Tre Uomini fanno una Tigre

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che questo libro può essere liberamente fotocopiato e/o riprodotto, anche parzialmente, con qualsiasi mezzo e liberamente diffuso, purché i contenuti risultino inalterati rispetto a quelli di questo originale ed a condizione che la divulgazione avvenga in modo completamente gratuito.

In ogni caso, vige il solo obbligo di citazione della fonte.

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Presente Revisione: 15.03.2012

(Prima Edizione: Giugno 2010)

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Indice

Capitolo Pag. Link Saluto ai Lettori 5 VAI 

I Il disegno vittoriano di spartizione della Cina 7 VAI 

II Prove documentali 11 VAI 

III La libertà e la legge in Cina 19 VAI

IV Lo XiZang Zu Zizhi Qu, o ”Tibet” 24 VAI

V E’ sempre la verità? 28 VAI

VI Il lamaismo 31 VAI

VII Il Dalai Lama 38 VAI

VIII I fatti di Lhasa, 14 Marzo 2008 48 VAI

IX La violenza compassionevole 57 VAI

X Shoko Asahara e il Dalai “Lhamo” 71 VAI

XI Ipocrisia d’Occidente 73 VAI

XII Due pesi e due misure 75 VAI

XIII Storie di orrore nel Tibet lamaista 77 VAI

XIV Lo strano caso del Panchen Lama scomparso (con rettifica) 84 VAI

XV La “Democratica Costituzione” del Governo tibetano in esilio 93 VAI

XVI La reincarnazione quale mezzo per il mantenimento del potere 97 VAI

XVII Conclusioni 99 VAI

Appendice di approfondimento:  Sul presunto genocidio, ha ragione il Dalai o no?  107 VAI

Note per il lettore:

1. Questo testo è in continua evoluzione. Eventuali evidenziazioni in giallo indicano dati provvisori e/o non ancora verificati. L’autore si scusa altresì per la possibile presenza di refusi, essenzialmente dovuti a sviste per l’incessante necessità di rapidi aggiornamenti ed integrazioni ai quali questo lavoro è continuamente soggetto.

2. L’emissione di ogni nuova revisione sottintende l’annullamento di ogni revisione precedente. Le edizioni possono essere rettificate non solo per la correzione di refusi, ma anche perché contenenti imprecisioni o notizie che successivamente si sono rivelate errate. Anche questa revisione, quindi, potrà essere oggetto di successivo annullamento.

3. Per qualsiasi comunicazione, scrivere a: texadebooks[at]gmail.com

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SSaalluuttoo aaii LLeettttoorrii Cari Lettori,

voglio innanzitutto raccomandarvi la lettura delle note a piè di pagina, in quanto sono fondamentali per la corretta comprensione. So che spesso vengono trascurate, ma credetemi che stavolta non è davvero il caso di farlo.

Il Tibet ed i tibetani, sono davvero vittime dell’oppressione cinese? Per quanto è

realmente accaduto, si può legittimamente sostenere che sia stata un’invasione o si tratta solo di un falso storico ben congegnato? Quest’opera cerca di analizzare le realtà storiche su tale argomento, per dare una risposta alla domanda.

Premetto che i contenuti di questo lavoro sono tutti documentati. Nulla è stato

riportato in questo libro la cui origine non sia conosciuta, reperibile e di pubblico dominio. E’ inoltre consigliabile, durante la lettura, avere a portata di mano un computer connesso ad internet, datosi che quasi tutte le fonti citate sono disponibili in rete.

Questo libro, infatti, non si arroga il diritto di aver scoperto alcunché. In questo

lavoro, sono state semplicemente raccolte delle informazioni che già da molto tempo erano pubbliche e disponibili, ma di non semplice reperimento, in quanto sino ad oggi erano state diffuse in modo estemporaneo e certamente disomogeneo, senza un vero e proprio filo che le collegasse in maniera strutturata.

Non si tratta di dimostrare la verità. Bensì, per il diritto alla completezza dell’informazione che spetta a ciascuno di noi, si tratta solo di fare conoscere altre facce di un problema, specie quelle che non sono mai state raccontate o che sono state trascurate. Dopo aver letto questo reportage, sarete in possesso di una gamma di informazioni più ampia e, quindi, dovreste essere in grado di farvi un’opinione, se non diversa, quantomeno più consapevole.

La “vera verità”, infatti, è quasi sempre un’utopia, più spesso è solo una fede. E’ per

questo che nel nostro mondo esistono pochissime verità oggettive, forse addirittura nessuna. Persino nelle scienze, ci sono tanti esempi dove la stessa medesima teoria può avere, secondo l’abilità di chi la espone, interpretazioni diverse e persino opposte.

Il fatto indiscutibile, è che tra una parte dei tibetani e la Repubblica Popolare Cinese,

ci sia un conflitto. Quando c’è un conflitto, si guerreggia. Quando si guerreggia, si usano le armi. Quelle della propaganda ingannevole, della mistificazione e della falsificazione storica, sono armi molto potenti e tutti, nessuno escluso, ne hanno sempre fatto uso. Ogni persona intelligente, questo, lo sa molto bene.

Per cui, nei limiti del mio possibile, ho voluto raccogliere e mettere a disposizione

elementi alternativi, ulteriori, anche impensabili. E’ giusto che le opinioni siano diverse - perché senza opinioni diverse c’è stasi e non c’è progresso - ma è doveroso che quelle opinioni, seppur differenti, si formino consultando la più ampia gamma di informazioni possibile, per evitare di scadere nella becera ed ottusa ignoranza della faziosità monoculare, dell’una o dell’altra parte.

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Riconosco di non essere riuscito a restare del tutto imparziale nell’analisi, spesso

impedito dalla sconvolgente evidenza dei fatti. Tanto è vero che questa ricerca è intrisa di commenti ed opinioni personali. Tutto quello che dovrete fare, quindi, è saper distinguere tra l’opinabilità delle mie considerazioni e l’incontrovertibilità del fatto storico.

Il lamaismo (o buddismo tibetano), in generale, viene presentato come icona della non

violenza e devo ammettere che io stesso, prima di cimentarmi nella stesura di questo lavoro, lo credevo fermamente, al punto da essere assolutamente scettico verso l’ipotesi, comunque già circolante, che i Lama non fossero esattamente delle vittime innocenti. Poi, di fronte a certe inquietanti cronache, ho voluto documentarmi, conoscendo delle cose che mi sono sentito assolutamente in dovere di scrivere, semmai qualcuno le leggerà in futuro.

l’Autore

da sinistra:

Lhamo Döndrub (14° Dalai Lama) e Mao Ze Dong

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CCAAPPIITTOOLLOO II

IILL DDIISSEEGGNNOO VVIITTTTOORRIIAANNOO DDII SSPPAARRTTIIZZIIOONNEE DDEELLLLAA CCIINNAA

Prima di avventurarsi in qualsiasi tipo di considerazione, è bene essere

consapevoli del fatto che se la risoluzione della causa “Tibet indipendente” fosse, per assurdo, affidata alla decisione di un tribunale che valutasse solo sulla base di prove e di documenti, evitando di tenere in alcuna considerazione, come ogni tribunale deve fare, le mere deduzioni e le opinioni personali delle parti in contesa, la sentenza sarebbe una sola: il Tibet è cinese.

Le prove documentali ed i fatti storici accertati a sostegno del fatto che il Tibet

appartenga alla Cina da tempi lunghissimi, sono talmente attendibili che ogni opposizione, posta allo stesso livello e sullo stesso piano, risulterebbe soccombente.

Dunque, se mai esista un diritto all’indipendenza del Tibet, questo certamente non

sta nelle presunte prove storiche della sua indipendenza, perché non ce ne sono, come avremo modo di dimostrare meglio nel prosieguo. Semmai, la motivazione del diritto all’autonomia andrebbe ricercata in fattori ben più seri e cioè, fondamentalmente, nell’eventuale esistenza di un sentimento popolare che fosse proprio della stragrande maggioranza dei tibetani e non invece esclusivo dell’aristocrazia spodestata, del clero lamaista spogliato dei suoi privilegi e dei loro, più o meno in buona fede, simpatizzanti.

Il grave sospetto – che giorno dopo giorno mi diventa certezza – è che la causa

del Tibet libero non sia altro che una maestosa messinscena, fondamentalmente priva di motivazioni storiche ed umanitarie, orchestrata dalle potenze occidentali che se ne servono tutt’ora per perseguire un progetto che ha come fine la divisione della Cina e non certamente quello di liberare il popolo tibetano dall’ipotizzata oppressione del presunto invasore cinese.

Il progetto di divisione della Cina, difatti, non nasce con l’avvento del comunismo,

tutt’altro. E’ cosa ben più vecchia: si tratta del piano imperialista britannico vittoriano, susseguente alla sconfitta cinese nelle guerre dell’oppio1. Disegno ordito a metà del XIX secolo e parzialmente realizzato con i cosiddetti “trattati iniqui”, per primo quello di Nanchino del 18422.

Pensare che il disegno a questi “geni” gli era quasi riuscito: in trentotto anni di

pseudo-governo (1911-1949), il Guo Ming Dang aveva ridotto la Cina da maestoso impero a miserabile favela. L’inflazione aveva raggiunto livelli inimmaginabili: per comprare pochi viveri, la gente doveva andare in giro con sporte piene di banconote pressoché senza valore. Nel frattempo, i mercenari Jun Fa, grazie essenzialmente all’abulia del governo centrale nazionalista di Nanjing (Nanchino) che non esercitava (forse per connivenza?) il proprio legittimo potere, avevano di fatto spezzettato la nazione in una serie di staterelli, pronti per essere consegnati nelle mani di chiunque fosse stato interessato ad acquistarli per quattro soldi.

Il piano stava davvero per essere portato a compimento sul finire degli anni ’40 e

mancavano solo pochi passi ancora. Ma, ad un tratto, ecco l’imprevisto che ruppe le uova nel paniere…

1 Vedi: http://it.wikipedia.org/wiki/Guerre_dell'oppio 2 Vedi: http://it.wikipedia.org/wiki/Trattato_di_Nanchino

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L’esercito di Mao conquistò il paese nel 1949, eliminò le divisioni interne e gettò le basi – non senza la perpetrazione di altre violenze – per quella che sarebbe poi divenuta la nazione economicamente più potente del globo: dall’essere un paese miserabile che possedeva solo carta straccia o poco più, alla Cina di oggi che è proprietaria di una percentuale spaventosa di buoni di stato del tesoro USA.

Però, la rivoluzione maoista che portò alla vittoria dell’esercito popolare di

liberazione e che fece della Cina l’ennesimo paese comunista nello scacchiere mondiale, già abbondantemente farcito da Unione Sovietica e relativi stati satelliti, impensierì molto l’occidente, che vide in tutto ciò l’aggravarsi di una minaccia che già considerava estremamente seria.

Tuttavia, per il consenso popolare che aveva avuto l’esercito comunista, i “geni” di

cui sopra si resero conto immediatamente che, a quel punto, smembrare la Cina per spartirsela non sarebbe stato affatto semplice. Le condizioni favorevoli, auspicate ai tempi della regina Vittoria, erano improvvisamente sfumate e fu altresì evidente che la questione non poteva essere risolta con la forza.

Serviva allora uno stratagemma, un espediente attraverso il quale raggiungere

comunque lo scopo vittoriano, meglio se con il pieno consenso della propria opinione pubblica: l’Europa e gli USA erano appena usciti dalla tragedia della seconda guerra mondiale e la loro gente, di sicuro, non avrebbe accettato un altro grande conflitto dopo così poco tempo.

L’astuzia e la perizia di organizzazioni tremendamente efficienti come la CIA,

portarono ben presto all’individuazione di una breccia attraverso la quale tentare una penetrazione.

Quella breccia era il Tibet e le condizioni c’erano tutte: amministrazione e potere

temporale di fatto autonomi perché praticamente senza controllo da quasi due secoli; religiosità e superstizione inveterate; classe dominante teocratica 3 ed aristocratica appena spodestata e vogliosa di riprendersi il potere a tutti i costi; analfabetismo ed ignoranza diffusi nel popolo oltre ogni limite immaginabile; estrema difficoltà di reperimento delle prove storiche sul fatto che quel territorio fosse cinese; isolamento pressoché totale dal resto del mondo pressoché da sempre e quindi “buio pesto” sulla vera storia e sul vero stato sociale del Tibet. Sin da allora, questo è il quadro che ha consentito ai “geni” di raccontare sempre e solo quello che hanno voluto, con possibilità di essere smentiti praticamente uguale a zero. Tuttavia, i concertatori della sovversione impiegarono circa un decennio prima di poter passare all’azione.

Infatti, l’arrivo dell’esercito di Mao fu salutato con estremo entusiasmo persino dai

Lama e questo li spiazzò, rendendo tutto molto più difficile. Il neogoverno comunista di Pechino, che inizialmente mantenne inalterate le leggi tibetane, cominciò progressivamente a smantellarle, introducendo riforme che minarono alla radice l’assolutismo dell’aristocrazia tibetana, formata da nobili, religiosi e latifondisti.

Del contenuto di queste riforme ne parleremo per meglio più avanti. Sta di fatto

che queste innovazioni accrebbero ancor di più il consenso popolare. I Lama, nel tentativo di riparare a questo attacco frontale contro il loro potere assoluto, iniziarono (secondo il cliché collaudato di tutte le gradi religioni monoteiste) a dispensare anatemi, maledizioni e scomuniche contro tutti coloro che avessero seguito l’applicazione delle nuove leggi, ma fu tutto vano, perché la consapevolezza che potesse esistere un’altra realtà sociale oltre a quella retrograda e medioevale che il Tibet aveva vissuto sino ad allora, stava ormai avanzando inesorabilmente. 3 Da “teocrazia”, che a sua volta deriva dal greco theokratía, comp. di theós 'dio' e -kratía, connesso con kratêin 'dominare'. Forma di governo in cui il potere civile e politico è sottomesso al potere religioso, ossia all'autorità esercitata da una persona, una casta o un'istituzione che si ritiene ne sia stata investita da Dio.

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Giunse, quindi, il momento di passare alle maniere forti. La goccia che fece traboccare il vaso lamaista, arrivò nel 1958 quando Pechino dette l’ultima, tremenda, spallata alla teocrazia tibetana, abolendo la schiavitù, sino ad allora sancita per legge. La CIA (che aveva propri agenti in Tibet sin dal 1950) capì subito che la situazione stava sfuggendo di mano e che non c’era più tempo da perdere. Il perché è lampante: il sistema sociale lamaista si reggeva su una struttura piramidale alla cui base c’erano gli schiavi ed i servi. Abolire la servitù e la schiavitù significò minare la società teocratica alle fondamenta. Ecco perché i Lama, i nobili ed i proprietari terrieri si ribellarono solo nel 1959 e non durante i dieci anni prima.

Immediatamente, fu scatenato un conflitto contro l’esercito cinese. I ribelli

tibetani erano tutti appartenenti a fazioni fedeli alla nobiltà ed al clero, alcuni di essi addestrati in Colorado a spese della CIA, ai quali furono uniti, assoldandoli appositamente, i guerrieri mercenari della tribù Khampa per carenza di soldati. Non cì fu, infatti, quella sollevazione popolare che la CIA auspicava, non tanto perché il popolo tibetano parteggiasse per Mao, quanto perché la condizione di analfabetismo imperante che perdurava da sempre, non consentì alla gente comune di capire neppure quello che stava realmente accadendo.

Il resto è storia nota. Il conflitto si risolse con la sanguinosa disfatta dei ribelli, i

cui superstiti ripararono in India insieme all’aristocrazia ed ai relativi entourage, per un totale, si dice, di circa novantamila individui. La CIA, che temeva attentati alla vita del Dalai da parte della popolazione inferocita, lo convinse e lo aiutò a fuggire anch’egli in India. Subito dopo, iniziò la propaganda: i morti del conflitto scatenato dalla CIA e “benedetto” dal Dalai Lama furono spacciati per martiri delle persecuzioni religiose attuate dall’oppressione cinese e la fuga spontanea in India fu venduta all’opinione pubblica mondiale come esilio imposto anziché volontario. Ecco fatto.

Con l’appoggio dei già moderni media di allora e del cinema, ma soprattutto

contando sul fatto che la neonata Cina comunista non possedeva ancora alcun mezzo adeguato per contraddire ed opporsi efficacemente alle campagne mediatiche occidentali, si iniziò così a diffondere una delle falsificazioni storiche più sfacciate del nostro tempo. A favore di tale menzogna, giocò (e gioca tuttora) un ruolo determinante il fatto che nella cultura media occidentale, il comunismo equivale al male. Grazie a ciò, fu estremamente facile costruire, senza alcuna preoccupazione di smentita, grossolane falsità storiche come le persecuzioni religiose ed il genocidio.

Infatti, il comunismo sino ad allora conosciuto dagli occidentali era quello sovietico

e quindi i paralleli non destarono il minimo sospetto, anzi. Si credette ad occhi chiusi alle persecuzioni religiose, alle deportazioni ed allo sterminio dell’etnia tibetana, non perché ciò fosse davvero accaduto, ma solo perché era plausibile, visto che qualcosa di simile era davvero successo nell’URSS. Bastò affibbiare alla Cina il bollo di “stato comunista” a far sì che l’opinione pubblica occidentale parteggiasse per i tibetani in esilio (volontario) senza sospettare nulla, credendo addirittura che si trattasse di gente comune, di poveri profughi in fuga.

Se, invece, l’opinione pubblica mondiale avesse saputo del Ping Fa4 e di come le

sue strategie guidino da sempre l’azione militare cinese, imponendo il rispetto totale del nemico vinto e la preservazione della sua identità culturale quale presupposto essenziale per il mantenimento del dominio, forse il giochetto mistificatore non sarebbe riuscito. Se l’opinione pubblica avesse saputo che la Cina non ha mai compiuto guerre espansionistiche a danno di paesi confinanti negli ultimi millecinquecento anni, probabilmente tali fandonie non avrebbero trovato siffatto credito.

4 Vedi: http://www.storiain.net/arret/num147/artic6.asp

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Questa, in breve, la genesi della favola del Tibet occupato e della propaganda anti-cinese che la cavalca da oltre mezzo secolo, propaganda che tutti continuiamo a vederci propinare spudoratamente, ancora oggi, esattamente come allora.

Poliziotti cinesi che si travestono da Lama?

Immediatamente dopo gli eventi di Lhasa del Marzo 2008 (vedi Capitolo VIII), questa foto ha fatto il giro del mondo, spacciata come “prova” del fatto che la polizia cinese di Lhasa avrebbe travestito da Lama alcuni dei propri agenti affinché, così camuffati, potessero compiere le violenze che poi sono state ampiamente documentate dalle televisioni di tutto il mondo, per addossarne la colpa ai monaci. Si è detto, addirittura, che la foto fosse stata scattata via satellite dall’istituto britannico GCHQ.

Alcune osservazioni, peraltro superflue, sulla foto: 1) a Lhasa, sino a fine Marzo del 2008 le temperature sono state estremamente rigide, per cui è improbabile che con un tale clima la gente indossasse semplici camicie; 2) non è un’inquadratura dal satellite, perché è fisicamente impossibile che abbia quell’angolazione; 3) non esiste che un’operazione segreta della polizia cinese venga messa in atto nel bel mezzo della strada principale, sotto gli occhi di tutti; 4) i Taxi a pedali, a Lhasa come in tutto il resto della Cina, sono veicoli ufficiali con targa e licenza. Nel 2005 i loro tettucci sono stati rinnovati e sono come si vedono in quest’altra foto qui a sinistra, scattata da turisti occidentali a Lhasa, appunto nel 2005. Quindi, è proprio l’innocente taxi, ritratto alle spalle dei poliziotti, che taglia la testa al toro, datando la foto, fuor da ogni dubbio, ad un periodo antecedente di almeno tre anni ai fatti del 14 Marzo 2008. Infatti, la foto risale al periodo 2001/2002 ed è stata tratta dall’archivio di una produzione

cinematografica. In quella occasione, a Lhasa, si stavano girando gli esterni del film “The Touch” di Peter Pau ed i poliziotti dovettero prendere il posto, come figuranti, dei veri Lama che si erano rifiutati di girare quella scena per disaccordo sul trattamento economico. Viene da ridere, ma non c’è davvero limite alla faccia tosta di certe persone, che oltretutto insultano pesantemente l’intelligenza della gente, ritenendola incapace di scoprire la verità. Si vedano i seguenti link: Wikipedia: http://en.wikipedia.org/wiki/Michel_Collon#cite_note-1 Los Angeles Times: http://articles.latimes.com/2008/apr/30/world/fg-monks30

((IINNDDIICCEE))

tratta da http://www.travelblog.org

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CCAAPPIITTOOLLOO IIII

PPRROOVVEE DDOOCCUUMMEENNTTAALLII Quanto state per vedere e leggere, non è il frutto di un artificio o di un’opinione di

parte, bensì è quanto normalmente si reperisce non solo nelle biblioteche, ma anche in rete, approfondendo la geografia storica della Cina.

