti al regime di vita “austero” del primo dopoguerra.

Entrambe le analisi avrebbero, magari, trovato un accordo nella combinazione reciprocadi circostanze che non ne avevano favorito particolarmente, ad età ormai adulta, laprestanza dell’aspetto fisico.

In fondo, l’abito talare costantemente indossato si sarebbe osservato che, in qualchemodo, contribuisse, anche se, per lo più, in virtù di un’“illusione ottica”, ad elevarne lastatura, come “compressa” dall’“imposizione” di quel masso di pietra levigata calatopesantemente su un corpo a far da piedistallo raccorciato ad una simile “ogivascintillante”.

Non che cominciasse a mostrare i segni di una calvizie incipiente, ma si aveval’impressione che la peluria diffusa sul capo, ancora nel “vigore cromatico” degli anniandati, tendesse a diradarsi, lasciando spazio alle prime, localizzate ai margini,formazioni di incanutita “cespugliatura”.

Il cappello nero ad ampia tesa che indossava quando era impegnato in “occasioni dirappresentanza”, al di fuori dell’ordinario servizio parrocchiale, pareva poi che neingigantisse quell’attitudine, già marcatamente visibile nel suo portamento abituale, adissimulare il proprio recondito pensiero.

Uno “sgrondo” troppo pronunciato quel copricapo sembrava offrire ad una mentepredisposta all’“ombreggiatura” della discrezione, connaturata nella personalitàdell’ecclesiastico, ma probabilmente dell’uomo in sé, al di là della particolare“missione” che gli era stata affidata.

La tesa che si sporgeva ampiamente attorno al “cocuzzolo tornito” della sommità delcappello pareva simulare un risvolto commisurato all’insondabile profonditàdell’universo che vi si premeva in interiore convessità di rilievo.

Lucida, infatti, la “cupola”, come più opaca, infeltrita, risultava la “corona” piatta chegravitava attorno alla “protuberanza metafisica” della “lievitata mezza tiara” da una“palude” di fosca ambiguità di tessuto “armato” in prospettiva.

Impressioni del genere avrebbero potuto facilmente dare adito, specialmente in unocchio sperimentato alla malizia dell’“osservazione speculativa”, alla “filatura” di una“trama” di mistero applicata alla figura, per l’ordinario alquanto “anonima”, di un prete“di campagna”.

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Era però, in fondo, proprio da questa “vantata” normalità che nascevano le fantasie piùastruse attorno ad una figura del genere, tanto più se si considera che ci si stavaincamminando verso quella che veniva presentata come la “resa dei conti” epocale, perdeterminare il futuro assetto della società italiana.

Don Libertino stesso, nel “grigio” esercizio delle sue funzioni sacerdotali, pur vicarieancora rispetto al parroco in carica, si stava dirigendo a passi spediti verso la soglia deitrent’anni.

Non che il prossimo “traguardo” ne avesse accelerato un incanutimento “di facciata”, ilquale ne avrebbe anticipato l’“aura” di austerità che la maturità avanzata inevitabilmentecomporta, ma stava sempre più decisamente sviluppando dei tratti peculiari di quello chesarebbe diventato, negli anni avvenire, il suo carattere distintivo.

Anche per stemperare quel “clima” di “plumbea ombrosità” che si era creato, piuttostoperaltro involontariamente, attorno a sé, aveva infatti cominciato a distribuire a destra eda manca “santini di fraternità”, che nel suo caso non coincidevano propriamente con leimmaginette che si usava ancora donare ai piccoli all’uscita dal catechismo, al fine dirafforzarne lo spirito di emulazione rispetto a Santi per i quali si raccomandavaparticolarmente la loro devozione, perché onomastici o perché “adatti” a temprare, conl’esempio sperimentato, qualche lato del carattere dei singoli “discepoli”, come del restoil suo parroco aveva fatto regolarmente con lui.

Le “perle più preziose” nascoste nell’animo di Don Libertino presero a manifestarsi inpubblico attraverso un’attitudine alla facezia ed alla battuta di spirito, un aspetto dellapersonalità del prete che non era emerso con la nettezza del “poi” all’esperienza“interessata” dei propri fedeli.

Non che questo lato del carattere non avesse albergato in “costanza di affermazione” finda epoche più remote nella sua, in fondo, disincantata personalità, ma forse nellecircostanze della vita comune presso la parrocchia a cui era stato assegnato non avevatrovato adeguate occasioni per rendersi noto ai più.

