"TRINACRIME - Storia di un pentito di mafia", di Alessandro Vizzino

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Catania, quartiere San Cristoforo, inizio anni Settanta. Tonio è figlio di un calzolaio, per questo lo chiamano lu Scarparu. Già da bambino è un ribelle poco interessato alla scuola e più attirato dai piccoli furti. La spavalderia e la voglia di libertà lo portano a lasciare Catania per fuggire a Milano. Lì viene iniziato alle rapine e sperimenta il primo carcere. Ritornato a Catania agisce con la sua banda, mettendo a segno diversi colpi che lo pongono in buona luce presso i boss locali. Inizia così la sua attività per la famigghia Purtaventi-Santimarra: estorsioni, intimidazioni e rapine che gli fanno guadagnare soldi, tanti soldi. Tonio trova l’amore, costruisce la sua famiglia, mentre a Catania e in Sicilia scorre il sangue delle guerre tra clan rivali. Con gli anni Novanta la sua ascesa criminale si ferma: prima con la latitanza, poi con l’arresto e il carcere. E infine la decisione di pentirsi. Oggi Tonio ha pagato il suo debito con la giustizia. Questo romanzo è una storia vera.

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Alessandro Vizzino

TrinacrimeStoria di un pentito di mafia

Imprimatur editore

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Prefazione

Questo romanzo è tratto da una storia vera, ed è frut-to di un’intervista durata sette giorni per una trentina d’ore di registrazione audio in presa diretta.

La maggior parte degli eventi narrati in questo li-bro è realmente accaduta, nei luoghi, nei modi e nei tempi descritti, come si può riscontrare in tante pagi-ne di provvedimenti e sentenze che ormai costituisco-no giurisprudenza e storia contemporanea.

I nomi e i cognomi, invece, li ho dovuti in gran parte inventare o modificare, benché si riferiscano a situazioni reali e persone effettivamente esistite o esi-stenti: fra queste, Tonio Sgreda.

Colui che continuerò anche qui a chiamare Tonio, porta in realtà un nome e un cognome differenti.

È un uomo che ha sbagliato, non v’è dubbio, ed è un uomo che ha pagato, anche se probabilmente in misura minore di quanto avrebbe dovuto.

A ogni modo, è di certo un uomo il cui cuore è cam-biato, pentito nel profondo di un passato in parte volu-to e in altra parte delineato dal destino, da una nascita segnata, dal dolore generato dalla perdita dell’affetto più caro, dal territorio e dalla sua cultura del tempo.

Per la legge quest’uomo, Tonio, ha comunque pagato.

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Lo stesso uomo che mi ha raccontato la sua vita in ciascun piccolo dettaglio, spogliandosi di ogni pu-dore e chiedendomi di raccontarla a mia volta attra-verso quest’opera, ma domandandomi di mantenere nascosta la sua vera identità. Non si tratta di pruden-za, né del timore di ritorsioni o vendette. Si tratta di una difesa dal giudizio della società e della gente che la compone, dalla visione che le persone che oggi lo circondano all’interno di un’esistenza normale, nel lavoro e negli affetti, potrebbero avere di lui nel cono-scere il suo trascorso e chi fosse prima di diventare ciò che è adesso: un uomo libero in tutto e per tutto, dalla galera e nel cuore. Un uomo che ogni mattina deve fare i conti con il rimorso e il pentimento, ma che vuol farlo soltanto con se stesso, rivendicando un diritto alla vita, almeno a una vita nuova, che il giudizio su-perficiale e la facile condanna non permetterebbero.

Se l’essere umano può riuscire a perdonare indivi-dualmente, la società non sa farlo. Mai. Neppure per chi ha già pagato, verso i giudici, verso il popolo e verso Dio.

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A nonna AnnaA Vito e Anna Lucia

A Nino Domingo, mio zio

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Prologo

Il cielo piangeva pioggia cadenzata, ritmo rarefatto che risaliva i battiti del cuore.

