Tutte le cose che ho fatto

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Manuel Polidori, mainstream. Tutte le persone hanno un segreto, un demone che si portano dentro, che corrode l’anima e che modifica il loro modo di agire, di pensare, persino di vestirsi e truccarsi. Tutti abbiamo un segreto. Il mio però è un serpente strisciante, silenzioso, di cui tutto il mondo ha paura. È una malattia orribile, che ti rende prima debole e poi ti lascia freddo nel letto d’ospedale, un mostro contagioso che dilania intere famiglie e a cui non c’è, almeno per ora, una cura. Questa che segue è la storia di un uomo e di un mostro. La mia, la storia di Davide Neda.

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In uscita il 30/1/2015 (15,00 euro)

Versione ebook in uscita tra fine gennaio 2015 e inizio febbraio

2015 (5,99 euro)

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MANUEL POLIDORI

TUTTE LE COSE CHE HO FATTO

La storia di Davide Neda   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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TUTTE LE COSE CHE HO FATTO Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-854-1 Copertina: illustrazione Shutterstock.com

Prima edizione Gennaio 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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Dedicato a coloro che si sentono fuori luogo in questo mondo, A chi ha paura di essere dimenticato e

A quelli che vivono cercando qualcuno che li ascolti senza essere giudicati.

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PROLOGO Tutte le persone hanno un segreto, un demone che si portano dietro, che gli corrode l’anima e che modifica il loro modo di agire, di pensare, persino di vestirsi e truccarsi. Tutti abbiamo un segreto. Il mio però è un serpente strisciante, silenzioso, di cui tutto il mondo ha paura. È una malattia orribile, che ti rende prima debole e poi ti lascia freddo nel let-to d’ospedale, un mostro contagioso che dilania intere famiglie e a cui non c’è, almeno per ora, una cura. Tutti, amici miei, abbiamo un segre-to. Anche quelle persone che ridono, che hanno una bella famiglia, che sembrano poter avere tutto nella vita ne hanno uno. Forse nessuno porta con sé il macigno della morte, che sembra essere un soldato che ti punta il fucile contro e ti obbliga a contare fino a dieci. Prova a immaginare. Nei primi secondi la guardi, contando ad alta voce, la stai sfidando, dici alla morte che non hai paura di lei, che “accetti” il tuo destino, il tuo segreto, la tua malattia, e che sei convinto che nell’aldilà ci sia un posto bello anche per te. Poi arrivi ai numeri centrali, la fronte suda, le gambe tremano, i polmoni prendono aria, l’ultima aria probabilmente. Continui a guardare la morte, che sta facendo il suo lavoro e deve portarti via di lì a poco. I numeri si susseguono e più ti avvicini al dieci più la paura cresce dentro di te. Urli silenziosamente a Dio di salvarti, prometti cose belle e buone, prometti atti puri, ma non c’è più tempo per le promesse e per i buoni propositi: Dio non è là e non ti sta ascoltando. Solo la morte ti ascolta e lo sta facendo ridendo. Quando arrivi a dieci, hai già gli occhi chiusi, i denti stretti in una morsa feroce, quasi volessi rin-ghiare alla morte, per spaventarla, come un ultimo inutile sforzo. Arrivi a dieci e vedi il nero. Se il tuo segreto, la tua vita e le tue azioni sono state buone e hanno fatto meno male possibile, forse quel Dio riserverà per te un posto in paradiso e sulla terra verrai ricordato come una brava

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persona. Una persona da prendere come esempio dai piccoli della tua famiglia. Ma quello che sto per raccontarti non è né bello né buono. Anzi, è schifoso, è orribile, è un segreto che nessuno dovrà conoscere, una malattia che nessuno deve scoprire, perché se nessuno sa, allora quella malattia per me non esiste, non è reale, e io sono convinto di es-sere sano, come tutti, come gli altri. Ma il mio corpo non è affatto sano. Il mio corpo, caro lettore, è un vaso pieno di liquido nero che ucciderà la gente. Il suo nome è HIV. Devo essere fermato a tutti i costi e, per fare questo, tutto deve rimanere nascosto nell’ombra del mio bel faccino. Questa che segue è la storia di un uomo e di un mostro. La mia, la sto-ria di Davide Neda.

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TUTTE LE COSE CHE HO FATTO Sono nato in un piccolo paese di montagna nel centro Italia, negli anni ottanta - precisamente nell’86 - quando la crisi era appena percepibile, dove si pensava che tutto fosse sotto controllo. Il mondo avanzava tec-nologicamente, dai cellulari di nuova generazione ai computer portatili, ma non nel mio paese che, a ridosso di una grande montagna, vantava di una vista spettacolare di campi verdi e foreste, di tante belle cose, ma non della modernità. Era un posto abitato da circa seicento persone, for-se un quarto di più in estate - per le case vacanza - ma di certo non era un posto dove girava molta gente. Le persone si conoscevano tra loro, le voci giravano come farfalle silenziose che, appoggiandosi ai piani delle finestre, lasciavano solo un sorriso ebete sulla faccia dei chiac-chieroni. Perché a tutti piacciono le notizie che corrono, le voci sul pre-te che forse non è poi tanto prete, sul macellaio che tradisce la moglie, sulla suocera del maestro di musica che è morta d’infarto e che tutti piangeranno al suo funerale solo per parlarne ancora di più, o sparlarne, in base ai punti di vista. Io ero tra quei seicento. Bello come il sole, dai ricci capelli oro e occhi cielo, alto e slanciato, bravo a scuola e attaccatissimo alla mia famiglia. Nella mia famiglia, oltre a mia madre Ida, mio padre Antonio e mio fra-tello maggiore di due anni Fabrizio, c’era anche la creatura più gentile e sfortunata della terra, mio fratello autistico Tommaso di quindici anni, nato per caso e non per volontà, come una mia vecchia zia raccontava in giro. Era un angelo, Tommaso, un angelo che tutti noi proteggevamo da tutto e da tutti. Sono cresciuto con ideali “sani”, come li chiamava mio nonno paterno portato via da un tumore al colon, dove per “sano” si intende il rispetto per la famiglia, l’amore per la casa e pochi vizi per i soldi. Perché di

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soldi a casa mia non ce n’erano poi molti, anzi, il lavoro da boscaiolo di mio padre e di mio fratello - che lavoravano insieme - non rendeva mol-to alla famiglia, ma bastò per farmi finire gli studi e buttare una laurea d’ingegneria per un concorso da vigile del fuoco dell’Aquila, città ri-dotta in ginocchio da un terribile terremoto di qualche anno prima. Essere vigile del fuoco mi permetteva di aiutare il prossimo, guardare il mondo da una prospettiva diversa. Era un lavoro che mi rendeva fiero di me stesso e rendeva fiera anche la mia famiglia e il mio conto in banca. Era un lavoro che mi permetteva di non pesare su mamma e pa-pà, pur vivendo ancora con loro. Mi piaceva la mia vita, mi piaceva il mio corpo e mi piaceva quel paese, anche se la vita nel paese e la vita lavorativa erano nettamente separate, non solo per distanza, ma anche per mentalità. Nel lavoro ero un duro, non avevo paura di niente, tanto che una volta mi arrampicai su un tetto traballante per salvare il padro-ne della stalla che voleva risistemarlo. Forse per molti non era tanto, ma vincere la paura del vuoto, dell’altezza, del fuoco era bello, mi dava a-drenalina pura. Ero un guerriero in divisa pronto a sacrificarsi per il prossimo. Al paese ero diverso, ero pacato, bevevo vino invece di birra, non vestivo “formale”, e il gel nei capelli e tre spruzzate di Calvin Klein erano il mio forte. Due vite diverse a cui mostravo parti diverse del mio carattere. Marco e Billy, che in realtà si chiamava Simone, erano i miei due mi-gliori amici, nati e cresciuti nello stesso luogo. Elementari, medie e su-periori insieme. Facevamo tutto insieme e molte delle mie “prime vol-te” furono con loro testimoni: prima sigaretta, prima canna, primo vi-aggio in gita scolastica, primi amori e prime sofferenze adolescenziali. Praticamente li ho sempre considerati un’altra famiglia, amici che avrei avuto sempre e comunque vicino, nel bene e nel male. Loro mi spinsero a dichiararmi a Luce, quella che poi divenne la mia fidanzata, prima della tragedia, prima dell’orrore. Luce era del mio stesso anno, come Marco e Billy, ed era nella classe di fronte alla nostra. Era bellissima, capelli lunghi castani, occhi da cerbiatto, viso pulito, seni piccoli e ro-tondi, fianchi sottili. Quando ero piccolo e ingenuo, prima della puber-tà, rimanevo a fissarla per minuti interi, poi lei mi salutava con la mani-na ed entrava con le sue amichette in classe. In adolescenza il suo cuore venne rapito da un ragazzo più grande, di un paese vicino, ma lui si stu-fò presto e lei tornò libera e indifesa.

