Umberto Eco: odissea nella Biblioteca di Babele

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    © 2011 & 2014 MARCO TRAINITO

    PRIMA EDIZIONE:

    IL PRATO - COLLANA “I CENTOTALLERI”

    PADOVA 2011

    EDIZIONE IN FORMATO EBOOK:

    2014

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    MARCO TRAINITO

    Umberto Eco:

    Odissea nella Biblioteca di Babele

    Con un’intervista dell’autore a Umberto Eco

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    INDICE

    Avvertenza 

    Premessa

    IntroduzioneTRA NARRATIVA E FILOSOFIA DEL SEGNO

    Capitolo 1BENVENUTI A BLITIRIA

    Capitolo 2SFIDA AL LABIRINTO

    Capitolo 3L’INIZIAZIONE DEL LETTORE

    ConclusioneCHECK-UP PER UN COMPLEANNO

    Appendice 1DIALOGO CON UMBERTO ECO

    Appendice 2SOMMARIO ANALITICO DEL PENDOLO DI FOUCAULT  

    Riferimenti bibliografici

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    Come mai la filosofia è una costruzione cosìcomplicata? Certo che se fosse quella cosaultima, indipendente da ogni esperienza, per laquale vuoi farla passare, dovrebbe essere asso-lutamente semplice. – La filosofia scioglie i

    nodi del nostro pensiero, perciò il suo risultatodeve essere semplice, ma la sua attività deveessere tanto complicata quanto i nodi che scio-glie.(Ludwig Wittgenstein,  Big Typescript , XII,90.1, tr. it. Einaudi 2002, p. 421)

    Tra poco sarai (…) un nome o neppure unnome. E il nome non è che rumore o un’eco.(Marco Aurelio,  I ricordi, tr. it. Einaudi 1968,V, 33)

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    AVVERTENZA

    Per comodità, soprattutto nei riferimenti bibliografici si è ritenuto

    opportuno indicare i romanzi di Eco con una sigla semplice e intuitiva, se-condo la seguente corrispondenza:

    R  : Il nome della rosa (Bompiani, Milano 1980)P : Il pendolo di Foucault (Bompiani, Milano 1988)I : L’isola del giorno prima (Bompiani, Milano 1994)B : Baudolino (Bompiani, Milano 2000)L : La misteriosa fiamma della regina Loana (Bompiani, Milano 2004)C: Il cimitero di Praga (Bompiani, Milano 2010)

    Il numero che segue la sigla indica quello della pagina secondol’impaginazione della prima edizione (non sempre mantenuta nelle edizionitascabili). I numeri separati dal trattino indicano che il passo relativo sta a

    cavallo tra le due pagine corrispondenti, mentre i numeri separati dalla virgo-la o dalla congiunzione “e” indicano passi diversi nelle diverse pagine corri-spondenti, di solito accomunati da qualcosa. Per gli altri testi citati si è adot-tato di solito il sistema “Cognome data: pagina”, il cui scioglimento si trovanei “Riferimenti bibliografici” in fondo al volume. Per le opere straniere, ladata che segue il cognome dell’autore indica quasi sempre quella della primaedizione originale (qualche eccezione riguarda i classici della letteratura edella filosofia), mentre il numero di pagina si riferisce alla traduzione italianaindicata in bibliografia.

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    PREMESSA

    Ogni atto di lettura è una transazione difficilefra la competenza del lettore (la conoscenzadel mondo condivisa dal lettore) e il tipo dicompetenza che un dato testo postula per esse-re letto in maniera economica.(Eco 1990: 110) 

    In un articolo apparso su «L’Espresso» del 22 maggio1983, intitolato “La moltiplicazione dei media”, Umberto Ecoesordiva descrivendo la delusione provata da lui e dai suoi amicidopo aver rivisto in televisione 2001: Odissea nello spazio di

    Stanley Kubrick. Eppure, riconosceva Eco, dall’epoca della suauscita (1968) il film aveva lasciato nel ricordo «ammirazione,affetto e rispetto», perché aveva provocato stupore «per lestraordinarie novità tecniche e figurative» e per «il suo respirometafisico» (in Eco 1983: 212). Certo, l’inizio con le scimmie eil dramma di HAL 9000 sono ancora grande cinema, diceva Eco,ma le astronavi non-aerodinamiche sono ormai roba per giocat-toli e risultano superate in verosimiglianza e complessità peresempio da quelle di Guerre stellari, di cui pure costituiscono ilmodello. Riflettendo sulle ragioni di questo effetto di delusione,

    Eco osservava che esso dipende dalla natura dei mass-media, i

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    quali, essendo legati più alla realizzazione tecnica che all’inven-zione, sono destinati ad essere migliorati dagli imitatori, contra-riamente a quanto avviene nella grande arte, dove i pittori cara-vaggeschi non possono mai competere con Caravaggio e Caroli-na Invernizio non potrà mai essere confusa con Balzac.

    Chissà se Eco rimarrebbe deluso anche oggi che abbiamo

    la possibilità di rivedere il film di Kubrick con un grado di riso-luzione delle immagini e di nitidezza dei colori tale che il suoimpatto visivo risulta incommensurabile con quello prodottodagli schermi televisivi del 1983, benché naturalmente l’impr-essione di ‘antico’ della tecnologia, dei costumi e degli arreda-menti sia ancora e più che mai ineliminabile. Ma non è questoche qui ci interessa. Qui ci basta sapere che Eco ha subìto il fa-scino di questo film, al punto che in altra occasione, per dire chea volte «il modo simbolico esibisce una sua logica ferrea, se pur

     paranoide, e il simbolo è duro, geometrico e pesante», non trova

    di meglio che evocare il monolito nero in forma di levigatissimo parallelepipedo che appare in 2001: Odissea nello spazio  (cfr.Eco 2002: 167).

    Il presente saggio sull’opera narrativa di Eco, condotto ponendo Il nome della rosa al centro del gruppo dei sei romanzisia per ragioni di organizzazione formale sia perché a parere dichi scrive esso resta la  summa  di tutta la produzione echiana,intende usare il film di Kubrick come faro per illuminare unaspetto preciso dell’esperienza dei personaggi principali e deilettori di Eco. Chiamando Odissea nella Biblioteca di Babele

    questa ipotesi di lettura, si intende proprio alludere a un approc-

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    cio che, a partire dal viaggio conoscitivo di Ulisse, vede nella biblioteca dell’abbazia del Nome della rosa un modello possibiledella nozione di Enciclopedia tanto cara a Eco, nei cui romanzi,che ne sono di volta in volta una simulazione in scala, personag-gi e lettori si perdono, si specchiano e si conoscono come accadenei corridoi eternamente ricorsivi della biblioteca borgesiana e

    nello spazio kubrickiano. In tal modo, ciascuno dei romanzi diEco può essere visto come un’odissea a sé, ma in qualche modolegata alle altre: Il nome della rosa come un’odissea nel labirintodella biblioteca dell’abbazia; Il pendolo di Foucault  come un’o-dissea oltre i limiti dell’interpretazione;  Baudolino  come un’o-dissea nello spazio del Medioevo fantastico;  L’isola del giorno

     prima come un’odissea nello spaziotempo barocco; La misterio- sa fiamma della regina Loana come un’odissea nella memoriaindividuale e collettiva e infine  Il cimitero di Praga come un’o-dissea nelle imposture della storia europea moderna. La rete di

    somiglianze di famiglia che tiene insieme i romanzi investe tuttii livelli, dal semplice dettaglio alla struttura. Per fare subitoqualche esempio rapido, R e B condividono una buona porzionedella biblioteca medievale; B e I condividono il problema cogni-tivo del riconoscimento percettivo e della definizione dell’igno-to; I e C condividono il tema del doppio; L e C quello della per-dita e del recupero della memoria; P e C hanno in comune moltaletteratura ermetica e complottista; P, I, B, L e C, con il loro mo-vimento a spirale sull’asse del tempo, condividono la forma ser-

     pentina (ma sempre variata) dell’intreccio; R, P, I, B ed L gioca-

    no sul motivo del sogno e della ricerca dell’amore perduto; R, P,

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    I e C sono variazioni sulla tecnica del manoscritto ritrovato, ecc.Inoltre, Belbo mostra di aver letto R, perché in P 27 e 328 necita l’incipit  e l’explicit , mentre in L 23 e 215 Yambo mostra diaver letto P, perché di nuovo ne cita l’incipit   e l’explicit.  E il

     pollice che doleva al vecchio Adso nel freddo dello scriptorium(cfr. R 503), duole anche a Belbo (cfr. P 328), a Baudolino (cfr.

    B 16) e a Simonini (cfr. C 47). Tutti, poi, anche se con gradazio-ni diverse, sono delle rappresentazioni narrative del problemalogico-filosofico, molto caro a Eco (cfr. Eco 2002: 292-323),della forza del falso, nonché dei suoi risvolti socio-politici.Come sanno i logici, il falso ha maggiore forza del vero, perchédal falso segue anche il vero, mentre dal vero segue solo il vero(ex falso sequitur quodlibet   e ex vero nihil sequitur nisi verum dicevano già i medievali per sintetizzare quelli che oggi sono

     ben noti teoremi del calcolo proposizionale relativi all’implica-zione). Ciò comporta che da premesse false possono essere de-

    dotte validamente delle conseguenze vere: per esempio, se iocredo che oggi sia domenica, anche se di fatto è martedì, possovalidamente concludere che oggi non è giovedì, ed è vero. Ilgrave errore logico consiste nel credere poi che la conseguenza(vera) costituisca una conferma della credenza (falsa) di parten-za, mentre, dal punto di vista della pura forma logica, si trattasolo di un token  del type  costituito da una riga dalla tavola diverità dell’operatore logico dell’implicazione, per cui si confon-de la validità dello schema di inferenza con il valore di veritàdegli enunciati in gioco (in questo quello dell’antecedente). In

    un tale bias cognitivo sono caduti anche alcuni grandi filosofi e

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    vi cade persino un raffinato logico e detective come Guglielmoda Baskerville. Figuriamoci, quindi, cosa accada alla gente co-mune (la cui credulità per esempio in materia di religione eastrologia è sfruttata in genere facendo leva proprio su questobias) e ai ciarlatani dell’occultismo e dei complotti, come quelliturlupinati dai protagonisti del  Pendolo di Foucault , i quali a

    loro volta rimarranno vittime del loro stesso scherzo; per non parlare dei potenti, per natura potenzialmente dannosissimi, ma-nipolati da abili falsari come Baudolino e Simone Simonini.