Le gocce affioravano sul parabrezza come cerchi di bocche affamate dietro vetri di ristorante, con la va-cua speranza di riuscire a entrare; davano l’idea d’ag-grapparsi, di voler resistere allo scivolio, alla gravità che ne assottigliava le forme e ne affievoliva il vigore, che le spingeva verso il basso fino ad annullare ogni loro individualità, riducendole in pozzanghera.

Evitò di girarsi.Osservò dallo specchietto retrovisore ciò che la not-

te mostrava oltre il lunotto.Sentì due anime staccarsi, la sua e quella dell’uomo

che ancora bruciava nel mezzo di colori avernali, fra colonne di fumo nero e fuoco denso come pasta di mandorle.

Poi la testa si abbassò, sconfitta.Cielo e cuore piangevano, a ritmo rarefatto.

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Parte prima

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Capitolo primoAmbarabà cicì cocò

1972

Il sole picchiava, ma non faceva male.Rimbalzava su corpi e occhi abituati ai suoi raggi,

al suo calore.Il sole arido di un fine maggio siciliano, dispotico

al punto d’indurre all’oblio persino lo scirocco, così cocente per chi non ne viveva quotidianamente gli umori e così fraterno per chi di quella terra era invece parte: uomini, mare e fichidindia.

Lo stesso astro di cui tutta la Sicilia era figlia, cre-atore e modellatore di quel grosso triangolo insulare accostato a una strana penisola a forma di stivale, due elementi talmente vicini fra loro da non potersi igno-rare e, nel medesimo tempo, così distanti da riporre l’isola a tre punte in un angolo, come un pezzo di ma-nufatto mal riuscito.

Tonio e Aspanuzzo erano frammenti di quella ter-ra; ne respiravano l’aria, ne annusavano ogni giorno gli odori, come tutti coloro che sul suolo di Trinacria erano nati, vissuti e v’erano magari già stati sepolti.

Non era il sole il nemico da affrontare. Il sole era padre, il cui schiaffo, per quanto sentito, appare alla lunga una dolce carezza.

Il nemico aveva un volto e un nome ben distinti. Si riusciva a scrutarne i lineamenti ogni volta che lo

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stomaco brontolava, che il corpo richiedeva con pre-potenza un sostegno in gran parte mancante. Il nome del vero avversario era fame.

La scuola era ormai giunta ai suoi giorni d’epilogo.I due amici frequentavano la seconda elementare,

nonostante gli undici anni di Tonio, bocciato tre volte in prima, e i nove di Gaspare, detto Aspanuzzo, de-gno compare dell’altro. Frequentare non era però il ter-mine più adatto, visto che il grosso delle mattinate lo trascorrevano tra strade e vicoli di Catania, e non sui banchi di un’aula che agli occhi d’entrambi appariva triste e inutile.

Se a undici anni la vita non può ancora esser com-presa, se ne possono tuttavia intuire da lontano le fat-tezze. Scrivere, leggere e far di conto non sembravano cose necessarie a ciò che quell’angolo di terra aveva in serbo per loro. Non solo non erano cose necessarie, erano del tutto insignificanti. La fame non si poteva combattere scrivendo o leggendo, nemmeno facen-do due più due, almeno a San Cristoforo, almeno per gente come loro. Molto meglio un paio di tarocchi succosi e un trancio di formaggio di pecora, quando si aveva la fortuna di averne.

Su via Fortino Vecchio le case basse, a due o tre piani, concedevano un po’ d’ombra e di ristoro. I due avanzavano sull’asfalto screziato di crepe, l’uno al fianco dell’altro, pantaloncini corti e magliettine a ri-ghe che coprivano a stento gambe e braccia appunti-te, ossute, del colore del bronzo. In spalla due sacche prive di libri, merende e comune ambizione.