Ecco come alcune mappe ufficiali riportano i confini dell’impero cinese, dal 1200 ai

giorni nostri, cioè più o meno durante l’ultimo millennio. In queste cartine, il Tibet (ovvero, la zona che più meno corrisponde alle aree cerchiate di rosso) risulta essere sempre stato parte della Cina.

L’impero cinese all’epoca della dinastia Yuan (1271-1368) Tratta da: http://en.wikipedia.org

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L’impero cinese all’epoca della dinastia Ming (1368-1644) Tratta da: http://en.wikipedia.org/wiki/Ming_dynasty

L’appartenenza del Tibet alla Cina durante la dinastia Ming è controversa. A prova del sì, sta il fatto che il primo Dalai Lama sia stato nominato proprio dall’imperatore Long Qing per mano del locale governatore Altan Khan, oltre a molti altri documenti che riguarderebbero la nomina di ufficiali dell’esercito e del governo imperiale cinese, di stanza nel Tibet di quel periodo storico, nonché la mappa di Padre Matteo Ricci che trovate qui di seguito. La parte che invece sostiene il contrario, ha sinora basato le proprie argomentazioni essenzialmente su deduzioni, ma senza il conforto di alcuna prova documentale di pari valore.

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La Cina all’epoca dell’impero della dinastia Qing e nel periodo post-rivoluzionario del Guo Ming Dang che le subentrò (1644-1949)

Tratta da: http://depts.washington.edu/chinaciv/1xarqing.htm

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J.H. Colton, Colton’s Illustrated Cabinet Atlas, New York, 1858

Tratta da https://www.oldworldauctions.com/Auction086/ow-asia.htm

Tegg, The London Encyclopedia, London, 1833 Tratta da https://www.oldworldauctions.com/Auction086/ow-asia.htm

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Edward Stanford, London, 1924

Tratta da http://www.shapero.com/gbp/53876

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L’impero cinese in epoca Ming (1602) secondo Padre Matteo Ricci

Nelle prime edizioni di questo reportage, eravamo incappati in un grave errore di individuazione. Padre Matteo Ricci, nel 1600, non poteva ovviamente disporre di vedute “aeree” e quindi ha redatto la mappa avendo più o meno intuito la posizione del Tibet, che comunque appare molto più a nordovest di quanto non sia realmente, anche se ciò non toglie assolutamente nulla alla straordinarietà dell’opera. La cartina cita chiaramente il Tibet, nel punto indicato dalla freccia rossa, dove l’antico nome “Wu Si Zang” appare evidenziato nella lente d’ingrandimento (nostra modifica). La colorazione giallo-chiaro del territorio ne conferma altresì l’appartenenza all’impero Ming, datosi che il gesuita, come possiamo ben osservare, ha dipinto ogni regno di colore diverso.

“Wu Si Zang” come appare scritto sulla mappa, in cinese antico (o tradizionale).

“Wu Si Zang” scritto in cinese moderno (o semplificato). Peraltro è solo il primo ideogramma a differire dalla scrittura tradizionale che, per il resto, è rimasta invariata.

A pagina seguente, trovate il planisfero completo dal quale è stata tratta la mappa di cui sopra. Ancora un sincero grazie al nostro lettore Arty che ce l’ha segnalata (Settembre 2010).

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Vista integrale del Planisfero di Padre Matteo Ricci, denominato: Carta Geografica Completa di tutti i Regni del Mondo la cui prima edizione risale al 1602. Tratta da: http://it.wikipedia.org/wiki/Matteo_Ricci

Padre Matteo Ricci 1552 - 1610

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La Cina moderna, dalla rivoluzione maoista (1949) ad oggi. Tratta da: http://depts.washington.edu/chinaciv/1xarprc1.htm

Questo è quanto ci dicono le mappe storiche super partes. Infatti, avrete notato

che nessuna di esse è edita dal Partito Comunista Cinese o dal Governo Tibetano in esilio volontario in India. Le ho volutamente ignorate, per evitare che potessero mettere in dubbio l’attendibilità di questa indagine.

Infatti, non è questo il problema: sono i fautori della causa “Tibet libero” che

battono continuamente la strada della geo-politica sostenendo, contro ogni prova storica degna di tale nome, che il Tibet fosse uno stato indipendente e che la Cina l’abbia “invaso”. Lo fanno perché il reperimento delle prove del contrario non è alla portata di chiunque e quindi confidano nell’ignoranza di massa, come al solito.

E’ ovvio, quindi, che la soluzione dell’enigma non può essere raggiunta usando lo

stesso parametro a rovescio, cioè riducendo il tutto alla facile dimostrazione del fatto che, come questi ed altri documenti ufficiali dimostrano, il suo territorio sia invece appartenuto alla Cina da tempi immemorabili.

Allora, perché mostrare queste cartine? Proprio per smantellare da subito queste

risibili argomentazioni e non tornarci più sopra. Non dobbiamo perdere tempo a discutere dell’indipendenza tibetana in base alla geografia storica, perché si tratta di una spudorata bugia. E’ una falsificazione creata ad arte per deviare l’attenzione dalle questioni vere, come meglio comprenderete in seguito, proseguendo nella lettura.

((IINNDDIICCEE))

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CCAAPPIITTOOLLOO IIIIII

LLAA LLIIBBEERRTTÀÀ EE LLAA LLEEGGGGEE IINN CCIINNAA

Parlare genericamente di libertà, senza darne una definizione precisa, espone alla possibilità di interpretazioni infinite, impedendoci di giungere ad una conclusione che sia soddisfacente, in ugual misura, per tutti. Il ventaglio è amplissimo: si va, infatti, dal libertarismo di Déjacque5, alla libertà kantiana influenzata dall’imprescindibile condizio-ne umana di essere prigionieri della legge di causa ed effetto.

La Cina è un paese dove vige un governo monocolore, che noi occidentali usiamo definire dittatoriale in senso biasimevole6. Se si pensa alla libertà, ad esempio, come diritto alla pluralità partitica ed al confronto tra diversi schieramenti politici, in Cina questo non c’è. Se si pensa, invece, alla libertà come possibilità di veder realizzate le proprie aspirazioni personali in senso professionale o imprenditoriale, la Cina è il paese dove queste libertà, attualmente, vengono concesse ed agevolate più che in ogni dove, in nome, si dice, dello sviluppo sociale e del benessere collettivo. Inoltre, in pochi sanno che, in Cina, i sindaci delle comunità agricole e dei piccoli centri - che rappresentano il grande substrato sociale - sono eletti direttamente dal popolo e non nominati dal partito.

In molti – praticamente in tutto l’Occidente – puntano il dito indice, molto spesso

sporco dei loro stessi escrementi, contro la “dittatura” cinese, accusandola di violare i diritti umani di base e di negare i più elementari benefici di libertà e di giustizia. Certamente, non si può impedire a nessuno di praticare il libero esercizio della propria opinione, ma, allo stesso modo, nessuno può impedirci di riflettere su tali affermazioni, sempre che si conosca il vero status della condizione sociale nella Cina odierna.

Dal momento in cui un governo consente alla gente ed agli imprenditori di

lavorare chiedendo solo il 25% di tasse; dal momento che mette a disposizione infrastrutture inimmaginabili; dal momento che alza il salario minimo del 12% medio annuo negli ultimi 6 anni; dal momento che i redditi inferiori sotto il minimo di legge e quelli dei contadini sono assolutamente esentasse; dal momento che garantisce, ininterrottamente da oltre 10 anni, la crescita del potere popolare d'acquisto dell'8% medio annuo; dal momento in cui ha ridotto dal 51% al 2,5% la popolazione sotto la soglia di povertà assoluta dal 1981 al 2010; beh, dal momento in cui esiste tutto questo io mi chiedo davvero di quale libertà e di quale giustizia stiamo parlando.

Indubbiamente, il regime che governa la Cina è veramente rigido ed ogni tipo

d’ingerenza politica esterna non è tollerata. In Cina, la libertà dell'individuo finisce laddove le sue azioni si rivelano, a giudizio delle autorità, “dannose per la collettività” o “destabilizzanti”. Tutto il resto, purché non costituisca altro reato comunemente inteso, è concesso. Pertanto, se si parte dal presupposto che la Cina non sia un paese libero a prescindere, solo per la caratteristica monocratica del regime che la dirige e senza prima chiarire a quale tipo di libertà si stia alludendo, nessuna considerazione sull'efficacia di questo sistema di governo sarebbe possibile e potremmo già chiudere il discorso qua.

5 Joseph Déjacque, poeta parigino anarchico-comunista (1821 - 1864), fondatore della teoria libertaria. 6 Il termine “Dittatura” deriva da “Dittatore” che, a sua volta, trova la propria radice etimologica nel verbo latino “Dictare” (come intensitivo di Dicere). Il “Dictator” romano era una figura dell’epoca della Repubblica. Si trattava di un funzionario che veniva eletto nei momenti di crisi ed al quale si conferivano pieni poteri. Era così nominato perché ciò che ordinava era legge. Ma anche quello che ordina qualsiasi governo, democratico o non che esso sia, è legge. Infatti, questa parola, nel tempo, ha assunto valenza dispregiativa non per il significato del termine in sé (che non ha nulla di dispregiativo), ma per gli errori, gli abusi e, spesso, le atrocità, commessi in virtù di tale condizione plenipotenziaria.

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E’ necessario, quindi, ripercorrere brevemente gli ultimi avvenimenti storici di rilievo, per capirne un po’ di più. Innanzitutto, voglio ricordare che le rivoluzioni cinesi di epoca moderna state due. La prima, fu quella cosiddetta “Xinhai”7, ovvero la rivoluzione repubblicana del 1911, figlia degli illuminati ideali repubblicani, democratici e sociali del Dott. Sun Zhong Shan8 che però, di fatto, non videro mai la luce, il che avviò il Guo Ming Dang9, successivamente capeggiato da Chiang Kai Shek, ad una fine vergognosa.

La seconda fu quella comunista, di Mao Ze Dong, che conosciamo meglio e che, invece, attinse a piene mani dagli ideali rivoluzionari di Sun molto più di quanto fece il Guo Ming Dang stesso, al punto che il PCC 10 considera il Dott. Sun, ancora oggi, il vero padre della Cina moderna e non affatto un nemico politico. La devozione che il Partito Comunista cinese, tutt’oggi, rivolge a Sun Zhong Shan (fondatore del Guo Ming Dang, cioè del partito nominalmente avversario del comunismo) è testimoniata dai continui pellegrinaggi – non solo della gente comune, ma anche di importanti funzionari di partito – al sontuoso mausoleo di Nanjing dove vengono conservate e venerate le sue spoglie. Benché progettato e realizzato nella seconda metà degli anni ’20, cioè in piena era Guo Ming Dang, il mausoleo non è stato nemmeno sfiorato dai

furori della rivoluzione culturale (1966-1976) ed è rimasto incrollabile luogo di culto e venerazione della memoria del grande Dott. Sun.

E’ in questo apparente ossimoro storico (ovvero, i comunisti che ossequiano la

memoria di un loro avversario anziché cancellarla) che troviamo un’importante chiave di lettura – forse la più importante – del fenomeno Cina. Se qualcuno volesse soffermarsi a rifletterci seriamente, comprenderebbe subito il perché dei meccanismi e dei percorsi attraverso i quali si è esplicata, dal 1949 ad oggi, la crescita economica e sociale di una nazione la cui rapidità ed efficacia di sviluppo non hanno eguali nella storia del mondo moderno.

Molti di noi, purtroppo, sono abituati a denigrare sempre i propri nemici,

soprattutto negando l’esistenza di certe buone azioni che abbiano potuto compiere. Troppo spesso, non si guarda alla giustezza delle cose fatte, ma al colore della loro matrice, perché si vuole avere sempre ragione per forza e perché si crede fermamente che infamare il nemico sia la strada migliore e l’unico modo per avere sempre ragione.

Quasi mai pensiamo, invece, a come dimostrare di aver ragione. Raramente ci

preoccupiamo di provare la validità dei nostri princìpi con le azioni, con i fatti, con l’innovazione, con l’impegno a costruire qualcosa di buono che parli per noi, preferendo la strada breve della maldicenza contro l’oppositore. Quelli che sono terrorizzati dal dover ammettere la validità del metodo nemico, o dal riconoscere che il nemico abbia fatto delle cose giuste, pensano da dissociati mentali perché temono che una simile ammissione possa andare a loro discapito. Quindi, cercano sempre la soluzione del beota: ottenere consensi non per i propri meriti oggettivi, ma puntando il dito (sporco di cacca, come anzidetto) su presunti difetti dell’antagonista. E’ una strategia di difesa istintiva, retaggio dell’età infantile e che, figlia di nessun raziocinio degno di tale nome, denota profonda ignoranza e assenza totale di maturità. Non a caso, è comunissima tra i bambini della scuola primaria.

7 Il 1911, anno della prima rivoluzione, è un anno “Xinhai”, cioè un anno speciale, nel periodo sessagenario del calendario tradizionale cinese, in quanto ultimo anno di uno dei cinque cicli intermedi di dodici anni. Si tratta della rivoluzione che culminò con la destituzione dell’ultimo imperatore Qin Pu Yi, come ricorderanno, ad esempio, quelli che hanno visto l’omonimo film di Bertolucci. 8 Meglio noto in occidente col nome cantonese di Sun Yat Sen. 9 Partito Nazionalista Cinese, fondato da Sun Zhong Shan e Song Jao Ren all’indomani della rivoluzione Xinhai. 10 Partito Comunista Cinese.

Dr. Sun Zhong Shan (Sun Yat Sen)

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Ad esempio, si condanna – peraltro giustamente – Benito Mussolini per quanto di male ha combinato e mai, invece, gli viene reso merito per le importantissime riforme sociali da lui introdotte, che ancora oggi sono un vanto del nostro paese e che sono state, non solo per l’Italia, le prime vere innovazioni sociali del secolo appena trascorso: l’istituzione degli enti di assicurazione e previdenza, gli assegni familiari, le quaranta ore di lavoro settimanali. Certamente, Mussolini si alleò poi con dei criminali diventando loro pari e causando sua culpa quanto successivamente accaduto, ma le cose giuste restano inconfutabilmente giuste, a prescindere.

Allo stesso modo, se riuscissimo a comprendere il perché i comunisti cinesi

possano agire in modo così apparentemente contraddittorio da venerare un nemico, si capirebbe che l’immagine negativa della Cina che viene percepita in occidente è, in gran parte, frutto di un strategia meramente propagandistica a fini politici, che mira a distogliere l’attenzione dalla verità, per rendere incomprensibile quello che, in realtà, è del tutto chiaro ed evidente: le cose buone, sono cose buone in assoluto, indipendentemente da chi le fa. Il famoso aforisma di Deng Xiao Ping (successore di Mao) è affatto eloquente in questo senso: «Non importa di che colore sia un gatto, purché riesca a cacciare i topi».

Dunque, Sun Zhong Shan nasce nel 1866 a Xiang Shan (come si chiamava

allora)11 e muore a Pechino nel 1925. Dalla rivoluzione Xinhai del 1911 e sino alla vittoria finale dell’esercito di Mao nel 1949, la Cina, di fatto, non ha mai avuto un governo centrale che potesse definirsi tale, essendo stata praticamente sempre in mano dei Jun Fa12.

A prescindere da qualsiasi opinione politica, è bene, quindi, non dimenticare che se la rivoluzione maoista non avesse avuto successo, sicuramente la Cina oggi non sarebbe la potenza economica che è, perché sarebbe stata sminuzzata in stati e staterelli, persino coloniali, o, comunque, sotto la forte influenza delle solite potenze straniere. In questa ottica, fa orrore pensare che la Cina ha corso il serio rischio di diventare una macelleria, un teatro costante di carneficine, ovvero un terreno fertilissimo, per certe forze economiche, dove fomentare odio in nome di quel bizzarro concetto di libertà da raggiungere solo mediante l’uso delle armi, che mira allo scatenamento di guerre ad uso e consumo dei soliti noti, facendo leva sulle incompatibilità culturali e non solo, che purtroppo ancora oggi esistono tra le genti di tutto il pianeta.

Questa potrebbe essere la vera ed unica ragione degli innumerevoli tentativi di ingerenza politica che la Cina Popolare ha dovuto fronteggiare e controbattere nei sessant’anni della sua esistenza.

11 Oggi si chiama Zhong Shan, proprio in onore del Dott. Sun Zhong Shan. E’ una città di oltre due milioni di abitanti, posta sul delta del fiume delle perle, nella provincia meridionale del Guangdong. 12 I Jun Fa o “Signori della Guerra”, erano militari o funzionari che, nel periodo Guo Ming Dang, capeggiavano piccoli eserciti solo formalmente dipendenti dal governo centrale, ma che in realtà erano assolutamente indipendenti, spesso mercenari. I Jun Fa si spartivano, di fatto, il controllo del territorio cinese, allora dissestato dalla guerra civile tra comunisti e repubblicani e, ancor più, martoriato dall’invasione militare giapponese.

La spartizione della Cina tra le potenze straniere durante il primo dei “trattati iniqui”, quello di Nanchino (1842), in una vignetta satirica francese dell’epoca.

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Infatti, il forte sospetto è che della libertà del popolo cinese dalla cosiddetta schiavitù comunista, non sia mai interessato (e non interessi assolutamente nulla) a nessuno, ma che il vero scopo della propaganda anti-cinese sia quanto di più truce si possa immaginare13.

Manifesti della Repubblica Popolare Cinese celebrativi dell’unità tra le cinquantasei etnie.

Tra l’altro, sarebbe abbastanza inverosimile che una nazione diventata, nei fatti, la prima potenza economica mondiale e che è riuscita ad innalzare il reddito medio dei propri cittadini in modo esponenziale in meno di un ventennio, riducendo praticamente a zero il numero degli indigenti, sia una nazione davvero schiavizzata da una feroce dittatura: dalle feroci dittature schiavizzanti, da che mondo è mondo, non è mai venuto alcun sviluppo, né alcun altro tipo di beneficio sociale.

13 Questa teoria, citata anche sul web, sostiene che sia in atto, sin da metà ‘800, un progetto di destabilizzazione della Cina al solo fine, più che verosimile, di dividerla e spartirne le risorse. Per i recenti avvenimenti storici circa lo smembramento dell'ex area d'influenza URSS, tale attività sovversiva oggi è chiamata “balcanizzazione della Cina”. Si vedano: http://pakalert.wordpress.com e http://www.cnj.it/documentazione/cina.htm#flou

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Diciamo, piuttosto, che la Cina era ed è un boccone appetitoso per tutti gli inte-ressati alle sue innumerevoli risorse naturali non sfruttate, all’enorme numero di abitanti e quindi di risorse umane, alla la vastità del territorio, cioè una preda allettante per gli interessi plutocratici e militari che governano, come ben sappiamo, pressoché l’intero mondo occidentale.

Invece, a dispetto di certi cospiratori occidentali, gli stessi che nel 1989 avrebbero

messo in scena la tragica pantomima di Tien An Men, facendola recitare da un manipolo di manipolati studenti inconsapevoli e, come tali, incolpevoli14, la Cina di oggi è ancora uno stato unito come ai tempi dell’impero della dinastia Qing (1644-1949). La Cina è un delicato mosaico, una serie innumerevole di complicatissimi meccanismi ad incastro tra culture e popoli, che vivono insieme più o meno pacificamente da oltre duemila anni, oggi amministrati da un sistema che ha il gravosissimo compito di garantire il necessario equilibrio tra le cinquantasei etnie e l’infinità di lingue e culture diverse che compongono questo continente, mediante leggi e regolamenti basati sul principio "One Peaceful China"15.

Cina: mappa dei Ceppi Etnolinguistici Tratta da: http://ninglundecember.files.wordpress.com

((IINNDDIICCEE))

14 Fuor di dubbio, la manifestazione di Tien An Men è stata un evento che non può non destare sospetti per il fatto di non avere avuto alcun consenso, né alcuna eco, tra il resto dei cinesi. Per quanto si sia trattato di un avvenimento che ha fatto inorridire il mondo per le violenze accadute, cronisti indipendenti sostengono (ed io, testimone diretto di quei giorni, concordo) che si sia trattato di un episodio assolutamente circoscritto alla sola piazza di Tien An Men a Pechino, isolato e fine a se stesso, senza seguito né riscontri di alcun genere, neanche minimi, né in altre zone di Pechino, né tra gli altri studenti di tutto il resto della Cina, nemmeno tra quelli di Shanghai e neppure tra quelli di Chong Qing, che è la città più popolosa del mondo con quasi quaranta milioni di abitanti. 15 “Una Cina in Pace”. Lo slogan evidenzia soprattutto l’unità nazionale. Il termine “peaceful” (pacifico, tranquillo, in pace) può curiosamente suonare anche come monito per chi nutrisse intenzioni separatiste.