    Lo stesso Eco usa spesso la metafora spaziale nelle suetante esposizioni della nozione di Enciclopedia. Non solo la bi-

     blioteca dell’abbazia è un labirinto, come vedremo, ma “L’enci-clopedia come Labirinto” è il titolo dell’ultima sezione de  L’an-tiporfirio, e in Dall’albero al labirinto Eco ricorre a una sugge-stiva immagine planetaria: «potremmo raffigurarci gli stati (e

    strati) di quella che Putnam ha chiamato divisione sociale dellavoro linguistico ipotizzando una sorta di sistema solare (Enci-clopedia Massimale) dove moltissime Enciclopedie Specialisti-che compiono orbite di grandezza diversa intorno a un nucleocentrale (Enciclopedia Media), ma nel centro di quel nucleo do-vremmo anche immaginare un brulicare di Enciclopedie Indivi-duali che rappresentano in modo vario e imprevedibile le cono-scenze enciclopediche di ciascun individuo» (Eco 2007b: 77).L’Enciclopedia Massimale, inoltre, «è dominata dal principio

     peirciano della interpretazione  e quindi della  semiosi

    illimitata» (Eco 1985: 356); in tal senso essa «è potenzialmente

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    infinita» (Eco 2007b: 55). E a questo punto è inevitabile ricorda-re l’incipit   de  La Biblioteca di Babele: «L’universo (che altrichiama la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e for-se infinito, di gallerie esagonali…» (in Borges 1984: 680).

    È interessante osservare, peraltro, che se qui si usa Ku- brick per decifrare Eco, sarebbe possibile usare Eco per decifra-

    re Kubrick. Anzi, per ricorrere al linguaggio della logica moda-le, si potrebbe dire che questa  possibilità è necessaria, sempli-cemente perché si è già realizzata almeno una volta. In un sag-gio di Omar Calabrese su Kubrick, intitolato I “mondi possibili”in Kubrick. Ovvero: la poetica delle porte e stampato in Brunet-ta (a cura di) 1999: 33-44, viene fatto uso degli strumenti di ana-lisi testuale proposti da Eco in  Lector in fabula. In particolare,esaminando alcuni momenti di film come 2001, Arancia mecca-nica, Barry Lyndon e Shining , il semiologo amico di Eco mettein luce quelle strategie “testuali” (nel caso specifico relative alla

    narrazione filmica) che innescano la generazione di “mondi pos-sibili”, che a loro volta sono «operazioni di gioco previsionalecostituite insieme con il testo. Il mondo possibile, insomma, èuna specie di tappa della cooperazione narrativa fra autore e let-tore, e succede che mentre il testo dispiega nel tempo la narra-zione, vi siano dunque, contemporaneamente, una serie di ipote-si su come andranno a finire le azioni raccontate. Queste ipotesi

     possono essere ipotesi dell’autore, ipotesi, naturalmente, del let-tore, e ipotesi anche dei personaggi. Il testo stesso, poi, oltre a

     prevedere ciò che può essere previsto e ciò che non lo può esse-

    re, (...) si incaricherà anche di rispondere alla domanda se quelle

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     previsioni erano azzeccate oppure no» (p. 35). E questa è esat-tamente una delle più classiche teorie di Eco del processo di in-terpretazione di un testo e di interazione tra lettore e opera.

    Ecco perché le odissee illustrate nel presente saggio ri-guardano sia i personaggi di Eco che i suoi lettori. E si tratterà dinaufragi non necessariamente o non sempre tragici. Anzi, per

    dirla con i nostri poeti, è bensì vero che nel suo itinerario versoDio la mente umana è destinata a naufraga di fronte all’inespri-mibile geometria della Trinità (o alla sua irrimediabile insensa-tezza, come diremmo oggi), ma tale naufragio può anche rive-larsi dolce, e persino allegro, se si è dei lupi di mare irresistibil-mente spinti dalla sete di conoscenza e pronti dopo ogni cadutao dopo ogni approdo a riprendere il viaggio.

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    INTRODUZIONE

    TRA NARRATIVA E FILOSOFIA DEL SEGNO

    I

    Una perplessità non di rado petulante e stucchevole sulcitazionismo sfrenato dell’Eco romanziere è stata più volte e da

     più parti sollevata con un certo fastidio per dire che in fondoEco non fa altro che sfruttare ed esibire le proprie sterminate

    conoscenze enciclopediche per gettare fumo negli occhi del let-tore e nascondere così la propria incapacità creativa e poetica difare letteratura pura basata sull’invenzione di storie nuove. Tut-to questo può anche essere vero, ma il fatto è che Eco, nei suoiromanzi, non è mai (del tutto) gratuito nel sommergere il lettorecon citazioni attinte da buona parte dello scibile umano. A benguardare, i suoi romanzi sono costruiti e concepiti in modo taleda giustificare in qualche modo la complessa trama di riferimen-ti letterari e filosofici di cui sono intessuti, e questo è un aspettoda cui non è possibile prescindere per una loro adeguata valuta-

    zione, altrimenti si rischia di rigettarli guidati inconsciamente

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    dal ben noto meccanismo psicologico della volpe di fronte al-l’uva che non può raggiungere perché troppo alta.

    Per capire come funziona la narrativa a più livelli di frui-zione di Eco, occorre innanzi tutto tenere presente che egli fon-damentalmente non è un romanziere puro, ma uno studioso disemiotica, con tutte le sue ramificazioni nella semantica cogniti-

    va, nella storia della cultura ‘simbolica’, nella filosofia del lin-guaggio, nei mass-media, nelle tecniche letterarie, nelle teoriedell’interpretazione, ecc. In tal senso, in quanto teorico egli ècosì addentro alle strategie stilistiche, retoriche, narrative e ‘digenere’ che stanno alla base della costruzione di un testo lettera-rio che nei romanzi si diletta a metterle in atto con un atteggia-mento ironico e ludico esplicitamente dichiarato. Non a caso, sesi va a guardare la produzione teorica coeva ai romanzi, si sco-

     pre che questi ultimi spesso non sono che il cantuccio ricreativoe ‘applicativo’ della prima. Ad esempio, all’epoca del Nome del-

    la rosa Eco era molto interessato alla logica abduttiva (nel sensodi Peirce) che sta alla base delle detective stories (e del metododi Sherlock Holmes in particolare), come dimostra il saggioCorna, zoccoli, scarpe: tre tipi di abduzione , dove sono svelati1

    molti dei trucchi e delle citazioni del romanzo (ad esempio siapprende che tutto l’episodio iniziale del cavallo Brunello è ri-

     preso da Zadig  di Voltaire ed è ri-narrato alla Conan Doyle). Lestesse innumerevoli citazioni che fa Adso da Melk nel corso del-

     Nato dalla fusione di due saggi più brevi, uno del 1980 e uno del 1981, esso1

    uscì originariamente in Eco e Sebeok (a cura di) 1983 e venne poi ristampatocome § 4.3 di Eco 1990.

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    la sua narrazione hanno una loro ragione, ad esempio, nel fattoche egli è un anziano monaco imbevuto di cultura medievale cherievoca fatti avvenuti molti anni prima, e per un uomo di fede edi dottrina del XIV secolo la realtà passata e il vissuto personalesono il risultato di ciò che gli occhiali dell’enciclopedia cultura-le del suo tempo gli permettono di vedere e capire (anche se,

    nella finzione, Adso spiega alla fine che le sue memorie sonocostruite con i “brandelli di pergamena” salvatisi dal rogo della

     biblioteca, che lui aveva recuperato molti anni prima allorchéera tornato, anni dopo i fatti narrati, tra le rovine dell’abbazia:cfr. R 501-502). Lo stesso Eco, riferendosi nella circostanza al

     Pendolo di Foucault (ma il discorso vale per tutti gli altri ro-manzi), ha dichiarato che, laddove mette in bocca ai personaggimolte citazioni letterarie, «la funzione di queste citazioni è dimostrare l’incapacità di questi personaggi di guardare al mondose non per interposta citazione» (Eco 2003: 151). E così, se deve

    raccontare l’episodio del cavallo, poiché l’auctoritas medievalesulle fattezze di un cavallo ‘nobile’ è Isidoro di Siviglia, eccoche Adso usa le parole di quest’ultimo ( Etimologie, XII, I, 46)direttamente in latino; se invece deve raccontare l’estasi eroticaraggiunta nel tumultuoso accoppiamento con la ragazza, la suacultura di monaco non può che fargli utilizzare il frasario deimistici, certa poesia erotica del XII secolo (“O sidus clarum

     puellarum”), i Carmina Burana (“Oh langueo…”) e soprattuttoi passi del Cantico dei Cantici (in particolare 6-7) sulla fanciulla

     bella e terribile come un esercito schierato in battaglia (secondo

    la ben nota analogia, sul piano psico-fisico, tra la visione mistica

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    e l’orgasmo). Non a caso, poi, anche al seicentesco padre Casparche istruisce Roberto de la Grive tornerà in mente quel passo delCantico allorché vorrà connotare l’“uccello color arancio” del-l’Isola di Salomone,  terribilis ut castrorum acies ordinata  (I258).

     Naturalmente non c’è solo questo. Che dire, ad esempio,

    delle molte citazioni anacronistiche (cioè tratte da autori vissutidopo il XIV secolo)? Qui non si tratta solo di autocompiacimen-to narcisistico da erudito consumato: si tratta piuttosto di am-miccamenti intertestuali al lettore colto per suggerire di volta involta parallelismi tra le diverse epoche storiche basati sulla per-manenza di certi atteggiamenti, idee o teorie. Sono famosi alcu-ni passi sui dolciniani che riecheggiano i proclami delle BrigateRosse (vi torneremo nella Conclusione). Oppure si pensi aquando Adso, nel descrivere il bibliotecario Malachia dopo lasua morte, usa una formula come “vaso di coccio tra vasi di fer-

    ro” (R 428), che è una strizzatina d’occhio dell’autore per indur-re il lettore a non dimenticare che sta leggendo un’opera chedeve molto alla lezione manzoniana, dalla tecnica narrativa delromanzo storico basato sul manoscritto ritrovato al tema dellacaccia agli “untori” di ogni epoca (streghe, eretici, ecc.). O an-cora, si pensi all’ultima pagina dell’Ultimo Folio (R 503), lad-dove Adso cita in tedesco una definizione di Dio come sonoro

     Nulla, che è di Angelo Silesio, un mistico del XVII secolo.Ma prendiamo il caso a mio parere più affascinante, che

    è quello cui lo stesso Eco ha alluso nelle  Postille  quando ha

    scritto: «tutto quello che personaggi fittizi come Guglielmo di-

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    cevano avrebbe dovuto esser stato detto a quell’epoca. Non soquanto sono stato fedele a questo proposito. Non credo di averlodisatteso quando mascheravo citazioni di autori posteriori (comeWittgenstein) facendole passare per citazioni dell’epoca. In queicasi sapevo benissimo che non erano i miei medievali a essermoderni, caso mai erano i moderni a pensar medievale» (R 532).

    Verso la fine (Settimo giorno – Notte), troviamo il seguente dia-logo tra Guglielmo e Adso:

    “Non ho mai dubitato della verità dei segni, Adso, sono la sola cosa di cui l’uomodispone per orientarsi nel mondo. Ciò che non ho capito è stata la relazione tra i segni.(…) Dove sta tutta la mia saggezza? Mi sono comportato da ostinato, inseguendo una parvenza di ordine, quando dovevo sapere bene che non vi è un ordine nell’universo”.

