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un bambino

perfetto‘quasi’

esperienzerisultatiriflessioni

Il progetto L’isola che c’è:un modello d’interventoper bambini con bassa autostima,promosso dall’Assessoratoalle politiche di promozionedell’infanzia e della famigliadel Comune di Roma

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La Maieutica – Ricerca e Formazionevia Ostiense 36/b – 00154 Romatel/fax 06 572 86 [email protected]

direzione scientificaAntonio De Filippo

programmazione attività pedagogicheRoseline Ricco

organizzazioneMaria Luisa Indelicato, Gaia Zorzi

analisi e validazione statisticaIsabella Lops

tutor Franco ColantoniMaria Luisa IndelicatoIsabella LopsPamela PacittiFrancesca PassaroRoseline RiccoGaia Zorzi

operatoriElisa AlloNicole Benedetti Maria BianciniValentina ClaudiliFranco ColantoniValentina De PaoliGiulia GabelliMichela IuorioIleana MichettiGloria PacchioniSusanna PaganelliAlessandro Valzania

docenti dell’attività formativaLaura CasaliniIlario MieleRoseline RiccoLucia ZeppetellaRoberto Zucchetti

progetto graficoMaria Teresa Milani

fotocomposizioneTypeface snc Cerveteri

immagine di copertinaPamela Pacitti, Elisa Dondi

cura editorialeGian Paolo Castelli

lo staff del progetto L’isola che c’è

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indice

presentazione 4

il progettol’isola che c’è 13presentazione di un’isola 25i bambini e la televisione 31chi è di scena? 34graffiti 41

approfondimentila metodologia di Edgar Willems per le attività musicali 45bullismo e autostima 52tipologie del bambino con scarsa autostima 61le maschere del bambino 71l’intervento psicopedagogico nel lavoro di gruppo 81il controtransfert negli operatori 86consigli per genitori e insegnanti 93

glossariole 30 parole dell’autostima 109

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presentazione

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Pamela Pantanoassessore alle Politiche di promozione dell’infanzia e della famiglia del Comune di Roma

Perché nessuno rimanga solo... Mi piace citare questo slogan, molto caro al no-stro sindaco Walter Veltroni, che ha fatto da sfondo alle tante iniziative pensa-te e realizzate in questi anni per i bambini e le famiglie della nostra città. Que-sta città è tanto grande quanto caotica; in essa le persone rischiano di perdersio di non trovarsi, con se stessi e con gli altri. Anche i bambini, per quanto ciò ci possa sembrare impossibile, rischiano di re-stare soli, di restare isolati... La loro voce, nel frastuono delle voci e dei rumoridella città, rischia di rimanere inascoltata. Ciò accade molto più frequentemen-te di quanto possiamo immaginare. La vita dei nostri bambini che, nell’imma-ginario collettivo, appare fatta solo di gaiezza, spensieratezza, felicità e gridachiassose, nella realtà è spesso circondata dal silenzio e dalla solitudine. Il silenzio e la solitudine dei bambini che richiedono attenzione e affetto, rice-vendo spesso solo rimasugli di tempo; il silenzio e la solitudine dei bambini cherimangono parcheggiati per ore davanti a ‘mamma’ tivù; il silenzio e la solitu-dine dei bambini che vorrebbero confidare a qualcuno le proprie naturali pau-re e che sono invece costretti a comportarsi ‘da grandi’, dei bambini che vor-rebbero essere solo se stessi e che sono invece costretti a essere ‘altri’, per con-formarsi a quel ‘bambino ideale’ che gli adulti (genitori, insegnanti, educatori,allenatori ecc.) immaginano di avere davanti.Un nuova cultura dell’infanzia nasce proprio dall’imparare ad ascoltare la ‘vo-ce’ dei bambini: una voce che per arrivare a ottenere l’attenzione dei grandi as-sume spesso toni e modalità che possono apparire strane, non ortodosse o esa-gerate. Occorre imparare a leggere quei comportamenti ‘estremi’ dei bambini,per capire quale messaggio si celi dietro ad essi. Così, dietro un bambino chegiudichiamo troppo irrequieto o per il quale si arriva talvolta a scomodare dia-gnosi di sindrome da iperattività, ci può essere un bambino che chiede sempli-cemente di essere ascoltato e accettato per come è, e non per come vorremmo chefosse. Analogamente, un bambino che ci appare abulico, non interessato allecose, isolato all’interno del suo stesso gruppo sociale o nella sua classe, quandonon addirittura fatto oggetto di scherno e di atti di bullismo, può essere in real-tà una persona che fa fatica ad adeguarsi al modello di bambino ‘perfetto’ che al-tri che hanno creato per lui.Molto spesso, all’origine di questi comportamenti, statisticamente sempre piùfrequenti nelle nostre scuole, c’è la difficoltà ad affrontare il divario esistentetra ciò che il bambino sente di essere (il cosiddetto Sé reale) e ciò che la socie-tà pretende da lui (il Sé ideale). La constatazione dell’impossibilità di essere

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‘perfetti’ genera frustrazione e incide pesantemente sull’autostima del bambino,sul suo sentirsi adeguato o meno al contesto.Una scarsa autostima nell’infanzia può essere il preludio di disagi nell’età ado-lescenziale e in quella adulta, determinando nel migliore dei casi delle persone‘incompiute’ e sfociando, nei casi più gravi, nella depressione e in comporta-menti violenti e autolesionistici (fino al suicidio).Le statistiche, citate dalla stessa Commissione bicamerale infanzia, parlano dicifre impressionanti: circa 800.000 depressi in Italia di cui il 40% studenti del-le scuole secondarie; nel biennio 2000-2002 risulta quadruplicato il consumo dipsicofarmaci tra i giovanissimi. Da più parti si cerca, inoltre, di aprire le porteall’utilizzo degli psicofarmaci per curare la depressione o altri non meglio pre-cisati ‘problemi comportamentali’ dei bambini di età superiore agli 8 anni, co-me purtroppo già avviene massicciamente in altri paesi.Di fronte a questo quadro abbastanza preoccupante, l’impegno del Comune diRoma e del mio Assessorato si è finalizzato nel creare le condizioni affinché lacittà diventi più accogliente, sempre più a misura di bambino. Una città, quindi,capace di porsi in ascolto dei più piccoli e di modificarsi, anche nelle propriestrutture, per ampliare gli spazi di gioco e di socializzazione (aprendo ad esem-pio gli spazi pubblici e gli spazi condominiali); una città più sicura, che consen-ta ai bambini di riappropriasi delle strade, acquisendo autonomia col raggiun-gere a piedi la scuola o la palestra; una città che riconosca ai bambini il diritto diparola, anche nella ‘gestione della cosa pubblica’ attraverso le attività e le pro-poste del Consiglio Comunale dei Bambini; una città, infine, attenta alla forma-zione corretta della personalità dei bambini, attraverso indagini e interventi disostegno quali quelli realizzati con il progetto L’Isola che c’è sull’autostima. Pro-prio questo progetto, dalla cui esperienza scaturisce la presente pubblicazione,è il segno forte dell’attenzione posta dall’Amministrazione alle richieste cheprovengono dai bambini. Nei laboratori realizzati nelle scuole coinvolte dal progetto L’isola che c’è si cer-cato di creare degli spazi (delle ‘isole’, appunto), dove i bambini attraverso ilgioco hanno potuto esprimere se stessi, aprirsi, raccontare agli altri le propriestorie e ascoltare quelle degli altri, scoprendosi molto più vicini, riconoscendonelle ansie e nelle paure del proprio compagno i propri stessi limiti, acquistan-do sicurezza e convinzione nelle proprie capacità mediante la fiducia che gli ve-niva riconosciuta dagli altri.Sicuramente le centinaia di bambini che hanno partecipato al progetto si sonosentiti meno soli, più considerati da quel mondo degli adulti spesso così distante. La speranza è che da questa bella esperienza vissuta, questi bambini si sentanorafforzati per coltivare lo splendido sogno di crescere in un mondo non indiffe-rente, ma interessato a ognuno di loro; un mondo che, soprattutto, loro stessipossono contribuire a migliorare: oggi, come bambini sereni e ‘quasi’ perfetti,e domani, da adulti equilibrati e responsabili.

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Antonio De Filippopresidente de La Maieutica – Ricerca e Formazione

I due bambini venivano su guardinghi calpestando ghiaia: forse le vetrate stavano perspalancarsi tutt’a un tratto e signori e signore severissimi per apparire sui terrazzi egrossi cani per essere sguinzagliati per i viali. Trovarono vicino una cunetta con unacarriola. Giovannino la prese per le staffe e la spinse innanzi: aveva un cigolo, a ognigiro di ruota, come un fischio. Serenella ci si sedette sopra e avanzavano zitti, Giovan-nino spingendo la carriola con lei sopra, fiancheggiando le aiole e i giochi d’acqua.– Quello – diceva Serenella a bassa voce di tanto in tanto indicando un fiore. Giovan-nino poggiava e andava a strapparlo e glielo dava. Ne aveva già dei belli in un maz-zetto. Ma scavalcando le siepi per scappare, forse li avrebbe dovuti buttar via! Così ar-rivarono a uno spiazzo e finiva la ghiaia e c’era un fondo di cemento e mattonelle. Ein mezzo a questo spiazzo s’apriva un grande rettangolo vuoto: una piscina. Ne rag-giunsero i margini: era a piastrelle azzurre, ricolme d’acqua chiara fino all’orlo.– Ci tuffiamo? – chiese Giovannino a Serenella. Certo doveva essere assai pericolosose lui chiedeva a lei e non diceva soltanto: – Giù – Ma l’acqua era così limpida e az-zurra e Serenella non aveva mai paura. Scese dalla carriola e vi depose il mazzolino.Erano già in costume da bagno, erano stati a cacciar granchi fino allora. Giovanninosi tuffò: non dal trampolino perché il tonfo avrebbe fatto troppo rumore, ma dall’or-lo. Andò giù giù a occhi aperti e non vedeva che azzurro e le mani come pesci rosa;non come l’acqua del mare, piena di ombre informi verdi-nere. Un’ombra rosa sopradi sé: Serenella! Si presero per mano e riaffiorarono all’altro capo, un po’ con appren-sione. No, non c’era proprio nessuno ad osservarli. Non era bello come s’immagina-vano: rimaneva sempre quel fondo d’amarezza e d’ansia, che tutto questo non spetta-va loro e potevano esserne di momento in momento, via, scacciati.

Italo Calvinoda Il giardino incantato, in “Romanzi e racconti”, Milano 1991

Un bambino ‘quasi’ perfetto; così recita il titolo di questa pubblicazione, volu-tamente evocativa del famoso lavoro di Bruno Bettelheim Un genitore quasiperfetto, che ha rappresentato un monito autorevole alla comprensione e al ri-spetto del bambino per una generazione di educatori.Il richiamo a una perfezione ambita, ma percepita anche come malessere, è unasuggestione che può ispirare domande, dubbi, riflessioni in chi lavora quotidia-namente nel mondo dell’infanzia, nonché mettere in corto circuito modelli teo-rici e assetti metodologici, soprattutto contrastando gli insidiosi e sempre in-combenti sentimenti di onnipotenza che minacciano terapeuti, educatori, geni-tori. Lo stesso accostamento dell’aggettivo ‘quasi’ al concetto di perfezioneoperato da Bettelheim sposta l’intervento educativo da un piano di osservazio-ne oggettivo, misurabile, geometrico – e per questo più rassicurante – a una

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prospettiva soggettiva, in continua trasformazione, non traducibile in protocol-li medici o pedagogici e quindi più rischiosa per chi agisce. Mentre però nel lavoro del grande neuropsichiatra austriaco il focus tematico èincentrato sulla relazione tra genitore e figlio come luogo emozionale di crisi edi sostegno, di disagio ma anche di tutela (come spiega Bettelheim affermandoche “in quasi tutti i problemi che si incontrano nell’educare i figli, genitore e fi-glio sono il problema e contemporaneamente la sua soluzione”), nel nostro ca-so ci siamo concentrati sul mondo interiore del bambino visto come specchiodi aspettative, desideri e identificazioni proiettive del mondo degli adulti.Bambini ‘quasi’ perfetti sono quelli che abbiamo incontrato in quindici scuole ro-mane durante il progetto L’isola che c’è promosso dall’Assessorato alle politichedi promozione dell’infanzia e della famiglia del Comune di Roma: sono bambiniche non rientrano in casistiche cliniche, non vivono in famiglie problematiche,non provengono da ambienti sociali degradati. Ciò nonostante, sono bambiniche si sentono soli, poco felici, non compresi da adulti spesso vicini fisicamentema altrove con l’attenzione, l’ascolto e, soprattutto, l’affettività. Elemento comu-ne di questi piccoli – e ne abbiamo conosciuti tanti in ogni quartiere di Roma, daTor Bella Monaca alla Cassia, da Ostia al Tuscolano – è la mancanza di autosti-ma e di fiducia in se stessi: un sentimento che erroneamente si pensa debba af-fliggere soltanto gli adulti, dato che la società moderna – affetta da narcisismo eispirata da spot pubblicitari interpretati da bambini felici consumatori di meren-dine e videogiochi – guarda all’infanzia come isola felice dove albergano soltan-to gioia e spensieratezza e dove non esistono angosce, conflitti, problemi.Bambini con poca autostima: a volte molto bravi a scuola, ma proprio per que-sto prigionieri dell’obbligo interiore di non dover mai deludere genitori e inse-gnanti, perché soltanto primeggiando nella competizione si sentono accettati eamati; altre volte fragili perché sbeffeggiati dai compagni per essere goffi, insi-curi o magari meno bravi nel giocare a calcio e per questo vittime di episodi dibullismo; altre volte ancora timorosi nella relazione, diffidenti o sfuggenti perpaura di essere delusi, abbandonati, forse perché testimoni di promesse man-cate.Bambini con poca autostima: invisibili perché accomodanti, silenziosi, timoro-si nel chiedere aiuto a scuola come a casa, talvolta ‘adultizzati’ nel loro doversempre dimostrarsi responsabili e ubbidienti, nel loro non piangere e non pro-testare mai; bambini ‘figli del deserto’ (cfr. S. Gindro e M. Bruni, Psicoanalisi-Contro, n. 5, 1994), costretti a crescere nell’aridità affettiva, nati in famiglie be-nestanti da genitori colti, ben inseriti socialmente e pieni di interesse, che de-stinano loro un’ora di gioco, magari dopo l’ora di inglese e di informatica, traallenamenti con personal trainer e gestione di location alla moda. Bambini con poca autostima: iperattivi per uscire dall’invisibilità, che ricerca-no con la vivacità e le provocazioni l’attenzione e il contatto di cui hanno biso-

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gno e che, spaventati dalla loro stessa vivacità emotiva, domandano un conte-nimento innanzitutto affettivo alla loro inquietudine.La scarsa considerazione di sé non porterà questi bambini alla necessità di unintervento psicoterapeutico e nessun servizio sociale dovrà attivarsi in loro soc-corso; nella maggior parte dei casi questo disagio rimarrà silente, laddove nonincrocerà la sensibilità di un’insegnante attenta o di un adulto capace innanzi-tutto di osservare e ascoltare.Ma tale malessere deve divenire un ammonimento che arriva alla società interadal mondo dell’infanzia, non soltanto astratto e quindi distante, ma concreto,tematizzato e vivificato nei volti dei bambini che rientrano nel nostro spazio vi-tale di adulti, genitori, operatori.Esiste un diritto dei bambini a essere felici che non necessita di Carte e Dichia-razioni universali, che pure esistono e supportano tale principio, ma reclama unimperativo per ogni individuo o comunità. Questo significa che occorrono cit-tà più sicure per l’infanzia, dove i bambini possano ritrovare spazi di gioco e disocializzazione, scuole, programmi e insegnanti attenti alla crescita e all’educa-zione socio-affettiva del bambino, e non soltanto all’apprendimento didattico eallo sviluppo delle funzioni cognitive; ma soprattutto bisogna guardare al bam-bino come persona collocata nel presente, con i suoi bisogni, desideri, risorse efragilità da riconoscere e cui dare ascolto ‘oggi’, e non definirlo demagogica-mente come ‘adulto di domani’, espressione con la quale si negano diritti all’in-fanzia e ci si arroga sempre il potere di decidere per il bambino, magari con loscudo della locuzione “è per il tuo bene”, che in ambito educativo, talvolta,tende a legittimare ingiustizie e prevaricazioni.Il programma pedagogico dei laboratori attuati con il progetto L’isola che c’è hainteso dare dignità e riconoscimento al disagio di questi bambini: non si è trat-tato di un intervento psicoterapeutico, perché la mancanza di autostima non èuna sindrome clinica, né tanto meno sentiamo la necessità di aggiungere unanuova classificazione alla nosografia psichiatrica attualmente già sovrabbon-dante.Per dieci settimane le centinaia di bambini partecipanti in tutte le scuole alleattività previste hanno giocato, disegnato, fatto teatro, ma soprattutto hannoraccontato le loro storie, né piccole né grandi, né drammatiche né banali, masemplici, quotidiane, uniche, ruotanti però intorno a un interrogativo comune:come fare a volersi un po’ più di bene, in che modo recuperare quella fiduciain se stessi che per alcuni sembrava smarrita. Non avevamo né volevamo avereil compito di creare dei bambini sicuri e tracotanti, competitivi e ossessionatidal successo; al contrario, nelle discussioni di gruppo abbiamo sempre sottoli-neato il valore della solidarietà e il primato della collaborazione sull’individua-lismo Il gioco ci ha aiutato a capirli: giocare è la strada maestra per arrivare almondo interiore del bambino, così come il sogno in psicoanalisi lo è per l’adul-

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to. Le grida, gli sguardi, le parole, la tenerezza dei bambini delle varie ‘isole’create nelle scuole echeggiano ancora nella memoria di tutti gli operatori chehanno partecipato al progetto, ognuno dopo quest’esperienza meno ‘perfetto’di quanto si sentisse prima. Sono stati i bambini, infatti, a insegnarci ad accet-tare i nostri limiti proprio nel momento in cui iniziavano a far leva maggior-mente sulle loro risorse e abilità, ridefinendo la loro percezione del Sé, in unincontro che si è permeato fin da subito di conoscenza e riconoscimento reci-proci. Una conoscenza e un riconoscimento certo imperfetti perché, come l’esperien-za umana, in continuo divenire.

Solo l’amare, solo il conoscere conta; non l’aver amato, non l’aver conosciuto.

Pier Paolo Pasolini, da Le ceneri di Gramsci

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ringraziamenti

La realizzazione del progetto L’isola che c’è e di questa pubblicazione che ne rap-presenta il necessario completamento è stata resa possibile dall’entusiasmo, dallacollaborazione e dalla disponibilità di numerosissime persone.Tra tutte, ci piace ringraziare: Daniela Aureli e Cinzia Cerioni del DipartimentoXVI – III Unità operativa del Comune di Roma; Paola Crecco, Amelia Di Vittorio,Maria Rosaria Leonetti, Paolo Palmucci, Alessandra Ortisi e tutto lo staff dell’As-sessorato alle politiche di promozione dell’infanzia e della famiglia.E poi ancora: Enza Beccarisi, Maria Letizia Ciferri, Sara Cofini, Sara Di France-scantonio, Luisella Fammilume, Angelo Lucci, Alfredo Menichelli, Marco Olivie-ri, Antonio Passaro, Renata Puleo, Patrizia Renzi, Arianna Saraceni, MariangelaTammaro, i dirigenti, le insegnanti e i genitori che hanno dato il loro contributo dicortesia e competenza per la realizzazione del programma.Ma soprattutto un grande abbraccio va a tutti i bambini che abbiamo conosciuto eimparato ad amare in tutte le isole realizzate nelle scuole: volti, voci e sorrisi chenon dimenticheremo mai.

le scuole del progetto

scuola elementare “Guglielmo Marconi”scuola elementare “Damiano Chiesa”scuola elementare “Chico Mendes”scuola elementare “Fratelli Garrone”scuola elementare “Zandonai”scuola elementare “Trilussa”scuola elementare “Pietro Maffi”scuola elementare “Enzo Ferrari”scuola elementare “Anna Magnani”scuola elementare “Fratelli Bandiera”scuola elementare “Ferrante Aporti”scuola elementare “Lia Lumbroso Besso”scuola elementare “Matteo Ricci”scuola elementare “Oscar Romero”scuola elementare “Victor Hugo Girolami”

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il progetto

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l’isola che c’è

Il progetto L’isola che c’è, promosso dall’Assessorato alle politiche di promozio-ne dell’infanzia e della famiglia del Comune di Roma, costituisce il primo pro-gramma d’intervento scolastico mai realizzato in Italia per bambini con bassolivello di autostima e fiducia in se stessi. Il progetto si ispira negli obiettivi a unanalogo format anglosassone, il National Pyramid System, da più di dieci annirealizzato in Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord, ma ne costituisce un origi-nale adattamento. Obiettivo del progetto è stata la realizzazione di un program-ma psicopedagogico di sostegno e tutela di bambini con una debole percezio-ne del Sé e con una valutazione inadeguata sulla positività delle proprie azioni.Tale programma è stato realizzato in 15 scuole elementari del Comune di Ro-ma durante l’anno scolastico 2004-2005.

lo studio preliminare

Pur non essendo definibile come sindrome clinica, la bassa autostima rappre-senta nell’infanzia una causa frequente di disagio psicologico, manifestandosicon diverse modalità legate al contrasto tra come il bambino percepisce se stes-so e l’efficacia delle proprie azioni, e come invece configura le proprie aspetta-tive, vale a dire il ‘come vorrebbe essere’.In questo suo ‘come vorrebbe essere’ per un bambino assumono valore fonda-mentale i giudizi degli altri e, in particolare, di genitori, insegnanti e gruppo deipari. Ne consegue che se gli adulti di riferimento caricano un bambino di ec-cessive aspettative di successo (a scuola, nello sport, nell’immagine sociale),

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possono condizionarne negativamente l’autostima quando egli non ottiene i ri-sultati attesi, esponendolo così a un’esperienza di frustrazione che ne indeboli-sce la fiducia in se stesso, oltre a provocarne il senso di colpa per aver delusol’adulto. D’altro canto, un bambino può sentirsi valorizzato e stimato dagli in-segnanti per il suo rendimento scolastico ed essere però svalutato a casa dai ge-nitori – che non ne apprezzano il rendimento, convinti magari che sia sbaglia-to dare troppe gratificazioni ai figli – o dagli amici della squadra di calcetto,perché meno bravo degli altri. Nello studio preliminare di questo progetto ab-biamo quindi considerato alcune aree principali dove misurare l’autostima deibambini, delineandone le principali evidenze.

• a scuola: timore di chiedere all’insegnante di rispiegare o chiarire megliouna lezione; ansia di fronte a un compito o a una materia nuova; bisogno dievitare un’interrogazione, anche se si è studiato, perché convinti di essereimpreparati e incapaci di accettare un risultato negativo; ansia anticipatoriache si manifesta con nausea o pianto prima di andare a scuola; comporta-menti iperattivi che mascherano un’insicurezza di base

• nei rapporti con i coetanei: paura di non essere accettati; senso di solitudi-ne quando si sta in gruppo; tendenza a essere bersaglio di scherzi verbali,prepotenze, bullismo; timidezza e sensazione di essere goffi

• in famiglia: paura di non essere amati o apprezzati; senso di inferiorità ri-spetto a un fratello o una sorella; difficoltà ad aprirsi e a raccontare di sé perpaura di essere giudicati negativamente dai genitori; comportamenti narci-sistici tesi a richiamare l’attenzione di uno o entrambi i genitori

• nel vissuto corporeo: sensazione continua di stanchezza, difficoltà psicolo-gica nella competizione e nella pratica sportiva, rifiuto del proprio aspettofisico o di un particolare estetico (colore dei capelli, peso, pelle ecc.)

Successivamente è stato individuato lo strumento per individuare nelle scuolei bambini con cui realizzare il programma di intervento previsto: si è sceltoquindi di utilizzare il Test di valutazione Multidimensionale dell’Autostima(Bruce A. Bracken, TMA. Test di valutazione multidimensionale dell’autostima,Trento 2003) nella sua validazione italiana per bambini e ragazzi dagli 8 ai 16anni. Il questionario, strutturato in 150 item (ad esempio: “sono troppo timido”, “avolte mi sento insicuro”, “sento che gli altri non hanno fiducia in me”) a 4 sca-le (assolutamente vero, vero, non vero, non assolutamente vero) consente la mi-surazione dell’autostima dei bambini all’interno di 6 aree diverse, a ciascunadelle quali attribuisce un punteggio: le relazioni interpersonali, la competenzadi controllo dell’ambiente, l’emotività, il rendimento scolastico, la vita familia-re, il vissuto corporeo. La somma dei punteggi di ogni sezione concorre a de-terminare l’indice generale di autostima, collocando il profilo delle risposte

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lungo una scala a 7 livelli, che va dall’estremamente negativo all’estremamentepositivo.

i modelli operativi

Si sono quindi ideate e progettate le attività ludico-pedagogiche destinate ai la-boratori (club o isole), dove inserire i bambini che in ogni scuola avrebberoconseguito un punteggio relativo all’autostima inferiore alla media. Obiettivodi queste attività sono state la crescita socio-affettiva del bambino, la verbaliz-zazione e l’elaborazione di vissuti conflittuali relativi all’autostima, la valorizza-zione di abilità nella sfera creativa e nella gestione delle emozioni. La strutturadelle attività si è incentrata intorno a dieci temi specifici, da sviluppare poi at-traverso quattro modalità diverse:

• circle time: i bambini sono incoraggiati a condividere con gli altri esperien-ze, idee, giochi. Si discute, sul modello dei gruppi, di situazioni problema-tiche che minano la fiducia del bambino: come bisogna reagire dopo unrimprovero di un genitore che si ritiene ingiusto? e dopo una prepotenza diun amico? Qual’è il comportamento più adatto quando non si è capita unalezione o non si riesce a svolgere un compito a scuola? Ciascun bambinoviene guidato dagli operatori alla verbalizzazione e all’ascolto dei propri edegli altrui stati emotivi.

• attività manuali: creta, disegno, costruzioni, finalizzate all’espressione gui-data di ansie e contenuti inconsci e alla realizzazione di piccoli prodotti ar-tistici, senza mirare alla perfezione estetica ma all’ideazione e al completa-mento di uno stimolo interiore.

• attività teatrali: i bambini, attraverso la costruzione e la recitazione di sce-neggiature costruite con gli operatori, focalizzano e rielaborano i contenutie i giudizi connessi all’immagine di Sé, stimolando con l’identificazioneproiettiva nei personaggi e nelle situazioni via via inventate, l’elaborazionedi vissuti di insicurezza e scarsa fiducia legati ai temi trattati.

• attività musicali: scoprendo di possedere naturalmente un orecchio musica-le e di poter riconoscere, padroneggiare e riprodurre ritmi e suoni propostisecondo la metodologia Willems di educazione musicale (vedi contributo ne-gli approfondimenti), il bambino migliora il suo rapporto con l’ambiente evalorizza un’abilità nascosta. La musica, per sua stessa natura, offre la possi-bilità di presentarsi e conoscere l’altro attraverso il linguaggio non verbale.

Ogni attività è stata accompagnata dalla discussione all’interno del gruppo, al-lo scopo di favorire l’espressione delle emozioni, educare all’ascolto reciprocoe promuovere la consapevolezza di sé.

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In alcuni incontri si è utilizzato il modello del problem solving, basato sulla ri-flessione e l’analisi approfondita dei temi proposti. Il problem solving si strut-tura in quattro passaggi che aiutano il bambino ad analizzare il problema neisuoi diversi aspetti e individuare una possibile soluzione. Accorgendosi chepuò superare le difficoltà senza esserne sopraffatto, il bambino può migliorarel’autostima. • qual è il problema?• quali sono le soluzioni?• cosa succede se provo queste soluzioni?• qual è la soluzione migliore?

Un altro modello utilizzato nelle attività è stato il locus of control, che si ponel’obiettivo di capire se il bambino attribuisce a se stesso quanto accade intornoa lui, se pensa di poter controllare gli eventi che gli accadono (locus of controlinterno), o se ritiene al contrario di non aver nessun controllo sulla realtà, attri-buendo a fattori esterni quanto gli accade (locus of control esterno). Attraversoapposite domande si invitano i bambini a riflettere sulla modalità di attribuzio-ne utilizzata. Per rendere più divertenti le attività attinenti a questi due ultimi modelli, si èscelto di utilizzare dei fogli dove vengono innanzi tutto indicate le diverse ri-sposte; si attaccano poi questi fogli in diverse parti dell’aula, invitando i bam-bini a disporsi vicino alla scritta che più li rispecchi.

Un terzo modello utilizzato è quello del self-control, che ha lo scopo di analiz-zare il controllo che il bambino ha sulle sue emozioni. La capacità di rifletteresulle proprie reazioni e l’abilità di instaurare un dialogo interno con se stessopossono aiutare il bambino a gestire la propria emotività in modo più adegua-to e gratificante.

A questo punto si è scelto di utilizzare il nome stesso del progetto, L’isola chec’è, quale stimolo concreto (un cartellone, in ogni aula dei laboratori, raffigu-rante un’isola da decorare e da riempire con disegni durante tutte le settima-ne), ma anche quale luogo simbolico di contenimento e di trasformazione.

Sulla base di tali premesse e considerazioni si è poi definito il calendario delleattività per i laboratori:

1° incontro – presentazione dei partecipanti: presentarsi e conoscere l’altro• lettura di un brano da Il Piccolo Principe (A. de Saint-Exupéry) • presentazione del progetto ai partecipanti (autodefinizione tramite un ag-

gettivo)• gioco del gomitolo• presentarsi attraverso un aggettivo scelto tra una lista proposta dai volontari

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• imprimere la propria traccia nella creta, nel pongo, sulla carta e valutare ladifferenza fra i diversi materiali e fra sé e gli altri

• attività musicali• Parole! Parole! (i bambini scrivono su un cartellone la prima parola che gli

viene in mente)

2° incontro – la situazione di gruppo: collaborare con l’altro• lettura di un brano da Il Signore degli anelli – La Compagnia dell’anello

(J.R.R. Tolkien): come si compone un gruppo• “Ti piace lavorare/giocare in gruppo? Vantaggi e svantaggi” (fornire una li-

sta di vantaggi e svantaggi)• attività psicomotorie: gioco di gruppo del mimo (due gruppi: uno deve mi-

mare quattro parole – partenza, treno, baseball, fattoria – e il secondo do-vrà scoprire quali sono le parole)

• attività del locus of control (come hai fatto a indovinare la parola? era faci-le? ti ha aiutato un compagno? sei stato bravo?)

• attività musicali• Parole! Parole!

3° incontro – le situazioni di difficoltà: un rimprovero in famiglia che ritenia-mo ingiusto

• creazione di una storia da un primo punto di partenza, dividendo il club ingruppi di due o tre bambini

• lettura delle diverse storie • rappresentazione di una o più storie• problem solving (cosa fate quando subite un rimprovero ingiusto? che solu-

zioni ci possono essere?) • locus of control (cosa puoi fare per evitare di essere rimproverato dai tuoi ge-

nitori?)• role-play: attività teatrali• domande aperte• attività musicali• Parole! Parole!

4° incontro – le situazioni di difficoltà: un rimprovero a scuola• lettura di un brano da Signori bambini (D. Pennac)• attività teatrali: creare una o più scene, dividendo i bambini in gruppi, in cui

si assiste a un rimprovero a scuola• problem solving (cosa fai quando a scuola subisci un rimprovero ingiusto?

che soluzioni ci possono essere?)• domande aperte• disegna una scena su questo tema

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• attività psicomotorie: gioco delle sedie con la variante che chi rimane esclu-so si siede su un compagno; alla fine rimane un solo bambino seduto contutti gli altri in braccio (o seduti per terra vicino a lui)

• Parole! Parole!

5° incontro – le situazioni di difficoltà: la prepotenza di un coetaneo• divisione in due o più gruppi; primo gruppo: scrivi una storia di prepoten-

za, immaginando che a raccontarla sia il ragazzo offeso; secondo gruppo:scrivi una storia di prepotenza immaginando che a raccontarla sia il ragaz-zo prepotente

• lettura delle storie e confronto dei due punti di vista: capire le ragioni del-l’altro

• gioco sulla fiducia nell’altro: dividendo i bambini a coppie, a turno uno vie-ne bendato e cammina per la stanza seguendo le indicazioni del compagnoche vede; poi si scambiano i ruoli

• discussione su ciò che si è provato• problem solving (cosa fate quando un compagno vi fa una prepotenza? qua-

li sono le possibili soluzioni?)• autocontrollo (come reagisci se un compagno ti colpisce accidentalmente,

senza farlo apposta?)• domande aperte• attività teatrali: creare una scena in cui si assiste a una prepotenza di un co-

etaneo• Parole! Parole!

6° incontro – le situazioni di difficoltà: difficoltà nell’eseguire/comprendereun compito

• lettura di un brano da L’uomo di ferro (T. Hughes)• attività psicomotorie: gioco di equilibrio con percorso a ostacoli• crea un oggetto a piacere con il das/pongo• locus of control (siete riusciti a fare il percorso perché era facile o perché sie-

te stati bravi voi?)• autocontrollo (cosa fai quando non riesci a capire un compito?)• domande aperte• attività musicali • Parole! Parole!

7° incontro – le situazioni di difficoltà: una lite tra amici• rappresentare un’esperienza sul tema tramite un disegno • discussione: cosa ti fa arrabbiare in un amico? (fornire un aggettivo)• problem solving (cosa puoi fare quando un amico ti fa arrabbiare?)• attività teatrali: risolvere una lite tra amici

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• attività psicomotorie – ‘mille modi per muoversi’: i bambini devono rag-giungere una meta definita utilizzando diversi tipi di movimento (per esem-pio camminare come un serpente, un gambero, un gatto, oppure saltare suun piede ecc.)

• domande aperte• Parole! Parole!

8° incontro – l’autostima• lettura della favola Il lupo e il cane (J. de La Fontaine da Erodoto)• creare degli oggetti per la festa che si terrà nell’ultimo incontro• gratificazione e rinforzo dei risultati ottenuti• attività musicale• attività teatrali: scegliere alcune scenette, da rappresentare nella giornata fi-

nale, fra quelle ideate negli incontri precedenti• Parole! Parole!