Ancor di più si sarebbe, magari, fantasticato sull’enigmatica “levità” di quel prete, cheaveva – sembrava quasi programmaticamente – assunto il ruolo combinato didisincantato “maestro delle coscienze” e di amabile “intrattenitore d’anime”, impegnatoad inventarsi “genuini” svaghi paesani per gente di fatica meritevole del riposo festivo.

Era tale la confidenza che Don Libertino si stava gradualmente acquistando presso lapopolazione del luogo, specialmente quella composta anche da “rudi” lavoratori con laprospettiva di cadere “in braccio” a Baffone, che pareva, per così dire, che il“palcoscenico della rivista” di paese fosse stato ormai occupato stabilmente daquell’attore di fila, barzellettiere per “vocazione” innata, se non per studio di una giàtroppo affinata, nonostante l’età comunque ancora giovanile, sagacia da evangelizzatoredalle ampie “risorse dello spirito”.

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Che avesse sviluppato in sé fin dall’infanzia una tendenza spiccata all’esilarantecomunicativa non era certo una novità; poteva presentarsi in questa inattesaconnotazione a chi non lo conoscesse a fondo nei suoi trascorsi pre-ordinazione.

In fondo Don Libertino si mostrava allora quello che da sempre era “genuinamente”stato.

L’attitudine allo scherzo, alla sdrammatizzazione “fulminea”, pur dopo una lunga e dottadisquisizione in merito a casi dolorosi o ad argomenti elevati, non era mai venuta menoin lui, nemmeno negli anni, “lugubri” per vari aspetti, dell’“esperienza romana”.

Non aveva dovuto neppure fare uno sforzo interiore per scoprirsi quello che nellecircostanze “storiche” presenti i suoi fedeli avrebbero imparato a valorizzare quale unlato insospettabile a prima vista, ma intrinsecamente distintivo, della personalità di DonLibertino Migliori.

Una certa ironia, che si appuntava persino sul Padre Eterno, si era affermata come unmezzo di penetrazione, più che di dissacrante demitizzazione, della stessa profondità delmistero divino.

“Immaginarsi” l’Onnipotente non era poi un’operazione che di per sé attirasse su chi laattuasse la taccia di irriverente profanatore della maestà dell’Altissimo.

Don Libertino, a questo proposito, aveva sempre ripetuto a se stesso, esattamente comeda ultimo aveva assunto l’abitudine di fare regolarmente con i propri fedeli, che a Dio –ne era pressoché sicuro – non difettasse il senso dell’umorismo, sia perché, ovviamente,per tradizione lo si rappresentava quale l’incarnazione di una Virtù prettamente maschile– e le donne, si sa, risultano per esperienza meno dotate degli uomini dell’attitudine aprendersi “amabilmente” in giro…! – sia perché uno del “rango” del Padre Eterno, usavascherzosamente “sofisticare” Don Libertino, non avrebbe tollerato che qualcuno degli“umani” avesse sviluppato quella capacità di ridere di se stesso che a Lui venisse amancare, come se all’Altissimo ed Onnipotente Creatore del Cielo e della Terra potesseragionevolmente essere precluso, per sua deliberata “preventiva rinuncia”, il privilegiodi proporsi in un’“angolazione” tale da meritarGli la compiaciuta “compartecipazione”ad una prerogativa “squisitamente” in capo agli uomini.

Nella campagna elettorale per le elezioni del 18 aprile 1948 aveva iniziato a manifestarsiin lui quella vena d’ironia che l’avrebbe accompagnato per tutta la sua vita futura,contrassegnandone come tratto distintivo la propria “missione” sacerdotale.

Un “prete della gioia” si sarebbe quindi definito, se non, anzi, dell’allegria più arguta, allimite tra la scanzonata ilarità di uno spirito “portato” per la battuta e l’irriverentepungente giovialità da parroco, o aspirante tale, di campagna.

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All’inizio di questa “carriera” uno dei primi più eclatanti “saggi” si sarebbe annoveratoproprio in corrispondenza della “prova suprema” che avrebbe atteso la società italiana, inbilico tra due prospettive “violentemente” contrastanti.

Certo che Don Libertino non aveva trovato difficile dare fondo, in forma quasi poetica, aquell’ispirazione persino satirica che sentiva di avere dentro di sé per “vocazionenaturale”.