    “Ma immaginando degli ordini errati avete pur trovato qualcosa”“Hai detto una cosa molto bella, Adso, ti ringrazio. L’ordine che la nostra mente

    immagina è come una rete, o una scala, che si costruisce per raggiungere qualcosa.Ma dopo si deve gettare la scala, perché si scopre che, se pure serviva, era priva disenso. Er muoz gelîchesame die Leiter abewerfen, sô Er an ir ufgestigen ist... Si dicecosì?”.

    “Suona così nella mia lingua. Chi l’ha detto?”.

    “Un mistico delle tue terre. Lo ha scritto da qualche parte, non ricordo dove. E non ènecessario che qualcuno un giorno ritrovi quel manoscritto. Le uniche verità che ser-vono sono strumenti da buttare.” (R 495)

    Un lettore comune può godersi il passo (peraltro molto bello) pur essendo indotto a pensare – erroneamente – che si stia parlando di un non altrimenti specificato “mistico” medievaleaustriaco che ha scritto quella cosa sulla scala che dev’essere

     buttata dopo che è stata usata per salire da qualche parte. Il letto-re colto, però, riconosce nel passo in tedesco medievale niente-meno che un riadattamento della penultima proposizione (6.54)

    del Tractatus logico-philosophicus  del viennese Ludwig Witt-

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    genstein, un’opera uscita quasi sei secoli dopo il 1327 (nel1921-1922)! Come mai Eco ha inserito questa citazione anacro-nistica? La spiegazione è molto semplice: il Tractatus è non solola  summa del cosiddetto atomismo logico e del neo-empirismo(che Wittgenstein aveva appreso dal suo maestro Bertrand Rus-sell), ma è un’opera pervasa, nelle ultime proposizioni, da uno

    spirito mistico non lontano da certa teologia negativamedievale , echeggiata anche dal passo di Silesio ricordato so2 -

     pra («L’ineffabile c’è, esso mostra sé. È il Mistico. (…) Di ciò,di cui non si può parlare, si deve tacere» ). Di conseguenza, è3

     perfettamente plausibile che Guglielmo da Baskerville, amicodel teologo e logico empirista inglese Guglielmo di Occam, citiil Tractatus: in tal modo Eco vuole ironicamente alludere alleradici occamiste dell’atomismo logico (una delle più influentifilosofie del Novecento, grazie al prestigio di Russell) e del mi-sticismo del giovane Wittgenstein, peraltro ben note anche a li-

    vello ‘manualistico’.Ma c’è di più. Sebbene nel Tractatus ricorrano pochissi-

    mi riferimenti ad altre filosofie e soprattutto ad altri filosofi,escludendo i maestri Russell e Frege, coi quali Wittgenstein dia-loga di continuo, il cosiddetto “rasoio di Occam” ( Entia non

    E affine per alcuni versi persino allo Zen. Di tale questione si discuteva2

    ampiamente in Eco 1962: 224-229, dove tra gli altri è citato e discusso ancheil passo del Tractatus sulla scala (cfr. in particolare le pp. 226-228). Tale dia-logo sotterraneo e continuo tra produzione saggistica e produzione letterarianell’opera di Eco, che qualcuno (come Lorusso 2008) tende a sottovalutare, è

    esattamente ciò che si intende mostrare in questo libro. Wittgenstein 1922, propp. 6.522, 7.3

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     sunt multiplicanda praeter necessitatem) è citato per ben duevolte ed esso dà a Wittgenstein l’occasione per spiegare che con4

    tale regola, tutt’altro che arbitraria o giustificata solo dal succes-so pratico, si intende che se un segno logico-linguistico è inutileo non necessario, esso è privo di significato e quindi va elimina-to. In tal senso, il Tractatus è l’opera della filosofia moderna in

    cui il rasoio di Occam è all’opera più che in qualsiasi altra, per-ché non si limita a raccomandare di non moltiplicare gli enti o isegni se non quando è strettamente necessario, ma sfocia nel-l’imposizione del silenzio a chiunque non abbia da pronunciare“proposizioni della scienza naturale” . Ebbene, il rasoio di Oc5 -cam, che prescrive la semplicità e l’economia nelle spiegazioni,è esattamente la prima cosa cui ricorre Guglielmo quando for-mula la sua prima ipotesi sulla dinamica della morte del primomonaco, Adelmo da Otranto, che per lui può essere solo quellatipica di un suicidio: «Caro Adso, non occorre moltiplicare le

    spiegazioni e le cause senza che se ne abbia una stretta necessi-tà» (R 99).

    Le citazioni, si sa, sono come le ciliegie, una tira l’altra,e quella somiglianza di famiglia che sussiste tra la coppia Witt-genstein/Russell da un lato e la coppia Guglielmo da Baskervil-le/Guglielmo di Occam dall’altro consente per pura associazionedi idee di rileggere sotto una nuova luce uno scambio di battute

    Cfr. Wittgenstein 1922: propp. 3.328 e 5.47321.4

     Wittgenstein 1922: prop. 6.53.5

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    tra Guglielmo e Ubertino da Casale nel loro primo dialogo, lad-dove stanno parlando di un certo Bonagrazia da Bergamo:

    “Ho sentito che ora è vicino a un mio amico che è alla curia, Guglielmo diOccam.”“L’ho conosciuto poco. Non mi piace. Un uomo senza fervore, tutta testa,niente cuore.”

    “Ma è una bella testa.”“Può darsi, e lo porterà all’inferno.”“Allora lo rivedrò laggiù, e discuteremo di logica.” (R 63)

    Ebbene, Russell ha riferito vari aneddoti, divenuti cele- berrimi, relativi alle prime discussioni sulla logica avute con ilgiovane Wittgenstein a Cambridge tra la fine del 1911 e il 1912,ma ce n’è uno particolarmente gustoso rievocato dallo stessoWittgenstein in una annotazione del 1937: «Nel corso dei nostricolloqui, Russell usciva spesso nell’esclamazione: “Logic’shell!”. – E ciò esprime interamente  quello che sentivamo nel

    riflettere sui problemi logici; cioè la loro enorme difficoltà, laloro durezza e levigatezza» . È difficile sottrarsi all’impressione6

    che Eco alluda anche  a questo aneddoto nella citata battuta diGuglielmo, che in ogni caso rievoca certamente almeno  dueluoghi famosi della letteratura in cui si mettono in stretta rela-zione il diavolo e la logica: il verso dell’ Inferno (XXVII, 123) incui uno dei “neri cherubini”, cioè un diavolo, dopo essersi ag-giudicato l’anima di Guido da Montefeltro al termine di un duel-lo dialettico con Francesco d’Assisi, dice: «tu non pensavi ch’io

    In Wittgenstein 1977: 65.6

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    loico fossi», e il passo del Faust  di Goethe (I, 1898-1911) in cuiMefistofele, travestito da Faust, a uno studente che chiede con-siglio al professore per diventare sapientissimo e abbracciaretutto lo scibile della terra e del cielo, dice: «Vi consiglio perquesto, caro amico, di cominciare dal Collegium Logicum» .7

    II

    Discorso analogo potrebbe essere fatto per tutti gli altriromanzi di Eco.

    Il Pendolo di Foucault  costituisce una parodia di tutte leinterpretazioni selvagge della Storia che stanno alla base dellaricerca del Graal e della credenza nei complotti delle sette segre-te, come i Templari, i Rosacroce, i Massoni, ecc. Il numero spa-ventoso di citazioni contenuto in questo romanzo si spiega in

    gran parte con l’esigenza di ripercorrere e smontare tutta una ben nota letteratura-spazzatura di carattere ermetico, esoterico emisterico, compresa (sia detto per inciso) quella che sta alla basedel Codice da Vinci o del più recente  Il simbolo perduto, tant’èvero che lo stesso Eco in un’intervista a Deborah Solomon ap-

      In Goethe 2005: 463. Cfr. anche quanto dice Belbo in un  file  sul quale7

    avremo modo di tornare: «Ho studiato a fondo, e con ardente zelo, filosofia,giurisprudenza e medicina, e purtroppo anche teologia. Ed eccomi qui, pove-ro pazzo, e ne so quanto prima» (P 328), che riprende alla lettera il famoso

    inizio del primo monologo di Faust (I, 354-359, in Goethe 2005: 409). Peraltre citazioni del Faust  nel Pendolo, cfr. P 213, 429, 433, e 479.

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     parsa su «Repubblica» del 25 novembre 2007, ha dichiarato:«Dan Brown è uno dei personaggi del mio romanzo  Il pendolodi Foucault , in cui si parla di gente che incomincia a credere nelciarpame occultista». E se si vuole una prova, si vedano i capito-lo 65 e 66 del Pendolo, che da soli dimostrano come questo ro-manzo sia una sorta di Critica della ragion pura  per romanzi

    come Il codice da Vinci, solo che in genere i numerosi lettori diquesti ultimi, che ne determinano il successo, non sanno di esse-re del tipo di quelli ipotizzati da Garamond, Belbo, Diotallevi eCasaubon per la collana “Iside svelata” della Manuzio.

    Si può immaginare quale attesa circondasse l’uscita del  Pendolo di Foucault , nell’ottobre del 1988, ben otto anni dopoquella del  Nome della rosa. Dopo il successo clamoroso del

     primo romanzo, rilanciato a livello internazionale nel 1986 dalfilm omonimo di Jean Jacques Annaud, con un memorabile SeanConnery nei panni di Guglielmo da Baskerville, il Professore era

    atteso al varco della seconda prova narrativa, che in genere peruno scrittore è quella del nove, perché esordire con un romanzoche è insieme un capolavoro e un best seller  potrebbe essere sol-tanto una fortunata coincidenza. Nel frattempo, Eco aveva pub-

     blicato tre volumi riconducibili ai suoi normali campi di interes-se, oltre naturalmente a vari saggi e articoli sparsi su riviste egiornali. Eco 1983 raccoglieva interventi di semiologia del co-stume giornalistico, politico e culturale apparsi in gran parte su«Repubblica» e «L’Espresso» tra il 1977 e il 1983; Eco 1984 erauna riorganizzazione sistematica di cinque voci di semiotica,

    scritte tra il 1976 e il 1980 per l’ Enciclopedia Einaudi, relative

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    alle nozioni teoriche di segno, dizionario ed enciclopedia, meta-fora, simbolo e codice; Eco 1985, invece, era una raccolta discritti occasionali (prefazioni, convegni, saggi già pubblicati involumi collettanei, ecc.) composti tra il 1972 e il 1985 e incen-trati in gran parte sui temi del segno, della rappresentazione, del-l’immagine, dell’illusione e della strutturazione del sapere. De-

    gna di nota è anche la raccolta di saggi di autori vari che costi-tuisce Eco e Sebeok (a cura di) 1983, perché l’analisi della logi-ca dell’investigazione di Sherlock Holmes e di altri eroi del ge-nere poliziesco proposta da Eco e dagli altri studiosi consente dicapire molte cose del contesto teorico in cui aveva preso vital’impianto “giallo” del Nome della rosa.