«Me ne torno â casa. Ni viremu1 chiù tardi â campa-gna» disse il più grande dei due.

1. Ci vediamo

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«Andiamo ’nsieme o ni viremu ddà?»«Â campagna, Aspanù».Sul lato destro della strada, da un alimentari gran-

de quanto una singola stanza, sbucarono una mam-ma e un bambino, più o meno della loro età. Grem-biule ancora indosso e zainetto al seguito, il piccolo era appena uscito da scuola e si stava gustando un meritato spuntino.

Tonio fu un fulmine.«Amunì, Aspanù!» urlò al compare, mentre già cor-

reva a più non posso in direzione della preda.Aspanuzzo rimase fermo e un po’ indeciso sul da

farsi. Poi capì e scattò anche lui, ma dalla parte opposta.Tonio arrivò di lato al bambino e con un movimen-

to asciutto della mano gli sottrasse l’arancino di boc-ca, senza disperderne neanche una briciola. Quindi si dileguò con la stessa velocità con cui si muovono i falchi in caccia.

Un pasto ghiotto, per il momento, se l’era garanti-to. Lo divorò come uno sciacallo su una carcassa.

Un po’ di sugo gli colorò il mento, mentre i denti scavavano il riso alla ricerca di carne e piselli, splen-dide perle all’interno dell’ostrica. Gli arancini, assie-me al sole, erano una delle cose più belle che la vita potesse offrire.

La bottega era un malandato garage senza insegna al piano terra della vecchia palazzina popolare, pro-prio sotto l’appartamento che divideva con Lucia e i suoi sette figli.

Damiano sedeva su una delle due sedie di paglia, dietro il suo zoppicante banchetto da lavoro. Un arma-dietto di legno usurato e cinque ripiani su cui tenere le scarpe erano ciò che completava l’arredamento del lo-

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cale. Con quattro chiodi appoggiati fra le labbra, stava sistemando l’ennesimo tacco della giornata e della vita.

Era quasi ora di pranzo. Per capirlo non serviva orologio, era sufficiente percepire gli odori di cucina provenienti dalle case del vicinato.

La signora Martusi era appena andata via, dopo aver lasciato un po’ di lavoro settimanale, un paio di stivaletti invernali non più utili per la stagione in cor-so e due paia di zoccoletti che pretendevano invece assoluta priorità.

Da tempo immemorabile, forse da sempre, Damia-no era per tutti lu Scarparu; anche durante la sua vita precedente, prima di perdere Concetta, di sposar-si con Lucia e di cambiare quartiere, precipitando a San Cristoforo. Lì molti neanche sapevano il suo vero nome, e talvolta lui stesso faceva fatica a ricordarlo. Era nato calzolaio e quello aveva sempre fatto, gli sa-rebbe stato impossibile immaginarsi con una diversa identità, in un’altra veste, quasi che un uomo nasces-se con un incarico preciso e con quello fosse destinato a congedarsi dal mondo. A ogni modo, ormai lo cono-scevano tutti a San Cristoforo; non chiedeva molto e il risultato era quasi sempre perfetto, e ciò bastava a procurargli commesse in numero utile a tirare avanti alla bell’e meglio la propria carretta.

Tonio entrò nel momento i cui lu Scarparu stava ri-ponendo la calzatura appena riparata.

«Ciau papà».Damiano lo guardò torvo.«Che c’è?» domandò il giovane, accorgendosi subi-

to dell’occhiataccia dell’altro.«Che c’è? M’addumanni pure che c’è? Unn’isti stamatina?2»

2. Mi chiedi pure che c’è? Dove sei stato stamattina?

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«A scuola».Sul viso di Tonio precipitò un ceffone che gli fece

piegare la testa.«Â scola isti, veru?»Tonio non rispose. Si limitò a guardare suo padre,

dal basso verso l’alto, tenendosi con la mano la guan-cia colpita.