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«Vai, è la tua occasione» diceva Billy, giocando sull’altalena dei giardinetti. «Sennò te la rubano!» concordava Marco, seduto a gambe incrociate sul muretto lì a fianco. Seguii i loro consigli e il giorno dopo, per non so quale motivo ben pre-ciso, pensai che fosse consono portare una rosa a scuola e consegnar-gliela a ricreazione davanti a tutti. Me lo aveva consigliato mia madre, lei era una romantica e io un cretino a credere che sarebbe stata una co-sa da ricordare. Invece tutti risero, c’era addirittura chi mi indicava. «Un principe azzurro per Luce, che carino» dicevano i ragazzi più grandi, sfottendomi. Lei scappò via e per giorni non tornai a scuola, fingendo di avere mal di stomaco. Ero bravissimo a scuola e se per qualche giorno non ci fossi andato non sarebbe stato un problema per i miei genitori. Poi la voce di questa brutta figura arrivò alle orecchie di mio fratello, che la tirò fuori durante una cena, sputtanando il mio finto malanno e dicendo la reale motivazione per cui evitavo da qualche giorno la scuo-la. Mia madre rise di gusto, pensai di non averla mai vista ridere tanto, e mettendomi le mani nei capelli ingellati mi disse: «Io avrei adorato un ragazzo così!». E ci aveva preso, perché di lì a poco Luce venne a suo-nare alla porta di casa mia, chiedendo di me. Ero nel panico, avevo ap-pena diciassette anni ed ero tonto e innamorato pazzo, e tutto mi aspet-tavo tranne che una sua visita. «In paese ti chiamano il Principe». «Lo so». «È vero che sei un principe?». «Se è una brutta cosa non voglio esserlo». «A me piacciono i principi». «Allora è una cosa che mi piace». Ci baciammo e decidemmo che quel giorno d’autunno era il giorno da ricordare, da festeggiare ogni mese, e poi ogni anno. Tornai a scuola fiero e, anche se tutti mi sfottevano per la rosa chia-mandomi “Il Principe”, ero felice, perché finalmente potevo sfogare tut-te le mie energie con lei, che adesso era mia. E da ingenuo e puro com’ero, pensai che lo sarebbe stata per sempre. Ma niente è per sem-pre. Niente.

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La mia vita si stava strutturando alla perfezione e più crescevo, più ero felice. Avevo due amici per la pelle, Marco e Billy, una ragazza già da tre anni e una famiglia che amavo e che mi amava. Con Luce le cose stavano diventando sempre più serie e più gli anni passavano più im-maginavamo un futuro insieme, magari di sposarci, di avere bambini, una villa, una grande macchina, vacanze al mare, cene di famiglia e, a completare l’opera, una vecchiaia serena. Le aspettative ingannano così tanto gli uomini che non ci accorgiamo com’è realmente il mondo, che molte di quelle cose, in realtà, non erano affatto scritte nel nostro desti-no. Basta un solo atto per distruggere tutto, solo un momento, un’ora, un minuto, una frazione di secondo da cui non puoi più tornare indietro. E tutto si scioglie come sale nell’acqua, scomparendo per sempre dalla tua vista. Lì, però, ero felice e sognatore, ero un bravo studente e frequentare in-gegneria all’università dell’Aquila mi avrebbe dato una possibilità di lavoro in più e un modo ulteriore per aiutare la mia famiglia e i miei fratelli. Passavo notti a studiare come un pazzo, per non rimanere mai indietro. Mi alzavo alle sei del mattino per fare un’ora di macchina e arrivare puntuale a lezione. Avevo energie per studiare, per andare a be-re con Marco e Billy - e qualche altro amico di contorno - e stare con Luce, che intanto dedicava il suo tempo alla pittura e ai corsi d’arte che organizzavano nei paesi limitrofi. Mi sentivo un principe, e chissà, for-se un giorno sarei diventato re e padrone della mia vita, uscendo da ca-sa e andando a vivere con Luce. «Ti piace il mio quadro?». «È bellissimo, Amore. A te piacciono i miei libri sulla costruzione delle dighe?». «No, non è artistica una diga. Sarà sicuramente utile, ma non è artistica». Era immersa nei suoi colori e camera sua era perennemente un disastro. Tubetti di tempere ovunque, tele ammassate sui muri, libri e riviste d’arte impilati sulla scrivania, barattoli di vernice e alcuni vuoti per contenere i pennelli, cavalletti aperti per mettere in mostra i suoi lavori in corso. Era brava a dipingere i paesaggi che il paese offriva, le sue ca-se, il castello medievale che risiedeva in cima, come una guardia a con-trollare tutto. Aveva seguito lezioni di pittori e pittrici piuttosto rinoma-ti, corsi di scultura, di mosaico, di ceramica. Tra tutti quei colori face-vamo l’amore, ci promettevamo l’amore, inventavamo un futuro che non sarebbe mai arrivato.

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Come mi ero prefissato arrivai a completare gli esami in tempo, com-preso l’esame di ingegneria elettronica, grazie a un gruppo di studio e di nuovi colleghi universitari che avevano il mio stesso obiettivo: laure-arsi il prima possibile. In questo gruppo di studio c’era Luca, colui che poi mi parlò del concorso dei vigili del fuoco e che mi fece appassiona-re a quel lavoro. Era un tipo strano, complicato, parlava poco e prende-va voti altissimi, tanto da laurearsi con alcuni punti più di me e la lode. Non sapevo molto di lui, ma quello che sapevo era abbastanza per in-quadrarlo e catalogarlo come una ”geniale e complicata persona”. Luca non era bello, ma era affascinante, moro, barba folta, labbra grosse, oc-chi verdi e fisico atletico. Andava a mille, era iperattivo, ma non era amante della vita. La droga era un suo vizio, che avrebbe condiviso con me solo molto più avanti. A Marco e Billy non piaceva e fu dopo il loro incontro, avvenuto per la mia festa di laurea, che decisi di tenerli lonta-ni. Luca era un ragazzo di città, troppo strano per loro due, troppo am-bizioso, troppo in tutto. Così “troppo in tutto” che un giorno i miei ami-ci mi rivelarono una loro preoccupazione. «Quindi vuoi fare il vigile del fuoco adesso?» domandò Marco, buttan-do giù un sorso di vino rosso e tornando a masticare una costoletta d’agnello fatta al fuoco del camino di casa mia, in un giorno d’estate. «Secondo me è perché “il suo Luca” glielo ha messo in testa» ridacchiò Billy, pulendosi la bocca sporca di grasso con un fazzoletto. «Cosa vorresti dire?» risposi sorpreso. «Stiamo dicendo che forse Luca ti fa cambiare un po’» continuò Billy. «Io sono sempre uguale…». «Nah, non sei uguale per niente. Ti stai modernizzando a forza di anda-re in città». «Marco, anche tu pensi lo stesso?». «Non proprio, però forse lui ha qualche influenza su di te, magari è un bravo ragazzo, oltre che essere strano…» intervenne Marco, finendo il vino e versandosene altro. «Non voglio buttare una laurea, ma dato che non ho un lavoro e il con-corso per i vigili è fra qualche giorno, magari posso provare, no?». «E te ne vai a vivere chissà dove, lontano?». Billy mi guardava sconvolto. «Mio padre conosce il capo della polizia dell’Aquila, non so come, ma faranno in modo che io stia qui vicino».

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Alla fine mi decisi, comprai il giornale, lessi il concorso e mi inscrissi. Forse la costruzione era comunque il mio destino, ma non costava nulla provare. Fare tutto questo con Luca mi permetteva di condividerlo e di fare le cose con più tranquillità. Fu studiando per il concorso che provai la marijuana. Fumammo un po’, non era male, ma alla fine pensai che non mi piacesse poi così tanto. Oramai stavo diventando un tipo a cui piaceva provare, sperimentare, viaggiare con il corpo e con la mente. Ero giovane e la gioventù andava vissuta al cento per cento. Luce non rimase affatto allibita dalla mia scelta di tentare il concorso per i vigili del fuoco, anzi, sembrava che il suo principe potesse diven-tare un eroe e salvare la gente, la cosa la eccitava e la faceva sognare contemporaneamente. Qualche mese dopo uscirono i risultati e io venni convocato al Coman-do Provinciale dei Vigili del Fuoco dell’Aquila e assegnato al Soccorso Pubblico e della Difesa Civile. Ero a tutti gli effetti un eroe per Luce, anche se non avevo salvato nemmeno un gatto da un albero. Alla mia famiglia all’inizio non piacque questa idea, ma quando mia madre Ida mi vide in divisa per la prima volta, pianse dalla felicità. «Figlio mio quanto sei bello!» aveva ripetuto. Poi aveva chiamato zie e parenti del paese e aveva sparso la voce ai quattro venti. Non c’era una persona che non sapesse che il paesino di montagna adesso aveva un cittadino bravo, bello, laureato e vigile del fuoco. Marco e Billy mi re-galarono una macchina fotografica di ultima generazione, che Luce pensava bene di usare molto più di me, essendo lei “l’artista”. Per l’infelicità di Marco e Billy, le strade mie e di Luca non si erano divise come avevano sperato, dato che divenne un vigile anche lui e anche lui venne assegnato al mio stesso dipartimento. Era una piccola casermetta tra il nostro paese e l’Aquila, in una piccola cittadina composta da un grande centro commerciale, un cinema, varie aziende agrarie e dei ri-storanti pregiati e acclamati dai palati più fini. Era un posto che mi permetteva di rimanere a vivere dai miei, essendo solo a mezz’ora di strada, di stare con Luce e di vivermi anche le mie nottate in solitario nei limiti del concesso. Stavo crescendo e quel lavoro rendeva le cose semplici e ancora più belle di prima. Il mio fisico era più forte e allenato, il mio spirito più determinato, anche se a volte Luca mi portava in qualche locale strano, dove c’erano sale da gioco, ingenti nuvole di fumo e cocaina.