     Negli stessi anni, però, in polemica con l’ermeneutica pantestualista (incentrata su, e talvolta ridotta polemicamente a,uno slogan del tipo “nulla esiste fuori dal testo”, riconducibile aDerrida, o “non esistono fatti ma solo interpretazioni”, ripreso

    da Nietzsche) del cosiddetto pensiero debole italiano (Vattimo),del pragmatismo postmodernista americano (Rorty) e del deco-struzionismo francese (Derrida) – tutte correnti filosofiche inqualche modo derivate dall’idea nietzscheana della “morte diDio”, dalle nozioni heideggeriane di “circolo ermeneutico” e“oblio dell’Essere”, nonché dal principio gadameriano secondocui “l’essere che può essere compreso è linguaggio” – Eco eramolto interessato ai problemi dell’interpretazione di un testo e alruolo del lettore, e in particolare allo sviluppo e alla rielabora-zione di idee già in vario modo espresse in saggi teorici come

    Eco 1962 ed Eco 1979. Gli scritti relativi a questo campo di in-

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    dagine, che confluiranno poi in Eco 1990, delineano l’orizzontefilosofico principale in cui matura  Il pendolo di Foucault , che,attraverso la messa alla berlina dell’ermetismo, dell’occultismoe della cabala tradizionali, è soprattutto un regolamento di contiferocemente ironico con le suddette scuole di pensiero (poi mes-so in forma definitiva nel saggio più recente  Il pensiero debole

    vs i limiti dell’interpretazione, che costituisce l’ultimo capitolodi Eco 2007b e che è rivolto soprattutto contro Vattimo e Rorty).È importante tenere conto di questo aspetto del Pendolo come diromanzo a chiave polemico con certe mode filosofiche contem-

     poranee, perché esso spiega anche, più o meno direttamente, al-cune reazioni negative che ne salutarono l’uscita.

     L’isola del giorno prima, uscito nel settembre del 1994, testimonia l’interesse di Eco in quegli anni per il XVII secolo (il

     primo dei cd-rom enciclopedici sui vari secoli – da lui ideati perEncyclomedia – era proprio dedicato al Seicento) e per la se-

    mantica cognitiva (basti pensare a Eco 1997). Qual è infatti il problema di Roberto de la Grive, il giovane del XVII secolonaufragato su una nave deserta di fronte a un’irraggiungibileisola dei mari del sud? Nominare e conoscere, con gli strumenticoncettuali e culturali di un uomo del barocco, la realtà mai vistache ha davanti (come la “Colomba color Arancio” , descrittagli8

    di padre Caspar, che però Roberto non vedrà mai: cfr. I 257-258e 465), al fine anche di manipolarla per i suoi scopi (il raggiun-

      Si tratta dell’Orange Dove, o Ptilinopus Victor, che vive nell’arcipelago8

    delle Figi, e in particolare a Taveuni, l’isola attraversata dal 180° meridianoche Eco immagina di identificare con l’Isola del romanzo (cfr. I 468).

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    gimento dell’isola). Ecco perché quel romanzo, in cui Eco mima con mirabile padronanza la lingua della “gente senz’anima” (I473) del tempo, diventa una  summa  della cultura barocca, dalCannocchiale Aristotelico del Tesauro alla Conversazione sulla

     pluralità dei mondi di Fontenelle, dalle  Passioni dell’anima  diCartesio al Dialogo sui massimi sistemi di Galilei, per non dire

    dei vari riferimenti alle questioni geografiche sulla localizzazio-ne dell’Inferno e del Punto Fisso, alle tecniche di navigazione edi guerra, al linguaggio manierista e marinista delle poesied’amore (come nelle lettere che Roberto scrive alla sua amataLilia), ecc.

    Quest’opera, se escludiamo le funamboliche riflessioni esperimentazioni di Belbo, è quella più ricca di riflessioni meta-narrative su quella che Milan Kundera chiamava “l’arte del ro-manzo”, peraltro condotte dal narratore in una sorta di dialogoteorico con il protagonista, imbevuto di cultura barocca e a sua

    volta narratore improvvisato e improvvido. Il gioco della narra-zione, qui, è piuttosto complesso, sebbene, come vedremo, sia-mo al di qua delle mostruose complicazioni del Nome della rosa e del Pendolo. Il narratore, venuto in possesso di certe carte au-tobiografiche e narrative di un naufrago del XVII secolo, ha il

     problema di trarre un romanzo da una storia sì romanzesca ma priva di un finale, ovvero di un vero inizio (cfr. I 466). E a que-sta difficoltà formale si aggiunge il fatto che l’autore delle carteè a sua volta uno che non solo ha voluto raccontare una storiad’amore e di gelosia tipicamente romanzesca, disquisendo sul

     problema “dell’Origine dei Romanzi” (come suona il titolo del

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    capitolo 28: cfr. I 339-343) ma alla fine ha perso il senso delladistinzione tra realtà e finzione e va incontro alla morte per sal-vare l’amata protagonista del suo romanzo, «entrando egli stessonel suo racconto» (I 459). Ecco perché il narratore gioca a cartescoperte (o se non altro finge maliziosamente di farlo) e alla finefa una dichiarazione di metodo e di poetica che sta alla base di

    tutti gli altri romanzi di Eco: «se da questa storia volessi farneuscire un romanzo, dimostrerei ancora una volta che non si puòscrivere se non facendo palinsesto di un manoscritto ritrovato –senza mai riuscire a sottrarsi all’Angoscia dell’Influenza. Nésfuggirei alla puerile curiosità del lettore, il quale vorrebbe poisapere se davvero Roberto ha scritto le pagine su cui mi sonointrattenuto sin troppo. Onestamente, dovrei rispondergli chenon è impossibile che le abbia scritte qualcun altro, che volevasolo far finta di raccontare la verità. E così perderei tutto l’effe-tto romanzesco: dove, sì, si fa finta di raccontare cose vere, ma

    non si deve dire sul serio che si fa finta» (I 473). Baudolino, uscito nel novembre del 2000, tra le altre

    cose, attraverso le avventure picaresche del bugiardissimo pro-tagonista, diventa un’enciclopedia della cultura medievale: dallecronache sulle crociate al bestiario immaginario, dalle disputesulla forma della Terra alle credenze sui favolosi regni d’Ori-ente, come quello del Prete Gianni, ecc. L’interesse per il Me-dioevo è una delle costanti di tutta la parabola intellettuale diEco e in quegli anni egli era particolarmente interessato, tral’altro, a questioni concernenti la funzione della menzogna nella

    letteratura e la forza euristica del falso nella storia delle idee,

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    come testimonia la raccolta di saggi che costituisce Eco 2002.Qui, infatti, in una delle pagine del saggio conclusivo Come

     scrivo  dedicate a  Baudolino, e in particolare nella nota 3 (p.342), Eco confessa che il penultimo saggio della raccolta,  La

     forza del falso, versione ampliata della prolusione letta perl’inaugurazione dell’anno accademico 1994-1995 dell’Univer-

    sità di Bologna, «costituisce il primo nucleo di  Baudolino». EBaudolino, il quale da stilita e santone imparerà che in tutta lasua vita è stato lapidato l’unica volta in cui ha detto la verità esolo la verità (cfr. B 522), si diverte a giocare con l’ambiguitàlogica scimmiottando persino il proverbiale Epimenide il crete-se, laddove racconta a Niceta Coniate come vera la propria sto-ria avventurosa di falsi e contraffazioni, aggiungendo però diessere un mentitore (cfr. B 525, nonché Eco 2002: 344). Chefare, dunque? Essendo uno storico, Niceta non potrà raccontareuna storia riferita da un bugiardo, sicché essa dovrà essere con-

    segnata all’oblio, a meno che il compito non se lo assuma unautore di romanzi, bugiardo per mestiere.

    È stato giustamente notato, per esempio in Cotroneo2001: 20, come  Baudolino  rappresenti per Eco una sorta di“ritorno a casa”, con la fondazione e l’assedio di Alessandria ele osservazioni sul carattere della sua gente. Tuttavia si hal’impressione che Eco abbia voluto fare molto di più, come di-mostra il mirabolante “esercizio di scrittura” (B 17) di Baudoli-no che costituisce il primo capitolo del romanzo. Baudolino,credo, non è solo ciò che Eco avrebbe voluto essere, ma ciò che

    noi, in quanto italiani, siamo stati nel giro dei decenni che hanno

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    visto nascere la nostra lingua e la nostra civiltà letteraria, ovverola nostra identità culturale e nazionale, con le nostre virtù (iro-nia, inventiva, tensione ideale, ma anche pragmatismo, buonsenso, ecc.) e i nostri vizi (creduloneria, cortigianeria, settari-smo, ecc.). In un passaggio importante, infatti, Niceta Coniatechiama Baudolino “nomoteta” (B 44), e più avanti usa espres-

    sioni come “Principe della Menzogna” e “Domeneddio”, sempreriferendosi a Baudolino (B 89), il quale, spesso suo malgrado,qualunque cosa dica, essa è vera semplicemente perché egli l’hadetta (cfr. B 41). Ora, nel Cratilo di Platone, “Nomoteta” è il dioche crea la lingua originaria (nel senso indagato in Eco 1993 ) e9

    nel romanzo indica chiaramente quello  spirito insieme comico-

     Si veda in particolare Eco 1993: 17-18, dove, discutendo proprio il Cratilo,9

    Eco sottolinea che la posizione di Socrate, al di là del naturalismo di Cratilo edel convenzionalismo di Ermogene, si basa sull’idea che «la conoscenza nondipende dal nostro rapporto coi nomi ma dal nostro rapporto con le cose, o

    meglio con le idee». E questa concezione di una semiosi naturale che rispec-chia meglio la verità delle cose e che si contrappone alla propensione allamenzogna propria della lingua, Eco la scorge anche nella teoria semiotica cheManzoni sembra presupporre nei  Promessi sposi  e che è così riassunta nelsaggio  Il linguaggio mendace in Manzoni: «(i) C’è una semiosi naturale,esercitata quasi istintivamente dagli umili dotati di esperienza, per cui i variaspetti della realtà, se interpretati con prudenza e conoscenza dei casi dellavita, si presentano come sintomi, indici, signa o semeia nel senso classico deltermine. (ii) E c’è la semiosi artificiale del linguaggio verbale il quale, o sirivela insufficiente a render conto della realtà, o viene usato esplicitamente econ malizia per mascherarla, quasi sempre a fini di potere. Ma questo è pos-sibile perché il linguaggio è ingannevole per sua propria natura, mentre lasemiosi naturale induce a errore e abbaglio solo quando è inquinata dal lin-

    guaggio che la ridice e interpreta, o l’interpretazione è ottenebrata dalle pas-sioni» (in Eco 1998: 26-27, nonché in Eco 2007b: 446).