9° incontro – riflessioni sul percorso intrapreso• discussione e riflessione sul percorso intrapreso• descrivi la tua ‘isola che c’è’: come te la immagini, da chi è abitata, come ci

si trascorre il tempo• gratificazione e rinforzo dei risultati ottenuti• libertà di espressione• attività teatrali: ripetizione

10° incontro – festa teatrale• preparazione per la rappresentazione e decorazione della sala• attività teatrali: la rappresentazione teatrale• cartellone L’isola che c’è (come ti senti su quest’isola? dalle un nome)

il piano operativo

Il progetto si è svolto in due fasi: nella prima fase si è voluto verificare la fatti-bilità dell’intervento sperimentandolo nelle prime 4 scuole elementari; succes-sivamente, dopo aver verificato l’efficacia del programma, l’Assessorato allepolitiche di promozione dell’infanzia e della famiglia ne ha disposto l’estensio-ne in altre 11 scuole per un totale di 15 istituti coinvolti.

scuole coinvolte 15

totale bambini delle classi IV e V (con alcune III su richiesta di 2 scuole)su cui si è effettuato lo screening 2058

bambini con autostima inferiore alla media (p. > 402) inseriti nei club 320 (15,6%)

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In ciascuna scuola il Collegio dei docenti, dopo aver discusso e approvato ilprogetto, ha indicato all’ente attuatore un numero variabile (da 4 a 6) di IV eV classi che sarebbero state inserite nel programma. Si è poi costituito un tavo-lo di lavoro – comprendente il dirigente scolastico, il direttore scientifico delprogetto e gli insegnanti delle classi coinvolte – che ha gestito e monitorato tut-te le fasi del progetto con la seguente scansione:

• somministrazione del questionario TMA, previa autorizzazione dei genito-ri, nelle classi previste

• rilevazione dei bambini con autostima inferiore alla media secondo la clas-sificazione del TMA

• incontri con i genitori dei bambini interessati alla fase successiva del pro-getto per la presentazione delle attività, degli obiettivi del programma e laraccolta delle autorizzazioni per la partecipazione dei loro figli ai club de L’i-sola che c’è (laboratori ludico-pedagogici)

• individuazione di un locale (aula, laboratorio, palestra, teatro) per gli incon-tri dei club

• formazione dei club in numero di 1 o 2 per scuola, sulla base dei risultatidel TMA, composti ciascuno da un minimo di 8 a un massimo di 12 bam-bini

• svolgimento delle attività dei club per 10 settimane in incontri di un’ora emezza ciascuno. Le attività sono state condotte in ogni club da uno psicolo-go tutor, coaudivato da due operatori precedentemente formati

• svolgimento di attività parallele condotte nelle classi dagli insegnanti su unbreve programma fornito da La Maieutica, per la continuità didattica del-l’intervento

• recita conclusiva scritta e interpretata dai bambini dei club, con la parteci-pazione dei loro genitori e di bambini e insegnanti di tutte le classi

• retest del TMA, somministrato ai bambini dei club e a un gruppo di control-lo per la verifica dei risultati

il retest e i risultati ottenuti

Al termine dell’intervento realizzato ci siamo resi conto quanto L’isola che c’èabbia rappresentato un’esperienza che va al di là del progetto in sé: da un la-to ci sono i risultati positivi ottenuti, che si misurano e si visualizzano in mo-do significativo attraverso i grafici che presentiamo nel paragrafo successivo;dall’altro c’è tutto ciò che è stato studiato direttamente sul campo dagli ope-ratori e che si è concretizzato in un’infinità di osservazioni, emozioni, testi-monianze, accomunate dalla constatazione che quanto si stava realizzandosettimana per settimana conduceva per mano ogni bambino da una ‘isola’ di

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giochi e serenità a una penisola – la sua casa, la sua classe, il suo gruppo – co-lorata diversamente.Per non cadere nell’autocelebrazione, abbiamo deciso di considerare L’isolache c’è un laboratorio aperto, l’inizio della sperimentazione di un modello cheparte da quest’esperienza e dalla riflessione di questo lavoro. Mettiamo a dispo-sizione il nostro contributo (rapporti e istogrammi, suggestioni e riflessioni) de-dicandoli, per tutti i bimbi, a quella bambina piccola e minuta di una scuola diperiferia che un giorno, guardandoci seria e compunta dopo una discussioneinteramente dedicata all’impegno e alle strategie da utilizzare per superare ledifficoltà, ci ha detto: “si può affrontare tutto, ma toccare gli insetti propriono!”

i grafici

Il TMA è stato nuovamente somministrato al termine delle attività ai bambiniche hanno partecipato ai club. Per il rigore scientifico del confronto, i questio-nari sono stati somministrati anche la seconda volta nelle stesse condizioni am-bientali della prima: identico supporto cartaceo, stesse indicazioni di compila-zione, presenza di un’insegnante. Si è inoltre provveduto a confrontare i risul-tati ottenuti dai club con quelli di un gruppo di controllo composto da bambi-ni che avevano partecipato allo screening iniziale ma non inseriti nei laborato-ri, avendo ottenuto punteggi nella norma.

scala dei punteggi del TMA relativi al valore complessivo dell’autostima misurata

< 314 estremamente negativa315-362 molto negativa363-401 lievemente negativa402-515 nella media516-548 lievemente positiva549-572 molto positiva> 573 estremamente positiva

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autostima totale

partecipanti ai club non partecipanti ai club

prima

dopo

378,4

407,9

453 457

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autostima di competenza del controllo sull’ambiente

partecipanti ai club non partecipanti ai club

prima

dopo

60,4

65,3

74,773,1

autostima dell’emotività

partecipanti ai club non partecipanti ai club

prima

dopo

58

65,2

73,973,1

autostima del successo scolastico

partecipanti ai club non partecipanti ai club

prima

dopo

58,9

64,672,5 73,4

autostima interpersonale

partecipanti ai club non partecipanti ai club

prima

dopo61,764,6

73,4 73,1

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Come si può osservare dai grafici, il confronto tra i punteggi al TMA prima (test)e dopo (retest) le attività dei club evidenziano per i bambini con cui si è lavoratoun incremento significativo dell’autostima; in particolare, il valore medio dell’au-tostima totale (378,4), comprendente l’intero campione di bambini inseriti neiclub, che alla misurazione iniziale si collocava nel range “lievemente negativa”, altermine delle attività si innalza considerevolmente (407,9), rientrando nella nor-ma. Ci piace sottolineare il rafforzamento, anch’esso dimostrato dai grafici, di tut-te le autostime parziali: dall’emotività (+7,2%) al successo scolastico (+5,7%), dalvissuto corporeo +5,5%) al controllo sull’ambiente (+4,9%). Una ritrovata capa-cità del bambino di esprimere in modo sano sentimenti ed emozioni, l’aver trova-to un luogo contenitore – l’isola – dove poter riconoscere, accettare e modulareentusiasmi e insicurezze, aggressività e bisogno di contatto, nella relazione con glioperatori, adulti di riferimento estranei ad ambienti sovrainvestiti affettivamente,la famiglia e la scuola, ha stimolato nel bambino il recupero e lo sviluppo di abili-tà socio-affettive. Non è un caso che ‘apprendimento scolastico-gestione delleemozioni’ sia il binomio delle autostime che migliora in modo più netto con le at-tività dei club, dimostrando per contrasto quanto incentrare programmi e gestio-ne del gruppo classe nella scuola, non soltanto primaria, adottando per lo più mo-

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autostima del vissuto corporeo

partecipanti ai club non partecipanti ai club

prima

dopo62

67,5

75,274,3

autostima familiare

partecipanti ai club non partecipanti ai club

prima

dopo

77,680,7

87,3 86,5

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delli di riferimento che hanno l’obiettivo di mirare esclusivamente alla crescita lo-gico-cognitiva del bambino sia penalizzante per insegnanti e alunni: i primi co-stretti a inseguire per l’intero anno scolastico il completamento del piano didatti-co e impossibilitati dalla mancanza di tempo e programmi ad hoc a occuparsi inmodo sistematico e strutturale del benessere psicologico e della crescita emotivadei bambini; i secondi portati necessariamente a delegare ad altri la propria edu-cazione socio-affettiva, obbligati in una scuola che – come la madre-surrogato infildiferro del famoso esperimento di Harlow – nutre con un erogatore di latte lepiccole scimmie senza però dare loro calore.La validità statistica di questo dato è evidenziata dai grafici relativi al gruppo dicontrollo composto da bambini che avevano partecipato alla fase iniziale di scree-ning, ma senza conseguire punteggi al TMA inferiori alla media e quindi senza es-sere indirizzati nei club; il retest a questi bambini non ha mostrato incrementi si-gnificativi dei valori né totali né parziali relativi all’autostima che anzi, in alcuni ca-si, al termine dell’anno scolastico (periodo di questa seconda somministrazione) sisegnalano in decremento.L’unico l’indice di autostima in crescita nel gruppo di controllo, ma è un incre-mento nettamente meno marcato di quello ottenuto dai club, si riferisce all’auto-stima scolastica; il che sembra confermare la tendenza di un sistema scolastico che,nell’assetto e non di certo nella preparazione e nella sensibilità dei tanti dirigentie insegnanti che abbiamo incontrato, non sembra poter rompere, ascoltando, il si-lenzio assordante di bambini ‘quasi’ perfetti.

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presentazione di un’isola

l’isola della scuola elementare “Chico Mendes”operatori: Maria Luisa Indelicato (tutor)

Michela Iuorio, Pamela Pacitti

analisi del territorio

Il territorio del Municipio VIII, il ‘Municipio delle Torri’, è suddiviso in 10 zo-ne toponomastiche – Torre Maura, Torrenova, Torre Gaia, Torre Angela, Lun-ghezza, Borghesiana, San Vittorino, Don Bosco (parte), Torre Spaccata e AcquaVergine – che si estendono a sudest di Roma, per lo più oltre il grande raccor-do anulare. Questo territorio ha presentato le caratteristiche tipiche dell’agro ro-mano fino agli anni Sessanta, quando si è verificata un’espansione urbanistica in-controllata. La circostanza che diverse aree insediative siano sorte al di fuori deipiani regolatori comporta fattori specifici di disagio sociale (in particolare, la ca-renza di spazi verdi e di luoghi di aggregazione). Alla fine degli anni Novanta ilComune di Roma ha tentato di riqualificare il quartiere attraverso il programmaURBAN, finanziato in parte dall’Unione europea: sono state riqualificate areeverdi e attrezzate alcune piazze. Dal punto di vista edilizio, tuttavia, l’abusivismocommerciale e urbanistico è ancora oggi un problema in gran parte irrisolto.

Nel 2003 il Municipio VIII contava 203.262 abitanti, risultando in assoluto ilpiù popoloso di Roma (vi risiede il 7,23% della popolazione cittadina). Sullabase di dati del censimento Istat della popolazione del 2001, il Municipio è ca-ratterizzato da una densità abitativa relativamente bassa (pari a 17,5), ma conun indice di affollamento di poco superiore alla media romana. Altro dato de-mografico specifico del Municipio è il basso indice di vecchiaia, pari all’82,4%,il minore in assoluto a fronte di un indice medio per Roma del 149,2%. Il Mu-nicipio è dunque il più ‘giovane’ di Roma, con il 18,3% della popolazione com-posta da giovani fino a 14 anni.

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Il Municipio VIII vanta un altro primato, sicuramente poco confortante: dallaricerca effettuata dal Censis per conto della Regione Lazio (La povertà nel Lazio,2002) risulta essere quello con il più alto indice di disagio socio-economico (in-dice di disagio socio-economico pari a 73,6 su 100). Secondo il rapporto, nelMunicipio la mappa del disagio sociale vede sostanzialmente rappresentate tut-te le principali tipologie di disagio. Il territorio è caratterizzato, infatti, da di-spersione scolastica, elevato numero di portatori di handicap e di minori in statodi indigenza, tassi elevati di disoccupazione giovanile e femminile e di lavoro ne-ro. La ricerca evidenzia, inoltre, che in questo territorio è presente la più eleva-ta quota di adulti che ha fatto ricorso all’assistenza economica. In base alle ela-borazioni CNA su dati InfoCamere, al 31 dicembre 2001 sul territorio risulta-no attive 7.053 imprese, pari al 5,2% sul totale di Roma. Il dato è nella mediarispetto agli altri municipi ma, considerando la vastità del territorio e anchedella popolazione ivi residente, si riscontra una densità di impresa relativamen-te bassa (0,6 imprese per ettaro) e un indice di imprenditorialità inferiore allamedia (35,8 imprese ogni 1.000 abitanti contro il dato medio di 48,1). Dall’in-dagine del CNA emerge una spiccata vocazione del territorio per l’impresa ar-tigiana, che annovera 3.130 imprese (44,4% sul totale delle imprese). I mestie-ri artigiani più diffusi sul territorio sono legati ai settori dell’edilizia (842 impre-se, pari al 27% delle unità artigianali), dell’impiantistica (488 imprese) e deitrasporti (316 imprese). Anche il settore del commercio riveste un ruolo impor-tante per l’economia locale con 2.619 imprese, pari al 37% del totale.

Da una ricerca condotta all’interno del Programma di Iniziativa ComunitariaURBAN Italia Sottoprogramma Roma sul tessuto produttivo del territorio, ri-sulta che le diverse aree locali presentano caratteristiche economiche e produt-tive molto diverse tra loro.

la scuola

L’edificio è situato in una strada interna del quartiere di Torrenova; la scuola hadavanti un cortile interno con un piccolo anfiteatro, fuori dal quale i genitori siaffollano aspettando i bambini al termine dell’orario scolastico.

La strada, via Poseidone, è molto tranquilla; soltanto negli orari di entrata euscita della scuola si riempie di macchine e di persone. La struttura è modernae confortevole, le aule grandi e luminose, il personale scolastico molto simpati-co e disponibile. Nei corridoi e per le scale si notano lavori e cartelloni fatti daibambini che aggiungono una nota di colore alla struttura.

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rapporti con gli insegnantiLa dirigente e le insegnanti coinvolte si sono mostrate gentili e interessate alprogetto, pur con qualche differenza di atteggiamento: alcune sono state piùsocievoli e collaborative nel corso degli scambi (prima dell’inizio del club,quando andavamo a prendere i bambini in classe) e hanno arricchito le nostrevalutazioni iniziali con informazioni sugli alunni (situazione familiare, anda-mento scolastico, comportamento in classe); altre sono state più rigide e distan-ti nelle interazioni, ma tale atteggiamento si è modificato durante le riunionisvolte a metà percorso. In quest’occasione abbiamo avuto modo di notare unserio interessamento verso i bambini, un impegno a sostenerli nelle loro diffi-coltà e una spiccata sensibilità verso ognuno di loro.

rapporti con i genitoriGli incontri con i genitori sono stati abbastanza frequenti e alcuni in particola-re si sono dimostrati interessati al progetto e sensibili alle difficoltà dei proprifigli. Spesso venivano prima dell’uscita dalla scuola e chiedevano di parlare conil tutor del club. Nel corso delle riunioni svolte durante il progetto hanno tal-volta chiesto consigli pratici su come comportarsi con i bambini e si sono an-che realizzati utili momenti di confronto tra genitori.

valutazione iniziale dei bambini

Abbiamo soprannominato la porta delle classi coinvolte la ‘porta magica’, per-ché il comportamento dei bambini si modificava nell’attraversare la soglia: tan-to composti, educati e silenziosi in classe, quanto vivaci e incontenibili al difuori.I bambini del club frequentavano la III e IV elementare; il gruppo era costitui-to da 9 elementi, di cui 6 maschi e 3 femmine. Erano presenti un bambino diorigine egiziana e una bambina rom; considerata l’alta presenza di bambinistranieri nella scuola si tratta di una percentuale bassa, dato del resto confer-mato dalle altre scuole, secondo cui l’identità culturale non è una variabile con-nessa al deficit di autostima. L’impressione iniziale è stata quella di un gruppocurioso ma timido: alcuni erano più riservati e con maggiore difficoltà a met-tersi in gioco, altri più vivaci e spigliati sin dall’inizio. Molti bambini hanno evidenziato un rapporto difficile con il proprio corpo.Un’attività prevedeva, ad esempio, di presentarsi con un aggettivo scelto trauna lista da noi proposta: alcuni si sono definiti ‘brutti’, anche se l’aggettivonon era compreso nell’elenco. Le femmine si sono dimostrate molto collabora-tive e tranquille; fisicamente apparivano più grandi dei compagni e partecipa-vano attivamente a tutte le attività del club. I maschi invece avevano sicuramen-

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te un comportamento più vivace, esprimevano maggiori difficoltà a stare sedu-ti e spesso giocavano tra di loro rincorrendosi e fingendo di lottare. Alcuni bambini erano caratterizzati da tratti di iperattività e difficoltà di con-centrazione, mostrando di prediligere i giochi di movimento e le attività musi-cali; altri mostravano un comportamento inibito, insicuro, cercando semprel’approvazione dell’adulto. All’interno del gruppo si è distinto un bambino, F.,che manifestava molte difficoltà nell’interazione con gli altri; la sua tolleranzaalle frustrazioni era molta bassa e andava facilmente in crisi, isolandosi e distur-bando le attività. Amava disegnare e inventare storie; ha una spiccata intelligen-za, ma se il suo lavoro subiva interferenze si bloccava e si innervosiva, trince-randosi dietro l’armadio o creandosi mura artificiali. Richiamava spesso l’atten-zione delle operatrici, che cercavano di consolarlo e riportarlo nel gruppo; que-sto suo comportamento ha provocato alcune difficoltà e rallentamenti nel cor-so dei primi incontri, ma è gradualmente migliorato con le attività musicali chesi sono dimostrate efficaci nel rasserenarlo (in particolar modo i richiami degliuccelli).

rapporto delle attività del club

Inizialmente ci è stata assegnata l’aula della scuola materna al piano terra; que-sto setting pieno di giocattoli, stimoli e distrazioni per i bambini ha rappresen-tato un elemento disturbante per l’andamento del club, tanto che è stata chie-sta la disponibilità di un’altra aula. Il club si è così spostato nella stanza del ci-neforum, sicuramente più idonea.Le attività proposte durante il club sono state accolte in maniera positiva. Inparticolare l’attività di drammatizzazione – il cui scopo è la creazione di situa-zioni familiari o scolastiche, in cui il bambino può identificarsi per poi elabo-rare emotività e bisogni – suggeriva di inventare una scena in cui si assisteva aun rimprovero a scuola o in famiglia, oppure a una lite tra amici. Alcuni bam-bini hanno impersonato il maestro, altri lo studente che non era riuscito a svol-gere il compito perché troppo difficile, altri ancora i genitori.Il gruppo, dopo i primi incontri, si è presto mostrato coeso: un bambino, sen-tendo che una sua compagna di club si era definita ‘brutta’, le ha detto “non èvero, non sei brutta!”, ripetendolo più volte; quando un altro criticava il pro-prio taglio di capelli (“sono troppo corti, ho la testa a pera...”), alcuni compa-gni sono intervenuti dicendogli che sembrava invece un attore della tivù. Daciò si deduce l’importanza del rinforzo da parte del gruppo di pari e lo svilup-po della socializzazione tra bambini che prima non si conoscevano. Il bisognodi conferme riguardo il proprio aspetto fisico, ma anche il comportamento ole proprie capacità, è emerso più volte nel corso di tutti gli incontri. Nell’ulti-

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mo, in particolare, un bambino ha chiesto ripetutamente e singolarmente aciascun operatore: “come sono andato oggi?”, “pensi che sia stato bravo?”;naturalmente è stato rassicurato e lodato nel suo comportamento, ma ci hacolpito l’insistenza di tali domande che denotavano la necessità di continueapprovazioni.

Se lo scopo delle attività musicali è quello di usare la musica come mezzo perla socializzazione, per superare situazioni di emotività o di disagio, i risultati so-no stati evidenti sin dal primo incontro: goffaggini e imbarazzi presenti in alcu-ni bambini hanno lasciato spazio a energia e vitalità. Sicuramente nel club ab-biamo notato una prevalenza di bambini insicuri rispetto al loro aspetto fisico,ma al termine delle attività gli eventuali movimenti goffi e le aritmie non eranopiù motivo di imbarazzi o derisioni; le attività musicali proposte volevano esse-re uno strumento per tirare fuori quello che è già innato nel bambino stesso at-traverso il movimento naturale del corpo, la voce, l’andatura ed esercizi comela marcia o l’ascolto di suoni differenti: attività semplici, ma allo stesso tempocoinvolgenti ed estremamente liberatorie proprio per quei bambini che espri-mevano maggiori disagi con la loro corporeità.

A circa metà degli incontri i bambini hanno socializzato fra di loro e hanno im-parato a conoscersi meglio. Nello svolgimento del problem solving, momento incui dovevano stare in circolo e imparare a discutere insieme, c’è stata qualchedifficoltà nel formare un gruppo unito: molti bambini presentavano forti resi-stenze a parlare di sé, in alcuni casi non parlavano affatto, in altri deviavano ledomande. Abbiamo allora escogitato un metodo che consentisse loro di abbas-sare le difese: mentre svolgevano un lavoro manuale, come un disegno oppureun lavoro con il das o con il pongo (attività molto apprezzate), li invitavamo aparlare dell’argomento proposto in quell’incontro. In questo modo è stato piùfacile creare tra di loro uno scambio, si sono sentiti più sicuri; in alcuni bambi-ni, tuttavia, sono rimaste forti resistenze.

risultati finali

I risultati generali hanno evidenziato un significativo incremento di autostimanel gruppo; i dati statistici segnalano un miglioramento in particolare nelle areedella competenza del controllo sull’ambiente, dell’emotività e del vissuto cor-poreo. Alcuni hanno migliorato anche l’area dell’autostima interpersonale, di-mostrando che aver partecipato alle attività li ha aiutati a socializzare, a con-frontarsi con compagni di altre classi e con gli operatori. Dopo la metà degli in-contri i bambini hanno imparato a conoscersi meglio, hanno sviluppato più si-

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curezza nell’esprimere i loro sentimenti; e questo è valso tanto per i più timidi(ad esempio una bambina che nei primi incontri era letteralmente bloccata, in-capace di partecipare a qualsiasi gioco di gruppo e fortemente introversa anchecon noi operatrici), quanto per quelli più vivaci e attivi che, a poco a poco, han-no valorizzato le loro caratteristiche esprimendo apertamente pensieri, deside-ri e anche comportamenti. I più goffi hanno imparato a esprimersi e a esibirsiimprovvisandosi attori e superando sensazioni di imbarazzo e inadeguatezza;quelli con tratti di iperattività e difficoltà di concentrazione sono, al contrario,riusciti a portare a termine dei compiti e ad ascoltarsi all’interno del circle time.Le attività sono culminate nella preparazione dello spettacolo finale, in cui ibambini hanno interpretato, travestiti da extraterrestri, scenette preparate nelcorso degli incontri. Ciò ha comportato in alcuni il superamento della difficol-tà di imparare e recitare un ruolo, in altri il piacere di esibirsi e mostrare aglialtri bambini, ma anche a genitori e insegnanti, i risultati del proprio lavoro.

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i bambini e la televisione

All’interno delle discussioni nei club abbiamo trattato un argomento che toccada vicino il mondo dei bambini, li condiziona e li spaventa, e sta accanto a lo-ro ogni giorno: il rapporto con la televisione.Per creare un’uniformità nei diversi gruppi, abbiamo adottato il modello delfocus group, secondo il quale il conduttore apre una discussione e non forniscerisposte, ma ascolta e solo in un secondo tempo cerca di trarre delle conclusio-ni finali, individuando punti comuni e differenze nelle argomentazioni emerse.Nel nostro caso il focus group verteva su tre diverse domande, che sono stateposte allo stesso modo a tutti i bambini dei club.

con chi guardi la televisione?Le risposte a questo quesito evidenziano una situazione piuttosto triste e sconfor-tante, perché la maggior parte dei bambini affermava di guardare la televisioneda solo; qualcuno la guarda in compagnia di un amico o di un fratello, e solo inpochi hanno risposto che in genere stanno insieme ai genitori o all’intera fami-glia. Un bambino ad esempio, per evidenziare il senso di solitudine, ha usato laseguente espressione: “la guardo con il divano, il telecomando e l’anima mia”.

cosa ti fa paura quando guardi la televisione?Da questa domanda è risultato chiaro come i bambini abbiano accesso a tutti itipi di programmi, anche quelli decisamente non adatti alla loro età. Il fatto chela fruizione avvenga in una situazione di solitudine è particolarmente grave,perché la presenza di un adulto può aiutare a superare lo spavento o a capireimmagini e contenuti non chiari. Occorre tenere presente che la mente delbambino costruisce sempre delle teorie per spiegarsi il mondo che lo circonda:

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figuriamoci quali idee può sviluppare quando si trova a confrontarsi, senza al-cun aiuto, con una realtà virtuale violenta e nociva!In ogni caso, inizialmente molti bambini dei club rispondevano di non averpaura di niente, probabilmente per mostrarsi forti e sicuri davanti a agli altri.Ma nel corso della discussione le difese devono essersi abbassate: tutti hannoespresso liberamente il loro pensiero, confortati dalla scoperta che anche icompagni spesso si spaventano davanti alla televisione e che quindi non vi èmotivo per vergognarsi di queste sensazioni. Il programma più amato e allo stesso tempo più temuto è per tutti quello delwrestling: i bambini affermano di aver paura quando un lottatore si fa male op-pure quando si vede il sangue, in particolar modo se ad essere ferito è il loropersonaggio preferito. In generale incutono timore tutte le scene di violenza presenti nei film, soprat-tutto quelli horror: i bambini conoscono e hanno visto, sempre da soli, diversifilm del genere e hanno raccontato diverse scene raccapriccianti che li avevanomolto spaventati, pur non avendolo mai ammesso. Per loro costituisce quasiuna prodezza vedere questo tipo di film, nonostante ciò influenzi negativamen-te il loro equilibrio psichico. Quello che stupisce è la libertà e la facilità con cuihanno accesso a film che nelle sale cinematografiche sono vietati ai minori diquattordici anni. Alcuni ci hanno addirittura confidato di essere particolar-mente interessati, e di scegliere appositamente, i programmi segnati con il pal-lino rosso (adatti solo a un pubblico adulto), cosa che invece di rappresenta-re un deterrente diventa anzi un’attrattiva. Ad esempio, in diversi casi ci han-no raccontato scene di un film che sembra averli molto spaventati, dove si nar-rava la storia di un pagliaccio che tagliava la testa alle persone: chi dovrebbeportare allegria e protezione porta invece dolore e morte... Forse questo pa-gliaccio potrebbe rappresentare la figura dell’adulto incapace di tutelare e pro-teggere chi è ancora piccolo e fragile. In una minoranza di casi qualcuno ha anche riferito di aver paura dei film por-no, anche se non sapeva poi spiegare che cosa lo spaventasse.

cosa fai se qualcosa ti fa paura?A questa domanda sono state date le risposte più varie e più fantasiose, ma so-lo una minoranza di bambini ha affermato di chiedere aiuto ai genitori: in ge-nere spengono la tivù, cambiano canale o qualche volta piangono; alcuni inve-ce interagiscono direttamente con la televisione sferrando un calcio o un pugnoallo schermo, baciando il loro personaggio ferito o addirittura salvando con lafantasia chi è in difficoltà (per esempio nel film Titanic). Altri si nascondono inun angolo protetto, sotto il letto o in bagno; ma molti restano immobili, sopraf-fatti dalle immagini e incapaci di reagire. Un bambino per esempio ha detto:“mi paralizzo e non riesco a far nulla”.

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In sintesi, sembra risultare un dato allarmante: la maggior parte dei bambiniguarda la televisione da solo e ha accesso a film violenti o thriller. Non avendonessuna guida, difficilmente i bambini possono elaborare dentro di sé le imma-gini viste, ritrovandosi invece a mettere in atto reazioni paradossali e inadegua-te, come interagire con un oggetto inanimato, che purtroppo ha assunto il ruo-lo di amico e compagno.

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chi è di scena?

recita conclusiva della scuola elementare “Guglielmo Marconi”i bambini del club

il soggetto

I betini, bambini che vivono sul pianeta Beta, osservano con curiosità la vitadei bambini terrestri: la sveglia, la colazione del mattino, la scuola, le liti fra fra-telli, gli amici.Le scene dei bambini ‘terrestri’ prendono spunto da quelle ideate dai bambininel club; sono la rappresentazione di conflitti, insicurezze e problemi che cihanno mostrato i bambini con problemi di autostima: litigi fra genitori, rimpro-veri degli insegnanti, prepotenze degli altri bambini.I bambini del pianeta Beta, che abitano un mondo sereno, guardano con stu-pore questi quadretti scenici e fanno da pacieri, trasformando l’esito di ognistoria con una bomboletta magica che spara coriandoli (il Tranquillino).Alla fine i betini vorranno conoscere i bambini terrestri e li porteranno con il‘teletrasporto’ sull’Isola che c’è, un luogo dove tutti sono amici e dove, soprat-tutto, nessuno si sente escluso. La recita si conclude con un grande girotondo,invitando tutti gli spettatori sulla scena.

il copione

un operatore: Questa semplice recita è la conclusione delle attività svolte nelnostro club, all’interno del progetto L’isola che c’è. Presenteremo delle scenetteemerse nel corso delle attività di drammatizzazione, i personaggi sono estremiz-zati e caratterizzati per meglio evidenziare il punto di vista dei bambini, a con-tatto con le difficoltà della vita quotidiana.

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Siamo sul pianeta Beta. Un cartello indica: “Benvenuti sul pianeta Beta”. Ungruppo di quattro bambini (Dex, Flex, Bex e Glex) cammina pensieroso su e giù.I bambini sono degli abitanti di questo pianeta; saranno quindi vestiti adeguata-mente, per esempio con delle antenne in testa!

Dex: Cosa facciamo oggi?Flex: Già, organizziamo un gioco!Bex: Prendiamo i nostri monopattini volanti e giriamo per la galassia!Glex: Noo! L’abbiamo già fatto ieri! Perché non guardiamo cosa fanno queibambini strani di quel pianeta...Dex: I bambini della terra!Flex: Sìì! Hanno sempre tanti problemi!Bex: Sono molto divertenti.Glex: Potremmo anche aiutarli a essere più sicuri di sé. Dex: Io vado a prendere i Tranquillini!Flex: Io prendo il telecomando intergalattico!Bex: Io prendo il video!Glex: Andate, non vedo l’ora di cominciare!

I betini tornano subito con quattro bombolette spray che spruzzano coriandoli, iTranquillini: sono strumenti magici che quando vengono attivati portano sereni-

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tà; i betini portano anche un telecomando e un video disegnato su un cartellone.Si mettono su un lato del palco, seduti su delle sedie.

Dex: Scegliamo una città...Flex: Accendi a caso e vedi cosa compare!

Bex preme il telecomando nella direzione del pubblico ed entrano tre bambini chesi mettono a dormire.

Glex: (facendo segno di far silenzio) shhh... ci siamo collegati con la città di Ro-ma, vediamo cosa succede... Vedo una bella famiglia, con papà, mamma e fi-glio...

Scena del risveglio. Personaggi: padre, madre, figlio

padre: Vai a svegliare quel dormiglione!madre: Tesoro, alzati! Su, veloce, devi andare a scuola!

Il bambino si volta dall’altra parte.

madre: (con rabbia) Insomma, sbrigati! Sveglia, ché mi fai fare tardi al lavoro!padre: Non è possibile, tutte le mattine la stessa storia! Forza, sennò sono guai!

Il bambino si alza controvoglia e si siede al tavolo per la colazione. Rimane a guar-dare nel vuoto con il cucchiaino in mano.

madre: Oh, ci risiamo, vuoi mangiare o no?!padre: Dai retta alla mamma!figlio: Ma io ho sonno!madre: Bevi il latte!figlio: Ho mal di pancia, voglio stare a casa!padre: Adesso basta lamentele, finisci la colazione!

I betini, rimasti fino a questo momento in silenzio a guardare le scena, alla fineintervengono. Nel frattempo padre, madre e figli rimangono fermi sul palco.

Dex: È ora di intervenire!Flex: Sì, pronti con i Tranquillini!Bex: Uno... due... tre...Glex: Via!

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Tutti e quattro insieme sparano i coriandoli verso la scena del risveglio della fa-miglia e il clima affettivo cambia.

padre: (con dolcezza) Su, dai, lo sai che non possiamo arrivare tardi al lavoro,sennò ci sgridano!figlio: Vi sgridano e vi mettono la nota, come fa la mia maestra?madre: Sì, è così: poi ce la firmi tu la giustificazione?figlio: (ride) No, non vi firmo niente! Va bene, mi sbrigo; ma oggi pomeriggiomi portate al cinema!madre: Va bene, promesso!padre: Adesso andiamo, allora!

I tre personaggi escono di scena.

Dex: Ce l’abbiamo fatta!Flex: Siamo stati bravissimi!Bex: Manda avanti, vediamo cosa succede a scuola!Glex: Sì, state zitti però!

Scena della scuola. Personaggi: la maestra e tre alunni

maestra: Tutti seduti! Fatemi vedere il diario: avete fatto firmare l’autorizzazio-ne alla gita di domani?bambino 1: (molto timidamente) Me lo sono dimenticato! Mi dispiace!maestra: (grida) Non è possibile! Dammi il diario che ti metto una nota! Mi erotanto raccomandata! Chi altro si è dimenticato?bambino 2: (con le lacrime agli occhi) Maestra, ma... mi dispiace... io...

I betini sparano i coriandoli.

maestra: Va beh, adesso non piangere, facciamo firmare i tuoi genitori all’usci-ta di scuola. Sai, senza firma non si può partecipare alle gite, per questo mi di-spiaceva. bambino 2: Allora sei contenta se vengo? Posso venire?maestra: Ma certo che sono contenta! (gli carezza la testa)

I tre personaggi escono di scena.

Dex: Evviva, hanno fatto pace!Flex: Speriamo che domani si divertiranno!

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Bex: Sennò dobbiamo intervenire di nuovo!Glex: Shhh... guarda cosa succede in quell’altra classe!

Due bambine danno fastidio a un compagno

bambina 1: Che belle guance! (e gli dà un pizzico)bambina 2: Che cos’hai nei capelli? (e gli tira i capelli)bambino: Basta, smettetela!bambina 1: Non lo soffri, il solletico? (e prova a farglielo)bambina 2: Mi fai vedere il tuo diario? (e prova a prendere il diario del bambi-no, che cerca di ribellarsi)bambino: Basta, sennò la maestra ci sgrida!maestra: Allora, tu! (indicando il bambino e chiamandolo per nome) Cosa staicombinando? Non stai mai attento, dovrò parlare con i tuoi genitori!bambino: Maestra... ma non è colpa mia...maestra: Non voglio scuse, dammi il diario che scrivo una nota!

I personaggi restano fermi.

betini: (insieme) Forza, spariamo! (sparano i coriandoli)

La scena ritorna a scuola.

bambina 1: Veramente, maestra, era colpa mia, che gli stavo facendo i dispetti!bambina 2: È vero, lui non ha fatto niente; anch’io gli davo fastidio!maestra: Va bene, siete state oneste a dire la verità. Per questa volta non puni-rò nessuno! E tu (rivolta al bambino) scusami, ma non avevo capito cos’era suc-cesso.

I personaggi escono, restano i betini.

Dex: Anche questa volta siamo riusciti a far fare la pace!Flex: Sì! Certo, quanto litigano questi terrestri!Bex: Forse lo fanno per insicurezza.Glex: Vediamo cosa fanno i bambini il pomeriggio!

Una lezione di danza

maestra: Su, in posizione... Plié!bambina: Sono stanca; non ci riesco, non ne sono capace!

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maestra: Su, ti fa bene; niente storie!

I bambini eseguono i passi controvoglia facendo male gli esercizi.

betini: Uno, due, tre... via!

I betini sparano i coriandoli.

maestra: Ho capito, cambiamo musica!

Mette le musica del gatto e del topo. I bambini corrono in cerchio e mimano l’u-no o l’altro animale, a seconda della musica.

Dex: Però sono simpatici!Flex: Sì, a me piaceva quando facevano i gatti!Bex: A me invece piacevano i topi!Glex: Ma quei bambini lì, che fanno?

Viene portato un cartello con la scritta “psicologo”Entra un bambino, con l’aria seria, che fa lo psicologo e di seguito altri bambini

che fanno i pazienti

psicologo: Allora, bambini: seduti a terra!

I bambini si siedono.

psicologo: Ditemi, cosa provate quando litigate con un compagno?

I bambini restano tutti zitti.

psicologo: E tu? (indica un bambino) Come mai non parli, sei timido?

