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Un angolo di Liguria nel cuore di Trastevere di Maria Luigia Ronco Valenti Giornalista

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Un angolo di Liguria nel cuore di Trasteveredi Maria Luigia Ronco ValentiGiornalista

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Si può dire che fu la caduta di Costantinopoli,avvenuta nel 1453, a far sì che un angolo

di Liguria e soprattutto di Genova scendesse a Roma e si insediasse nel cuore caldo della città,

quel rione di Trastevere famoso per le suerivendicazioni popolari e le sue battaglie politiche

che portava un fiero leone nel suo stendardo.

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Nel xv secolo Genova difatti aveva raggiunto un alto grado di specializzazione nel-

l’industria tessile e gareggiava con Firenze per l’alta qualità dei suoi filati di la-

na e di seta non solo per la raffinatezza della lavorazione ma soprattutto per la

tecnica con cui venivano tinti i filati che risultavano di un colore più intenso e resistente e

più morbidi al tatto. Per raggiungere una tale perfezione era però necessario un minerale,

cioè l’allume, “solfato doppio di alluminio e potassio detto comunemente allume di roc-

ca”, che serviva da mordente per le tinture ed era assai ricercato dai mercanti di stoffe, e Ge-

nova possedeva in Asia Minore le miniere di Focea nel golfo di Smirne, e quelle di Chio e

di Pera godendo perciò un assoluto privilegio sulle altre industrie mercantili.

La caduta di Costantinopoli e le difficoltà sollevate dai Turchi nei riguardi del commercio

del prezioso minerale, privarono i mercanti genovesi di tale beneficio divenuto troppo co-

stoso, ma com’è nel carattere dei liguri essi non si arresero e saputo che un certo Giovan-

ni di Castro, mercante padovano, aveva scoperto nello Stato pontificio presso Tolfa un gia-

cimento di allume, si avvicendarono nell’appalto delle miniere contendendo ai Medici il

primato commerciale.

Uno di essi, che avrà un ruolo importante nell’insediamento dei genovesi a Roma, fu Me-

liaduce Cicala, appartenente a un’antica nobiltà genovese con diritto di “albergo” e “co-

lonnante” del Banco di San Giorgio, che non si lasciò sfuggire l’occasione di partecipare a

questa “corsa all’oro” e insieme a tre soci (Paolo Doria, Battista Spinola e Benedetto Salva-

go) iniziò le trattative col papa Pio II, Enea Silvio Piccolomini, per ottenere l’appalto del-

le miniere di Tolfa; ma poiché le attività di estrazione, lavorazione e commercio del mine-

rale erano state in gran parte assegnate allo scopritore, stipulò con la Camera apostolica

un altro tipo di contratto, assai vantaggioso, secondo il quale lui e i suoi soci si sarebbero

occupati del trasporto del minerale da Tolfa a Civitavecchia per poi inviarlo nelle diverse

“piazze” di cui Meliaduce aveva l’esclusiva cioè a Genova e a Londra dove aveva costituito

una filiale della quale si occupava personalmente soggiornandovi spesso.

Alla fine del 1467 Meliaduce Cicala si trasferì definitivamente a Roma per occuparsi in

proprio del commercio del minerale, commercio che poi abbandonò per dedicarsi al-

l’attività bancaria raggiungendo, durante il pontificato di Sisto IV della Rovere, le più al-

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Alle pagine precedentiCornelis De Wael, Visita agli infermi.Genova, Civica Galleriadi Palazzo Bianco. Scena di vita e disofferenza quotidiananegli ospedali, comepoteva essere anchenell’ospedale dei marinai della Confraternita di San Giovanni dei Genovesi a Roma.

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Il Tevere, Trastevere e l’Isola Tiberina in una foto aerea di Roberto Merlo.

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te cariche nell’amministrazione dello Stato Pontificio di

cui si dice fosse creditore.