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Stare dietro a Luce e alle sue passioni, fare avanti e indietro dal dipar-timento, uscire, stare dietro al mio fratellino più piccolo Tommaso e a-iutare a casa i miei mi succhiava ogni energia e, molto spesso, mi tro-vavo senza forze, tanto da rischiare di addormentarmi al volante un pa-io di volte durante i turni notturni. Ero uno spirito libero e il verbo “spe-rimentare” era uno dei mattoni che formava il mio corpo e il mio carat-tere. Fu dopo un paio di mesi di lavoro, dopo una chiamata urgente per una fuga di gas e svariate ore passate ad allontanare le persone da quel palazzo, messo successivamente in sicurezza, che Luca mi fece provare la cocaina. Eravamo nella sua macchina, dopo esserci cambiati e aver finito il turno di notte, sfiniti dalla stanchezza, con i finestrini abbassati e il mattino che si stava affacciando all’orizzonte. Il giorno dopo ci sa-rebbe stata la cresima di mio fratello Tommaso e non sapevo con quali forze avrei potuto affrontarla. «Vuoi provare una cosa, principe?». «Cosa?». Aprì il cruscotto della macchina e tirò fuori un sacchettino di plastica con della polvere bianca all’interno. «È cocaina quella?». «È zucchero a velo per fare dolci…» si mise a ridere e accese la radio. I Rolling Stones fecero da perfetto sottofondo con Satisfaction. «Certo. Devi provarla, dopo stai una favola, stai a mille». «Non lo so, non è che dopo mi sento male? Domani ho la cresima di mio fratello». «Macché, questa ti dà una carica che non puoi capire. È una polvere magica. Mica devi diventare un tossico come il sottoscritto» si mise a ridere ancora, come se la cosa fosse esilarante. «L’ho presa solo per far-tela provare». Io rimasi in silenzio, alla fine mi venne da ridere, un po’ per nervoso, un po’ per paura e un po’ per l’eccitazione. Provai e mi sentii bene, come se una mano invisibile mi avesse regalato mille ore di sonno e quintali di adrenalina pura proiettati dal naso al cervello per direttissi-ma. Non sapevo quanto sarebbe durata, ma poteva essere una buona so-luzione per trascorrere tutta la giornata della cresima senza addormen-tarmi come un barbone da qualche parte o per strada. Sapevo che la droga era orribile, che non andava usata, che era una cosa sporca, ma provare non costava nulla in quel momento e sembrava dare solo van-

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taggi. In fondo mi fidavo di Luca, oramai eravamo amici da tempo e forse era vero che aveva una grossa influenza su di me, ma non me ne fregava, perché stavo bene e non avevo paura di stare bene in quel periodo. Vedere mio fratello Tommaso ricevere la cresima mi riempii di felicità. In quella chiesa sembrava, anche se per pochissimo tempo, un ragazzo normale, come tutti noi, nel nostro mondo, e non nel suo mondo irrag-giungibile. Luce e io ci tenevamo per mano e io immaginai per un atti-mo quando ci saremmo spostati. Ce n’erano due di chiese in paese, ma solo una veniva utilizzata per le cerimonie felici - quella al centro del paese - mentre l’altra, al limitare del cimitero, era dedicata ai funerali. Il prete era lo stesso, le parole erano più o meno le stesse e tutti piangeva-no, una volta di felicità e una volta di tremenda tristezza. Adesso era per felicità e io mi godevo il momento con grande appetito. Il ristorante venne scelto da mia madre, con il consenso di mio padre, mio e di mio fratello Fabrizio. Marco e Billy ci raggiunsero al ristorante, saltando la parte noiosa della chiesa, “per cause lavorative” a detta loro. Ero felice, mangiavamo tutti insieme, una fotografia di un passato che non tornerà mai più. Un momento così diverso da quelli che si susseguirono, che mi spaventa anche il solo ricordo. In tutti i casi, l’effetto della polvere ma-gica continuava e io mi sentivo rinato, tanto da guidare, finire di am-massare le legna in cortile e fare l’amore con Luce, un amore più pas-sionale, più carnale, forse più mentale. Alcune settimane dopo, in un turno notturno con Luca, ricevemmo la chiamata del sindaco del paese, che chiedeva aiuto e ci pregava di cor-rere e salvare una parte del palazzo comunale, probabilmente bersaglia-to da qualche minibanda di ragazzi annoiati che aveva appiccato il fuo-co. Corremmo a tutta forza, assieme alla polizia e una pattuglia dei ca-rabinieri. Luca era eccitato, probabilmente non per cause naturali, e fe-lice. Sembrava un tipo libero da tutte le regole che il mondo ci obbliga a seguire. Quando il camion dei vigili arrivò, tutti potemmo vedere fiamme enormi divorare una parte del secondo piano del palazzo co-munale. Le fiamme erano lì e noi dovevamo chiudere questa storia nel migliore dei modi, avrebbe dato risalto al nostro lavoro e magari qual-che cosina in regalo dal sindaco. Ci vollero tre ore per fermare tutto quel marasma e limitare la zona al pubblico, togliendo il materiale ri-masto buono e lasciando la zona alla polizia e ai carabinieri per accer-

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tamenti sui colpevoli, che ovviamente non vennero mai identificati. Tre giorni dopo il sindaco ci chiamò tutti alla nostra centrale dei vigili e do-po un breve discorso di elogio regalò ai dieci vigili presenti un viaggio per Palma de Mallorca, in hotel e servizio completo per sette giorni. «Avrete modo di rilassarvi e di godervi un piccolo riposo. Siete stati molto bravi ad arrivare così celermente e a prestare un soccorso eccel-lente. Spero ne siate felici». Eccome se lo eravamo, saltammo dalla gioia e dal furore, ci abbraccia-mo e ognuno di noi ringraziò personalmente il sindaco stringendogli la mano. Non ero mai uscito dall’Italia prima d’ora e Palma de Mallorca era un sogno a occhi aperti che si sarebbe realizzato esattamente un me-se dopo. Lì mi aspettava il mio demone, con un sorriso storto in faccia, la faccia contenta e la lingua biforcuta. Non vedeva l’ora di incontrarmi.

* * * Nessuno può prevedere il futuro. L’uomo ci ha provato in mille modi a vedere quale sarà la prossima sciagura che colpirà la Terra, chi sarà l’assassino della bimba che verrà gettata in mare a settembre, se quell’esame andrà bene. Vorremmo tutti andare un attimo in avanti, da-re uno sguardo e avere una possibilità di scelta. Sarebbe così bello che non sarà mai vero, mai, né con i tarocchi, i pendoli, i sogni premonitori, le sfere di cristallo, i dadi, le rune e le invocazioni dei morti, né in nes-sun altro modo. Nessuno vi dirà ciò che vi attende nel futuro. Sarebbe stato bello per me, perché avrei capito che quello sarebbe stato il mio ultimo periodo da essere umano e non da bestia. Quel mese passò rapido, pochi interventi gravi, moltissimi di poco con-to. La maggior parte del tempo eravamo in giro nei bar a prendere mille caffè, a fumare sigarette sulle panchine nei giardini vicini la centrale, e all’interno del dipartimento a chiacchierare del più e del meno aspet-tando qualche chiamata per uccidere la noia. Quel piccolo vizietto della cocaina, che per me rimaneva “piccolo” prima di farlo, “grande” poco dopo e “senza peso” al momento di sniffarla o fumarla, stava diventan-do un amico che non vedi tutti i giorni ma che capita di incontrare una volta alla settimana. Luca non mi chiedeva mai soldi, non voleva senti-re storie, eravamo amici ed era un nostro segreto, una condivisione che

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doveva rimanere solo tra di noi. Il mio primo vero segreto. Non mi sen-tivo in colpa quando tornavo dalla mia famiglia o quando ero con Luce, perché la mia testa fingeva che non fosse esistito e che se anche fosse esistito non era “niente di che”. Pochi giorni prima della partenza per Palma di Mallorca Luce mi fece un ritratto. Mi volle nudo in camera sua, quando i suoi erano fuori per delle commissioni. Non solo per l’amore questa volta. Voleva “prende-re il mio corpo e conoscerlo in maniera artistica, capire se riusciva a fa-re qualcosa di bello.” Luce aveva già dipinto molti altri quadri di uomi-ni nudi, di ragazzi che si prestavano per certe lezioni pratiche di dise-gno o di pittura. Non ero geloso, essere geloso non aveva senso dopo tutti quegli anni insieme. Lei, invece, era un po’ più possessiva e gelosa di me, una pantera che segna il proprio territorio dall’alto di una colli-na, anche se nell’ultimo anno, un po’ per i corsi e un po’ per il mio la-voro, si era proprio tranquillizzata. In fondo, oltre a Luce, ero finito a letto solo con un’orribile ragazza dal naso a patata e occhi a palla, di-sperato e controllato dai miei ormoni da quattordicenne. Fu una cosa così rapida che ci volle più a prepararsi che a farlo, perché a farlo ci mettemmo un secondo e non certo per colpa sua. Il giorno dopo en-trambi facemmo finta di nulla e non ci parlammo per il resto delle scuole. Ma il destino è strano e, in aereo, diretto all’isola spagnola più ambita dai vigili del fuoco dell’Abruzzo, quella stessa ragazza dal naso a patata faceva da hostess. A scuola era un obbrobrio, ma sembrava sbocciata e aver acquistato un fascino stravagante, dal sorriso semplice e con i ca-pelli rossi come arma di punta da seduzione. Volevo sprofondare nel sedile dell’aereo quando lei si avvicinò e urlò il mio nome. «Davide! Ma che bella sorpresa!». La voce non era più squillante ma più sottile e sensuale. «Ciao, Beatrice, quanto tempo è vero…». Volevo scappare. Luca mi dava le gomitate sul fianco destro, perché non gli avevo raccontato nulla. Alla fine feci le presentazioni tra Beatrice, Luca e gli altri sei vigili. «È la prima volta che andate a Palma?». «Sì. Hai dei consigli?» domandai io, rivedendo ancora in lei quella brutta ragazzina e quel secondo orribile della prima volta. «Beh, io la conosco molto bene. Dove alloggiate?». «Hotel Juanito».