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CCAAPPIITTOOLLOO IIVV

LLOO XXIIZZAANNGG ZZIIZZHHII QQUU,, OO ””TTIIBBEETT””

La precisazione storica che dobbiamo assolutamente fare prima ancora di addentrarci in ulteriori disquisizioni, è che in Tibet non c’è stata nessuna invasione cinese. Il termine “invasione” è assolutamente improprio. Non si è trattato di un’invasione, perché si parla di invasione quando uno stato ne invade un altro. Il Tibet, nel 1949, non era uno stato a sé, ma era parte della Cina. Quindi, se proprio vogliamo dare una definizione all’avvenimento, dobbiamo casomai dire che si sia trattato di un cambio della guardia.

L’ingresso in Tibet ed a Lhasa delle truppe di Mao Ze Dong fu assolutamente

pacifico, datosi che non c’era (perché non poteva esserci) alcuna ragione politica per la quale i tibetani avrebbero dovuto ribellarsi all’esercito della nazione alla quale appartenevano. Il conflitto di cui si parla sempre, infatti, fu la conseguenza di un’insurrezione “privata” avvenuta nel 1959, cioè dieci anni dopo.

Per capire meglio, partiamo dunque da un dato che non ha bisogno di

interpretazioni, né di dimostrazione alcuna, giacché è semplicemente storia: la regione dello XiZang Zizhi Qu (meglio conosciuta in occidente come Tibet) è sempre stata cinese, mongola o manciù, salvo due periodi assolutamente fugaci e assolutamente insignificanti dal punto di vista storico (1682-1720 e 1914-1949), come ha scritto nel suo libro persino Ilario Fiore, corrispondente della RAI da Pechino, anche se potremmo addirittura escludere il periodo 1914-1949.

Durante quei trentacinque anni, infatti, il Tibet è stato comunque parte della Cina

Repubblicana del Guo Ming Dang (dal 1911 al 1949). Quello che accadde, in verità, è che il Tibet, essendo stato, in quel periodo, una regione cinese a statuto speciale, godette di un’indipendenza meramente di fatto, nel senso che le autorità cinesi nazionaliste non interferirono nella gestione del paese, tollerando che l’esercizio del potere fosse nelle mani del clero lamaista e della nobiltà latifondista anche se, politicamente, il Tibet era, in tutto e per tutto, una provincia cinese.

Questa non è un’opinione, ma una certezza storica, confortata dalle cartine

geografiche dell’epoca che abbiamo visto all’inizio e dagli stessi Stati Uniti che riconoscevano il Tibet come parte del territorio cinese. Nel 1949, infatti, il Dipartimento di Stato Americano pubblicò un libro sulle relazioni USA-Cina con una mappa che mostrava tutta la Cina, Tibet compreso16.

Non solo. Durante il periodo della seconda guerra mondiale, era il governo della

R.O.C. 17 a Nanjing a rilasciare i permessi di sorvolo del Tibet agli aerei alleati. Notoriamente, il permesso al sorvolo di un territorio lo rilascia l’autorità alla quale quel territorio appartiene. Ad ulteriore riprova di questa asserzione, oltre alle già menzionate mappe, c’è la stessa Costituzione della R.O.C.. Nel documento, il Tibet viene citato cinque volte e, più precisamente, agli artt. 26, 64, 91 (due volte) e 120, come provincia del territorio cinese18.

16 Herbert Aptheker, 1977, "America Foreign Policy and The Cold War" (1962), Krauss Reprint Millwood, N.Y. 17 Republic Of China (Repubblica Cinese), quella del Guo Ming Dang, che subentrò alla dinastia Qing deposta, come abbiamo già visto, a seguito della rivoluzione Xinhai, nel 1911. 18 Vedi: http://www.taiwandocuments.org/constitution01.htm

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Quindi, benché il Tibet fosse assolutamente parte della Cina, sino al 1949 vi hanno signoreggiato indisturbati i Lama, i nobili ed i proprietari terrieri, forti del fatto che il Tibet fosse il distretto più remoto ed impervio dell’impero e verso il quale, sia l’ormai debole e degenerata monarchia Qing, sia l’altrettanto corrotto Guo Ming Dang, non avevano avuto la forza (e forse nemmeno l’interesse) di esercitare alcun controllo efficace. Ecco perché si dice che il Tibet fosse “indipendente”.

E’ stata questa situazione di apparente autonomia ad ingannare molti osservatori

del tempo, facendo loro supporre – talvolta, persino in buona fede – che il Tibet fosse uno stato a sé, ma un cane sciolto non è necessariamente un cane senza padrone. Poi, l’equivoco è stato cavalcato da chi ha avuto interesse a farlo, sino a creare la falsificazione storica alla quale tutti siamo stati indotti a credere, almeno sinora. Il Tibet, dunque, era solo una regione cinese autonoma e dimenticata, dove vigevano regole paragonabili a quelle del nostro più cupo medioevo.

Il Tibet è un territorio senza sbocco sul mare come il Kosovo e la Cecenia. Benché

conti una popolazione di poco più di tre milioni di abitanti contro il miliardo e mezzo dell'intera nazione cinese, occupa ben oltre il dieci percento del territorio della Cina19. Nella migliore delle ipotesi, se divenisse indipendente, il Tibet potrebbe diventare un protettorato straniero, come gli avvenimenti storici, presenti e pregressi, ci inducono, fortemente, a ritenere.

Una delle principali argomentazioni circolanti in Occidente, asserita da molti intellettuali, storici, sociologi, antropologi e giornalisti di grido, sulla condizione politica del Tibet post lamaista, in sintesi è la seguente: «… la riannessione del Tibet alla Cina e le riforme introdotte dai cinesi, hanno rappresentato un processo di modernizzazione violento e troppo veloce, che ha fatto perdere ai tibetani i punti di riferimento culturale ai quali si erano rapportati per secoli…». Certamente, resta da stabilire quali siano stati questi “punti di riferimento culturale” a cui ci si riferisce: forse la condizione di servitù e schiavitù, forse la rassegnazione ad essere imprigionati, accecati o mutilati secondo l’umore del padrone o del Lama di turno, o chissà che altro.

L’unica spiegazione plausibile a questa convinzione occidentale – salvo non

dubitare fortemente dell’onestà e della buona fede di chi la sostiene – è che questo concetto vada invece letto in modo simile alla storia di quel gorilla che, obbligato dalla nascita in una gabbia di due metri quadri, non sopravvisse più di tre giorni dopo essere stato liberato nella vastità nella giungla. Quindi, l'indipendenza politica di un popolo, è davvero condizione essenziale per la preservazione delle peculiarità culturali ed etniche che ogni popolo possiede?

Se fosse davvero impossibile che un popolo possa mantenere la propria identità

culturale senza essere politicamente indipendente, allora perché non applicare lo stesso principio agli indigeni australiani che sono australiani da quasi cinquantamila anni, ai nativi americani che sono americani da oltre dodicimila anni, ai Paesi Baschi, all'Irlanda del Nord e alla Corsica, alla Palestina occupata, ma anche all’Alto Adige, a tutto il nord leghista italiano, alla Sardegna, al Granducato di Toscana, al movimento indipendentista siciliano e via dicendo?

Per due ragioni: la prima, quella vera, è che la Cina, sino dal 1800, è nel mirino

delle grandi potenze occidentali per essere destabilizzata e smembrata. Un eventuale riconoscimento dell’indipendenza politica degli aborigeni australiani o degli altoatesini italiani non porterebbe nessun beneficio ai plutocrati d’occidente, mentre l’indipendenza del Tibet, con la divisione della Cina come conseguenza inevitabile e diretta, al contrario, porterebbe loro benefici enormi.

19 Tibet: 1.223.599 km2; Cina: 9.671.018 km2. Rapporto: 12,65%

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La seconda ragione, quella più sempliciotta, ma comunque degna di menzione, è che da noi le attività separatiste sono (per ora) vietate per legge e quindi ciò non può accadere.

Ricorderete tutti, ad esempio, l’episodio italiano della “Veneta Serenissima

Armata” (altrimenti conosciuta come i “Serenissimi”), quando il 9 Maggio del 1997 un commando di secessionisti locali occupò il campanile di San Marco a Venezia. Ebbene, la questione si è risolta con l’arresto e la condanna alla galera dei responsabili20 da parte della Corte di Assise di Venezia che li ha riconosciuti eversori così come ha riconosciuto eversivo l’atto compiuto. Inconcepibilmente, però, ci scandalizziamo quando lo stesso identico principio viene applicato in Cina dove, in questo senso, vigono leggi esattamente uguali alla nostra.

E’ una situazione del tutto paradossale: sebbene il principio dell’autodeter-

minazione dei popoli sia sacrosanto, in verità è chiaro che c'è qualcosa che non quadra in questa evidente, quanto singolarissima, diversità di valutazione sullo stesso, identico, problema.

Un detenuto alla gogna durante la signoria lamaista nella prigione del monastero di Muli (1950)

Questo prigioniero fu condannato a cinque anni di prigione, che in realtà sarebbero stati cinque anni di tortura, essendo stato costretto a portare permanentemente questa gogna attaccata al collo. Le grappe metalliche che tengono unite le assi di legno sono permanenti. Le mani non potevano raggiungere il viso e quindi il prigioniero non riusciva ad alimentarsi autonomamente. Veniva nutrito dai monaci con una palletta di farina d’orzo due volte al giorno. Come quasi tutti i detenuti condannati a questa pena, per sua fortuna morì dopo pochi mesi.

((IINNDDIICCEE))

20 Vedi: http://archiviostorico.corriere.it/1997/luglio/10/Condannato_commando_dei_Serenissimi_co_0_9707104425.shtml

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L'imperialismo e le culture indigene (di Sara Flounders, Workers World, 26.08.1999, http://www.workers.org)

“In tutto il mondo, le società indigene dal Nord America, all’America Latina,

l'Africa e l'Oceania sono state decimate. La ricca varietà di culture e' stata scalzata, calpestata, ridicolizzata. I nativi sono stati sterminati in tutto il mondo, da tutte le forze che adesso sembrano essere rispettosamente in adorazione della cultura tibetana .”

Lhasa, 1950

Un ex detenuto tibetano illustra all’agente della CIA Frank Bessac gli strumenti di tortura usati per infliggere la pena dell’accecamento mediante estirpazione dei bulbi oculari, durante il periodo di signoria lamaista.

((IINNDDIICCEE))

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CCAAPPIITTOOLLOO VV

ÈÈ SSEEMMPPRREE LLAA VVEERRIITTÀÀ??

In molti sanno, per averlo appreso dalle fonti di informazione occidentale, che gli

adepti di una setta denominata "Fa Lun Gong" 21 sono stati perseguitati in Cina alla fine anni '90 e che tuttora siano oggetto di persecuzioni. Il messaggio arrivato in occidente è quello di una repressione violenta delle libertà religiose, in quanto il fatto viene raccontato in conformità al cliché della comune convinzione occidentale, che vuole il regime comunista cinese, nominalmente ateo, feroce oppositore di qualsiasi culto religioso solo perché tale.

In realtà, non è affatto così. Al contrario, si tratta di un intervento assolutamente

privo di qualsiasi intento antireligioso e, forse per questo, ben più drastico e pesante. E’ un’azione di forza, a difesa, secondo le autorità cinesi, dell’interesse nazionale, dal momento in cui la congrega (la cui attività, in origine, non era stata minimamente ostacolata, tanto da raggiungere un gran numero di adepti) ha rivelato serie intenzioni di attività ritenute socialmente pericolose, discostandosi non poco, nei proclami e nelle azioni, dal misticismo pressoché contemplativo che ne aveva caratterizzato gli inizi22.

In pochi sanno, per non averlo mai appreso dalle fonti di informazione occidentale,

che, in Cina, il rispetto verso le tradizioni culturali e di costume delle varie etnie si spinge a livelli che sarebbero inconcepibili persino nel più democratico dei paesi.

Ad esempio, in occidente è praticamente sconosciuto il fatto che gli appartenenti all’etnia Zang Zu possano liberamente girare armati perché il porto d'arma fa parte del loro costume, inteso sia in senso lato, sia in senso stretto. Forse il nome “Zang Zu” non dice niente. Meglio, allora, chiamarli col nome con il quale sono meglio conosciuti in occidente: tibetani23. Resta difficile comprendere il perché di una situazione dove il presunto oppressore conceda al presunto oppresso la libertà di girare armato (vedi foto a lato), se non spiegandosela in modo antitetico rispetto alla convinzione comune sul fatto che quella cinese in Tibet sia una un’occupazione tirannica.

Non solo. L’opinione pubblica occidentale ignora del tutto che le coppie appartenenti alle minoranze etniche possono avere figli senza limite di numero, mentre ciò è vietato anche se, di fatto, solo formalmente, a quelle Han (l’etnia dominante) che in teoria potrebbero averne solo uno.

21 Il Fa Lun Gong è una nuova religione inventata agli inizi degli anni ’90 da un dentista cinese, Li Hongzhi, il quale ha tratto ispirazione dal Qi Gong, un’antica disciplina per il controllo dell’energia corporea che trova ancora oggi applicazione nello studio dell’arte marziale cinese (Wu Shu). 22 Tra le pratiche illegali che le autorità cinesi contestano al Falun Gong ed al suo ideatore Li Hongzhi (del quale è stata chiesta più volte ed invano l’estradizione dagli USA) c’è il fatto di indurre gli adepti ad una sorta di suicidio virtuale (e non solo), cioè a lasciare spiritualmente questo mondo per l’ascesi totale, naturalmente solo dopo essere passati attraverso un processo di “purificazione” che comprenderebbe, tra l’altro, l’intera cessione dei propri beni alla comunità, cioè a Li Hongzhi ed ai dirigenti della sua organizzazione. 23 In verità, dire semplicemente “Tibetani” non significa nulla. Il gruppo etnico riconosciuto dalla Repubblica Popolare Cinese e dall’Occidente come “Tibetani”, si compone di diversi sottogruppi. La definizione “Tibetani” è quindi una convenzione che sottintende molti ceppi etnici diversi.

Uomo di etnia Zang Zu che porta il pugnale tradizionale, il Tsep-sa, appeso alla cintura. Vedi anche i filmati di YouTube segnalati.

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Anche quest’ultima, è una regola che sembra stridere assai con le notizie che vengono divulgate in occidente riguardo i presunti “genocidi” che, si dice, i cinesi perpetrerebbero ai danni delle proprie minoranze etniche24. Il buon senso, infatti, impone di ritenere che sia inverosimile programmare il genocidio di un’etnia e, allo stesso tempo, rinunciare all’applicazione di una legge come quella del figlio unico che, al contrario, sarebbe uno strumento assolutamente utile all’intento sterminatore, se non addirittura l’unico veramente efficace. Così come ci può apparire altrettanto inconcepibile l'altra semi-sconosciuta norma secondo la quale chi appartiene ad una minoranza etnica non può essere incarcerato se commette un crimine al di fuori del proprio territorio natìo25. Addirittura del tutto ignote al grande pubblico mondiale, le leggi che garantiscono istruzione assolutamente gratuita fino alla laurea per i figli meritevoli delle minoranze etniche, con l'unico patto che, a titolo conseguito, restino all'interno della loro comunità di origine per contribuire allo sviluppo del proprio territorio. Persino questa norma appare nettamente in contrasto con quello che si sostiene quando si dice che il governo di Pechino miri all’annientamento delle culture locali. Per quale ragione, infatti, si dovrebbe obbligare

un laureato a restare nella propria terra per contribuirne allo sviluppo? Semmai, se l’intento sopraffattore esistesse davvero, si dovrebbe favorire l’uscita dal territorio (e quindi dall’etnia) proprio delle figure di rilievo, che solitamente sono le depositarie del bagaglio culturale più importante, in modo da causare il progressivo dissolvimento di quella cultura nel tessuto sociale istituzionale. I tibetani (ovvero gli Zang Zu) sono una delle cinquantacinque minoranze etniche e, quindi, godono di questi ed altri importanti privilegi tra cui – detto per inciso – l’esenzione totale dal pagamento delle tasse per i loro contadini ed allevatori.

In Cina, l’attuazione delle leggi è estremamente flessibile. Dal codice della strada, al codice penale, la legge viene sempre interpretata secondo la circostanza. Talvolta in modi sorprendentemente diversi e, non di rado, persino antitetici, perché le norme vengono anche applicate secondo equità e non necessariamente secondo legge.

L’elasticità interpretativa ed applicativa, infatti, è l’unica via che consente al governo cinese di mantenere lo status di “One Peaceful China” al quale precedentemente accennavo. Per far capire, almeno minimamente, che cosa intendo, devo raccontare l’episodio che segue. Nel Giugno-Luglio 2008, quasi tutte le agenzie occidentali riportarono, pressoché all’unisono in sostanza e forma, questa notizia: «Trentamila abitanti di Guizhou sono insorti contro i soprusi della polizia cinese, incendiando e semi distruggendo la locale questura». 24 In Cina vivono cinquantasei gruppi etnici riconosciuti, dei quali gli Han rappresentano l’etnia di assoluta maggioranza. Ognuno dei restanti cinquantacinque gruppi è detto “minoranza”. 25 Vengono rimandati nella provincia di origine dopo aver effettuato i controlli di sicurezza sull’identità.

Il Tsep-sa in azione durante i disordini di Lhasa del 14 Marzo 2008. Un giovane tibetano che ancora impugna il proprio pugnale dopo aver tentato di aggredire un passante. Immagini sequenza tratte da YouTube.

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Le stesse agenzie raccontavano, infatti, che la polizia cinese (sottintendendo, quindi, la polizia cinese in assoluto ed omettendo di specificare che si trattava, invece, di un episodio isolato) aveva coperto lo stupro e l'uccisione di una sedicenne da parte del figlio di un importante funzionario della polizia locale. La posizione di questo pubblico ufficiale, per capirsi, potremmo definirla simile a quella del nostro “questore”.

Ebbene, quasi nessuno sa, per non averlo mai appreso dalle fonti di informazione occidentale, che la copertura del fatto non era avvenuta per mano della “polizia cinese”, ma ad opera esclusiva del padre dell’assassino che, ovviamente, forte della sua posizione, voleva evitare serissimi guai al figlio26.

Essendo egli “questore”, ecco fatto lo stravolgimento della notizia secondo lo stile e la consuetudine di certa stampa, abilissima a raccontare solo la parte di verità che fa comodo raccontare. Il ministero dell’interno cinese, ben lungi dal coprire il fatto, ha inviato a Guizhou ispettori che hanno fatto immediatamente arrestare il presunto assassino stupratore e suo padre. Lo stupratore, se sarà riconosciuto tale, sarà giustiziato ed il padre se ne starà in galera per il resto della sua vita. Ben pochi sanno, però, che a nessuno degli insorti di

Guizhou è stato torto un capello, nonostante si siano resi colpevoli di gravi reati oggettivi, commessi durante i tumulti (vedi foto nella pagina). Per contro, il locale capo del partito ed il governatore del luogo sono stati immediatamente destituiti e adesso, forse, stanno raccogliendo patate nel Qinghai, o da qualche altra parte, magari proprio sul permafrost tibetano.

Per cui, non si può fare una valutazione serena se non si fa mente locale sui particolari meccanismi e sull'elasticità mediante i quali la legge è applicata in Cina.

((IINNDDIICCEE))

26 In Cina, gli stupratori vengono giustiziati con un colpo alla nuca.

Guizhou, 28 Giugno 2008

(da notare l’assenza di forze dell’ordine e la tranquillità con la quale i curiosi conversano tra loro, osservando la scena e

scattando fotografie con i propri telefonini)

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CCAAPPIITTOOLLOO VVII

IILL LLAAMMAAIISSMMOO La religione tibetana, non può affatto definirsi "buddista" in senso comunemente

inteso. Il lamaismo è, casomai, una rivisitazione del buddismo in chiave esoterica, fondamentalmente tantrica27, che si fonda su credenze popolari sciamaniche, gremite di superstizioni e fantasmi e che, oltretutto, presenta una struttura rigidamente gerarchica, quasi di tipo militare, che attribuisce un ruolo di preminenza assoluta al Dalai Lama. Ancor prima che agli insegnamenti buddisti, tutto ruota intorno al volere del Dalai, che viene considerato emanazione buddhica e quindi dio-uomo infallibile.

Quindi, si parla prima di lamaismo e, poi, di buddismo, perché le differenze nel

pratico col buddismo comunemente inteso dagli occidentali sono enormi, come vedremo più avanti, non solo per la più o meno anomala presenza di gerarchie, ma soprattutto per quanto riguarda la tolleranza, il pacifismo e la non violenza. E’ proprio per questa ragione che una buona parte del buddismo tradizionale disconosce il lamaismo ed, anzi, lo avversa, proprio per la caratteristica di essere, nei fatti, una filosofia violenta28. La principale accusa che viene mossa dagli stessi ambienti buddisti è che il lamaismo sia fondamentalmente estraneo alla peculiarità di tolleranza e pacifismo che caratterizza – o che dovrebbe caratterizzare - le confessioni religiose buddiste tradizionali (cioè quelle, per intenderci, del comune immaginario occidentale).