I bambini alzano le spalle, poi si alzano e dicono:

bambini: Scappiamo! (corrono in circolo mentre lo psicologo li insegue)Dex: Svelti, spariamo!

I betini sparano i coriandoli. I bambini si fermano.

psicologo: Sono stanco! Fate quello che volete!

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bambino 1: Facciamo un gioco tutti insieme!bambino 2: Sì, basta con le domande, facciamo il gioco dell’altra volta!bambino 3: Quello che ci inventiamo delle storie e poi le recitiamo!bambini: (insieme) Sì, quello, evviva!

Escono tutti di scena.

Dex: Mi sono proprio divertito!Flex: Mi piacerebbe tanto conoscerli, questi terrestri!Bex: Ma come possiamo fare?!Glex: Io ho il ‘teletrasporto’. (tira fuori una torcia accesa) Partiamo! (si puntanola luce accesa addosso)

Altri bambini portano le decorazioni (delle palme, il cartellone) perL’isola che c’è

Dex: Dove siamo?Flex: Sulla terra! È l’isola che c’è!Bex: Ma qui non c’è nessuno!Glex: Adesso li chiamo io! (punta la torcia verso un punto da dove entrano tut-ti i bambini)bambino 1: Ma dove siamo?bambino 2: Cosa è successo?bambino 3: E chi sono quelli?Dex: Siamo del pianeta Beta!Flex: Già, vogliamo solo conoscervi!Bex: Siete simpatici, giochiamo tutti insieme!Glex: Già, qui è il luogo dove tutti vengono ascoltati e nessuno viene escluso!bambino 1: Va bene, giochiamo!bambino 2: Facciamo un girotondo! (e prende per mano un betino)bambino 3: Qualcuno lì sotto vuole unirsi a noi? (e indica il pubblico)

Girotondo a tempo di musica.

Fine

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graffiti

Dalle frasi che i bambini hanno detto o hanno scritto emerge il coinvolgimentoemotivo con cui hanno partecipato ai club, l’impegno che hanno posto nelle ri-flessioni e nelle discussioni che venivano proposte dagli operatori, il desideriodi esprimere le loro difficoltà e le loro paure. In particolare ci hanno colpito daun lato la gioia e la capacità di dimostrare i propri sentimenti, dall’altro il sen-so di ingiustizia e di impotenza provato dai bambini in diverse circostanze del-la vita quotidiana. Già, perché l’infanzia non è un mondo beato e incantato, maun mondo difficile, sospeso fra realtà e fantasia, all’interno del quale i bambinisviluppano visioni e interpretazioni della realtà originali e profonde. Riportia-mo dunque qui di seguito alcuni ‘graffiti’, senza commenti o correzioni, che an-drebbero letti con la mente libera e aperta, per provare a entrare senza pregiu-dizi nell’universo infantile; universo che in passato ci apparteneva, ma che conil trascorrere del tempo abbiamo sempre più abbandonato e dimenticato.Proviamo allora a riscoprirlo.

Facciamo il gioco del gomitolo per fare la pace?Questo è il più bel gruppo cui io abbia mai partecipato!Qui siamo liberi di fare tutto ciò che vogliamo.Facciamo le scene di lotta!È bello stare in gruppo perché si conoscono nuovi amici e ci si aiuta.Per fare pace do il cinque!Per fare pace bisogna parlare… io adesso vado a trovare un mio amico per fare la pace.Un vero amico non dice mai in giro i miei segreti.Mio padre mi rimprovera al posto di mia sorella, perché lei è più piccola e io devo esserepiù brava.Vorrei abitare in un castello.

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Vorrei diventare una persona famosa.Vorrei fare un video con i Blue!Si può affrontare tutto, ma toccare gli insetti proprio no!Vorrei avere una villa, un bel marito e dei figli.Un bambino mi dice sempre brutta e cicciona, un giorno di questi faccio i conti con lui.Da quando mia sorella è nata combina sempre guai e i miei genitori sgridano me; per esem-pio ieri ha rotto la brocca e hanno dato la colpa a me.Noo! È finita l’isola! L’Isola che c’è non può finire!Vi manderò una cartolina da Rimini a Mirabilandia! Ciao!Mi sono divertito tanto! Vi voglio bene!Io non mi scordo mai le parole cattive; io ho un piccolo diario nero in cui ho scritto tuttoe quando sarò grande mi vendicherò.Bravo! Come hai fatto a indovinare? – Perché l’ha detto lui!Cosa ti fa arrabbiare in un amico? – Quando mi dicono che faccio la fanatica e non è vero.Io mi sento buona…Grazie, grazie, siete bravissimi e ci fate fare cose belle, ci divertiamo molto.Siete mitici, ci vediamo martedì!Roma sei grande e sei bella.Sono ammesse anche le grandi parolacce!Vi voglio bene a tutti e tre e vorrei venire qui ogni giorno...Mi piace stare con voi tranne quando Simone e gli altri strillano.È questa la classe dell’autostima?Vi devo un favore… mi avete salvato da una brutta sgridata!Forse a volte ho fatto degli scherzi troppo pesanti, però non possono escludermi così.Perché non ti arrabbi? – Perché mi dovrei arrabbiare? Perché facciamo rumore, siamostupidi, dovresti arrabbiarti.Anche se prendo sempre buoni voti, non me li aspetto mai.La mattina quando abbiamo sonno ci sgridano perché siamo lenti. È ingiusto.In casa non c’è posto per i miei libri, perché ho tanti fratelli.Quando mio fratello mi dà uno schiaffo perché è nervoso, io mi vendico e gli do una sber-la e mia madre mi vede; quindi mi dà un calcio nel sedere.Quando mi fanno un rimprovero ingiusto mi sfogo battendo la testa al muro.Un giorno stavo a casa. Mio fratello piccolo mi ha rubato il mio gioco preferito. Gliel’hodetto alla mamma. La mamma ha rimproverato a me. Io ho pianto molto e mio fratello miprendeva in giro. Oggi c’è stata una festa grandiosa ed ho ricevuto un regalo.Oggi è la più bella giornata della mia vita.Oggi è venuta una nuova signorina e questa giornata mi è piaciuta più delle altre!La mia nonna parla troppo; quando le dico “stai zitta!”, si arrabbia e mi dice le parolacce.E mamma si è arrabbiata con me tantissimo.Sì, prova a svejatte a casa mia la notte e vedi mi nonna ar bagno; vojo vede’ se nun c’hai paura!Sono un mito! Sono un mito! Cià cià cià!All’isola fagiolo ho imparato a essere un fagiolo e una bistecca.Bisogna sempre aiutare gli animali handicappati.Se mia madre mi rimprovera, la chiudo fuori di casa; così capisce.Un modo per reagire a un rimprovero ingiusto è stato quando ci avete consolato quandoeravamo stati sgridati.

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Mi ricordo la lezione benissimo quando la racconto a mia madre; ma quando mi interro-gano non ricordo più niente.Sono contento di non essere sfortunato; mi piace essere nato in questa famiglia.Positivo è che sono sociale, ma sono sfortunata perché ho un fratello.Quando mi prendono in giro, penso che è vero; di positivo ho che se dico una cosa. Sonosicura che la faccio.I bambini non sono schiavi, sono delle povere creaturine indifese...Bisognerebbe dare la patente ai bambini.Vorrei che i genitori diventassero bambini e i bambini genitori…Vorrei chiedere alla fata turchina di far sparire la scuola.Ci andiamo a fare una pizza?Ora mi sento più confidente!Prima mi sfogavo con mia sorella, ora ne parlo con qualcuno.

Differenze fra maschi e femmineI maschi sono maleducati perché fanno cose sporche.Nella storia gli uomini sono sempre stati più forti delle donne.Dicono tutti che le femmine sono più delicate, ma non è vero.Anche i maschi possono imparare a cucinare.Maschi e femmine sono uguali perché la forza interiore è più forte di quella esteriore.

Piccole novelleC’era una volta una bambina pigra molto dormigliona di nome Mimì, che non voleva maialzarsi dal letto; ma la matrigna brutta e antipatica gli diceva che doveva andare a scuola.Mimì continuava a dire di no e il maggiordomo brutto Dankan, visto che erano ricchi, sot-tomesso alla matrigna scorbutica, doveva premere un bottone per schiacciare Mimì e ucci-derla. Il papà era in America e non sapeva nulla. Ma era triste e scontento di non vedereMimì. La matrigna, tutta contenta, si sbarazza di Mimì e la sotterra. Il papà arriva, tornaa casa e sistema tutto, caccia la matrigna e fa reincarnare e liberare Mimì.

C’era una volta una famiglia di ricchi fantasmi defunti di cognome Demortimer che viveva-no in una vecchia necropoli di una vecchia ferrovia. Il papà si chiamava Marcus Criptus, lamamma si chiamava Diava, il figlio si chiamava Re dei Lich, la figlia Schifia.Tutti si rimproveravano a vicenda ed erano sempre arrabbiati. I motivi erano: non metteva-no a posto i vestiti, non scaricavano il gabinetto, non sparecchiavano la tavola ecc. Deciserodi andare dal dottor Psaico De Mattis, psicologo, per risolvere il loro problema. Il dottore gliconsigliò di lavorare in gruppo per mettere a posto la casa. E così risolsero i loro problemi.

C’era una volta un Alessandro tonto. Menava a tutti, diceva le parolacce alla maestra, per-ché voleva essere il più grande di tutti. Un giorno arrivò un bambino nuovo che menòAlessandro. Alessandro si mise a piangere e non fece più il prepotente. Ha avuto la lezio-ne e ha capito che non deve fare più queste cose.

Due bambine incontrano un bambino, che si è trasferito lì da poco: era molto antipatico eprepotente. Un giorno le bambine Laura e Lisa chiamarono Marco; lui le invitò a casa sua epreparò un bello scherzetto. Quando suonarono il citofono, lui gli disse: “La porta è aperta!”.Aprirono la porta e... SPLASH!!! Gli cadde un secchio d’acqua con le rane e le lucertole.

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approfondimenti

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la metodologia di Edgar Willemsper le attività musicali

Ilario Miele – pedagogista musicale

Nel teatro della Grecia antica gli attori indossavano una maschera. Ognuna diesse corrispondeva a un particolare carattere, una sorta di tipo psicologico. Al-l’interno, in corrispondenza della bocca, era presente una specie di imbuto che,in un certo qual modo, deformava la voce di chi la indossava. Non a caso l’eti-mologia della parola ‘personalità’ (dal greco prósopon, maschera, attraverso l’e-trusco phersuna) ci riporta all’importanza che anche noi attribuiamo al ‘tono’della voce nel linguaggio.Quando i contenuti sono fallaci, il ‘come’ – l’intonazione espressiva – si sosti-tuisce ad essi. Se il lessico, nel migliore dei casi, non è capace di dare forma aicontenuti emotivi, il colore delle parole e la tensione sonora comunicano mol-to più efficacemente: ne è una spia il nostro uso del verbo ‘sentire’ nel doppiosignificato di udire e percepire il contenuto emotivo della relazione.Qualcuno affianca all’etimologia greca del termine personalità anche quella latina:per-sona, cioè ‘attraverso i suoni’. La singolarità dell’individuo, la sua personalitàappunto, si esprime nella singolarità del suo modo di usare la voce: con le sue in-flessioni, le sue pause, le sue accelerazioni, le sue perplessità. Per renderci contodi quale importanza è da attribuirsi al suono e alla ‘musicalità’ della lingua, aggiun-giamo che è sostanzialmente impossibile trovare due timbri vocali identici.E ancora, provate a pensare al profondo isolamento che i non udenti vivono ri-spetto al mondo circostante, isolamento molto più profondo di quello di uncieco. Pensate all’impatto che ciò ha sulla relazione. Il primo organo ad avereuna funzionalità pressoché completa nel feto è proprio l’orecchio interno: lachiocciola è ben visibile già a partire da poche settimane dopo il concepimen-to. La relazione col mondo inizia dal messaggio sonoro.

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Avete mai avuto modo di ascoltare il vostro attore preferito doppiato da unavoce che non sia quella cui siete abituati? Pensate alla sensazione di disorienta-mento che un timbro diverso produce sulle nostre percezioni.Pur nella diversità delle lingue, esiste qualcosa di comune e di ‘antico’. Avetemai notato, ad esempio, che il contenuto emotivo del linguaggio è praticamen-te identico in ogni lingua? Percepiamo distintamente se chi parla sta facendouna domanda, sta esprimendo la sua opinione che reputa certa o sta negandocon decisione. C’è stato un tempo in cui i due linguaggi, lessicale e musicale,erano molto più vicini, forse coincidevano. Quando gli essere umani impiega-vano lo stesso termine per designare due concetti totalmente opposti, usavanosemplicemente una diversa intonazione per discriminare i due significati.

Questa breve introduzione ci porta a considerare, in sintesi, la musica come unlinguaggio. Un linguaggio molto evoluto che ha a che fare con la sensorialitàdegli esseri umani e ancor più da vicino con l’affettività, le emozioni.Sappiamo tutti che un bambino durante il suo sviluppo ontogenetico fino all’e-tà adulta ripercorre le tappe dello sviluppo filogenetico dell’umanità. La cono-scenza di questi stadi dà a chi si occupa di didattica e pedagogia, in qualsiasidisciplina, ottime opportunità di intervento. La metodologia Willems ha fattodi più. Su questi concetti ha costruito la sostanza del suo modo di operare coni bambini, ma anche con gli adulti.Non a caso parliamo di educazione musicale. L’etimologia del termine riportaa educere, cioè condurre fuori. Il bambino non è quindi un vaso da riempire diconcetti analitici, spesso staccati dalla vita vissuta, ma un essere in fieri da ri-svegliare. Il risveglio è per noi un concetto cardine, che presuppone – come di-cevamo prima – la conoscenza delle sue tappe evolutive. Lo sviluppo è dunqueun itinerario dinamico che implica potenzialità già presenti, che bisogna ap-punto risvegliare, rendere consapevoli. Il percorso educativo sarà, in sintesi: vi-ta inconscia (vita vissuta), presa di coscienza, vita consapevole. Il punto di par-tenza sono gli ‘archetipi’, le eredità filogenetiche.Facciamo un esempio concreto per chiarire meglio il discorso; vediamo cometrasformiamo l’istinto ritmico in senso ritmico. Dobbiamo però definire primacosa sia il ritmo e un archetipo. La parola ‘ritmo’ deriva dal greco rhytmós, lacui radice è rhéo (scorro). In origine, quindi, legata al movimento. L’andatura, il camminare, è un archetipo. Come sappiamo, i meccanismi che laregolano sono depositati nella parte più antica del sistema nervoso, il midollospinale. La regolarità plastica del nostro passo è eccezionale. In pratica cammi-niamo con tutto il corpo e non solo con le gambe. È una attività globale. Par-tiremo da ciò.Una delle attività Willems è quella dei movimenti naturali. È un’attività che ab-biamo usato spesso anche ne L’isola che c’è. Invitiamo il bambino a camminare

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semplicemente. Con un tamburello seguiamo il suo passo, vale a dire lo sono-rizziamo, magari aggiungendo una semplice melodia con il canto. Il bambinoascolta e si rende conto che le sensazioni propriocettive che gli vengono dallasua muscolatura si sono collegate al suo orecchio. Al suo cervello arriva sottoforma di due modalità sensoriali l’esperienza che vive in quel momento. Se in-terrompiamo il tamburello, nella maggior parte dei casi anche bambini didueanni si fermano immediatamente: ecco il primo atto di consapevolezza. Ripren-diamo a suonare e i bambini riprendono a camminare.Successivamente saremo noi suggerire una scansione e il bambino vi adegueràil suo passo: abbiamo messo in contatto l’ascolto con il movimento; vale a dire,abbiamo raggiunto un grado superiore di consapevolezza. Siamo partiti da undato fisiologico per arrivare a una maggiore consapevolezza del senso del flus-so del tempo.Il bambino, infatti, fino a una certa età non possiede la consapevolezza precisadel tempo che passa, ma la può acquisire partendo dal proprio corpo che simuove nello spazio. Ha bisogno di un dato concreto per arrivare all’astrazione.C’è qualcosa di più concreto di esperire il proprio corpo? Tutto ciò non è so-lamente legato all’educazione musicale ma, come per altri aspetti della metodo-logia, fa parte della formazione pedagogica complessiva.Altri archetipi: la corsa, i salti, il galoppo del cavallo. Quanta gioia nei bambi-ni, partendo dalla semplicità delle sensazioni che il proprio corpo può dare! Equal è la cosa che ci preme maggiormente fare, quando proviamo delle buonesensazioni, se non ‘comunicarle’ a chi ci sta vicino? E magari, così, alla frustra-zione abbiamo sostituito un momento di felicità che, partendo da chi suona iltamburello, passando per il corpo, arriva a chi sta saltando (di gioia?!) per lastanza e viceversa.Cominciamo ora a intravedere un concetto basilare. La musica non è solo suo-nare uno strumento. Sapete perché lo chiamiamo strumento? Perché, in quan-to tale, serve per esplicitare il linguaggio che padroneggiamo a prescindere dal-lo strumento. Così come un bambino parla la sua lingua madre e comunica pri-ma di saperla leggere e scrivere, cioè prima della conoscenza del codice, allostesso modo il linguaggio musicale viene prima dell’esecuzione allo strumento.Non vi sembrerebbe assurdo tenere isolato un bambino dalla lingua madre fi-no all’età della scuola elementare, per insegnargli contemporaneamente a par-lare, leggere e scrivere? Eppure è quanto avviene normalmente con la musica,quando inviamo i nostri figli a imparare uno strumento non prima dell’età sco-lare. “Qual è l’età giusta per imparare la musica?”, chiesero tanto tempo fa adE. J. Dalcroze, pioniere dell’educazione musicale agli inizi del Novecento. Eglirispose: “Almeno nove mesi prima della nascita... della madre”. Se vogliamoche la musica sia spontaneo mezzo di espressione bisogna iniziare, quindi, pri-ma possibile, in età molto precoce. I bambini piccoli sono in una situazione di

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apprendimento globale: sovrappongono tutti i canali sensoriali e percettivi; as-sorbono per impregnazione, ricevono cioè gli stimoli sonori ambientali in mo-do inconscio. Non esiste ancora l’analisi. La logica aristotelica del principio d’i-dentità non interrompe il flusso della vita vissuta; la sensorialità e l’emotivitàguidano la scelta delle esperienze significative. In realtà l’impregnazione inizia,come abbiamo visto, nel grembo materno a partire dalla 14a settimana. Chi sisognerebbe di insegnare a parlare a un neonato iniziando dalla grammatica? Ilbambino acquisisce il linguaggio per il naturale istinto di comunicazione concui viene al mondo. Ecco, noi facciamo lo stesso con la metodologia Willems:partiamo dalla vita vissuta per arrivare alla consapevolezza astratta, passandoattraverso i mezzi fisiologici che il bambino ha a disposizione. Del resto, anchela scrittura della lingua parlata si rifà alla fisiologia. Cos’è la lettera a in corsi-vo, se non la forma della bocca aperta che la pronuncia? La lettera o non ri-manda alle labbra che si stringono ai lati? E la t non ci fa pensare alla linguaappoggiata ai denti, con le labbra sotto?Immaginate quanto questo discorso sia doppiamente valido con i bambini chemostrano una bassa autostima, nei quali prevale una chiusura narcisistica e peri quali perfino il proprio corpo è vissuto come fortemente inadeguato.Il primo contatto con l’educazione musicale è un momento strutturante, siaquando inizia un percorso che si compirà lungo tutto l’arco dell’esistenza sia,come nel caso del nostro progetto, quando percorriamo insieme un breve mo-mento dell’esistenza. Ora, poiché esiste una profonda unità tra gli elementi co-stitutivi del linguaggio musicale e la natura umana, l’educatore deve passaredalla sintesi inconscia del bambino, dal suo modo di recepire l’esperienza glo-balmente, alla sintesi cosciente della pratica musicale. Il primo passo è di ordi-ne sensoriale: i sensi raccolgono i dati; ma l’esperienza è tale solo se è veramen-te vissuta. Il modo migliore è incentivare il piacere del bambino; il bambino de-ve andare incontro alla musica con profonda gioia. Il suo desiderio di entrarein relazione trova allora un canale non verbale sensoriale ed emotivo.È chiaro quindi che l’ideale willemsiano presuppone uno scambio in due direzio-ni, all’interno del quale la musica si pone come vettore. Non a caso Edgar Wil-lems parla di partecipazione attiva: il bambino deve avere la possibilità di ‘fare’,divenendo così soggetto attivo del rapporto con l’educatore e con i compagni.Naturalmente, stimolare in tal modo la recettività del bambino è un obiettivoraggiungibile solo se entra in gioco l’emotività del maestro. Quando si presen-ta una canzone, ad esempio, si fa leva sulla profonda emotività del bambino: iltesto va a stimolare il mondo fantastico e fantasmatico in cui egli è immerso.Questa molla energetica produce lo slancio necessario a condurlo verso la me-lodia. Se quest’esperienza produce piacere nell’educatore, il bambino vive inprofondità la relazione e memorizza facilmente l’esperienza musicale. Il nostroatteggiamento piscopedagogico privilegia dunque il rapporto umano.

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Questo è quanto ci caratterizza in generale nel rapporto coi bambini e tale at-teggiamento è stato ulteriormente rafforzato nel contatto con bambini con bas-sa autostima. Gli operatori sono stati ancor più disponibili al contatto sincero,a diventare compagni di gioco. Il bambino si è sentito allora naturalmente spin-to a creare, diretto verso la presa di coscienza di elementi che ha utilizzato ini-zialmente per imitazione. La consapevolezza di aver prodotto qualcosa di real-mente apprezzabile e apprezzato ha cominciato a rompere l’isolamento emoti-vo che lo caratterizzava.Per fare questo i nostri strumenti non potevano che essere molto vivi e vitali.

Comprenderemo meglio quanto veniamo dicendo, introducendo le attività chepermettono di raggiungere uno degli obiettivi fondamentali della metodologiaWillems, lo sviluppo uditivo sensoriale e affettivo.Nelle nostre attività utilizziamo uno strumentario molto ricco e vario, che dà lapossibilità di entrare in contatto con tutte le qualità del suono in modo vivo emolto progressivamente. Willems era famoso per l’utilizzo delle campanelle, unmezzo molto potente per risvegliare nel bambino l’amore per il suono e la con-sapevolezza delle stesso. Il primo contatto è proprio con la fisicità delle vibra-zioni: i bambini sono incantati dal suono, è straordinario constatare quanto sia-no attratti da quella che ci sembra una pura curiosità. Per gli orientali le cam-panelle rappresentano spesso un legame profondo con la spiritualità; in occi-dente questa ritualità è rimasta nella celebrazione eucaristica o nelle processio-ni rituali del Sud-Italia, dove spesso le ‘fermate’ della statua del santo sonoscandite da un fedele addetto alla campanella. Partiamo dalla suggestione delsuono per strutturare cognitivamente tutte le impressioni sonore che il bambi-no percepisce.Spesso usiamo i richiami per gli uccelli. In natura molte delle espressioni dellinguaggio musicale umano sono riconoscibili nel canto degli uccelli. L’interval-lo (nel nostro caso due suoni in successione) più vicino alla nostra sensibilità,cioè la terza discendente, non è niente altro che il canto del cucù. Provate a sen-tire come sia familiare per la nostra sensibilità. Ebbene, partire da quanto la no-stra struttura psicofisica ci mette a disposizione non è forse garanzia di profon-do rispetto delle tappe evolutive di ciascun individuo?Altro strumento affine a quanto produce la nostra voce, o la natura stessa coni suoni del vento, è il flauto a coulisse o a stantuffo. Ne facciamo larghissimouso per risvegliare le capacità vocali dei bambini. Lo strumento in questioneproduce un lungo glissando, una salita o una discesa. Mettiamo così in contat-to il bambino con il movimento sonoro, l’elemento base della musica.Usiamo moltissimo anche il tubo sonoro. Si tratta di un tubo di gomma vuotoche produce, se fatto roteare, i suoni dal secondo al sesto armonico. Ora, i suo-ni armonici sono il fenomeno fisico alla base del nostro sistema tonale armoni-

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co. Partiamo quindi da un dato scientifico su cui strutturare il percorso versol’acquisizione del linguaggio musicale, in tutti i suoi stadi. Allo stesso modo, illessico che usiamo all’inizio è molto preciso e aderente al dato di realtà: senzaingolfare inutilmente la mente dei piccoli con nozioni fini a stesse, forniamosemplicemente un’etichetta funzionale a rappresentare quanto prima abbiamovissuto.Le attività sono sempre ricche e variate per tenere sempre desta l’attenzione deibambini. Quanti apprendono che riusciamo agevolmente a lavorare per un’oracon bambini molto piccoli, anche di tre anni, restano sempre perplessi, fino aquando non partecipano a una lezione.

Sinora abbiamo parlato di bambini, ma non ci rivolgiamo solamente a questafascia di età. Del resto, con L’isola che c’è, non avevamo bambini in età presco-lare, ma dell’ultimo ciclo delle elementari. Così come un adulto può avvicinar-si allo studio di una lingua anche in età avanzata, vale lo stesso per la musica. Spesso privilegiamo gli stonati adulti. Sapete di certo che si tratta semplicemen-te di persone che non ascoltano nel modo giusto né ciò che viene loro dall’e-sterno né ciò che producono con la voce, per cui non sono in grado di control-lare la giusta emissione. Bastano pochi incontri per educare anche l’orecchioche sembra più refrattario al canto (quando parlo di orecchio non mi riferisconaturalmente alla funzionalità dell’organo, ma alla percezione di quanto arrivaai nostri centri nervosi).Abbiamo prima parlato di senso ritmico. Anche in questo caso abbiamo a di-sposizione un’infinità di strumenti musicali ritmici attraverso cui stimolare lacreatività del bambino. Ma spesso usiamo semplicemente il corpo. Le mani bat-tute sul tavolo ci permettono di creare moltissimi timbri e combinazioni ritmi-che che, unite alle onomatopee (per intenderci, se battiamo le nocche sul tavo-lo diciamo “toc toc”), creano un ponte tra linguaggio parlato e produzione so-nora che ci permette di rendere consapevole il bambino di ciò che ascolta, me-morizza, riproduce o improvvisa. Naturalmente ai colpi associamo tutte le sfumature agogiche e dinamiche chenormalmente un musicista usa. È importante in didattica della musica, ancorpiù che nello sviluppo complessivo, che il bambino acquisisca lo schema cor-poreo, vale a dire la consapevolezza precisa delle sue possibilità fisiche.Al canto e all’utilizzo della voce attribuiamo una notevole importanza. Vi sonospesso dei bambini che hanno una ristrettissima estensione vocale: non canta-no; mormorano le canzoni o i suoni che vengono loro proposti. Alcuni bambi-ni con autostima molto bassa anche quando parlano hanno una voce esilissima.Nel peggiore dei casi la loro chiusura narcisistica ha influito non solo sulle re-lazioni con quanti li circondano, ma sulla loro struttura corporea: non solo lavoce, ma la stessa figura corporea risente dell’isolamento interiore che essi vi-

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vono. In una scuola fortemente intellettualizzata, in cui il modello autoritario èspesso prevalente, è chiaro che la nostra impostazione psicopedagogica – cheprivilegia la sensorialità e l’affettività – ha dato ai bambini la possibilità di en-trare in relazione attraverso nuovi canali, o meglio canali che erano spesso sot-toutilizzati. In musica, soprattutto nelle attività di base, non si è legati alle nozioni; è mol-to più semplice comunicare emozioni attraverso un linguaggio non verbale, po-co sottoposto a censure più o meno invasive. Una breve improvvisazione voca-le, così come cantare il proprio nome inventando una semplicissima melodia,può costituire fonte di profonda gioia per i bambini. È così usuale essere accol-ti con abbracci e baci all’inizio delle attività che spesso si resta perplessi di fron-te alla capacità, o ritrovata capacità, di amare che i bambini mostrano con tan-ta naturalezza.Nei nostri incontri facciamo uso con molta assiduità e già dalla più tenera etàdella musica colta. Cosa c’è di meglio che attingere ai capolavori di tutti i tem-pi, che rappresentano una sintesi viva del linguaggio musicale? Con i bambinide L’isola che c’è abbiamo usato, oltre a composizioni pensate direttamente perl’espressività corporea e scritte da Edgar Willems, Il carnevale degli animali diCamille Saint-Saëns e qualche brano dal Peer Gynt di Edvard Grieg. Nel pri-mo caso si tratta di musica descrittiva, dove l’autore ha praticamente rappre-sentato alcuni animali. La freschezza e l’immediatezza di queste brevi compo-sizioni stimolano ad associare i movimenti corporei a quanto si ascolta, a rap-presentare spazialmente in modo molto libero e creativo i contenuti emotiviche l’autore ha trasferito nella sua opera. Tutto ciò ha spesso anche una funzio-ne omeostatica: ripristinare l’armonia dei propri movimenti può riequilibrare iritmi bilogici, con ricadute positive anche sui processi fondamentali di organiz-zazione cognitiva. La suite del Peer Gynt costituiva in origine le musiche di sce-na dell’omonima opera di Ibsen. In essa sono tradotti su un piano non verbaletutti i contenuti espressivi del capolavoro teatrale. È molto amata dai bambiniproprio per la forte capacità di mobilitare emozioni. In altri termini, potrem-mo dire che l’ascolto e le altre attività musicali più dirette sembrano essere ingrado di produrre una sorta di ‘e-mozione’, verso l’interno della propria psichee al contempo verso la relazione con l’altro, potenziando e facilitando sia le ca-pacità espressive che la propria disponibilità alla ricezione.Mi piace pensare che, accanto alle consuete maschere della bassa autostima, ibambini con cui abbiamo lavorato dispongano ora anche di qualche personag-gio più positivo da interpretare nel loro viaggio alla ricerca della felicità.

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bullismo e autostima

Elisa Allo, Gaia Zorzi

Il termine bullismo deriva dall’inglese bullying, usato per connotare il fenome-no delle prepotenze tra pari in un contesto di gruppo (Menesini 2000). Conquesto termine si riuniscono dunque in un’unica categoria gli aggressori, le vit-time e il gruppo, ossia gli ‘spettatori’. Studi sull’argomento hanno sottolineatola differenza fra le modalità di prevaricazione dirette – fisiche o verbali (calci,pugni, insulti o prese in giro) – e quelle di tipo indiretto o psicologiche, comel’esclusione e la diffusione di calunnie. Altri studi hanno mostrato come il fe-nomeno del bullismo 1) sia più incidente nella sua forma tra i soggetti maschie 2) più diffuso nelle modalità indirette tra le femmine (Fonzi 1997).Esistono tre fattori che caratterizzano determinati comportamenti come atti dibullismo: l’intenzionalità, intesa come coscienza e volontà di recare un dannocon l’offesa; la ripetitività, ovvero il ripetersi nel tempo dell’offesa; l’asimme-tria nella relazione fra vittima e bullo, intesa come una disuguaglianza di forzafra il bullo e la vittima incapace di difendersi (Olweus 1993, Menesini 2000).

I dati di numerose ricerche, condotte in Italia e all’estero negli ultimi venti anni,sono scoraggianti, poiché il fenomeno sembrerebbe avere un’incidenza elevata inogni parte d’Europa: basti pensare che in Spagna e in Norvegia almeno il 15%degli alunni di scuole primarie e secondarie è coinvolto in episodi di bullismo,nel Regno Unito il 29%, in Irlanda l’8%, in Canada il 20% e, infine, in Israele idue terzi dei soggetti esaminati. Per non parlare delle percentuali italiane, di mol-to superiori alla media europea: i risultati di alcuni studi svolti in varie regioni in-dicano che il 41% degli alunni di scuola primaria e il 26% di quelli di scuola me-dia sarebbero vittime di atti di prepotenza da parte dei compagni (Fonzi 1997).

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I risultati più elevati della ricerca italiana, posti a confronto con quelli di altripaesi, rivelano a prima vista un quadro sconfortante. Ciò però non significa chenelle scuole italiane la sopraffazione sia necessariamente più praticata che al-trove: il divario tra i dati italiani e quelli internazionali potrebbe essere attribui-to a un modo diverso di interpretare e vivere il fenomeno. Come suggerisceAda Fonzi, probabilmente in Italia, a differenza che in altri paesi, il conflitto èpiù tollerato e porta meno di frequente alla rottura dei rapporti, assumendoquindi una minore rilevanza che induce a una più diffusa ammissione sia daparte di chi agisce che di chi subisce.In molti è infatti radicata l’idea che un certo grado di aggressività sia normalefra coetanei e che gli episodi di bullismo subiti a scuola possano rafforzare ilcarattere e la personalità dell’individuo. La letteratura scientifica smentiscequesta credenza, offrendo diversi studi sugli effetti negativi del bullismo: per levittime si prospetta, nell’immediato, una progressiva perdita di sicurezza e au-tostima che può concretizzarsi in attacchi di ansia, somatizzazioni, rifiuto di re-carsi a scuola; più a lungo termine, il rischio di cadere in stati depressivi anchedi grave entità. Per i bulli vi è invece il rischio di un uso sistematico e pervasi-vo della violenza che può concretizzarsi nella criminalità.La presente analisi si focalizzerà sul rapporto fra bullismo e autostima, e più spe-cificatamente sul rapporto fra bassa autostima ed episodi di bullismo vissuti.

William James (James 1901) è forse uno dei primi studiosi ad aver dato una de-finizione di autostima. Egli la definiva come il rapporto tra il Sé percepito di unapersona e il suo Sé ideale: il Sé percepito equivale al concetto di sé, alla cono-scenza di quelle abilità, caratteristiche e qualità che sono presenti o assenti; il Séideale è invece l’immagine della persona che ci piacerebbe essere. Secondo Ja-mes una persona sperimenterà una bassa autostima se il Sé percepito non riescea raggiungere il livello del Sé ideale. L’ampiezza della discrepanza tra come civediamo e come vorremmo essere è infatti un segno importante del grado in cuisiamo soddisfatti di noi stessi. In altre parole, secondo la definizione di James,l’autostima sarebbe il risultato del confronto tra successi concretamente ottenu-ti e corrispondenti aspettative: vale a dire: autostima = successo/aspettative.Anche i fattori ambientali, interagendo con l’individuo, contribuiscono tutta-via a migliorare o peggiorare le prestazioni; le persone sviluppano infatti un’i-dea di sé sulla base di come sono trattate o viste dagli altri. In altre parole, ciòche gli altri pensano di noi, ossia l’immagine di noi che ci rimandano, diventagradualmente ciò che noi pensiamo di noi stessi. Ma se questo assunto è vero,è vero anche l’inverso, cioè che gli altri sono altrettanto influenzati dal nostrogiudizio su noi stessi e tendono a vederci come noi ci vediamo. Sulla scorta diJames, Alice Pope sostiene, con altri autori, che quanto più il ‘Sé percepito’ siallontana e risulta di meno valore rispetto al ‘Sé ideale’, tanto più si ha una bas-

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sa stima di sé; viceversa, tanto più si ha consapevolezza delle proprie carenze,ma si trae soddisfazione dai propri punti di forza, tanto più la stima di sé au-menta (Pope, McHale, Craighead 1993).Per quanto riguarda il bullo, la letteratura smentisce la credenza che egli soffradi bassa autostima, rimandando le cause del comportamento prepotente a unanalfabetismo emozionale, ovvero un’incapacità nell’interpretare le proprie esoprattutto le altrui emozioni, a una scarsa empatia, a un bisogno di afferma-zione, dominanza e potere, o a una ripetizione di un modello di comportamen-to appreso in famiglia, spesso autoritario e ostile. Alcuni studi, contrapponen-dosi all’ipotesi della difficoltà sul piano socioemotivo, hanno presentato unaprospettiva secondo la quale a volte i bulli possono invece avere un’elevata ca-pacità di comprensione degli stati d’animo altrui, riuscendo a manipolarli aproprio vantaggio (Menesini 2000).Ciò nonostante, alcuni studiosi hanno talora rilevato un basso livello di auto-stima anche nei bulli, includendo nella ricerca la controversa tipologia dei bul-li/vittime.Secondo Ian Rivers e Peter Smith (1994), coniugando uno strumento di au-tovalutazione dell’autostima con un altro di valutazione da parte dei compa-gni, è stato possibile ottenere degli indici di autostima e di egocentrismo didifesa in ragazzi di 14-15 anni. Seppure questi dati si riferiscano a un targetdi età maggiore rispetto al nostro, riteniamo opportuno riportarne i risultatiper restituire un quadro più ampio sul tipo di indagini fatte in precedenza eai differenti orientamenti che ne sono emersi. In breve, l’egocentrismo di di-fesa si riferisce a ‘tendenze narcistiche di autosopravvalutazione’ all’internodel concetto di autostima: ossia, a un’alta autostima percepita dal bullo puòcorrispondere una visione di sé basata sulla sopravvalutazione narcisisticaquale forma di difesa, piuttosto che una misura reale di autostima. Questovarrebbe sia per il bullo attivo che per i compagni che ne rinforzano e sup-portano i comportamenti violenti; per quest’ultimi si parlerebbe soprattuttodi ‘autostima difensiva’, e in loro l’egocentrismo di difesa si associa a una va-lutazione dell’autostima di pochissimo superiore alla media. È stata riscon-trata una ‘alta autostima autentica’ negli adolescenti che invece si schieranoin difesa della vittima, poiché si ritiene che tali soggetti debbano sentirsi mol-to sicuri di se stessi per credere di poter osteggiare i comportamenti violentidei bulli.