Egli moriva nell’estate del 1481 all’età di 51 anni nella sua

dimora romana di Borgo San Pietro, e per le benemeren-

ze acquisite e il prestigio raggiunto durante il pontificato di

Sisto IV, fu sepolto nella basilica vaticana: solo più tardi le

sue ceneri furono trasportate nella chiesa di San Giovanni

Battista dei Genovesi presso l’ospedale da lui voluto, dove

esiste tuttora il suo monumento funebre.

Dobbiamo dire che le attività commerciali e di carattere po-

litico-amministrativo che Meliaduce Cicala aveva svolto con

tanta competenza non avevano distolto il nobile genovese

dai problemi della società del suo tempo: nel 1478, insieme

all’amico Bartolomeo Maraschi si iscrisse alla confraterni-

ta di Santo Spirito divenendo così uno dei benefattori del-

l’ospedale, e partecipando, secondo l’obbligo dei confra-

telli, a un’attività personale di assistenza occupandosi an-

che di segnalare i malati indigenti che venivano abbando-

nati a se stessi e quelli bisognosi di cure ospedaliere.

L’OSPEDALE DEI MARINAI

Anche se a Roma non mancavano gli ospedali (ricordiamo oltre al S. Spirito quello del

S.S. Salvatore e di S. Giacomo in Augusta) essi non erano sufficienti alle necessità di una

popolazione in continuo aumento a causa dell’inurbamento progressivo, delle periodiche

epidemie causate dal passaggio di truppe mercenarie, dalle abitazioni malsane, dalla man-

canza di norme igieniche e di provvedimenti radicali di carattere sanitario.

Meliaduce Cicala, consapevole delle carenze in campo sociale e sanitario che esistevano a

Roma, città travagliata dalle lotte politiche tra diverse fazioni e dalle sfrenate ambizioni e

sete di potere da parte di coloro che avrebbero dovuto, per censo e per ricchezza, preoc-

cuparsi del benessere del popolo che era al contrario preda dell’ignoranza, abbrutito dalla

miseria, colpito da epidemie d’ogni genere e privo di una adeguata assistenza sanitaria,

destinò il suo patrimonio alla Camera Apostolica affidandole l’incarico di costruire un

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Leonardo Bufalini.Chiesa e ospizio di S. Giovanni dei Genovesi nella pianta di Roma del 1551.

Giuseppe Vasi.Facciata di S. Giovanni dei Genovesi. Incisione del 1757.

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ospedale che accogliesse i marinai malati o bisognosi di as-

sistenza proprio nel luogo dove attraccavano le imbarca-

zioni che provenivano da paesi lontani col loro carico di

merci e molto spesso con componenti dell’equipaggio af-

fetti da malattie e da gravi carenze alimentari, cioè il por-

to di Ripa Grande sul Tevere.

Meliaduce che aveva assistito in quegli anni al notevole svi-

luppo dei rapporti commerciali tra Genova e Roma an-

che per merito suo, prevedeva un incremento significativo

dei movimenti di flotta sul Tevere e considerava il suo pro-

getto un mezzo che avrebbe contribuito a rendere più con-

fortevole il soggiorno romano dei suoi connazionali.

Il pontefice rese esecutivo il suo testamento con la bolla

“Inter alia” del 21 gennaio 1482 ma vi apportò delle modi-

fiche: il porto di Ripa Grande in effetti si trovava in una zo-

na assai umida e malsana, soggetta a periodiche inondazio-

ni, e fece spostare il luogo della sua ubicazione in via Anicia

dove si trova ancora oggi la chiesa con il chiostro di S. Gio-

vanni Battista dei Genovesi, tra Santa Maria dell’Orto e la

basilica di Santa Cecilia, nella sede in cui già esisteva una

chiesa con l’ospedale dei S.S. Quaranta martiri di Sebaste or-

mai in decadenza.

I lavori per la fabbrica dell’ospedale iniziarono tra la fine

del 1482 e gli inizi del 1483, cioè pochi anni dopo la mor-

te di Meliaduce Cicala, e per volontà del fondatore il pri-

mo rettore dell’ospedale fu Nicola Calvo di Genova, suo

esecutore testamentario, che mantenne la carica fino al 1490

quando fu sostituito da Gasparo Biondo, figlio del noto

umanista Flavio.