Per quanto riguarda pacifismo e non violenza, infatti, è bene ricordare che

nell'ottobre 1998 l'amministrazione in esilio (volontario) del Dalai Lama ha ammesso di aver ottenuto negli anni sessanta circa 1,7 milioni di dollari l’anno dalla CIA e di aver organizzato l'addestramento di un gruppo di propri miliziani a tecniche di guerriglia e terrorismo in Colorado29. Fu negato, peraltro, che il Dalai avesse ricevuto, nello stesso periodo, un sussidio personale di centottantamila dollari all’anno come invece risultava da alcuni attendibili documenti (fonte: New York Times). Quando l'esponente della Central Intelligence Agency, John Kenneth Knaus, nel 1995 chiese al Dalai se la CIA avesse fatto bene o male a fornire il suo supporto, il Dalai rispose che nonostante l'effetto positivo sul morale «…migliaia di vite furono perse nella resistenza…» e che «…il governo USA si è interessato agli affari interni del Tibet non per aiutarlo, ma per usarlo tatticamente come arma contro la Cina» (cfr. Wikipedia e il libro scritto dallo stesso Dalai “La libertà nell’esilio”, Sperling & Kupfer Editori, 1998).

Sinceramente, resta molto difficile immaginare dei monaci buddisti che si allenano ad uccidere propri simili. Che avrebbe detto Ghandi? Che avrebbe detto il Mahatma al Dalai, se avesse assistito a quell’incontro con John Kenneth Knaus? Stante l'inconfutabilità storica del fatto, dunque, riusciamo bene a capire per quale motivo il lamaismo lasci spazio ad inquietanti dubbi sul presunto spirito pacifista e non violento con il quale Hollywood ce lo presenta. La questione appare ancor più degna di riflessione se consideriamo che il Dalai, pur avendo lui stesso promosso questa guerra su finanziamento USA che è costata migliaia di vite, nel 1989 è stato curiosamente insignito del premio Nobel per la pace, al pari di Albert Schweitzer30.

27 Tantrico, da Tantrismo, ovvero l'insieme delle dottrine rituali, mitologiche, etiche di carattere iniziatico-esoterico, proprie di alcune sette dell’induismo e del buddismo, espresse nei Tantra (cfr. Diz. Garzanti). Il termine "Tantrismo" è di recente coniatura (XIX secolo) ed è attribuibile esclusivamente a studiosi occidentali. Non esiste in nessuna lingua asiatica un termine corrispettivo di "Tantrismo". 28 Vedi http://wapedia.mobi/en/Criticism_of_Buddhism e http://blogs.dickinson.edu/buddhistethics/ 29 Vedi pagina del New York Times: http://www.nytimes.com/1998/10/02/world/world-news-briefs-dalai-lama-group-says-it-got-money-from-cia.html?sec=&spon=&pagewanted=print 30 Albert Schweitzer (Kaysersberg, 14/0/1875 – Lambaréné, 04/09/1965) medico, teologo, musicista e missionario tedesco. Ha trascorso gran parte della propria esistenza in Africa, prestando gratuitamente la propria opera di medico e di scienziato al servizio dell’umanità più debole.

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Il parallelo è del tutto improbabile: Albert Schweitzer di vite ne ha salvate (non sacrificate) ben più che migliaia, stando sempre nella mischia e rischiando la propria ogni giorno, soprattutto senza attendersi nulla in cambio. Per contro, il Dalai, come prima cosa ha pensato a salvare se stesso, scappando dal Tibet nel 1959 proprio perché si attendeva di ricevere molte cose, o meglio, si aspettava di non dover a rinunciare ad alcuno dei suoi privilegi storici.

La cosa sconcertante, benché i fatti siano accertati e di dominio pubblico, è che tra

le motivazioni avanzate dal Comitato norvegese per il conferimento del premio, si legge testualmente: «… Il Comitato desidera sottolineare il fatto che il Dalai Lama nella sua lotta per la liberazione del Tibet ha sempre e coerentemente rifiutato l'uso della violenza, preferendo ricercare soluzioni pacifiche…».

Questa clamorosa cantonata, potrebbe tuttavia non essere voluta. Infatti, l’incontro con J.K. Knaus, dove il Dalai ha pubblicamente ammesso quanto veramente accaduto (foto a lato), è avvenuto sei anni dopo il conferimento del premio ed il libro “La libertà nell’esilio” è stato pubblicato addirittura nove anni dopo. Però, bisogna parimenti dire che quelli del Nobel avrebbero potuto verificare più approfonditamente, se solo l’avessero voluto, stante l’ampia disponibilità di fonti per poterlo fare.

D’altronde, anche il Nobel per la

Pace al presidente statunitense Barack Obama (Dicembre 2009) che, non certo per pacifismo, ha intensificato la presenza militare americana in Iraq ed in Afghanistan, sembra dimostrare che l’istruttoria per il conferimento del premio non sia poi quel gran ché. Insomma, tutto lascia supporre che, ahimè, anche il grandioso mito del Nobel per la pace sia stato sacrificato sull’altare delle logiche di potere.

Per correttezza verso la storia, merita altresì ricordare che il premio Nobel per la

pace è stato istituito nel 1901 e che il Mahatma Ghandi, scomparso nel 1948, non è mai stato insignito di tale riconoscimento, pur di non infastidire gli inglesi. Viene da pensare, quindi, che non si sia trattato di una svista, ma che il Dalai abbia ricevuto il premio proprio per accontentare i suoi sponsor occidentali, secondo la stessa identica logica. Ma possiamo paragonare Ghandi al Dalai? E’ evidente che qualcosa non quadra ed è molto probabile che un po’ di faziosità debba pur esserci da qualche parte, forse da più parti, e magari proprio in quelle che a noi occidentali apparivano insospettabili.

Sempre parlando di “tolleranza” lamaista e senza aver bisogno di andare a

documentarsi chissà dove, troviamo ulteriori conferme in quello che riporta addirittura un giornalista italiano, Gerolamo Fazzini, che ha scritto per Famiglia Cristiana, per Avvenire e per Popoli e Missione.

Fazzini racconta, in un articolo disponibile anche in internet31, le vicissitudini e le

tragedie alle quali è stato sottoposto il cristianesimo in Tibet per mano dei lamaisti. In Tibet c’è una minoranza cristiana che è – o che è stata – perseguitata dai lamaisti. 31 Ad oggi (Settembre 2010) l’articolo di Fazzini è ancora visibile a questo link: http://wxre.splinder.com/post/16559995/Papisti+in+Tibet. Inizialmente, era anche presente anche a questo indirizzo: http://www2.chiesacattolica.it/pom/Popoli_3.htm, ma è stato curiosamente rimosso.

Il Dalai Lama e John Kenneth Knaus (funzionario della CIA, al tempo già in pensione)

durante l’incontro del 1995 a Dharmasala.

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Fazzini ci rivela cose inaudite su quello che è accaduto a Yanjing e tutto si può dire di lui tranne che sia un prezzolato dei comunisti cinesi ai quali, nello stesso articolo, rivolge infatti pesanti critiche32. Fazzini ci racconta del missionario Padre Etienne-Jules Dubernard, trucidato dai lama nel 1905 e di come le autorità cinesi (non certo comuniste a quell’epoca) abbiano risposto demolendo diversi templi lamaisti di quell’area, nonché di Padre Maurice Tornay 33 ucciso bestialmente dai Lama in un’imboscata, nel 1949, cioè proprio nell’anno in cui si racconta che il “disumano esercito cinese” abbia “brutalmente invaso” il territorio degli “innocenti, pacifici ed indifesi” Lama.

Fazzini, ci narra delle violenze e delle uccisioni subite dai cristiani tibetani per

mano dei Lama del monastero di Ganda “che esercitavano una sorta di dittatura politica, senza lasciare spazio ad altre religioni […] e che non tolleravano la concorrenza di altre religioni.”. Ci parla dell'esistenza di un posto chiamato "Il Campo di Sangue", luogo che ancora oggi è oggetto di culto, dove i cristiani del villaggio di Yanjing in Tibet, pur di non rinunciare alla loro fede, hanno subìto il martirio sempre per mano degli stessi “innocenti, pacifici ed indifesi” Lama di cui sopra.

Quando ho iniziato a diffondere il contenuto di questo articolo di Fazzini tra i miei

conoscenti, c’è stato persino qualcuno che ha pensato si trattasse di un’invenzione propagandistica dei comunisti cinesi. Molti altri, ai quali ho successivamente chiesto un parere, hanno più o meno espresso lo stesso tipo di commento.

Ben comprendiamo, quindi, quanto sia radicata, nell’immaginario collettivo

occidentale, la rappresentazione del lamaismo pacifico, al punto di mettere in dubbio la cronaca del giornalista che ha scritto “Il libro rosso dei martiri cinesi”. Però, se vado ad analizzare, vedo che quelli che si sono scandalizzati di fronte alla chiarezza inesorabile del reportage di Fazzini, alla fine, sono persone che non conoscono affatto gli estremo orientali e la loro cultura.

Se quella di Fazzini è una cronaca relativamente recente, la violenza lamaista è

ben più datata, in quanto parte integrante del loro sistema di amministrazione temporale e religioso, da sempre e tutt’oggi. Significativo, in questo senso, citare un passo tratto dal sito dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, a proposito dell’esperienza che i loro confratelli vissero in Tibet agli inizi del XVIII secolo. La pagina web completa è visitabile al link indicato alla nota34.

“Era il 14 marzo 1703 quando la Congregazione di “Propaganda Fide” affidò alla

Provincia cappuccina delle Marche l’ardua missione del Tibet e delle regioni adiacenti. Dal 1704 al 1745 vi operarono i frati marchigiani […] In buoni rapporti con i monaci, con lo stesso Dalai Lama e con il Reggente, padre Orazio (“Lama testa bianca” come lo chiamavano affettuosamente i locali) e gli altri cappuccini lavorarono a Lhasa come medici, conquistandosi la stima delle popolazioni locali. Dopo alcuni anni, quando vi furono i primi battesimi (1741), cominciarono i problemi: i neo battezzati si rifiutarono di partecipare alla preghiera comunitaria imposta dai Lama locali e vennero pubblicamente fustigati. Nel 1745 i frati dovettero lasciare la zona perché restare era ormai pericoloso per la loro vita […]”. 32 Gerolamo Fazzini (Verona, 1962) è direttore del sito MissiOnLine.org e di Mondo e Missione, testate del PIME. Dal 1985 scrive per il quotidiano Avvenire. Autore del libro “Il libro rosso dei martiri cinesi” Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2007. 33 Missionari delle Missions Étrangères de Paris (MEP) che, in epoche diverse, contribuirono alla diffusione del cristianesimo in Tibet e che, per questo, furono massacrati a più riprese dai Lama. Padre Maurice Tornay è stato beatificato come martire da Papa Giovanni Paolo II il 16 Maggio del 1993. Vedi http://theblackcordelias.wordpress.com/2009/08/11/blessed-mauritius-tornay-august-11/ ed anche: http://www.sim.org/index.php/content/tibetan. 34 Vedi: http://www.db.ofmcap.org/pls/ofmcap/v3_s2ew_consultazione.mostra_pagina?id_pagina=3257

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Facciamo anche un doveroso passo indietro, al tempo di Ngawang Lobsang Gyatso (1617–1682), conosciuto come “Il Grande Quinto Dalai Lama”, tuttora molto sentitamente venerato, al punto che gli è stato dedicato persino un sito web35 sul quale

viene definito con il più che ovvio appellativo di “Sua Santità”.

Si dice sia stato lui ad iniziare la costruzione della reggia lamaista di Lhasa, oggi conosciuta come “Potala Palace” e che sia stato il primo ad instaurare un vero e proprio controllo politico sulla regione del Tibet, con il placet di Shunzhi, terzo imperatore della dinastia Qing, così come fu sua l’idea d’inventare la figura ed il ruolo del Panchen Lama (vedi capitolo XIV) e tante altre cose.

Tra tutto ciò che fece, al punto di meritarsi gli appellativi di “Sua Santità” e di “Grande Quinto Dalai Lama”, tuttora curiosamente usati dai lamaisti contemporanei, spicca un genocidio, condotto con un livello di efferatezza che va al di là di ogni possibile immaginazione.

Come lui stesso racconta nella propria autobiografia 36 , accadde che, agli inizi del 1660, egli si trovò a dover affrontare una situazione caotica, originata da una rivolta verificatasi a Tsang, suo luogo natale, organizzata contro di

lui e contro il suo potere. Nell’intento, come lui stesso asserì, di agire per la sicurezza della gente della regione del Nyangme, inviò alle sue truppe le seguenti istruzioni sul modo in cui avrebbero dovuto essere trattati gli oppositori, vale a dire i nemici vinti. Scrive di suo pugno, con evidente ispirazione lirica, il “Grande” Quinto Dalai Lama:

Per coloro che facciano parte delle bande nemiche che hanno depredato i beni che gli erano stati affidati:

Gli uomini, siano ridotti allo stato di alberi ai quali siano state recise le radici;

Le donne, siano rese come ruscelli disseccatisi durante l’inverno;

I loro bambini, nipoti e pronipoti, siano fracassati sulle rocce come uova;

Fate sì che i loro servi ed i loro seguaci diventino come cumuli di erbacce consumati dal fuoco;

Fate sì che il loro dominio divenga simile ad una lampada

che ha esaurito l’olio combustibile;

In altre parole, cancellate ogni traccia di costoro, persino i loro nomi.

35 http://namgyalmonastery.namgyalarchive.com/ 36 cfr. “Imagining Tibet: perceptions, projections, & fantasies” di Thierry Dodin ed Heinz Räther.

Ngawang Lobsang Gyatso il “Grande Quinto

Dalai Lama” www.wikipedia.org

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A corollario di tutto questo, merita ricordare che Ngawang Lobsang Gyatso era della setta lamaista Gelugpa, ovvero dei Berretti Gialli, alla quale appartiene anche Lhamo Döndrub, l’odierno Dalai, il quale, infatti, ha sempre asserito con orgoglio di essersi ampiamente ispirato all’ operato del “Grande Quinto Dalai Lama”.

Non si cada, quindi, nella tentazione di sminuire l’importanza di questi antichi

episodi. Al contrario di altre religioni, il lamaismo non è cambiato di una virgola da allora. E’ una delle religioni dove la violenza e l’esercizio della brutalità sono e sono sempre stati componenti indispensabili del metodo di azione.

Non mi stancherò mai di ripeterlo. Il lamaismo, più che una religione, è lo

strumento per la conservazione di un regime teocratico. Il Dalai Lama è innanzitutto un monarca che fonda il proprio potere sulla teocrazia. Per questa ragione, il lamaismo avversa violentemente qualsiasi altra religione che tenti di insediarsi nel suo dominio. I fedeli di altre religioni o, più semplicemente, gli appartenenti ad altre culture (non necessariamente religiose), infatti, non riconoscerebbero l’autorità del Dalai Lama, il quale vedrebbe così minato il proprio potere dalle fondamenta.

E’ per questo che i cristiani di Yangjing sono stati trucidati dai lama nel 1950. E’

per questo che i lama hanno frustato i cristiani battezzati dai Frati Cappuccini nel 1741. E’ per questo che i Frati sono stati costretti a fuggire perché in pericolo di vita nel 1745. E’ per questo che, come avrete modo di leggere più avanti, i lama hanno dato fuoco alla moschea di Lhasa durante i disordini del Marzo 2008, provocando la morte di fedeli mussulmani in preghiera ed è per questo che, sin dal 1996, il Dalai Lama perseguita ferocemente i lama della confessione Shugden che sono, addirittura, suoi stessi monaci.

Ricordate le persecuzioni cristiane dell’era imperiale romana? Fate appello alla vostra memoria scolastica. Perché Nerone, Diocleziano e gli altri perseguitavano i cristiani? Perché si rifiutavano di adorare l’Imperatore come Dio e, quindi, ne disconoscevano l’autorità. Ebbene, si tratta della stessa, identica, ragione. Con una differenza: le persecuzioni romane sono accadute duemila anni fa. La violenza lamaista non ha mai smesso di essere perpetrata e continua tuttora.

Chiunque conosca davvero l’estremo oriente – non per esserci stato da turista, o

perennemente rinchiuso in un hotel a 5 stelle – ma per averci vissuto (nelle strade, per anni ed anni, quotidianamente a contatto con la gente) ed a prescindere da qualsiasi considerazione politica, sa bene che quella che noi chiamiamo “violenza”, per gli estremo orientali può addirittura diventare un’inevitabile necessità, un vero e proprio dovere morale al quale non sottrarsi, quando è necessario, per mantenere l’equilibrio armonico che, secondo la matrice comune di alcune delle loro più importanti filosofie, governa l’ordine delle cose.

Pressoché tutti i popoli dell’estremo oriente – parlo della gente comune – sono

assolutamente tolleranti, talvolta al limite dell’abulìa, tanto da indurre l’osservatore occidentale impreparato a ritenerli pressoché incapaci di offendere. Purtroppo, la realtà è ben diversa: l’orientale è sì tollerante, ma non per ragioni etiche o religiose, bensì per assoluto pragmatismo di vita.

I cinesi, su tutti, sono il miglior esempio di ciò. Per il cinese medio, non c’è alcuna

reazione di fronte ad un evento che di fatto non metta davvero a repentaglio la sua esistenza. La città viene allagata da un’alluvione? Si va in barca o si nuota e manco si pensa a costruire degli argini al fiume in modo da prevenire un’alluvione successiva: “se l’alluvione ci ha concesso una via d’uscita oggi, consentendoci di badare comunque alle nostre faccende navigando e nuotando, lo farà anche domani”. Questo, in sintesi, è il pensiero dominante.

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E’ solo quando accade qualcosa che leda irreparabilmente, o a lungo termine, gli interessi personali, specialmente quelli economici e di potere, che allora l’orientale può ricorrere alla violenza come azione risolutrice del problema, esercitandola persino con inaudita ferocia, cioè in reazione uguale e contraria alla tolleranza apatica anzi descritta.

Per il fatto oggettivo, possiamo quindi affermare che il lamaismo abbia aspetti

decisamente intolleranti e spietati, come dimostrano le cronache storiche e come lo stesso Dalai ha più volte confermato.

Per tentare quantomeno di farsi un’idea circa il modo nel quale il lamaismo si

ponga di fronte al problema della violenza come mezzo per raggiungere determinati obiettivi, basterebbe conoscere i rituali sacrificali tantrici del Guhyasamaja37, anche se ne sconsiglio la lettura a chi sia debole di stomaco.

Quindi, se il lamaismo, nel sentimento occidentale, è visto come la religione della

non violenza, si tratta semplicemente di un abbaglio, purtroppo consolidatosi nel tempo grazie a decenni di informazione unilaterale. L’identità Dalai Lama = Pace deriva dall’equivoco ingenerato del fatto che, nell'immaginario collettivo occidentale, "buddismo" equivale a "non violenza" e se di questo malinteso ne è rimasto vittima persino il comitato svedese del Nobel per la pace, è tutto dire.

Sta di fatto, quindi, che in occidente quasi nessuno è in grado di comprendere a

fondo le differenze, semplicemente perché non conosce né il buddismo, né lamaismo, né tantomeno il terribile, per noi, concetto di “non rispetto per la vita” insito nell’essenza della cultura atavica estremo orientale, della quale il lamaismo, essendo anch’esso estremo orientale, è inevitabilmente intriso.

A parziale conforto di quanto sostengo, vorrei ricordare un fatto estremamente

singolare: non mi risulta che nessuno38 abbia sinora spiegato compiutamente per quale ragione Papa Benedetto XVI si sia rifiutato di incontrare il Dalai nel Novembre 2007. Perché il Vaticano si è limitato a subire valanghe di critiche, praticamente senza reagire?

Forse perché, se avesse reagito, avrebbe dovuto spiegarne le ragioni? Forse

perché, se ne avesse spiegato le ragioni, avrebbe dovuto rivelare verità che avrebbero compromesso il suo delicatissimo equilibrio di relazioni diplomatiche?

Se il Vaticano avesse voluto replicare, è probabile ritenere che sarebbe stato

obbligato ad una spiegazione storica, cioè avrebbe dovuto rivelare, ad un’opinione pubblica catatonica e figlia di decenni di informazione a senso unico, che il Dalai - ben lungi, come abbiamo visto, dall'essere il novello Ghandi - è il sovrano di una monarchia assoluta, il capo di un'organizzazione che fonda nella sopraffazione e nella violenza le proprie radici culturali, quali matrice e metodo esercitati sino al 1949, anno in cui l'esercito cinese di Mao liberò (usiamo pure questo verbo senza timori) il Tibet dalla schiavitù e dallo stato di tirannia di stampo medioevale nel quale il paese si trovava.

Qualcuno sicuramente dirà: "Dalla padella nella brace!". Beh, se anche così fosse, il fatto che nessuno parli mai della "padella", arrivando addirittura a sottacerne l'esistenza, appare volutamente oscurantista e, prima ancora, delinquenziale verso il diritto alla cultura dell’informazione.

