Un approfondimento su Viboldone

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Viboldone. Donne testimoni dell'Assoluto. La forma monastica sfida l'impossibilità dell'essenziale. E mette il suo azzardo in ciò che è più comune. La qualità della vita monastica dipende infatti dalla forza e dalla immediatezza con la quale essa indirizza l'intensità dello sguardo e la felicità del cuore intorno allo splendore della verità cristiana elementare sulla quale essa si concentra. Della stessa Parola di Dio che anche noi desideriamo ascoltare e che cerchiamo di intendere; quella che ci tiene in vita e senza la quale comprendiamo di non poter vivere la nostra relazione con il Signore. Della stessa eucaristia senza la quale non c'è vita cristiana per nessuno. Della stessa sapienza spirituale della vita che segna la qualità elemantare della conversione della fede. Senza di essa, la fede - anche quella che sposta le montagne, fa miracoli in soccorso dei poveri, e getta la propria vita in fiamme - non diventa per nessuno l'affetto assoluto del cuore. Ossia l'agape di Dio, che ci salva. L'interesse intramontabile della forma monastica, insieme con la sua singolarità cristiana, sta proprio nel fatto che essa rende speciale l'essenziale, massimo il minimo, eccezionale ciò che è più comune. Don Pierangelo Sequeri Se non fosse per la circonvallazione, che rompe bruscamente il paesaggio agrario, Viboldone pare essere un luogo dove il tempo si è fermato. Ampi campi coltivati precedono le corti a cascina che ruotano attorno al complesso abbaziale fondato verso la fine del dodicesimo secolo. “Anno MCLXXVI, die V februari facta est ecclesia Sancti Petri de Vicoboldono”, ci fa sapere la Cronaca di Filippo di Castelseprio. A dare inizio al luogo sono gli Umiliati, l'ordine religioso, maschile e femminile, sorto in ambito lombardo, nell’alveo dei numerosi movimenti del tempo che riproponevano, in una chiesa affaticata, l’istanza del puro Vangelo e la dignità del laico cristiano. Come tutti questi, pure gli Umiliati sono animati da spirito riformatore: gli aderenti scelgono di vivere in povertà, di dare i beni ai poveri, sostentandosi solo col proprio lavoro, legato soprattutto alla lavorazione della lana. Innocenzo III impedì loro di tracimare nel mare delle eresie medievali, riconoscendo, nel 1201, la loro regola e organizzandoli in tre ordini: chierici, monaci e laici (le “famiglie dedicate” degli Umiliati anti ciparono di qualche decennio quelli degli ordini mendicanti). Con il passare del tempo e il crescere delle proprietà, l’ideale originario si appannò notevolmente, al punto da indurre, nel 1571, Pio V, anche per volere di San Carlo Borromeo, a sopprimere l’ordine. Viboldone era una delle quattro case principali degli Umiliati, dove vivevano affiancate la comunità femminile e quella maschile e, nella prima metà del quattordicesimo secolo, fu un centro

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Un approfndimento su Viboldone

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Viboldone. Donne testimoni dell'Assoluto.

La forma monastica sfida l'impossibilità dell'essenziale. E mette il suo azzardo in ciò

che è più comune. La qualità della vita monastica dipende infatti dalla forza e dalla

immediatezza con la quale essa indirizza l'intensità dello sguardo e la felicità del

cuore intorno allo splendore della verità cristiana elementare sulla quale essa si

concentra. Della stessa Parola di Dio che anche noi desideriamo ascoltare e che

cerchiamo di intendere; quella che ci tiene in vita e senza la quale comprendiamo di

non poter vivere la nostra relazione con il Signore. Della stessa eucaristia senza la

quale non c'è vita cristiana per nessuno. Della stessa sapienza spirituale della vita

che segna la qualità elemantare della conversione della fede. Senza di essa, la fede -

anche quella che sposta le montagne, fa miracoli in soccorso dei poveri, e getta la

propria vita in fiamme - non diventa per nessuno l'affetto assoluto del cuore. Ossia

l'agape di Dio, che ci salva. L'interesse intramontabile della forma monastica,

insieme con la sua singolarità cristiana, sta proprio nel fatto che essa rende speciale

l'essenziale, massimo il minimo, eccezionale ciò che è più comune. Don Pierangelo