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«È in un ottimo punto dell’isola. Se volete vi posso dare delle dritte quando scendiamo. Ci vediamo al ritiro bagagli, allacciate le cinture, stiamo per decollare». Beatrice era nata nel mio paese, ma dopo le scuole si era trasferita a Roma con la famiglia e di lei non ne avevo saputo più niente. Al ritiro bagagli arrivò un po’ in ritardo, perché aveva dovuto cambiarsi e finire alcune faccende burocratiche. La notte l’avrebbe passata in un hotel convenzionato con la sua azienda, nella costa opposta a dove era-vamo noi. Ci raccontò che lavorava da un paio di anni per quella com-pagnia e che negli ultimi mesi facevano molto spesso questa tratta di volo. Sapeva muoversi e voleva capire cosa avremmo voluto fare. Ci indicò le spiagge migliori vicino al nostro albergo, la Cattedrale Gotica e altri palazzi, il faro e i locali più ricercati e costosi. Ognuno di noi a-veva abbastanza soldi da spendere, me compreso, che tutto volevo fare tranne che risparmiare anche un solo centesimo. Per continuare a darci consigli salutò i suoi colleghi e venne con noi in autobus, spiegandoci che tanto andavamo nella stessa direzione. Un’ora dopo gli altri stavano dormicchiando più avanti e noi tre dietro continuavamo a chiacchierare. Luca aveva preso confidenza con Beatrice e in una forma non troppo sottile le chiese quali erano i posti migliori per sballarsi. «Ci sono? Non è per me, sia chiaro» si mise a ridere per smorzare la tensione e capire come lei avrebbe reagito. Io lo guardavo divertito. «Ce ne sono un bel po’ di posti, anche abbastanza “rinomati”, però cre-do che la parte del molo sia quella più sicura. Ci sono un sacco di locali sud americani, brasiliani. Appena vi vedono vi saltano addosso. Donne comprese». Beatrice rise e noi tutti ridemmo. Luca fece una faccia sod-disfatta e quando arrivammo al capolinea ci scambiammo i numeri di telefono e ci salutammo. Furono giorni indimenticabili, in cui il mare salato, le belle donne e l’alcool furono il nostro unico hobby. Ovviamente io non mi azzardavo nemmeno a pensare di tradire Luce, mai lo avrei fatto, ma guardare e scherzare con Luca e gli altri non pregiudicava nulla. Ogni notte anda-vamo in una discoteca diversa, io che non ero neanche mai entrato in una discoteca di quelle dimensioni prima, bevendo shots - o chupitos come li chiamavano loro - come fossero acqua. Tornavamo ubriachi fradici in hotel e la mattina dopo ci aspettavano di nuovo le onde, il ma-

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re e le donne. Le chiamate a casa erano brevi e intense. Chiedevo di ca-sa, di Tommaso e della scuola, di Fabrizio, del lavoro e di papà. «Tutti stanno bene Davide, non preoccuparti, pensa a divertirti che tra qualche giorno torni di nuovo qui». «Sì mamma, va bene». «Ti salutano le zie». «Saluta tutti». «Anche i tuoi cugini». «Sì, sì, va bene, saluta tutti e ricorda che non sono partito per la guerra ma che sono in vacanza». «Non essere scortese». «No mamma, scusa. Dai adesso devo andare che le chiamate interna-zionali costano». «Ok, ok. Ci vediamo tra qualche giorno». A metà della vacanza, dopo tre nottate continue di discoteche-mare e mare-discoteche, gli altri ragazzi decisero che era il momento di andare a fare qualche visita turistica. Luca non ne volle sentir parlare e prese l’opportunità per propormi di andare al molo, per vedere com’era. Ave-va saputo, tramite quello che gli passava la cocaina, che a Palma c’erano droghe diverse, strane, simili alle nostre ma che erano molto più “buone” e rare. Ci pensai un po’ su, ma la mia mente si era talmente abituata a non far altro che provare qualsiasi cosa che decisi di conce-dermi anche questo senza troppe menate mentali. Il tragitto per arrivare al molo era lungo, dovevamo prendere due auto-bus e fare una passeggiata a piedi sul lungo mare. Non sapendo bene le distanze e conoscendo poco gli orari dei mezzi, arrivammo al molo ver-so le undici di sera, con una fame mostruosa e con altrettanta sete. Un piccolo ristorante, non troppo costoso, ci riempì lo stomaco di paella e altri prodotti tipici dell’isola. Un’ora dopo passeggiavamo sul molo, una passerella di piccoli locali frequentati da moltissimi sud americani e africani e ci volle pochissimo, per gli spacciatori accaniti del posto, a inquadrare Luca. «Hashish? Speedball? Bonbon?». La nostra comprensione dello spa-gnolo era pressoché ridicola, ma dopo qualche tentativo Luca disse di aver capito. «Andiamo con lui, c’è un locale qui, si balla e la roba ce la procura lui». «Luca, ma sei sicuro? Non è che ci rapinano?».

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«Siamo belli e grossi, oltre che abbastanza poveracci. Se aprono il mio portafoglio al massimo ce lo mettono loro qualche soldo». Ridemmo mentre lo spacciatore dalla pelle olivastra e capelli disegnati con il raso-io ci guardava in attesa di una nostra decisione. Luca mi vide pensiero-so per qualche secondo di troppo e dopo avermi messo una mano sulla spalla me la strinse con forza. «Guarda che qua non ci tornerai più, dobbiamo ricordarci questa vacanza per tutta la vita, Principe». «Hai ragione te, speriamo che non costi troppo». Quelle parole profetizzarono qualcosa, perché per davvero quella serata e quella vacanza non me la sarei scordate più per il resto della mia vita, nelle mie notti piene di pianti e di urla, nemmeno impasticcato dagli an-tidolorifici. Il demone era a pochi passi da me, forse a qualche metro, e stava finalmente per fare le sue presentazioni.

* * *

La musica era potente, tutta uguale, tra il tecno e l’house, una roba orri-bile che ti rimbomba nel corpo e che non ti da modo di parlare, di co-municare, anche se stai per soffocare, anche se sta per succedere qual-cosa di orribile. Luci al neon e faretti illuminavano tutto il locale a in-termittenza, mostrandomi le persone al rallentatore, come tante foto in successione. La gente riempiva il luogo come un puzzle di carne, che mi lasciava un leggero senso di claustrofobia. Avevo bevuto già tre chupitos, così forti da bruciarmi la gola. Bellissime ragazze giocavano con le sbarre di ferro sui cubi e altre, drasticamente meno attraenti, ac-cettavano le avance di Luca, il quale strusciava il proprio corpo ubriaco su di loro. Lo spacciatore ci aveva detto di aspettare, lui ci avrebbe por-tato qualcosa da provare. Luca lo aveva pagato mettendogli i soldi di-rettamente in tasca e non volle sentire scuse. «Divertiti Principe, forza. Fai uscire l’animale notturno che è in te» e rideva, mentre si muoveva sudato e con la camicia sbottonata. «In Italia sarà tutto diverso e tornerà la noia, almeno qui, vediamo di non annoiarci». Un’ora dopo bevvi altri chupitos e l’ultimo, quello che mi portò Luca, mi diede il colpo di grazia. Forse c’era qualcosa là dentro, forse aveva messo qualche pasticca, grammi di puro inferno, diluita in alcool all’aroma di frutti esotici e spumante. Non so come, ma ci ritrovammo all’interno di un privé, in cima a delle scale. Luca aveva pagato bene e

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ci stavano trattando con le dovute maniere. Erano le tre di notte passate quando mi buttai su un divanetto di pelle nera e bianca, a pancia in su e gli occhi che guardavano Luca fare sesso con un’altra donna, sul divano opposto al mio. La situazione stava degenerando e non capii se stavo sognando, se era la pasticca nel mio corpo a farmi vedere tutte quelle cose o se tutto ciò stava accadendo davvero. Poi un’altra ragazza si av-vicinò e ci provò con me. La mia poca lucidità la respinse, ma lei provò a saltarmi sopra ancora una volta. Dovetti fare uno sforzo enorme per mandarla via, per scacciarla, e per un momento pensai anche di averle fatto del male alla spalla con la stretta della mia mano. I minuti passa-vano e io speravo che tutta quella musica, quelle luci, la puzza di fumo e di sesso sparisse per magia, facendomi ritornare in hotel. Chiudevo e riaprivo gli occhi. Luca stava accanto a me sul divanetto, a torso nudo e i pantaloni tirati su. Due donne ci stavano massaggiando le spalle, toc-cando il collo e i gomiti. Non erano le stesse donne o non mi parve di riconoscerle. Le mie labbra erano secche, la testa sembrava esplodere e qualche forza chimica all’interno del mio corpo non mi permise di met-tere in chiaro nulla. Provai a parlare con Luca, ma lui muoveva la testa lentamente, forse pensando di seguire la musica. Qualcosa venne legato al mio braccio, una piccola fiamma venne acce-sa da una delle ragazze sul tavolino di vetro davanti al nostro divanetto. La ragazza si avvicinò a Luca e qualche secondo dopo lui gemette, co-me se stesse facendo di nuovo l’amore. La stessa ragazza poi si avvici-nò a me. «Non, io non so se voglio...». Non so bene nemmeno quanto tempo trascorse e, dopo un pizzico al braccio sinistro, divenne tutto nero. La mattina dopo prendemmo un taxi e di lì a trenta minuti arrivammo all’hotel. Gli altri ci avevano chiamato un paio di volte e ci avevano avvertito che in mattinata sarebbero andati di nuovo in spiaggia. Non parlai con Luca e lui non parlò con me per tutto il tragitto. Avevamo esagerato, avevamo superato un limite che nessuna persona sana do-vrebbe mai superare. Sentivo ancora il sapore di vomito in gola, l’odore di alcool e un piccolo ematoma violaceo al braccio era rimasto come testimone. Luca aveva pagato per un viaggio con l’eroina, un viaggio da cui molti non tornano più indietro. Volevo dimenticare tutto quello che era successo, lasciar correre il tempo, arrivare in hotel il prima pos-