Nel 1489 con la promulgazione della bolla del 2 gennaio,

Innocenzo VIII conferiva all’ospedale il titolo della nazio-

nalità, limitando l’assistenza ai soli marinai genovesi, che

d’altra parte erano i più numerosi a sbarcare nei porti ro-

mani, e l’ospedale di Meliaduce prese l’appellativo di ospe-

dale di S. Giovanni Battista dei Genovesi e svolse la sua at-

tività per più di due secoli.

In quel periodo si sentì la necessità a Roma di fondare isti-

tuti a carattere nazionale che accoglievano gruppi di stra-

nieri bisognosi di assistenza, e già era stato fondato, sotto Si-

sto IV, l’ospedale dei Lombardi, quello dei Portoghesi, e

sotto Clemente VI quello degli Spagnoli, ma il criterio della

nazionalità non fu per l’ospedale dei Genovesi così rigido

in quanto, dai registri dei malati, risulta che oltre ai mari-

nai genovesi o corsi che erano sudditi della Repubblica di

Genova, si accoglievano anche marinai di altra provenienza

come pisani, veneziani, siciliani, marsigliesi, e provenzali.

Come risulta dai registri dell’ospedale (conservati nell’ar-

chivio della Confraternita che fu istituita sotto il pontifica-

to di Giulio III) che risalgono ai primi del ‘ 500, i marinai che

chiedevano il ricovero si dovevano presentare ai “governa-

tori” che, dopo aver accertato le loro condizioni di salute, li

munivano di un “cedolino” che doveva essere presentato

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Documenti inerenti M. Caterina Vacca del fu Domenico, mortoall’Ospedale di SanGiovanni dei Genovesi.In alto: richiesta didenaro ricavato dalla

vendita delle “robe” di Domenico Vacca; in basso: dichiarazione del parroco di Chiavariche M. Caterina è“ragazza poverissima e onesta”.

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all’"ospitalario”, nel quale la diagnosi consisteva nella sem-

plice dicitura “malato di febre secondo il solito”.

Al “cedolino” d’ingresso si aggiungeva l’elenco delle pove-

re cose di cui il marinaio era in possesso, di eventuali som-

me in denaro e degli indumenti che indossava, in modo che

quando veniva dimesso potesse riavere gli oggetti e i de-

nari di sua proprietà. Nel caso fosse deceduto, nel registro,

accanto al suo nome, si metteva un segno di croce e l’ora

in cui era spirato, e i suoi effetti personali, se non aveva la-

sciato disposizioni in merito, venivano incamerati dall’o-

spedale che poteva venderli ricavandone un utile assai mo-

desto o donarli ai servi e agli infermieri.

I marinai defunti venivano sepolti nei sotterranei scavati

sotto la chiesa , usanza che cessò nell’anno 1809 quando la

Consulta Straordinaria per gli Stati Romani proibì il sep-

pellimento nelle chiese. L’ospedale forniva ai ricoverati un

letto, una divisa che era di solito di panno blu, il vitto, le

cure mediche e le medicine. L’alimentazione base dei ma-

lati era costituita, come appare nel registro delle spese, da

grano, farro, orzo, latte, carne, semolino, riso, mandorle e

uva passa. Le bevande erano, oltre l’acqua e il vino d’Ischia,

le pozioni preparate all’interno dell’ospedale che produce-

va in proprio latte, frutta e verdura. Per quel che riguarda

il pesce erano gli stessi compagni di imbarcazione degli am-

malati che pensavano a rifornirne l’ospedale.

Le spese sostenute dall’ospedale erano sottoposte a un

periodico controllo da parte dei chierici della Camera Apo-

stolica che amministravano il patrimonio lasciato dal fon-

datore.

Ai ricoverati oltre all’assistenza sanitaria non mancava l’as-

sistenza spirituale: un cappellano aveva l’incarico di con-

fessare e amministrare i sacramenti ai malati (e quando fu

istituita la Confraternita anche ai confratelli), e aveva l’ob-

bligo di celebrare la Messa ogni domenica e a volte anche

durante la settimana; una volta al mese veniva celebrata una

Messa in suffragio dell’anima di Meliaduce Cicala.