«’A maestra Pinna mi fice chiamare stamatina, for-se ppi ’a centesima vota. Ci promisi che â scola ci an-davi, ch’avresti migghiurato».

«Papà, ma picchì a’jiri3 â scola? Tu c’isti quann’eri picciriddu4? A che è servito?»

Damiano avvertì dentro di sé un’acida mescolanza di rabbia e di sconforto. Con Tonio stava perdendo, non gli stava per nulla riuscendo ciò che era stato in grado di fare con gli altri suoi figli.

«Ti piace o ’un ti piace, a scuola ci a’jiri. Non t’addu-mannavi se vuoi o ’un vuoi, devi farlo e basta, è chiaru?»

«Picchì?»«Picchì, picchì… megghio tampasiari, ’un fare

niente, come un vagabondo?»Tonio infilò una mano in tasca. Vi tirò fuori un in-

volto di carta che porse a suo padre.«Cos’è?» chiese l’uomo.«Lo sarbai ppi tia. So che ti piace».Damiano svolse l’involucro e si trovò davanti agli

occhi il resto di un arancino.«E chisto unni lo pigghiasti?»«Me lo dette Aspanuzzo, lo portai ppi tia».Lu Scarparu guardò una seconda volta il pezzo d’a-

rancino, poi di nuovo suo figlio. Comprese che quello

3. Devo andare4. Piccolo, bambino

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era il modo in cui il giovane stava cercando di spiegar-gli che non andava in giro a far niente, a perdere tempo.

«Da domani ti porto io â scola».«Ma papà… e ’a putìa5?»«L’apro cchiù tardi».«Ma ’un puoi… va bene, vado a scuola».«No, Tonio. Non mi fido cchiù. Da domani ti porto

io. E ora acchianamo a manciari6».Con l’arancino incartato in una mano e nell’altra il

polso di suo figlio, Damiano lasciò la bottega e s’in-camminò verso il portone di casa.

A Lucia non mancavano abilità e fantasia in cucina, doti essenziali per trasformare tre pomodori, un po’ di pasta e tre quarti di gallina in un pranzo sufficiente per una famiglia larga come la loro.

Non era una persona né cattiva né buona, per To-nio lei era semplicemente Lucia, nuova sposa di suo padre. Una donna con qualche inevitabile difetto e parecchi pregi, offuscati però dalla memoria di una madre persa prima del tempo e quasi non conosciuta, catturata da una sorte che si era arrogata il diritto di portarla via per sempre e di costringere così suo pa-dre a un’esistenza diversa. E questo Tonio, al destino, non l’avrebbe mai perdonato. Lui era forse l’unico, tra fratelli e sorelle di primo letto, a non aver mai meta-bolizzato del tutto quella nuova figura, a non essersi mai sentito disposto, in cuor proprio, a considerare il rinnovamento delle stagioni come un elemento ine-luttabile della vita e, con esso, anche il cambiamento delle persone e degli affetti. Non che i suoi familiari

5. Bottega6. E adesso saliamo a mangiare.

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avessero rimosso il ricordo di mamma Concetta, nes-suno si era mai permesso di ritenere Lucia una sosti-tuzione. Avevano tuttavia accettato un nuovo grem-bo, un rinnovato anfratto di focolare in cui rifugiarsi e al quale aggrapparsi in qualsiasi momento, soprattut-to in quelli più difficili. Tonio invece no, continuava a vedere in lei una sorta d’estranea ben nota, una specie di lontana zia piombata all’improvviso nelle loro vite, approfittando di un posto rimasto vacante. E da tale visione delle cose scaturivano spesso incomprensio-ni, litigi e reciproci affronti.

Alfio quel giorno non era presente al pranzo, come in tutti i giorni feriali, impegnato nei suoi turni in fab-brica. Era il fratello più grande, il terzo pilastro della famiglia insieme a Lucia e a papà Damiano. Gli altri, invece, c’erano tutti.