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sibile e vomitare l’anima ancora per un po’, per poi buttarmi sotto l’acqua gelida della doccia a idromassaggio. Accadde esattamente questo, anche se il malessere non se ne andò né vomitando né con l’acqua fredda. Poco dopo ero immobile, nudo, da-vanti allo specchio del bagno della camera d’albergo. Osservavo l’ematoma sul braccio, che mi faceva ancora male, e notai che avevo anche le pupille dilatate. Mi buttai a letto, senza nemmeno mettermi le mutande. Quel letto fatto e profumato mi avrebbe coccolato al punto giusto. Avevo una tale ansia addosso da stringere con forza i denti tra di loro e strofinarmi il viso più volte con le mani. Il viaggio terminò tre giorni più tardi e in quei tre giorni io e Luca cer-cammo di comportarci come prima, scherzando alle nostre maniere ed evitando di parlare di quello che era accaduto in quella notte al molo. Pensavamo di poter riuscire a rimanere gli stessi, ma qualcosa era cam-biato dentro di noi. E forse era cambiato per sempre. Mi venne la febbre due giorni dopo il mio rientro a casa. Il sole e le spiagge di Palma de Mallorca erano già un ricordo lontano, spazzate via da un temporale funesto che stava colpendo la mia regione. Una sera mio padre mi aveva chiesto il favore di prendere la legna fuori e la pioggia aveva indebolito ancora di più il mio corpo, incatenandomi al letto. Tutti mi avevano accolto all’aeroporto come se tornassi da un vi-aggio di mesi, e non di sette giorni, ed erano più che soddisfatti dei pic-coli regali che ero riuscito a prendere per loro: qualche cartolina che mi ero dimenticato di spedire e una maglietta della squadra di calcio del Mallorca per mio fratello Tommaso che non smise di metterla per set-timane; una bottiglia di vino spagnolo per mio padre, un grembiule ros-so da cucina con un toro per mia madre e a Luce avevo comprato un ciondolo di una conchiglia, una tazza con la bandiera dell’isola e un di-ario-agenda con la copertina di cotone colorato. Regali accettati con il sorriso e ricambiati con le colazioni, i pranzi e le cene a letto portate con un vassoio secolare, di cui mi ricordo fin da piccolo. Non vedevo l’ora di scrollarmi l’influenza di dosso e fare l’amore con Luce da qualche parte. Una settimana senza toccarla era già tropo, figu-riamoci due. Purtroppo, però, l’influenza non voleva andarsene, anzi, sembrava rimanere stabile e addirittura salire di notte, facendomi batte-re i denti dal freddo. Un freddo antico, profondo, che dice al tuo corpo che c’è qualcosa che non va, come una carezza gelida della morte, della

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malattia. Il medico di famiglia venne fatto chiamare con urgenza all’una di notte, quando la febbre salì fino a toccare i quarantadue gradi e obbligare mio padre a prendermi di peso e a immergermi nella vasca precedentemente riempita di acqua gelida e ghiaccio. Una pratica dolo-rosa, aggressiva, per far scendere la mia temperatura corporea e non ri-schiare di arrecare danni al cervello. Il mio corpo stava combattendo contro qualcosa e il dottore diagnosticò una polmonite. Consigliò ai miei genitori di portarmi in ospedale e fare una cura antibiotica. Era ra-ro, ma si poteva morire di polmonite, almeno secondo il dottore e i miei genitori, che di comune accordo - e senza interpellarmi - mi portarono all’ospedale del paese accanto, l’unico vero ospedale per chilometri e chilometri. Io non ero del tutto d’accordo, avrei preferito stare in casa e riposarmi. La paura che quella reazione fisica fosse dovuta alla pasticca nel chupito o all’eroina nel braccio mi spaventava a morte. A casa non avevo internet e molte volte la linea nel paese prendeva così male che spesso era faticoso anche parlare tramite cellulare, ma ruban-do la rete libera di qualcuno accanto mi documentai sugli effetti della droga, dell’eroina e delle pasticche di ecstasy. I sintomi erano vari, molto soggettivi, ma non mi piacevano e quando mi portarono all’ospedale, la mia preoccupazione era diventata uno spettro aleggiante sulla mia testa e sui miei pensieri. Avevo letto anche dell’HIV e il solo pensiero mi faceva accapponare la pelle. Dopo cinque giorni di antibiotici il mio corpo sembrò reagire e riasse-starsi. In quei giorni strinsi amicizia con il medico che lavorava durante i turni di notte. Un uomo di quarant’anni tanto appassionato del suo la-voro quanto solo nella vita. Il mio orologio biologico aveva deciso che di giorno dovevo dormire e di notte invece fare chissà cosa e alla fine facemmo amicizia. Oltre a me, in quella stanza, c’era solo una vecchiet-ta colpita da Alzheimer, che di tanto in tanto si intratteneva a parlare con qualche ricordo immaginario. Mi faceva pena e sperai che né io né i miei genitori passassimo mai quella fase nella vita. Ero stupido a pen-sare tante cose. Ero un maledetto ingenuo, un’ingenuità che però stava per scomparire. In una di quelle notti, con la voglia di raccontare a qualcuno quello che era accaduto con Luca a Palma, spiegai al medico che avevo usato delle “droghe”. Mi rispose che forse allora era il caso di fare qualche analisi del sangue più approfondita, il test dell’HIV e delle epatiti. Erano test

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semplici a cui decisi di sottopormi per fugare ogni dubbio o andare a fare conoscenza con il mio demone. Venni dimesso e il giorno dopo, con mia totale sorpresa, lo stesso me-dico mi chiamò al cellulare. «Vieni pure in ospedale quando puoi, per ritirare le analisi». «C’è qualcosa che non va, dottore?». «Non angosciarti adesso, vieni e capiamo bene cosa accade». Sentivo il demonio ridere di me, aprirmi le porte dell’inferno e farmi scorgere per un attimo quello che avrei passato in caso l’esito fosse sta-to positivo. Trentacinque minuti dopo ero già nel suo studio. Mi fece sedere e mi presentò i risultati delle analisi: ero risultato positi-vo all’HIV. Sgranai gli occhi e feci uno scatto così forte indietro, verso la porta alle mie spalle, da far cadere la sedia a terra e caderci sopra an-che io. Lui tentò di calmarmi, ma fu inutile. «Ha chiamato la mia famiglia per questo?» domandai immediatamente. «No, c’è una legge che tutela la privacy. Ora calmati e ti spiego come procedere». Mi alzai e rimisi a posto la sedia. Qualcosa nel mio cervello era scatta-to, come una difesa pronta a proteggermi da notizie simili, da eventi simili. Era impossibile che accadesse a me. Io avevo ben altri progetti, avevo ben altri sogni. «Voglio rifare le analisi». «Calmati Davide, abbiamo terapie e cure che possono contenere il vi-rus. Le analisi non hanno margine di errore, ma se proprio vuoi possia-mo rifarle». «Voglio rifarle». Forse c’era stato un errore, forse era possibile che avessero confuso i risultati con quelli di qualcun altro, ma nessuno si era sbagliato, né il medico né le analisi. L’unica persona che aveva sbagliato ero io a farmi sballare da Luca, a seguirlo, a farmi influenzare da lui. Era bastata una notte, un errore, per distruggere il mio mondo. Uscito dall’ospedale, mi diressi con la macchina verso casa, poi pensai che non era il momento di stare con la mia famiglia e non avevo voglia nemmeno di andare da Luce. Guidai senza una meta precisa, ma dopo una decina di chilometri mi fermai al bordo della strada per piangere come un bambino. Piansi così intensamente da urlare, da prendere a pugni il voltante, da uscire e prendere a calci la macchina. Mi sentivo

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come una bestia che era stata intrappola dai bracconieri, appesa in una rete sopra il ramo di un albero. Più cercavo di divincolarmi, più mi stancavo e più quella rete diventava più forte di me. Prima o poi i brac-conieri sarebbero arrivati a riscattare la propria preda. Ma quando sa-rebbe successo? Quando sarebbero arrivati per prendermi, spararmi e scuoiarmi vivo per mangiare la mia carne e vendere la mia pelle? Avevo una malattia incurabile, virale, che aveva ristretto il tempo della mia vita, mangiandosi anni preziosi. Ero uno schifoso malato che non avrebbe accettato mai il presente creando danni ancora più irreversibili.