Sequeri

Se non fosse per la circonvallazione, che rompe bruscamente il paesaggio agrario,

Viboldone pare essere un luogo dove il tempo si è fermato. Ampi campi coltivati

precedono le corti a cascina che ruotano attorno al complesso abbaziale fondato verso

la fine del dodicesimo secolo. “Anno MCLXXVI, die V februari facta est ecclesia

Sancti Petri de Vicoboldono”, ci fa sapere la Cronaca di Filippo di Castelseprio. A

dare inizio al luogo sono gli Umiliati, l'ordine religioso, maschile e femminile, sorto

in ambito lombardo, nell’alveo dei numerosi movimenti del tempo che

riproponevano, in una chiesa affaticata, l’istanza del puro Vangelo e la dignità del

laico cristiano. Come tutti questi, pure gli Umiliati sono animati da spirito

riformatore: gli aderenti scelgono di vivere in povertà, di dare i beni ai poveri,

sostentandosi solo col proprio lavoro, legato soprattutto alla lavorazione della lana.

Innocenzo III impedì loro di tracimare nel mare delle eresie medievali, riconoscendo,

nel 1201, la loro regola e organizzandoli in tre ordini: chierici, monaci e laici (le

“famiglie dedicate” degli Umiliati anticiparono di qualche decennio quelli degli

ordini mendicanti). Con il passare del tempo e il crescere delle proprietà, l’ideale

originario si appannò notevolmente, al punto da indurre, nel 1571, Pio V, anche per

volere di San Carlo Borromeo, a sopprimere l’ordine. Viboldone era una delle quattro

case principali degli Umiliati, dove vivevano affiancate la comunità femminile e

quella maschile e, nella prima metà del quattordicesimo secolo, fu un centro

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vivissimo anche dal punto di vista economico. Di quel tempo e di quell’abbazia,

rimangono la chiesa, in stile gotico lombardo, ultimata nel 1348, ricca di straordinari

affreschi che da soli meritano la visita, e il campanile. Oggi, tra le mura silenziose del

recente monastero costruito sulle rovine dell’antico monastero delle Umiliate (1964,

architetto Caccia Dominioni), adiacente all’antica “Casa del Priore” (ora adibita a

foresteria, in origine monastero della comunità maschile degli Umiliati,

successivamente divenuto casa nobile degli abati commendatari), vive una comunità

di donne che tiene viva la passione del Regno, abitando ai margini della grande città.

Sono le monache benedettine che, dal 1941, con la loro stabilità hanno riallacciato il

filo di una presenza orante avviato dagli Umiliati, continuato, nei secoli XVII-XVIII,

dai monaci Olivetani e interrotto bruscamente poco prima della Rivoluzione

Francese, con le soppressioni “teresiane”.

“Monache come i monaci”

Ad iniziare il tutto è una donna di origine bolognese, Margherita Marchi, figura

evangelicamente singolare, poco conosciuta ai più eppure dotata di una straordinaria

capacità – siamo negli anni trenta dello scorso secolo - di “tenere unita una fedeltà

tenacissima alla tradizione benedettina in tutti i suoi aspetti e insieme un’apertura

attenta, ardente, appassionata al mistero della Chiesa, ai fermenti nuovi, alle linee

dinamiche.” Come ha scritto don Giovanni Moioli, un riferimento importante per le

monache di Viboldone, “la vocazione monastica per Margherita non è stato il suo

punto di partenza come del resto neppure il cattolicesimo. Un cammino molto

personale di esperienza spirituale l’ha portata, diciottenne, al battesimo e all’incontro

con la Chiesa cattolica; ed egualmente attraverso una ricerca tormentata e dolorosa,

eppure complessivamente lineare, l’ha condotta all’esperienza di vita religiosa, ed

infine a quella di una vita monastica benedettina: vissuta e “informata” da una

tonalità spirituale promanante dalla sua forte e carismatica personalità”. Dopo aver

lasciato la prima esperienza di vita religiosa tra le Sorelle dei poveri, Margherita

sceglie la via benedettina (“come i monaci e non come le monache!”): prima a

Montefiolo, nel cuore della Sabina, e poi a Viboldone. Donne contemplative che

ritmano la vita quotidiana con i "tempi" caratteristici di preghiera liturgica, capaci di

guadagnarsi da vivere con il proprio lavoro (attualmente un laboratorio di restauro del

libro antico e un archivio digitale dell’immagine, affiancato a una piccola tipografia),

inserite nel territorio e nella vita della diocesi: questo ha voluto essere, sin dall’inizio,

la comunità benedettina di Viboldone. Segnata dall’incontro con l’abate di San Paolo

fuori le Mura, il futuro cardinale di Milano Ildefonso Schuster, e dall’amicizia col

monaco dom Aurelio Escarrè, poi abate di Montserrat, ma allora esule dalla Spagna a