Damiano aveva avuto con Lucia gli ultimi due fi-gli, Nunzio e Benedetta, chiamata da tutti Nittuzza, mentre gli altri cinque, due femmine e tre maschi, fra cui Tonio e Alfio, erano stati un regalo della bellissima Concetta, prima che lasciasse il suo posto nel mon-do a trentadue anni, a causa di una banale iniezione d’antibiotico eseguita però con un ago infetto.

Poco dopo la fine del pasto Damiano si avvicinò a Lucia, già indaffarata a lavare i piatti e le pentole usate, la cinse da dietro e le sussurrò qualcosa all’orecchio.

«So che sei arrabbiata».«Non sono arrabbiata, sugnu scunfurtata7».«Ci dissi già che da domani matina ce lo porto io

â scola».«’Unn’è giustu, Mianu».8

7. Sono delusa8. Non è giusto, Damiano.

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«Cos’avutro aviss’a fari?»9

«Lo sai, n’avemo già parlato cento vote».«Ci vogghio dare ’n’autra possibbilità, l’ultima».«Non serve proprio a niente. Megghio che lo manna-

mo subito ’n collegio. Ci riparlai con Maddalena e…»«L’ultima vota. E se ’un serve, allora se ne va in

collegio».«Hai ’a testa cchiù dura d’un mulo!»«È mè figghio, e ci vogghio dare ’n’autra occasione».«’Unn’è solo figghio to. O io ’un cunto cchiù niente

ccà rintra?»«Certu, non volevo dire che… è figghio nostro…

ma…»«Fa’ come ti pare, ma è l’ultima vota. Sugnu stanca

d’iddu e di chiddo che fa».«È l’ultima, te lo prometto».Le poggiò le labbra sulla guancia, in un bacio de-

licato e sincero, prima di tornare alla sua bottega di calzolaio.

Quando si voltò, gli occhi di Damiano incrociarono quelli di Tonio che, in piedi poco dietro di loro, aveva sicuramente ascoltato una parte della conversazione, forse addirittura tutta. Damiano mosse verso l’uscio di casa stretto dall’angoscia.

Tonio rimarcò a se stesso di non essere figlio di Lu-cia, perché, se lo fosse stato, lei non avrebbe preso una decisione del genere, non era quella la maniera in cui trattava Nunzio e Nittuzza, unica sua vera pro-le. Ma ciò contava davvero poco, l’unica cosa certa era che, tra scuola e collegio, lui si trovava all’interno di una morsa, all’imbocco di un bivio con due sole strade possibili.

9. Cos’altro dovrei fare?

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Con il sole per sentinella e le scarpe piene di sabbia arrivò alla campagna. Quella che i carusi del suo grup-po chiamavano così non era altro che una distesa di cardi rinsecchiti, che si alternavano con discreta co-stanza a ispide piante di ficodindia.

Poco più in là, la casa di un fattore che di quel cam-po, ammesso fosse suo, non sapeva evidentemente cosa farsene, dato che lo lasciava incolto e incustodi-to, area di gioco di quei ragazzi che quasi ogni giorno passavano i propri pomeriggi lì.

«Tonio, allestiti10, che c’è chiddo novo!» gli urlò da lontano Aspanuzzo, appena lo vide apparire.

Chiddo novo, il nuovo arrivato, come l’aveva defini-to il compare, era un tizio della Catania per bene capi-tato tra loro per chissà quale ragione, trasportato nel gruppo da altri che ne avevano assicurato l’affidabili-tà. Aveva tredici anni, un po’ più grande di loro, ma a giudizio di Tonio, che l’aveva conosciuto di sfuggita il pomeriggio precedente, era uno di quelli che della vita non avevano capito un granché e che di polvere da mangiare ne avevano ancora parecchia.

Tonio giunse davanti ai propri compagni e si fermò di fronte alla recluta.