* * * Chi non vorrebbe avere la possibilità di tornare indietro, rimediare all’errore e vedere come la propria vita sarebbe cambiata, migliorata o peggiorata? Chi non vorrebbe sistemare una parola detta di troppo du-rante una litigata, un comportamento che ha ferito una persona cara o magari allontanare preventivamente qualcuno che poi si è rivelato tutt’altro che una brava persona? Io ero tra quelle persone e volevo solo avvolgere il nastro di qualche giorno, allontanarmi da Luca e non cono-scere mai quel molo e quello che offriva. Dopo aver pianto, urlato, be-stemmiato, la mia mente continuò a farmi pensare che se non avessi fat-to nulla quella notte non sarei stato malato. La macchina era ancora con me sul ciglio della strada e il cellulare aveva già squillato così tante vol-te che avevo perso il conto. Mi cercavano i miei genitori, che non sen-tendomi volevano capire se sarei tornato per cena, mi chiamò Luce un paio di volte, una chiamata da Billy e anche una dal comando. Pensai immediatamente di uccidermi, guidare come un pazzo e schiantarmi addosso a un muro, forse mi sarei potuto tagliare le vene o soffocarmi con il gas di scarico della macchina. Lì compresi che avevo paura di morire, che non volevo morire. Dovevo concedermi del tempo per pensare. Tornai a casa all’ora di cena scusandomi per il ritardo e per non aver sentito il telefono. Telefonai a Luce, dicendo che avevamo avuto una riunione al dipartimento e che ci saremmo visti tranquillamente dopo cena. Stessa cosa a Billy, tagliando la conversazione con la scusa che la cena era pronta in tavola e che l’avrei richiamato più tardi. La cena trascorse tranquillamente. Mio fratello Fabrizio stava pensando di prendere un mutuo per comprare il terreno a ridosso di casa nostra e

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costruirne una tutta sua. Mia madre gli ricordò che non aveva ancora nemmeno una ragazza e risero tutti. Io ridevo, mentre dentro stavo mo-rendo. I miei movimenti erano precisi, non volevo che nessuno toccasse le mie posate o il mio bicchiere e cercavo di farlo nella maniera più di-sinvolta possibile. Fu una tortura silenziosa che terminò un’ora dopo. Dopo cena chiamai il dipartimento. «Pensi di essere operativo per domani? Uno dei nostri è malato, penso che l’influenza giri in questo periodo». «Sì, certo. Non ho più l’influenza». «Il turno è quello pomeridiano». Attaccai e mi buttai sul letto, rimbalzando a braccia aperte. Per un mo-mento immaginai un terremoto improvviso e il soffitto spiaccicarmi sotto il suo peso. Magari Dio, o chi per lui, era clemente e mi spingeva alla morte, regalandomela prima che la malattia si mostrasse in tutta la sua potenza. Forse non ero davvero malato, forse era uno scherzo as-surdo di Marco e Billy, con la complicità di Luce. Mi venne da ridere e risi da solo, come un pazzo, come un disperato che nel bel mezzo del funerale ride da solo, per scaricare qualsiasi tensione, per una reazione così incomprensibile da lasciare di stucco gli altri presenti. L’unica altra presenza nella mia camera era il mio demone, che combatteva contro la mia mente che non voleva accettarlo e lo chiudeva fuori a calci, girando più volte la chiave nel chiavistello. Se il demone era fuori, allora io non ero malato. Erano quasi le undici di sera quando mi presentai alla piazzetta del pae-se, davanti al bar che ospitava tutti i miei amici, lavato e profumato an-cora di bagnoschiuma. Marco e Billy mi salutarono, ci offrimmo da be-re a vicenda e Luce arrivò mezz’ora più tardi. Lei era la figlia del bari-sta, Don Alberto, come veniva chiamato da tutti, che si presentava cal-vo, basso e tozzo e con grosse mani di chi ha fatto ben altro prima di costruirsi un locale e servire da bere. Lui mi voleva bene come un figlio o almeno così diceva. Quando arrivò Luce, la baciai fuori dal bar con passione, con sentimento, ma lei sembrò non accorgersi di ciò che pro-vavo dentro, perché era intenta a salutare gli altri, le sue amiche, cono-scenti che avrebbero vissuto una vita più lunga della mia, più sana della mia, più felice della mia. Per un attimo vidi tutto differente e il pensiero che la malattia mi potesse potare via tutte quelle cose mi fece stringere il cuore.

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«Ehi, tutto bene?». Marco si avvicinò con un panino alla cotoletta. «Vuoi?». «No, grazie, ho già cenato, a differenza tua». «Anche io ho cenato, ma la fame notturna è la fame notturna e poi è so-lo uno spuntino». «Come va al lavoro? Hai cominciato il tirocinio?». «A me più che tirocinio sembra uno sfruttamento giovanile in piena re-gola. Ma sì, mi trovo bene, non mi posso proprio lamentare». Marco aveva finito gli studi infermieristici e aveva iniziato il suo tiroci-nio nella clinica del paese che assisteva soprattutto gli anziani. Me lo guardavo, mentre raccontava della sua vita, come una persona nuova, come qualcuno che non mi conosceva, che non sapeva che cosa avevo dentro e che non riusciva a vedere il demone invisibile che mi guardava da lontano, dal ciglio della strada, come un genitore preoccupato per le amicizie frequentate dal figlio. Lui non sapeva, come Billy, che intanto si era avvicinato portando una birra ghiacciata. «Ma che c’hai? Sei strano oggi, Principe» disse Billy scherzando, fa-cendo l’occhiolino a Marco. «Volete fare una partita a biliardino?». La mia mente scacciò di nuovo il demone della malattia e tornai il soli-to Davide Neda, sereno e tranquillo, amico di tutti e dal carattere caldo. Io e Luce ce ne andammo a casa sua verso le due di notte e lei voleva fare l’amore. Non ci eravamo toccati da quando ero tornato da Palma, a causa della polmonite, e lei era una gatta che si strusciava sopra di me per essere soddisfatta al più presto. Il suo letto profumava di cose belle, di ricordi antichi, e la sua camera era stata spettatrice del nostro amore carnale più e più volte in quei lunghi sette anni. Mi sbottonò la camicia baciandomi e cominciò a slacciarmi la cintura. Il mio desiderio più grande era fare l’amore con lei, sentirla urlare e vedere l’alba insieme con qualche merendina o qualche altro cibo spazzatura che avremmo trovato nella credenza della cucina al piano di sotto. Lei era già nuda e io sentii il profumo del suo corpo, le sue forme perfette per i miei gusti, per i miei occhi e per le mie mani. Poco dopo sentii ridere il demone dietro la porta, sotto il letto, fuori la finestra. Avrei infettato anche Lu-ce, avrei distrutto anche la sua vita e la cosa sarebbe diventata uno scandalo così aberrante da distruggere anche le nostre famiglie. Non me ne ero accorto, ma lei mi guardava seduta sul letto, come se fossi un'altra persona. «Vuoi lasciarmi? Ma che cazzo stai dicendo?».

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«Luce, ascolta, è complicato». Lei mi guardò spiazzata, non sapendo cosa dire. Poi, capendo che non stavo scherzando, cominciò a piangere. «Ma che cazzo è successo? Tu adesso non esci di qui finché non mi spieghi. C’è un’altra?». «Non c’è nessun’altra, Luce». «No, qualcuna c’è. Ora tu mi dici che cazzo sta succedendo». Cominciai a piangere anche io, come un piccolo bambino insicuro che ha bisogno della madre, di cure, di essere dondolato tra braccia calde dal profumo di miele. Lei non si dava pace, era una trottola impazzita che si muoveva avanti e indietro per la stanza, alzando sempre di più la voce. Oramai i genitori probabilmente si erano svegliati e avevano sen-tito quella discussione che rimbombava per il corridoio. Nessuna pare-te, porta o finestra, poteva contenere le grida di rabbia e di pianto isteri-co di Luce. Anche io urlavo, anche io ero disperato, ma non potevo permettermi di infettarla. Potevo negare la malattia a chiunque, ma non a lei e non alla mia famiglia. Più io piangevo, più il mio demone rideva e più lui rideva, più io sentivo una rabbia perversa crescere in me. Non sapevo come allontanarla, non sapevo cosa dirle, perché ero stato l’uomo più fedele del mondo, nemmeno mi era passato per la testa toc-care un’altra donna oltre a lei, ma quello che dissi dopo era l’unico mo-do per salvarle la vita e allontanarla definitivamente da me. «Ho incontrato una a Palma e me la sono fatta, Luce». Non volli vedere i suoi occhi in quel momento. Il mio cuore si stava spezzando in piccolissimi pezzettini colorati di rosso mentre aprii la porta della sua camera e corsi giù per le scale, verso l’uscita. Lei gridò insulti, lanciò qualcosa contro il muro, disse qualcos’altro che non com-presi perché ero già fuori per strada. Avevo lasciato l’amore della mia vita, colei con cui avrei dovuto spo-sarmi e avere splendidi bambini, una famiglia, una vecchiaia serena. Era tutta una grande presa per il culo, era tutto un ammasso di cenere che stava volando via con una folata di vento. Non so con quale forza non mi suicidai quel giorno, probabilmente perché il viso sorridente del mio piccolo fratellino Tommaso si mostrò tra i miei pensieri quando vidi la mia casa lontana con la finestra illuminata della sua stanza. Pro-babilmente stava giocando o disegnando, come faceva spesso di notte.