37 Vedi http://findarticles.com/p/articles/mi_7046/is_14/ai_n28513264/?tag=content;col1. 38 Alcune fonti vicine al Dalai, come la religiosa lamaista americana Thubten Chodron, danno un’interpretazione sorprendente: secondo lei, Papa benedetto XVI si sarebbe rifiutato di incontrare il Dalai per “… evitare l’uccisione di molti cristiani…”. Il Papa, allora, secondo la monaca, avrebbe prima evitato di incontrare il Dalai per non creare un incidente diplomatico e poi avrebbe pubblicamente detto che i cinesi uccidono i cristiani come Nerone. Mi chiedo se non sia davvero il caso di cominciare a mettere in dubbio l’onestà intellettuale e la sanità mentale di certe persone, ma, soprattutto, di chi dà loro credito.

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Le foto che seguono, tratte dall’archivio online della congregazione buddista Western Shudgen Society39, ci danno un’idea, sebbene solo superficiale, di quelli che fossero i metodi adottati dal regime teocratico lamaista.

Detenuti tibetani ai ceppi, nel carcere del Potala Palace, durante il periodo lamaista (1950). I ceppi ai polsi ed alle caviglie erano permanenti e non venivano mai rimossi durante tutto il periodo della condanna. I più, come nel caso già citato della gogna, non sopravvivevano.

Servo (o schiavo) tibetano, amputato della mano destra. Come prevedeva la legge lamaista in seguito ad una condanna, probabilmente per furto od altro crimine contro il patrimonio, l’amputazione degli arti era una delle punizioni da infliggere.

Servi (o schiavi) tibetani, condannati a chiedere l’elemosina per strada. Gli schiavi, i servi ed i contadini che si rendevano colpevoli di non pagare i tributi al loro padrone o di furti, nel migliore dei casi venivano condannati a mendicare per strada, legati per impedirgli di fuggire. Poi, alla fine del giorno, tornavano in galera, consegnavano il ricavato ai carcerieri e così via, fino all’estinzione del debito. Di fatto, l’impossibilità a pagare (la legge lamaista prevedeva che l’indennizzo potesse arrivare fino a diecimila volte il valore nominale del danno) mutava spesso queste sentenze in condanne a vita o, meglio, a morte per sofferenza e stenti.

((IINNDDIICCEE))

39 (cfr. http://www.westernshugdensociety.org). La Western Shudgen Society è una confessione proprio lamaista che denuncia persecuzioni da parte del Dalai. Ovviamente, per avere rivelato queste pesanti verità, la W.S.S. è perennemente oggetto di altrettanto violente campagne denigratorie.

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CCAAPPIITTOOLLOO VVIIII

IILL DDAALLAAII LLAAMMAA

In molti, sostengono che “Dalai” sia una parola di origine mongola. Al contrario, l’excursus storico semantico del termine attesta ipso facto che sia di inequivocabile origine cinese. Il termine “dalai”, significa “oceano”, al pari di “gyatso”. Si tratta quindi della traduzione in cinese di “gyatso”, appellativo quest’ultimo che è presente in tutti i nomen dei Dalai Lama, anche in quello dell’attuale. “Lama”, invece, è un termine tibetano che più o meno sta per “sacerdote”.

In cinese, senza alcuna distinzione grafica tra il cinese moderno della Repubblica Popolare e quello tradizionale ancora in uso ad Hong Kong ed a Taiwan, “oceano” si scrive

così e si pronuncia “da-hǎi” (da = grande; hai = mare).

I mongoli, che tradizionalmente non avevano mai avuto a che fare col mare, lo toccarono per la prima volta nella loro storia in Cina, nel 1219 e, sempre per la prima volta, lo usarono militarmente nel 1274 quando Kublai Khan tentò, fallendo, la prima invasione dell’arcipelago giapponese. Durante il periodo espansionistico della dinastia Yuan, i mongoli ne mutuarono quindi il suono dal cinese, dove questa parola ovviamente esisteva già, stante il fatto che la Cina della dinastia Jìn (che precedette quella Yuan) possedeva quasi quindicimila chilometri di coste marittime, esattamente come oggi. E’ facile da capire che il nome ad una cosa glielo dà chi sa della sua esistenza e non chi ancora ignora che esista. “Dalai”, quindi, altro non è che la naturale

trasformazione sincronica di “da-hǎi”. Dunque, pane al pane e vino al vino: la definizione “Dalai Lama” non è un titolo della tradizione culturale tibetana e non ha nulla a che vedere con la tradizione religiosa locale. Massima ironia della sorte, il ruolo di “Dalai Lama” quale sovrano del Tibet è un’istituzione amministrativa imperiale cinese. Fu Altan Khan, discendente di Kublai Kan, governatore mongolo del Tibet durante la dinastia Ming a crearlo appositamente ed a conferirlo, nel 1578, al Lama Sonam Gyatso.

Il fatto che il mongolo Altan Khan abbia usato un termine cinese per coniare il titolo, è ben spiegato dal fatto che egli, essendo un governatore imperiale, doveva usare terminologie cinesi. Sette anni prima, nel 1571, Altan Khan era stato insignito del titolo di Shun Yi Wang (Re Obbediente e Virtuoso) dall’imperatore Long Qing.

Il ruolo di “Dalai”, quindi, fu pensato per indicare il signore locale tibetano, affinché egli si facesse tutore, con la dovuta autorità conferitagli dal titolo, degli interessi imperiali nella provincia. Tale ruolo, nei fatti, è rimasto invariato sino al 1959.

Per squalificare l’ennesima prova storica che dimostra l’appartenenza del Tibet alla Cina e che getta pesante discredito sulla connotazione mistica e di santità con la quale in Occidente siamo abituati a considerarlo, Lhamo Döndrub minimizza e sostiene che non ci sia stato nessun conferimento di nessun titolo, ma che si sia trattato della semplice traduzione di un appellativo (oceano) che era già normalmente in uso.

Lhamo Döndrub il 14° Dalai Lama

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Se lo dice lui, perché non credergli? Perché resterebbe allora da capire per quale bizzarra ragione Sonam Gyatso abbia voluto attribuire retroattivamente questa “semplice ed insignificante traduzione” ai due “Gyatso” che l’avevano preceduto nelle reincarnazioni, auto-proclamandosi “terzo Dalai Lama” benché fosse stato, storicamente, il primo.

E’ evidente che, anche in questa circostanza, Lhamo Döndrub mente. Infatti,

questa breve cronaca storica ci fa capire per quale motivo il Dalai Lama non sia il leader spirituale del lamaismo, ma il leader politico: il leader spirituale lamaista è il Panchen Lama.

L’attuale Dalai Lama, ovvero il Signor Lhamo Döndrub (qui imposit nomen: Jetsun

Jamphel Ngawang Lobsang Yeshe Tenzin Gyatso), prima ancora di essere un semplice monaco - come egli ama definirsi - è dunque un monarca detronizzato e si comporta come tale. Importante dare anche la traduzione del suo composito nomen: “Sacro Signore, Gloria Gentile, Compassionevole, Difensore della Fede, Oceano di Saggezza”. Quindi, nulla che indichi la natura spirituale del compito, ma essenzialmente un ruolo amministrativo: “signore” e “difensore”.

Non dimentichiamo che al Dalai Lama è accaduta una cosa molto simile a quanto

accadde prima a Pio VI per mano del generale napoleonico Louis Alexandre Berthier il 9 dicembre 1797 e poi a Pio IX nel Settembre del 1870 con la breccia di Porta Pia: eventi che segnarono rispettivamente l’inizio della fine e la fine definitiva del potere temporale del Papato.

Da più parti, si sostiene che il Dalai Lama sia una specie di “papa” mondiale del buddismo. Questo è assolutamente falso. Il Dalai non rappresenta né il Buddismo Zen giapponese, né il Buddismo del Sud Est Asiatico, né il Buddismo cinese. Il buddismo tibetano (lamaismo) è meno del 2% del buddismo mondiale. Inoltre, nello stesso lamaismo ci sono almeno quattro sette distinte e Lhamo Döndrub rappresenta solo una di queste, cioè quella dei Gelugpa (o Berretti Gialli).

Infatti, come vedremo più avanti, quando il Dalai si è recato in Inghilterra, sia nel 1992 che nel 2008, le sue visite hanno sempre scatenato veementi proteste da parte della più grande associazione buddista britannica. Questo “papa”, appunto strategicamente definito “Sua Santità”, sembra dunque avere molti più seguaci politici che religiosi.

Spesso la verità sta nelle spiegazioni più semplici e talvolta basta cambiare punto

di vista per trovarla. Basta semplicemente pensare al Dalai per quello che è, innanzitutto: è un sovrano che si è auto-deposto, andato in esilio volontario e che ovviamente mastica amaro per la perdita del potere e dei privilegi di cui lui ed i suoi seguaci avrebbero continuato a godere se solo l'operazione della CIA (vedi paragrafi precedenti) fosse andata a buon fine. Dimostrerò la fondatezza di questa asserzione poco più avanti.

Il Dalai è sì anche un capo religioso, ma, come abbiamo visto, la religiosità in senso occidentale intesa dei princìpi e dei metodi lamaisti, lascia davvero molto da riconsiderare. Il Dalai se ne è volontariamente andato dal Tibet: non è stato espulso. Il Dalai se n’è andato in esilio volontario in India nel 1959, seguito dai suoi fedelissimi subito dopo la fallita e sanguinosissima rivolta da lui concertata, perché in disaccordo con diversi provvedimenti instaurati dai cinesi vincitori tra i quali, appunto, la perdita dei privilegi di casta e, su tutti, l'abolizione della schiavitù. Durante la tollerata signoria lamaista e così come era sempre accaduto sin dal regno di Tubo40, in Tibet vigeva la schiavitù.

40 Tubo, antico nome del Tibet durante la dominazione della dinastia Tang (A.D. 618~907).

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Per il popolo tibetano dell’epoca, non si può nemmeno parlare di proletariato,

perché i figli non appartenevano ai genitori. Nessun tibetano apparteneva alla propria famiglia, ma al proprietario della terra sulla quale nasceva, salvo non ne fosse lui stesso il padrone. Il signore della terra poteva disporre di lui come meglio credeva, anche utilizzandolo come moneta per la compravendita di beni o per il pagamento di debiti. La legge lamaista prevedeva anche, oltre alla scontata pena di morte, innumerevoli pene corporali come il taglio della lingua, l'amputazione delle mani e l'accecamento, oltre a sofisticati quanto orribili e spietati sistemi di tortura e mutilazione, come vedremo più avanti.

Queste pratiche, come lo stesso Dalai ha ammesso in diverse interviste (peraltro

mai adeguatamente diffuse dagli organi di informazione occidentali), furono dunque abolite solo dopo l’arrivo in Tibet dell’esercito cinese. La schiavitù, però, non fu contrastata immediatamente da Pechino. Fu solo abolita in seguito 41 ed infatti la troviamo ancora presente nella “Legge Regionale Tibetana” del 1950, legge speciale della neonata Repubblica Popolare Cinese che riconfermava, peraltro, quanto già era stato stabilito in epoca Guo Ming Dang.

Fino al 1959, oltre il novantacinque percento della popolazione era analfabeta e

l'indice di mortalità infantile era del quarantatre percento. Non c'erano ospedali, né scuole e l’aspettativa media di vita non superava i trentacinque anni.

Tutto questo accadeva solo cinquanta anni fa, quando noi avevamo già il telefono,

la televisione, il frigorifero, l’automobile e Mike Bongiorno.

Oggi, in Tibet, ci sono scuole ed ospedali. I libri di testo delle scuole, dalle elementari all’università sono in tibetano (modo del tutto singolare di “annientare una cultura”, quando la psicologia pedagogica moderna insegna invece che il carattere di un individuo si forma proprio nei primi cinque anni di vita) ed in cinese mandarino, come nel nostro Alto Adige, dove i testi scolastici sono in italiano e tedesco.

La percentuale di alfabetizzazione ha raggiunto oltre il novanta percento degli

individui in età lavorativa e la scolarizzazione nella scuola dell’obbligo rasenta addirittura il novantanove percento. La mortalità infantile è scesa al sotto il quattro percento e la vita media, oggi, è di sessantasette anni.

L’opinione pubblica occidentale, in modo pressoché compatto e bevendo ad occhi

ed orecchi chiusi quello che sostiene il Dalai attraverso la propaganda hollywoodiana, è convinta che Pechino abbia compiuto un genocidio in Tibet, uccidendo oltre un milione di persone sino ad oggi. Ricorriamo quindi ad un dato ufficiale perché, in questi casi, quando si tratta della vita di esseri umani, è imperativo evitare polemiche: la popolazione autoctona tibetana (gli Zang Zu), fino al 1950 era di circa 1,2 milioni di individui ed oggi è di 2,8 milioni (cfr. Wikipedia) considerando, oltretutto, il tasso di mortalità infantile citato in precedenza.

I fatti possono essere equivocati, la storia può essere travisata e persino riscritta,

ma i numeri, purtroppo, non lasciano spazio a nessuna interpretazione42, ma non è tutto.

41 Vedi http://en.wikipedia.org/wiki/History_of_Tibet - sezione: “Rule of the Chinese Communist government”, ma soprattutto http://en.wikipedia.org/wiki/Abolition_of_slavery_timeline. 42 Comunque sia, i dati sul numero reale della popolazione tibetana sono controversi. Alcune fonti, non ufficiali, indicano gli autoctoni in oltre cinque milioni, ai quali sarebbero da sovrapporre più o meno altrettanti abitanti di altre etnie, per una popolazione complessiva di quasi dodici milioni. Le fonti ufficiali, tra cui Wikipedia, stimano la popolazione totale in numero di circa tre milioni. Su queste basi controverse è praticamente impossibile fornire un dato certo. Sta di fatto che, in ogni caso, la popolazione nativa tibetana, ben lungi dal decrescere dal 1949 in poi, è sempre stata in aumento.

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In Inghilterra c’e un’associazione denominata “Free Tibet Campaign” (Campagna per il Tibet libero). Il suo presidente all’epoca, Patrick French, ha avuto la fortuna di essere tra i primi e forse addirittura il primo occidentale, a poter consultare liberamente gli archivi del governo tibetano in esilio volontario in India. Durante l’esame di certi documenti, ha scoperto che i dati relativi al presunto genocidio cinese sono stati falsificati (vedi pagine di approfondimento). Per darvi un’idea di chi sia Patrick French, vi basti sapere che, ben lungi dall’essere un brigatista rosso od un militante maoista, nel 2003 gli è stata offerta l’investitura dell’Eccellentissimo Ordine dell'Impero Britannico (OBE) per meriti acquisiti in campo culturale.

Quello che ha scoperto, infatti, è veramente sconcertante: negli anni ’60 il fratello

del Dalai, Gyalo Döndrub, diresse un’iniziativa per raccogliere testimonianze sul numero delle vittime degli scontri armati tra l’esercito cinese e quello lamaista durante il conflitto del 1959. Orbene, French si è accorto che le cifre rese da cinque testimoni diversi circa lo stesso episodio, sono state contate cinque volte. La prima cosa che ha fatto Patrick French dopo aver fatto questa scoperta, è stato di dimettersi immediatamente dalla presidenza dell’associazione43.

Infatti, è come se io avessi chiesto a cinque amici: «Quanta gente c’era ieri sera

alla festa?». Il primo mi dice “trecento”, il secondo “trecentoventi”, il terzo “trecentodieci”, il quarto dice “duecentonovantacinque”, il quinto mi dice “trecentodue” ed io, invece di considerarne trecentocinque di media, sommo tutto e dico che ieri alla festa c’erano “millecinquecentoventisette” persone.

Ma la cosa grottesca è, come già detto, che se veramente i morti fossero stati

oltre un milione, oggi i tibetani dovrebbero essere estinti. Invece, sia il governo cinese, sia l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, nonché la Banca Mondiale e persino lo stesso Dalai, concordano nel ritenere che la popolazione autoctona tibetana odierna sia di tre milioni, ma questo non impedisce a Lhamo Döndrub di continuare a dire che le vittime sono state oltre un milione. E’ probabile che Lhamo “Oceano di Saggezza” Döndrub abbia invece bisogno di qualche ripetizione di aritmetica, altrimenti l’alternativa sarebbe solo quella di ritenere che menta.

Vedete bene che basta informarsi meglio (anche se non tutti hanno la fortuna di

poter consultare i documenti originali) per capire subito che da decenni siamo solo vittime di un artificio mediatico dei più sfacciati. Di rimando, le autorità cinesi, quando vengono accusate di avere quasi sterminato un’etnia, rispondono con sarcasmo:«Se le condizioni di sviluppo e benessere sociali che vediamo oggi in Tibet sono il risultato di un genocidio, allora lasciatecene fare ancora». Inoltre, il Dalai ha recentemente ammesso l'esistenza di uno status medioevale in Tibet prima del 1949, aggiungendo che, purtroppo, egli fu obbligato dagli eventi ad andarsene proprio mentre stava per mettere mano a delle importanti riforme (cfr. Wikipedia).

Ora, Lhamo Döndrub è nato nel 1935 e l’esercito di liberazione è arrivato in Tibet

1949 quando lui aveva quattordici anni. Il Dalai se ne è, poi, volontariamente e definitivamente andato dal Tibet nel 1959, immediatamente dopo quella rivolta armata, da lui “benedetta” e targata CIA, fallita e costata, per sua stessa ammissione, migliaia di vite umane.

43 cfr. “Tibet, Tibet”di P. French ed Albin Michel, Editrice Harper 2003.

Patrick French

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Datosi che nessuno potrà mai dimostrare se il Dalai sia davvero la reincarnazione di un Buddha, concedetevi quantomeno il beneficio del dubbio prima di credere pedestremente che un ragazzino ventiquattrenne, cresciuto ed educato in Tibet, figlio di una cultura storicamente intollerante, reazionaria e violenta come quella lamaista, capace di dare il via, senza il minimo scrupolo e con la demenza tipica dell’età post adolescenziale, ad una guerra imbecille (perché persa in partenza) costata migliaia di vite umane, possa mai essere stato capace di "mettere mano a delle importanti riforme”, anche se figlio del soprannaturale.

Furono, casomai, le riforme introdotte dal governo centrale ad indurre il Dalai ad

andarsene dal Tibet, non certo il “ritorno” dei cinesi. E’ certo che se la vigenza dei codici tibetani44 non fosse stata abolita e se egli ed i suoi avessero potuto continuare ad esserne i beneficiari, il Dalai non avrebbe mai abbandonato Lhasa.

Difatti, quando l’esercito cinese di liberazione arrivò nel 1949, il Dalai restò

inizialmente ben saldo al suo posto, perché agli inizi le autorità cinesi non cambiarono una virgola delle regole vigenti, secondo le antiche regole del Ping Fa.

Il 14° Dalai Lama (riconoscibile al centro della foto) insieme ad un gruppo di mercenari Khampa, assoldati dalla CIA per il conflitto del 1959 45

Dunque, fu l’abolizione delle leggi lamaiste (iniziata nel 1951 e completata nel

1959) con l’annientamento dei benefici da essere generati a spingere il Dalai ad andarsene in esilio volontario, incoraggiato e supportato dalla CIA. Quindi, non fu la cosiddetta “occupazione” cinese, ma la perdita dei privilegi di casta a far sì che il Dalai, accompagnato dai nobili, dalla borghesia latifondista e dai rispettivi seguiti, decidesse di abbandonare il Tibet. Prova ne sia che il Panchen Lama46 restò in Tibet e non seguì il Dalai. Questo, infatti, è un altro aspetto sul quale soffermarsi un attimo, per comprendere meglio: nella tradizione lamaista, il Dalai Lama si occupa sia di religione che di questioni amministrative e politiche, mentre il Panchen si occupa esclusivamente di religione.

44 Erano il Quechimu, o "codice clericale” ed il Jiachimu, o "codice secolare”, che risalgono a 1.300 anni fa e che successivamente integrarono le leggi imperiali. 45 Cfr. "Orphans of the Cold War. Americans and the Tibetan Struggle for Survival" di John Kenneth Knaus, Public Affairs, New York, 1999. Stante il fatto che la popolazione locale di schiavi e servi, parteggiasse per l’esercito di Mao al punto che in molti si unirono ad esso, la CIA fu costretta ad assoldare i briganti mercenari Khampa per il conflitto che si sarebbe apprestata a scatenare nel 1959. La sollevazione popolare che Washington auspicava, infatti, venne miseramente meno. 46 Si trattava del decimo Panchen Lama: Lobsang Trinley Lhündrub Chökyi Gyaltsen.

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Abbiamo sostenuto che il Dalai se ne andò dal Tibet perché in contrasto con le

riforme che annullavano i privilegi del clero. E’ invece convinzione comune, in Occidente, che il Dalai sia stato vittima della repressione delle libertà religiose, ma questa seconda ipotesi è assolutamente in contrasto con il fatto storico: fu l’amministratore ad andarsene, non il religioso. Quindi la domanda che onestamente dobbiamo porci, è: se è vero che l’intento del dominatore cinese è quello di annientare la cultura tibetana anche e soprattutto attraverso la repressione della libertà religiosa, perché è stato il Lama amministratore ad andarsene e non il Lama religioso?