Roma, Margherita (che muore nel 1956) vivrà per tutta la vita la ricerca

dell’essenziale della vita cristiana, la grazia battesimale, dentro il tessuto ecclesiale e

contro ogni forma di “specializzazione” della vita cristiana. Con il desiderio, grande,

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di fare del monastero un luogo “dove Dio ha sete di essere gustato”. “Deus sitit

sitiri”. “Il monastero non è serra ma vita”, amava ripetere.

Obbedienza alla verità di ogni cosa

Oggi l’abbadessa del monastero è Maria Ignazia Angelini, attorno

a cui è radunata una comunità di trentatré sorelle. Madre Ignazia

mi accoglie con cordialità e mi accompagna in una stanza per il

colloquio. Rimango, come sempre, stupito dalla sobrietà dei

monastero e, insieme, dalla armonica bellezza degli spazi. Che

rapporto c’è tra bellezza e monachesimo? comincio a chiederle.

Un rapporto vitale – mi risponde - perché la bellezza è

l’espressione della gratuità di Dio, tocco inconfondibile della sua

mano. Ogni monaca, qui in monastero, è incoraggiata a coltivare

la cura dell’atto creativo, nel senso che ogni gesto quotidiano

dev’essere riscoperto nella sua bellezza originaria, che è verità…

Dare tempo ed energie a una cosa bella, in modo bello, è stare

davanti a Dio, è cultura della sua gratuità, è semplicissima

adorazione alla sua presenza. In fondo, è un voler obbedire alla

verità di ogni cosa che rivela, nella semplicità e nella bellezza, il

volto di Dio. Ma questo gusto della bellezza non è rarefatto

estetismo, fatto eccezionale, vale anche e soprattutto per la vita di

tutti i giorni… Madre Ignazia, attorno al monachesimo e alla

figura del monaco vi è oggi, nella chiesa, molta enfasi e

confusione. Gli stessi monaci si autodefiniscono, a volte, con una

facilità eccessiva. Don Pierangelo Sequeri, in un intervento a

Camaldoli, ha detto che l’interesse intramontabile della forma

monastica, oltre alla sua singolarità cristiana, sta nel fatto che sa

rendere speciale l’elementare… Si ritrova in questa definizione?

Ciò che a mio parere qualifica la vita monastica è proprio questa

capacità di rimanere all’interno delle cose quotidiane scoprendone

quotidianamente il senso e vivendole come occasione concreta per

convertirsi a Gesù, al suo Evangelo. In fondo, la scelta monastica

è la scelta del dare tutto e della disponibilità a convertire la rotta

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costantemente, attingendo orientamento dalla Parola e

dall’Eucaristia vissute insieme. E’ riconoscere con meraviglia che

ogni giorno porta in sé un’insuperabile novità…Certo, ci sono dei

riferimenti che determinano la conversione: la celebrazione

dell’eucarestia, la lettura delle Scritture e la relazione fraterna. A

volte, noto anch’io che si fanno descrizioni esoteriche e un po’

estetizzanti della vita monastica, presentata, per lo più, come

somma di cose strane e un po’ eccentriche, tipo l’alzarsi presto il

mattino… Invece la vera e significativa stranezza della vita

monastica è la ricerca di vivere la quotidianità che è di tutti

leggendola nella fede come il luogo della conversione a Gesù e

quindi facendo, in ogni attività e in ogni passività, memoria di lui,

delle sue parole, dei suoi atti, della sua passione. Memoria totale,

non solo mentale, o immaginaria. Per questo, nel monastero per sé

non si idealizza l’esperienza del cristianesimo: qui non siamo in

un’oasi o in un rifugio dai pericoli o dalle tentazioni del mondo,

ritroviamo tutti gli idoli e tutti i diavoli che infestano il mondo; ma

il fatto di rimanere aggrappate alla Parola ci permette, con l’aiuto

della sapienza dei padri, di smascherarli (in monastero prendono

volti molto suadenti!), quando è necessario di fuggirli, oppure di

denunciarli, affrontarli nella lotta... È nel quotidiano

riconoscimento dell’imperfezione che viviamo l’incessante ricerca

di Dio.