Ci si è spesso chiesti se il bullo coincida unicamente con una tipologia di bam-bino/ragazzo violento tout court, o se dietro questo atteggiamento si nascondapiuttosto un altro tipo di vittima. La maggior parte degli studi depone a favo-re dell’idea che la figura del bullo venga talora confusa con una categoria di vit-time che si oppone a quella delle ‘vittime passive o sottomesse’: si tratterebbe

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del gruppo delle ‘vittime attive o provocatrici’, caratterizzate da una combina-zione di modalità di reazioni ansiose e aggressive (Menesini 2000).Soggetti che aderiscono a tale profilo possono mostrarsi iperattivi, inquieti e of-fensivi. Tendono a controbattere, possono essere sgraditi anche agli adulti ehanno la tendenza a prevaricare i compagni più deboli. Non è raro che le ca-ratteristiche dei loro comportamenti d’interazione provochi reazioni negativetali da farli diventare i capri espiatori ideali del gruppo-classe. In qualche mo-do, quindi, in questo tipo di bambini il confine tra l’essere bullo e l’essere vit-tima si fa labile. Questi bambini che rivestono il ruolo di vittime provocatricipossono mostrare segni di disattenzione e intrusività e fanno in modo che icompagni si irritino in seguito alle loro strategie di comportamento. Molti bam-bini iperattivi e con disturbi dell’attenzione presentano proprio queste caratte-ristiche. Questi possono quindi ricoprire di frequente ruoli di bullo, di vittimao entrambi e presentano un quadro di impulsività reattiva e di assenza di lega-mi personali e sociali profondi (Kalverboer 2002).Ma la diade bullo/vittima non può essere concepita come un nucleo isolato,poiché trova terreno di sviluppo e sostegno nel contesto più ampio del gruppodei coetanei. Il bullo non agisce da solo: a sostegno dell’azione esercitata dalbullo si collegano i compagni che partecipano direttamente al compimento del-l’azione di sopraffazione, i soggetti che, a guisa di pubblico, incitano e sosten-gono emotivamente il bullo e infine coloro che, con la propria indifferenza,contribuiscono a far calare il velo del silenzio e dell’omertà. I compagni, nellaquasi totalità dei casi, esprimono nei confronti della vittima antipatia e rifiuto,mentre l’atteggiamento verso il bullo varia in rapporto a circostanze diverse,inerenti a fattori individuali e contestuali (Aquilone Blu 2001). Da una ricercasociometrica di Giovanni Tomada e Fulvio Tassi (Tassi 2001) emerge in chemodo l’esercizio delle prepotenze fa sì che il bullo rappresenti nel gruppo unpolo di attrazione. L’elemento caratterizzante la rete dei rapporti dei bulli è l’a-vere come amici compagni prepotenti e non vittimizzati, tanto da poter conta-re sul loro aiuto, sul loro sostegno e sulla loro comprensione, a differenza diquanto invece accade alla vittima.

Non stupisce, pertanto, che le evidenze sperimentali prese in esame abbianotrovato un’indubbia relazione tra il profilo del bambino con ‘bassa autostima’,il ruolo della vittima in generale e quello della ‘vittima passiva o sottomessa’ inparticolare. Questo tipo di vittime sono solitamente più ansiose e insicure de-gli altri studenti (Olweus 1973 e 1978, Bjorkqvist et al. 1982, Lagerspetz et al.1982, Perry et al. 1988, citati in Olweus 1993); reagiscono spesso alle prevari-cazioni piangendo e isolandosi, assumono un atteggiamento passivo e sonospesso privi di un buon amico in classe (Olweus 1993), probabilmente a causadi carenze nell’utilizzo di strategie socio-relazionali adeguate (Smith e Monks

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2002). Vi è anche una relazione con la forza fisica: negli studi di Olweus (1978)è emerso che spesso la vittima è anche fisicamente meno forte della media so-prattutto nel caso dei maschi (Olweus 1993). Questo stato di isolamento e diesclusione dal gruppo-classe li rende ancora più vulnerabili agli attacchi dei co-etanei (Kochenderfer e Ladd 1997, citati in Menesini 2000). Olweus affermache “sembra che il comportamento e l’atteggiamento delle vittime passive se-gnalino agli altri l’insicurezza, l’incapacità, nonché l’impossibilità o difficoltà direagire di fronte agli insulti ricevuti” e che esse “sono caratterizzate da un mo-dello reattivo ansioso e sottomesso” (Olweus 1993, 31).Le vittime presentano spesso una scarsa autostima e opinione di sé (Olweus1993, Menesini 2000), si considerano fallite, timide e poco attraenti, e hannouna visione negativa delle proprie competenze e della propria situazione. Gliattacchi ripetuti nel tempo aumentano la loro ansia e insicurezza, accentuandoulteriormente la valutazione negativa di se stessi. Rispetto ai compagni non pre-varicati la vittima risulta maggiormente esposta al rischio di depressione e svi-luppa una bassa autostima quale esito delle passate e persistenti prevaricazioni(Olweus 1993).

i risultati de L’isola che c’è

Attraverso il progetto L’isola che c’è è stato possibile indagare sul fenomeno delbullismo e sulla possibile relazione fra autostima ed episodi di bullismo subiti.Durante la fase di screening sono stati coinvolti 2.058 bambini di 15 scuole ele-mentari romane, cui è stato somministrato, insieme al test TMA, un breve que-stionario composto da 3 domande focalizzate sul tema delle prepotenze. Le do-mande, sottoposte in forma anonima, erano le seguenti:

1. Ti è mai capitato a scuola di dover dare per forza a un ragazzo prepotenteun tuo gioco, un libro, del denaro, senza motivo e senza che ti sia stato piùrestituito?

2. C’è un bambino nella tua classe o nella scuola che ti prende pesantementein giro quasi tutti i giorni senza che tu riesca a far nulla per impedirlo?

3. Sei mai stato minacciato e/o picchiato a scuola da un altro bambino?

Dall’analisi dei risultati è emerso che vi è una forte correlazione tra l’afferma-zione di aver subito episodi di bullismo e una bassa autostima, ossia i bambiniche nel questionario riportano di avere subito gli episodi di bullismo mostranoun’autostima significantemente più bassa rispetto ai bambini che affermano dinon averli subiti.Data la vastità del campione di riferimento, abbiamo pensato di dividere i sog-

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getti in base al livello di autostima stimata in ‘sopra la media’, ‘nella media’ e‘sotto la media’, come mostrato dai grafici, differenziando per colore le percen-tuali di “sì” e “no” date alle tre domande.

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1. Ti è mai capitato a scuola di dover dare per forza a un ragazzo prepotente un tuo gioco, un libro,del denaro, senza motivo e senza che ti sia stato più restituito?

2. C’è un bambino nella tua classe o nella scuola che ti prende pesantemente in giro quasi tutti i gior-ni senza che tu riesca a far nulla per impedirlo?

sì no

sopra la media

nella media

sotto la media

sopra la media

nella media

sotto la media

sopra la media

nella media

sotto la media

3. Sei mai stato minacciato e/o picchiato a scuola da un altro bambino?

sì no

sì no

11,7%

19,3%

31%

88,3%

80,7%

68,7%

16,7%

27,8%

48,8%

83,3%

72,2%

51,2%

10,8%

13,1%

23,1%

89,1%

86,9%

76,9%

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Alla prima somministrazione del questionario, è apparso evidente come effet-tivamente al crescere dell’autostima diminuiscano le risposte affermative a tut-te e tre i quesiti. Questo dato è in linea con quello che afferma la letteratura,che cioè esiste una relazione fra bassa autostima e episodi di bullismo vissuti.Quello che non è chiaro, per così dire, è quale sia l’uovo e quale la gallina, ov-vero se l’avere una bassa autostima è il risultato di passate o presenti esperien-ze di bullismo, oppure se è l’avere una bassa autostima ciò che rende i sogget-ti più facilmente individuabili quali possibili vittime. La bassa stima di sé puògiocare un ruolo molto importante nel predisporre un bambino al ruolo di vit-tima, poiché i bambini con bassa autostima si aspettano risposte sociali di tiponegativo. La bassa autostima è stata correlata alla depressione, alla paura e auna scarsa padronanza delle proprie strategie comportamentali, tutte caratteri-stiche che contribuiscono a rendere questi bambini più vulnerabili nei confron-ti di un aggressore, tanto da essere investiti con maggiore probabilità del ruo-lo di vittima (Smith e Monks 2002).

La relazione fra bassa autostima e l’essere vittima di episodi di bullismo può es-sere ulteriormente supportata dall’analisi dei risultati dei retest. Il questionarioTMA somministrato alla fine dei dieci incontri previsti dal progetto era lo stes-so, mentre il questionario sul bullismo variava nella forma. Le tre domandechiave erano identiche a quelle iniziali, ma il periodo in cui gli eventuali episo-di di bullismo erano avvenuti veniva limitato a “negli ultimi due mesi”, ovveroil periodo nel quale si erano svolti i dieci incontri. Le tre tabelle mostrano co-me, dopo l’intervento dei gruppi ludico-pedagogici, i fenomeni di bullismo chei bambini riferiscono di aver subito siano diminuiti, malgrado la non raggiun-ta significatività statistica. Ciò è evidente soprattutto in risposta alla prima do-manda, per i quali la percentuale iniziale di 21,2% è scesa al 17,9%.

domanda 1 sì no tot prima 35 130 165

21,2% 78,8%dopo 24 110 134

17,9% 82,1%

domanda 2 sì no tot prima 82 83 165

49,7% 50,3%dopo 61 73 134

45,5% 54,5%

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domanda 3 sì no tot prima 57 107 164

34,8% 65,2%dopo 28 106 134

20,9% 79,1%

Si potrebbe dire che lavorare al fine di sostenere e rafforzare l’autostima mi-gliora il rapporto con le proprie e altrui emozioni, stimola le capacità di auto-controllo, favorisce le relazioni interpersonali, ma ha anche degli effetti positi-vi sul fenomeno del bullismo, rendendo il bambino più sicuro di se stesso e del-le proprie abilità, più abile sul piano emotivo e sociale e meno propenso ad as-sumere atteggiamenti da vittima.

conclusioni

Scopo di questo capitolo voleva essere la disamina del fenomeno ‘bullismo’ ele sue relazioni con il livello di autostima negli attori coinvolti; nello specifico:il bullo, la vittima e il piccolo gruppo. Ci è sembrato doveroso sottolineare l’in-cidenza attuale del fenomeno nelle scuole di molti paesi, prestando un’atten-zione particolare all’Italia, per mettere in evidenza la necessità di una preven-zione a più livelli nel tentativo di informare, sostenere ed evitare il reiterarsi de-gli episodi di bullismo.È apparso evidente il legame esistente tra basso livello di autostima e l’esserevittima, soprattutto se passiva e sottomessa alla prevaricazione del bullo, lad-dove per vittima si intende il bambino ansioso e insicuro, sensibile e calmo, ca-ratterizzato da un profilo caratterologico reattivo-ansioso e associato, soprat-tutto nei maschi, a una fragilità fisica. I dati ottenuti dalla nostra ricerca hannocomprovato quanto emerso dalla letteratura sull’argomento, confermando lanostra ipotesi di partenza e dimostrando l’esistenza di una correlazione signifi-cativa tra i valori dell’autostima totale – considerando i valori negativi, nellamedia e positivi – e le risposte a tre domande sul bullismo nel campione presoin esame. I bambini che hanno risposto in maniera affermativa ai quesiti han-no presentato un punteggio di autostima totale più basso rispetto a chi ha ri-sposto in modo negativo.

Resta però aperta la questione se si abbia una bassa autostima perché si è stativittime di episodi di bullismo oppure se si sia vittime perché di base si ha unabassa autostima. È difficile dare in questa sede una risposta certa; si potrebbesolo ipotizzare che entrambi gli assunti possano essere validi ed essere in ugualmisura, a seconda dei casi, fattore causale o consequenziale. Certo è che, seb-

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bene già tanto studiato, il ‘bullismo’ non ha ancora esaurito le risposte che hada darci. In questa prospettiva, riteniamo che una ricerca costante in quest’am-bito sia a tutt’oggi auspicabile. In base alla nostra esperienza, ci sentiamo di af-fermare che rinforzare l’autostima dei soggetti più a rischio, quali sono i bam-bini delle scuole elementari, potrebbe essere, ora come in futuro, un validostrumento di lavoro e di prevenzione.

• Fonzi A., Il bullismo in Italia. Il fenomeno delle prepotenze a scuola dal Piemonte al-la Sicilia. Ricerche e prospettive di intervento, Firenze 1997

• James W., Principi di Psicologia, Milano 1901• Kalverboer A.F., “Bambini iperattivi e con difficoltà motorie: vittime, bulli o en-

trambi?”, in Genta M.L. (ed.), Il bullismo, Roma 2002• Menesini E., Bullismo, che fare? Prevenzione e strategie d’intervento nella scuola,

Firenze 2000• Olweus D., Bullismo a Scuola, Firenze 1993• Pope A., McHale S., Craighead E., Migliorare l’autostima: un approccio psicopedago-

gico per bambini e adolescenti, Gardolo (TN) 19932

• Relazione Sulla Condizione Dell’infanzia e Dell’adolescenza in Italia, discussa e ap-provata dall’Osservatorio Nazionale per l’Infanzia il 6 aprile 2001, dal sito internethttp://www.aquiloneblu.org/scritti/bullismo/relazioneitalia.htm

• Rivers I. e Smith P.K., “Types of Bullying and Their Correlates”, in Aggressive Be-havior, 20, 1994, 359-368

• Smith P.K. e Monks C., “Le relazioni tra bambini coinvolti nei problemi del bulli-smo a scuola”, in Genta M.L. (ed.), Il bullismo, Roma 2002

• Tassi F., “Il bullismo scolastico: problemi aperti e prospettive di intervento”, in Cit-tadini in crescita, n. 2, 2001, 44-53

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tipologie del bambino con scarsa autostima

Maria Biancini, Laura Casalini, Valentina Claudili, Giulia Gabelli

Vi sono uomini incapaci di vivere liberi,poiché hanno paura di se stessi e del mondo.

Donald W. Winnicott, da Colloqui con i genitori

Si può essere portati a pensare che chi soffre di una scarsa stima di sé, metta inatto comportamenti sempre uguali caratterizzati da timidezza, chiusura, inde-cisione, pessimismo. L’autostima è in realtà un concetto profondo e complesso,che può produrre atteggiamenti e comportamenti assolutamente diversi e va-riegati. Non è detto che una persona timida abbia necessariamente una bassaautostima, così come una persona che appare forte e sicura potrebbe sentirsidentro di sé sempre fragile e inadeguata. Se questo vale per gli adulti, è ancorapiù vero nel caso dei bambini, che in genere esprimono la loro insicurezza inmolti modi diversi, talora veramente difficili da capire.All’interno del nostro progetto, quando illustravamo i risultati del questionarioalle insegnanti, indicando i nomi dei bambini da inserire nel club, avevamospesso reazioni di stupore, perché in alcuni casi non si aspettavano risultati ne-gativi, in particolare per quei bambini che andavano bene a scuola o per quel-li particolarmente vivaci. È più facile invece accorgersi dell’insicurezza deibambini più timidi e riservati.Questa difficoltà delle insegnanti deriva dal fatto che l’autostima si basa sullavalutazione che ognuno fa di se stesso, con una valenza fortemente soggettiva.Il giudizio riguardo le proprie abilità è infatti assolutamente personale e indivi-duale, in quanto dipende dai valori e dagli obiettivi che ognuno si pone. Adesempio, se uno studente desidera ottenere il massimo dei voti a ogni compitoin classe, per quanto possa riscuotere buoni risultati, rischia sempre di rimane-re deluso e di considerarsi un fallito.L’autostima considera dunque due fattori: le informazioni oggettive riguardo sestessi e la valutazione soggettiva di queste informazioni. In questo senso è mol-to condizionata dal Sé ideale, vale a dire l’immagine della persona che ci piace-

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rebbe essere: tanto più sentiamo di essere vicini a questa immagine, tanto piùalta sarà la stima di noi stessi. Se il Sé ideale appare molto lontano da quelloreale, è molto facile che insorgano problemi di autostima; se l’ideale che ci sipone è troppo elevato, si rischia certamente di rimanere delusi. Le persone che possiedono un’autostima alta si valutano globalmente in modopositivo, si concentrano sui punti di forza e accettano i propri limiti. Chi inve-ce soffre di una bassa autostima, si convince che ci sia poco di cui andare fieriper quanto concerne la propria persona, tendendo quindi a non utilizzare ap-pieno le proprie potenzialità e le proprie risorse. Si viene così a trovare in unacondizione di vulnerabilità, divenendo più sensibile alle critiche, ai giudizi, aicommenti su di sé da parte degli altri. Di fronte alle difficoltà o ai fallimentitenderà inoltre a colpevolizzare se stesso, entrando in un circolo vizioso, diffi-cile da interrompere, fatto di colpe, insuccessi e autoaccuse.

Non è però tanto rilevante il fallimento reale, quanto il fallimento percepito.William James definiva l’autostima come il rapporto tra il Sé percepito di unapersona e il suo Sé ideale: il Sé percepito equivale al concetto di sé, alla cono-scenza delle proprie abilità, caratteristiche e qualità che sono presenti o assen-ti; il Sé ideale è invece l’immagine delle persona che ci piacerebbe essere. La di-screpanza tra come ci vediamo e come vorremmo essere determina il grado difiducia e di soddisfazione in noi stessi. Anche l’ambiente ha la sua influenza, in quanto le immagini di noi che gli altrici rimandano viene con il tempo interiorizzata, così condizionando ciò che noipensiamo di noi stessi. Sigmund Freud parlava di un’istanza ideale collegata al Super Io, da lui defini-ta Ideale dell’Io, che influenza la sicurezza di sé stessi e la possibilità di espri-mere le proprie capacità: “L’ideale dell’Io ha origini narcisistiche: ogni indivi-duo ha costruito in sé un ideale rispetto al quale misura il proprio Io attuale. Aquesto Io ideale si rivolge ora quell’amore di sé di cui l’Io reale ha goduto nel-l’infanzia”. L’Io Ideale è dunque un’istanza della personalità, per buona parteinconscia, che condiziona inconsapevolmente il nostro agire, sia in situazionibanali e quotidiane sia in momenti più importanti della vita di un individuo.L’Io Ideale costituisce un modello cui il soggetto cerca di conformarsi: è il ri-sultato della convergenza del narcisismo – cioè l’idealizzazione dell’Io – e leidentificazioni con i genitori, i loro sostituti e gli ideali collettivi. L’identifica-zione è un processo psicologico attraverso cui un soggetto assimila un aspetto,una proprietà, un attributo di un’altra persona e si trasforma, totalmente o par-zialmente, sul modello di quest’ultima. La personalità adulta si costituisce e sidifferenzia attraverso una serie di identificazioni, prevalentemente attuate nel-la prima infanzia. Le identificazioni che portano alla costruzione del Sé Idealesono identificazioni con personaggi idealizzati: in questo processo psichico le

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qualità e il valore dell’oggetto sono cioè portati al grado di perfezione. Secon-do Freud il senso di inferiorità, e la risultante forte insicurezza, deriva appun-to dal confronto e dallo scontro tra l’Io e l’Io Ideale, istanza amata cui si tendea conformarsi senza però mai raggiungerla; nella normalità della vita quotidia-na, in effetti, il bambino si trova spesso in conflitto con il proprio ideale e taleconflitto amareggia e rende infelice la vita. Diventano perciò fondamentali le esperienze vissute nell’infanzia e l’affetto ri-cevuto dai propri genitori: l’accettazione affettiva e la considerazione positivasono infatti un prerequisito per l’autoaccettazione, che diviene a sua volta il pri-mo tassello dell’autostima. Se la considerazione positiva è data in modo condi-zionato, il bambino è indotto a introiettare modi di essere incongruenti conquella che Rogers chiama la propria esperienza organismica (l’organismo ten-de per sua natura a sviluppare le sue potenzialità positive).

Il genitore nell’età prescolare e l’insegnante in seguito dovrebbero avere un’at-tenzione particolare nei confronti delle inclinazioni e peculiarità proprie delbambino. Spesso è facile essere trasportati dalla tentazione di farsi interpretidei bisogni dell’altro, pensando di essere in grado di stabilire – ancor prima dilui – quali siano le sue propensioni, i suoi desideri e le sue aspettative. Sarebbeinvece preferibile attendere il bambino, aspettare di conoscerlo e successiva-mente aiutarlo nel suo autonomo processo di crescita, interferendo solamentecome appoggio e stimolo, mai come spinta forzata. In questo modo si evitereb-bero rischi di proiezioni di passioni o caratteristiche proprie sul bambino, non-ché attribuzioni di qualità specifiche in verità assenti. Se un genitore si convin-ce e convince il proprio figlio di avere individuato un percorso che in realtà nonè adatto a lui, il bambino sperimenterà un numero molto alto di insuccessi e,qualora si ribellasse, sentirebbe comunque di essere lontano dall’idea che han-no di lui il padre o la madre. Il rischio è che il bambino non si senta realizzatoappieno perché, anziché fare quello che vuole lui, sta seguendo un tragitto trac-ciato dal genitore, ‘fronteggia il figlio di sua madre’ (Winnicott 1993).

Il processo di crescita assomiglia all’esplorazione di un mondo ignoto. Per co-noscere il suo mondo il bambino ha bisogno di avere una base sicura cui tor-nare e aggrapparsi durante il suo difficile cammino, una base che si occupi dilui senza pre-occuparsi; una base che lo faccia sentire pronto ad andare, perchésarà lì stabile ad aspettare il suo ritorno e non verrà distrutta dalla tempesta del-l’angoscia d’abbandono. Il genitore dovrebbe sostenere la fase esplorativa delproprio figlio, impegnandosi a trovare quel difficile equilibrio che sta tra il la-sciarlo solo e il tenerlo troppo a sé, essendo appunto una base sicura, presentenelle necessità, guida nel cammino scelto e incoraggiante l’autonomia.D’altra parte, secondo Winnicott il bambino necessita di un ambiente di holding,

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uno spazio fisico e psichico all’interno del quale egli è protetto senza sapere di es-serlo e che si apre gradualmente all’esperienza del mondo reale. Se non vieneesercitato l’holding si verifica una scissione tra il vero Sé – quello della propriatendenza attualizzante (Rogers) – e un Sé compiacente, falso, che nasce dalla ne-cessità prematura di affrontare da soli il mondo esterno. Il bambino è costrettoad avere a che fare troppo presto con il ‘figlio di sua madre’, con aspettative nonsue, a danno della conoscenza e dell’espressione del suo vero Sé.Diversi autori differenziano inoltre un’autostima globale, che concerne l’ap-prezzamento generale del Sé, da una autostima specifica, suddivisa in diversearee: ad esempio, l’area sociale e interpersonale considera i sentimenti riguar-do se stesso quale amico di altri; l’ambito scolastico riguarda il valore che ilbambino si attribuisce come studente; la sfera familiare considera il vissuto cheil bambino prova come membro della sua famiglia; l’ambito corporeo riguardala soddisfazione rispetto al proprio corpo per l’apparenza e le prestazioni. L’im-portanza di ogni singola area ha un valore assolutamente soggettivo, in base aidesideri e alle aspettative presenti in ogni singolo individuo.

Risulta quindi evidente la complessità del concetto di autostima, che a una pri-ma analisi poteva sembrare semplice e facilmente individuabile. I bambini chesperimentano un senso di insicurezza interna possono in effetti esprimere que-sto disagio con modalità molto diverse fra loro. A partire dalla nostra esperien-za all’interno dei club, abbiamo raggruppato queste diverse espressioni in quat-tro tipologie: il bambino invisibile, il bambino iperattivo, il bambino che sfug-ge la relazione, il bambino adultizzato. Queste tipologie hanno solo un valoreindicativo e non vogliono diventare un’etichetta né una classificazione rigida.

il bambino invisibile

Il bambino invisibile si può osservare spesso all’interno di un gruppo. È pro-prio questo, infatti, il contesto nel quale sono provocate maggiormente le suereazioni difensive e nel quale ha imparato in maniera adattiva a mettere in attospecifiche modalità relazionali. Il bambino è invisibile all’adulto per una seriedi motivi che lo rendono poco interessante agli occhi degli altri. Tipica è l’as-senza di comportamenti estremizzati e personalizzati: non fa mai troppa confu-sione, ma non è neanche totalmente silenzioso, non possiede un nomignolo,non mostra di avere una passione per un particolare tipo di musica, un parti-colare cartone animato, un particolare oggetto; si confonde nella media senzadimostrarne l’appartenenza.Il rapporto coi pari non sembra, a prima vista, presentare alcun tipo di proble-maticità: egli è sempre fisicamente inserito nel gruppo dei bambini ‘più tran-

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quilli’. Non litiga con loro, non discute e non richiede aiuto per risolvere even-tuali conflitti, nella maggior parte dei casi accetta le decisioni prese dagli altri.Per l’adulto alle prese con un gruppo di bambini, come ad esempio nella situa-zione scolastica, questa tipologia di bambino è la più comoda, e anche la menocoinvolgente. L’adulto che entra le prime volte in contatto con lui tende a di-menticarlo, sia mentre svolge le sue attività che durante una riflessione succes-siva. All’inizio può avere problemi a ricordare il suo nome, il suo viso o qual-che suo particolare comportamento. C’è una semplice spiegazione a questo:egli non ha visto il bambino, la sua attenzione si è posata su di lui solo per bre-vi istanti e non è mai stato cercato da lui. Quel bambino ha infatti ubbidito al-le sue richieste senza contraddirlo, non ha espresso spontaneamente nessunaopinione, non ha manifestato sentimenti e non è stato né affettuoso né scontro-so. La passività caratteristica di questo schema comportamentale si riflette an-che nella relazione: il bambino non cerca attivamente conferme di nessun tipo,ma risponde se chiamato in causa; l’educatore non sente di suscitare particola-re interesse in lui. In effetti il bambino all’inizio non provoca reazioni immedia-te, né sentimenti protettivi o di rifiuto, perché non li ricerca attivamente e nonsembra esserne in attesa. La risposta collusiva dell’adulto al suo comportamen-to schivo è un sentimento di indifferenza.In casa è in genere considerato un bambino buono, che non crea mai proble-mi, di facile gestione, anche se tende a non esprimere mai i suoi desideri e si di-mostra molto incerto e insicuro se deve prendere una decisione. A volte puòaccadere che gli stessi genitori siano persone molto riservate, miti, semprepronte a scusarsi per paura di disturbare gli altri, come se non solamente ilbambino, ma l’intera famiglia volesse diventare invisibile e muta. Non ci è dato sapere quali siano i suoi sentimenti, ma a un’osservazione minu-ziosa e prolungata nel tempo, si può avere riscontro del fatto che egli è stato at-tento a tutti i gesti dell’adulto, anche ai particolari, e che ricorda più degli altriciò che è stato fatto o detto. Dal suo comportamento si può dedurre che tienemolto a ciò che si sta facendo e a quello che dice l’altro. Prova sentimenti posi-tivi anche se non li manifesta. Si potrebbe pensare a lui come a un osservatoreinteressato e mimetizzato, nascosto dietro un muro di vetro, che – per paura divenire fuori e agire – accetta il compromesso di ‘esserci’ senza essere visto.

All’interno dei club abbiamo notato come col tempo questo bambino ‘che sem-bra non volere nulla’ si trasformi in un bambino in attesa della mano dell’altroper uscire dal suo nascondiglio; un altro che non lo esponga prematuramenteal pericolo di essere ‘visto troppo’, proteggendolo con discrezione. Prima chel’altro tenda la mano, il bambino sembra non aspettarsi nulla e non chiede mail’aiuto di cui sente di avere bisogno. Abituandosi al contesto, sedata leggermen-te la sua ansia e percependo un interesse crescente nei suoi confronti, aumen-

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ta in lui il conflitto fra il desiderio di agire e la paura del rifiuto. Durante que-sta fase può manifestare per la prima volta un interesse specifico, inviando de-bolissimi segnali per poi, subito dopo, tirarsi indietro. È molto importante cap-tare questi segnali e mostrare al bambino di aspettare proprio lui, di essere asua disposizione per contenere la sua ansia, aiutarlo a elaborarla e sollecitarlonel suo difficile ma ambito tentativo di venire fuori dal muro.Questa delicata fase deve essere gestita con discrezione. Al bambino va offertouno spazio di ascolto sufficientemente ampio, ma non tale da metterlo sottopressione e farlo tornare alle sue antiche posizioni. L’interesse per lui e per lesue opinioni va sottolineato con l’attesa. Il rispetto dei suoi tempi sarà già indi-ce di attenzione e rappresenterà uno stimolo discreto, presente ma non ecces-sivo. Il bambino comincerà a sperimentarsi percepito e trarrà soddisfazione daciò solo se non sentirà di correre rischi eccessivi, se non si sentirà totalmente eprecipitosamente privato delle sue difese.Inizierà ad attendere le domande degli altri per rispondere con un tono di vo-ce più alto e meno monocorde; inizierà a mostrare i suoi sentimenti in manieraautonoma, prima verso l’adulto e successivamente verso il gruppo dei pari. Èpossibile che alla fine di questa fase il bambino sia più vispo, che metta in attocomportamenti devianti o che si ribelli all’autorità, ma questo – lungi dall’esse-re un segnale di regressione – deve essere considerato una manifestazione del-la sua personalità. Il bambino sta finalmente esprimendo se stesso senza più na-scondersi: finalmente non è più invisibile.

il bambino iperattivo

Il bambino iperattivo assume comportamenti molto vivaci e schietti, ma non vaassolutamente equiparato alla sindrome di iperattività, che è una classificazio-ne nosografica. Nel nostro caso si tratta piuttosto di un intenso bisogno di mo-vimento e azione, unito a un forte desiderio di essere visto e anche contenuto.È sicuramente l’estremo opposto del bambino invisibile, l’altra faccia della me-daglia, se il primo voleva scomparire, il secondo non può sopportare di non es-sere al centro dell’attenzione, nel bene e nel male: è meglio essere sgridato ecreare dei danni, piuttosto che essere dimenticato o per un attimo non perce-pito. Alla base di entrambi i casi vi è però la stessa insicurezza e la paura di nonessere all’altezza delle diverse situazioni; così, di fronte alle difficoltà, l’uno de-cide di scappare senza essere visto, l’altro di nascondersi creando confusione escompiglio. È facile immaginare come il bambino iperattivo sia la disperazione delle inse-gnanti, costrette a interrompere mille volte la lezione per riprenderlo e sgridar-lo, ma anche dei genitori che non riescono mai ad avere un momento di tran-

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quillità. Lui stesso, se potesse, vorrebbe essere più sereno, ma non ce la fa per-ché esprime le sue emozioni e le sue paure tramite il movimento e l’agitazione,non conoscendo altro canale di comunicazione. In genere ha molti amici, chetrascina nelle sue imprese, e quando sta con loro appare forte e spavaldo, met-te in atto comportamenti provocatori nei confronti degli adulti, trasgredendoregole e principi educativi. È difficile che gli altri si accorgano della sua insicu-rezza, se non quando rimane da solo: allora sembra quasi spaventato e perso,come se non sapesse più cosa fare. Il problema principale di questo bambino èin effetti la difficoltà che sente nel controllare i propri impulsi: ha quasi pauradi quello che prova dentro di sé, perché si sente sempre inadeguato e fuori luo-go. Allora, attraverso l’opposizione, cerca non tanto l’attenzione dell’adulto,quanto un vero e proprio contenimento, affinché non venga travolto dalle suestesse emozioni. Su questo tema Donald W. Winnicott sosteneva: “Nel dare si-curezza noi otteniamo due cose insieme. Da un lato, in virtù del nostro aiuto,il bambino è al sicuro dall’imprevisto, dalle innumerevoli intrusioni moleste eda un mondo ancora sconosciuto o incomprensibile. Dall’altro, egli è protetto,per opera nostra, dai suoi stessi impulsi e dagli effetti che questi potrebberoprodurre” (Winnicott 1993, 83).