Del resto si trattava di metterla al servizio di una causa sommamente rispettabile, quelladi una democrazia che non avrebbe annullato la propria, a sua volta, ispirazione dimassima di matrice cristiana, intorno alla quale, per tradizione storica ed affinità divalori pur nella dimensione più secolarizzata, la società italiana in maggioranza avrebbepotuto ancora riconoscersi.

Da tempo immemorabile, forse fin dall’istituzione della rigida precettistica gesuitica, siera ripetuto che, “per sconfiggere il Nemico, bisogna innanzi tutto conoscerlo a fondo”.

In quelle circostanze storiche, poi, il Nemico sembrava assai più sprovveduto di quantocomunemente lo si rappresentasse.

Non che non mostrasse in assoluto inesperienza dei meccanismi attraverso i quali lecoscienze si sarebbero conquistate, ma onestà voleva che si riconoscesse all’Antagonistauna ben più esercitata perizia nella disamina e nella sperimentazione delle dinamichemediante le quali si sarebbe arrivati diritti a colpire l’immaginario dei “potenzialiadepti”.

Quanti secoli erano passati in cui la voce del popolo romano si era fatta sentire, inmaniera sicuramente impotente, ma genuinamente irriverente, attraverso battute dispirito che sono passate alla storia come “pasquinate”…?

Forse si può pensare che alle gerarchie ecclesiastiche delle varie epoche quelleespressioni “colorite” indirizzate dall’anonimo estensore verso il Potere dominante aRoma in regime di “governo dei preti” non avranno destato la compiaciuta curiosità diqualche spirito più “tollerante” all’interno della struttura di vertice della Chiesa…?

Di vere e proprie poesie argutamente composte in innumerevoli casi si era trattato, tantoche l’“esempio letterario” aveva affascinato, per emulazione, più d’un affermato uomodi cultura e scrittore raffinato.

Perché, in fondo, non considerare le famigerate “pasquinate” più che quali sfoghi sordidel risentimento del popolo romano, impotente a sovvertire il potere pontificio, dellevere e proprie manifestazioni di un animo improntato alla schiettezza dei propri moventianche più reconditi, ma per questo stesso motivo, forse, tanto più autentici edirrefrenabili…?

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Don Libertino non avrebbe certo trovato difficoltà a riconoscere nei motti di spiritoanche più irriverenti, se diretti al segno di una “paludata” seriosità da “crociataideologica”, le espressioni più veraci di un “sano” umorismo da osteria di campagna,quando non avessero raggiunto – beninteso – le “vette” della pregevolezza letteraria.

In un “clima” storico di sempre più acuta tensione, al pari di quello che si stava vivendonell’imminenza della prima contesa elettorale dopo la fine dell’ultima guerra, non ci sisarebbe nemmeno stupiti che ad “imbastire” delle vere e proprie campagne pubblicitarieper screditare “scherzosamente” il Nemico da battere fosse, magari, proprio qualcunoche “frequentasse” dall’interno gli ambienti ecclesiastici.

Del resto non era un mistero che fino ai più alti vertici della Gerarchia si fosse speso unintervento diretto in questo senso, cioè al fine di favorire il più possibile l’impegno deicattolici al servizio della causa della vittoria della Conservazione.

I “Comitati Civici” rappresentavano, appunto, il tentativo di fronteggiare l’opposto“schieramento” con le “armi” di un’organizzazione capillare, ordinata secondo loschema “invasivo” di penetrazione più radicato che esistesse nella società italianadell’epoca, quello cioè fornito dalla presenza diffusa sul territorio delle parrocchie.

Una possente “macchina di propaganda” si era quindi “messa in moto” per raccogliere edare concreta attuazione ad un imperativo che era “scoccato” dall’Alto con laperentorietà di una mobilitazione, nelle forme, quasi, di una “crociata laica”, perl’affermazione definitiva della civiltà cattolica sulla barbarie di una prospettiva cheminacciosamente si profilava all’orizzonte della società italiana, gravida di incognite, senon, propriamente, di un’oscura dominazione che si sarebbe avvalsa delle suggestioni diuna tirannica volontà di potenza, nutrita dal miraggio di un incontrollato “espansionismoasiatico” nelle plaghe ancora “incontaminate” dell’Occidente cristiano e democratico.