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    realistico e mistico-stilnovistico che in quel periodo ha dato vitaalla nostra lingua letteraria. Non a caso, altrove Niceta riflettestupito sulla straordinaria capacità che ha Baudolino (un uomoforse senz’anima, cioè senza patria) di piegare il proprio raccon-to a qualsiasi registro stilistico, ovvero di passare dantescamentedal culo a trombetta di un diavolo (come nelle pagine sul Bau-

    dolino clericus vagans nelle taverne parigine) all’inno alla Ver-gine Madre (come nelle bellissime pagine sulla storia d’amoretra Baudolino e Ipazia ), proprio come fu subito in grado di fare10

    la nostra lingua letteraria delle origini. Né si può tacere il chiarissimo omaggio reso da Eco in

    questo romanzo al filosofo americano Quine, laddove attribuisceal simpatico sciapode incontrato da Baudolino il nome “Gava-gai” (cfr. B 370-371). Si tratta di un termine divenuto celeberri-mo nella filosofia del linguaggio del XX secolo allorché venneassociato da Quine al “coniglio” nel suo esperimento immagina-

    rio concepito in relazione al problema della traduzione della lin-

     Creatura silvana metà donna e metà capra che vive con le altre ipazie, di10 -scendenti delle discepole di quell’Ipazia di Alessandria d’Egitto, filosofaneoplatonica e matematica di gran vaglia, che nel 415 venne trucidata daicristiani. L’incontro di Baudolino con una di queste ipazie senza nome, che sidistinguono solo per il nome dell’unicorno con cui si accompagnano (quellodi questa ipazia si chiama Acacio), costituisce un vertice di romanticismo efilosofia del romanzo, perché l’apatica ipazia (che perderà la sua apatia asce-tica con l’amore carnale, al punto che sarebbe stata persino disposta ad ab-

     bandonare le sue compagne pur di non perdere Baudolino) lo inizia subitoalla metafisica e alla spiritualità del neoplatonismo, di gran lunga più raffina-

    te di quelle del cristianesimo (che le ipazie ovviamente detestano). Cfr. B422-450

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    gua di una civiltà rimasta senza contatti con la nostra . E tutto11

    ciò rimanda alle questioni filosofiche trattate in Eco 1997, il cui§ 4.6.4. è una analisi filosofica del concetto di verità condottacreativamente attraverso l’invenzione di Vanville, una città dallatoponomastica totalmente quineana (mostrata con tanto di map-

     pa: cfr. Eco 1997: 227) che peraltro sorge a nord di un fantoma-

    tico “Gavagai River”. La misteriosa fiamma della Regina Loana, uscito nel

    giugno del 2004, presenta la novità consistente nel fatto che essoè riccamente illustrato con immagini di ogni tipo (fumetti, mani-festi, locandine, francobolli, copertine di libri, calendari illustra-ti, dischi, pacchi di sigarette, ecc.), risalenti in buona parte al

     periodo fascista e usate dal protagonista per ritrovare la memo-ria perduta attraverso le ‘icone’ della cultura di massa che hanno

     popolato la sua fantasia durante l’infanzia (la stessa ReginaLoana del titolo viene da un episodio delle avventure di Cino e

    Franco, un fumetto degli anni Trenta). L’interesse per le “imma-gini” esibito da questo romanzo ha il suo  pendant  in un saggioillustrato come Storia della bellezza, curato dallo stesso Eco,uscito sempre nel 2004, qualche mese dopo  Loana  (e seguitoverso la fine del 2007 da una analoga Storia della bruttezza). Perfare qualche esempio, una tavola del 1974 su  Flash Gordon diAlex Raymond la troviamo sia in Eco 2004: 426 che in L 424,anche se qui è rielaborata da Eco per scopi espressivi, mentre in

    Cfr. il secondo capitolo di Quine 1960.11

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    Eco 2007a: 196, 197 e 267 ritroveremo le stesse immagini di L188 e L 419.

    Come tutti i precedenti romanzi di Eco, anche questo èintessuto di citazioni più o meno esplicite. Nella prima pagina,

     per esempio, in cui il lettore è subito immerso in un’atmosfera dinebbiosa e sognante amnesia (quella del protagonista), si può

    trovare subito un riferimento a  Bruges la morta (1892) di Geor-ges Rodenbach, e poi, a fondo pagina, al Gordon Pym  di Poe(ma già il titolo del primo capitolo, “Il più crudele dei mesi”,riprende la celebre definizione del mese di aprile contenuta nel

     primo verso de  La terra desolata di Eliot. E anche i titoli deglialtri 17 capitoli sono citazioni o riferimenti vari). Nella secondaentrano in scena, tra gli altri, D’Annunzio, Pavese, Simenon,Conan Doyle, Agatha Christie, ancora Poe, poi Kafka, Dumas,ecc.

    Lo stratagemma usato questa volta da Eco per riempire il

    libro di citazioni più o meno colte (si va, per intenderci, dal  Pa-radiso di Dante alla canzonetta  Pippo non lo sa, attraversandocosì tutto lo spettro enciclopedico della cultura) è ben preciso. Il

     protagonista, il libraio antiquario Giambattista Bodoni (nato allafine del 1931, quindi coetaneo dell’autore, nonché omonimo delcelebre tipografo – vissuto tra il 1740 e il 1813 – che moderniz-zò, semplificandoli, i caratteri di stampa), detto Yambo, dallo

     pseudonimo dello scrittore di libri illustrati per l’infanzia Enrico Novelli (1876-1945), a causa di un ictus che lo ha colpito nel-l’aprile del 1991, ha perso una parte della sua memoria a lungo

    termine, e in particolare la cosiddetta memoria “episodica” (che

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    comprende i ricordi della propria vita e quelli delle cose e delle persone conosciute), mentre la sua cosiddetta memoria “seman-tica”, quella cioè relativa alla conoscenza linguistica ed enciclo-

     pedica del mondo, è rimasta intatta. In questo modo egli non sa più nulla di sé, del proprio passato e dei propri familiari, ma ri-corda perfettamente tutto ciò che ha letto o solo sentito dire (e il

    lettore scoprirà quanto vaste e varie siano le sue letture). Ecco perché gli affiorano continuamente alla mente brandelli di unsapere scolastico e popolare, per cui, ad esempio, se il medicogli chiede di sua madre, Yambo risponde col luogo comune «Dimamma ce n’è una sola, la mamma è sempre la mamma», e segli chiede se gli piace il tè, risponde dannunzianamente (ma giàD’Annunzio citava il motto che è ripetuto nel soffitto del Palaz-zo Ducale di Mantova) «Forse che sì forse che no» (L 17). Edecco perché in apertura, quando il protagonista si risveglia instato di parziale “amnesia retrograda” (L 11) e si sente sospeso

    in un sognante “grigio lattiginoso” (L 7) che assomiglia allanebbia, abbiamo quella delirante carrellata di citazioni letterariesulla nebbia: non è altro che la memoria culturale di Yambo chevortica confusamente senza alcuna possibilità di agganciarsi or-dinatamente all’autocoscienza storica e presente dell’Io in cuitutto questo accade.

    Come si vede, è la stessa situazione del protagonista agiustificare i numerosissimi riferimenti. Eco sa bene che molto,se non tutto, è stato già detto e scritto, per cui lo scrittore devegiocare a carte scoperte, se non vuole fare la figura di chi crede

    di dire cose nuove e non si accorge di ripetere (possibilmente

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    male) cose già dette in passato (possibilmente meglio) . E allo12 -ra, se abbiamo un personaggio smemorato che vive tra Milano eil Monferrato, è obbligatorio come minimo fare un riferimentoal caso famoso dello “Smemorato di Collegno”, che tra l’altroha ispirato un dramma di Pirandello (Come tu mi vuoi), un omo-nimo film con Totò e un libro di Sciascia ( Il teatro della memo-

    ria). E se il personaggio riacquista la memoria ma precipita inun coma cosciente, è normale che la sua memoria culturale di

     bibliofilo e di uomo colto ripeschi almeno il cogito ergo sum diCartesio, l’esse est percipi di Berkeley e i “cervelli nella vasca”di Putnam.

     Il cimitero di Praga, il sesto romanzo di Eco (forsel’ultimo, se si deve credere a qualche battuta dello stesso autorefatta nel corso di interviste e presentazioni promozionali), uscitoil 29 ottobre del 2010, è addirittura una sorta di eco ironica enon del tutto volontaria dello  Zeitgeist. Questa storia ottocente-

    sca volutamente ad effetto, che addirittura simula i romanzid’appendice ed è un trionfo soprattutto di stereotipi anticlericalie antisemiti e paranoie complottiste, è apparsa infatti nell’epocain cui, in Italia e nel mondo, sulla stampa si discuteva a non fini-re della costruzione ad hoc di dossier  diffamanti nei confronti di

     politici e di giornalisti da parte di altri giornalisti e di uomini dei

    Quest’idea, portata alle estreme conseguenze, informa di sé la personalità12

    stessa di Belbo, come è più volte ribadito nel  Pendolo: «dal momento cheaveva scoperto di non poter essere un protagonista aveva deciso di essere uno

    spettatore intelligente – inutile scrivere se non c’è una seria motivazione,meglio riscrivere i libri degli altri» (P 27. Cfr. anche P 33, 52 e 397).

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    servizi segreti deviati e magari al soldo di altri politici, di preticattolici pedofili, di fantomatiche armi di distruzione di massa

     possedute o in procinto di essere possedute da stati cosiddetti“canaglia” (e quasi sempre islamici) in odore di attacco preven-tivo da parte delle potenze occidentali, nonché dei documentiriservati e imbarazzanti resi pubblici dal sito internet WikiLeaks

    del giornalista e programmatore australiano Julian Assange.Anche Il cimitero di Praga, sebbene, come vedremo, rie-

    sumi temi cari a Eco da decenni, è legato alla produzione saggi-stica coeva, come Eco 2007a e Eco 2008. Quest’ultimo è unsaggio presentato da Eco il 15 maggio 2008 nell’ambito del ci-clo di conferenze “Elogio della politica” curato da Ivano Dionigi

     presso l’Università di Bologna ed è dedicato alle procedure di-scorsive e semiotiche della “costruzione del nemico” dall’anti-chità ad oggi (diciamo dal Catilina tratteggiato da Cicerone al-l’immagine dell’ebreo costruita dai totalitarismi novecenteschi).