«Ciau» gli fece l’altro, abbastanza intimidito.Tonio non rispose al saluto e si girò dalla parte di

Peppe, vale a dire chi fra loro aveva maggiormente garantito per il novizio.

«Sei sicuro?» domandò.«Sicuro» ribadì Peppe.«Nome» intimò Tonio, spostando di nuovo lo sguardo.Il novellino, in un primo istante, non capì.

10. Muoviti

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«Ué, arruspigghiati!11 Hai un nome? Come minchia ti chiami?»

«Vanni» arrivò a comprendere l’altro.Tonio gli mollò una sberla che gli scosse la faccia.Quella era la maniera più semplice per accertare

due cose: innanzitutto l’orgoglio del ragazzo, il suo livello di reazione, e in secondo luogo, per quanto in contrapposizione con il primo aspetto, la sua capacità di controllo e d’accettazione della gerarchia.

La migliore risposta auspicabile era la volontà di vendetta e violenza, sedata però dal riconoscimento dell’altrui autorità.

La matricola, al contrario, reagì subendo passiva-mente lo schiaffo e quasi abbandonandosi al pianto.

«Io a chisto ccà non lo vogghio» sentenziò Tonio.«E io dico che è bono. Decidiamo tutti ’nsieme» ri-

batté Peppe.«Decide ’u cuteddo12, invece. Se usa bene ’u cuted-

do, il resto poi si vede. Sempre se lo vuole ’sto sceccu chianciune13. Testa ’i minchia, tu che dici? Ora mi sai dire ’u to nome intero?»

La recluta trovò la forza di replicare come tutti si aspettavano facesse.

«Mi chiamo Giovanni Valdese, ma mi dicono Van-ni. Passamo ô cuteddo, sugnu pronto».

Il coltello era un’arte vera e propria, la mescolan-za perfetta tra vocazione e tecnica, fra estro e metodo. Qualcosa da effettuare attraverso l’uso delle mani e del cervello, ma grazie all’ispirazione illuminante del cuore.

Peppe iniziò a occuparsi dell’addestramento di Vanni, mentre gli altri in parte osservavano e in parte

11. Ehi, sveglia!12. Il coltello13. Asino piagnucolante

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si facevano gli affari propri, in attesa che si giungesse alla prova finale, di lì a poco.

«Pigghialo ’n mano» ordinò l’insegnante.L’allievo eseguì, impugnando il coltello come se

dovesse tagliarci una fettina di vitello.«No, no! Dammillo, ti faccio vedere. Si pigghia ac-

cussì. Solo ’a parte finale rû manico nnâ fossa dû puso e ’a lama ammucciata nnê irita, ccû puseri dritto14. Vedi?»

Vanni fece segno di sì.«Bene. Accussì l’ai’a tèniri. Quanno corpisci tiri fora ’a

lama, poi torna ô so posto. Tutto ccu’n solo movimento, in un seconno, ci vuole puso. Tagghia e torna. Capisti?»15

«Lo capivi».«Allora amuninni ddà».Si spostarono davanti a una pianta di ficodindia.«Ora corpisci tre vote, tre tagghi secchi nta’sta fog-

ghia16. Ppi longo o ppi largo, come vuoi. E ’un pig-ghiare le spine. Sei pronto?»

«Pronto» si fece coraggio Vanni.Partì il primo assalto. Il ragazzo strinse i denti per

riuscire a proseguire, finché il secondo attacco non lo costrinse a sospendere l’azione, con la mano cosparsa d’invisibili spine appuntite.

Non si diede per vinto e continuarono un bel po’, benché a un certo punto dovette cambiare mano, per-ché la destra era inutilizzabile. Verso sera, dopo mille tentativi e imprecazioni, l’esame fu superato.