Del resto anche nel “campo avverso” lo scontro che si preparava nelle urne dell’appenanata democrazia italiana era avvertito come una “tenzone militare”, che avrebbecontrapposto eserciti veri e propri, schierati non solo alla difesa del proprio rispettivo“campo d’azione”, ma anzi, soprattutto, impegnati nell’allargamento dello “spaziovitale” che si sarebbero conquistati ben al di là dello “schieramento” di partenza: questoera almeno l’auspicio della “cordata” social-comunista, che avrebbe sfruttato ancheun’eredità ideale condivisa come quella garibaldina, allo scopo di propagandarenell’opinione pubblica la prospettiva che chi avesse aderito a quel “Fronte” avrebbecontribuito al compimento dell’effettiva giustizia sociale, che non solo la dittaturafascista, ma anche, per la “morsa” vieppiù stringente sull’attualità politica che laConservazione stava esercitando, il regime repubblicano aveva disatteso, animato,secondo una sempre più chiara ed “aggiornata” tendenza, dall’“invadenza”democristiana.

Non si risparmiavano, quindi, da una parte e dall’altra “saporosi” riferimenti ai disvaloridella “fazione” da combattere.

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Il campionario delle suggestioni a sfondo culinario, tali da ingigantire la voracità dellaparte avversa, aveva cominciato ad infoltirsi, per virtù anche di grafici pubblicitari e dicaricaturisti che avevano dato fondo a tutte le risorse del loro ingegno per tappezzare,con manifesti dalle dimensioni imponenti, i muri non solo delle città più popolate, maanche dei borghi più “desolati” della provincia italiana più profonda.

Lo stile, per la verità, finiva “pericolosamente” per innestarsi in una tradizione che ilfascismo aveva costruito ad arte e rinverdito, finanche nell’appendice più truce dellaRepubblica Sociale.

Le gigantografie di Boccasìle ancora campeggiavano, pur se meticolosamente piegate aquaderno in un angolo nascosto di qualche cassetto, come “residuato” di una passioneper l’espressionistica deformazione della realtà che aveva sostenuto lo sforzo del Regimedi impressionare, al solo sguardo, l’immaginario di un’opinione pubblica che rischiavadi ripiegarsi su stessa, nell’apatia di un “quieto vivere” senza accensioni ideali diparticolare fervore collettivo.

Alle stesse risorse, in fondo, si era fatto ricorso da parte dei due maggiori Partiti attesialla prova decisiva delle prime elezioni libere dopo il crollo del fascismo.

La fantasia popolare era tenuta sempre desta da continue provocazioni che impegnavanola coscienza dei singoli elettori, ponendoli di fronte ad un’alternativa che venivapresentata come foriera di prospettive irreversibili per il futuro di intere generazioni diItaliani negli anni avvenire.

La “passione nazionale”, notoriamente, perché tradizionalmente, “trasversale”, per ipiaceri della tavola era stata pertanto individuata quale particolarmente propizia per lacostruzione di un articolato “armamentario” di espressioni “colorite”, tali da suscitareriprovazione o condivisione nel corpo elettorale, a seconda, ovviamente, della diversaprospettiva dalla quale insinuazioni più o meno grevi venivano riversate per screditare il“fronte avversario”.

Nulla di più facile quindi, in questa “tenzone” orchestrata attorno a “sapide suggestioni”da cucina, che da parte comunista definire quello instaurato dalla Democrazia Cristianail “regime della forchetta”, a cui, naturalmente, si sarebbe dovuto porre fine attraverso ilvoto assegnato massicciamente al Fronte Popolare.

Negli anni successivi, inoltre, si sarebbe ancor più ampliato il vocabolario degli “eccessigastronomici” da riferire agli “epigoni della Conservazione”: si sarebbe fatto ricorso,oltre che, ad esempio, all’equivoco “erpìvori”, nel senso di “voraci e viscidi” insieme alpari di serpi, all’epiteto “magnacucchi”, che sarebbe stato coniato a partire dalla vicendadi due esponenti del P.C.I., Aldo Cucchi e Valdo Magnani, che nel 1951 avevanolasciato il Partito, con l’allusione che la loro “inversione di rotta” avesse comportato iltransito verso altre più “lusinghiere destinazioni”, sempre però con riferimentoall’ambito “godereccio” di una politica concepita come affare di “crassa e sordidaspeculazione” personale.

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Dalla parte opposta non si era certo lesinato sulla vis polemica, proverbialmente pocodiffusa negli animi e sulle bocche degli aderenti al “fronte moderato”.