Una grande importanza aveva la funzione del medico che

doveva visitare i malati due volte al giorno e fornire ag-

giornamenti sulle loro condizioni sia ai responsabili del-

l’ospizio che ai visitatori.

Tra i medici che prestarono la loro opera nell’ospedale pos-

siamo ricordare due luminari del tempo: Bartolomeo de-

gli Emanuelli o Manueli che fu archiatra di papa Innocen-

zo VIII e venne considerato un riformatore della medici-

na, e Cesare Macchiati da Fermo che insegnò medicina pra-

tica all’Università La Sapienza di Roma e fu medico perso-

nale della regina Cristina di Svezia.

L’ospedale era dotato anche di una attrezzata “spezieria” in

cui venivano preparate, secondo la prescrizione, le medici-

ne per gli ammalati, che consistevano in sciroppi, unguen-

ti, olii, pillole, tra cui i famosi “troscici” (pastiglie dalla for-

ma schiacciata) contenenti le sostanze elencate nei ricet-

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In alto: dichiarazione dipagamento di scudi 9,90a favore di M. CaterinaVacca; al centro: impegnodel Maestro di Casadell’Ospedale di rendere

“robbiciola o denaro” a favore della “zitella”M. Caterina; in basso:elenco forniture e lavori fatti per l’ospedale.

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tari della farmacia. In essi si leggono le seguenti prepara-

zioni: “siropo violato, siropo de suco, siropo acetato, zu-

charo violato, zucharo de reubarbaro, pilule asaiaret, pilu-

le agregative, pilule de aure, salgemma, sena di levante, spic-

ca nardi, fior di boragine, unguento sandolino, liquiritia,

ollio di capari, sugo de cicoria, di luppolo, di rosa, di ace-

tosa, oximele, acqua di farfara, acqua di agronomia, acqua

di aceto rosato, ollio di camomilla, di ruta, di asenzo, di

menta, conserva di fumoterre... ”. Dall’elenco di alcune so-

stanze citate nei registri della spezieria quali la cassia, la sca-

monea, il giulebbe, il sandalo, il luppolo, la melissa, la ci-

coria, la liquirizia, gli estratti di prugna, possiamo notare

come anche oggi siano usate nell’industria farmaceutica e

facciano parte dei rimedi venduti nelle moderne erboriste-

rie. Di alcune, di cui non si conosce la composizione e la

provenienza, si è persa memoria.

I ricettari e le sostanze usate dimostrano che le malattie di

cui soffrivano i ricoverati non erano particolarmente gra-

vi, e dai registri di accettazione si nota che non venivano

mai registrate le affezioni da cui erano colpiti: la diagnosi

generale era quella di “febre” e le cure principali consiste-

vano in salassi, purganti, antifebbrifughi e diete particola-

ri per chi soffriva di disturbi di stomaco o era affetto da dis-

senteria. Sia lo speziale che la spezieria erano sottoposti a

regolari controlli da parte dei governatori.

LA CONFRATERNITA

Poiché l’amministrazione dell’ospedale affidata ai chierici della Camera Apostolica non ave-

va dato esiti positivi e i fondi lasciati da Meliaduce Cicala erano quasi esauriti, pare che un

discendente di Meliaduce, Giovanni Battista Cicala, cardinale di San Clemente, allo scopo di

conservare degnamente l’opera meritoria del suo antenato, avesse rivolto un’istanza al pon-

tefice Giulio III, perché il rettorato e il controllo dei beni lasciati in eredità dal fondatore fos-

sero affidati a una Confraternita che si prendesse cura della chiesa e dell’ospedale, in modo

che quell’angolo di Liguria in Roma potesse continuare a rappresentare per Genova e per i

marinai genovesi un punto di riferimento a cui ricorrere in caso di bisogno.