Un bambino di questo tipo inserito in uno dei nostri club, ad esempio, alla do-manda postagli alla fine degli incontri “che cosa pensi di aver imparato?”, ci harisposto: “Ho imparato a essere sgridato, lo facevate sempre!”. Nel retest è poirisultato molto migliorato, con una punteggio in alcune aree anche sopra la me-dia, probabilmente perché aveva imparato a essere contenuto e a esprimere ilproprio mondo interno con modalità relazionali più dirette e mature.

il bambino che sfugge alle relazioni

Il bambino che sfugge alle relazioni evita qualsiasi contatto interpersonale, sia fi-sico che verbale, mettendo in atto comportamenti ambivalenti di avvicinamen-to/allontanamento. A differenza del bambino invisibile che appare sempre cal-mo e tranquillo, tanto che gli adulti tendono a ‘dimenticarlo’, questa tipologiadi bambino attrae subito l’attenzione su di sé perché esprime sofferenza e disa-gio. Spesso viene escluso dai coetanei e difficilmente riesce a partecipare ai gio-chi di gruppo; dentro di sé gli sembra sempre di subire torti e ingiustizie, così siisola e si chiude rifiutando qualsiasi relazione con gli altri. Ma anche quando de-cide di rifugiarsi in un suo mondo, fa in modo di essere notato e di non passareinosservato agli occhi degli adulti: si rifugia così in luoghi che gli danno prote-zione e sicurezza, per esempio in classe si rannicchia dentro gli scaffali di mobi-li, sotto i banchi o dietro la porta. I tentativi degli insegnanti di tirarlo fuori da

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questi nascondigli sono in genere destinati all’insuccesso: deciderà lui quandouscire per provare nuovamente a tornare in mezzo agli altri. Già, perché primao poi tenterà nuovi approcci che lo possano avvicinare ai compagni, ma lo faràin maniera goffa e dannosa, picchiando o stuzzicando i compagni con mille di-spetti. Spesso riceve poi risposte esasperate; così per ogni calcio che dà ne rice-ve quattro, per ogni dispetto che fa subisce infiniti scherzi e prese in giro. In talmodo ricomincia il circuito negativo di allontanamento/tentativo di avvicina-mento/nuovo allontanamento; il bambino rimane ogni volta deluso e ferito, noncapisce perché gli altri lo trattino male, si sente escluso e isolato, non è consape-vole delle proprie provocazioni. L’adulto, d’altro canto, trova molta difficoltànella gestione di questo tipo di bambino; è spesso costretto a sgridarlo, dal mo-mento che inizia sempre lui a litigare con gli altri, ma se prova a parlarci e a ca-pirlo, lo sente sfuggente e recalcitrante, come se la vicinanza dell’adulto gli des-se davvero fastidio. È un bambino spaventato e deluso, sente di sbagliare qual-siasi cosa fa, e non sa davvero come migliorare il suo stato d’animo. Gli atteg-giamenti provocatori che mette in atto non devono essere interpretati come unasfida nei confronti degli adulti, quanto come una forte richiesta di aiuto e atten-zione.

Nella nostra esperienza all’interno dei club abbiamo notato come occorra avvi-cinarsi con la massima cautela a questo tipo di bambino, rispettando i suoi tem-pi e i suoi spazi, e cercando di farlo riflettere gradatamente sui meccanismi rela-zionali che mette in atto. Nel momento in cui si rende conto che non sempre èla vittima e che spesso è proprio il suo comportamento a innescare reazioni ag-gressive, può provare ad avvicinarsi agli altri in modo più consono e propositi-vo. A volte basta poco: se riesce a non essere escluso in un gioco, se riceve uncomplimento, inizia anche a liberarsi dalla spirale negativa di cui è prigioniero,per esprimere le proprie risorse e avere più fiducia nelle proprie capacità. In particolare ci ha molto colpito un bambino che, nel corso dei primi cinqueincontri del club, era assolutamente inavvicinabile; se un’operatrice provava aparlare con lui, si allontanava immediatamente correndo dall’altra parte dellastanza; picchiava i compagni, finendo sempre per farsi male lui, e si nasconde-va negli angoli più remoti della classe. Pian piano abbiamo provato a farlo ri-flettere sul perché si facesse sempre più male degli altri; abbiamo cercato di co-involgerlo nelle attività rinforzando ogni più piccola apertura o cambiamento,tanto che a un certo punto ha modellato un anello con il pongo per regalarlo aun’operatrice, e questo è stato il primo atto di avvicinamento e ricerca di rap-porto con l’altro. Ha poi imparato a esprimere le sue emozioni e le sue paure;così, quando pensava di aver subito un torto ce lo raccontava subito e poteva-mo aiutarlo a risolvere il conflitto positivamente. Inizialmente dubitavamo mol-to sulla possibilità di aiutarlo, perché è molto difficile e scoraggiante cercare di

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entrare in relazione con chi sfugge sistematicamente, ma bisogna sempre pen-sare che la solitudine di questi bambini è profonda e dolorosa, per cui in loroè forte anche il desiderio di essere capiti e amati. Il ruolo dell’adulto diviene al-lora fondamentale per interrompere il circuito negativo che blocca e isola que-sto tipo di bambino.

il bambino adultizzato

Nel caso del bambino adultizzato è molto difficile accorgersi della sua scarsaautostima perché, anche se appare a volte un po’ timido, si dimostra semprematuro, responsabile, coscienzioso: a scuola riporta all’ordine i compagni di-stratti, collabora per il rispetto delle regole, gioca sempre con ordine e lealtà, siimpegna con serietà nello studio. La vivacità, i capricci e i dispetti, ma anche lacuriosità o la creatività tipica dei suoi coetanei, non sembrano intaccare unapersonalità estremamente composta e seria, che sembra amare la riflessionemolto più dell’azione. A casa aiuta i genitori, si occupa dei fratelli più piccoli,è affidabile quando gli si dà un compito, fornisce consigli ai genitori, come fos-se un amico di cui potersi fidare. Tutti in genere sono contenti di lui e per que-sto è difficile che le sue fragilità e difficoltà vengano percepite: ad esempio, èspesso un bambino che non sa giocare, non riesce a scatenarsi, deve semprecontrollare che tutto sia a posto, non si libera mai del peso delle sue responsa-bilità e ha dentro di sé un’immensa paura di sbagliare e di deludere le aspetta-tive altrui. È il primo giudice di se stesso e la sua matura severità non gli lasciapassare il minimo errore commesso, anche se si tratta solo di un gioco o un di-segno; tutto deve essere perfetto e nella ricerca di questa inafferrabile perfezio-ne aumenta il suo senso di impotenza, di incapacità e di paura del fallimento. I risultati positivi che ottiene nei diversi campi non riescono a colmare il suosenso di inadeguatezza; difficilmente si assume il merito dei propri successi,mentre è sempre pronto ad assumersi le colpe quando qualcosa va storto. Lasfera dove ha maggiori difficoltà è quella della relazione con i pari: la sua ma-turità lo rende spesso saccente e presuntuoso agli occhi dei compagni, che pos-sono isolarlo ed escluderlo dai giochi; lui cercherà sempre di capirli e giustifi-carli, ma dentro di sé si sentirà ferito e solo.

All’interno del nostro progetto i genitori di questo tipo di bambini rimanevanomolto stupiti nel sapere che erano emersi nel test problemi di autostima: “Co-me? lui non ci ha dato mai problemi!”, affermavano increduli e preoccupati.Spesso all’interno della famiglia è presente un secondo figlio particolarmenteproblematico, portatore a volte di veri e propri stati psicopatologici e che ha bi-sogno di cure e attenzioni particolari; così il nostro bambino si fa da parte, de-

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cide di fare il bravo, di non essere di peso, di rendere felice la sua famiglia, col-ludendo con il desiderio e il bisogno dei genitori che almeno un figlio sia sanoe perfetto. Lo stesso accade in caso di separazioni, quando il bambino si trovaa dover sostenere i genitori, o in alcune famiglie straniere che si sentono impre-parate e inadeguate alla loro nuova vita, e nutrono quindi nei confronti del fi-glio grandi aspettative di ascesa sociale. Può sembrare assurdo, ma a volte pro-prio a casa viene trasmessa al bambino l’idea che la cultura del paese ospitantesia migliore di quella del paese di provenienza; il bambino si sentirà quindi sva-lutato dentro di sé e cercherà in tutti i modi di non deludere nessuno. Ad esem-pio, la mamma di una bambina moldava inserita in uno dei nostri club, ci hadetto: “voi sapete meglio di noi come educare i bambini” e la bambina stessaaffermava che la scuola in Italia le piaceva molto di più di quella del suo paese. Nel corso degli incontri i bambini di questo tipo tendevano spontaneamente aesprimere le parti più infantili di sé e il nostro lavoro consisteva nel cercare diliberarli dal senso di responsabilità eccessiva che inibiva la loro creatività e laloro possibilità di socializzazione. È da tenere presente che nella letteratura psi-cologica si sottolinea come i bambini adultizzati dovranno affrontare molte dif-ficoltà in adolescenza o in età adulta, proprio perché non hanno potuto espri-mere nell’infanzia aspetti fondamentali della propria personalità.

Si è così visto come il concetto di autostima non sia assolutamente semplice nébanale, presentando numerose sfaccettature e forme di espressione. Anche al-l’interno delle categorie tipo qui descritte possono esserci molte differenze.Inoltre, occorre ricordare che la maggior parte dei genitori e degli insegnantiche abbiamo incontrato sono stati disponibili a mettersi in discussione per ri-vedere le proprie convinzioni: è questo il primo passo per offrire al bambinouna possibilità d’apertura e cambiamento, all’interno di un ambiente che pos-sa sostenere e favorire il suo sviluppo psicologico.

• D’Alessio M. (ed.), Il neonato. Aspetti psicologici dello sviluppo, Roma 2001• Marcelli D., Psicopatologia del bambino, Milano 1995• Veggetti Finzi S., Freud e la nascita della psicanalisi, Milano 1999• Winnicott D.W., Colloqui con i genitori, Milano 1993

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le maschere del bambino

il bambino raccontato, il bambino immaginato, il bambino realeNicole Benedetti, Isabella Lops, Susanna Paganelli

Roseline Ricco, Alessandro Valzania

Oggi non ho voglia... e ora che ci penso non ne avevo voglia nemmeno ieri, e mol-to probabilmente non ne avrò voglia nemmeno domani; ma non perché non ne siacapace, non credere questo: è semplicemente perché non-ne-ho-voglia!Preferisco non parlare, stare zitto; tanto ci sei tu che parli... Dicono “suo figlio èun genio”, e te ne vanti; sai invece a me che importa? indovina: un bel niente! Midici “sei il mio principino azzurro”; grazie del conforto, di meglio non potevi fare:il principe azzurro è un idiota incompreso. Sì, è vero, lo ritrovi in mille fiabe, maprova a chiedere a qualcuno come si chiama e da dove viene il principe azzurro:non sanno mai rispondere.È possibile che non capisci? Basterebbe chiedermi... non lo so, qualcosa, qualcosadi diverso; ma forse tu ne sei incapace. Che cosa? Vuoi che faccia io il primo pas-so? e perché? Sono solo un bambino, sei tu l’adulto; irresponsabile, ma sei tu. Epoi, sai che c’è?, io non potrò mai chiederti niente, perché ho già il mal di pancia;io non potrò mai chiederti nulla... no, ho paura; paura di diventare come quellolì, dell’ultimo banco, sempre preso in giro...Però, ora che ci penso, almeno lui ha uno scopo, non lascia che gli altri vivano lasua vita; ecco, lo sapevo, anche quello lì è meglio di me.Il mal di pancia aumenta, devo fare qualcosa...

Fatto.

In fondo la mia vita non è così male. Ma sì, che me ne frega?, vado giù in cortile;lasciamo ancora che tanti mi raccontino!

Ciao, specchio, a domani! Mi raccomando, non ti muovere e soprattutto stammibene; ricorda: lì dentro ci sono io.

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In questo contributo è nostra intenzione analizzare come viene raccontato ilbambino con bassa autostima da parte del mondo degli adulti e da se stesso,cercando di individuare nel racconto stesso elementi peculiari alla bassa auto-stima. Partendo dal presupposto che ogni essere umano è alla ricerca della pro-pria identità attraverso la socializzazione, abbiamo ipotizzato che nel bambinocon bassa autostima prevalga un processo inverso: nel tentativo di socializzare,la sua identità viene nascosta o semplificata dietro maschere che vengono defi-nite attraverso il racconto fatto da altri, in particolare gli adulti di riferimento.Per verificare la nostra ipotesi abbiamo cercato di individuare come l’autosti-ma – pur essendo un sentimento interno, individuale – sia fortemente dipen-dente dal mondo circostante. Secondo noi l’autostima si costruisce infatti attra-verso l’imprinting relazionale e la narrazione fatta dagli adulti di riferimento.

Ma prima di analizzare quali siano le dinamiche e i processi messi in atto nellaformazione dell’autostima è importante delineare cosa intendiamo per autosti-ma, differenziandola dalla fiducia in sé.Secondo Juul, “L’autostima è la conoscenza e l’esperienza di quello che siamo.Si riferisce a quanto conosciamo di noi stessi, e a come consideriamo ciò chesappiamo. La stima di sé può essere considerata come un pilastro, una base disostegno. [...] L’autostima, poca o molta che sia, è una qualità esistenziale. [...]La fiducia in sé è invece la misura di ciò che riteniamo di essere in grado di fa-re, di quanto pensiamo di essere validi e capaci, o maldestri e inefficienti” (Juul2003, 65). Nel film Gattaca Jude Law affermava che, pur avendo tutte le capa-cità per vincere, arrivava sempre secondo, non essendo riuscito a trovare lapropria identità. Tutti lo vedevano infatti come vincente, ma lui non si sentivatale.

narrare

Voglio disporre i tempi nel loro ordine armonioso, secondo le attese e le sofferen-ze. Ma i ricordi disubbidiscono, divisi tra la voglia di essere inezie e il piacere disottrarmi al presente. Accendo la storia, spengo me stesso. Alla fine di questi scrit-ti, sarò nuovamente un’ombra senza voce.

Mia Couto, da Terra sonnambula

Secondo la nostra ipotesi l’autostima si costruisce attraverso la narrazione, per-ché essa dà significato e valore alla vita. L’istinto narrativo, come il desiderio diconoscenza, è il modo privilegiato per attribuire significati, dare un senso allapropria esistenza. Raccontare degli altri o ascoltarsi utilizzando gli altri signifi-

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ca identificarsi, ridefinendo la propria identità. La narrazione dà significato,permette di organizzare la conoscenza che si ha di sé e dà la possibilità di in-terpretare il proprio modo di essere. La narrazione deve essere intesa come unostrumento epistemologico per reinterpretare l’uomo alla luce di un sé multiploe sfaccettato: offre spunti di presupposizione, soggettivazione che rende possi-bile la sintonizzazione, la pluralità delle prospettive.In un libro di Didier Van Cauwelaert (2004) il protagonista, che è morto, riescea rimanere ‘in vita’ in quanto tutti i suoi familiari e i suoi amici continuano a ri-cordarlo, a parlare di lui. Essere attraverso la parola dell’altro o parimenti rac-contare gli altri per costruire la propria identità. A volte il sentimento di infe-riorità, e quindi la mancata percezione dello scopo dell’esistenza, esaspera ledifficoltà interpersonali. In questo senso il bambino, per il suo bisogno di en-trare comunque in contatto con gli altri, può dare atto a comportamenti violen-ti e aggressivi. Se non vi è un riconoscimento di lui in quanto individuo, e luistesso si sente sperso, può indossare la maschera del ‘cattivo’, che quanto me-no gli permette di essere visto e raccontato. La collera, secondo Claparède(1997), è la prima risposta ‘dell’inferiorizzato’, che reagisce a qualsiasi cosa pos-sa scalfire la sua personalità: usa la rabbia come proprio strumento di ricono-scimento e mette alla prova gli altri cercando una reazione, che può andare dal-l’accettazione all’opposizione; non importa quale sia, l’importante è che ci sia,poiché fornisce un feedback sulla propria esistenza. Abbiamo notato, anche nei nostri gruppi, come spesso il bambino con bassaautostima abbia difficoltà ad ascoltare gli altri bambini e a sviluppare assiemea loro un’idea comune. Anche Adler (2005) ritiene che il sentimento di inferio-rità sia collegato a un minor sentimento sociale. In questo senso può non esse-

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disegno di A., nove anni

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re importante quale sia la vera reazione degli altri, ma è necessario che essa sca-turisca e che ad essa segua una narrazione in cui il bambino possa riconoscersie perpetuarsi: essere raccontati dà un significato e un senso alla propria esisten-za.

raccontarsi usando gli altri

I vostri figli non sono i vostri figli [...]Essi vengono attraverso di voi, ma non da voi,E benché vivano con voi non vi appartengono.

Kahlil Gibran, da Il Profeta

Nove mesi di simbiosi in cui la madre cresce fisicamente e si modella con lo svi-luppo del bambino che è in lei. E poi? Ecco che arriva questo strano esserino,piccolo e, come vari studi confermano, percepito come brutto. Vi può esserequindi una prima delusione iniziale. Spesso il neonato non è visto di per sé, maper quel bambino che sarà. Allport (1973) sosteneva che “la mente umana de-ve pensare per mezzo di categorie”; vi è così una tendenza naturale, di tutti, apercepire i bambini secondo categorie. “L’ipotesi è che le interazioni tra adul-to e bambino subiscano l’influenza, ad ogni età, dalla maggiore o minore di-screpanza della conformazione fisica e dei comportamenti del bambino mediocosì com’è (‘vero’) rispetto al bambino come l’adulto ritiene che sia.” (Ponzo1983). Il bambino reale è cioè diverso dal bambino immaginato. Per far rien-trare il bambino nell’immagine che si ha in mente, lo si induce, lo si guida, sen-za seguirlo. Può avvenire che l’adulto si sostituisca al bambino nel dare unaspiegazione alle sue reazioni, spiegazione non solo non necessaria ma a voltenociva, a volte non corrispondente. In questo modo l’adulto sovrappone la pro-pria personalità e le proprie risposte a quelle del bambino, che inizia a non ca-pire più cosa realmente sente, perché il rumore esterno di spiegazioni contra-stanti affievolisce il labile udito interno: “È sempre un atto di invadenza inter-pretare i pensieri inconsci di una persona, per rendere conscio ciò che essa de-sidera mantenere inconscio, ed è particolarmente vero nel caso di un bambi-no”(Bettelheim 2002). L’accompagnamento, la scoperta, non avviene e questocrea una fragilità del bambino che non sa stimare le sue sensazioni e dipendedall’esterno per averne spiegazioni. La bassa autostima è infatti spesso correla-ta a un’ipersensibilità verso l’esterno. Il rumore esterno ha finito per coprire lamusica interna, lo scopo, la scoperta. Il bambino è preda dei suoi sentimentisenza riuscire a governarli e a capirli. E così si protende all’esterno, ormai abi-lissimo a interpretare ciò che gli altri gli richiedono, perché dentro è comesvuotato e ciò gli permette una più facile impersonificazione.

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Narrare significa esprimere le proprie sensazioni ed emozioni attraverso il rac-conto. Il bambino però non può farlo. In molti casi, egli è ‘raccontato’ senza al-cuna voce in capitolo e il problema ancor più grave sta nel fatto che non è ingrado di farsi ascoltare. Tutto ciò è alcune volte alla base di un meccanismo in-conscio che l’adulto mette in atto, manifestando il suo volere con un’eccessivaprotezione nei confronti del bambino, senza immaginare che occuparsi dell’al-tro significa sapersi sentire separato, individuo diverso, con esperienze e biso-gni diversi, facendo magari di tale diversificazione un punto di forza per nonsovrapporsi alla personalità del bambino.Nella maggioranza dei casi l’adulto risponde invece alle proprie esigenze, nonsoddisfatte individualmente, attraverso il bambino, che diventa così uno stru-mento manipolabile. Ciò accade soprattutto nei rapporti genitori-figlio, dovequest’ultimo può essere definito metaforicamente un bambino mai nato e quin-di senza una propria identità. È come se l’adulto venisse al mondo due volte: pri-ma nella sua veste reale, costellata di ricordi e occasioni perdute, e poi nuova-mente nelle vesti complicate del proprio figlio, per trasformare in vittorie quelledelusioni incompiute della sua ‘prima vita’. Dal canto suo, il bambino esorcizzatutto questo indossando delle maschere ricamate dalle storie che lo raccontano.

Non bisogna poi soffermarsi solo sul racconto verbale; quello non verbale è avolte molto più efficace. Un bambino in un club disse: “io indosso sempre ilmaglione quando mamma ha freddo”, dimostrando così che i figli possono es-

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illustrazioni di Valerio Papini tratte da E. Ponzo, Il bambino semplificato o inesistente.La struttura delle aspettative sulla normalità dello sviluppo, Roma 1983

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sere raccontati non solo attraverso la comunicazione, ma anche con dei sempli-ci gesti. L’adulto è dunque sempre più presente nella vita del bambino, dive-nendo spettatore di un film di cui lui stesso è il regista.

Il bambino, quindi, viene spesso etichettato e categorizzato e gli viene dato unruolo che spesso non gli corrisponde, una maschera ingombrante che lui indos-sa per non deludere le aspettative degli adulti e del gruppo. Spesso è un bam-bino definito con un unico tratto caratteriale: ad esempio è buono, sa stare congli altri, è gentile, è creativo e così via, fino a identificarlo solo e sempre conquell’unica maschera che a volte fa un po’ comodo, perché facilmente control-labile e definibile. Una delle caratteristiche del bambino con scarsa autostima può essere l’invisi-bilità. Tale invisibilità può essere derivata dal non riconoscimento da parte del-l’adulto dell’identità altrui, ma può divenire anche una reazione del bambinoalle maschere che gli vengono imposte. Molto spesso il bambino raccontato da-gli adulti trova la sua maschera ideale attraverso espressioni che lo rendono as-solutamente ‘invisibile’, invisibilità che non deve essere intesa come un atteg-giamento fanciullesco che si nutre di solo silenzio, ma come una serie di mec-canismi emotivi complessi che il bambino usa per sottrarsi alla sofferenza fami-liare e sociale: si rifugia dalla realtà fatta di piccole apparizioni, per ‘racconta-re’, questa volta da protagonista, la fiaba di se stesso attraverso l’ascolto. Ascol-tare significa sentire la sua voce, quella voce che proviene da molto lontano,dalla torre del castello, dove il bambino non è prigioniero. L’invisibilità è intesa anche come un divenire copia della figura di riferimento.“Voglio una figlia che abbia la pelle bianca come la neve, gli occhi e i capellineri come l’ebano e la bocca rossa come il mio sangue”, sognava la madre diBiancaneve. Secondo Cannoni (2005) la madre deve affrontare due tipi di na-scita: la nascita biologica e la nascita psicologica. Quando la madre è incinta,vive il proprio figlio come in un’evocazione allucinatoria di qualcosa della pro-pria infanzia che è andato perduto. Alla nascita biologica del figlio la mammavive una profonda delusione: il figlio con cui viveva una fase di fusione, vienefisicamente separato. A partire da questo momento, con questo figlio separato,la madre tenterà di ricostruire il suo sogno; al figlio reale si sovrapporrà un’im-magine fantasmatica che ha il compito di ridurre questa delusione fondamen-tale. Si stabilisce così tra madre e figlio una situazione fittizia in quanto il figlio,nella sua maternità, riveste sempre per la madre il significato di qualche altracosa. Non sorprende allora che, nella favola di Biancaneve, la madre buona èquella che sogna la figlia; si trasforma in una madre cattiva, in una matrigna,quando incontra la figlia vera e vive la conseguenza dei suoi sogni: una figliabella che la mette in ombra, che oscura la sua bellezza e dunque la sua identi-tà. Nasce allora un desiderio di negare questa bambina, trasformandola in un

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doppio di sé. Nella società attuale si tende a mitizzare le madri che sembranosorelle, coetanee delle proprie figlie. Le stesse figlie sono specchi delle madri:le mamme tendono a vestirsi da adolescenti, e le figlie da piccole Barbie. I ge-nitori attuali sono più amici, coetanei dei propri figli, invadendo così lo spaziodell’infanzia, dell’adolescenza. Tendono a intervenire sul proprio bambino par-landone come se fosse un appendice di sé stesso; spesso lo descrivono guardan-do solo il lato del suo carattere funzionale all’identità genitoriale; si inseriscononella vita dei figli, volendo dividere con loro gli stessi interessi, gli stessi mon-di. E in questo rapporto il processo di separazione-individuazione viene vistocome una gara in cui si esiste solo a spese dell’altro.

Se l’autostima dei genitori è carente o se i genitori non riescono a vedere i pro-pri bambini come separati da loro è molto probabile che i figli svilupperannouna bassa autostima, perché non hanno potuto sperimentare la propria indivi-dualità. Il bambino è come se non fosse mai nato psicologicamente, cioè nonviene mai separato dalla fusione primaria con i genitori. Si crea così una socie-tà senza adulti, che non sono riusciti a estraniarsi dai figli vissuti come sogni.Quando un adulto parla di bambini con bassa autostima gli impone spessoun’unica maschera, molto tipizzata e schematizzata: “mio figlio è timido”; “èstato bullato”; “è troppo bravo, sono sorpreso/a che sia stato inserito in questoclub”. Più che descriverlo, cerca di leggere le sue azioni all’interno di una ma-schera che gli ha costruito. Esiste anche una difficoltà di inserire il bambino al-l’interno di un arco temporale, facendo ricorso alle regole di unità del teatroclassico: stesso tempo, stesso luogo, stessa azione. Si guarda a questi bambinicome se non avessero una speranza di un futuro migliore.

Un bambino di un club era stato spesso ‘bullato’ dai compagni di classe. I ge-nitori, parlando di questa sofferenza, sembravano più inquieti del fatto chequesto ruolo di vittima rappresentasse un segno premonitorio della vita futuradel proprio figlio, come se dovesse essere sempre ‘bullato’. Nel corso del di-scorso i genitori ci dissero che anche loro da giovani avevano sofferto di bulli-smo alle elementari. Quando gli facemmo notare che proprio la loro esperien-za dovrebbe essere una dimostrazione che l’essere vittima non è una condizio-ne irreversibile, si resero conto di essere usciti da questa esperienza negativa.L’angoscia che avevano subito durante la loro infanzia era stata trasmessa alproprio figlio. Una volta ritrovata la speranza di un futuro migliore, l’angosciaper il proprio figlio diminuì.

La bassa autostima può dipendere anche da come gli adulti vivono lo svilup-po dei propri giovani. Lo sviluppo è spesso inteso, erroneamente, come un au-mento di capacità, mentre dovrebbe essere visto come una successione di tra-

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sformazioni. Si tende allora a lodare esageratamente un giovane per quello chesi considerano progressi individuali, mentre non si tratta che di evoluzioni na-turali. Il bambino viene analizzato per i progressi ottenuti, possibilmente bril-lanti e precoci. Più cresce e più gli si chiede di dimostrare quanto vale, ancheun semplice disegno deve essere giudicato. In un’erronea convinzione chel’autostima sia prodotta dal risultato delle proprie azioni, ogni ‘buon’ compor-tamento viene enfatizzato, creando così un bambino dipendente dai compli-menti. Spesso i genitori interpretano i richiami del figlio come un bisogno diessere lodato e valorizzato, mentre poteva essere un segnale comunicativo cir-ca la propria esistenza e identità. I bambini chiedono in quel momento di es-sere guardati (“mamma, guardami”), non chiedono di essere giudicati con un“bravo, sei riuscito a scendere da solo!”. Perché il messaggio implicito insistesulla capacità acquisita di fare una cosa e non del suo essere felice nel farla.Una collega raccontava che nel suo club un bambino le aveva mostrato il suodisegno. Desiderosa di rafforzare la sua autostima, ha esclamato: “che bel di-segno!”; ma il bambino ha ribattuto: “tanto qualsiasi disegno ti avrei portato,avresti detto che era bello”. Non aveva portato il disegno perché voleva ungiudizio, glielo portava come dimostrazione del suo essere in questo club, del-la sua esistenza.

Abbiamo detto in precedenza come l’essere umano viva un desiderio ambiva-lente e contraddittorio: da un lato il bisogno di costruire il proprio sé, dall’al-tro l’impossibilità di realizzare questa costruzione in solitudine. Sartre direb-be che è attraverso lo sguardo dell’altro che si definisce il Sé. Ma se il timoredegli altri prevale sul processo di separazione, l’immagine che gli altri hannoimposto può ridurre la nostra identità ad una sola maschera. Gli stessi adultihanno difficoltà a superare il timore dell’altro: “la paura della società è il fon-damento della nostra morale” (O. Wilde); tanto più è facile che i bambini pos-sano immedesimarsi nell’oggetto visto dagli altri. Vivere il sogno, l’illusionedei propri genitori porta a una forte confusione identitaria, in cui il bambinosi rifugia nel gioco delle maschere: diventa un ‘come tu mi vuoi’. Come in unafotografia, il bambino si cela dietro a un momento, a uno scatto deciso da al-tri, bloccato nella sua costruzione identitaria. Quando non si è riconosciutiper qualcosa di diverso, l’autostima non può crearsi. I bambini con bassa au-tostima incontrati nei club hanno dimostrato di avere varie maschere, dall’in-visibile all’adultizzato (vedi il contributo “Tipologie del bambino con bassaautostima”); ma l’esperienza de L’isola che c’è ha confermato che si può stimo-lare un percorso di cambiamento, di controbilanciamento della propria ma-schera: infatti, questi bambini tendevano a lacerare la fotografia che li ritrae-va in un solo aspetto, con grande forza e vivacità.È ad esempio il caso di L., una bambina su cui gli insegnanti non sapevano che

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dire. La maestra ci spiegava come lei stessa si trovasse in difficoltà quando do-veva interrogarla, perché vedeva che L. iniziava a impallidire e a tremare. Lamadre, molto sfiduciata in sé e nella sua capacità di essere una buona madre, ciraccontava come le era difficile capire ciò che L. volesse, perché spesso si chiu-deva in un silenzio ostinato. L’unica espressione reale era la rabbia verso la so-rellina. Nel gruppo era per lei necessario farsi vedere, scrivere tante volte, sem-pre più grande, il nome sul cartellone, ricercare un riconoscimento (“ti ricordicome mi chiamo?”), parlare tanto, non volersene mai andare. Poi è arrivata lafase del nascondimento visibile. Sotto al banco costruiva il suo nido e ogni tan-to lanciava degli urletti per essere ricordata o litigava con qualcuno. In tutti imodi, lei c’era.

se hai la “sfortuna” di essere accettato e lusingato,allora...sei abbandonato alla consapevolezza della tua libertà,sei costretto a decidere:ubbidienza o solitudine;ti ritrovi incastrato tra essere quello che devi essereo non essere niente per nessuno.E da quel momento...potrai essere,ma soltanto da solo, e soltanto per te.

Jorge Bucay, da Lascia che ti racconti. Storie per imparare a vivere

riflessioni sul percorso intrapreso nel progetto L’isola che c’è

Ci siamo spesso contrapposti a un giudizio che un insegnante o un genitore da-vano di un bambino; cercavamo sempre di trarre dal bimbo il meglio, dimen-ticando a volte anche gli aspetti negativi. Spesso anche noi gli mettevamo unamaschera e lo ‘appiattivamo’ in un unico aggettivo o giudizio, ma cercavamopoi di riflettere su quanto era avvenuto. La metodologia de L’isola che c’è è stata proprio quella di voler fare uscire tut-te le maschere del bambino attraverso vari racconti. I primi racconti si sono ot-tenuti grazie all’attività del problem solving, dove si dava ai partecipanti la pos-sibilità di offrire varie soluzioni rispetto a un problema, accettando che unbambino non proponesse una soluzione univoca e che potesse quindi cambia-re idea, perché non esiste una sola maschera ma vari aspetti del comportamen-to. L’attività del role-play ha permesso ai ragazzi di raccontarsi attraverso sce-nette inventate da loro, che venivano poi drammatizzate di fronte agli altri.

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Ma il racconto non è stato fatto solo in prima persona. Ogni operatore dovevadescrivere il comportamento di ciascun bambino per ogni incontro, in unascheda dettagliata. Questo racconto veniva confrontato con gli altri operatori ediventava oggetto della supervisione sia individuale che di gruppo. Le osserva-zioni venivano poi presentate agli insegnanti e ai genitori, che a loro volta rac-contavano di questo bambino ad altri. Accade così che a ogni narrazione l’in-terlocutore reagisca con un fenomeno di bilanciamento: se ad esempio a unoperatore veniva detto che un tale bambino era particolarmente aggressivo inclasse, l’operatore tendeva a bilanciare questo giudizio, cercando di raccontareil bambino sotto un’altra luce. Queste varie prospettive hanno restituito lacomplessità, la tridimensionalità identitaria dei bambini. Il fatto di aver impie-gato il tempo a raccontare quel bambino, per inserirlo in vari contesti, gli ha re-stituito la sua complessità come individuo in continua trasformazione: impos-sibile immobilizzarlo in un solo scatto. È un’isola che vive le sue stagioni, il suotempo, a contatto con le altre isole.

Come il piccolo principe di Saint-Exupéry, che chiedeva a un adulto di dise-gnarli il suo sogno: “S’il te plaît, dessines-moi un mouton”, dalla nostra isolachiediamo:

Per favore, raccontatemi.

• Adler A., La tecnica della psicologia individuale, Roma 2005• Allport G.W., La natura del pregiudizio, Firenze 1973• Bettelheim B., Un genitore quasi perfetto, Milano 2002• Cannoni E., La valutazione dello sviluppo. Problemi e strumenti, Roma 2005 • Claparède E., La Scuola su Misura, Firenze 1997• Juul J., Il bambino è competente. Valori e conoscenze in famiglia, Milano 2003• Ponzo E., Nei panni del bambino, Firenze 1983• Van Cauwelaert D., Fuori di me, MIlano 2004

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l’intervento psicopedagogiconel lavoro di gruppo

Gloria Pacchioni, Pamela Pacitti, Roseline Ricco, Valentina De Paoli

Hai fame di sapereFame di crescereFame di conoscere Fame di volare...Forse oggi sono la mammellaChe ti dà il latteE placa la tua fame...Sono felice che oggi Tu voglia questa mammella.Ma non dimenticare:non è la mammella che ti nutre...È il latte!

Jorge Bucay, da Lascia che ti racconti. Storie per imparare a vivere

i processi relazionali nel gruppo

Per identificare cosa si intenda per intervento psicopedagogico nel lavoro digruppo è necessario prima di tutto soffermarsi sul concetto di gruppo. In so-ciologia si distingue il gruppo primario dal gruppo secondario in base alle re-lazioni interne fra gli individui. Nel gruppo primario i membri si conoscono ecomunicano direttamente, hanno scambi faccia a faccia e in questo senso si puòdire che hanno rapporti primari; la prima e più importante conseguenza diquesta struttura è che il numero dei membri deve essere ristretto (Ferrarotti1986), come avviene per la famiglia o la scuola, in modo che le relazioni affet-tive possano diventare intense e creare forti interdipendenze tra gli individui.Nel gruppo secondario, invece, i membri non possono avere rapporti persona-li diretti, ma solo mediati da una struttura burocratica fissa; i rapporti sarannodunque formali, contrattuali, impersonali. Il gruppo, per essere definito tale, deve avere delle caratteristiche peculiari: ci

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sono regole di funzionamento esplicite (basate su accordi o propositi per rag-giungere determinate finalità) e regole implicite (dovute al fatto stesso dellaconvivenza, alle necessità che emergono dallo stare insieme). Il senso di appar-tenenza è la prima regola non scritta che gli individui devono interiorizzare: de-vono acquisire la consapevolezza del loro stare insieme, di essere fusi in un noisociale. L’acquisizione d’identità è un’altra delle regole non scritte che fa diun’insieme di persone un gruppo: i membri devono essere rilevati come tali da-gli osservatori esterni, che li identificano appunto come unità individuata.Come ha spiegato G.H. Mead, l’identità delle persone è in gran parte influen-zata dal punto di vista degli altri, come quello del gruppo sociale di apparte-nenza. Il Sé è essenzialmente una struttura culturale che nasce dalle interazio-ni culturali: “si sviluppa come il risultato delle relazioni che l’individuo intrat-tiene con la totalità dei processi sociali e con gli individui che ne sono coinvol-ti” (Mead 1972). Il concetto di Sé, cioè come gli individui valutano se stessi, è composto dall’i-dentità personale (la narrazione di se stessi, dando significato alla propria espe-rienza), dall’identità sociale (intesa come appartenenza a vari gruppi) e dall’in-terazione tra queste due identità (interazione concepita come un cambiamentoin continua evoluzione prodotto dallo scambio reciproco). “Tra la vita intima(quella della coppia o del raccoglimento solitario) e la vita sociale (retta dallerappresentazioni e dalle istituzioni collettive) il piccolo gruppo può fornire unospazio intermedio che ridà vita ai legami e regola le indispensabili distanze tral’individuo e la società” (Anzieu e Martin 1968). Piccolo gruppo quindi comespazio intermedio, uno spazio in cui gli individui partecipano e imparano chele difficoltà e le paure, che si pensa essere esclusivamente proprie, sono invececomuni a tutti gli altri (Neri 1983). Ci sembra che la classe, all’interno di una scuola, per il suo essere piccolo grup-po, sia un importante tassello del sistemo formativo di base dell’individuo. Leesperienze qui realizzate negli anni hanno aiutato e aiutano tutta la comunità ascoprire le insospettabili capacità dei bambini.

cosa intendiamo per intervento psicopedagogico nella scuola

L’intervento psicopedagogico deve caratterizzarsi non come insegnamento, macome capacità/opportunità offerta al bambino di elaborazione dell’esperienzanel suo complesso; una rielaborazione non generica, ma fondata su una proget-tazione educativa che si ponga come finalità l’attivazione nel bambino della mo-tivazione al fare, al sapere, alla costruzione del proprio Sé. Per fare questo oc-corre partire dall’occasionalità dell’esperienza infantile, dal vissuto individuale ecollettivo far emergere i concetti e sviluppare i percorsi di apprendimento.