Non era però, forse, stato difficile “scendere sullo stesso terreno” dell’Avversario quantoa provocazioni retoriche di immediato impatto sull’immaginario collettivo.

Lo spauracchio del radicamento, specie nelle Amministrazioni locali, di una “ideologiacomune” di ispirazione social-comunista, omogenea quindi a quella di cui si paventaval’affermazione elettorale nelle “urne nazionali”, portò infatti a coniare un motto comequesto, di indubbia efficacia per il proprio effetto di provocazione rispetto alla“coscienza moderata” di quella che si riteneva, comunque, la “maggioranza silenziosa”degli Italiani: “Se non voti, Gatto Baffone del Comun farà un boccone!”.

Anche per scongiurare, con toni da guerra civile non ancora definitivamente accantonata,l’eventualità di una “dittatura” comunista, ci si era rivolti all’evocazione di un pericoloche si immaginava “incarnato” non solo in una sostanziale “concorrenza ideologica”rispetto alla mentalità che, in ogni caso, si poteva prevedere al presente diffusa nellamaggioranza della popolazione “civile”.

“Salva i tuoi figli!” il monito che veniva esibito in un manifesto di propaganda elettoraledai toni cromatici lugubri e dalla drammatica “atmosfera” di guerra che suscitavanell’osservatore; il voto alla Democrazia Cristiana, che avrebbe dovuto garantire unavvenire di pace e di prosperità specialmente alle giovani generazioni, si imponeva nellasua categorica opportunità attraverso l’avanzare della fosca minaccia di un carro armatoin assetto da combattimento contro l’indifesa remissività di un fanciullo riccioluto,apparentemente ignaro del pericolo incombente sulla propria “immacolata” minutafigura, anche per l’abitino bianco “illustrato” in primo piano, a contrasto con la lugubrecorazza del mezzo militare, e contro la sua spensierata condotta da infante.

Le varianti sul tema della crudeltà filosovietica, che si sarebbe inoculata, alla stregua diun virus malefico, nell’organismo “sano” della Nazione italiana uscita “emendata” edimmunizzata dal conflitto, si appuntavano anche su altri motivi iconografici diparticolare rilievo visivo e simbolico.

Il pericolo rappresentato dall’intransigenza comunista nell’introdurre anche in Italia unregime di intollerante “asfissia” sulle forze libere, tanto dell’economia quanto dellasocietà in genere, veniva evocato con straordinaria efficacia di impatto emotivo tramite ilcontrasto, in un’unica scena, instaurato da una colomba e dalla sua “sagoma” impiccataad una corda appesa a falce e martello.

L’allegoria della contrapposizione tra valori di ispirazione religiosa, come quelli“impersonati” dal candido pennuto, e princìpi di ben più rude, barbarica quasi, evidenzacollettiva si ammantava, quindi, di una simbologia che traeva ispirazione dalla letteraturasacra, da una parte, e da quella “sinistra iconografia” del “sangue fraterno”, dall’altra,che si era tristemente affermata negli eccessi dell’ultima guerra, specie nella fase del

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conflitto civile, durante la quale impiccagioni erano seguite ad impiccagioni da entrambii fronti “l’un contro l’altro armati”.

Nel caso della propaganda elettorale di questo tenore non si rinunciava a qualche trattodi persino “civettuola” concessione al gusto incipiente per la réclame pubblicitaria: il“Gancio Rosso” al quale la colomba avrebbe rischiato di rimanere impiccata venivacontrassegnato, infatti, con i caratteri di stampa che avevano reso celebre la pubblicità diun noto liquore digestivo, il “Vermouth Gancia”.

Quel riferimento, forse, suggeriva implicitamente che i comunisti avrebbero saputo fintroppo bene come far passare i “mal di pancia” dei più recenti profittatori mascheratisotto i toni concilianti da “colombe della pace”, ma che in realtà rivelavano la loro veranatura e la loro intima inclinazione, pur “attutite” dalle apparenze: il carrierismo e laspeculazione parassitaria, attuati a spese fondamentalmente della classe lavoratrice.

In questo modo si sarebbe compiuta quella rivalsa storica che ci si attendeva dallacoscienza politica del proletariato italiano: che cioè l’adesione massiccia al FrontePopolare facesse giustizia di tutta una vicenda che era descritta, nella sua continuitàsostanziale, quale un itinerario che dal militarismo “straccione” fascista aveva trascinatol’intera società in un baratro di miseria e di fame, una situazione che ironicamenteveniva presentata come la “ricompensa” con la quale De Gasperi aveva cercato di fardimenticare agli Italiani l’umiliazione in cui il Regime li aveva sprofondati.