Fu così che con la bolla “Romanus Pontifex” del 22 giugno 1553, Giulio III diede il suo be-

nestare alla costituzione di una “Confraternita dei Genovesi” in Roma, esonerando la Ca-

mera apostolica dall’amministrazione dei beni residui, e con decreto del 1° marzo 1559, il

senato della Repubblica di Genova concesse alla Confraternita il titolo di “consolato” in ba-

se al quale si stabiliva che lo stesso poteva esigere dalle navi genovesi che approdavano a Ri-

pa Grande, il pagamento di 60 baiocchi. Tale diritto restò in vigore fino alla caduta della

Repubblica genovese che avvenne nel 1796 in seguito alle conquiste napoleoniche.

La Confraternita dei Genovesi in Roma, rese esecutiva la sua istituzione con lo Statuto re-

datto nell’anno 1576 in ottemperanza alle disposizioni contenute nella bolla di Giulio III:

esso è composto da quaranta articoli che specificano i motivi della sua istituzione e gli

scopi di culto e di beneficenza di cui i confratelli garantivano l’osservanza. Della Confra-

ternita potevano far parte tutti i genovesi sia della città che dei suoi domini e delle isole,

preferibilmente residenti a Roma.

Al momento della vestizione che avveniva secondo un preciso rituale, al confratello veni-

va consegnato il “sacco”, una specie di tunica di tela bianca con maniche e cappuccio che

portava lo stemma di Giovanni Battista e la scritta “societas genuensium”. I confratelli do-

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Una pagina dello Statuto della Confraternita.

A fronte

Tabernacolo della fine del XV secolo con la scritta “Sanctumoleum infirmorum”.

Monumento funebredel fondatoreMeliaduce Cicala.L’opera è attribuita ad Andrea Bregno.

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vevano riunirsi tutte le domeniche per ascoltare la messa,

comunicarsi nelle feste più importanti come Pasqua, Na-

tale, Pentecoste, l’Assunzione di Maria SS, ed essere pre-

senti durante le visite alle basiliche e le processioni, so-

prattutto a quella solenne che si organizzava il 24 giugno

per la festa di S. Giovanni: obbligo importante era quello

di dedicarsi alle opere di carità occupandosi degli amma-

lati, dei confratelli indigenti, dell’assistenza ai moribondi,

del seppellimento dei morti.

All’inizio l’attività caritativa era rivolta principalmente al-

l’ospedale, e il primo scopo benefico diverso fu quello dei

“sussidi dotali” che dovevano essere elargiti ogni anno a

quattro zitelle povere di famiglia genovese, anche se nate a

Roma, le quali dovevano però possedere particolari requi-

siti riguardanti sia la religiosità della famiglia che la loro

modestia e moralità. Questa usanza ebbe origine dal testa-

mento di un segretario della Confraternita, Giacomo An-

tonio Riccobono, che nel 1580 destinò alla Confraternita un

lascito di 120 scudi da distribuire annualmente come dote

a fanciulle povere genovesi in età da marito. Oltre alla dote

le giovani ricevevano i cosiddetti “roversi” cioè una certa

quantità di biancheria che costituiva il corredo. Dopo quel-

lo di Antonio Riccobono, altri lasciti si aggiunsero per i sus-

sidi dotali tra cui quello del marchese Giovanni Battista

Chiesa, di Vincenzo Giustiniani, della marchesa Girolama

Pallavicini e del marchese Prospero Costaguti.

L’attività della Confraternita proseguì fiorente nel corso dei

secoli e ad essa Gregorio XIII, con un “breve” del 13 aprile

1576, concesse il diritto di liberare, nel giorno della festa di

S. Giovanni Battista, un condannato a morte genovese. Il

privilegio fu confermato da Gregorio XV il 21 giugno 1621,

ed esteso in favore di condannati di qualsiasi nazione.

LA CHIESA DI S. GIOVANNI BATTISTA

A chi entra anche oggi, a distanza di più di cinque secoli

dalla sua fondazione, nella chiesa di S. Giovanni Battista

dei Genovesi, che si trova come abbiamo detto in via Ani-

cia tra la basilica di Santa Cecilia e la chiesa di S. Maria del-

l’Orto, appare subito chiaro di essere entrati in un luogo

“esclusivo”, in cui i riferimenti alla Liguria e in particola-

re a Genova e alla sua storia, appaiono chiaramente dai qua-

dri sugli altari, dai monumenti funebri, dalle scritte com-

memorative, e in particolare dalla statua della Madonna

della Guardia posta sulla destra subito dopo l’ingresso, che

appare per prima al visitatore.