Un’ulteriore dimostrazione del fatto che l’esilio al quale il Dalai si è

volontariamente sottoposto sia stato motivato da interessi di potere e tutt’altro che religiosi o etici, ce la forniscono le cronache di oggi, ma prima voglio presentarvi un documento, in questo senso molto importante, che ci aiuta a capire meglio. Quella che vedete qui di seguito riprodotta, è la prima pagina di un’ode a Mao Ze Dong, la cui versione completa è reperibile in internet47. L’autore di questa ode, che forse nemmeno il più infervorato D’Annunzio avrebbe mai potuto concepire per Mussolini, manco a dirsi, è proprio il 14° Dalai Lama.

47 Vedi: http://i46.tinypic.com/ta57qp.jpg, Photobucket.com Inc, Broomfield, Colorado, USA.

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Per chi non conosca l’inglese, ecco la traduzione:

Ode al Presidente Mao I grande leader nazionale del Governo Centrale del Popolo, il Presidente Mao, è il cakravarti (1) che sboccia dai propri meriti incommensurabili. A lungo ho desiderato scrivere una preghiera per lui, augurandogli lunga vita e successo nel suo lavoro. Accade che il Klatsuang-kergun Lama del Monastero di Kantsu nella Mongolia interna, mi abbia scritto da così lontano, salutandomi e pregandomi di scrivere una poesia. Condivido ed accetto, datosi che ciò coincide col mio personale desiderio.

Il Quattordicesimo Dalai Lama Dantzen-Jialtzo dal Palazzo Norbulin-shenfu, 1954

Oh, Triratna (2) (Buddha, Dharma e Sangha) che conferisci benedizioni per il mondo,

Proteggici con la tua ineguagliabile e benedetta luce che splende in eterno!

(Quella di cui sopra è l’invocazione di rito che precede sempre un’ode.

La poesia, di per sé, prosegue)

Oh, Presidente Mao! Il tuo splendore e le tue azioni Sono come quelle di Brahama e Mahasammata,

i creatori del mondo,

[…]

(1) Cakravarti è l’appellativo rivolto ad un monarca santo e potente; (2) Trirartna è la Trinità buddista: il Buddha, il Dharma (la legge) e lo Sangha (la

comunità dei credenti).

Tralasciamo pure le pagine seguenti dell’ode, perché ogni commento è già

superfluo. Coloro che desiderassero leggere la poesia completa, possono farlo collegandosi al link che appare indicato alla nota che segue, come già detto. Quest’ode al Presidente Mao è stata dunque scritta nel 1954 dall’attuale Dalai Lama. Il manoscritto originale, si trova esposto a Pechino, nel tempio buddista cosiddetto dell’Immensa Carità. La riproduzione nella foto è della giornalista americana Anna Louise Strong e si trova pubblicata nel sul libro “Tibetan Interviews”.

Il carattere adulante di questi versi, certamente, non dà l’impressione che a

scriverli sia stata una persona scontenta della presenza cinese in Tibet, tutt’altro. I sentimenti espressi vanno ben oltre il protocollo e, piuttosto, rivelano un genuino senso di ammirazione per Mao e l’accorata convinzione che il comunismo possa rappresentare la chiave per liberare la popolazione dalle pastoie dell’oscurantismo.

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Poi, intorno al 1959, quando il Dalai si rese invece conto che il governo di Pechino stava man mano venendo meno alla promessa di mantenere inalterati i privilegi del clero e della nobiltà, mediante la promulgazione di leggi che annullavano i benefici e le prerogative degli antichi codici tibetani, aiutato dalle sovvenzioni e dalla consulenza militare della CIA, scatenò la ben nota ribellione armata con l’esito fallimentare che tutti conosciamo. Dopodiché, fu convinto dai consiglieri americani a riparare in India, essenzialmente per timore di una sollevazione popolare che avesse potuto metterne a repentaglio l’incolumità fisica.

Dicevamo, dunque, delle cause che spinsero il Dalai a lasciare il Tibet e di come le

cronache odierne dimostrino che non si trattò affatto di motivazioni culturali o religiose. Infatti, oggi Lhamo Döndrub non parla più di indipendenza del Tibet, ma propone il proprio ritorno a Lhasa in cambio della completa autonomia amministrativa e politica, con il Tibet sempre facente parte della Repubblica Popolare Cinese, lasciando al governo di Pechino la sola gestione degli affari esteri e della difesa48. In molti, sia in Occidente, sia tra i suoi stessi seguaci co-esuli, hanno gridato al voltafaccia una volta appresa questa notizia, ma è improprio considerare “voltafaccia” un pensiero che, al contrario, mostra assoluta coerenza con quanto stiamo qui sostenendo.

La coerenza sta nel fatto che il Dalai non ha mai realmente aspirato

all’indipendenza del suo popolo, perché i Dalai, storicamente, non hanno mai avuto alcun “loro popolo” da amare con spirito di fratellanza. I Dalai hanno avuto, casomai, un patrimonio di sudditi, servi e schiavi da amministrare. Quando il Dalai richiama i suoi alla non violenza, è solo perché sa che la violenza è un concetto estremamente inviso all’opinione pubblica dei suoi sponsor occidentali. Lo fa perché deve farlo, ma strizza l’occhio mentre lo fa: i suoi seguaci sanno bene che non sta dicendo sul serio, ma che sta solo compiacendo l’Occidente che lo sponsorizza, per continuare a riceverne le attenzioni e, soprattutto, i fondi. Il Dalai, parla un linguaggio cristianeggiante non perché rifiuti davvero la violenza, ma per conformarsi ai valori popolari dell’occidente che lo sponsorizza e che, altrimenti, avrebbe serie difficoltà per continuare a farlo se solo egli dicesse – come invece dovrebbe dire per coerenza con i suoi reali princìpi filosofici - che la violenza è un mezzo necessario per raggiungere il proprio intento. Il Dalai conosce molto bene il concetto di “violenza compassionevole” del buddismo Mahayana dal quale il buddismo tantrico lamaista discende.

Non lasciamoci confondere: il Dalai non è cristiano e se dice di credere alla

fratellanza tra le genti, mente. Il Buddismo nasce seicento anni prima di Cristo, ma è stato Gesù, primo ed unico nella storia del mondo, a dire che tutti gli uomini sono fratelli. Nel Buddismo tradizionale, il concetto di fratellanza universale tra i popoli non esiste, tantomeno nel buddismo Mahayana. La fratellanza esplicata mediante il sacrificio di se stessi a beneficio degli altri e la non violenza, che da ciò inevitabilmente consegue, sono valori squisitamente cristiani, non affatto buddisti e per nulla lamaisti. L’osservazione dei fatti, induce a ritenere che il Dalai pensi innanzitutto alla restaurazione dei privilegi smarriti e quest’ultimo rovesciamento di posizione, che contraddice in larga parte tutto quello che si era sentito dire sino ad oggi sulla rivendicazione d’indipendenza del popolo tibetano, non farebbe altro che dimostrarlo.

La Repubblica Popolare Cinese è oggi il paese economicamente più potente al

mondo e quindi si è indotti a ritenere che il Sig. Döndrub stia concertando un piano del tutto realista, perché il Dalai sarà pure “lama”, ma non è certo “asino”: da un lato, la rinuncia all’indipendenza per far contenti quelli di Pechino; dall’altro, la riconquista e la restaurazione del potere personale e dei vantaggi che gli deriverebbero dall’essere a capo di uno stato speciale, situato nella nazione più potente del globo. Il tutto, in perfetto stile pragmatico estremo orientale.

48 Episodio meglio conosciuto come “La Proposta di Strasburgo”, occorso il 15 Giugno 1988 a Strasburgo, durante una seduta dell’allora Parlamento Europeo.

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Facciamo, però, anche un’altra considerazione, forse ben più importante. In Cina, come vedremo per meglio più avanti, ci sono cinquantasei gruppi etnici. Il gruppo Han è quello prevalente e i restanti cinquantacinque sono detti “minoranze”. Allora, con ben cinquantacinque minoranze etniche a disposizione, per quale motivo l’Occidente si preoccupa solo di quella Tibetana, specialmente quando sostiene che il governo cinese vuole lo sterminio di tutte le minoranze? D’altronde, anche tra gli Uygur e gli Hui ci sono fazioni che manifestano un desiderio di indipendenza. Perché, dunque, non un supporto della comunità internazionale anti-cinese anche per loro?

Le ragioni sono due: innanzitutto perché Uygur e Hui sono musulmani ed i legami

delle loro frange estremiste con Al Qaeda49 non sono un mistero. Quindi, l’americana CIA (principale e forse unica orchestratrice di questo tipo di rivolte in Cina) e l’impalcatura di Hollywood non possono certamente supportarli, vista la politica estera di Washington ed il sentimento dell’opinione pubblica mondiale dall’11 Settembre 2001 in poi50. La seconda, è che tra le restanti cinquantuno etnie non ce n’è manco una che abbia un credo religioso integralista, come quello del lamaismo, su cui far presa. Difatti, quella della ribellione per motivi religiosi resterebbe oggi l’unica via efficacemente percorribile dai cospiratori, tanto è vero che quello del miglioramento delle condizioni di vita e dell’innalzamento del livello sociale di benessere, sarebbe un discorso assolutamente anacronistico nella Cina di oggi.

Quindi, le argomentazioni classiche e storicamente usatissime come quelle della

“libertà dal feroce regime comunista oscurantista ed oppressore” oggi non troverebbero alcuna adesione, perché prive di fondamento. Per cui, il possibile sovvertitore è costretto a dirottare le proprie strategie disfattiste verso altri pretesti e quello della “libertà religiosa” appare l’unico percorribile, ma ahimè, per poter parlare ad un popolo di libertà religiosa al punto di portarlo a ribellarsi violentemente, bisogna che questo popolo sia religioso in maniera radicale e, purtroppo per i cospiratori, nella Cina di oggi questo tipo di substrato non c’è o non è quantitativamente sufficiente, nemmeno in Tibet.

Dopo aver compiuto queste osservazioni, si è fortissimamente tentati di ritenere che l’intento principe non sia affatto quello di salvare l’indipendenza culturale di alcuna minoranza etnica, ma esclusi-vamente quello di minare l’unità della Cina a fini di una successiva spartizione tra le potenze occidentali, come, del resto, è anche lo stesso Dalai a sostenere e come abbiamo già detto nei paragrafi precedenti. Tornando al Dalai, protagonista di questo capitolo, vorrei adesso proporvi una riflessione “estetica”, ma certamente non di minore importanza.

Che l’abito “non faccia il monaco” è vero, ma è anche vero che un monaco l’abito deve avercelo… quantomeno per sembrare un monaco.

49 C’è chi crede al fatto che Al Qaeda esista sul serio e chi, invece, sostiene che sia semplicemente una lista del libro paga della CIA nella quale erano elencati tutti i Mujaheddin che essi addestrarono e finanziarono per combattere i Sovietici nel decennio 1979-89 e che oggi, invece, chiamano “Talebani”; 50 Vedi il dietrofront di Obama che, nell’Agosto 2010, aveva inizialmente proposto la costruzione di una moschea a “Ground Zero” per poi ritrattare, costretto dalle veementi critiche della comunità ebraica, dei parenti delle vittime, ma, soprattutto, da un’opinione pubblica contraria tra il 66 e il 70%, secondo i sondaggi (cfr. http://www.ilsecoloxix.it/p/mondo/2010/08/14/AMtMcYxD-moschea_dietrofront_parziale.shtml).

Il Potala Palace a Lhasa. (tradizionale residenza del Dalai Lama)

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Ecco come si abbigliavano gli alti gerarchi del lamaismo (foto a lato) nelle occasioni pubbliche, quando ancora signoreggiavano indisturbati in Tibet. Non ho trovato indicazioni precise sulla data di questa foto, ma verosimilmente risale alla seconda metà degli anni ’50. Vediamo Mao Ze Dong affiancato da due giovani, felici e sorridenti: si tratta, a sinistra, del 10° Panchen Lama e, a destra, dall’attuale 14° Dalai Lama. Gli abiti dei due Lama sono di seta e broccati, ma non c’è nulla di scandaloso, anzi. Era assolutamente normale che le due cariche più alte di un potere teocratico assolutista come il lamaismo dimostrassero anche con l’abbigliamento la potenza del proprio ruolo politico e sociale. Purtroppo, però, l’immagine di un monaco che deve essere finanziato dall’Occidente, deve corrispondere a ciò che l’opinione pubblica si aspetta di vedere, altrimenti niente sovvenzioni: l’occidentale, vuole vedere nel monaco i connotati di umiltà e di povertà, tra i quali gli immancabili piedi nudi o che, tutt’al più, calzino dei sandali. D’altronde, anche da noi, l’immagine dei primi monaci rifletteva comunque il benessere degli strati sociali più elevati. Basti pensare ai Benedettini51 che, fondamentalmente, erano tutti figli di famiglie patrizie o dell’alta borghesia. Fatta eccezione per gli eremiti, per vedere il monaco umile, povero e scalzo bisogna arrivare a San Francesco. Difatti, è proprio la rappresentazione del Poverello d’Assisi quella che più ha influenzato l’immaginario pubblico odierno. Per il cittadino occidentale medio, un monaco deve apparire come San Francesco per essere credibile. Questo è quanto intendevo quando ho scritto che il Dalai parla un linguaggio cristianeggiante per farsi accettare dall’Occidente che lo finanzia.

Fateci caso: anche la terminologia oggi usata per gli appellativi dei Lama è assolutamente congrua con questa strategia: “Sua Santità” (per il Dalai ed altri, ma fino a ieri era un appellativo che davamo solo al Papa di Roma); “Sua Eminenza” (per le alte cariche del lamaismo, ma titolo tradizionale dei nostri Vescovi) e persino “Reverendo”… tutte definizioni copiate dalla nomenclatura della Chiesa Cattolica. Insomma, questo è il risultato di una brillante operazione di marketing: scomparse sete e broccati, gli incontri ufficiali si fanno indossando l’umile abito dei “tre veli” e gli appellativi sono gli stessi della gerarchia ecclesiastica della Chiesa di Roma, affinché nelle mente delle persone semplici si fissi

subliminale il concetto che i Lama sono umili e poveri come San Francesco, nonché sacri ed inviolabili come i sacerdoti cristiani. Gli esperti di comunicazione, i costumisti e gli scenografi di Hollywood hanno compiuto la metamorfosi. Del resto, quello degli effetti speciali è il loro mestiere, da sempre.

((IINNDDIICCEE))

51 Fu il primo ordine monastico cristiano “ufficiale”, fondato da San Benedetto da Norcia (480-547) nel 540 circa. Per inciso, merita sottolineare che l’origine del concetto di “monachesimo” non è cristiana, ma orientale e che comunque sono esistite forme di monachesimo cristiano precedenti ai Benedettini.

(da sinistra)

Lobsang Trinley Lhündrub Chökyi Gyaltsen Mao Ze Dong

Lhamo Döndrub

(da sinistra) Lhamo Döndrub e Barack Obama

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CCAAPPIITTOOLLOO VVIIIIII

II FFAATTTTII DDII LLHHAASSAA,, 1144 MMAARRZZOO 22000088

Il 14 Marzo 2008, a Lhasa, capitale del Tibet, si sono verificati violenti disordini che hanno visto la morte di molte persone. La notizia diffusa in occidente è stata quella di una rivolta del popolo tibetano contro l’occupazione, ribellione che sarebbe stata repressa nel sangue, mediante il tentato sterminio di un’intera etnia, dal parte dell’esercito cinese invasore. Esiste anche un’altra versione: i disordini sono stati causati ad arte da un gruppo di lamaisti, seguiti e supportati da sciacalli che hanno colto l’occasione solo per commettere violenze e ruberie di ogni genere.

Si tratta, quindi, di vedere quale delle due versioni sia quella che, maggiormente,

si avvicini alla verità ed è esattamente quello che tenteremo di fare in questo capitolo. La stampa occidentale ha enfatizzato il fatto che dopo gli incidenti di Lhasa del

Marzo 2008 YouTube52 sia stato oscurato dalla censura cinese. Verissimo. YouTube è stato oscurato per impedire la diffusione di certi filmati della

CNN, dove riprese girate in India e Birmania venivano spacciate come relative ai disordini di Lhasa. Se la CNN abbia poi rivolto scuse ufficiali a Pechino, quella stessa stampa occidentale non l'ha mai detto. Fatto sta che bisogna armarsi di santa pazienza e rovistare un bel po' in internet per trovare la notizia53.

L’analisi dei fatti documentati, non può assolutamente far escludere l’ipotesi che i

lamaisti - stante il ricorso alla violenza compassionevole come metodo di azione storicamente accertato - per attirare l'attenzione mondiale e dato il periodo preolimpico, abbiano intenzionalmente causato i disordini per provocare la reazione della polizia cinese e quindi per mostrarsi al mondo come vittime, senza esitare nel sacrificare non solo la propria vita, ma soprattutto quella di molti civili innocenti, travolti loro malgrado.

Infatti, sono state sì riportate le cronache dei disordini, ma non risulta che nessun

organo d’informazione occidentale abbia sinora spiegato compiutamente il perché della rivolta. Che cosa è veramente successo? Perché i lamaisti, a un certo punto, hanno iniziato a comportarsi così violentemente? Voglio dire: fatto salvo l’annoso problema dell’indipendenza, c’è stata una causa specifica, un evento, un motivo scatenante in particolare, per quelle violenze?

Al momento, in attesa di spiegazioni soprattutto da parte di coloro che hanno

invece condannato l’intervento della polizia cinese, possiamo solo dire che si è trattato di atti di violenza non innescati da alcun episodio in particolare, certamente causati di proposito per ordine del Dalai Lama ed unicamente destinati a far tornare i media sulla filastrocca dell’indipendenza del Tibet, sfruttando il periodo dei riflettori accesi sulla Cina per le imminenti Olimpiadi.

Questa affermazione trova ampia conferma nelle dichiarazioni che il Dalai Lama

rilasciò, alcuni mesi prima dell’evento, durante un’intervista concessa all’emittente britannica ITV ed esattamente il 17 Gennaio del 2008.

52 www.youtube.com noto sito internet dove ognuno può liberamente (per ora) pubblicare video e documenti da mettere a disposizione degli altri visitatori. YouTube è stato anche querelato da Mediaset nel Luglio 2008. 53 vedi http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8697 nonché http://towardfreedom.com/home/content/view/1290/65/ e molti altri ancora.

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Secondo il resoconto di quell’intervista, tutt’ora disponibile in internet54, il Dalai ha espressamente sollecitato i suoi seguaci a protestare pacificamente in occasione delle Olimpiadi di Pechino. Il Dalai, nel corso di tale intervista, ha dichiarato che tali proteste avrebbero fatto si che “ … la causa d’indipendenza tibetana fosse riportata all’attenzione del popolo cinese … ”. Il simpaticissimo Lhamo, con questa frase ha oltretutto offeso l’intelligenza dei suoi ascoltatori: lui sa bene che tutti i cinesi – ma proprio tutti, compresi quelli di Taiwan – considerano il Tibet come parte indissolubile della Cina, da sempre. Perché allora ha detto questa grossolana fesseria? Perché l’intento era ben altro e adesso mi spiego.

Secondo voi, per quale ragione il Dalai ha chiesto una protesta “pacifica” quando

nessuno meglio di lui sa che nessuna protesta separatista in Cina può mai essere pacifica? Perché l’omino giallorosso sapeva perfettamente quello sarebbe accaduto. Bisognava provocare la reazione della polizia cinese per avere dei morti e così è stato. E’ accaduto esattamente quello che lui ha voluto, con premeditazione e perfetta cognizione di causa: lo scorrere del sangue, ma non del suo, bensì di quello degli altri, mandati al macello per il proprio tornaconto. Ecco un altro fulgido esempio di che cosa sia la “violenza compassionevole” del lamaismo.

Non solo. Ad esempio, lo stesso giornalista Federico Rampini, in suo articolo su

Repubblica di quei giorni ed anche se lo ha un po' nascosto tra le righe, non ha potuto non citare l'episodio dell'incendio alla moschea di Lhasa, che però ha “flemmatizzato” definendolo un semplice danneggiamento.

Invece, secondo quanto è stato documentato, le cose sono andate diversamente.

Secondo le testimonianze, non solo dalle telecamere a circuito chiuso installate a Lhasa (i cui filmati sono stati ampiamente diffusi da CCTV 55 , ma mai trasmessi dalle televisioni occidentali), ma, soprattutto, di giornalisti europei lì presenti in quei giorni56, i lamaisti, oltre ad aver aggredito, picchiato a sangue e lapidato a morte dei passanti di etnia Han e Hui57, aver distrutto negozi di proprietà Han e Hui, incendiato case di gente Han e Hui, aver dato fuoco al mercato, hanno persino incendiato la moschea di Lhasa. Perché mai l’hanno fatto? Che c’entrano i mussulmani Hui, che tra l’altro sono loro vicini di casa in quanto originari dello Xinjiang, con i cinesi “invasori” Han?

