trecase

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© 2013 Enrico Minasso, fotografie© 2013 Ernesto Lampugnani, testo© 2013 Giovanni Medolago, testo© 2013 Roberta Brugnone, progetto grafico

Grazie a Giuseppina e Gabriele.

La copertina di questo volume è stata stampata su carta Multi Art Silk da 350 grammi, l’interno su carta Multi Art Silk da 200 grammi.

© AlcionEdizioni | novembre 201338015 Lavis (Tn) - via G. Galilei, 47+39 0461 1742028

Tutti i diritti riservatiISBN

TRCASENRICOMINASSO

E

RE-PLAY.

È con vero piacere che a distanza di molti anni di silenzio, grazie a un uomo illuminato, sono stato richiamato per riprendere pubblica-mente le mie teorie sull’arte, dopo il mio allontanamento dal circolo dei militanti critici.Mi limiterò brevemente a illustrarvi le cause della mia emarginazio-ne, accantonando per un momento il commento sulle fotografie dell’amico Enrico Minasso, che mi vorrà scusare.Questi sacerdoti mi allontanarono dalla loro casta a causa della mia convinzione che non c’era in loro e tuttora non c’è identità tra «guardare» e «conoscere».L’osservazione è banale e scontata, ma questa categoria di «uo-mini vedenti non vedenti» continua nel tempo ad ingrossarsi nono-stante i loro studi specialistci e mirati.

Riconosco invece che Minasso nelle sue foto evita il rischio di al-lontanare il «significante» dal suo vero «contenuto», confermando le mie convinzioni.

Tutto il resto è opinione.

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COMPLICARE È FACILE, SEMPLIFICARE È DIFFICILE.

«Bisogna sempre sfrondare», raccomandava Charlie Chaplin, pa-radossalmente sempre serissimo quando parlava del suo lavoro, che viceversa suscitava risate nel mondo intero. Certo, lui parlava di cinema, dunque di immagini in movimento. Ma niente e nessuno ha impedito a Enrico Minasso - che pur si occupa di fotografia, e dunque di immagini fisse - di raccogliere la raccomandazione del grande Charlot.Dopo aver indagato ampi spazi nel suo volume Stromboli (cosa c’è di più «aperto» di un’isola?), Minasso si rinchiude adesso nelle «Tre Case». Non solo: restringe le sue inquadrature sino a compren-dere pochi, pochissimi oggetti. Logico quindi parlare di minimali-smo, concetto che tuttavia Minasso declina secondo un suo per-sonalissimo stile. È lontano ad esempio dall’iraniano Hossein Zare, che sovente cede alle lusinghe del colore, cosa che Enrico non farebbe mai nemmeno sotto tortura («Colore …colore …Ma vuoi mettere un bel bianco e nero profondo e croccante!») e neppu-re si può accostarlo a Kevin Saint Grey, il quale è spesso attratto dagli infiniti panorami e dai maestosi grattacieli della sua Califor-nia. Il minimalismo di Minasso sembra piuttosto rievocare la lezione dell’astrattismo geometrico caro a Mondrian e Malevich, secondo i quali il mezzo espressivo fondamentale è la linea e la forma ideale è il rettangolo (che, sia pur di poco, è il formato delle immagini