    Esso, peraltro, attinge per le sue fonti testuali da Eco 2007a, e in particolare dai capitoli VI.1 (per la misoginia), VII.2 (per la de-monizzazione del nemico), VIII.1 (per le streghe) e IX.2 (per lafisiognomica dell’altro da demonizzare, e soprattuttodell’ebreo). E il romanzo, da parte sua, attinge da entrambi, sic-ché un’occhiata a questi ultimi consente di scoprire molte dellefonti bibliografiche precise che in esso sono usate in manieralibera e creativa. Per fare degli esempi, dalle parti citate di Eco2007a e soprattutto da Eco 2008 derivano molti dei passi chetratteggiano lo stereotipo razzista dell’ebreo, l’esilarante capo-

    verso di C 12 sulla peculiare sovrapproduzione di feci da parte

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    dei tedeschi, nonché la tirata del capo dell’Okhrana Rachkovskijdavanti a Simonini sulla necessità di avere un nemico per ce-mentare l’identità di un popolo (cfr. C 399-400). In Eco 2008,inoltre, troviamo un riferimento esplicito a quel Santo Simoninodi Trento che per volere del nonno Giovan Battista Simonini èall’origine del nome del protagonista Simone Simonini (cfr. C

    73). Ma c’è un esempio particolarmente significativo che ricol-lega  Il cimitero di Praga  a  Il nome della rosa  attraverso Eco2008, a conferma – diciamo così – epifanica della tesi della cen-tralità del primo romanzo che qui verrà presupposta. In C 91-92,turbato dalle illustrazioni erotiche dei cochons  prestatigli da unamico, il giovane Simonini ripensa a un passo cattivissimo sulledonne (una sorta di anticipazione concettuale di  Memento  di13

    Iginio Ugo Tarchetti) che padre Pertuso gli aveva fatto impararea memoria, ma egli non ricorda “quale scrittore di cose sacre” nesia l’autore. Ebbene, il passo (con qualche piccolo taglio) si tro-

    va riportato in Eco 2008 e qui se ne indica l’autore: Oddone diCluny, vissuto nel X secolo. Ma lo stesso passo, in una versioneitaliana leggermente diversa e naturalmente senza indicazionedella fonte, era già stato messo in bocca a Ubertino da Casale, ilquale cercava così di dimostrare ad Adso che la ragazza da lui

    «La bellezza del corpo è tutta nella pelle. In effetti se gli uomini vedessero13

    ciò che sta sotto la pelle, la sola vista delle donne gli riuscirebbe nauseabon-da: questa grazia femminile non è che suburra, sangue, umore, fiele. Conside-rate quello che si nasconde nelle narici, nella gola, nel ventre… E noi chenon osiamo toccare anche solo con la punta delle dita il vomito o il letame,

    come possiamo dunque desiderare di stringere nelle nostre braccia un saccodi escrementi?».

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    amata, appena arrestata per stregoneria da Bernardo Gui insiemea Salvatore, è bella e desiderabile proprio perché è una strega(cfr. R 334).

    Dal punto di vista dei temi e della costruzione narrativa, Il cimitero di Praga  presenta inoltre delle importanti analogiesoprattutto con  Il pendolo di Foucault , e per certi versi anche

    con L’isola del giorno prima, con Baudolino e con La misterio- sa fiamma della regina Loana.

    Quest’ultimo romanzo, in particolare, è richiamato contutta evidenza sia per l’utilizzo delle illustrazioni (entrambisono, ciascuno a suo modo, romanzi illustrati, in cui immagini

     pescate altrove vengono citate e magistralmente ricontestualiz-zate, al punto da apparire come create ad hoc per la nuova col-locazione) sia per la riproposizione del motivo della perdita del-la memoria da parte del protagonista, il cui cammino di recuperodei ricordi attraverso lo scavo nel proprio passato diventa poi il

    romanzo stesso. Salvo che, mentre Yambo perdeva solo la me-moria autobiografica, ma non quella semantica, per cui i suoiricordi si riducevano a quelli dell’enciclopedia collettiva, Simo-nini subisce anche uno sdoppiamento di personalità e lui e il suodoppio perdono la memoria in modo diverso, perché il primoignora sia i propri ricordi che quelli dell’altro, mentre il secondoignora i propri ricordi ma ricorda ciò che l’altro ha dimenticato(cfr. C102).

    La chiusa metanarrativa del capitolo 18 («Certo che ildocumento che il vostro Narratore sta sbirciando è pieno di sor-

     prese, e varrebbe forse la pena di trarne un giorno un romanzo»,

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    C 318; ma cfr. anche C 10) mi pare rimandi direttamente alleultime righe sia dell’ Isola  (cfr. I 473) che di  Baudolino  (cfr. B526). Sono tre riflessioni teoriche sul rapporto tra il disordinesostanziale della realtà e l’ordine formale della narrazione, non-ché sul gioco verità/menzogna intrinseco alla costruzione delromanzo, accomunate da una certa somiglianza di famiglia. An-

    cora una volta, da questo punto di vista i romanzi di Eco riflet-tono le tappe della ricerca filosofica dell’Eco semiologo del ro-manzesco. Naturalmente anche nel Nome della rosa, nel Pendo-lo  e in  Loana è possibile rintracciare precise e ulteriori conce-zioni della costruzione narrativa, che tuttavia, almeno  prima fa-cie e a prescindere dall’espediente del manoscritto ritrovato, misembrano apparentate meno direttamente con quella un po’ piùomogenea che emerge dai passi citati prima. Come Simonini,mutatis mutandis, anche Roberto de la Grive scrive la propriastoria e introduce il doppio, mentre sopra entrambi sta un Narra-

    tore che raccoglie e ordina il tutto; e come Simonini, ancheBaudolino è un bugiardone e falsario che scrive la lettera di Pre-te Gianni a Federico Barbarossa, finge di trovare il “Gradale” egioca al gioco menzognero della narrazione con Niceta Coniate,finché interviene il Narratore, “più bugiardo di Baudolino”, eracconta la storia.

    Ma è col Pendolo che il Cimitero ha un rapporto davverostretto, e a più livelli. Si potrebbe dire che l’ultimo romanzo diEco sia nato da una costola, o da diverse costole, di quello del1988, per una serie di motivi.

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    a) La fallace teoria sociale della cospirazione. Come sivede dall’epigrafe del capitolo 118 del Pendolo (e come si vedràmeglio nell’Appendice 1 di questo volume), Eco ha desunto lostrumento teorico per criticare in maniera devastante tutte le teo-rie del complotto da un passo del quarto capitolo di Congetture econfutazioni di Karl Popper, che egli citerà in seguito in modo

     più esteso molte altre volte in altri saggi e articoli. Ora, in quel14capitolo, Casaubon svolge alcune considerazioni teoriche sulleragioni che spingono le persone a credere nei Piani e nei Com-

     plotti (la credulità innata, la frustrazione, la mania di protagoni-smo, ecc.) che sono alla base anche del Cimitero.

     b) Elogio del feuilleton. Si potrebbe dire che da un certo punto di vista il Cimitero sia il romanzo d’appendice che Belbo

    Cfr. Popper 1963: 212-213, dove si osserva che “la teoria sociale della co14 -spirazione” deriva da Omero e dal teismo antico (per esempio quello dell’ An-

    tico Testamento), laddove questi spiegano gli accadimenti del mondo con icomplotti o i voleri di una o più divinità. Morti gli dèi cospiratori, gli uomini,la cui propensione ad attribuire intenzioni ad agenti esterni è innata, li hannosuccessivamente rimpiazzati con altri uomini, come i gruppi di potere o di

     pressione, per continuare a spiegare in termini cospirativi soprattutto i fattisociali. La cosa interessante, osserva Popper, è che «soltanto quando i teoriz-zatori della cospirazione giungono al potere, essa assume il carattere di unateoria descrivente eventi reali (…). Per esempio, quando Hitler conquistò il

     potere, credendo nel mito della cospirazione dei Vecchi Saggi di Sion, eglicercò di non essere da meno con la propria contro-cospirazione. Ma il fattointeressante è che una tale cospirazione, mai – o “quasi mai” – si realizzanella maniera prestabilita». Si noti come proprio in questo contesto ricorral’esempio dei Protocolli tanto caro a Eco, il quale tra il Pendolo e il Cimitero 

    vi è tornato più volte anche nella produzione saggistica: cfr. Eco 1994:164-172, Eco 2002: 310-314, Eco 2005: V-VI.

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    sognava di scrivere e che avrebbe scritto se non fosse morto ap- peso al Pendolo (molti suoi  file  sono abbozzi postmoderni ecombinatori di romanzi d’appendice). Ma siccome Belbo è undoppio di Eco (condividono buona parte dell’infanzia ), questi,15

    da grande appassionato del romanzo ottocentesco, ha deciso difare questo regalo al suo Belbo, scrivendo al posto suo un ro-

    manzo in forma di summa metalinguistica del feuilleton. E infat-ti, il dispositivo narratologico che sta alla base del Cimitero

     Praga, per cui l’Autore immagina un visitatore invisibile cheentra nella stanza di un individuo anziano e sbircia sopra le suespalle mentre questi sta scrivendo la storia che stiamo per legge-re e che il Narratore, ormai tutt’uno col visitatore, metterà viavia in forma di romanzo a beneficio del Lettore, anch’egli visita-tore curioso e intrusivo (cfr. C 10), è prefigurato in uno dei  file 

     più deliranti di Belbo, “Lo strano gabinetto del Dottor Dee”. QuiBelbo, tra le infinite altre cose, immagina di essere il medium e

    alchimista del XVI secolo Edward Kelley, di scrivere insieme aBacone le opere di Shakespeare, di finire in carcere nella Torredi Londra (dove è noto ai carcerieri come Jim della Canapa) perle trame del Verulamio e di avere come compagno di cella l’extemplare portoghese Soapes (maschera anagrammatica di Pes-soa, altro maestro di maschere onomastiche). Alla fine del lungo

     file, Kelley-Jim sbircia sopra le spalle di Soapes e vede che que-sti sta scrivendo una cosa per lui incomprensibile (ma si trattanientemeno che dell’incipit  del Finnegans Wake di Joyce). Soa-

     Come giustamente si sottolinea in Cotroneo 2001: 52-54.15

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     pes, “maschera di una maschera” (e maschera anche di Eco, ol-tre che di Pessoa), nasconde il foglio, guarda l’intruso pallidocome uno spettro, legge nei suoi occhi la morte e gli dice: «Ri-

     posa. Non temere. Scriverò io per te» (P. 330).Per fare questa operazione, però, ci vuole una precisa

    estetica filosofica sul rapporto tra arte e realtà, e tale teoria è ab-

     bozzata dallo stesso Belbo all’inizio del capitolo 97 del Pendo-lo:

    Avevo rivisto Belbo il mattino dopo. “Ieri abbiamo scritto una bella pagina difeuilleton,” gli avevo detto. “Ma forse, se vogliamo fare un Piano attendibile,dovremmo rimanere più aderenti alla realtà.”“Quale realtà?” mi aveva chiesto. “Forse è solo il feuilleton che ci dà la veramisura della realtà. Ci hanno ingannato.”“Chi?”“Ci hanno fatto credere che da una parte c’è la grande arte, quella che rappre-senta personaggi tipici in circostanze tipiche, e dall’altra il romanzo d’appe-ndice, che racconta di personaggi atipici in circostanze atipiche. Pensavo cheun vero dandy non avrebbe mai fatto all’amore con Scarlett O’Hara e neppu-re con Costanza Bonacieux, o con la Perla di Labuan. Io col feuilleton gioca-vo, per passeggiare un poco fuori della vita. Mi rassicurava, perché propone-va l’irraggiungibile. Invece no.”“No?”“No. Aveva ragione Proust: la vita è rappresentata meglio dalla cattiva musi-ca che non da una Missa Solemnis. L’arte ci prende in giro e ci rassicura, cifa vedere il mondo come gli artisti vorrebbero che fosse. Il feuilleton finge discherzare, ma poi il mondo ce lo fa vedere così com’è, o almeno così comesarà. Le donne sono più simili a Milady che a Lucia Mondella, Fu Manchu è

     più vero di Nathan il Saggio, e la Storia è più simile a quella raccontata daSue che a quella progettata da Hegel. Shakespeare, Melville, Balzac e Do-stoevskij hanno fatto del feuilleton. Quello che è successo davvero è quelloche avevano raccontato in anticipo i romanzi d’appendice.” (P 389)