Ora mancava la seconda verifica: vedere se Vanni

14. Solo la parte finale del manico nella fossa del polso e la lama nascosta fra le dita, col pollice dritto.15. Bene. Così devi tenerlo. Quando colpisci tiri fuori la lama, poi ritor-na al suo posto. Tutto in un unico movimento, in un secondo, ci vuole polso. Taglia e torna. Hai capito?16. Su questa foglia

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Valdese era pure capace di rubare qualcosa senza far-si beccare.

Per quello, però, ci sarebbe stato il pomeriggio successivo.

Era tempo d’andare, il risveglio dell’indomani avrebbe recapitato a Tonio una prova molto più ar-dua da vincere.

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Capitolo secondoLa cura

2013

Franco Battiato cantava la sua Cura, costretto nello spa-zio di una piccola autoradio d’ultima generazione, men-tre l’Audi Q7 grigio metallizzato consumava chilometri sull’A3 da Reggio Calabria a Salerno, da poco varcato il confine della Campania e alla volta di Campobasso.

Emiliano Cosentino, affermato avvocato catanese, si pas-sò le mani tra i folti capelli argentei, che facevano pendant con la carrozzeria della sua vettura.

Si ritrovò a canticchiare insieme a Battiato e a pensa-re che Catania, in fondo, non l’avrebbe mai abbandonato, avrebbe fatto sentire la propria presenza in ogni tempo e spazio, se anche nei pressi di Sala Consilina e in un po-meriggio come quello la sorte affiancava al suo viaggio la voce del cantautore di Riposto, quasi un monito a ricordare sempre quali fossero la sua terra e le sue origini.

Erano passati tanti anni da quando lavorava gomito a gomito con Sebastiano Magnini, sostituto procuratore della Repubblica alla Direzione distrettuale antimafia della città etnea. Tanti anni dalla fine del 1998 e dei processi Ariete e Ariete II, e dal successivo passaggio di Magnini dalla Procu-ra della Repubblica alla sezione civile della Corte d’appello di Catania. Tanti anni dalla propria decisione d’uscire dai ran-ghi della magistratura, per ritirarsi a fare l’avvocato civilista.

Perché poi quella scelta?

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Per indigestione, per disgusto, per un’esigenza di com-prensione che fino a quel tempo si era manifestata soltanto in superficie e in merito a tecnicismi giudiziari, e che in un secondo momento aveva rivendicato con prepotenza un posto nelle sfere più intime del suo animo. Una necessità del cuore e della mente, che via via, stagione dopo stagione, aveva ingigantito la sua furia come una valanga rotolante, sino a divenire, in ultimo, un bisogno indomabile che non concedeva ulteriori procrastinazioni.

Per tale motivo aveva rintracciato dopo tanti anni Tonio Sgreda e gli aveva chiesto, qualche settimana prima, una giornata d’incontro e di racconti. Per questa ragione il muso della sua Q7 si stava muovendo in direzione di Campobasso.

Nessun’indagine da compiere, nessun articolo da scri-vere, nessuna velleità che andasse al di là del desiderio di consapevolezza.

Tonio aveva accettato di buon grado l’idea, lieto di ri-vederlo.

Per molto tempo i loro occhi si erano incrociati. Quelli di Sgreda erano stati occhi diversi, acuminati, che sotto il velo di un azzurro intenso come un colpo di pistola nascondeva-no la tristezza di un bambino e la trasparenza di un uomo alla fine ritrovato.

Ci prendiamo la vita così come ci arriva, come un gio-cattolo senza istruzioni, rischiando di romperne un pezzo prima di capire come si monta. E per Tonio quel pezzo si era rotto, tanti anni prima.

Arrivò sulla tangenziale ovest di Campobasso intorno alle cinque del pomeriggio, imboccò via Garibaldi e di lì a poco raggiunse la destinazione finale.

Spense l’auto e si mosse a piedi verso Tonio, che lo sta-va aspettando sulla soglia del cancello d’ingresso da alcuni minuti.