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di questo volume). Per essere ancora più precisi, potremmo parlare di neoplasticismo, forma estrema dell’astrattismo geometrico: «Nella poetica neoplastica è estetico il puro atto costruttivo: combinare una verticale e una orizzontale oppure due colori elementari è già costru-zione» (Giulio Carlo Argan).Soddisfatto l’insopprimibile - quanto talvolta deprecabile! - bisogno dei critici di restringere tutto in definizioni e scovare per forza delle ascen-denze, concentriamoci adesso sul volume che avete tra le mani.Il primo motivo d’interesse è che le immagini di Minasso non ci per-mettono certo una «lettura» convenzionale, bensì ci spingono/co-stringono a una personale, soggettiva interpretazione: partendo dal-la tensione tra materiali e forme e dalla loro sistemazione nello spazio, ognuno è libero sia di immaginare quanto sta al di fuori dell’inqua-dratura, sia di cercare simmetrie, assonanze visive, giochi di forme e di contrasti. In questo contesto, possiamo addirittura azzardare che Minasso, offrendo le fotografie di «Tre Case» allo spettatore, spinga quest’ultimo a fondere due concetti cardini espressi da Roland Bar-thes nel suo saggio La camera chiara: lo studium, l’aspetto razionale che si manifesta quando il fruitore si pone delle domande sulle in-formazioni che la foto gli fornisce (come abbiamo appena detto); e il punctum, fattore emozionale che spinge lo spettatore a cogliere, anche del tutto irrazionalmente, un particolare dettaglio della foto.Studium: nella fotografia a pagina 14 la forma nera a sinistra può essere, di profilo, un altro Crocifisso simile a quello ben visibile e incon-fondibile che vediamo in basso a destra?

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Punctum: nella fotografia a pagina 16 il foglio con la scritta «subito» appena leggibile. Altre riflessioni più… minimaliste: se nella foto a pagina 17, Minasso riesce quasi a dare una tridimensionalità all’immagine, in altre oc-casioni sembra che il suo apparecchio fotografico sia animato da una misteriosa forza centrifuga che spinge gli oggetti quasi all’e-sterno dell’inquadratura: sensazione trasmessa da parecchie foto, ma soprattutto la foto a pagina 19, certo la più minimalista di tutte!La lampada e la presa elettrica (dalla quale la lampada non può prescindere) sono gli unici oggetti che ricorrono due volte: un omaggio alla Fotografia, ovvero all’Arte di scrivere con la luce? La Fotografia classica, però, quella che usa ancora la «vecchia» pelli-cola, cui Minasso resta fedelissimo, nota di merito non da poco in quest’era, ahinoi, di… digitalismo imperante e di - orrore - photo-shop. Di recente, un Maestro come Gianni Berengo Gardin ci ha confidato: «Fosse per me, il photoshop l’abolirei per legge!».Intriganti appaiono pure sia l’accostamento di forme geometriche, sia il loro gioco a rimpiattino: verso l’alto (pagina 20) o in diagonale (pagina18).Infine, se abbiamo parlato di bianco e nero, va pur sottolineato come sia il bianco, in parecchie sue sfumature, ad accaparrarsi la parte del leone! È un altro aspetto dell’assoluta libertà (d‘inquadra-tura, di composizione, di fantasia) che il fotografo si è concesso per l’occasione, lasciando a noi altrettanta libertà d’interpretazione.Enrico ha sfrondato, eccome, però cum grano salis.

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Un grande esperto di forme, luce, creatività e fantasia come Bruno Munari sarebbe entusiasta del suo lavoro. Nei suoi pensieri che leg-gete qui sotto, anzi, si colgono parecchi elogi che, per interposta persona, passiamo direttamente a Minasso: «Complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere tutto quello che si vuole: colori, forme, azioni, deco-razioni, personaggi, ambienti pieni di «cose». Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare. Per semplificare bisogna togliere, e per togliere bisogna sapere che cosa togliere, come fa lo scultore quando a colpi di scalpello toglie dal masso di pietra tutto quel materiale che c’è in più. Teoricamente ogni masso di pietra può avere al suo interno una scultura bellissima: come si fa a sapere dove ci si deve fermare nel togliere, senza rovinare la scul-tura? Togliere invece che aggiungere vuol dire riconoscere l’anima delle cose e comunicarla nella sua essenzialità. Questo processo porta fuori dal tempo e dalle mode. La semplificazione è il segno dell’intelligenza. Come afferma un antico detto cinese: «Quello che non si può dire in poche parole, non si può dire neanche in molte».

Giovanni Medolago, Lugano, ottobre 2013

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Enrico Minasso, è fotografo professionista.Predilige l’uso della pellicola

e la tecnica del foro stenopeico,ovvero l’utilizzo di fotocamere artigianali senza obiettivo.

F ini to di stamparenel mese di novembre 2013

da L i tot ipografia Alcione, Lavis (Tn).