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    Questo luogo del  Pendolo è non a caso citato da Eco all’iniziodella sua sesta passeggiata nei boschi narrativi (cfr. Eco 1994:146) per dire che l’amara osservazione di Belbo, fatta appuntoda un “personaggio deluso” e destinato a una fine tragica, sem-

     bra una critica a quanto sostenuto in passato da lui stesso, il qua-le in Opera aperta scriveva (in nota): «È naturale che la vita, di

    fatto, sia più simile allo Ulysses  che a  I tre moschettieri»; masubito dopo aggiungeva: «tuttavia chiunque tra noi è più dispo-sto a pensare la vita in termini de I tre moschettieri che di Ulys-

     ses: o meglio, può rimemorare la vita e giudicarla solo se la ri- pensa come romanzo ben fatto» (Eco 1962: 204). Belbo, quindi,radicalizza una tesi già implicita nel giovane Eco teorico dellaletteratura, il quale oscillava tra l’idea che le opere aperte dellagrande arte simulassero con la loro complessità e ambiguità ilcaos di contraddizioni della vita reale e l’idea complementareche le opere popolari, essendo intrinsecamente consolatorie,

    semplici e prive di ambiguità, assecondassero invece la propen-sione umana a leggere il mondo della vita proprio e altrui comese fosse un romanzo d’appendice. E infatti la sesta e ultima le-zione-passeggiata (incentrata, è bene sottolinearlo, sulla vicendadella costruzione dei Protocolli) si conclude proprio con un ulte-riore approfondimento del passo citato di Eco 1962 nella dire-zione della posizione estremista di Belbo: «non rinunceremo aleggere opere di finzione, perché nei casi migliori è in esse checerchiamo una formula che dia senso alla nostra vita. In fondonoi cerchiamo, nel corso della nostra esistenza, una storia origi-

    naria, che ci dica perché siamo nati e abbiamo vissuto» (Eco

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    1994: 173). Significativamente, poi, una delle epigrafi del citatocapitolo del  Pendolo  è tratta dal Giuseppe Balsamo di Dumas,cui è dedicato un grande spazio nel Cimitero (cfr. in particolareC 92-96). Da questo punto di vista, il Cimitero segna il culmineriepilogativo di tutto il mondo narrativo di Eco e della sua con-cezione generale della funzione della letteratura .16

    c) La storia dei Protocolli dei Savi anziani di Sion. Tut-to il Cimitero converge verso la vicenda della redazione dei Pro-tocolli, cui già nel Pendolo era dedicato un ampio spazio (capp.92-96), anche se lì essa era inserita nel più ampio piano millena-rio dei Templari. In ogni caso, il modo stesso in cui i  Protocolli entrano nel  Pendolo dimostra che questo romanzo è lo sfondodel Cimitero, che maliziosamente si presenta nelle false vesti diuna riedizione del primo per lettori meno esigenti e più superfi-ciali, del tipo di quelli che si lasciano affascinare e trascinare daifacili polpettoni alla Dan Brown (ma si tratta di un inganno, per-

    ché il Cimitero  è un abile gioco di  sprezzatura  che nascondel’abisso dell’Enciclopedia totale su cui si regge). Ed è ancorauna volta l’astuto, scettico e disperato Belbo, il personaggio au-tobiografico per eccellenza di Eco, l’Autore occulto dei due ro-manzi, perché il Cimitero, nello stile dei frammenti romanzeschidi Belbo (e in ultima analisi come i Protocolli medesimi, assem-

     blati attraverso il riutilizzo e l’adattamento di materiale prece-dente), è un collage costruito con pezzi pescati dalla letteratura,

    Mirabilmente sintetizzata in Eco 2002: 7-22, che si conclude così: «Credo16

    che questa educazione al Fato e alla morte sia una delle funzioni principalidella letteratura. Forse ce ne sono altre, ma non mi vengono in mente».

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    dalla memorialistica e da documenti vari dell’Ottocento, daDumas a Sue, da Abba a Garibaldi, da Joly a Goedsche, da Taxila Huysmans, fino agli stessi  Protocolli  (per citare solo alcunedelle innumerevoli fonti di Eco).

    Con il peculiare avvitamento temporale del suo intreccio, poi, il Cimitero  è costruito quasi come il  Pendolo  (e in parte

    come l’ Isola,  Baudolino  e  Loana), salvo che in quest’ultimol’evento narrativo cruciale segue di poche ore il momento da cui

     parte la narrazione, perché Casaubon inizia dalle quattro del pomeriggio del 23 giugno 1984 per arrivare alla notte del 26(momento della rievocazione generale), mentre l’evento clou, iltragicomico raduno iniziatico del sedicente Tres attorno a unPendolo nel Conservatoire di Parigi, accade intorno alla mezza-notte del 23 e per il resto il romanzo narra gli avvenimenti acca-duti negli anni precedenti che costituiscono l’antefatto generale.

     Nel Cimitero, invece, Simonini inizia a rievocare il passato il 24

    marzo 1897 e interrompe il diario degli eventi di cui è stato arte-fice il 20 dicembre dell’anno dopo, mentre l’evento clou, lamessa nera cui assiste come abate Dalla Piccola, era accaduto il21 marzo 1897, anche se il suo recupero da parte della coscienzadel protagonista smemorato e dalla personalità scissa avviene lanotte tra il 17 e il 18 aprile 1897 (e quindi, anche narrativamente

     per il lettore, e non solo psicologicamente per il protagonista, ècome se accadesse allora, per cui ricadiamo nello schema del

     Pendolo). Inoltre, sarebbe possibile istituire un parallelismo trale coppie Casaubon-Belbo da un lato e Simonini-Dalla Piccola

    dall’altro, perché entrambe le coppie costituiscono un tandem

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    narrativo in qualche modo dialettico e dialogico, e ciascuna sto-ria prende corpo dall’incrocio e dalla sovrapposizione dei lorotesti.

    A proposito dei piani temporali del romanzo, c’è un pun-to che non mi torna e in cui, se non ci sono delle cose che misfuggono e che quindi mi impediscono di sbrogliare il nodo, for-

    se Eco è stato impreciso. Nel secondo capitolo, a pagina 35, Si-monini, già smemorato, riporta la seguente lista di impegni stila-ta prima della perdita della memoria (avvenuta il 22 marzo perSimonini-Dalla Piccola e il 23 marzo per Simonini-Simonini):

    21 marzo, messa 22 marzo, Taxil  23 marzo, Guillot per testamento Bonnefoy 24 marzo, da Drumont? 

    In questa fase, il lettore (perché ignaro dei fatti), al pari

    di Simonini (perché smemorato), non può capire di cosa si tratti,fatta eccezione per il terzo punto, perché dell’incontro con Guil-lot si era parlato a pagina 23. Nel corso del romanzo, poi, si ca-

     pirà cosa vogliano dire il primo e il quarto punto. Ma è il secon-do che pone dei problemi, perché il Simonini ancora sano dimente non poteva fissare un appuntamento con Taxil per il 22marzo, dato che, come si dice chiaramente nel capitolo 24 (cfr.C 450), egli, nei panni di Dalla Piccola, il 19 o 20 marzo avevadetto a Taxil di non farsi più vedere fino al 19 aprile. Non solo,ma in quanto Simonini egli in quel periodo non aveva alcun

    rapporto con Taxil e quest’ultimo non sapeva nemmeno chi fos-

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    se, perché ha sempre avuto a che fare con Dalla Piccola (cfr. C472). Dunque, se non mi è sfuggito qualcosa che potrebbe farechiarezza lasciando le cose come stanno, il secondo punto dellalista degli appuntamenti di Simonini è incongruente e, se si trat-ta di un errore di Eco, credo di poter fare un’ipotesi per spiegar-ne la genesi. In effetti, nel romanzo il nesso tra la messa e

    l’incontro con Taxil subito dopo c’è, ma non riguarda l’accaderedi quest’ultimo il giorno dopo la messa. La messa avviene effet-tivamente la sera del 21 marzo, ma Simonini, nelle vesti di DallaPiccola, che il giorno dopo la messa aveva perso la memoria, laricorda all’alba del 18 aprile (cfr. C 465). Ed è la mattina del 18aprile che Simonini, ormai guarito e sicuro di essere lui stessoDalla Piccola, veste di nuovo i panni dell’abate e va a trovareTaxil per giustificare con delle menzogne l’assenza di circa unmese e per mettersi d’accordo con lui per la sceneggiata delgiorno dopo sul caso Diana Vaughan (cfr. C 471, dove tra l’altro

    si ribadisce che Taxil aveva cercato invano per quasi un meseDalla Piccola nella casa di Auteuil, dove soleva recarsi comun-que per amoreggiare con Diana). Dunque, il nesso messa-Taxilavviene nel romanzo nello spazio di poche pagine tra la fine delcapitolo 23 e l’inizio del capitolo 24, ma tra la messa e l’inco-ntro con Taxil passa quasi un mese, dal 21 marzo al 18 aprile, eSimonini non può aver fissato un appuntamento con Taxil per il22 marzo, visto che, come detto, lo aveva congedato il 19 o il 20marzo dandogli appuntamento per il 19 aprile.

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    III

    Una fetta consistente delle riflessioni di Eco sulle strate-gie testuali della narrazione è dedicata alla distinzione tra Letto-re Empirico e Lettore modello (cui fa da  pendant quella tra Au-tore Empirico e Autore Modello). Al lettore dei romanzi Eco ha

    infatti dedicato uno dei suoi saggi teorici più noti e influenti: Lector in fabula, uscito nel 1979, guarda caso un anno prima del  Nome della rosa. E proprio nelle importantissime  Postille a “Ilnome della rosa” del 1983 Eco riprende le idee di Eco 1979 sulLettore Modello in un paragrafo che si intitola proprio “Costrui-re il lettore”. In sostanza, egli sostiene che ogni testo letterariovuole, persegue, postula, incoraggia un Lettore Modello, la cuiattiva cooperazione interpretativa è essenziale per cogliere edesplicitare le intenzioni implicite del testo. In tal senso il LettoreModello (Joyce, ad esempio, diceva di scrivere per un lettore

    affetto da un’ideale insonnia) è una sorta di ideale regolativo cuii vari lettori empirici tendono per successive approssimazioni.