Conta l’Evangelo!

A questa nostra chiesa, molto affaccendata, il monachesimo cosa ricorda in modo

particolare? Il desiderio e la necessità di rimetterci, come principianti e come

peccatori, sotto l’Evangelo perché solo l’Evangelo oggi è l’anima della conversione. I

monaci e le monache possono dire soltanto questo, ogni altro ruolo è fallace. Nella

storia della chiesa essi hanno il compito di custodire viva e inalterabile la freschezza

del Vangelo, lasciarsi incantare dalla sua bellezza e custodirla. In ogni frangente della

storia umana, le Scritture e il mistero celebrato sono più forti dei nostri smarrimenti e

hanno in sé l’energia per ridare la rotta. La voce di Gesù, nell’eucarestia e nelle

Scritture custodite, parla. Insomma, il monaco come colui che vigila… Sì, anche se

questo non deve essere un cliché o solamente un modo di dire. Il monaco vigila, non

come “stato di vita”, o perché segue certi orari, ma se sta davvero sveglio, vigila

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soprattutto per sé, vigila sul suo cuore perché viva l’unificazione del cuore dai molti

frantumi, in un cammino di continua ricerca di Dio e conversione all’Evangelo. Mi

pare di comprendere che il monachesimo è chiamato a ricomprendersi sempre.. Il

monachesimo oggi deve ridefinirsi per ritrovare la propria validità e verità rimanendo

aggrappato alle sue vere radici e, insieme, deve ridefinirsi per raccogliere la sfida dei

tempi, seguendo la storia per non trasformarsi in riserva, in “zona protetta”. Il

monachesimo deve, in un modo tutto suo, mischiarsi con la storia: questo è

l’Evangelo! E deve subire le crisi più radicali perché è la stessa umanità che le soffre.

Fino a che non abbia maturato questo confronto, è meglio che il monachesimo lasci i

toni retorici e auto referenziali e stia silenzioso, aggrappato alle sue radici, in attesa

della rifioritura e della rinascita delle sue forme visibili. Senza la pretesa di voler

canonizzarle subito e in modo definitivo. Conta l’Evangelo, il resto passa: le forme

storiche monastiche devono tutte subire il vaglio del tempo, e ritrovare la grazia degli

inizi, la grazia della riduzione alla semplicità essenziale…La vita monastica non è

“altro” dalla vita cristiana! Parlava della lettura delle Scritture.. Anche questa, dal

dopo Concilio in poi, pare una parola d’ordine. Eppure ho l’impressione che non sia

così scontato….Leggere è un’arte……Leggere non è scorrere velocemente un testo

ma è masticare, essere intrisi, essere conglutinati con la parola viva ed efficace e

quando questo accade non puoi far finta che questa esperienza non ci sia stata: ti

cambia la vita e il modo di guardare le cose. Permette di porre una barriera a

immaginazioni e proiezioni dell’io e un confine al dilagare di realtà inautentiche cui

altrimenti rischi di asservirti senza criticità e discernimento. Ogni volta che leggiamo

il l’Evangelo e lasciamo che la sua potenza operi in noi vogliamo fare in modo che

diventi nostra un'altra lettura del reale che sia diversa da quella dei principi del

mondo….Un carisma particolare della vostra comunità è il rapporto con la chiesa

locale. Cosa significa concretamente? Dal punto di vista storico, il monachesimo

femminile era definito tradizionalmente dalla clausura, dalle “grate”. La separazione

aveva, ed ha ancora oggi, un significato evangelico: togliersi dal chiacchiericcio

mondano per poter andare alla radice della realtà. Ma questo dinamismo spirituale

non si identifica con le grate, e con una clausura dietro la quale si annidano,

storicamente, spesso mondanità ancora peggiori. E soprattutto, cristianamente non si

può vivere la separazione monastica come evasione dal tessuto concreto della storia,