Ai lati dell’altare maggiore spiccano poi in maniera ine-

quivocabile i quattro stemmi dei capoluoghi di provincia

della Liguria: La Spezia, Genova, Savona, Imperia, dono

delle consorelle della Congregazione di N.S. della Miseri-

cordia di Savona che dal 1690, salvo brevi interruzioni, af-

fiancò la Confraternita di S. Giovanni Battista nelle opere

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di misericordia, e che è tuttora attiva in seno alla comunità con opere caritative, incontri

di esercizi spirituali e manifestazioni di carattere artistico e culturale. Essa è stata benedet-

ta dal cardinale Giuseppe Pizzardo nel giorno dell’Assunta del 1966 (La Madonna della Mi-

sericordia di Savona è apparsa due volte presso il fiume Letimbro all’agricoltore Antonio

Botta e precisamente il 18 marzo e l’8 aprile 1536 e molti miracoli confermarono questa

apparizione tanto da farle attribuire il titolo di Madonna della Misericordia).

La Congregazione ha un proprio regolamento e dispone nella chiesa di un altare privilegiato

sul quale si trova la tela raffigurante l’apparizione di Nostra Signora della Misericordia di Sa-

vona, opera di Giovanni Odazzi (1663-1731), davanti alla quale si svolgono le “vestizioni” del-

le consorelle e le celebrazioni solenni in occasione della festa che ricorre il 18 marzo.

Sull’altare maggiore, decorato con marmi policromi, (progettato da Luca Carimini in so-

stituzione di quello settecentesco) tra due colonne di porfido è situata la tela raffigurante

il Battesimo di Cristo in stile caravaggesco che è stata attribuita recentemente al francese

Nicola Regnier che la dipinse prima del 1627 e che è stata recentemente restaurata.

In fondo a destra, prima dell’altare, si trova il monumento funebre di Meliaduce Cicala,

fondatore dell’ospedale, attribuita ad Andrea Bregno, che viene considerata una delle

opere di maggior pregio esistenti nella chiesa insieme al tabernacolo eucaristico murato

che risale all’epoca della costruzione originaria, (l’esigenza di un tabernacolo in pietra

murato si ebbe in seguito al Concilio Lateranense IV del 1215 quando venne proclama-

to il dogma della Transustanziazione cioè della reale trasformazione del pane e del vino

nel corpo e sangue di Cristo al momento della Consacrazione).

LA CAPPELLA DI S. CATERINA FIESCHI ADORNO

Ma l’opera più interessante, separata dal complesso della navata, è certamente la cappella

dedicata alla santa genovese Caterina Fieschi Adorno, che secondo una tradizione, pur-

troppo non documentata, era stata chiamata a Roma dallo stesso da Meliaduce Cicala

(il cui palazzo si trovava a Genova proprio in Vico del Filo, poco distante da quello in

cui visse Caterina dopo il matrimonio, e si sa che le famiglie nobili genovesi si conosce-

vano tutte e si frequentavano) durante una delle epidemie di peste che colpirono ripe-

tutamente Roma negli ultimi decenni del ‘400.

Non sappiamo da che fonte giunga questa notizia ma non è difficile pensare che, conoscen-

do Meliaduce la fama di santità di Caterina, la sublime dedizione e la competenza da lei mo-

strata nella cura degli appestati presso gli ospedali genovesi, abbia richiesto la sua opera di as-

sistenza per gli ammalati liguri ricoverati presso gli ospedali romani di cui era benefattore.

Pare che l’iniziativa di costruire sul lato sinistro della chiesa questa cappella (separata dal-

la navata centrale da un artistico cancello dono di Benedetto XV) sia derivata dalla rico-

noscenza dei genovesi verso l’opera svolta da Caterina e, in particolare, dalla volontà del

marchese Giovanni Battista Piccaluga che finanziò la costruzione e la scelse quale luogo

della sepoltura sua e della sua famiglia. Essa fu consacrata in occasione della canonizza-

zione della santa sotto il pontificato di Clemente XII nell’aprile del 1737.