Il terribile sospetto è che non si sia davvero trattato di un caso fortuito. Il 14

Marzo 2008 era venerdì, giorno sacro per i mussulmani e l’incendio è stato provocato intorno alle otto e trenta di sera58. Testimonianze oculari, raccolte da grandi testate come il Wall Street Journal, The Guardian, BBC e l’Economist, concordano nel dire che i lamaisti assalitori della moschea, contestualmente ad aver appiccato le fiamme, hanno linciato alcuni Hui che lì si trovavano.

La polizia, poteva stare a guardare? Se si fosse trattato di una manifestazione

pacifica, un corteo, una sfilata di dimostranti e la polizia cinese avesse caricato sparando sulla gente inerme, solo perché agitava qualche bandiera o mostrava qualche striscione, la più severa delle risposte della comunità internazionale non sarebbe bastata a rendere giustizia.

54 http://www.freetibet.org/newsmedia/dalai-lama-calls-supporters-stage-peaceful-protests-during-olympics 55 China Central Television, la televisione di stato cinese. 56 Ad esempio, il corrispondente dell’Economist, il cui pezzo è visibile in rete a questo link, sebbene riservato ai soli utenti registrati http://www.economist.com/world/asia/displaystory.cfm?story_id=10871821 57 Vedi http://www.eturbonews.com/1771/chinese-beaten-mercilessly-tourists-so-what-r Quello degli Han è il gruppo etnico dominante in Cina, così denominato perché ritenuto proveniente dal bacino del fiume Han nella Cina centrale. Gli Han rappresentano il novantadue percento della popolazione cinese in Cina e quasi il venti percento di tutta la popolazione mondiale. Gli Hui sono una minoranza mussulmana, stimata in circa dieci milioni di individui, probabili discendenti di mercanti persiani ed arabi stabilitisi in Cina. 58 Orario che coincide con la preghiera mussulmana serale: “... Esegui l'orazione alle estremità del giorno e durante le prime ore della notte...” (Corano, Surah 11, 114-115). Il sole a Lhasa tramonta intorno alle sette e mezza di sera.

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Invece, non è stato così. E’ facile capire che se i Lama si fossero limitati ad un pacifico corteo di protesta, non ci sarebbero state morti. Al massimo, sarebbero stati dispersi con qualche lacero-contuso e nulla più, come già più volte accaduto. Avevano invece bisogno di morti e feriti per sollevare nuovamente il problema dell’indipendenza del Tibet? Seguendo il loro principio secondo il quale la violenza “compassionevole” è un mezzo indispensabile attraverso il quale ristabilire l’ordine delle cose e stando anche al modo in cui si esprimono pubblicamente i leader del TYC (Tibetan Youth Congress)

59 evidentemente sì.

Non solo. Così scriveva nientemeno che un illustre personaggio come Sergio

Romano60 sul “Corriere della Sera” 61 il 18 Aprile 2008: “ […] Ma la violenta rivolta dei monaci a Lhasa e in altre province cinesi dove abitano importanti comunità tibetane, è stata una insurrezione conservatrice. […] Durante una visita organizzata dal governo di Pechino dopo le agitazioni dello scorso marzo, i corrispondenti stranieri hanno fatto due constatazioni interessanti. In primo luogo si sono accorti che i monaci tibetani, contrariamente alla loro reputazione occidentale, non sono cultori della «non violenza» e ne hanno dato la prova con una furia devastatrice che ha colto di sorpresa le forze di polizia. In secondo luogo hanno compreso che la loro rivolta non era diretta soltanto contro i cinesi, ma anche contro una classe emergente di tibetani che stanno sfruttando i vantaggi della modernizzazione. Quello a cui abbiamo assistito, in altre parole, non è, se non in parte, uno scontro fra democrazia e dittatura.È anche il segno di una frattura sociale che si è aperta all’interno della società tibetana.Non è necessario essere marxisti o anticlericali per osservare che la Cina recita in questa faccenda, sia pure con i modi intolleranti di un regime autoritario, la parte della modernità e che i monaci, come si sarebbe detto una volta, quella della reazione."

Per far intervenire la polizia cinese in modo violento e quindi per procurarsi la

massima attenzione internazionale, il Dalai sapeva che i suoi avrebbero dovuto usare la violenza per primi. Per questo ha sollecitato la manifestazione.

Quindi, nel pieno “rispetto” dell’uso della ferocia quale matrice della propria

tradizione culturale “compassionevole”, il Dalai ed i suoi hanno voluto e saputo far scorrere del sangue, ancora una volta. Il fatto storicamente inconfutabile, perché documentato, è che i Lama ed i loro aficionado si sono scagliati violentemente contro tutto quello che era Han e Hui: case, negozi, banche, auto, oggetti e persone.

La polizia cinese, dal canto suo, in quella circostanza ha fatto quello che avrebbe

fatto qualsiasi altra polizia del mondo in situazione analoga: ha protetto gli aggrediti dagli aggressori.

59 Movimento dei tibetani in esilio volontario, fondato il 7 Ottobre 1970 a Dharamsala, che combatte per la restaurazione della completa indipendenza del Tibet, comprese le tre province U-Tsang, Do-toe e Do-med che il TYC rivendica come tradizionalmente appartenenti al Tibet, i cui territori però sono attualmente situati in India, Butan, Nepal e Myamar (l’ex Birmania). 60 Storico, scrittore, giornalista e diplomatico italiano. Giornalista pubblicista dal 1950. Ambasciatore presso la NATO, insegnante universitario ad Harvard (USA), Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana. 61 Vedi http://www.corriere.it/romano/08-04-10/01.spm

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La polizia cinese, lo si voglia o no, faccia piacere o meno, è intervenuta secondo le più elementari norme di pubblica sicurezza, cioè riparando la cittadinanza di Lhasa dalle violenze di esagitati che si stavano comportando in maniera pericolosa per l’incolumità delle persone, punto. L’aspetto politico che altri indicano, c’entra ben poco.

Tuttavia, l’intervento delle forze dell’ordine è stato tardivo. Inizialmente, la polizia

è rimasta estremamente passiva di fronte allo svolgersi dei disordini. Quando, invece, sono intervenuti, già in molti tra Han e Hui erano stati uccisi o feriti dai rivoltosi.

Che quegli esagitati fossero vestiti di giallo e porpora è normale, perché tutti i

Lama sono acconciati in quel modo. Essere Lama non significa implicitamente né essere santo, né essere delinquente. Sono le azioni che determinano la condizione di un uomo, sia per i Lama che per ogni altro essere del genere umano. Che fossero dei Lama ad avere, in quella circostanza, un comportamento aggressivo, è assolutamente irrilevante ai fini della pubblica sicurezza: la polizia, ovunque nel mondo, ha il preciso dovere di intervenire contro la violenza a tutela della pubblica incolumità.

Ad esempio, non è che se cento preti invadono via Veneto a Roma rompendo

vetrine, incendiando le cose e malmenando passanti, la polizia italiana non interviene solo perché sono preti, mi pare ovvio. Non si può giustificare la commissione di un crimine con la politica o con la religione. Il movente a fini politici o religiosi di un reato, non può e non deve attenuarne la gravità, ma deve, al contrario, stigmatizzarla.

Quindi, se non ci scandalizza il fatto che quei teppisti abbiano affermato che con

quelle violenze stavano rivendicando l’indipendenza del Tibet, allora dovremmo altrettanto accettare come legittimo che qualsiasi delinquente accampi qualsiasi giustificazione per qualsiasi crimine commesso, qualunque esso sia e chiunque egli sia (ricordiamo, ad esempio, gli espropri proletari degli anni ‘70, i terroristi assassini che si auto-proclamano prigionieri politici, i misfatti dei Black-Blocks durante il G8 di Genova nel 2001 e, ahimè, gli uomini-bomba dell’estremismo islamico che si dichiarano martiri).

Il 14 Marzo 2008 la polizia cinese è intervenuta innanzitutto per proteggere

l’incolumità dei cittadini e quanto sto per esporvi lo conferma. Ho trovato alcuni filmati interessantissimi su YouTube, la cui autenticità è evidente. Per il primo di questi video c’è, però, un dettaglio assolutamente singolare da evidenziare. E’ stato intitolato “BANNED BY CHINA - Tibet riot truth” (trad.: CENSURATO DALLA CINA – La verità sulla rivolta in Tibet). Un titolo del genere, lascia presagire che si tratti di un video che mostra qualcosa di cui le autorità cinesi dovrebbero vergognarsi perché illustrante, magari, le violenze commesse su poveri cittadini inermi da parte di polizia ed esercito, come la stampa occidentale ci ha raccontato.

Ebbene, i casi sono due: o la persona che l’ha pubblicato è un inguaribile

mattacchione (a cui piace molto l’humour nero, per la verità), oppure ha dei seri problemi di lucidità in senso psichiatrico intesa. Il filmato, il cui link è riportato alla nota62 a piè di pagina, al contrario di quanto annuncia il suo titolo, mostra tutta la violenza e l’efferatezza con la quale gruppi di teppisti tibetani, sotto la guida dei Lama, hanno messo la città a ferro e fuoco.

Nonostante l’indubbia originalità, le immagini scorrono rallentate, ma l’audio no.

Ve ne accorgerete perché il sonoro termina ben prima delle immagini (gli ultimi sei minuti sono muti). Questo, a detta di un tecnico che ho interpellato per spiegare l’anomalia, sarebbe solo un effetto tipico da imputare ad un errore di conversione del file dal formato originale.

62 http://www.youtube.com/watch?v=TqBvA1jIhcg&NR=1

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Il filmato, che è stato verosimilmente girato da un turista, merita di essere così commentato: • Inizio: la scena rappresenta lo sbigottimento di un gruppo di gente (quello col

megafono è la guida della comitiva turistica alla quale verosimilmente appartiene l’autore del filmato) che odono urla bellicose senza inizialmente riuscire a comprendere da dove provengano;

• 45° secondo: la gente inizia a scappare, voltandosi a guardare indietro, verso un punto che la telecamera ancora non inquadra. Anche il cameraman scappa e ferma la ripresa;

• 57° secondo: l’inquadratura riprende da più lontano. A distanza di sicurezza, il turista fa una zoomata sulla posizione dove tutti puntavano lo sguardo mentre scappavano e si vedono comparire alcuni Lama, riconoscibili per le tuniche color porpora;

• minuto 1 e 9 secondi: i Lama prendono a correre in senso inverso, tornando da dove erano venuti. Uno di loro, si china a raccogliere una pietra e la scaglia, poi le immagini proseguono illustrando altre scene di violenza;

• minuto 2 e 10 secondi: una donna a bordo di un ciclomotore è stata appena fermata da un gruppo di teppisti che l’hanno gettata a terra, ma la ragazza riesce a fuggire lasciando la moto alla mercé degli assalitori, minacciata da un uomo che impugna un bastone bianco e che accenna blandamente ad inseguirla;

• minuto 2 e 40 secondi: nell’inquadratura, si vedono cinque persone in primo piano. Osservate attentamente il quarto da sinistra, quello vestito di grigio scuro al di là della transenna. Precedentemente, vi ho già parlato del Tsep-sa, ovvero del pugnale (ma meglio sarebbe definirlo “spada corta”) che i tibetani possono portare liberamente per legge, in quanto facente parte della loro tradizione culturale. Eccolo, quindi, in azione63: l’uomo lo sfodera dalla cintura e trafigge la gomma della ruota anteriore della moto, rischiando di ferire un altro ragazzo che, spaventato, fa un balzo all’indietro;

• minuto 3: teppisti che assalgono e danneggiano negozi di proprietà di cinese, sotto

lo sguardo impassibile di alcuni Lama a poca distanza. Un paio di questi “religiosi” tenta addirittura alcuni calci frontali in volo, stile “Chuck Norris”, contro una saracinesca. Queste violenze, come le immagini mostreranno impietose più avanti, sono mirate a colpire gli “invasori” nei loro interessi, soprattutto danneggiando e svaligiandone le proprietà;

• minuto 4 e 50 secondi: alcune persone fanno “catena” passandosi dei cartoni di merce, frutto della razzia ad un negozio;

• minuto 5 e 24 secondi: si vedono i Lama, con le loro tuniche giallorosse che osservano, conniventi, la devastazione. Infatti, non sembra che stiano tentando in alcun modo di fermare le violenze, anzi, sembra quasi che dirigano le operazioni, perché alcuni di loro si sbracciano indicando cose qua e là;

• minuto 6 e 34 secondi: l’inquadratura si allarga e mostra gli effetti del saccheggio e delle brutalità in tutta la loro efferatezza, senza che per il momento ci sia traccia né di “polizie”, né di “eserciti” che “massacrano” i rivoltosi;

• minuto 7 e 45 secondi: ancora i teppisti ed i loro mentori giallorossi che esprimono tutto il proprio desiderio d’indipendenza portandosi a casa coperte e materassi rapinati dai negozi assaltati;

• minuto 7 e 50 secondi: passante assalito da un gruppo di dementi che abbozzano un tentativo linciaggio;

63 La stessa sequenza sul Tsep-sa, nonché di un’altra simile sull’uso del pugnale, è visibile in quest’altro video: http://www.youtube.com/watch?v=btX28vIrh2w&feature=related, al minuto 1 e 37 ed al minuto 1 e 52.

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• fino alla fine: ancora immagini della devastazione, con Lama e vandali che se la passeggiano tranquillamente tra i frutti della loro religiosa aggressività. Di polizia ed esercito, nemmeno l’ombra, nonostante le immagini mostrino incendi consumati e distruzione diffusa, dando prova di come le violenze fossero cominciate già da un bel pezzo.

Il secondo filmato che vi segnalo è stato girato da un turista australiano, poi

trasmesso dall’emittente ABC News, dalla quale è stato ripreso per caricarlo in YouTube. Il link per chi volesse vederlo è quello riportato alla nota 64.

L’autore pare essere un personaggio al di sopra di ogni sospetto: tale Mike Smith,

un ragazzo ventiquattrenne (ad un certo punto del filmato si auto-inquadrerà) in vacanza a Lhasa insieme ad amici. Nonostante i suoi commenti siano quelli che ci si aspetta da un qualunque occidentale conformato al pensiero collettivo (in sostanza, egli dice che i tibetani stavano combattendo per la libertà del proprio paese, ribellandosi

all’invasore cinese), il video, le cui immagini sono qualitativamente migliori del precedente, illustra ulteriormente le violenze delle quali si sono resi responsabili i rivoltosi. Ma i commenti che Mike Smith ha rilasciato alle televisioni occidentali che lo hanno successivamente intervistato, franano miseramente di fronte alla crudezza delle immagini di quest’altro video, la cui visione vi sconsiglio se siete impressionabili: http://www.youtube.com/watch?v=JZLzKBvvGMg.

Ovviamente, ho provveduto a scaricare tutti questi filmati e, se al momento in cui andaste a vederli fossero stati rimossi - come purtroppo accade spesso a questo genere di documenti - potrete richiedermeli per E-mail.

La conclusione è che il 14 Marzo 2008, la polizia cinese non ha represso nel sangue alcuna rivendicazione di libertà lamaista, perché sfondare le vetrine di negozi e banche, dar fuoco alle auto ed alle case con la gente dentro, bastonare, lapidare, pugnalare ed uccidere civili innocenti, non sono azioni riconducibili a nessuna rivendicazione di libertà: è solo violenza efferata ed imbecille65. Ma torniamo all’incendio della moschea di Lhasa perché è importantissimo. Se tutti gli organi di informazione occidentali hanno taciuto l’episodio, o hanno tentato di minimizzarlo, o lo hanno fatto passare come episodio di secondaria importanza, o come inevitabile conseguenza d’inerzia per le violenze innescatesi, è proprio perché sanno, invece, quanto la cosa sia rilevante.

64 Vedi http://www.youtube.com/watch?v=FP8ELPLESYI&NR=1 65 Vedi: http://news.bbc.co.uk/2/hi/asia-pacific/7989962.stm

Una delle quattro moschee mussulmane di Lhasa.

Foto tratta da: http://en.wikipedia.org

Fedeli musulmani in preghiera nella moschea.

Foto tratta da http://cache4.asset-cache.net

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L’incendio della moschea di Lhasa, infatti, ha una valenza assoluta e di primissimo piano: è esattamente in questo misfatto che troviamo la vera motivazione delle violenze. E’ in questo atto squisitamente gratuito e criminale – nascosto o fatto passare in sordina dalla stampa occidentale – che ci sono il movente, l’arma del delitto e le impronte digitali del colpevole.

Mi spiego. Anche i mussulmani cinesi rivendicano autonomia66. Il comune buon

senso farebbe supporre che i lamaisti avrebbero dovuto, casomai, cercare l'alleanza di altri indipendentisti e non aggredirli.

Perché dunque? La risposta non è difficile da dare. Basta, come ho già detto, osservare la cosa restando vicini al fatto oggettivo.

Un mio caro ed indimenticato maestro diceva: «Quando uno è ranocchio, è

ranocchio. Anche se indossa lo smoking, come vede una pozzanghera, si tuffa!» e l’incendio alla moschea di Lhasa è stata una tentazione irresistibile di fronte alla quale il “ranocchio lamaista” non ha saputo frenarsi.

I Lama, vieppiù invasati e nel turbine della ferocia, non hanno saputo resistere al richiamo della propria cultura violenta per dar luogo all’ennesima azione di intolleranza religiosa, quale peculiarità di un metodo storicamente acclarato.

Non c’entrava nulla incendiare la moschea per rivendicare la propria indipendenza,

ma questo episodio, se adeguatamente messo in risalto, avrebbe tradito i Lama di fronte all’opinione pubblica mondiale ed è per questo che è stato abilmente edulcorato, talvolta persino censurato, dai media occidentali.

La fedele narrazione di questo episodio, infatti, avrebbe pericolosamente messo a

nudo la vera essenza dell’intento lamaista: non l’indipendenza, non la rivendicazione di un diritto umano, bensì l’intento restauratore a favore di un regime teocratico e feudale, con l’egemonia culturale e religiosa quale indispensabile presupposto.

Checché se ne dica e se e pensi, l’incendio alla moschea di Lhasa dimostra, quindi,

in modo inequivocabile, che i lamaisti continuano, ancora oggi - con buona pace di Richard Gere e Brad Pitt - ad essere animati da ispirazioni violente non solo in tema di indipendenza, ma anche e soprattutto quando si tratta di confrontarsi e convivere non solo con altri popoli e con altre religioni, ma addirittura con sfumature diverse del loro stesso credo, come dimostra il documento che segue:

66 Si vedano i fatti di Urumqui (Xingjiang), relativi ai disordini innescati dalla comunità mussulmana degli Uygur nel Luglio 2009.

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27 Maggio del 2008 a Nottingham in Inghilterra.

Centinaia di adepti della comunità buddista Western Shudgen Society, provenienti da tutto il mondo, hanno dato vita a due manifestazioni di protesta, accusando il Dalai di attuare persecuzioni contro il loro credo.

A prescindere da qualsiasi valutazione di tipo religioso – ce ne guardiamo bene – sui princìpi che ispirano l’una o l’altra interpretazione del buddismo, l’intolleranza ostinata e brutale con la quale il lamaismo, da sempre, si pone verso le altre confessioni e le altre culture, è un dato di fatto incontrovertibile che non può essere ignorato e che deve far seriamente riflettere67.

Non c’è alcun bisogno di ricorrere a valutazioni ideologiche o politiche per capire

che il lamaismo, essendo stato un regime che ha sempre basato il suo potere sulla teocrazia, non può, in alcun modo, consentire che all’interno del proprio territorio si impiantino altri credo religiosi od altre culture che possano disconoscerne l’autorità.

Il perché è ovvio: se ci fossero altre religioni od altre culture, i loro adepti non riconoscerebbero l’autorità assoluta del Dalai Lama che quindi non potrebbe governare indisturbato, essendo venuto meno il presupposto principale che, per il lamaismo, è alla base del mantenimento del potere temporale teocratico, come dimostreremo molte altre volte più avanti. Ma la cosa inaccettabile è che la presenza di altre religioni in Tibet viene addirittura dipinta come “inquinamento culturale” da quello stesso Occidente ipocrita che, quando non si tratta di Tibet, definisce l’egemonia religiosa come discriminazione razziale (es.: fa togliere il crocifisso dalle aule scolastiche, consente di indossare il burka e via dicendo). Ma come si fa, dico io, ad essere continuamente presi per i fondelli in questo modo? Non lo considerate, anche voi, un insulto alla vostra intelligenza?

67 Vedi: http://www.youtube.com/watch?v=F1Oxgz_Z4vg

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Infine, orrore degli orrori, le prove migliori di come il lamaismo odierno non sia assolutamente intenzionato a rinunciare al proprio potere temporale mediante la stessa egemonia religiosa e culturale di sempre, non stanno nelle dichiarazioni del governo di Pechino, né in quelle dell’agenzia cinese Xinhua, né nelle attestazioni dei molti intellettuali, storici e politologi che pur conoscono la natura dispotica ed oscurantista di questo antico regime teocratico, ma nelle stesse affermazioni del Dalai Lama.