Tutto questo “fervore” di fantasia pubblicitaria a scopo propagandistico non sarebbe poicerto andato smarrito nei decenni a seguire, ché anzi si sarebbe vieppiù ravvivato incorrispondenza sistematicamente di scadenze elettorali le quali, se non della“drammaticità” di quella del 1948, singolarmente tuttavia rivestivano un ruolo di volta involta di “strategica” rilevanza per gli assetti e gli equilibri del momento.

Da quella “rutilante” tradizione, consolidata in occasione della prima consultazioneelettorale compiutamente democratica dalla fine della guerra, ad esclusione delreferendum istituzionale e dell’elezione dell’Assemblea Costituente, la “fantasmagoria”dei manifesti e degli slogan di propaganda politica avrebbe tratto costante ispirazione,per reinventarsi periodicamente nel più suggestivo “confezionamento” e nella piùinvasiva diffusione di essi.

Addirittura si sarebbe giunti a rimodulare il gingle stesso della Democrazia Cristiana,che dalla sua “impronta originaria” – sembra per “ispirazione” di Fanfani – avrebbetrovato un’“occasione storica” irripetibile per “aggiornarsi”, assecondando il “ritornellosanremese” di un successo canoro.

Dall’“impostazione” retorica, di matrice in qualche modo letteraria, che ne avevaaccompagnato l’originaria elaborazione il ritmo si era, per così dire, “melodizzato” sullascorta della travolgente cantabilità dell’“adagio festivaliero”, portato al successo nel1958 da Domenico Modugno con “Nel blu dipinto di blu”.

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“O biancofiore / simbol d’amore, / tu sei la gloria / della vittoria” recitava il testo“ufficiale” dell’inno del Partito di maggioranza di ispirazione cattolica al potereininterrottamente dall’immediato dopoguerra in Italia.

“Lo scudo dipinto nel blu / lo devi votare anche tu / DC”: il successo sanremese diModugno, dal titolo citato in corpo di slogan, avrebbe modificato, in contemporanea conil trionfo canoro dell’“antenato degli urlatori” nel Festival di Sanremo del 1958, inquesto modo, indubbiamente più “sbarazzino” rispetto al vagamente letterario adagio invoga dalla cerimonia fondativa del Partito, il riferimento ideale ad una prospettiva diincontrastata affermazione della Democrazia Cristiana.

Si sarebbero poi raggiunti vertici, a quell’epoca insospettabili, di “trucido” sensocomune a distanza di appena cinque anni, ancora nell’imminenza di una scadenzaelettorale, che questa volta si collocava in coerenza con il ventennale della costituzionedella DC.

L’ironia dissacrante degli oppositori politici, in tal caso, avrebbe attinto all’esperienzapiù “scontata” in ambito di “libertà personali”, “affondando” nella “melma” delle“compromissioni” sessuali.

Lo slogan ad effetto elaborato per la commemorazione del ventesimo anniversario difondazione del Partito, in corrispondenza della scadenza elettorale del 1963, sarebbestato individuato nell’espressione “La DC ha vent’anni”.

Ad un’affermazione apparentemente così poco “impegnativa” da parte dei “polemisti” diispirazione marxista si sarebbe risposto con la ben più “provocante” prosecuzione “Ed ègià così puttana”.

Con caratteri appositamente giustapposti alla “verità storica” dichiarata nellapresentazione della ventennale fondazione della Democrazia Cristiana qualche“buontempone” comunista, agit-prop secondo terminologia “aggiornata”, cioè agitatoree propagandista, tale “apodittica acquisizione sperimentale” si sarebbe divertito ascrivere a fianco del “proclama”, quale monito per un’implicita “radiosa” stagionepolitica almeno di equivalente durata.

Del resto non si sarebbe potuto negare che l’immediatezza della “posticciachiarificazione” non avesse ricalcato mirabilmente l’“evidenza evocativa” dell’originaleconstatazione.

Quest’ultima, peraltro, avrebbe sfruttato la più consolidata tradizione dell’iconografiasimbolica politica, dato che l’“inviolata integrità” della “giovane aggregazione ideale”sarebbe stata “impersonata” da una bella ragazza vestita di bianco, la cui sagoma sarebbestata disegnata su uno sfondo azzurro intenso; la didascalia avrebbe riportatol’intestazione “di rito”: “Ventesimo anniversario delle idee ricostruttive dellaDemocrazia Cristiana di Alcide De Gasperi (Demòfilo)”.