L’ambiente, piccolo e armonioso come un mistico rifugio che induce al raccoglimento e

alla preghiera, ha le pareti sapientemente decorate con motivi che simulano panneggi di

damasco grigio, oro e rosso scuro che fanno pensare ai raffinati ambienti delle dimore

genovesi del tempo, e una volta a padiglione che mostra alcuni riquadri affrescati nei

quali sono raffigurati episodi della vita della santa, mentre nei quattro ovali degli ango-

li appaiono le figure delle quattro virtù cardinali. La grande tela dell’altare, opera di

Odoardo Vicinelli (1681-1755) che fu uno dei pittori del tempo più noti a Roma ed eb-

be una discreta fama anche all’estero, rappresenta “Il transito della santa sorretta da due

angeli”. Lo stesso autore dipinse al centro del soffitto “Santa Caterina in gloria” che

completa il ciclo raffigurativo della vita della santa. La cappella è stata recentemente re-

staurata a cura della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici.

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Da una porta laterale del-

la cappella si passa nell’o-

ratorio, diviso in due par-

ti da un arco a tutto sesto

datato 1603, nel quale si

riunivano i Confratelli e

che anche oggi serve per ri-

unioni, incontri culturali,

concerti e altre manifesta-

zioni artistiche: in esso si

può ammirare un notevo-

le soffitto seicentesco a cas-

settoni risalente al XVII se-

colo e numerosi affreschi

raffiguranti la vita della

Vergine e di S. Giovanni

Battista e, sul lato destro,

un “S. Giorgio e il drago”

del pittore aretino Filippo

Zucchetti che prestò la sua

opera anche nella cappel-

la del Crocefisso della vi-

cina S. Maria dell’Orto.

IL CHIOSTRO

“DEI MELANGOLI”

Ma la sorpresa principale

della visita alla chiesa di S.

Giovanni Battista dei Ge-

novesi, è quella che si pro-

va entrando nel chiostro

detto “dei Melangoli” attri-

buito a Baccio Pontelli, ar-

chitetto di Sisto IV, e dichiarato “monumento nazionale”, che ha conservato il fascino del

suo aspetto originario e può considerarsi uno degli angoli segreti più esclusivi di Roma.

Il recinto centrale a cui fanno da splendida cornice due ordini sovrapposti di pilastri otta-

gonali, è stato trasformato in un bellissimo, silenzioso “frutteto-giardino”, con alberi di

melangoli, di limoni e mandarini, con siepi di mirto, piante di acanto e rose rampicanti

che incorniciano delicatamente il pozzo di travertino, della fine del sec. XV, fiancheggiato

da due colonne ioniche, che sorge nel centro del giardino.

Non è difficile, percorrendo il colonnato sotto il quale si snodano, durante le feste litur-

giche, le processioni con i confratelli in cappa bianca che sorreggono gli stendardi della

Confraternita e le consorelle che indossano la mantellina bordata d’azzurro con l’effigie

della Madonna della Misericordia, ascoltando il canto delle litanie e delle Laudi dell’an-

tica tradizione religiosa ligure, sentirsi permeati da un senso struggente di commozio-

ne, sentirsi consolati dalla consapevolezza di una fede profonda che unisce ancora i ge-

novesi di oggi a quelli di cinque secoli fa, e scoprire che dai nostri antenati, non abbia-

mo ereditato soltanto quest’angolo segreto di Liguria nel cuore di Roma in cui è possi-

bile ritrovare momenti mistici di raccoglimento e di preghiera e ritemprare lo spirito do-

po le fatiche quotidiane, ma anche la volontà e la speranza di conservare nel tempo i sen-

timenti e gli ideali di vita che, col loro esempio, ci hanno trasmesso.

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XIX secolo. Sezione dell’Ospedale e chiostro.

Il chiostro come appare oggi.