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Il primo momento di questo processo rimane comunque la capacità di entrarenel contesto di relazioni infantili, di essere – come educatore – un partner peril bambino e, più specificamente, un partner d’ascolto capace di decodificare isegnali, i codici di comportamento, i molti linguaggi per mezzo dei quali ilbambino esprime e sviluppa il proprio contesto di relazioni. Ne consegue chela concreta operatività psicopedagogica deve essere svincolata da modelli teo-rici preconcetti per attraversare e utilizzare i diversi tipi di sapere e di linguag-gio, per contribuire a sviluppare nel bambino la complessità delle strutture psi-cologiche. I due poli fondamentali diventano così, da una parte, la capacità difar emergere e ascoltare l’esperienza infantile, di leggere l’espressività del bam-bino nei suoi linguaggi verbali e non; dall’altra, la capacità di introdursi in que-sta esperienza per espanderla e favorirne l’elaborazione. Per i bambini ogni situazione è insieme vissuto e apprendimento: all’interno diessa l’educatore propone dei percorsi per trasformare il vissuto del reale in ela-borazione del reale; attraverso un procedimento di tipo simbolico si inducequindi il bambino a uscire dalla situazione reale per pensarla e rappresentarlamentalmente. In questo modo il bambino conquista un sapere che non è soloinformazione, ma anche sapere vissuto. Questo processo è continuamente atti-vo nell’arco dell’intera vita di un individuo, perché le situazioni sono semprediverse e nuove indipendentemente dai contenuti, visto che nuova e diversa èla combinazione degli elementi, delle relazioni e delle emozioni suscitate.

l’intervento psicopedagogico del progetto L’isola che c’è

Una specificità dell’intervento psicopedagogico del progetto L’isola che c’è è sta-to l’inserimento di un gruppo (triade) di operatori in un gruppo di bambini. Siè dunque lavorato su due fronti: al lavoro di formazione del gruppo dei bambi-ni si è affiancato quello della realizzazione di una squadra di lavoro che rispon-desse alle esigenze che di volta in volta si proponevano: un gruppo nel gruppo.Per quanto riguarda le regole implicite, particolari al piccolo gruppo, gli ope-ratori hanno dovuto costruirle insieme ai bambini nel club, proprio perché ilgruppo potesse prender vita e funzionare. Il senso di appartenenza, come pri-ma regola non scritta, è stato sviluppato attraverso la realizzazione di un cartel-lone che raffigurava il disegno di un’isola (L’isola che c’è, appunto) per ogniclub. Il cartellone è composto da un’isola vuota, deserta, circondata dal mare.Sono stati i bambini stessi a costruire, con il passare dei giorni, la loro isola,dandole anche un nome che rispecchiava il gruppo. All’interno del club si è cercato di sostenere le singole identità dei bambini ri-spettando il ruolo che ognuno di loro aveva all’interno del gruppo; per l’accre-scimento dell’autostima è infatti importante che il bambino diventi consapevo-

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le che il suo modo di dominare l’esperienza influisce sull’identità di un gruppoe si accorda con la concezione che questo gruppo ha dello spazio, del tempo edella vita (Erikson 1993). In un club, ogni bambino ha dato all’isola un nome diverso: l’isola del mistero(una bambina che è rimasta zitta e in disparte), l’isola del fuggitivo (un bambi-no che si divertiva a scappare e a essere inseguito...), l’isola di Tiè! (un bambi-no che ha esternato la sua separatezza mediante un “Tiè!” a chi lo prendeva ingiro).

È stato importante per noi rispettare il rapporto individuale con i bambini al-l’interno del gruppo: in una scuola, ad esempio, vi erano alcuni bambini moltoagitati e anche aggressivi verso gli altri. L’équipe ha provato a dir loro che nonsi riusciva a far funzionare il gruppo se non c’era la libertà per ogni bambinodi esprimersi, che tutti avevano diritto a uno spazio di espressione. Questa con-siderazione generale ha portato invece a un’escalation di violenza. Si è poi par-lato con ogni bambino separatamente e ciò è stato salutare e ha rasserenato glianimi.Diversi insegnanti hanno riferito che in seguito alla partecipazione al gruppo(composto da alunni appartenenti a varie classi) si è avuto un miglioramentocollettivo nei processi di socializzazione. Alcuni bambini hanno trovato degliamici nel gruppo dell’isola, che hanno continuato a frequentare anche succes-sivamente. La socializzazione diventa un punto di forza che aiuta a diventarepiù sicuri. “Il miglioramento dell’autostima è in stretto rapporto con l’andamento delgruppo. In effetti, l’importanza che i membri attribuiscono al buon funziona-mento collettivo non dipende soltanto dalla necessità di mantenere l’idea illu-soria del gruppo come una sorta di paradiso (illusione gruppale). Vi è ancheun’altra fondamentale ragione: la ricostruzione della loro autostima è collega-ta, in considerevole misura, con l’esito dell’impresa collettiva di dare vita a ungruppo valido e capace. La partecipazione al gruppo [...] dà alle persone chene fanno parte un senso di apertura di possibilità che li aiuta anche in azioniminute della vita quotidiana. [...] Come risultato del positivo rapporto con ilgruppo certi aspetti della personalità [...] da sempre presenti, ma quiescenti edinespressi, prendono vita e acquistano profondità e intensità” (Neri 1995).Questo aspetto è denominato animazione e si verifica in modo più evidente neipartecipanti che vengono da situazioni familiari svantaggiate. All’interno deiclub vi sono stati diversi casi di bambini molto timidi che all’inizio non parla-vano mai, ma con il tempo hanno cominciato a esprimersi, a inventare storie,fino a superare la propria timidezza nella recita finale, presentando scenette daloro ideate di fronte a un pubblico reale. In linea generale si è cercato sempre di lavorare sia sulla dimensione gruppale

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che su quella individuale. Queste variazioni sono fondamentali per permettereai bambini di non conformarsi al gruppo e di far uscire la loro particolarità, an-che in situazioni dove altri bambini monopolizzano il gruppo.

L’équipe degli operatori ha svolto un lavoro continuo di accettazione e consa-pevolezza dei propri meccanismi psicologici. Attraverso una costante supervi-sione ogni operatore ha dovuto elaborare il suo vissuto a scuola, riflettendo sul-le proprie esperienze infantili. Ognuno è entrato in contatto con la parte fan-ciullesca di sé, imparando a conoscerla, contenerla e controllarla. La supervi-sione, la presenza di un tutor all’interno di ogni gruppo di lavoro, hanno per-messo a ognuno di confrontarsi con i bambini in modo sereno e libero da pre-giudizi o da condizionamenti interni. L’osservazione, man mano che il proget-to andava avanti, dei cambiamenti e dei miglioramenti che avvenivano nei bam-bini infondeva inoltre in tutti coraggio e fiducia nelle proprie risorse.

Nessun uomo può rivelarvi nulla, se non quello che già sonnecchia nell’alba del-la vostra conoscenza. [...] Se (il maestro) è saggio non vi inviterà ad entrare nelladimora del suo sapere, ma vi guiderà piuttosto verso la soglia della vostra mente.Kahlil Gibran, da Il Profeta

• Anzieu D. e Martin J.Y., Dinamica dei piccoli gruppi, Roma 1968• Erikson E. K., Infanzia e società, Roma 1993• Ferrarotti, F., Manuale di sociologia, Bari 1986• Mead G.H., Mente, sé e società, Firenze 1972• Neri, C., Prospettive della ricerca psicoanalitica nel gruppo, Roma 1983• Neri, C., Gruppo, Roma 1995

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il controtransfert negli operatori

Elisa Allo, Franco Colantoni, Maria Luisa Indelicato

L’intento di questo lavoro è di estendere il concetto di controtransfert, solita-mente associato a un ambito puramente psicoterapeutico, a un più ampio con-testo, nello specifico quello che ha caratterizzato l’intervento nei club del pro-getto L’isola che c’è. Per una migliore comprensione del nostro discorso ci pa-re indispensabile riportare alcune sintetiche definizioni riguardanti concettiche, direttamente o indirettamente, sono costitutivi di questo contributo e necaratterizzano la struttura, anche per fornire al lettore una conoscenza di alcu-ni presupposti teorici utili. Di seguito sarà trattato il controtransfert all’internodella relazione terapeutica con soggetti in età evolutiva, per poi approfondire,in particolare, le reazioni controtransferali che hanno caratterizzato il lavorodegli operatori all’interno dei club, utilizzando come termine di paragone leesperienze riportate dagli stessi.

transfert e controtransfert

Secondo quanto riporta Galimberti, “il transfert designa in generale la condi-zione emotiva che caratterizza la relazione del paziente nei confronti dell’ana-lista, e in senso specifico il trasferimento sulla persona dell’analista delle rap-presentazioni inconsce proprie del paziente. Il transfert dell’analista sul pazien-te è comunemente denominato controtransfert. Questo, detto anche contro-traslazione, indica nella sua accezione più estesa il vissuto emotivo globale del-l’analista nei confronti del paziente. Detto vissuto costituisce uno strumento es-

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senziale per la comprensione e la comunicazione con il paziente, nonché perl’orientamento delle proprie risposte emotive, mentre nella sua accezione piùspecifica si riferisce alle reazioni inconsce che il transfert del paziente inducenell’analista” (Galimberti 1999).Secondo la concezione freudiana il controtransfert costituisce, di fondo, un ele-mento di ostacolo al progredire della terapia, poiché invalida quell’atteggia-mento di neutralità e distacco emotivo che Freud raccomandava. Nell’accezio-ne contemporanea (Gindro 1994) invece, partendo dal concetto secondo cui iltrattamento analitico è innanzitutto una relazione, si ritiene il controtransfertnon solo ineliminabile, ma talvolta indispensabile alla terapia stessa quale stru-mento di conoscenza e partecipazione. Alla luce di quanto detto, se proviamo a pensare che anche nel rapporto fraoperatore e bambino esistono fattori inconsci che operano una reciproca ‘tra-sformazione’, diventa di estrema importanza non respingere il controtransfert,ma accoglierlo e controllarlo, perché è alla base di quella reciprocità trasforma-tiva che conferisce alla relazione l’aspetto dinamico che le è proprio. Il contro-transfert diventa dunque lo strumento privilegiato per comprendere la naturadella relazione instaurata. Esperienze che spesso non trovano espressione in pa-role, le possiamo captare solo a partire dai sentimenti che sorgono in noi. Perl’operatore il controtransfert diventa un concetto-condizione a partire dal qua-le il bambino può essere pensato.

il controtransfert nella psicoterapia infantile

Si è spesso ritenuto che le dinamiche emotivo-affettive e le proiezioni fosseroconfinate nella stanza dell’analisi. Oggi sappiamo che i processi psicologici ditransfert e controtransfert avvengono nel corso di ogni relazione, tanto più quan-to questa è significativa e motivata dal bisogno. Si tratta di un evento interperso-nale inevitabile e naturale che interessa un terapeuta (e in questo caso anche unoperatore) quando si pone come partecipante empatico in un processo dinami-co. Lo studio del controtransfert nella psicoterapia infantile si è svolto in granderitardo e questi temi sono comparsi in letteratura soltanto in anni recenti. Il controtransfert può essere considerato come la reazione del terapeuta alleproiezioni del paziente su di lui. La reazione può avere origine dalla stimolazio-ne o dal risveglio di parti irrisolte dell’analista stesso o dalla creazione di emo-zioni e fantasie che devono essere interamente attribuite all’intensità e alla qua-lità dell’identificazione proiettiva del paziente. I fenomeni controtransferalipossono avere un potente effetto sulla psicoterapia, sia come utile strumentoterapeutico nel lavoro coi pazienti, sia come ostacolo capace di influenzare ne-gativamente se il terapeuta non è consapevole dell’origine delle proprie emo-

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zioni (Anastasopoulos e Tsiantis 1999). La capacità dell’analista di fungere dacontenitore convertirà quest’esperienza in qualcosa di significativo per il pa-ziente e per la comprensione del processo terapeutico. Il suo ascolto deve quin-di indirizzarsi verso le proprie emozioni e i propri sentimenti, dal momento chequeste risposte offrono spesso indizi importanti. Sebbene il controtransfert provenga sempre dal terapeuta, una risposta di que-sto tipo può essere provocata dalle caratteristiche psicologiche del paziente oda qualche altro elemento della situazione ‘a incastro’ che si crea tra terapeutae paziente. Tale risposta va messa in relazione all’influenza del passato del tera-peuta sulle sue angosce e sui suoi sentimenti nei confronti del bambino o deigenitori. Allo stesso modo la resistenza di controtransfert nel lavoro con i bam-bini è indicativa della riluttanza del terapeuta a identificare fonti personali diangoscia e a metterle in rapporto con la vita intrapsichica del paziente. Tuttociò richiede che il terapeuta/operatore abbia contattato ed elaborato quelleparti infantili a volte soggette a meccanismi di rimozione.

Nel lavoro con i bambini la natura della relazione include in particolare il con-tatto fisico. Il gioco, soprattutto, è uno dei modi in cui il bambino si esprime ecomunica i propri sentimenti e fantasie. L’operatore utilizza a sua volta dei sim-boli nel gioco e partecipa attivamente attraverso posture, mimica e atteggia-menti del corpo per essere in contatto con le parti più primitive del bambino. La comunicazione col bambino avviene non solo attraverso l’ascoltare, l’acco-gliere e il partecipare al gioco, ma anche nell’attivazione di contenuti ed emo-zioni personali attinte dalla propria esperienza infantile e dalla propria storia.Vi è pertanto una minore distanza tra il materiale inconscio del bambino e l’o-peratore, e ciò favorisce l’emergere di sentimenti controtransferali. Tali senti-menti rappresentano uno degli strumenti migliori per comprendere ciò che staaccadendo nel bambino. Spesso infatti le comunicazioni dei bambini pongonoforti richieste alla capacità dell’operatore di mantenersi in contatto con i pro-pri sentimenti e alla sua capacità di comprendere il contatto inconscio espres-so e ricevuto. Tutti questi fattori intensificano la comparsa di sentimenti con-trotransferali nell’operatore. Il meccanismo dell’identificazione proiettiva (“meccanismo di difesa in cui ilsoggetto proietta su qualcun altro un affetto o un impulso per lui inaccettabilecome se fosse realmente l’altro ad aver dato vita a tale affetto”, Lingiardi e Ma-deddu 1994) è utilizzato da alcuni bambini come strumento principale per co-municare ed esprimere i bisogni, i sentimenti più spiacevoli, i traumi vissuti ele parti di sé scisse o frammentate. Per l’operatore può essere molto dolorosofungere da contenitore per questi sentimenti: può avvertire sensazioni di vuo-to, solitudine, perdita di valore, rabbia. Alcuni bambini hanno difficoltà a esprimersi a livello verbale, il loro gioco può

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essere privo di immaginazione e ciò può provocare sentimenti di noia, frustra-zione, inutilità. Durante il percorso del club possono ad esempio verificarsi mo-menti di impasse in cui alcuni bambini sembrano non voler partecipare alle at-tività, mostrandosi particolarmente oppositivi o distratti. Vi sono bambini osti-li, testardi, esigenti, oppure passivi, sottomessi, che possono indurre nell’ope-ratore sensazioni di impotenza o determinare un’incapacità di andare loro in-contro e proporre una relazione empatica che incoraggi il gioco. In altri casibambini rabbiosi e tirannici possono suscitare una ritorsione rabbiosa e rende-re difficile un tipo di risposta chiara e ferma nonché una chiarificazione su ciòche è permesso e ciò che non lo è. In altre situazioni ancora vi può essere l’e-spressione di bisogni simbiotici, veicolati simbolicamente nel gioco attraversola ricerca continua di contatto fisico e di fusione o la richiesta di soddisfazionedi alcuni bisogni (ad esempio i bambini che saltano in grembo, che vengono ad-dosso, che baciano). Questo può provocare reazioni emotivamente intense, in-dipendentemente dal sesso del bambino; è quindi importante cercare di defini-re dei limiti, senza con ciò distanziarsi o stare sulla difensiva. Il bambino può riacutizzare nell’operatore conflitti interni irrisolti che produ-cono ansia, rischiando di creare nell’operatore un distanziamento eccessivo, ri-gidità, freddezza e inibizione. Tutto ciò può condizionare l’atteggiamento pro-fessionale, poiché si ha un coinvolgimento emotivo inadeguato. Un altro tipodi coinvolgimento eccessivo può verificarsi nel caso in cui vi sia una forte iden-tificazione con un bambino che, con le sue caratteristiche, il suo aspetto e la suamodalità di interagire ricorda il proprio ‘bambino interiore’. In questo caso l’o-peratore sarà particolarmente attento alle sue risposte, potrà prediligere lavo-rare o giocare con lui rispetto agli altri oppure, al contrario, eviterà istintiva-mente di stare a stretto contatto con quelle parti che evocano sentimenti spia-cevoli e che preferisce rimuovere. Per concludere, è necessario sottolineare quanto sia importante realizzare conil bambino una relazione genuina, in modo che egli possa fare esperienza di unapersona che stia con lui, che lo ascolti con la mente scevra da giudizi, pregiudi-zi e aspettative, che gli permetta di seguire e rappresentare i propri pensieri esentimenti e ne rispetti lo spazio espressivo, diversamente da quanto, in molticasi, può sperimentare in casa o a scuola (Montecchi 1994).

esperienze e riflessioni

Nel tentativo di ricavarne una visione generale, si è scelto di chiedere agli ope-ratori il modo in cui hanno vissuto l’esperienza dei club. Le esperienze raccol-te abbracciano un ampio spettro di reazioni transferali e controtransferali, conin comune almeno un denominatore: la capacità di mettersi nei panni del bam-

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bino. Trattandosi di un intervento di tipo pedagogico, e non terapeutico, è sta-to favorito il contatto fisico con il bambino; è stato pertanto possibile gratifica-re e incoraggiare la più libera espressione dei bisogni del bambino, evitando at-teggiamenti asettici o distanzianti, come in certi casi può risultare la neutralitàdi tipo analitico. Gioco e azione sono stati gli strumenti privilegiati che l’ope-ratore ha offerto in prima battuta, riportando naturalmente la comunicazionesul piano simbolico non verbale, tipico del bambino. La richiesta di risposte edi azione che il bambino è stato incoraggiato a porre durante l’esperienza delclub ha portato di per sé a un’esperienza controtransferale regressiva all’inter-no dell’operatore (Anastasopoulos e Tsiantis 1999). Dall’indagine effettuata tra gli operatori coinvolti è apparso subito chiaro co-me i fenomeni di controtransfert siano stati stimolati soprattutto dai sentimen-ti nati dal Sé infantile e dalle esperienze di bambino. Frasi come “in alcuni bim-bi vedevo me da piccola”, “questa bambina mi somiglia” o “la scuola mi ricor-dava quella che ho frequentato da piccolo” esprimono in modo chiaro come lecomponenti infantili dell’operatore venissero messe in gioco nelle modalità re-lazionali con un ‘bambino preferito’, con un club in particolare o, in alcuni ca-si, con l’istituzione scolastica tout court. L’impatto con le proiezioni del bambi-no sembra che abbia influito sulla capacità empatica degli operatori, poichénella maggior parte delle interviste questi mostrano di aver avvertito tali proie-zioni come rivolte direttamente alla propria persona: “prestavo troppa atten-zione nel momento in cui lei me ne chiedeva, quasi con compiacimento” oppu-re “all’inizio ha attirato la mia attenzione perché mi creava dei problemi, intral-ciando lo svolgimento delle attività”. Secondo Schowalter (1985) scegliere di lavorare con soggetti in età evolutivapermette all’adulto di entrare in contatto con aspetti del proprio Sé che nell’in-fanzia sono stati ignorati dai genitori. In tali casi si può sviluppare un transfertgenitoriale positivo, che probabilmente nasconde il desiderio inespresso di mo-strarsi un genitore migliore rispetto ai propri o di gratificare un personale biso-gno di dipendenza. Non sono state infrequenti affermazioni come “ammetto diessermi fatta coinvolgere in slanci di affettuosità e tenerezza”, “quando lo ve-devo in difficoltà mi veniva spesso di rassicurarlo”, “tenerezza e maternage so-no stati ‘agiti’ perché in un contesto protetto”, “cercavo di […] essere chiara-mente sempre disponibile lì dove era lui a chiedere qualcosa”. Il rischio peròsembrerebbe essere quello di diventare eccessivamente gratificanti o permissi-vi, soprattutto nel fissare limiti e confini contenitivi, colludendo con i bisognidi accudimento e di dipendenza del bambino (Hammer e Kaplan 1967). I club sono stati progettati per consentire ai bambini l’espressione libera di ri-sorse e potenzialità in un ambiente protetto che tuttavia facilitasse l’holding.Non a caso, infatti, sin dal primo incontro al piccolo gruppo sono state offertedelle regole che, nel corso degli incontri, sono state adattate e, a volte, riformu-

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late in base alle esigenze emergenti nelle diverse realtà gruppali. La forza concui sono talora emersi sentimenti e proiezioni del bambino – che spesso si ma-nifestavano con agiti aggressivi difficili da contenere – ha restituito all’adultosentimenti e proiezioni personali inaccettabili tanto da provocarne la rimozio-ne, il rifiuto e, pertanto, il bisogno di una maggiore stabilità nell’organizzazio-ne del setting e degli interventi: “non si riusciva a svolgere tutte le attività e que-sto mi faceva stare in ansia”, “a volte sentivo che era necessario far sentire le re-gole in modo più rigido”. Da quanto detto finora si evince che il tipo di controtransfert prevalente all’i-nizio degli incontri ha avuto connotazioni positive, tanto da essere stato di fre-quente alimentato da fantasie di salvataggio nell’operatore, che si è identifica-to con una figura genitoriale idealizzata, onnipotente e capace di risolvere ognidifficoltà del bambino (Gartner 1985). Molti però concordano nel descrivereun’evoluzione in negativo dei propri sentimenti man mano che gli incontriprocedevano e che il bambino immaginato lasciava il posto al bambino reale:“bambini che mi facevano simpatia, poi hanno suscitato sensazioni di rifiuto eallontanamento”, “negli ultimi incontri la simpatia si è trasformata; dapprimanel suo opposto, poi sembra aver trovato una via di mezzo nell’accettazionerealistica della bambina e della sua personalità”, “quando ho iniziato a prova-re sentimenti opposti, ho capito che il bambino mi stava manipolando e l’hovisto in una luce nuova […] ho dato meno spazio alle sue richieste, rivolgen-done in modo più equo anche agli altri bambini”. Il fallimento delle fantasiedi salvataggio sembra risvegliare nell’adulto che presta cure sentimenti di rab-bia, rifiuto, disillusione, abbandono, a volte competizione nei confronti delbambino e dei genitori (Gartner 1985) o persino, nel caso specifico, nei riguar-di degli insegnanti e dell’istituzione. Naturalmente, in taluni casi, è accadutoche un controtransfert negativo abbia condotto l’operatore a sperimentarnegradualmente uno positivo: “ho riflettuto sulla mia rabbia e ho deciso di ac-cantonarla per lasciare tutto lo spazio a quel sentimento protettivo che emer-geva”. La costante supervisione degli incontri ha consentito di monitorare l’evoluzio-ne dei processi controtransferali dei singoli operatori, da soli e in squadra, al fi-ne di individuare le resistenze, imparare a riconoscere le tonalità affettive, mo-dulare le reazioni emotive e gestire i comportamenti durante lo svolgimentodelle attività ludico-pedagogiche. È infatti risaputo quanto sia difficile ravvisa-re l’esistenza del controtransfert quando siano in atto fenomeni regressivi cheentrano in conflitto con le capacità dell’Io di osservare e operare in modoobiettivo (Marcus 1980).

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• Anastasopoulos D. e Tsiantis J., “Aspetti del controtransfert nella psicoterapia ana-litica con i bambini e gli adolescenti: una breve rassegna dei contributi della lettera-tura”, in Tsiantis J. (ed.), Il controtransfert con i bambini e gli adolescenti, Milano1999

• Galimberti U., Dizionario di psicologia, Milano 1999• Gartner A., “Countertransference issues in the psychoterapy with adolescents”, in

Journal of Child and Adolescent Psychotherapy, 2, 1985, 187• Gindro S., Da inconscio a inconscio, Napoli 1994• Hammer M. e Kaplan A., The Practice of psychotherapy with children, Homewood

1967, 27-38• Lingiardi V. e Madeddu F., I meccanismi di difesa, Milano 1994• Marcus I., “Countertransference and the psychoanalytic process in children and

adolescents”, in Psychoanalytic Study of the Child, 35, 1980, 285-299• Montecchi F., “L’ ascolto nel trattamento analitico dei bambini e degli adolescenti”,

in Gindro S. et al., Da inconscio a inconscio, Napoli 1994• Schowalter J., “Countertransference in work children: review of a neglected con-

cept”, in Journal of the American Academy of Child Psychiatry, 25, 1985, 1-40

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consigli per genitori e insegnanti

Isabella Lops, Francesca Passaro

Dopo aver ripetutamente ascoltato la descrizione che una madre fa del modo in cui go-verna il proprio bambino, è sorprendente trovarsi costantemente a concludere che nonsi ha nulla da insegnare a quei genitori; si può soltanto dire che non è pensabile fare dimeglio, ma solo così o di peggio.

Donald W. Winnicott, da Colloqui con i genitori

Nel presente contributo si cercherà di offrire a genitori e docenti impegnati nelcomune progetto formativo, rivolto al proprio figlio/alunno, una serie di sug-gerimenti operativi che derivano da un’analisi condivisa della situazione emo-zionale, considerata l’incidenza che può avere sul piano comportamentale edell’apprendimento.Ogni persona, nel suo crescere e maturare, si costruisce un modello interioreche diviene il motore del suo agire, la motivazione per costruire stabili e signi-ficative relazioni interpersonali. La nascita di un modello operativo interno(MOI) del Sé e di una singola figura di attaccamento è stato un argomento svi-luppato dalla Main (1991), in base agli studi di Bowlby (1972-1983) sulle for-me di attaccamento che possono costruire modelli del Sé e di una particolarefigura. Il modello di relazione di attaccamento, secondo Amini e altri, viene acostruirsi alla fine del primo anno di vita, sulla base dei ricordi dell’interazionefra il bambino e la figura di accudimento. I ricordi che costituiscono il MOI,derivanti da un attaccamento sicuro, si manifestano nell’aspettativa di esserecurato e accudito in presenza di situazioni problematiche; tutti i sentimenti e leemozioni provate sono valutate in modo positivo. In presenza di un MOI, esi-

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to di un attaccamento evitante, si hanno aspettative di disapprovazione o rifiu-to, rispetto alla richiesta di cure, e una valutazione negativa dei propri senti-menti. L’attaccamento ambivalente si riflette invece in dubbi e incertezze ri-spetto alla disponibilità di aiuto, da parte della figura di riferimento. Dal MOIdell’attaccamento disorganizzato emergono, infine, strutture di significatocomplesse, molteplici, contraddittorie e dissociate.Da quanto indicato si evidenzia, dunque, come il fattore della rappresentazio-ne interiore, costruita da ogni bambino nella relazionalità evolutiva, divenga labase per una identità sicura o insicura.

Per i bambini con scarsa autostima, i giudizi e le valutazioni esterne assumonoun peso grandissimo, che condiziona notevolmente il loro equilibrio psichico:ogni frase può creare uno scompenso emotivo e divenire fonte di sofferenza.Anche le valutazioni positive e le approvazioni in questo caso possono avere uneffetto negativo: “quando uno studente ha un problema con se stesso, il che disolito significa che è infelice o non soddisfatto di sé o del suo comportamento,l’apprezzamento o non viene neanche ascoltato, oppure gli fa sentire semplice-mente che il suo insegnante non lo capisce, oppure provoca in lui una consa-pevolezza anche più forte della poca stima che ha di sé” (Gordon 1991).Com’è il mondo interno di un bambino che non ha una buona stima di sé? Viè uno sguardo rivolto fuori, verso le persone intorno per osservare le reazioniai propri comportamenti. Non è difficile evidenziare come vi sia un ideale di Sé elevato, di fronte al qua-le il bambino si sentirà sempre inferiore. Può accadere che si senta comunqueincapace anche in ambiti dove oggettivamente riesce bene: in una recente ras-segna di articoli sull’autostima pubblicata dalla rivista Le Scienze viene più vol-te evidenziato come non vi sia un rapporto tra successo scolastico e autostima;le persone con autostima elevata non è detto che riportino risultati particolar-mente positivi in tale ambito, ma evidentemente non hanno bisogno di realiz-zazioni esterne per sentirsi bene. Questo non accade a chi ha bassa autostima,che sente maggiore necessità di risultati esterni perché è come se nutrisse den-tro di sé una sensazione di vuoto. Per questo vi è anche una minore accettazio-ne delle frustrazioni.Il bambino con bassa autostima ha un rapporto con sé stesso instabile, non sen-te di poter contare più di tanto sulle proprie forze. Un’esplorazione tranquillae curiosa dell’ambiente, frutto anche di un buon legame di attaccamento con lefigure di riferimento, viene spesso a mancare. Vi è un timore diffuso e una ne-cessità di avere punti stabili: “bisogna stare vicini vicini” diceva un bimbo diun club.

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consigli

L’autostima è una funzione poliedrica, che può manifestarsi in diversi contesti(scolastico, familiare, percezione corporea, competenza ambientale e interper-sonale, emotività), assumendo facce molto diverse fra loro (‘bambino invisibi-le’, ‘iperattivo’, ‘sfuggente’ e ‘adultizzato’: vedi il contributo sulle tipologie delbambino con scarsa autostima); è anche molto condizionata dagli stimoli am-bientali significativi per il bambino, come l’interazione con la famiglia, le inse-gnanti e i coetanei; se si vuole intervenire su di essa, è quindi importante tenerconto di tutti questi fattori. Si possono suddividere gli interventi a seconda del destinatario (il bambinostesso, la famiglia e la scuola) e all’interno di questa prima suddivisione consi-derare alcune attività più generali e altre più specifiche per la tipologia delbambino e per la componente selettiva di autostima a cui si fa riferimento.

a. intervento sul bambino

È essenziale e necessario intervenire attivamente sul bambino, dando partico-lare rilievo ad alcuni aspetti dell’interazione.

importanza del lavoro di gruppoPer migliorare l’autostima del bambino la modalità più adeguata è coinvolger-lo innanzitutto in un lavoro di gruppo, che di per sé ha risvolti terapeutici. L’at-tività in un gruppo prevede infatti alcuni aspetti fondamentali che intervengo-no indirettamente sull’autostima dei bambini.• regole di comportamento – Per coordinare e gestire un gruppo in modo

produttivo è fondamentale stabilire delle regole che servano da punto di ri-ferimento e consentano di sviluppare comportamenti responsabili e auto-nomi. La totale e indiscriminata libertà di movimento può apparire infattiuna falsa libertà, soprattutto ai bambini piccoli: può essere la libertà di nonconcludere nulla, di non sviluppare interessi, di fare esperienze autolesio-niste ecc. In un contesto caotico o eccessivamente permissivo e in assenzadi una guida, il bambino non dispone di parametri per inquadrare la real-tà, è vittima della libertà degli altri – soprattutto dei più esuberanti e viva-ci – e impegnato a difendersi o ad attaccare, non coltiva alcuna abilità; unambiente strutturato, che difenda o contenga il bambino a seconda dellasua personalità, è invece un contesto di per sé più produttivo, che favori-sce la creazione di spazi in cui ognuno si sente libero di esprimersi. È im-portante che tali regole vadano rispettate in modo coerente e costante neltempo.

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• pensiero creativo – All’interno del gruppo è importante favorire il dialogoe la collaborazione; attività specifiche, come il problem solving, riescono afar emergere soluzioni diverse di fronte alle difficoltà e il bambino imparacosì a visualizzare la realtà da punti di vista diversi. È importante che il bam-bino con bassa autostima si confronti con gli altri e sviluppi il pensiero crea-tivo, che poi lo faciliterà nella soluzioni di problemi reali, portandolo a suc-cessi che, come un circolo vizioso, ne aumenteranno l’autostima.

• coltivare l’autostima degli altri – Il lavoro di gruppo, stimolante ma noncompetitivo, consente al bambino di rapportarsi con gli altri e individuarnepregi e difetti; soprattutto nel caso del bambino adultizzato, ipercritico ver-so sé stesso e gli altri, imparare ad apprezzare e cogliere le abilità dei com-pagni comporta inevitabilmente ripercussioni sulla percezione delle propriecapacità. Si può imparare a valorizzare le abilità altrui, senza per questo sen-tirsi sminuiti o incapaci; in questo modo si rafforza l’autostima interperso-nale intesa come possibilità di costruire relazioni sociali positive.

• vincere la timidezza – Nel caso del bambino invisibile il lavoro di gruppo èparticolarmente terapeutico; sta soprattutto all’operatore incoraggiare all’ini-zio l’interazione con gli altri e prediligere attività che coinvolgano tutto ilgruppo, dove il bambino timido non percepisce tutta l’attenzione rivolta sudi sé e inizia a creare legami con gli altri membri. Vincere la timidezza rendeil bambino più attivo e partecipe, così contribuendo inevitabilmente a miglio-rare competenza ambientale e interpersonale, nonché l’autostima globale.