     Naturalmente, la distanza tra Lettore Empirico e Lettore Model-lo è proporzionale al grado di complessità e di valore estetico diun testo, per cui, se i lettori empirici dei romanzi Harmony han-no da faticare poco per raggiungere il modello di lettura ad essirichiesto, tutt’altra faccenda è per il  Finnegan’s Wake, l’ Horcy-nus Orca e  Il Pendolo di Foucault . L’Autore Empirico lavora altesto creando contemporaneamente un modello di scrittura (Au-tore Modello) e un modello di lettura (Lettore Modello): una

    volta che il testo è lì, pubblicato ed esposto alla fruizione, la let-

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    tura diventa un gioco a tre (almeno) fra il Lettore Empirico,l’intentio operis e il Lettore Modello, in cui il Lettore Empiricotanto più si avvicina al Lettore Modello quanto più adeguata-mente compie le mosse interpretative richieste dal testo.

    Ecco alcune parole di Eco, tratte dalle Postille: «Si scrive pensando a un lettore (…). C’è un autore che scriva per pochi

    lettori? Sì, se con questo si intende che il Lettore Modello cheegli si configura, nelle sue previsioni, ha poche possibilità diessere impersonato dai più. Ma anche in questo caso lo scrittorescrive con la speranza, neppure troppo segreta, che proprio ilsuo libro crei, e in gran numero, molti nuovi rappresentanti diquesto lettore voluto e perseguito con tanta acribia artigiana, po-stulato, incoraggiato dal suo testo (…). Che lettore modello vo-levo, mentre scrivevo? Un complice, certo, che stesse al miogioco (…). Ma al tempo stesso volevo, con tutte le mie forze,che si disegnasse una figura di lettore il quale, superata l’inizi-

    azione, diventasse mia preda, ovvero preda del testo e pensassedi non voler altro che ciò che il testo gli offriva. Un testo vuoleessere una esperienza di trasformazione per il propriolettore» (in R 521, 522 e 523).

    Cosa si può ricavare da ciò? Almeno questo, credo: leg-gere non è obbligatorio, non c’è alcun autore che debba essereletto  per forza (nel famoso Decalogo di Pennac contenuto inCome un romanzo, quello di non  leggere è il primo dei “dirittiimprescrittibili del lettore”); ma se si decide di leggere, bisognasapere che ci si sta imbarcando in una avventura non necessa-

    riamente agevole, né necessariamente piacevole (in un certo

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    senso), perché il piacere della lettura si accompagna sempre alrischio di un incontro/scontro che può cambiare la vita, di una

     prova, cioè, che esige penitenze varie prima di schiudere gliorizzonti di senso che un libro può celare in sé. Dice ancora Eco(che si riferisce alle prime cento pagine del  Nome della rosa):«Cosa vuol dire pensare a un lettore capace di superare lo sco-

    glio penitenziale delle prime cento pagine? Significa esattamen-te scrivere cento pagine allo scopo di costruire un lettore adatto

     per quelle che seguiranno» (R 522).Certo, un Lettore Empirico non troppo smaliziato avrà

    molte difficoltà a godere la pura fabula (mai banale, anzi semprecalcolatamente avvincente) dei romanzi di Eco, ma se l’attrave-rsamento della selva oscura dei riferimenti più o meno colti glisi rivela troppo faticosa, egli ha tutto il diritto di chiudere il libroe andare a fare altro: nessun medico prescriverà mai la lettura diEco per curare il male di vivere. Ma attenzione: molte delle cita-

    zioni di Eco non sono certo per Superuomini, ma per lettori do-tati di una decente cultura “media”. Esigere da tutti gli scrittoridi essere alla portata di una parrucchiera o di un carrozziere (contutto il rispetto per queste preziose professioni) significa esserevittima di una grottesca concezione demagogica della cultura.

    Prendiamo per esempio l’inizio del primo  file  letto daCasaubon nel terzo capitolo del Pendolo:

    O che bella mattina di fine novembre, in principio era il verbo, cantami odiva del pelide Achille le donne i cavalier l’arme gli amori. Punto e va a capoda solo. Prova prova prova parakalò parakalò, con il programma giusto fai

    anche gli anagrammi (…). Oh gioia, oh vertigine della differanza, oh mio

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    lettore/scrittore ideale affetto da un’ideale insomnia, oh veglia di finnegan, ohanimale grazioso e benigno. Non aiuta te a pensare, ma aiuta te a pensare perlui. Una macchina totalmente spirituale… (P 27 e 28)

    Come è evidente, qui Belbo, un personaggio colto preso da “en-tusiasmo quasi infantile” (P 27) per i primi programmi di video-scrittura al computer, si lancia in una serie folle di citazioni trat-

    te da Eco stesso (che a sua volta, nei due incipit  del Nome dellarosa, citava il vangelo di Giovanni e scimmiottava Snoopy el’attacco del quarto capitolo del Frankenstein di Mary Shelley),da Omero, da Ariosto, da Derrida, da Joyce e da Dante. Natu-ralmente, non è necessario che tutti i lettori individuino tutte lecitazioni per capire il senso del passo, e molte di esse sono alla

     portata di un liceale passabilmente sveglio.Oppure prendiamo il seguente passo tratto da Loana:

    “Scriva quello che le viene in mente”, ha detto Gratarolo. Mente? Ho scritto:amor che nella mente mi ragiona, l’amor che muove il sole e l’altre stelle,meglio sole che male accompagnate, spesso il male di vivere ho incontrato,ahi vita ahi vita mia ahi core di questo core, al cuore non si comanda, DeAmicis, dagli amici mi guardi Iddio, o Dio del ciel se fossi una rondinella, s’ifossi foco arderei ’l mondo, vivere ardendo e non sentire il male, male nonfare paura non avere, la paura fa novanta ottanta settanta milleottocentoses-santa, la spedizione dei Mille, mille e non più mille, le meraviglie del Duemi-la, è del poeta il fin la meraviglia. (L 25)

    In questo passo si possono individuare le seguenti citazioni:Dante, primo verso di Convivio  III, 1; Dante, ultimo verso del

     Paradiso; Montale, primo verso della poesia omonima; il ritor-

    nello della canzone Il soldato innamorato; l’attacco di una can-

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    zone degli alpinisti (Gran Dio del cielo); Cecco Angiolieri; ilverso delle  Rime di Gaspara Stampa reso famoso da D’Annun-zio ne Il fuoco, dove è esaltato dal protagonista Stelio Effrena; lafrase fatta che allude alle visioni apocalittiche relative all’annoMille e che è diventata titolo di alcuni libri, ad esempio di Gian-ni Brera e Gennaro Francione; il titolo di un romanzo di Emilio

    Salgari; il celebre verso-manifesto di G. B. Marino.Come si vede, anche qui molte delle citazioni fanno parte

    del normale bagaglio di un lettore mediamente colto ed Eco leinserisce attraverso libere associazioni innescate da termini chesi incatenano (mente, amor, sole, male, vita, cuore, De Amicis,amici, Dio, ecc.) per illustrare lo stato impersonale della mentedello smemorato Yambo. Ciò dimostra che Eco non è unosnob che solletica una esclusiva e ristretta cerchia di affiliati delSommo Sapere. Insomma, si può vivere benissimo senza leggereEco; ma se si decide di leggerlo, allora occorre sapere che si sta

     per giocare una partita difficile, in cui spesso quello che si vinceè la saggia contemplazione, dopo la traversata odissiaca dei ma-rosi dell’Enciclopedia, delle tragedie cui può condurre la credulastupidità umana.

    IV

    Data la natura non strettamente accademica del presentesaggio, si è evitato di appesantire il testo con eccessivi riferi-

    menti alla letteratura critica su Eco, peraltro ormai così vasta da

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    richiedere da sola anni di studi per poter essere percorsa e sinte-tizzata. Quello che segue vuole essere un attraversamento quan-to più possibile leggero e stimolante soprattutto del  Nome dellarosa, inteso come esemplificazione e  summa dello smarrimentonei labirinti dell’Enciclopedia totale, insieme ricettacolo ideale,ideale regolativo e simbolo della conoscenza prodotta dall’uo-

    mo. Il viaggio, privo di approdi consolatori, offrirà anche una particolare prospettiva sub specie rosae sul resto dell’opera nar-rativa di Eco e di volta in volta metterà in luce le diverse moda-lità attraverso cui l’uomo corre il rischio di rimanere vittima del-le sue stesse creazioni simboliche e culturali nel tentativo di de-cifrare il disordine del mondo, riuscendo talvolta a pervenire aforme sensate di conoscenza spinto dalla stessa forza della falsi-tà e dell’errore, cui è strutturalmente votato. In tal modo, Gu-glielmo da Baskerville diventerà una sorta di modello per deci-frare anche Belbo e Casaubon, Roberto de la Grive, Baudolino,

    Yambo Bodoni e Simone Simonini, i quali, sotto l’ipotesi inter- pretativa di una articolata continuità poetico-filosofica, risulte-ranno legati da una rete di somiglianze di famiglia ed appariran-no come emblemi della ricerca conoscitiva e dell’autoinganno.

    Tuttavia, alcune monografie su Eco sono state tenute presenti, e si tratta di lavori esemplificativi, ciascuno a suomodo, degli approcci possibili all’opera vastissima e al pensieromultiforme e complesso di Eco.

    L’agile Cotroneo 2001 è una ricognizione dei quattroromanzi usciti fino a quella data effettuata sulla base dell’assun-

    to che essi costituiscano una maschera attraverso la quale il dif-

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    fidente ed ironico autore ha celato le proprie ossessioni autobio-grafiche, legate all’infanzia, al paesaggio di Alessandria e all’e-sperienza della Resistenza vista con gli occhi di un dodici-tredi-cenne; in tal senso, il testo occasionale e autobiografico Il mira-colo di san Baudolino, risalente al 1981 e poi ristampato in codaa Eco 1992, diventa la chiave interpretativa per accedere alla

    dimensione intimamente autobiografica dei romanzi di Eco.L’ampio Forchetti 2005  ha il pregio di addentrarsi, con

    ricchezza di riferimenti alla letteratura critica e con notevolecompetenza nel campo dei simbolismi più o meno esoterici, neimeandri della complessa trama di simboli che percorre i primicinque romanzi di Eco, individuando «tre territori d’indagine,tre mappe concettuali con le quali sfidare i labirinti narrativi diEco: i luoghi, le assenze e le memorie» (p. 11); il rischio, però, èquello di cadere in uno schema interpretativo troppo rigido e

     preconcetto, perché l’autore ha elaborato la propria chiave inter-

     pretativa filosofico-teologico-simbolica nella tesi di laurea (cherisale al 1999), incentrata sulla poetica del simbolo e dell’inter-testualità nei primi tre romanzi di Eco (cfr. p. 8).

    Lorusso 2008 è invece un illuminante “profilo biografi-co-intellettuale” (p. 9) di Eco che tocca i diversi campi teorici diinteresse dell’autore, dal problema del testo estetico a quellodell’interpretazione e della semiosi, dalla delimitazione delleunità culturali al rapporto tra semiosi e percezione, fino alla suaelaborazione di una vera e propria teoria della cultura; da questostudio, come si legge nella quarta di copertina, «esce un profilo

    intellettuale complesso e sfaccettato, l’evolu