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Nei secondi iniziali nessuno disse niente, entrambi inca-paci di trovare parole idonee e distanti da un saluto di mera circostanza.

Poi, d’un tratto, Tonio l’avvinghiò in un abbraccio virile quanto inatteso.

Emiliano ricambiò la stretta, e dopo un primissimo mo-mento d’imbarazzo ne fu perfino felice.

«È bello rivederla, dottor Cosentino».«È bello rivedere anche te, Tonio. Ma dammi del tu, per

te non sono più il dottor Cosentino».«D’accordo… ehm…»«Emiliano».«Emiliano, certo».«Come stai?»«Sto bene, sono sereno. E molto lo devo a lei… ehm, a te…»«Lo devi solo a te stesso e a un destino che alla fine si è

ricordato di te».«Forse. Ehi, ma che facciamo qui, al cancello? Andiamo

dentro, sarai stanco del viaggio».Si sedettero in cucina, intorno al tavolo da pranzo.«Non c’è nessuno in casa?» domandò Cosentino.«No. Mara è fuori, al lavoro. Siamo soli».«La tua nuova compagna? Mara, dico».«Sì, la mia nuova donna. Splendida donna».Tonio preparò il caffè, mentre Emiliano, rimasto fermo al

proprio posto, osservava i movimenti dell’altro e l’ambiente circostante.

«Allora?» disse Tonio, voltandosi con due tazzine fu-manti tra le mani. «Non hai nulla da tirar fuori, fogli, pen-ne, computer?»

«No».«Quando mi hai chiesto di vederci, ho pensato fossi di-

ventato un giornalista, uno scrittore, non so…»«Nulla di tutto questo».

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«E perché, allora?»«Hai forse cambiato idea?»«Per niente. Mi piacerebbe capire il perché, tutto qua.

Ma non è importante, lascia stare».«Ho passato più di vent’anni in procura, e più di dieci

a occuparmi di mafia. In una provincia come Catania, per giunta. Ho visto di tutto, ho sentito di tutto. Però ora mi rendo conto che non sentivo davvero, ascoltavo con l’orec-chio del magistrato e non con quello dell’uomo. E adesso che la mia professione è un’altra, abbastanza lontano da tutto lo schifo combattuto in quegli anni, il mio udito e il mio animo pretendono verità differenti, un’altra storia».

«O un’altra maniera d’ascoltarla».«È così».«E perché proprio io, fra tanti?»Emiliano ci pensò su qualche istante, prima di rispon-

dere.«Perché nei tuoi occhi, già allora, vibrava una luce di-

versa, vera».Anche Tonio subì alcuni attimi d’esitazione.«A ogni modo, è solo per me. A favore soltanto della mia

comprensione, magari di una nostra amicizia. Non devo farci altro con la tua storia, te lo garantisco».

«E a me fa bene raccontartela. Mi fa piacere. Iniziamo, allora. Da dove si parte?»

«Dal principio, da te bambino».Tonio Sgreda abbassò gli occhi sulla tazzina e sul suo

contenuto, scuro come gli anni che si apprestava a ripercor-rere, scavando nel mezzo di ferite ancora aperte, dolorose, per quanto in fase di lenta cicatrizzazione.

Anche Emiliano fece lo stesso.Quindi, alla voce di Tonio, rialzò il capo.«Ho perso mia madre quando avevo poco meno di due anni,

non la ricordo neppure. Poi mio padre si è risposato con un’al-

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tra donna, Lucia, e siamo andati a vivere a San Cristoforo…»Così, sguardo nello sguardo, i due uomini intrapresero

il loro cammino, insinuandosi tre le pieghe della vita di To-nio Sgreda, mafioso pluriomicida, uno dei personaggi più poliedrici della cosca Purtaventi-Santimarra, l’uomo dagli occhi di ghiaccio che davanti a quegli stessi occhi tanta gen-te aveva visto tremare, soffrire e morire.

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