Indirettamente, quindi, impostare un lavoro di gruppo in modo strutturato ecollaborativo ha di per sé ripercussioni positive sui livelli di autostima dei bam-bini. All’interno del lavoro di gruppo si deve poi, lavorando quasi individual-mente sul singolo, soffermarsi su alcuni obiettivi.

stimolare la creativitàIncoraggiare il bambino ad esprimere la propria fantasia (con un disegno, unastoria da inventare, una piccola scenetta da recitare, un percorso da inventareecc.) lo mette in contatto con i suoi limiti, ma soprattutto con le sue capacità,entrambi elementi fondamentali per l’autostima: conoscere i propri limiti con-sente di creare obiettivi realistici, evitando quindi di cadere in sconfitte sicurecausate dalla scelta di mete troppo elevate; essere consapevoli delle proprie at-titudini e preferenze ci permette di coltivarle e migliorarle, creando spazi diproduttività e creatività che aumentano inevitabilmente la stima che si ha di sé.

responsabilizzare il bambinoL’autostima sulla competenza ambientale riguarda la percezione della propriacapacità di poter intervenire direttamente e attivamente sul contesto in cui vi-

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ve, sentendosi così responsabile in prima persona delle proprie azioni. Incorag-giare la partecipazione attiva del bambino stimolandone la progettuale, facen-dogli vincere la timidezza e alimentando il suo pensiero creativo può portaredirettamente a una sua responsabilizzazione e quindi a una percezione di séquale parte integrante e attiva all’interno del contesto. Può essere a volte importante fare dei colloqui a tre (genitore-insegnante-bim-bo). Soprattutto un bambino con autostima carente, infatti, con poca fiducianelle proprie possibilità e che non si sente in grado di controllare le proprieazioni, può pensare che genitori e insegnanti si incontrino per complottare con-tro di lui, per prendere decisioni senza sentire il suo parere. Il partecipare lorende maggiormente attore e consapevole che non vi è alcun processo nascostoche gli altri fanno senza che lui possa partecipare. Di conseguenza il bambinoè più stimolato a mantenere i propositi, dato che ha partecipato direttamentealla loro discussione, e può avere l’impressione di averli creati lui stesso.

evitare le critiche generaliAffinché un bambino possa riconoscere i propri sbagli e tentare di superarli èimportante dare indicazioni il più possibile specifiche e non generiche: dire aun bambino “non sei capace”, invece di “in questo disegno dovevi disegnaremeglio questa parte”, o dirgli “sei cattivo”, piuttosto che “non devi salire suldivano con le scarpe”, implica un lavoro di individuazione del problema e ri-cerca della soluzione completamente diverso: è quasi impossibile individuare lestrategie pratiche per ‘essere capaci’ o ‘essere buoni’; più semplice è capire co-me fare meglio quel disegno (ad esempio usando all’inizio un modello, usandola matita invece che direttamente i pennarelli ecc.) e come fare per non sporca-re il divano (togliersi le scarpe). Riuscire a trovare una soluzione ai problemimigliora inevitabilmente la stima della propria competenza ambientale (non-ché, nel caso del divano, l’umore della mamma!).

prove psicomotoriePer quanto riguarda l’autostima corporea è importante che il bambino svilup-pi un buon controllo motorio nelle azioni globali (saltare, correre, camminareecc.) e nell’equilibrio dinamico e statico; il bambino deve inoltre saper perce-pire la forza e l’intensità del proprio corpo rispetto agli altri.In questo caso si tratta quindi di aumentare la conoscenza del Sé corporeo at-traverso attività che implicano direttamente il corpo e la sua funzione comuni-cativa (ad esempio percorsi, gioco dei mimi, esplorazione dello spazio). Unamaggior conoscenza e quindi un maggior controllo delle proprie prestazioni fi-siche influisce inevitabilmente sulla percezione corporea e la competenza am-bientale. È questo però solo un livello superficiale dell’autostima corporea, chepuò implicare dinamiche più profonde e complesse.

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la fiaba come esperienzaÈ proprio dell’uomo, in momenti delicati della sua vita, avere la necessità di unaritualità per affrontare i passaggi e le difficoltà esistenziali. Il bambino con bas-sa autostima si sente spesso preda degli eventi, perché non ha un punto di rife-rimento stabile in sé. Per questo potrebbe essere per lui molto utile una sorta diritualità giornaliera, una cornice che si ripeta e che dia sicurezza, e dove diriger-si con il pensiero nel momento di difficoltà. La costanza dell’oggetto è infatti perlui spesso instabile, ossia non vi è un riferimento interno che gli permetta di di-re “anche se mamma è in ritardo, tra poco arriverà”, senza disperarsi appenanon la vede. Laddove l’immagine sia introiettata stabilmente, essa è presente an-che quando non vi sia la persona ed è un punto di riferimento su cui il bimbopuò appoggiare il suo pensiero e tranquillizzarsi; altrimenti, vi è sempre una si-tuazione di tensione in atto, che impedisce anche di dedicarsi tranquillamentead altre cose. Questo porta a vivere male ogni cambiamento: una supplente alposto della maestra, un cambio di aula o i cambiamenti all’interno della struttu-ra familiare. Avere una buona autostima aiuta a mantenere una solidità anchequando le cose vanno male, anche in presenza di una sfida. Laddove l’autosti-ma sia carente non vi è posto per gli errori e l’espansione è limitata.

Da questo punto di vista, le fiabe sono un nutrimento molto importante. Spes-so si nota come i bambini chiedono che gli sia riletta la stessa fiaba più e piùvolte, perché parla di un problema che in quel momento loro sentono vicino, ela narrazione permette loro di venire a contatto con la situazione in manierasimbolica, trovando così strategie idonee a contenere l’ansia. È fondamentaleche la lettura venga fatta da una persona a loro cara, che li accompagni all’in-terno di questo processo. La fiaba, come spiega Bettelheim, ha alcune caratteristiche fondamentali che larendono speciale e le conferiscono una reale funzione terapeutica. Innanzi tut-to parla di eventi vicini alla vita del bambino, anche se raccontati in forma fan-tastica. I personaggi non vengono percepiti come personaggi eccezionali concui sia impossibile identificarsi; spesso infatti non sono perfetti, ma mostranomolte debolezze, stimolando in tal modo un profondo processo di immedesi-mazione. All’interno della storia il protagonista deve affrontare diverse prove,ma alla fine il suo coraggio e la sua costanza vengono premiati. Il lieto fine èfondamentale per il valore della favola, che infonde fiducia e dà la sensazioneche si possa superare qualunque difficoltà grazie alla propria intelligenza e for-za d’animo, anche laddove ci si senta inferiori, ad esempio per forza fisica omezzi a disposizione.Ogni volta che la fiaba viene letta il bambino percepisce tutto questo in formaintuitiva e questi semi di fiducia entrano in lui e iniziano pian piano a germoglia-re. La lettura di una storia non è solo un balsamo nei momenti di difficoltà, ma

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fornisce anche soluzioni; soluzioni che non hanno nulla a che fare con le conso-lazioni o le spiegazioni razionali, che in genere creano solo maggiore difficoltà econfusione. Con la fiaba, senza bisogno di commenti, si arriva al completamen-to di una storia, di un’azione e si crea un legame più stabile con chi si fa trami-te – e quindi aiutante, complice – nel leggergliela. Condividendo un’esperienzasi costruisce un percorso in comune.Attraverso l’immedesimazione con i personaggi della favola il bambino può vi-vere con loro avventure ed esplorazioni che spesso tanto teme nella realtà, tro-vando strategie per affrontarle positivamente; prova il senso della riuscita attra-verso un percorso che lo ha messo alla prova. È importante rispettare le versioni originali delle storie (come le favole dei fra-telli Grimm, alcune favole di Andersen ecc.) e non servirsi di riassunti o rivisi-tazioni che spesso eliminano passaggi importanti e necessari allo svolgimentodel percorso rituale. Alla fine di ogni favola il personaggio ha assunto in séqualcosa che prima non aveva: vi è stata una trasformazione. E la medesima tra-sformazione avviene nell’anima di chi legge e di chi ascolta.

b. intervento su genitori e insegnanti

Poiché la percezione che ognuno ha di sé si forma anche in risposta a come siviene percepiti dagli altri, è importante includere interventi mirati nei confron-ti della famiglia e della scuola, e che possano indirettamente andare a influiresull’autostima del bambino.

rafforzare l’autostima di genitori e insegnantiLa stima che gli adulti hanno di loro stessi è di aiuto per due motivi: in primoluogo perché fornisce un modello positivo cui i bambini imparano a tendere;in secondo luogo perché l’adulto non necessita di successi sostitutivi a spese delbambino e non gli impone quindi attività non condivise cui il bambino devesottoporsi.Questo punto è dunque strettamente correlato con il successivo.

rispetto degli adulti per le espressioni e le iniziative dei ragazziÈ importante che la persona adulta, nello stimolare la creatività del bambino,rispetti le sue scelte incoraggiandolo sempre, a prescindere dalle proprie aspet-tative e proiezioni.

ridimensionamento degli standard dei genitori e insegnantiSolitamente il bambino con bassa autostima, soprattutto il bambino adultizzato,ha interiorizzato standard eccessivi per la sua età, che gli derivano dalla famiglia

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e dalla scuola. È importante conoscere le abilità del bambino rispetto alla sua età,senza sovrastimarle o sottostimarle ed evitando di sovraccaricare eccessivamenteil bambino o di non stimolarlo affatto.

prospettive educative

Vengono qui segnalate alcune indicazioni operative sul come e cosa fare rispet-to a eventuali situazioni di conflitto o di contrasto fra la figura adulta, genitoreo insegnante, e il bambino con problemi di autostima. Si riportano di seguitodue esempi.

L., nove anni, primogenito di due figli e frequentante la IV classe, è segnalato dal-le insegnanti per i suoi comportamenti aggressivi e di sfida, nonché per ripetutiepisodi di sopraffazione verso i coetanei in aula, nei bagni e in cortile. L. provie-ne da una famiglia disagiata: la madre ha avuto precedenti penali e il padre lavo-ra in un distributore di benzina; il grado di scolarizzazione dei genitori è minimo.La famiglia di origine della madre è molto presente e si è fatta carico, per quantopossibile, dell’educazione del secondo figlio, mentre L. ha vissuto la prima infan-zia solo con i genitori.Dal racconto delle insegnanti si ricava che L. non è mai riuscito a interiorizzarealcuna regola di comportamento, neanche la più elementare, come lo stare sedu-to; il suo linguaggio ha caratteristiche dialettali molto forti, con episodi di turpi-loquio verso le insegnanti e i compagni, e accentuato uso di termini sessuali. L.appare violento e litigioso; se richiamato, attribuisce sempre la colpa ad altri. Nel-le attività di gioco vuole prevalere cercando di dimostrare la sua forza; non accet-ta le sconfitte e vi si oppone con violenza. Con alcune figure educative sembra ave-re una migliore disponibilità al colloquio e, nel tempo del rapporto individuale,manifesta bisogno di affetto e di attenzione.Nel profitto scolastico dimostra incapacità sul piano della letto-scrittura e nell’a-rea logico-matematica. Si è ottenuta un’insegnate di sostegno per sette ore setti-manali dalla classe II. Dal colloquio con le insegnanti si ricava la loro esasperazio-ne e il senso di impotenza di fronte alla situazione dell’alunno. Tale atteggiamen-to non produce una valorizzazione ancorché minima delle possibilità di L. e ri-chiede un sostegno agli insegnanti per ricostruire una relazionalità positiva.Al termine del club si è riusciti a ottenere un incontro con la madre. La signoraS. si presenta in ritardo all’appuntamento e irrompe nella stanza precisando cheha poco tempo; è una signora alta e robusta, veste alla moda, è molto truccata, par-la con voce alta, dà del ‘tu’, non porge la mano per il saluto e resta in piedi pertutta la durata dell’incontro. Durante il colloquio instaura un monologo tenden-te a riverberare sugli operatori le sue insofferenze e la sua incapacità nel seguire

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il figlio a casa, addossando a L. le colpe della sua disperazione; alle richieste di pre-cisazioni risponde con lamentele. La frase più ricorrente è “ditemelo voi quello chedevo fa’!”.La figura del padre viene descritta come assente e lontana; la madre appare quasiinvidiosa del rapporto che il marito ha con L., legato al calcio, alle moto e allemacchine. Il secondogenito emerge come soggetto idealizzato e vittima del fratel-lo più grande.

analisi della situazioneL. appare come un bambino fortemente privo di autostima; la sua storia di vitaè caratterizzata da episodi di abbandono che hanno inciso in senso fortementenegativo sul suo sviluppo affettivo e sociale. Durante il periodo in cui la madreera in carcere, e nel successivo periodo della sorveglianza vigilata, L. ha subitouna forte deprivazione affettiva, con affidamento parziale ai nonni materni. Di conseguenza, L. potrebbe aver sviluppato un MOI che lo fa percepire comerifiutato dagli altri; la sua reazione a tale condizione di ansia elevata, dovuta aquest’esperienza di semiabbandono, gli induce comportamenti di attacco, ag-gressività e svalutazione dell’altro, così da ripetere il modello introiettato del‘bambino cattivo e perdente’.Nel club ha inizialmente ripetuto le stesse modalità di reazione presentate inclasse, soprattutto verso i maschi. Nel quarto incontro gli è stato affidato il ruo-lo di dirigere un percorso senso-motorio, secondo la metodologia Willems, conl’uso di un sonaglio per ritmare il tempo; ricevuto l’incarico, è apparso preoc-cupato e quasi restio ad accettarlo. Sollecitato ed elogiato, ha preso in mano laconduzione del gioco, espletandolo in modo attento e valido, così da riceverecomplimenti da parte degli animatori e di due compagni. Dopo questo incon-tro gli è stato richiesto di collaborare per il riordino dei materiali e dell’aula; intali azioni L. ha dimostrato ordine, livello esecutivo corretto, atteggiamentotranquillo e piacere nel portare a termine il compito.

suggerimentiLa situazione di L. richiederebbe un’azione educativa e relazionale basata sul-la valorizzazione della persona e la creazione, all’interno della classe, di gruppidi lavoro centrati sul compito, con l’affidamento a L. di responsabilità coinvol-genti le sue abilità manuali. Occorrerebbe che i docenti non focalizzassero larelazione sull’apprendimento e la valutazione, ma sulla relazione di ascolto,cercando di dialogare, spiegare, per demotivare i comportamenti negativi.La crescita di una minimale stima di sé porterebbe L. a reagire con più fiducianelle sue possibilità; gli atteggiamenti di bullismo e aggressività potrebbero es-sere incanalati in un versante più produttivo, con un fare attivo e costruttivo. Ilcoinvolgimento del gruppo servirà per il confronto e per stimolare le spinte co-

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operative. L’insegnante di sostegno può fungere da valido contenitore delle an-sie di prestazione del bambino e da mediatore con il gruppo-classe, facendopartecipare il bambino a laboratori espressivi, grafico-manipolativi e pittorici.

M. è una bambina di dieci anni, frequentante la IV classe della scuola primaria;viene segnalata dalle insegnanti per un’eccessiva timidezza, che la porta a isolarsidal resto del gruppo-classe. M. è la secondogenita di quattro figli, ha un fratello didodici anni, una sorella di sette e un fratellino di appena diciotto mesi; il padrelavora come architetto in uno studio, la madre insegna danza in una scuola di bal-lo. A casa con loro, dopo la nascita del fratellino, è andata a vivere la nonna pa-terna, vedova da poco tempo.Dal racconto delle insegnanti M. appare come una bambina tranquilla, ordinata, ri-spettosa e sensibile, usa un linguaggio forbito, ha interiorizzato le regole, si impe-gna nel lavoro; il suo profitto scolastico è molto buono sia nell’ambito logico-mate-matico che in quello linguistico-antropologico. Da qualche tempo, però, M. sembracambiata: la sua timidezza diventa ogni giorno più forte sino a portarla all’isola-mento dai compagni. Durante la ricreazione preferisce rimanere in disparte a colo-rare un album di figure oppure a leggere i libri della biblioteca; va a giocare con icompagni solo dopo una richiesta continua, ma dopo qualche minuto, si ritira conuna scusa e torna al suo posto. In alcune situazioni difficili, come ad esempio unaverifica non programmata, M. reagisce con il pianto e uno stato di ansia incontrolla-ta. La collaboratrice scolastica ha affermato di averla vista spesso piangere nei bagnidella scuola, nelle occasioni in cui le insegnanti di classe erano assenti ed erano sta-te sostituite da supplenti; in tali casi il suo atteggiamento di chiusura risultava mol-to forte, la sua tolleranza alle frustrazioni era molto bassa e le procurava un ‘blocco’nell’eseguire anche il compito più semplice.Durante gli incontri del club M. è apparsa come una bambina invisibile: non in-terveniva mai durante il problem solving, non desiderava essere invitata a parte-cipare alle attività musicali, l’unica sua concessione era quella di lavorare in di-sparte con il pongo e il das.Dal colloquio avuto con i genitori, sono emerse alcune dinamiche significative. Lacoppia si presenta in anticipo rispetto all’orario da noi prefissato; i genitori di M.appaiono ben vestiti, il loro abbigliamento denota una cura minuziosa dei parti-colari, sembrano sorridenti e formali negli atteggiamenti. Si qualificano subito co-me i genitori di M. e tengono a precisare di essere stati sorpresi nell’apprendereche la loro figlia avesse, queste le parole da loro usate, “problemi di stima di sé”.Durante il colloquio viene spesso sottolineato come M. fosse precisa sia a scuolache a casa e come obbedisse sempre senza mai discutere a ogni loro richiesta.Ne risulta il ritratto di una bambina brava e volenterosa; le problematiche eviden-ziate dagli insegnanti vengono liquidate dai genitori con questa frase: “Sono solocapricci, la bambina deve imparare a essere più matura! ”.

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analisi della situazioneM. appare come una bambina fortemente dipendente dalle pressioni e dagli at-teggiamenti valutativi dei genitori; la sua identità personale risente dell’imma-gine che si sono costruiti i genitori all’interno del nucleo familiare. Prevale inlei l’ansia da prestazione e la paura di insuccesso le fa cadere le poche certezzeacquisite del suo ruolo di ‘brava bambina’; la nascita del fratellino e la conse-guente diminuzione di interessi da parte dei familiari possono aver innescatoun meccanismo proiettivo per cui M. si sente incapace di rispondere in modoadeguato alle richieste delle figure parentali.Le situazioni di cambiamento, sia in ambito scolastico (assenza della maestra diclasse) sia in ambito familiare (presenza della nonna e nascita del fratello piùpiccolo), non sono facilmente gestibili a causa della fragilità emozionale di M.Il suo MOI, che si è costruita a fatica nelle relazioni interpersonali e intrapsi-chiche, ha subito uno sbilanciamento che richiede continui atteggiamenti ras-sicuranti e valorizzanti. M. deve ritrovare la sicurezza di sé, per accettare cheanche l’errore o la trasgressione di una consegna non sono eventi catastrofici,ma situazioni normali di crescita.

suggerimentiAi genitori si può consigliare di dedicare più spazio e tempo al dialogo e alprendersi cura di M., limitando le richieste di prestazioni elevate che mettereb-bero in difficoltà la figlia e non collimerebbero con l’immagine di sé, da lei gra-dualmente costruita. Alle insegnanti si consigliano attività di lavoro di gruppoe drammatizzazioni con scelta libera del ruolo da interpretare.Un’attività sportiva di squadra, con cui vincere o perdere, potrebbe far speri-mentare la sconfitta o la vittoria del noi invece che dell’io, facilitando la cresci-ta di un’identità personale, autonoma e propositiva.

suggerimenti operativi

Si riportano di seguito alcune delle più ricorrenti situazioni che si sono presen-tate nel corso degli incontri tra genitori, insegnanti e operatori dei club, con loscopo di prospettare alcune linee operative che possano rispondere, a breve omedio termine, alle difficoltà riguardanti i bambini che presentano problemi diautostima, per cause di ordine familiare, socio-relazionale o scolastico.

Genitore: “le insegnanti dicono che mio figlio a scuola è irrequieto, dispersivonell’attenzione, instabile nel comportamento; a casa, invece, si comporta bene,gioca in silenzio... è come se non ci fosse. Com’è possibile?”

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Sarà importante che i genitori non agevolino tutte le difficoltà del figlio piani-ficandogli la giornata, le attività e i problemi. Al contrario, i momenti di squi-librio in rapporto a situazioni problematiche possono essere utili al bambinoper porsi in confronto diretto con la realtà. L’autostima per crescere ha bisognodella consapevolezza di riuscire a superare le difficoltà. Il confronto con i co-etanei perderà così la carica competitiva e sarà, invece, incentrato sulla collabo-razione e la cooperazione.È inoltre da considerare che la scuola può essere vissuta come ambiente valu-tativo e i docenti visti come giudici. Un gruppo-classe centrato sul lavoro co-operativo e finalizzato ad attività di laboratorio può fungere da modello dere-sponsabilizzante e dare fiducia al singolo.

Insegnante: “questo alunno ci fa disperare, non sta mai fermo, non porta a ter-mine il lavoro scolastico, disturba e interviene a sproposito, fa l’esibizionista. Igenitori dicono che a casa passa il tempo a vedere la televisione o sta nella suastanza in modo tranquillo. Cosa bisogna fare?”

In primo luogo occorre riflettere sul perché di questo comportamento così di-verso; a casa vive una situazione di tranquillità, non competitiva, senza confron-to con gli altri coetanei, per cui la sua organizzazione mentale riesce a esserepiù equilibrata. Evidentemente a scuola vive una situazione di conflitto, forseper la richiesta elevata delle insegnanti rispetto alle sue possibilità o per la cat-tiva relazione con i coetanei. Occorrerebbe adeguare meglio il livello delleaspettative scolastiche, in modo da far crescere l’autostima e abbassare i livellidi difesa che si manifestano con l’ipermotilità. Potrebbe essere interessante, inun lavoro di piccolo gruppo, affidargli il ruolo di conduttore.

Genitore: “Mia figlia torna a casa e mi riferisce che alcune bambine la minac-ciano, la prendono in giro, le rubano le figurine e la merenda; le insegnanti nonsembrano prendere in considerazione la cosa. Che devo fare?”

La bambina potrebbe aver assunto inconsapevolmente il ruolo di ‘vittima’ perattirare su di sé l’attenzione dell’adulto (genitori e insegnanti) o anche perun’incapacità di difendersi autonomamente. È importante credere e dare fidu-cia a quanto racconta la bambina, stimolare l’insegnante a osservare più appro-fonditamente le dinamiche di gruppo, in modo che l’alunna possa beneficiaredi una protezione esterna, per imparare poi con il tempo a instaurare con gli al-tri rapporti alla pari, basati sul rispetto reciproco.

Insegnante: “C’è un alunno molto bravo, tranquillo, assennato e responsabi-le che da un po’ di tempo è totalmente cambiato: fa errori di distrazione, in-

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venta scuse per giustificare le sue azioni sbagliate. I genitori interpellati nonsembrano dare importanza alla cosa, dicendo che passerà. Cosa può esseresuccesso?

In primo luogo occorre analizzare quali avvenimenti o episodi, intercorsi nel-l’ultimo periodo, possono aver modificato lo stile di apprendimento usuale. Po-trebbero anche esservi stati interventi da parte di gruppi di coetanei, che pos-sono aver interferito nel suo interesse per gli studi o averlo deriso per la stimaricevuta dai docenti. Vi possono essere delle situazioni di tipo familiare chehanno modificato la ‘quotidianità’ e creato situazioni di tensione che si riper-cuotono sugli apprendimenti. Il fatto che i genitori non diano importanza allacosa può essere dovuto a situazioni similari già verificatesi in passato o a scar-sa attenzione alle modifiche del comportamento.Se invece il comportamento è intenzionale, per esprimere un disagio interno,occorrerà agire con forme di rassicurazioni che diano all’alunno la certezza chela scuola non ‘vuole bene’ solo ai bravi, ma è attenta a tutti, favorendo così unospazio di ascolto all’interno del quale il bambino potrà sfogarsi senza paura.

Genitore: “Mia figlia da un po’ di tempo fa storie la mattina quando deve an-dare a scuola, non vuole alzarsi e dice di avere mal di testa e di pancia; la not-te si sveglia e chiede di poter dormire con noi. Cosa dobbiamo fare?”

La situazione può essere analizzata dalla prospettiva di una persona che sta gra-dualmente perdendo la stima di sé e si sente inadeguata o vittima. Qualora ilcontesto della classe sia troppo competitivo e basato sul profitto, andrebbe ri-dimensionato; se invece la bambina ha subito episodi di bullismo, sarà impor-tante farla parlare, affinché non tenga per sé il segreto vissuto in modo trauma-tico ma lo condivida, così da limitare l’ansia.Un’attenta analisi delle relazioni tra i membri della classe, fatta dai docenti, po-trà essere utile per rilevare situazioni di forte leadership negativa, causa di pos-sibili episodi di sopraffazione. Ai genitori si consiglia di accogliere le richiestedi protezione per fungere da mediatori dell’ansia e di aiutare la figlia a raccon-tarsi. Potrebbero anche essersi attivate dinamiche regressive, che celano il desideriodi essere più piccolo, senza obblighi scolastici e con la possibilità di dormirecon i genitori. Fasi di regressione nello sviluppo possono nascere in reazione aeventi stressanti come la nascita di un fratello, separazioni o perdite. Bisogne-rebbe vedere se vi sono stati eventi recenti che hanno condizionato il compor-tamento della bambina; in tal caso gli adulti dovrebbero avere nei suoi confron-ti un atteggiamento affettuoso e paziente, che possa favorire l’elaborazione del-la sofferenza.

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conclusioni

È importante che un intervento teso a migliorare l’autostima tenga conto dellacomplessità e multicomponenzialità del fenomeno su cui si vuole lavorare. Oc-corre inoltre tenere a mente che spesso l’autostima può essere un sintomo se-condario, conseguenza di problemi ad essa non correlati (ad esempio abuso,dislessia, iperattività). In questo caso un intervento esclusivamente incentratosull’autostima, seppur complesso e multicomponenziale, non produrrà l’effet-to desiderato.L’autostima è un processo attivo, un modo di relazionarci col mondo e con lepersone; è anche un modo per interpretare e dare un significato agli eventi incui siamo coinvolti: migliorarla non risolve certo tutti i problemi, ma può tra-sformare profondamente la modalità di percepire il mondo e di agire su di es-so.

• Baumeistein R.F. et al., “Il mito dell’autostima”, in Le Scienze, marzo 2005• Bettelheim B., Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle

fiabe, Milano 1977• Bowlby J., Attaccamento e perdita, 3 vol., Torino 1972-1983• Gordon T., Insegnanti efficaci. Il metodo Gordon: pratiche educative per insegnanti,

genitori e studenti, Firenze 1991• Main N. (1991) “Conoscenza metacognitiva, monitoraggio metacognitivo e model-

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• Mansueto Zecca G., Il bambino inferiorizzato. Predisposizione e prevenzione, Firen-ze 1982

• Ponzo E., Il bambino semplificato o inesistente. La struttura delle aspettative sullanormalità dello sviluppo, Roma 1976

• Tambelli R., Zavattini G.C., Mossi P., Il senso della famiglia. Le relazioni affettive delbambino nel disegno della famiglia., Roma 1995

• Winnicot D.W., “La capacità di essere solo”, in Winnicot D.W., Sviluppo affettivo eambiente, Roma 1974

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glossario

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le 30 parole dell’autostima

Nicole Benedetti, Maria Luisa Indelicato, Gaia Zorzi

accettazione

In ambito psicopedagogico l’accoglimento che l’adulto fa del bambino comepersona, considerandone le potenzialità e riuscendo a guardare oltre il partico-lare di quel momento. Essere accettato è il primo atto necessario alla costitu-zione della fiducia di base nel bambino. La mancata accettazione di un bambi-no da parte dei genitori può comprometterne lo sviluppo del senso di stima edi fiducia in sé. L’accettazione è ritenuta da Rogers (1971) “considerazione po-sitiva incondizionata” e, insieme a genuinità ed empatia, una delle qualità di ba-se del terapeuta e dell’operatore. L’accettazione significa per Rogers “una com-pleta disponibilità nei confronti dell’Altro”.

È importante essere disponibili e aperti non solo nei confronti del bambino, ma an-che della scuola, degli operatori, dei genitori, degli insegnanti, al fine di creare unclima di lavoro aperto e costruttivo. Un atteggiamento di disponibilità viene per-cepito dal bambino, che impara a fidarsi; dal genitore, che sente di potersi raccon-tare, di avere uno spazio in cui ricevere informazioni e consigli; dall’insegnante,che ha la possibilità di trovare un confronto e un punto di vista diverso dal proprio.Disponibilità vuol dire anche trovare il tempo per le riunioni (con insegnanti e ge-nitori), per degli eventuali incontri in più (ad esempio per la preparazione di unospettacolo).

aggressività

Tendenza o sentimento che può essere presente in ogni comportamento e inogni fantasia volta alla distruzione dell’altro o di se stessi, come pure all’autoaf-fermazione (dal latino adgredior: vado in avanti). In psicoanalisi S. Freud

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(1989), nella teoria delle pulsioni, parla dell’esistenza di due spinte fondamen-tali presenti in ogni essere umano: l’Eros, inteso come ricerca del piacere, eThanatos che porta alla distruzione e alla morte, e si manifesta attraverso azio-ni e comportamenti aggressivi. A. Adler (1947) interpreta invece il concetto diaggressività come espressione della volontà di potenza volta alla compensazio-ne di sentimenti di inferiorità.Erikson (1982) distingue un’aggressività ostile, prodotta da un Io che lavora intermini difensivi, e un’aggressività costruttiva, che si esprime in termini di atti-vità, energia e spirito di iniziativa. Numerose ricerche hanno dimostrato comemolto spesso bambini aggressivi o impulsivi interpretano come intenzionale an-che un’offesa o un gesto accidentale, reagendo in maniera violenta e destandoantipatia nei coetanei e negli adulti (Pope, McHale, Craighead 1992).

L’aggressività, come reazione alla frustrazione o meccanismo di difesa, può essereun aspetto importante del bambino con scarsa autostima, che proprio per le sueinsicurezze e paure preferisce attaccare per primo piuttosto che rischiare di essereattaccato. L’espressione di tale sentimento può essere sia fisica che psicologica: nelprimo caso si esprime ad esempio picchiando i compagni o distruggendo oggetti,anche propri; dal punto di vista psicologico può invece manifestarsi destrutturan-do il lavoro di gruppo, assumendo un atteggiamento oppositivo, non ascoltando,urlando e usando un linguaggio volgare. All’interno dei club abbiamo cercato digestire questo tipo di reazioni attraverso modalità di contenimento emotivo, evi-tando comportamenti punitivi o eccessivamente repressivi e stimolando il bambi-no a riflettere sui risultati delle proprie azioni, attraverso attività di problem sol-ving che favoriscono il confronto con gli altri e la presa di coscienza.

amore, affetto, attaccamento

Harlow (1959), Bowlby (1972-1983), Klaus e Kennell (1976) hanno studiatol’attaccamento e la formazione dei legami affettivi nei primi stadi dello svilup-po. La ricerca di Harlow sulle scimmie ha rivelato che l’attaccamento a una fi-gura materna è fondamentale per un sano sviluppo e per la socializzazione. Glistudi di Bowlby sui bambini istituzionalizzati hanno messo in evidenza schemicomuni di reazioni patologiche alla separazione dalla madre, come l’apatia e l’i-nerzia. Klaus e Kennell vedono nel periodo della formazione dei legami (cioèla stretta interazione fisica ed emotiva che segue la nascita) un periodo delica-to che produce un forte attaccamento tra madre, padre e bambino, che condi-ziona e influenza le capacità relazionali future.Mostrare affetto e amore è uno strumento indispensabile di lavoro all’interno deigruppi ludico-pedagogici; in particolare i bambini con bassa autostima richiedono

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(esplicitamente o meno) continue dimostrazioni di affetto, come tenere la mano,abbracciare l’operatore o regalargli dei disegni. È importante stabilire con il bam-bino un rapporto di tenerezza, fiducia, comprensione e gentilezza, circondarlo disicurezza e attenzione. Amore significa anche accettazione, disponibilità all’ascol-to e sospensione del giudizio: il bambino deve sentirsi accettato e amato in manie-ra incondizionata, indipendentemente dal suo comportamento. Rispondere a que-sti bisogni crea un clima di confidenza e di fiducia all’interno del quale il bambi-no si può esprimere liberamente, senza paura di essere giudicato.

ansia

Esperienza soggettiva specifica o stato patologico che comporta una condizio-ne di generale attivazione delle risorse fisiche e mentali del soggetto.L. Ancona definisce l’angoscia come corrispondente alla situazione di trauma,“cioè ad un afflusso di eccitazioni non controllabili perché troppo grandi nel-l’unita’ di tempo […] L’ansia corrisponde invece ad un processo di adattamen-to di fronte alla minaccia di un pericolo realistico; questo processo è una fun-zione dell’Io che se ne serve come di un segnale, dopo averla prodotta, per evi-tare di venire sommerso dall’afflusso traumatico delle eccitazioni” (Galimberti1999).

A scuola il bambino si trova immerso in situazioni in cui gli vengono impostenuove regole che fino ad allora non aveva incontrato; deve iniziare a competerecon i coetanei e questo può provocare, in particolare in chi ha problemi d’autosti-ma, un forte disagio. Una certa dose di ansia nel bambino può essere comunquedel tutto ‘normale’, soprattutto se conseguente a uno stress come uno spavento, laperdita o l’allontanamento di un genitore o di un amico, l’aver preso una pagellacon cattivi voti. Il bambino iperansioso è invece pervaso da una continua sensa-zione di apprensione, che lo porta a temere sempre il peggio, come se qualcosa diterribile stesse sempre per accadere; immagina pericoli, minacce e soprattutto nonsi sente in grado di affrontarli. I segnali d’ansia si possono rintracciare nell’insof-ferenza, nell’intolleranza, nell’iperattività, nella tendenza alla distrazione, incomportamenti aggressivi. Tali stati d’animo devono essere considerati un campa-nello di allarme, indice di un malessere psicologico più profondo.

apprendimento

È un processo psichico che permette una modificazione durevole del compor-tamento per effetto dell’esperienza. Con questa definizione si escludono tutte

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le modificazioni di breve durata dovute a condizioni isolate, eventi occasiona-li, episodi isolati, fatti traumatici; il riferimento all’esperienza esclude invecetutte quelle modificazioni determinate da fattori innati o dal processo biologi-co di maturazione. Si è soliti distinguere due tipi di apprendimento: l’appren-dimento associativo e quello cognitivo. Il primo è fondato sulla relazione stimo-lo-risposta che mette capo alla formazione di abitudini; l’apprendimento cogni-tivo, detto anche complesso, coinvolge invece funzioni psichiche superiori co-me la percezione e l’intelligenza.

Il bambino con bassa autostima ha appreso tramite esperienze negative che non ècapace di svolgere con successo le prove e smette di tentare a volte ancor prima diiniziare un compito. Per questo motivo i bambini che hanno una bassa autostimavanno spesso male a scuola. Tramite attività che assicurano il successo in un am-biente non competitivo e tramite esperienze positive il bambino può sperimentar-si efficace, migliorando la percezione di sé, e apprendere nuovi modelli di compor-tamento.

ascolto

Prima di tutto è necessario fare una distinzione tra il semplice ascolto, vale a di-re l’azione di stare a sentire con attenzione, e l’ascolto ‘attivo’, ovvero non sem-plicemente l’atto di udire (da un punto di vista fisico) elementi sonori, ma la ca-pacità di interagire prestando attenzione e partecipando alla comunicazione.Oltre alla registrazione del messaggio trasmesso dall’interlocutore è presentequindi anche la comprensione dello stesso tramite una rielaborazione, una ri-formulazione e una risposta di quanto viene ascoltato. Un interlocutore cheascolta attivamente – attraverso il contatto visivo, una gestualità ricettiva e dan-do significato agli elementi percepiti – invia un forte messaggio relazionale al-l’altro: manifesta interesse e partecipazione emotiva reali.