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Il tragitto che distanziava casa mia da quella di Luce era di un chilome-tro, che facevo tranquillamente a piedi. Eppure quella volta non era come le altre: era l’ultima volta che avrei percorso il tragitto di ritorno. Ero abituato a farle uno squillo quando arrivavo casa, per non farla sta-re in ansia, e a mandarle un messaggio di buona notte e uno del buon giorno. Ero abituato a vederla venire a cercarmi dopo il lavoro o a tro-varla a cucinare con mia madre. Ero abituato a una vita che non faceva più parte della mia. Le abitudini sono così difficili a morire che già pensavo alla tortura che mi sarebbe toccata. Tutto quello che avevamo costruito insieme era finito, non per un’altra, non perché non eravamo più innamorati, ma perché amarla significava infettarla, farla ammalare come me e regalarle un demone. Guardai il demone che camminava con me e che mi sorrideva come un amico fedele. Quasi lo sentivo come una presenza, come un alone di morte oscuro, macabro, con un orologio da tasca in mano, che scorreva all’indietro. «Il tempo scorre» sembrava dirmi. «Il tempo per te non va più avanti, va indietro, va verso lo zero». Io, con le mani in tasca, cam-minando per il paese non riuscivo nemmeno a rispondergli. Nessuno in paese conosceva nemmeno bene la malattia, come me del resto. Sarei diventato un lebbroso da evitare, il povero figlio del bosca-iolo drogato. Passeggiando vidi due signore anziani fuori dalla porta di casa, sedute sulle sedie a parlottare e fare la maglia. Erano più vecchie che donne, segnate da rughe profonde, con i capelli bianchi raccolti. Erano entrambe vedove di mariti morti in guerra e oramai passavano la loro vita come due sorelle segnate dallo stesso destino. “Quella è colpa dei genitori. Io ai miei figli li ho educati bene.” Già immaginavo la loro reazione quando la notizia sarebbe trapelata in paese. “Non farò avvici-nare mia figlia a quel tipo. Chissà che tipo di persone frequenta in città, l’ho sempre detto io, questi ragazzi d’oggi non hanno né il valore dei soldi né il valore della vita.” In tutti i casi loro mi salutarono, ignare di tutto e io le salutai con un sorriso falso accompagnato da qualche parola gentile. “Forse muori prima di loro.” Il demone rideva, commentando dentro la mia testa, e forse era davvero così. Sarei morto addirittura prima io di loro. Alla fine le donne di oggi arrivano tranquillamente a superare gli ottanta e sfiorare i novanta e io non sapevo se avrei avuto così tanti anni davanti.

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Nei giorni a seguire mi documentai, facendo delle ricerche in rete, sulla malattia, sulle sue conseguenze, su quello che poteva accadere al mio corpo, sui segni visibili sulla pelle e su quanto avrei potuto vivere. Più cercavo e più sentivo il vomito salirmi in gola, portato da una forte nau-sea da stress. Le informazioni erano molteplici ma io dovevo arrivare al nocciolo della questione: quanto tempo avevo ancora. “Tic tac.” Il demone, al mio fianco, indicava il suo orologio da taschi-no. “Tic tac.” In tutti i casi quello che avevo capito dopo varie ricerche è che non esi-ste una vaccino né una cura, che il virus si trasmette tramite il sesso e il sangue e non per la saliva, e che se non prendevo farmaci antivirali a-vrei avuto circa tre anni di aspettativa di vita. Prendere i farmaci invece mi avrebbe fatto contenere i sintomi e il virus e avrei potuto vivere per molto più tempo. Sarebbe stata una vita da emarginato sociale, mar-chiato come tossico, ma pur sempre una vita. Quando lessi le varie te-rapie ospedaliere e gli spazi dedicati agli incontri per i malati, i succhi gastrici erano arrivati in gola e in bocca e io dovetti correre al bagno per non vomitare sul pavimento. Mi faceva schifo, tutti i colori della mia vita stavano sbiadendo e nessuno poteva saperne nulla. Mentre pensavo che avrei voluto solo riposare guardai il mio cellulare e realiz-zai che il tempo era volato e che dovevo correre al lavoro. Fortunatamente quelle ore passarono senza chiamate urgenti e riuscii a rimanere seduto e ad acquistare quelle minime forze per non addormen-tarmi di botto. «Stai ancora male? Hai una brutta faccia» domandò un mio collega, en-trando nella sala comune. «Tutto bene, sono solo stanco». «Oggi era il turno di Luca e si è dato malato anche lui». Luca, la sua persona e il suo ricordo si erano completamente eclissati dopo quello che era successo con Luce. Le cose andavano troppo rapide per me e io avevo l’affanno per stare dietro a tutto, per controllare tutto e per controllare me stesso. Comunque non avevo avuto notizie sue, non l’avevo chiamato e lui non l’aveva fatto con me. Poi un pensiero arrivò come un lampo nel mio cervello a illuminare un’ipotesi. Forse anche lui era malato, forse era stato lui a passarmi la malattia. Mi ven-nero i brividi. Scattai e uscii in fretta dall’ufficio congedandomi velo-cemente con il mio collega che mi seguì con lo sguardo, forse stranito

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dalla mia reazione improvvisa. Non mi interessava, non mi fregava niente, solo sapere se anche Luca era stato contagiato. Così lo chiamai uscendo per strada, poi però riattaccai, insicuro su cosa dirgli. Non po-tevo di certo esser chiaro con lui, avrebbe destato sospetto e avrebbe capito. Era abbastanza sveglio e mi conosceva così bene da capire il mio atteggiamento e le mie intenzioni. Dovevo trovare un altro modo, dovevo riavvicinarmi a lui e cercare di capire percorrendo altre strade. Durante i giorni successivi la mia testa era presa da due unici pensieri: cosa stesse facendo Luce e se Luca era un infetto. Poi però la priorità divenne sapere di Luca e il turno assieme a lui arrivò quattro giorni do-po. Lui si presentò come al solito, come se nulla fosse accaduto. Anche io, durante tutto il turno lavorativo, cercai di comportarmi normalmen-te, soprattutto quando gli altri colleghi erano con noi o potevano in qualche modo ascoltarci. Lui mi guardava e a fine turno mi fece cenno di seguirlo verso la sua macchina. Entrare lì dentro mi fece ricordare quando ero sano, quando ero ingenuo, quando lo seguivo e accettavo le sue droghe pur di non fare la figura dello scemo. Ma adesso era eviden-temente diverso, perché io ero diverso. Non eravamo più io e lui, era-vamo io, lui e il mio demone. «Mi dispiace per quello che è successo, sono stato io il coglione a por-tarti là». «Non ho tredici anni, potevo dire di no». «Ma ho pagato io per farti fare un giro di eroina e ho sborsato con pia-cere tutti i soldi che avevo». Mentre parlavamo si accese una sigaretta e anche io ne accesi una. Fu un secondo. Notai immediatamente che non aveva nessun segno al braccio mentre io lo avevo ancora. Sbarrai di colpo gli occhi. A lui non era stato iniettato proprio niente, aveva pagato per far bucare solo me. Non potevo credere a quello che stavo ascoltando. Si scusò più e più volte, sottolineando che era colpa sua e che doveva dire di no alla proposta di un solo giro in paradiso. Si rammaricava an-che del fatto che lo avrebbe fatto con me, ma la possibilità era una sola e lui aveva pensato bene di rifilarmela. “Ha pagato per farti ammalare”. Il mio demone continuava a compia-cersi mentre io cominciai a tremare nella macchina di Luca. Lui mi guardò e quando provò a toccarmi la spalla per chiedermi l’ennesima scusa io lo allontanai con entrambe le mani, con abbastanza forza da farlo sbattere sullo sportello. Mi catapultai fuori dalla macchina e in un

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attimo ero nella mia, sgommando a tutta velocità. Se non me ne fossi andato l’avrei ammazzato con le mie mani, gli avrei stretto la gola e l’avrei soffocato. Lo avrei preso a pugni con così tanta forza da spacca-gli la faccia e riempire la macchina di sangue. “E’ lui che mi ha portato da te”. Il demone continuava a sussurrarmi, a incitarmi a fargli del male e a dare tutte le colpe a lui, ma ero stato io a seguirlo, ero stato io a farmi soggiogare come una ragazza che tornando a casa da sola viene avvicinata e poi aggredita da uno stupratore, una ragazza con la sola colpa di indossare una minigonna. I pensieri andavano a mille, come la velocità della mia macchina che sfrecciata nella strada di ritorno. “Ma non è colpa della ragazza se lo stupratore abusa della sua fragilità”. Quella presenza demoniaca voleva la mia morte e più andavo avanti più la mia mente non era lucida, e più gli credevo più quella presenza sem-brava diventare reale. Forse era la parte cattiva di me, quella che ogni uomo e bestia ha dentro di sé, ma che non esce fuori se non per la pro-pria sopravvivenza. Io stavo lottando per la mia vita, colpita da una sciagura insormontabile. Quando parcheggiai la macchina sotto casa, la mia testa cominciò a negare tutto, ad allontanare tutti i pensieri. “Io non sono malato.” “Lo sei ed è colpa di Luca.” “Non è vero.” “È colpa di Luca e tu sei malato.” “Luca non mi ha costretto.” “Forse ti ha messo lui qualcosa nel bicchiere e se non fosse successo io non sarei qui e tu non saresti malato.” “Non posso fare più niente.” “C’è sempre qualcosa da fare.” “No, non c’è niente da fare.” “Esiste la vendetta.”