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La “tradizione iconografica”, che avrebbe continuato a “fecondare” le esperienze dipropaganda politica dei decenni a seguire, aveva prodotto i suoi frutti anche nei piùsperduti borghi di provincia, in quanto la capacità di penetrazione della pubblicità purnegli anni immediatamente successivi rispetto alla fine della guerra aveva già cominciatoad esercitare la sua azione più “virtuosa”.

I manifesti “spiegati” come gigantografie a decorare gli angoli più in vista persino deipaesi di campagna avevano scatenato la fantasia di “pubblicisti caserecci”, spintiall’emulazione anche più improvvisata dalla fortuna che simili mezzi di propagandaavevano già conquistato in occasione di manifestazioni dall’ampio “respiro” popolare,come appunto era accaduto per le elezioni del 18 aprile 1948.

Don Libertino stesso non aveva potuto sottrarsi al “fascino” di mezzi di comunicazioneal pari di quelli sperimentati, per la prima volta “in grande stile”, nella circostanzastorica di riferimento.

A parte condannare certi “eccessi espressivi”, per il resto non si era certo dichiarato“insofferente” rispetto alle potenzialità di penetrazione nelle coscienze che “ritrovati”del genere non avrebbero mancato di esercitare nell’opinione pubblica anche menoacculturata.

Sentiva che, in fondo, la pubblicistica dell’immagine ad effetto e del “motto di spirito”,pur concepito con una qualche “licenza” di eloquio, avrebbe dato compiuta attuazione aduna tradizione consolidata nella aneddotica più “spicciola” di ascendenza persinocattolica, anzi papalina, per essere più precisi.

Pasquino era “risorto” nelle “sboccate intemperanze” verbali di epigoni di una “casisticadello sberleffo” che si era alimentata già ampiamente per virtù della spontaneasguaiatezza della plebe romana in regime di dominazione temporale dei Papi.

Perdonare, quindi, con “regolare”, “lieve” equanimità di confessore si sarebbe dovuto, asuo giudizio, il vigore polemico del popolo di Dio che avesse dato sfogo allemanifestazioni più “sovversive” di un incomprimibile, nelle circostanze storiche delmomento, fervore di protagonismo, esibito con provocazioni verbali degne delladisincantata irriverenza di un Pasquino redivivo.

Quei quattro versi che appena tre giorni prima del 18 aprile 1948 furono ritrovati appesifuori dalla chiesa del paese, proprio come avveniva sul busto mezzo consumato della“voce anonima” del popolo romano in regime papalino, non avrebbero certo dato aditoal sospetto che a scriverli fosse stato Don Libertino in persona, ma più di un dubbioalimentarono circa la loro ispirazione.

“Tutto copre la tonaca d’un prete,

pur la rogna di chi a Dio non crede,

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ché è nero solo quel che da fuori si vede,

ma bianche le prospettive concrete!”

Un doppio epigramma perfettamente costruito nei limiti dei versi accoppiati, la vividaimmediatezza di immagini “scolpite” nell’esperienza collettiva quanto al proprio poteredi significazione simbolica, delineate nella loro immediatamente evidente connotazionedi proverbiale incisività, la sineddoche antonomastica della “tonaca”, proiettata versol’acme espressiva della giustapposizione cromatica “di repertorio” tra “nero” e “bianco”,rispettivamente dell’associazione ideale dei princìpi della Conservazione all’aneddoticaecclesiastica e della “moderata neutralità” distintiva della prospettiva politica e sociale incapo al Partito della “maggioranza silenziosa” della Nazione, erano tutti elementi che“congiuravano” a favore, almeno, della rivendicazione dei “diritti d’autore” per unatrovata del genere alla dissacrante demistificazione della propria “austera cera dicensore” da parte di un prete che non si riconosceva, in fondo, appieno “imprigionato”nella “paludata uniforme” di un “novizio della tonaca”, ma non certo di un “avventiziodella battuta pronta” nei confronti dell’immobilità di una tradizione ammantata dirispettabile sussiego, seppur non proprio nobilitata dalla convenienza di volta in volta“adocchiata” nelle forme di un’alleanza autoritaria per affinità di “cromaticaindifferenza”…!

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