luogo della rivelazione di Dio, né come fuga il mondo tanto amato da Dio. La nostra

comunità, sin dagli inizi, voleva essere una comunità di monache “come i monaci”:

con questa espressione si voleva indicare una separazione evangelica, diversa dal

fatto di cultura che è la segregazione femminile…Non volevamo essere distanti dalla

comune lotta della fede, né fallacemente “privilegiate”: per questo abbiamo rifiutato

le grate e abbiamo voluto vivere il lavoro come concreto modo di solidarietà con la

condizione umana comune, per mantenerci ed esprimere una partecipazione creativa

alla vicenda di tutti. In qualche modo, volevamo maturare una forma femminile di

monachesimo più vicino alle origini, che parlasse e che entrasse in contatto con le

altre forme di vita cristiana. Cercavamo una presenza nella chiesa che parlasse con

voce di donna…Questa ricerca l’abbiamo pagata moltissimo perché per decenni non

siamo state riconosciute come monache “doc”: non avevamo le grate, lavoravamo

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come tipografe mantenendo diretti e normali rapporti con i clienti e con gli ospiti del

monastero…però sia il cardinal Schuster che il cardinal Montini ci hanno a lungo

incoraggiate in questa direzione. In concreto, oltre ad un legame profondo con il

nostro vescovo, abbiamo coltivato con passione la possibilità di offrire ospitalità nella

preghiera liturgica, di offrire comunione nella preghiera e nella lettura delle Scritture.

Sono varie le persone che partecipano alla liturgia celebrata in Abbazia, che con noi

cercano e ritrovano il senso del celebrare insieme e vivono momenti di confronto e di

formazione biblico-liturgica.

Nulla anteporre all’amore

Il rimo del tempo a Viboldone è scandito e disposto tra la preghiera delle ore,

l’eucarestia e il lavoro; e, soprattutto nei giorni festivi, l’ospitalità. La sveglia è alle 5.

Alle 5,25 recita del Mattutino, alle 6,25 le Lodi. Al termine, la lectio L’Eucarestia si

celebra alle 8. Fino alle 12,15 (ora media) la comunità è impegnata nel lavoro. Dopo

il pranzo e il riposo, alle 14,20 inizia di nuovo il tempo del lavoro che termina alle

17; alle 17, un’ora di lectio ci dispone alla preghiera del Vespro, alle ore 18. Al

termine, un’altra ora di lectio. Alle 19,30 cena e un momento fraterno. Alle 20,45

recita di compieta e poi il grande silenzio della notte. Il sabato pomeriggio, inizio

della giornata festiva, vi è più tempo per la lectio e per l’accoglienza degli ospiti,

anche in gruppo, sia per la condivisione pomeridiana della lectio che per il dialogo e

l’ascolto. Nei giorni festivi, il pranzo comunitario lo si condivide ascoltando musica e

parlando insieme mentre nei gironi feriali il pasto è accompagnato dalla lettura.

Quale spiritualità anima la vostra preghiera? La preghiera della comunità, come del

resto per tutta la Chiesa, ha il suo momento sorgivo e centrale nella celebrazione

eucaristica quotidiana. Di essa la Liturgia delle Ore, celebrata nel canto corale, è

come un'espansione, un riverbero nell'arco dell'intera giornata, per cui siamo

sostenute nel fare memoria incessante del Signore e a rendergli lode con tutta la

nostra vita. S. Benedetto ci invita a “nulla anteporre all'Opera di Dio”, cioè alla

preghiera della comunità, e con questo ci richiama a riconoscere il primato di Dio

nella nostra vita, a porre l'ascolto della sua Parola alla base di ogni nostro pensiero,

parola, azione. In un altro passo della Regola S. Benedetto raccomanda ai suoi

monaci di "nulla anteporre all'amore di Cristo": abbiamo così un piccolo esempio,

largamente confermato dallo spirito e dalla lettera di tutta la Regola benedettina, di

come il primato della preghiera e il primato dell'amore siano una sola cosa. In questo

senso si può dire che la “spiritualità” di una comunità monastica come la nostra è data

dalla tensione a realizzare concretamente questa sintesi, a vivere – attraverso un ritmo

ordinato di preghiera, lavoro, relazione fraterna - quella profonda unità tra amore di

Dio e amore dei fratelli e delle sorelle che Gesù ci mostra in sé stesso perfettamente

adempiuta.