* * * L’autunno stava arrivando, succhiando la vita degli alberi ai lati delle strade, ma non gli abeti delle montagne intorno al paese. Loro erano pronti per l’inverno, erano preparati, con i loro aghi, a sopportare il gelo e la neve, tuttavia adesso iniziava una stagione strana, dove di giorno non faceva né freddo né caldo, dove i bambini già si erano stufati di an-

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dare a scuola e i lavoratori di andare a lavoro. Il mio lavoro continuava come al solito e per molte settimane decisi consciamente di non dare ascolto al mio demone, alla mia rabbia, alla collera che sentivo contro il mondo intero. Se non mi fossi dato una calmata, avrei fatto dei danni inimmaginabili, avrei creato situazioni orribili e crisi familiari. Perché dopo essermi lasciato con Luce e aver scoperto che l’unico coglione ad aver preso l’HIV ero io, mi ero lasciato andare, iniziando a far preoccu-pare i miei familiari riguardo il mio stato psichico e sociale. Non uscii per giorni e non volli vedere nessuno. Ero un’ameba appoggiata alla fi-nestra, che guardava la cima delle mie montagne, meditando vendetta. La mia anima era avvolta da un alone nero, ma poi arrivò mio fratello Tommaso, il mio piccolo angelo. «Mamma e papà piangono». Quella frase mi spezzò il cuore e spezzò anche l’alone nero che oscura-va la mia vista, calciando dalla finestra la vendetta e la rabbia, inver-tendo il processo da bestia a uomo normale e non psicopatico. Chiesi scusa alla mia famiglia. «Sappiamo che è per Luce, mi dispiace molto per come sia andata» disse mia madre. A lei piaceva Luce, oramai dopo così tanti anni la considerava una figlia e una colonna portante per tutte le nostre vite. Erano amiche e molte volte Luce la aiutava anche con i lavori domestici per chiacchierare e passare la giornata insieme. Sebbe-ne mia madre non prese mai un pennello in mano, le piaceva commen-tare l’arte e molte volte mi fermavo ad ascoltare quei discorsi pensando che ero proprio fortunato. Sì, lo ero, lo ero eccome. Decisi così di chiudere il mio demone dentro una scatola metallica, si-gillarla in un angolo, isolarlo da qualsiasi cosa e tornare a splendere come prima del viaggio a Palma. Lavoravo con il sorriso sulle labbra, leggevo svariati libri per distrarmi e tornai a vedermi con i miei miglio-ri amici Marco e Billy. «Non l’hai tradita, coglione che non sei altro» disse Billy una sera nella piazzetta del paese. Lui era limpido come l’aria e con la stessa traspa-renza mi trasmetteva il suo parere. Senza filtri né censure. Aveva ragio-ne, ma non avrei mai detto niente. «Luce dice a tutti che sei uno stronzo e che sei morto per lei e per la sua famiglia. Che sei un ingrato e che rivuole tutte le cose che ha a casa tua». Io annuivo e poi guardavo Mar-co, che intanto mi studiava. Marco era un infermiere e l’idea che fosse lui a prendersi cura di me mi fece ridere, era talmente ironica come co-sa che stavo sorridendo e nemmeno me ne ero accorto.

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«So che è arrabbiata, ma non posso fare nulla». «Ma che ti è preso? Direi che a noi puoi dire quello che ti frulla in quel-la testa, no?». Billy voleva capire, ma non sarebbe arrivato a nulla. «Se non ne vuole parlare lasciamolo perdere Billy, magari ha i suoi tempi». Marco mi offrì una birra, facendomi capire che era solidale con me, anche se avevo fatto una cavolata. Billy si arrese e cambiammo di-scorso, chiudendo con altre mandate quel demone che voleva uscire a tutti i costi. Però mi resi conto che non avrei avuto tutta la vita per stare con i miei due migliori amici, per vivere con loro qualche esperienza indimenticabile, per rimanergli nella memoria, anche quando non ci fossi stato più, anche quando di me sarebbe rimasto solo un mucchietto di cenere. Billy non aveva iniziato ancora a lavorare, ma aveva deciso con il pa-dre, boscaiolo come il mio, di andare con lui all’inizio di dicembre. Mi venne un’idea, che proposi a loro due una domenica a pranzo a casa mia. «Andiamocene tre giorni fuori, da qualche parte» proposi io, con anco-ra un boccone in bocca. «Quando? Io fra due settimane devo andare a lavorare con mio padre o quello mi prende a calci e mi butta fuori di casa» domandò tra il serio e lo scherzoso Billy. «Io posso prendere qualche giorno». Marco era peggio di me nel fare certe cose, era quello che mi seguiva prima di tutti. «Se facessimo questo fine settimana?» Decidemmo di partire con la macchina del padre di Marco, una Nissan spaziosa, comoda da guidare e con ancora il profumo di nuovo. Milano era la nostra meta, a ben cinque ore di macchina. Era venerdì mattina presto, io mi sentivo bene, e un sole timido irradiava la valle che vede-vo dalla mia camera da letto. Due suoni di clacson e scesi con gli oc-chiali da sole e il borsone della palestra pieno di camicie, pantaloni, ro-ba per il bagno, altra robaccia varia e il pranzo al sacco preparato sia da mia mamma, sia da quella di Billy, e anche da quella di Marco. Sem-brava che dovessimo partire per un mese alla ricerca di una vita miglio-re. Salutai i miei e partimmo. Il viaggio andò tranquillo, si parlò delle solite cose, di calcio, di politica, dell’uomo che aveva massacrato tutta la famiglia per l’eredità. Ogni tanto vedevo al mio fianco il mio demone

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e il suo orologio, ma ero troppo deciso a godermi questi giorni per dare retta alle sue provocazioni. Arrivati a Firenze, dopo circa tre ore di macchina, ci fermammo per una sosta. Loro erano spensierati, non potevano immaginare che sarebbe stato il nostro ultimo viaggio insieme, e io li guardavo, sentendo l’amore fraterno che provavo per quei due ragazzi. Per un secondo, una frazione di secondo, pensai che era il momento di dire tutta la verità, di aprirmi e buttare fuori ogni cosa, di spingermi oltre il burrone e provare a non cadere. Poi sentii la paura di rovinare, di mostrare anche a loro il demone che stavo cercando di scacciare in tutte le maniere possibili e tornai sui miei passi. Prenotammo a Milano un albergo di poco conto nei pressi di un quartie-re a pochi chilometri dal centro, proprio sopra una stazione della metro. Una sola camera per tutti e tre sarebbe bastata e avanzata. Quando arri-vammo era già pomeriggio inoltrato, ci facemmo una doccia e ci prepa-rammo per una serata all’insegna della musica e del divertimento. Poco prima di uscire mi guardai di nuovo allo specchio ed ero ancora bello, ero ancora in forma e non avevo nessun segno né sintomo della malatti-a. Potevo divertirmi alla grande ed essere come tutti gli altri. Non vede-vo più il demone vicino a me e non lo sentivo ridere. Mi sentivo strano, rinato, un benessere superfluo, contagioso e impostore. Mangiammo in un piccolo ristorantino e poi andammo dritti a piazza Duomo. La città era stupenda, con le luci chiare dei negozi e la sua cattedrale gotica fie-ra e imperiosa. Chiedemmo a qualche ragazzo di passaggio, che ci indi-cò la strada dove si trovavano la maggior parte dei locali e tra questi scegliemmo quello meno caro e con più donne. Marco e Billy erano single, esattamente come me, ed erano più che intenzionati a non anda-re in bianco. Era partita anche una scommessa in macchina, per chi ci sarebbe riuscito prima. Il locale Strabiliant era scuro, molto grande e molto spazioso. La gente ballava, si divertiva. Per un secondo tornai con la mente a Palma, a quella scena, a quel buco sul braccio, e sentii un conato di vomito sa-lirmi in gola. Respirai profondamente e, quando Marco mi trascinò in mezzo alla sala con Billy, tornai al presente e al benessere di quel mo-mento. Bevvi qualche cocktail e, non avendo toccato praticamente al-cool da Palma, sentii subito di essere brillo, come lo erano anche i miei due amici e probabilmente la maggior parte della gente che si trovava all’interno. La musica era eccezionale e io mi ci persi, ballando come

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uno scatenato, sudando, fregandomene di tutto e di tutti. Una donna si avvicinò, mi aveva puntato chissà da quanto. Era formosa e bionda, non troppo alta e molto truccata. Non era propriamente vestita, dato che portava un vestitino corto e tacchi alti. Forse era stata lasciata dal ra-gazzo e voleva scacciare il chiodo con un altro chiodo o forse per altri motivi del tutto irrilevanti. «Sei sposato?» domandò, dopo un po’ che ballavamo vicini. Aveva un forte accento straniero. «Cosa?». «Sei sposato?». «No, sono single». «Sei italiano?». «Che domanda è?». «Questa è una festa Erasmus. Io e le mie amiche siamo americane, stu-diamo qui a Milano. Tu che fai qua?». «Sono con i miei amici. Non siamo studenti e io sono un vigile del fuo-co». «What?». «FIRE-MAN!». «Oh… wow». Poi lei guardò Marco e Billy, sorrise e fece cenno di aggregarsi ad altre sue amiche, probabilmente “socievoli” quanto lei. Erano tutte carine e tutte sfoggiavano il loro corpo, i loro lunghi capelli, muovendosi con un drink in mano a ritmo della musica. Si presentarono tutte, praticamente gridando i propri nomi e io non ne capii nemmeno uno. Nessuno di noi tre capiva bene quello che dicevano, il nostro inglese era pessimo, ma il linguaggio del corpo è universale. Loro erano molto più ubriache di noi e si vedeva dai loro atteggiamenti troppo spinti nei confronti nostri e dei nostri corpi, dalle foto che scattavano con mosse strane del momen-to e sorrisi smorti. Due ore dopo, stavo baciando con quella che mi aveva approcciato all’inizio, Caroline, in uno dei bagni della discoteca. Non ero ubriaco e stavo gestendo bene la situazione. Lei si era rivelata una ragazza molto spinta. Forse capii che era la loro ultima serata in Italia e volevano esa-gerare un pochino. Ci strusciavamo sulla parete del bagno che strana-mente non puzzava di urina, ma di disinfettante. All’inizio ero delicato con il suo corpo, ma era palese che lei volesse ben altro. Fine anteprima.Continua...