La predisposizione all’ascolto è una capacità innata, ma il saper ascoltare è un abi-lità che il bambino apprende nell’interazione con l’ambiente. Ascoltare in una si-tuazione sociale, come una discussione di gruppo, implica infatti l’utilizzo di altrecompetenze, come ad esempio il dover aspettare il proprio turno oppure il tenerconto di quello che si è ascoltato dagli altri prima di intervenire, evitando ripeti-zioni. Dall’esperienza sul campo è emerso che molti bambini con bassa autostimahanno difficoltà nelle discussioni di gruppo (ad esempio nell’attività di problemsolving e circle time) proprio perché ascoltano l’altro con fatica; di conseguenzasi è spesso assistito a situazioni in cui i bambini si accavallano nel parlare uno al-l’altro. Questa situazione crea una barriera all’ascolto e un senso di frustrazione

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nei partecipanti alla discussione, che non riescono a esprimere la loro opinione enon si sentono capiti. Per questo l’educazione all’ascolto è importante, affinchéognuno trovi il proprio spazio e nessuno si senta escluso. Nell’ascolto rientra l’at-tenzione non solo su ciò che viene detto ma anche su ciò che non viene detto, va-le a dire tutti quegli elementi che fanno parte della comunicazione non verbale(gesti, tono della voce, postura, sguardo), compresi anche i silenzi, spesso densi disignificato.

attenzione

Aspetto del funzionamento mentale che permette a una certa informazione ostimolo di entrare pienamente nel campo della coscienza, mentre altre vengo-no accantonate. È un processo selettivo presente sin dalla nascita, che si perfeziona e incremen-ta insieme al progredire delle abilità percettive e cognitive. È una funzionementale che può essere volontariamente diretta da parte del soggetto o richia-mata in modo autonomo dalle caratteristiche dello stimolo. Ha due importan-ti effetti: mettere in evidenza alcune informazioni ed escludere dalla coscienzatutte le altre (Canestrari e Godino 1997). Ciò ha un effetto protettivo sulla no-stra mente, che rischierebbe altrimenti di essere ‘inondata’ da un eccessivo nu-mero di informazioni. Sulla teoria dell’attenzione selettiva sono stati svolti nu-merosi studi (Cherry 1953) per indagare sulle modalità con cui, tra i moltepli-ci stimoli provenienti dal mondo esterno, il soggetto ne selezioni alcuni lascian-done cadere altri.

Il bambino con problemi di autostima presenta molto spesso delle difficoltà nelmantenere un’attenzione costante, nel contenere il livello di attività e nell’inibi-re le risposte impulsive. A volte viene descritto dalle insegnanti come un bambi-no che si distrae facilmente, che non riesce a stare fermo e che non sempre portaa termine un compito che gli è stato assegnato.Per imparare a distinguere i comportamenti inadeguati da quelli corretti, all’in-terno dei club abbiamo usato strategie che premiavano le azioni positive e preve-devano il rispetto di regole (ad esempio attraverso il problem solving). È statoinoltre utile alternare attività di tipo cognitivo ad altre più ludiche (giochi, attivi-tà artistiche, drammatizzazioni) che permettessero l’attivazione del livello corpo-reo e immaginativo, considerato che spesso il bambino con problemi di autostimaha delle difficoltà relative al successo scolastico nelle aree della lettura, scrittura,aritmetica. La possibilità di sperimentare un senso di autoefficacia in attività lu-diche ha costituito un fattore fondamentale per incrementare il livello di autosti-ma generale.

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L’attenzione è un aspetto che riguarda anche chi lavora col bambino: è importan-te essere recettivi alle esigenze sia del singolo che del gruppo, ascoltare e coglierele diverse sfumature, individuare i bambini ‘invisibili’ e valorizzare quelli più in-sicuri. È anche importante ricordarsi di prestare attenzione alla coerenza tra co-municazione verbale e non verbale, cercando di essere consapevoli che con il no-stro corpo, il nostro tono di voce e un semplice sguardo inviamo continuamenteinformazioni al mondo esterno.

autocontrollo

Capacità di dominare, selezionare, coordinare o inibire i propri affetti, deside-ri o pulsioni affinché la propria condotta non pregiudichi il raggiungimento diuna o più mete considerate altamente desiderabili per sé. Il processo di autocontrollo si articola in tre fasi (Kanfer 1992):l’automonitoraggio: essere osservatori delle proprie azionil’autovalutazione: sapere se un comportamento è accettabile o nol’autorinforzo: ricompensare se stessi per aver tenuto un comportamento accet-tabile

La capacità di auto-controllo è un aspetto fondamentale nello sviluppo del bam-bino, comprendente sia il modo di agire, di comportarsi, sia il rapporto con le pro-prie emozioni e con gli altri. Il bambino deve essere educato ad autoregolarsi percapire come controllare il proprio comportamento e le proprie emozioni nei diver-si contesti. Sostenere e incoraggiare lo sviluppo dell’autocontrollo nel bambino fa-vorisce comportamenti socialmente accettabili, che riscuoteranno maggiore appro-vazione e considerazione positiva dagli altri e renderanno il bambino più accetta-to e quindi più sereno. La scarsa capacità di autocontrollo può essere frutto di unostile educativo genitoriale troppo o troppo poco autoritario. D’altro canto, un au-tocontrollo eccessivo è spesso indice d’insicurezza e chiusura emotiva, e fa sì cheil bambino si comporti in maniera meccanica o ‘adultizzata’. Un bambino che nonha sviluppato un sufficiente grado di autocontrollo viene spesso sgridato e ripresodagli adulti, e ciò potrebbe indurre un abbassamento del livello di autostima, in-sieme alla sensazione di essere incapace o ‘cattivo’.

autoefficacia, successo

La possibilità di sperimentare il successo si ricollega alla teoria di Bandura(1976), che ha introdotto i concetti di ‘apprendimento sociale’ (il prodotto del-la reciproca interazione tra l’organismo e il suo ambiente) e di ‘rinforzo vicario’

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(l’idea che osservare su un’altra persona i risultati positivi di un determinatocomportamento può costituirsi come rinforzo sufficiente a imitare quel certocomportamento preferendolo a un altro). Da qui si sviluppa la teoria dell’auto-valutazione di efficacia: in seguito alle esperienze della vita, l’individuo puòconcepire una differente valutazione della propria possibilità di determinare glieventi. Una serie costante di coincidenze positive o di premi imprevisti può adesempio far aumentare la motivazione ad agire e migliorare l’immagine di sé.Viceversa, una lunga serie di eventi negativi o frustrazioni sistematiche può ge-nerare un senso di impotenza. La sensazione di efficacia diviene così un mec-canismo regolatore della motivazione a intervenire successivamente sulla realtàesterna.

La possibilità del bambino di sperimentare all’interno del club sensazioni di au-toefficacia (nel portare a termine un compito, nell’eseguire attività musicali, nelproporre un’idea che venga condivisa e accettata, nell’esibirsi in una drammatiz-zazione o semplicemente conseguendo dei piccoli successi) consente di introietta-re un’idea di sé positiva. Per questo abbiamo mirato ad attività che assicurasserosuccesso e motivazione all’interno di un ambiente non competitivo, dando quin-di la possibilità a tutti di sperimentare il successo e di sentirsi abili e competenti.Nel corso degli incontri l’obiettivo è stato quello di stabilizzare tale senso di au-toefficacia in ogni bambino, favorendo l’instaurarsi di un locus of control inter-no (la credenza nel proprio valore, la produzione e regolazione degli eventi dellapropria vita), sostenendo le abilità e le doti di ogni singolo membro del gruppo.La stima che la persona possiede circa la propria capacità di riuscita si basa infat-ti su un’autovalutazione, la cui radice si trova nell’esperienza concreta, e che vie-ne rinforzata dal possesso di un locus of control interno, cioè dal fatto di spiega-re gli eventi come dipendenti dalla propria volontà e dalla percezione di control-lare l’ambiente.

coerenza educativa

La coerenza esprime un’assenza di contraddizione in un sistema, con conse-guente compatibilità delle parti che lo compongono. A livello cognitivo si evi-denzia come ogni individuo tenda alla compatibilità tra le proprie opinioni e ilproprio comportamento.

I bambini sono molto attenti al modo in cui gli adulti si comportano; se vogliamooffrire un modello di comportamento positivo e conquistare la loro fiducia è im-portante comportarsi in maniera coerente. Ad esempio, se si promette qualcosa èimportante mantenere la promessa, se si afferma di non compiere un’azione biso-

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gna innanzi tutto non compierla in prima persona. Gli adulti che interagisconocon i bambini (come i genitori o gli educatori) devono inoltre mostrare una co-erenza educativa, nel senso di non mostrarsi in disaccordo e non smentirsi fra diloro. La coppia dei genitori o i componenti di un’equipe educativa dovrebbero ap-parire in accordo sull’educazione come un unico corpo unito.

collaborazione

Partecipazione attiva al compimento di un lavoro o allo svolgimento di un’atti-vità. Negli studi di psicologia sociale è stato più volte dimostrato che un grup-po che collabora attivamente alla risoluzione di un compito ottiene risultatinettamente migliori rispetto all’individuo che lavora singolarmente.

La collaborazione è un aspetto importante delle situazioni di gruppo. I bambinicon bassa autostima hanno poca fiducia nel prossimo e non credono di poter con-tare sull’aiuto degli altri nelle situazioni di difficoltà. All’interno dei gruppi ludi-co-pedagogici la collaborazione viene molto incoraggiata tramite attività e discus-sioni di gruppo. Collaborare fra operatori è fondamentale nel lavorare con i bam-bini, ma anche la collaborazione con genitori ed insegnanti risulta molto utile. Inparticolare, la collaborazione con i genitori è molto importante al fine di creareuna continuità fra l’educazione a scuola e quella in famiglia.

comprensione

La comprensione implica la capacità di soffermarsi e capire su un piano spiri-tuale, logico, psicologico o affettivo la realtà o la persona con cui si interagisce.Ciò non implica l’essere d’accordo o la conformità ad esempio a un determina-to comportamento, ma la comprensione delle variabili in gioco, delle cause edelle conseguenze di un atto in una determinata situazione.La comprensione è prima di tutto un obiettivo da raggiungere: occorre compren-dere i bambini e le loro diverse necessità, i genitori e le loro preoccupazioni, gliinsegnanti e le loro difficoltà. Nel lavorare al fine di sostenere l’autostima è ne-cessario che ci sia comprensione degli obiettivi e delle problematiche anche da par-te dei genitori e dei bambini stessi, altrimenti si rischia il fallimento del progetto.

condivisione

La condivisione implica la capacità di partecipare e lavorare insieme agli altri,mettendo a disposizione le proprie risorse, esperienze e capacità per il raggiun-gimento di un obiettivo comune.

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La capacità di condividere con gli altri i problemi, le preoccupazioni, le esperien-ze e le emozioni è fondamentale nel lavoro psicologico. Condividere implica saperascoltare, comprendere, collaborare e un certo grado di empatia. Dare la possibi-lità ai bambini di condividere con gli altri esperienze positive – ma anche le opi-nioni, le paure e le diverse emozioni – li aiuta a non sentirsi soli, a confrontarsicon il mondo esterno scoprendo di non essere gli unici a soffrire o ad avere diffi-coltà, ridimensionando così i loro problemi e trovando vie d’uscita alternative.Nell’ambito degli incontri ludico-pedagocici ciò può essere favorito tramite l’usodella metodologia del circle time. La condivisione è importante anche all’internodel rapporto fra operatori, affinché si raggiunga un buon lavoro di squadra, posi-tivo ed equilibrato.

contatto fisico, fisicità

Diversi studi hanno dimostrato che il bisogno di contatto è un bisogno prima-rio, più forte ancora del bisogno di nutrimento (Harlow 1959). Ricerche con-dotte sui primati hanno ad esempio dimostrato che il legame di attaccamentonon si crea con chi semplicemente fornisce cibo, ma con chi soddisfa in modopiù intenso i bisogni di relazione-contatto del bambino.

Il contatto fisico è sempre presente nelle relazioni fra bambini: in maniera positi-va (abbracci, pacche sulle spalle) e in maniera negativa (aggressività, spinte, di-spetti). Il contatto fisico può essere anche un utile strumento di lavoro con i bam-bini all’interno dei gruppi ludico-pedagogici, sia per quanto riguarda l’aspetto delcontenimento sia per dimostrare affetto e simpatia. Spesso infatti basta toccare ilbambino (ad esempio, appoggiare la mano sulla spalla) per calmarlo e riportarloa una situazione di autocontrollo, evitando in tal modo continui richiami verba-li. Alcuni bambini richiedono esplicitamente il contatto fisico, dando la mano ovenendo sempre a sedersi vicino, ed è importante soddisfare questo loro bisognodi affetto al fine di farli sentire amati e accettati. Bisogna però rispettare anchequei bambini che invece non desiderano il contatto fisico o che lo evitano; anzi-ché forzarli, occorre cercare di capire quale possa essere il loro timore nascosto.

contenimento

Winnicott (1965) distingue nella funzione materna tre ruoli: object presenting,la capacità della madre di mettere a disposizione del bambino l’oggetto nel mo-mento in cui ne ha bisogno; handling, la manipolazione del corpo, carezze escambi cutanei; holding. Per holding (letteralmente ‘tenere’) si intende il soste-

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gno e il mantenimento del bambino, non solo in termini fisici ma anche psichi-ci, essendo inizialmente il bambino incluso nel funzionamento psichico dellamadre.

Il contenimento va quindi inteso in senso sia fisico che emotivo ed è un aspettoimportante del rapporto con un bambino. Spesso il bambino con bassa autostimarichiede chiaramente, attraverso vari comportamenti (capricci, eccessi di rabbia,urlare, parlare a voce alta, giocare a nascondersi, mettersi in continuazione al cen-tro dell’attenzione, aggredire gli altri fisicamente), di essere trattenuto, contenu-to, calmato e portato a una situazione di equilibrio. I bambini con difficoltà di au-tostima necessitano di limiti imposti dall’esterno, perché possono avere la sensa-zione di non riuscire a controllare i propri impulsi.

diversità

In ambito psicologico e sociologico la diversità fra gli individui può essere con-siderata sicuramente una risorsa e una potenzialità. Può avere infatti il ruolo dicostruire e consolidare l’identità del singolo e del gruppo, permettendo di por-re con una certa chiarezza limiti al proprio spazio psichico e alla propria indi-vidualità. La percezione della diversità può assumere anche valenze negative,conducendo a svalutazioni e discriminazioni verso coloro che si discostano daquella che viene definita la norma di una specifica società. Si rischia allora chegli altri vengano riconosciuti non come diversi ma come inferiori.Cogliere il significato di diversità può essere utile a un gruppo per trovare lapropria unità e costruire le proprie strutture essenziali, sia quando esso vengascelto consapevolmente sia quando si entri a farne parte indipendentementedalla propria volontà. Come il singolo, anche il gruppo può però chiudersi inuna gabbia autodifensiva e rifiutare il diverso, percependolo come una minac-cia alla propria esistenza.

Nell’ambito dei gruppi ludico-pedagogici, la diversità è stata valorizzata e si è cer-cato di non omologare i bambini fra di loro secondo uno standard prestabilito.Ogni singolo bambino è stato rispettato nella sua diversità e incoraggiato a incon-trare l’altro mantenendo la propria originalità e arricchendosi tramite lo scambiodi informazioni. La diversità dei bambini inseriti nei club per la loro insicurezzaè stata utilizzata come fattore unificante del gruppo e all’interno delle attività diproblem solving e di circle time i bambini sono stati stimolati a riscoprire dentrodi sé risorse e potenzialità di cui non erano mai stati consapevoli.

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emozioni

L’emozione è una reazione psicoendocrina avente valore adattivo, determinatada esperienze piacevoli o spiacevoli, caratterizzata da peculiari reazioni soma-tiche e determinate qualità affettive. Rappresenta la componente soggettiva e lasensazione affettiva che accompagna la condotta di un individuo. Secondo lateoria evoluzionistica di Darwin (1872) le emozioni rappresentano un meccani-smo adattivo atto a favorire la sopravvivenza della specie. Egli sosteneva che lastruttura delle espressioni emotive doveva essere innata e connessa quindi al-l’appartenenza a una data specie, mentre la sua modulazione era un prodottodella trasmissione culturale.Se esistono talune forme universali di manifestazione delle emozioni, vi sonoconsiderevoli variazioni, nelle varie culture, rispetto alle circostanze, al mododi manifestarle e persino di esperirle. Nel linguaggio comune vengono ricono-sciute centinaia di emozioni e gli esseri umani sono capaci di provare un nume-ro assai maggiore di emozioni involontarie rispetto a quelle espresse dal viso,dalla voce e dai gesti. Gli schemi di espressione esterna regolano inoltre il com-portamento interpersonale in una varietà di modi, più di quanti ne siano speci-ficati in ogni lingua. Gli stati emotivi dell’individuo subiscono trasformazioni nel corso dello svilup-po, in base alla specifica fase evolutiva vissuta dal bambino a livello cognitivo eaffettivo.

Il lavoro con i soggetti in età evolutiva suscita sicuramente forti emozioni dovutea meccanismi di identificazione, a dinamiche controtransferali e a frequenti sen-timenti di tenerezza. Ogni bambino poi suscita in noi differenti ricordi, istinti esensazioni che occorre saper riconoscere, classificare e incanalare affinché diventi-no una ricchezza per il gruppo e per il singolo. Il bambino deve essere educato al-le emozioni, all’espressione delle stesse e al loro riconoscimento.Il bambino con problemi di autostima spesso non riesce a esprimere le emozioni,positive o negative che siano; le trattiene e di conseguenza si chiude in se stesso.Oppure può avere difficoltà nella regolazione della loro intensità, come quandomostra forme inappropriate di espressione emozionale: ad esempio esternandouna rabbia estrema o reagendo in modo inadeguato alle frustrazioni. Ciò può tra-dursi in problemi nelle relazioni interpersonali o interferire con la capacità di ese-guire le attività scolastiche.Gioia, tristezza, sorpresa, paura, rabbia devono trovare la giusta collocazione e ca-nali di espressione adeguati; le attività del club (circle time, problem solving,drammatizzazioni) hanno come obiettivo quello di portare il bambino a esterna-re la propria emotività.

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empatia

Con il termine empatia si può intendere la capacità di capire, condividere e im-medesimarsi nell’esperienza emotiva di un’altra persona in una determinata si-tuazione. Richiede un assetto recettivo (‘entrare nel ruolo dell’altro’, Mead1934), una valutazione del significato che la situazione evoca emotivamentenell’altra persona, nonché un’esatta interpretazione del comportamento verba-le e non verbale espresso. Numerose ricerche hanno trovato proprio nell’empatia uno dei fattori motiva-zionali più importanti del comportamento presociale. Batson sostiene che c’èuno stretto collegamento tra empatia e altruismo. Evitare l’empatia porta al di-sinteresse per i bisogni degli altri. Nei bambini è frequente il contagio emotivo,che consiste nel sentire la stessa emozione dell’altro e nel rifletterla.

L’empatia ha un ruolo centrale nel comportamento sociale come precursore e se-gnale della capacità di percepire e sentire i bisogni e le esigenze altrui. L’empatia come la capacità di sintonizzarsi cognitivamente ed emotivamente (conla mente e con il cuore) negli altri, con ciò che stanno vivendo, favorisce la cono-scenza dell’altro e la buona riuscita di una relazione di aiuto. Entrare in empatiacon un bambino vuol dire capirne i ‘meccanismi’, percepire i suoi stati d’animo,la fragilità, l’insicurezza, le cose che lo rendono felice e di buon umore e quelleche lo irritano o lo intristiscono. Usare sensibilità e intuito, mettersi a volte sulsuo stesso piano, mantenendo la capacità di ritornare adulto per guidarlo e seguir-lo nel suo percorso di crescita. L’empatia è la capacità di essere allo stesso tempodistaccato e coinvolto, osservatore e partecipe, oggettivo e soggettivo nei confron-ti del bambino.

frustrazione

Può essere definita in linea generale come il mancato raggiungimento di unoscopo previsto. L’infanzia rappresenta il terreno di elezione per l’osservazione della frustrazio-ne e dei suoi effetti, perché le proibizioni fanno parte del normale processoeducativo e perché le reazioni del bambino hanno un carattere più esplicito eimmediato che nell’adulto.Le situazioni frustranti dell’ambiente familiare e sociale evocano nell’adulto imodi di reagire che più a lungo sono stati sperimentati nell’infanzia e si sonoquindi maggiormente consolidati. Alcune delle reazioni alla frustrazione dannoluogo all’instaurarsi di meccanismi di difesa (processi intrapsichici operanti inmodo difensivo al fine di evitare o ridurre l’ansia e mantenere integra l’autosti-

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ma personale), come la razionalizzazione, la regressione, proiezione, la forma-zione reattiva. La stessa situazione frustrante può suscitare risposte molto di-verse nei vari individui; la scarsa tolleranza alla frustrazione può anche riguar-dare solo alcune aree del comportamento o alcuni valori su cui il soggetto èparticolarmente sensibile.

Il bambino con deficit di autostima presenta generalmente una scarsa tolleranza al-la frustrazione, motivo per cui i ‘no’, le regole e i confini devono essere stabiliti congrande cautela. Dire di no è però importante, perché è un modo per segnare unadistanza e insegnare l’attesa, è più di una semplice negazione e ha un grande valo-re simbolico. A volte la frustrazione aiuta i bambini nel processo di crescita, è unostimolo allo sviluppo, una spinta ad agire, ma bisogna anche valutare quali sianole frustrazioni che ogni singolo bambino può tollerare e dire anche molti sì! Perl’operatore, invece, può essere frustrante il non riuscire ad aiutare un bambino, ladifficoltà nel vedere il raggiungimento di risultati, la sensazione che al termine diun incontro le attività non si siano svolte così come erano state programmate, ilnon potersi confrontare con altri rispetto ad alcune problematiche oppure la sensa-zione che il proprio lavoro non produca i cambiamenti o miglioramenti sperati.

gratificazione

Si riferisce in generale allo stato emotivo che accompagna il raggiungimento diuna meta o l’appagamento di un bisogno o di un desiderio. In alcuni casi il te-rapeuta assume un atteggiamento gratificante, caratterizzato da una forte pre-senza e da un’incondizionata accettazione, al fine di svolgere la funzione di og-getto riparatore rispetto alle mancate esperienze gratificanti nell’età infantile,essenziali alla costituzione di un Io sano.Nelle attività dei club si è sicuramente cercato di dare ampio spazio alla gratifica-zione dei bambini, favorendo l’espressione della loro creatività e rinforzando isuccessi. Tali rinforzi venivano dati esprimendo giudizi positivi nelle attività: adesempio premiando o sottolineando la qualità di un disegno, di un lavoro fatto colpongo o l’ideazione di una scenetta; cercando sempre di valorizzare l’unicità delbambino e facendogli sentire un apprezzamento non come generico, ma come ri-ferito a un aspetto specifico del suo operato. Il rinforzo dei comportamenti positi-vi può essere effettuato verbalmente: incoraggiando davanti al gruppo (l’elogio al-la presenza dei compagni è molto efficace e rappresenta il cosiddetto ‘rinforzo so-ciale’) o con un semplice cenno del capo, un sorriso che infonda coraggio e sicu-rezza e faccia sentire il bambino capace di fare.È importante che la gratificazione avvenga nel presente: una ricompensa piccolama immediata è preferibile a una più grande ma dilazionata nel tempo.

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intuizione

Termine usato da diversi filosofi per descrivere una varietà di oggetti della co-noscenza, credenza o intelletto, così come i modi in cui tali oggetti sono cono-sciuti.Attualmente sono chiamate intuizioni le nostre credenze preteoriche, ad esem-pio su ciò che è giusto o sbagliato (intuizioni morali), e si dice che si ha unacomprensione intuitiva di un concetto se lo si può usare senza però essere ca-paci di darne una spiegazione teoretica.

Utilizzare l’intuizione significa cogliere le problematiche di un bambino, capire lamodalità di approccio da usare con lui, il modo di parlargli e di comportarsi. Si-gnifica avvicinarsi a un bambino lasciandosi guidare dalle proprie sensazioni escoprire come avesse bisogno proprio di quella parola o di quel gesto. A un certomomento, durante lo svolgersi di un intervento, il pensiero lascia automaticamen-te il posto all’intuizione. Ciò è molto importante, perché si abbandona il pensie-ro razionale per dedicarsi a qualcosa che non è verbalmente definibile, che non ègiudicabile, che non è esprimibile, ma che esiste ed è proprio la nostra intuizione,quel qualcosa che ci fa andare al di là delle forme, al di là delle apparenze, per en-trare in relazione con l’altro superando il confine della dualità: è un aspetto mol-to rilevante nel lavoro con i bambini, poiché il loro canale privilegiato di espres-sione non è quello cognitivo verbale; la comunicazione avviene soprattutto a unlivello simbolico, attraverso il gioco e l’azione.

integrazione

In ambito sociologico l’integrazione indica quel processo che conduce il siste-ma sociale a evolversi e costruire nuovi equilibri, superando le divisioni e l’ete-rogeneità tra le parti che lo compongono. L’integrazione costituisce la condi-zione necessaria per l’esistenza di una società basata sulla cooperazione degliindividui che ne fanno parte. Il processo di integrazione si caratterizza comeuno scambio bilaterale tra integrati e integranti.

Il concetto di integrazione parte dalla considerazione che esistono delle diversitàtra le persone: differenze di genere, di cultura, di prestazione, di possibilità. Ognu-no è diverso rispetto a ogni altro. L’obiettivo è che tale diversità non diventi un’e-tichetta per la persona ma che possa diventare, attraverso un processo di integra-zione, una risorsa per tutti. Integrazione come prevenzione del disagio che, soprattutto nel caso di bambini

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con particolari svantaggi o handicap, costituisce un’occasione di maturazione pertutti, dalla quale imparare a vivere la diversità quale dimensione esistenziale an-ziché caratteristica di emarginazione.È importante riuscire a integrare tra loro bambini diversi e apparentemente in-compatibili rendendo l’ambiente armonico e vivace: il silenzio dei bambini più ti-midi con il chiasso dei più vivaci, quelli ‘difficili’ con i più equilibrati e sereni, imaschi con le femmine, facendo convergere le singole diversità in un gruppo ete-rogeneo e perciò più ricco. L’integrazione può riguardare anche i diversi livelliesperienziali interni a ogni bambino: il livello cognitivo, quello emotivo, il corpo-reo, l’ immaginativo e il comportamentale, cosicché lo sviluppo avvenga in un pro-cesso equilibrato che coinvolga l’individuo a tutti i livelli.

introspezione

Processo di osservazione dei propri contenuti psichici. La psicoanalisi distin-gue tra introspezione intesa come ininterrotta ricerca nella propria interiorità eautoosservazione che è un esame il più possibile oggettivo di sé.

L’introspezione è un aspetto importante per l’operatore; comprende una serie dielementi come l’analisi dei propri vissuti, dei pregiudizi, delle risorse e anche lariflessione sulle proiezioni, sul controtransfert o sull’identificazione con i bambi-ni. Sono tutti aspetti che possono intaccare negativamente o positivamente le at-tività e condizionarle. Per quanto riguarda i bambini, attraverso il problem solving, il circle time e le at-tività di discussione, sono stati incoraggiati a sviluppare un’introspezione e un’au-toriflessione su quelli che erano i loro contenuti psichici, sulle cause e sulle con-seguenze delle loro azioni e delle diverse situazioni che si presentano nella vita.

insicurezza

Condizione psicologica in cui il soggetto avverte una situazione esterna o inter-na di pericolo che non è in grado di dominare. Secondo Adler l’insicurezza èuna componente determinante del sentimento di inferiorità.

L’insicurezza è uno dei tratti principali che si riscontra nel bambino con problemidi autostima: insicurezza nelle proprie capacità, nei rapporti sociali e interperso-nali, il senso di inferiorità nei confronti degli altri, la paura di sbagliare, la diffi-coltà nell’esprimere le proprie emozioni. È un sentimento che si sviluppa in rispo-sta a ripetuti stimoli esterni negativi che possono dar luogo nel tempo a un’erra-

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ta valutazione di se stessi, accompagnata da una serie di ‘sintomi’ o difficoltà do-vute ai condizionamenti subiti. Il confronto con gli altri (operatori e bambini) al-l’interno del club, contesto protetto e non competitivo, facilità la possibilità di ri-cevere un riconoscimento positivo e di sviluppare la consapevolezza del propriovalore.

organizzazione

Esplicitazione – all’interno di un ente o di una specifica attività – delle regole,dei ruoli e delle reciproche competenze.

Essere organizzati favorisce il contenimento dei bambini e uno svolgimento sere-no delle attività. Prima di tutto occorre sapere esattamente cosa si farà durantel’incontro; quindi ideare e strutturare le attività, controllando di avere tutto il ma-teriale necessario. È anche utile suddividere i ruoli tra gli operatori, seguendo leattitudini di ciascuno. Quando gli operatori sanno quando e come svolgere le at-tività, i bambini si sentono più sicuri e meno in balia del caso, diminuendo così illivello di ansia e distrazione. Un altro aspetto fondamentale dell’organizzazioneriguarda lo spazio: occorre predisporre l’ambiente in modo che non vi siano peri-coli e fattori disturbanti, come oggetti fuori posto o che ostacolino il libero movi-mento dei bambini. Una buona organizzazione permette ai bambini di esprimer-si serenamente, superando paure e conflitti.

pazienza

Disposizione alla moderazione e alla tolleranza, in special modo all’interno deirapporti umani e sociali; è una virtù, una capacità di sopportare serenamente etranquillamente le avversità. Può anche essere intesa come cura diligente e im-pegno costante in una attività faticosa o noiosa.

Nel lavoro con i bambini è importante rispettarne i tempi naturali di sviluppo.Ogni bambino ha infatti bisogno di tempi diversi per elaborare la realtà ed è sba-gliato forzarlo a fare qualcosa per cui non si sente ancora pronto. Nello specificodella nostra esperienza, abbiamo constatato come alcuni bambini richiedano mol-to tempo prima di riuscire ad aprirsi con l’operatore o i compagni; in questi casivanno incoraggiati, senza mai forzarli, alla partecipazione rispettando sempre i lo-ro tempi e procedendo per piccoli passi. Avere pazienza con un bambino, soprat-tutto se ha scarsa autostima, significa cercare di capirlo e tutelarlo, anche quandonon si comporta secondo i nostri canoni o secondo le regole.

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regole

Il concetto di regola è molto usato in linguistica, filosofia e più di recente in psi-cologia, per spiegare l’organizzazione del comportamento e la sua interpreta-zione.Le regole possono essere: costitutive (quando definiscono classi equivalenti),generative (quando definiscono rapporti costituenti) e normative (quando de-finiscono azioni permesse, prescritte o proscritte). Una regola può essere infe-rita tramite osservazione diretta, articolazione, riconoscimento dell’infrazione oancora tramite applicazione della sanzione a seguito della trasgressione.

La formulazione di alcune semplici regole è molto utile nel contesto dei gruppi lu-dico-pedagogici e nel sostegno dell’autostima. Come in ogni contesto sociale, in-fatti, sapere cosa è permesso e cosa no, quali sono le aspettative e i limiti del com-portamento aiuta a diminuire il senso di ansia e insicurezza, e favorisce lo svilup-po della capacità di autocontrollo; facilita inoltre il contenimento dei bambini, so-prattutto se quest’ultimi siano stati coinvolti direttamente nella formulazione ediscussione delle regole. È preferibile accordarsi su poche e chiare regole che pos-sano applicarsi alle diverse situazioni; al fine di facilitare l’accettazione da partedei bambini sembra inoltre più efficace formulare le regole in maniera positiva(ad esempio, “mostra rispetto per le persone e le cose” invece di “non picchiare, onon rompere gli oggetti altrui”).

rinuncia

Astensione volontaria dalla fruizione di qualcosa di soddisfacente; può esserecausata dalla mancanza delle condizioni necessarie per la soddisfazione di unadeterminata richiesta o dal rischio che il soddisfacimento rechi un danno all’Io.

Una delle caratteristiche del bambino con scarsa autostima è spesso quella di ri-nunciare facilmente a ciò che vorrebbe fare o sta facendo, perché non si sente ca-pace o competente se non ottiene subito un buon risultato. La causa può essereuna scarsa tolleranza alla frustrazione o l’aver appreso tramite esperienze negati-ve di non essere all’altezza della situazione. Occorre incoraggiare il bambino anon rinunciare subito, sostenendolo e sottoponendolo ad attività che siano al suolivello e dandogli l’opportunità di sperimentarsi abile e produttivo, aumentandoil suo senso di autoefficacia.

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sfida, opposizione

Termine impiegato in psicopedagogia per tutti quegli atteggiamenti che espri-mono rifiuto a quanto viene consigliato, richiesto o raccomandato. Si manife-sta ad esempio tramite la passività, la disubbidienza, il rifiuto dell’alimentazio-ne, l’indisciplina, la rivolta, sino all’adozione di comportamenti antisociali. Ta-li condotte rappresentano spesso una reazione a un eccesso di autorità o rive-lano alla base carenze affettive.

Nel lavoro con bambini con problemi di autostima ci si trova spesso di fronte acomportamenti di tipo oppositivo: una modalità ricorrente è un comportamentoprovocatorio, disobbediente e ostile nei confronti di figure dotate di autorità. Puòcapitare che il bambino litighi con i compagni, che si rifiuti attivamente di rispet-tare le richieste o le regole degli adulti, che si comporti dando fastidio deliberata-mente agli altri (ad esempio facendo rumore, distruggendo i materiali). L’opposi-tività si esprime anche attraverso la costante messa alla prova dei limiti, sfidandogli operatori con l’ignorare gli ordini, litigando e non accettando di essere ripreso.Il comportamento oppositivo-provocatorio, a livello diagnostico, è spesso associa-to a scarsa autostima, bassa tolleranza alla frustrazione e temperamenti problema-tici.Nel lavoro all’interno dei club si è cercato di dare ai bambini una comprensionedel loro comportamento oppositivo, di coinvolgerli comunque nelle attività ancheattraverso l’aiuto del gruppo e, anziché essere eccessivamente punitivi o repressi-vi, di sviluppare la comprensione e l’accettazione delle regole di funzionamentodelle attività.

silenzio

Cessazione, astensione dal parlare.Vogliamo qui intendere il silenzio come interazione o forma di comunicazione,considerando che in una situazione di interazione l’intero comportamentoumano ha valore di messaggio e che non è mai possibile non comunicare. Il si-lenzio, come l’inattività, il comportamento oppositivo ecc. hanno tutti valore dimessaggio: influenzano gli altri che, a loro volta, rispondono a tali comunica-zioni (Watzlawick 1971).

Il silenzio può significare molte cose per il bambino: può rappresentare una suadifficoltà a esprimersi, la paura del giudizio, la mancanza di fiducia; può essere unatteggiamento oppositivo o un momento in cui ci si esprime attraverso altri livel-li: corporeo (sguardo, postura) o immaginativo (col disegno, col pongo ecc.).

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Esistono poi bambini con scarsa autostima che sono particolarmente silenziosi.Con questi bambini è importante trovare un piano diverso per comunicare: occor-re capire quando vorrebbero parlare ma hanno delle difficoltà nel farlo, magariperché insicuri o timidi; quando il loro modo di comunicare utilizza un linguag-gio non verbale, fisico o simbolico; quando il loro desiderio è invece proprio quel-lo di non comunicare e limitarsi ad ascoltare. In questo caso non bisogna forzareil bambino, ma incoraggiarlo rispettando il suo volere e facendolo sentire accetta-to e capito.

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finito di stamparenel mese di ottobre 2005