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Nell’Evangelo un cammino di liberazione

Ricordo spesso un testo tratto dalla Vita copta (c. 103) che narra una rivelazione

ricevuta da Pacomio, il padre del monachesimo cenobita. Mentre il suo monastero

sta vivendo un tempo di grande difficoltà, Pacomio sogna di trovarsi in un luogo

avvolto da tenebre fitte e oscure, dove i monaci si arrabattano a cercare luce per una

via d’uscita, girando a vuoto attorno a delle colonne (che rappresentano i vari ‘leader

spirituali’). All’improvviso, si intravedono tra questi i membri della sua comunità,

che si tenevano stretti uno all’altro per timore di perdersi; i primi quattro vedevano e

seguivano una fiammella e tutti gli altri dietro, pur non vedendo nulla; finalmente

escono da quel luogo oscuro e soffocante. La piccola, ma fulgida e potente fiammella

è l’Evangelo! Anche oggi le monache e i monaci dovrebbero indicare nell’Evangelo

– e solo nell’Evangelo! – un cammino di liberazione per l’uomo e per il cristiano del

nostro tempo. Ne saremo capaci?”

Ospitalità

Abbazia dei Santi Pietro e Paolo di Viboldone

Telefono: 02-9841203 Fax: 02-98240943

L'abbazia offre accoglienza a singoli e gruppi per giornate di riflessione e preghiera e

condivisione della liturgia della comunità ospitante. La visita è libera tutti i giorni

dalle 7,30 alle 12,30 e dalle 14,30 alle 18,30.

Da leggere

Un monastero alle porte della città. Atti del convegno per i 650 anni dell'Abbazia di

Viboldone. - Vita e Pensiero, 1999

Madre Ignazia Angelini, “Non mi vergogno del Vangelo. Rm 1,16” in Emanuele

Bargellini (a cura di) Camaldoli ieri e oggi L'identità camaldolese nel nuovo

millennio, Edizioni Camaldoli, 2000, pp. 184, euro 10.32

Monastero Ss.Pietro e Paolo di Viboldone, La giornata monastica, in Pietre che

cantano. Appello e profezia del monachesimo italiano, Stefano Di Pea, 2001, Editrice

Monti, pp.150, Euro 10,33

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In giro per abbazie

Viboldone si trova nel Comune di San Giuliano Milanese, una

quindicina di chilometri distante dal centro di Milano. Si arriva in

autostrada con la tangenziale: sulla bretella di raccordo tra la Est e

la Ovest, uscita di S.Giuliano Milanese. La chiesa è aperta tutti i

giorni dalle 7 alle 12,30 e dalle 14,30 alle 18,30. Non molto

distante da Viboldone, a soli sette chilometri, si trova l’abbazia di

Chiaravalle, il monastero milanese circestense fondato da San

Bernardo, abate di Clairvaux (da cui deriva appunto Chiaravalle).

Tra le abbazie più grandi d’Italia, quella di Chiaravalle è

particolarmente nota per la bellezza della torre campanaria a

forma di ottagono realizzata con la sovrapposizione di più logge.

Nei dintorni, a dodici chilometri, si può visitare anche l’abbazia di

Mirasole, risalente al XIII secolo, che si trova nei pressi di

Rozzano, oggi trasformata in cascina con chiostri e cortili adibiti

alle attività agricole. Mirasole rappresenta un esempio

significativo della ramificata attività dei monaci Umiliati nel

territorio milanese: nel Medievo le sue officine erano le uniche

della zona ad essere attrezzate per lavorare alla trasformazione

della lana in feltro. Il suo “sole” ha ispirato il simbolo della

Provincia di Milano. A quaranta chilometri da Viboldone, a pochi

chilometri da Abbiategrasso, lungo il corso del Naviglio di

Bereguardo, si trova l’abbazia cistercense di Morimondo, fondata

nel 1134 da dodici monaci provenienti dal monastero di

Morimondo in Borgogna, guidati dall’abate Gualchezio.

Moribondo. Le parti visitabili dell’antica abbazia sono ancora

numerose: oltre ai resti del chiostro è di grande interesse la Chiesa

di Maria Assunta del secolo quattordicesimo a tre navate.