Lhamo Döndrub, nonostante abbia recentemente affermato che si

“accontenterebbe” di un certo genere di autonomia, nei suoi libri ha invece sempre rivendicato la costituzione di un “Grande Tibet”, che corrisponderebbe, geograficamente, ad un’estensione territoriale pari al doppio di quella sulla quale egli ed i suoi esercitarono il potere temporale sino al 1959.

Questo territorio immaginario, comprenderebbe, secondo il Dalai, tutta la

provincia del Qinghai nonché le aree delle province del Gangsu, dello Yunnan e del Sichuan dove si trovano minoranze tibetane, insieme ad altre etnie. Il tutto, s’intende, oltre ad aree al di fuori della Cina i cui territori però sono attualmente situati in India, Butan, Nepal e Myamar (l’ex Birmania).

La cosa terrificante è che l’omino giallorosso ha pubblicamente dichiarato di voler

realizzare il progetto del Grande Tibet mediante operazioni di vera e propria pulizia etnica. Testualmente, durante il Congresso USA del 21 Settembre 1987 al quale fu invitato, ha detto: «Sette milioni e mezzo di coloni dovranno andarsene.» 68 . L’affermazione, infatti, si riferisce al punto 2 del cosiddetto “Piano per la Pace in Cinque Punti”. In realtà, non si tratta affatto di coloni, ma di popolazioni che vivono insieme da svariati secoli.

Ecco, quello di cui l’opinione pubblica occidentale non si rende conto, sia perché i

media sono abilissimi a mascherarlo, sia per assoluta ignoranza sulle culture estremo-orientali, è la matrice pragmatica ed assolutista sulla quale il lamaismo e la sua filosofia si fondano.

Tanto è normale ricorrere alla violenza per queste culture (non solo per il

lamaismo), che il Dalai non ha battuto ciglio nel pronunciare una frase così orripilante e feroce proprio nel cuore del Congresso Americano, cioè di quella che viene indicata – a torto od a ragione – una delle massime espressioni di democrazia nel mondo.

Al di là del fatto che anche questa dichiarazione sia perfettamente congrua con la

realizzazione del piano di smembramento della Cina, se anche gli avessero fatto notare l’inammissibilità di quella scandalosa affermazione, così impunemente resa di fronte ad uno dei congressi più democratici del pianeta, Lhamo Döndrub ne avrebbe sicuramente sostenuto la giustezza, giustificandola come assolutamente coerente con gli insegnamenti del buddismo Vajrayana e nessuno, da quel punto di vista, avrebbe mai potuto smentirlo. La narrazione di quest’ultimo episodio, mi pare quindi un’ottima introduzione per il capitolo che vi apprestate a leggere e che è, senza dubbio, uno dei più importanti di questo libro.

((IINNDDIICCEE))

68 Vedi: http://www.tibetjustice.org/materials/tibet/tibet3.html

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CCAAPPIITTOOLLOO IIXX

LLAA ““VVIIOOLLEENNZZAA CCOOMMPPAASSSSIIOONNEEVVOOLLEE””

Ho già accennato alla “violenza compassionevole” senza spiegarne a fondo il significato. Non a caso: ho voluto che leggeste prima tutto quello che ho scritto, così, adesso, potrete comprendere al meglio.

Il buddismo, in generale, viene presentato come una religione che aborrisce la

violenza e devo ammettere che io stesso, prima di intraprendere la scrittura di questo documento, lo credevo fermamente, al punto da essere assolutamente scettico verso l’ipotesi, comunque già circolante, che i buddisti tibetani non fossero esattamente delle povere vittime innocenti. Poi, di fronte a certe cronache di lapalissiana evidenza, ho voluto documentarmi, scoprendo le cose che ho messo qui per iscritto.

La nostra immagine collettiva del buddismo, dicevo, è quella di una religione che

evidenzia la virtù della compassione universale non solo verso il genere umano, ma verso tutti gli esseri viventi. Da qui, anche l’equazione: buddismo = vegetarianesimo.

Allora com’è che, invece, in molte regioni dell’estremo oriente, sebbene schiettamente buddiste, l’alimentazione umana è ancora carnivora in modo prevalente? Perché certi buddisti estremo orientali si rendono spesso protagonisti di violenze di vario genere? Non avrete certamente dimenticato la strage del 20 Marzo 1995, perpetrata nella metropolitana di Tokio, con il gas nervino, dagli adepti setta buddista giapponese Aum Shinrikyo 69 , capeggiata dal santone Shoko Asahara70.

La spiegazione del perché, va semplicemente ricercata nel fatto che il buddismo estremo orientale – ed in particolare quello Mahayana71 al quale sia la setta Aum Shinrikyo, sia il lamaismo si rifanno, come già detto – non necessariamente rigetta l’uso della violenza, tutt’altro. Esso ammette la possibilità che individui spiritualmente realizzati (cioè i buddisti) possano commettere violenze in circostanze eccezionali.

69 “Aum Shinrikyo” è il nome di una setta giapponese che il 20 marzo 1995 ha immesso gas nervino Sarin nella metropolitana di Tokyo, provocando la morte di dodici persone. Già in precedenza in attentati minori diverse altre persone erano state uccise (…) “Aum” è considerata in genere una forma di buddismo. Al centro della sua dottrina, un miscuglio di insegnamenti Theravada, Mahayana e Vajrayana. Shoko Asahara, che oggi è in attesa della pena di morte comminatagli in seguito al processo per strage, ha avuto intense relazioni con il Dalai, dal cui entourage fu fattivamente sponsorizzato quando lottava per ottenere il riconoscimento dello status legale di organizzazione religiosa della sua setta. (cfr. http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/zen/notesullozen.htm) 70 Inizialmente, il Corriere della Sera, in un articolo del 21 Marzo 1995 a firma dei giornalisti Olimpio, Riotta, Santevecchi, Soglio e Volpi, attribuì la probabile responsabilità dell’attentato agli estremisti di destra, o all' armata rossa giapponese e persino alla grande mafia nipponica, la Yakuza. Neppure il minimo sospetto circa la matrice buddista del misfatto. Questo la dice lunga sul comune immaginario che abbiamo del buddismo. 71 Il lamaismo (buddismo tibetano) è una corrente del buddismo Vajrayana, il quale, a sua volta, è considerato lo sviluppo del buddismo Mahayana da cui, appunto, discende.

Scene di “violenza compassionevole”. Linciaggio di un cinese Han da parte di

un gruppo di rivoltosi (Lhasa, 14 Marzo 2008).

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Questo è altresì dimostrato dal fatto che esistono molte, apologetiche, interpretazioni tese a giustificare la presenza di immagini e rituali violenti nella letteratura buddista tantrica. Tali esegesi, che mirano alla reclame ed alla difesa del concetto di ricorso alla “violenza compassionevole” quale mezzo per il raggiungimento di scopi superiori, di fatto introducono un concetto bivalente, orrendo quanto ridicolo, da usare nell’uno o nell’altro modo secondo circostanza: la stessa identica azione violenta, è giustificabile se commessa da buddisti, mentre è da condannare se perpetrata da non buddisti.

C’è una branca del buddismo tibetano che si rifà agli insegnamenti del Buddha

Dorje Shudgen72 e che, di fatto, è vigorosamente osteggiata dal Dalai Lama. Gli adepti di questa confessione tibetana, che avevano sempre riconosciuto il Dalai come loro capo, ma che lui considera a dir poco eretici, in occidente sono conosciuti come The Western Shudgen Society, della quale abbiamo già parlato alle pagine 34 e 51.

Orbene, per quanto io abbia rivoltato il loro sito sopra e sotto, non sono stato in

grado di trovare alcuna spiegazione dettagliata sul perché il Dalai sia così contrario al loro credo al punto di distruggere l’esistenza e la vita (non solo virtualmente) dei loro adepti. Il sito della W.S.S. dà solo una denuncia del fatto, peraltro documentata in modo incontrovertibile, ma non spiega nulla sul perché. Forse la ragione sta nel fatto che le disquisizioni filosofiche sulla diversità di credo potrebbero essere incomprensibili per un non buddista, o chissà.

Comunque sia, perché cito questo avvenimento nel capitolo della “violenza

compassionevole”? Lo capirete subito. Benché questi signori critichino aspramente il Dalai per le persecuzioni messe in atto, non dimostrano alcuna diversità di metodo rispetto a quella del loro violento avversario.

Alla violenza persecutrice del Dalai, questi – che si sentono vittime - rispondono

con la violenza del ricatto. Si tratta quindi di un’ulteriore prova che il ricorso alla violenza, per il buddismo tibetano, è un mezzo normale, usuale e necessario. Nel loro sito, infatti, si trova pubblicata una lettera che i loro esponenti inviarono al governo tibetano in esilio (volontario) il 2 Ottobre del 2008, della quale vi traduco qui di seguito il testo, ma che potete comunque leggere in originale al link indicato in nota73:

LLeetttteerraa aappeerrttaa aall GGoovveerrnnoo TTiibbeettaannoo iinn eessiilliioo DDhhaarraammssaallaa,, IInnddiiaa TThhee KKaasshhaagg SSeeccrreettaarriiaatt CCeennttrraall TTiibbeettaann AAddmmiinniissttrraattiioonn DDhhaarraammssaallaa –– 117766221155 -- HH..PP..,, IInnddiiaa 22 OOttttoobbrree 22000088 NNooii ssoottttoossccrriittttii ddeellllaa WWeesstteerrnn SShhuuggddeenn SSoocciieettyy ssccrriivviiaammoo qquueessttaa lleetttteerraa iinn rriiffeerriimmeennttoo aall pprroobblleemmaa iinntteerrnnaazziioonnaallee ccaauussaattoo ddaallllee ppeessaannttii ddiissccrriimmiinnaazziioonnii rreelliiggiioossee ddeell DDaallaaii LLaammaa ccoonnttrroo llaa ccoonnffeessssiioonnee SShhuuggddeenn,, ddiissccrriimmiinnaazziioonnii cchhee ssttaannnnoo ccaauussaannddoo iimmmmeennssee ssooffffeerreennzzee aaii pprraattiiccaannttii SShhuuggddeenn ddii ttuuttttoo iill mmoonnddoo.. IIll 99 AApprriillee ddii qquueesstt’’aannnnoo,, llaa WWeesstteerrnn SShhuuggddeenn SSoocciieettyy hhaa iinnvviiaattoo uunnaa lleetttteerraa aa SSeerraa LLaacchhii,, aa SSeerraa JJeeyy eedd aa SSeerraa MMeeyy 7744.. NNeellllaa nnoossttrraa lleetttteerraa ddiicceevvaammoo::

72 Vedi: http://en.wikipedia.org/wiki/Dorje_Shugden 73 Vedi: http://www.westernshugdensociety.org/our-cause/tibetan-government-in-exile/ 74 Sono tre lamasserie in India.

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““CCoonncclluuddeennddoo,, vvii ooffffrriiaammoo dduuee aalltteerrnnaattiivvee:: 11.. DDii rreevvooccaarree ll’’eessppuullssiioonnee ddeeii sseeii mmoonnaaccii ee ddii ccoonnsseennttiirree lloorroo ddii rriieennttrraarree nneell

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SSee ccoonnsseerrvvaattee uunn ppoo’’ ddii ssaaggggeezzzzaa,, ddoovvrreessttee ccoommpprreennddeerree qquuaannttoo ssiiaa iimmppoorrttaannttee cchhee llaa rreeppuuttaazziioonnee ddeell DDaallaaii LLaammaa ssiiaa,, eessaattttaammeennttee iinn qquueessttoo mmoommeennttoo,, nneellllee nnoossttrree mmaannii.. SSeerraa LLaacchhii,, SSeerraa JJeeyy ee SSeerraa MMeeyy hhaannnnoo sscceellttoo ddii nnoonn ddiimmoossttrraarree ccoonnttrroo iill DDaallaaii LLaammaa ee,, ppeerr qquueessttoo,, nnooii aabbbbiiaammoo iimmmmeeddiiaattaammeennttee oorrggaanniizzzzaattoo mmaanniiffeessttaazziioonnii ddii pprrootteessttaa ccoonnttrroo iill DDaallaaii LLaammaa iinn ttuuttttoo iill mmoonnddoo.. CCiiòò ddiimmoossttrraa cchhee SSeerraa LLaacchhii,, SSeerraa JJeeyy ee SSeerraa MMeeyy hhaannnnoo ccoommmmeessssoo uunn ggrraavvee eerrrroorree:: hhaannnnoo ttrraassccuurraattoo ll’’iimmppoorrttaannzzaa ddeellllaa rreeppuuttaazziioonnee ddeell DDaallaaii LLaammaa.. SSaappppiiaammoo cchhee,, mmeetttteennddoo iinn pprraattiiccaa llee pprreecciissee iissttrruuzziioonnii iimmppaarrttiittee ddaall DDaallaaii LLaammaa ppeerr bbaannddiirree llaa pprraattiiccaa ddeell ccrreeddoo ddii DDoorrjjee SShhuuggddeenn,, ii ssuuooii RRaapppprreesseennttaannttii ddeeii ccaammppii ttiibbeettaannii iinn IInnddiiaa ((aadd eesseemmppiioo aa BByyllaakkuuppppee ee MMoonnggoodd)),, nnoonncchhéé ddii qquueellllii ddeellllee aallttrree ccoommuunniittàà ttiibbeettaannee ssppaarrssee ppeerr iill mmoonnddoo,, ssttaannnnoo ccoonnttiinnuuaammeennttee vveessssaannddoo,, ttoorrmmeennttaannddoo eedd uummiilliiaannddoo ggllii iinnnnoocceennttii pprraattiiccaannttii ddeell ccrreeddoo SShhuuggddeenn eedd ii lloorroo ffaammiilliiaarrii,, oossttrraacciizzzzaannddoonnee llaa ppaarrtteecciippaazziioonnee aallllaa ccoommuunniittàà ttiibbeettaannaa ee ccaauussaannddoo eennoorrmmee ssooffffeerreennzzaa.. CChhee ccoossaa ccii gguuaaddaaggnnaa iill DDaallaaii LLaammaa nneell pprroovvooccaarree ttaallii ssooffffeerreennzzee aa ddeellllaa ggeennttee iinnnnoocceennttee?? NNoonn ccii gguuaaddaaggnnaa nniieennttee.. CChhiieeddiiaammoo aa vvooii,, GGoovveerrnnoo TTiibbeettaannoo iinn eessiilliioo,, ddii aassssuummeerrvvii llee vvoossttrree rreessppoonnssaabbiilliittàà ppeerr ffeerrmmaarree qquueessttaa ddiissccrriimmiinnaazziioonnee rreelliiggiioossaa nneellllee ccoommuunniittàà ttiibbeettaannee ddii ttuuttttoo iill mmoonnddoo;; cciiòò ffaacceennddoo,, ppoottrreettee rriissoollvveerree ssiiaa ii vvoossttrrii pprroobblleemmii iinntteerrnnii cchhee qquueellllii iinntteerrnnaazziioonnaallii.. SSee nnoonn vvii pprreennddeerreettee qquueessttaa rreessppoonnssaabbiilliittàà,, llaa WWeesstteerrnn SShhuuddggeenn SSoocciieettyy nnoonn cceesssseerràà ddii eesseerrcciittaarree llee pprroopprriiee aattttiivviittàà ssiiaa ppeerr ccoonnqquuiissttaarree llaa lliibbeerrttàà rreelliiggiioossaa ppeerr ii pprroopprrii aaddeeppttii,, ssiiaa ppeerr lliibbeerraarree llee lloorroo ffaammiigglliiee ddaallllaa ssooffffeerreennzzaa.. EE’’ oorraa ddii ccoonnssiiddeerraarree llaa sseerriieettàà ddii qquueessttaa ssiittuuaazziioonnee.. FFaatteeccii ssaappeerree ssee mmaaii vvii aassssuummeerreettee qquueessttaa rreessppoonnssaabbiilliittàà ddii ffeerrmmaarree llaa ddiissccrriimmiinnaazziioonnee rreelliiggiioossaa ccoonnttrroo ii pprraattiiccaannttii SShhuuddggeenn ee llee lloorroo ffaammiigglliiee nneellllee ccoommuunniittàà ttiibbeettaannee ddii ttuuttttoo iill mmoonnddoo.. SSee nnoonn rriicceevveerreemmoo rriissccoonnttrroo ddaa ppaarrttee vvoossttrraa eennttrroo iill 2299 OOttttoobbrree 22000088,, iinntteerrpprreetteerreemmoo iill vvoossttrroo ssiilleennzziioo ccoommee rriiffiiuuttoo aallll’’aassssuunnzziioonnee ddii ttaallee rreessppoonnssaabbiilliittàà.. TThhee WWeesstteerrnn SShhuuggddeenn SSoocciieettyy

75 Nota dell’autore: vedete bene come questi singolari buddisti tibetani, invece di rivelare al mondo chi sia il Dalai in quanto atto dovuto per coerenza con i loro principi di verità e di onestà, minaccino di farlo solo se il governo tibetano in esilio (volontario) non dovesse cedere alle loro richieste. Il bello è che lo pubblicano anche. Abbastanza sconcertante direi.

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Naturalmentre, il Governo Tibetano in esilio (volontario) non ha mai risposto e quindi la W.S.S. ha organizzato davvero altre proteste in tutto il mondo. In aggiunta, il loro sito è diventato stracolmo di documenti per far sapere al mondo quale posto infernale fosse il Tibet durante la signoria lamaista e come il Dalai Lama sia stato ingiustamente identificato come guida spirituale ed uomo di pace mentre, a giudicare dalle prove che il sito illustra in abbondanza, si tratta solo di un efferato leader politico che ricorre senza remore alla violenza come sistema. Resta da capire che cosa, invece, sarebbe successo se il ricatto della W.S.S. fosse andato a buon fine. La W.S.S. avrebbe ugualmente messo il mondo a conoscenza della turpe storia del lamaismo e del suo operato? Avrebbe comunque tenuto fede alla missione di verità e giustizia, così come si invoca in una delle loro principali preghiere, quando chiedono al Buddha Dorje Shudgen la perenne purezza della mente? A giudicare dal tono della loro richiesta, pare proprio di no. Utilitarismo, pragmatismo, cura esclusiva degli interessi personali e costante ricorso alla violenza per la risoluzione dei problemi. Ecco: questi e non altri sono i principali postulati di “fede” del lamaismo tibetano, seguaci Shudgen o del Dalai che essi siano.

Tutte le persone di buon senso, amanti della verità, devono comunque rallegrarsi dell’esistenza di questa “eresia”, ma soprattutto dell’insensibilità del Dalai all’appello di fermare le persecuzioni. Infatti, è stato solo per rappresaglia a questo episodio che la Western Shudgen Society ha reso pubblici molti documenti segreti che io stesso ho usato ampiamente per questo libro. Se il Dalai avesse ascoltato la supplica della W.S.S., probabilmente non avreste mai potuto conoscere gran parte delle cose che vi sto raccontando, perché l’importante per la W.S.S. non è stato il divulgare la verità per il bene della verità, ma per vendetta verso il Dalai Lama.

Sempre su questa storia, su YouTube c’è un interessantissimo servizio (purtroppo

– per chi non lo parla – interamente in inglese) in due spezzoni, tratto dal programma “Reporters” della televisione francese “France 24”, che potrete vedere collegandovi al link indicato alla nota 76 . Questo reportage, girato in India nelle località dove si è stabilita la comunità tibetana, illustra la condizione di emarginazione e persecuzione nella quale versano i monaci ed i fedeli del credo Dorje Shudgen, dopo che il Dalai ne ha decretato la messa al bando.

Il servizio, in nome di un evidente par condicio, dà ampio spazio anche alle ragioni

del Dalai, ben condivise dai suoi fedelissimi, il quale sostiene che il Buddha Dorje Shudgen sia in realtà un demonio e che chi lo adora sia dedito alla violenza e ad altre pratiche biasimevoli. Subito dopo queste dichiarazioni espresse di fronte a centinaia di monaci in un’università tibetana del Thekchen Choeling Temple a Dharamsala (accadde il 10 Marzo del 1996), lui che la violenza dovrebbe ripudiarla (lo sanno tutti: ha anche vinto il premio Nobel per la pace) ha dato, invece, un clamoroso esempio di quanto sia dispotico il suo metodo bandendo ufficialmente i seguaci della confessione Shudgen da ogni angolo più recondito della propria comunità, ammonendo altresì i propri fedeli a non avere alcun tipo di relazione con costoro pena la scomunica.

Ma c’è di più. Naturalmente, il 14° Dalai ed i suoi seguaci teorizzano, anche fin

troppo ovviamente, che i monaci Shudgen siano finanziati dalla Repubblica Popolare Cinese. Quindi l’osservazione che dobbiamo fare per rimanere sereni nel giudizio, è la seguente: gli Shudgen, sono dunque diventati improvvisamente eretici perché pagati dal governo comunista di Pechino, oppure il governo di Pechino li sovvenziona perché hanno iniziato da soli, motu proprio, a disconoscere l’autorità del Dalai come capo supremo ed infallibile?

76 Vedi: http://www.youtube.com/watch?v=CgsuFBPP82c&feature=related

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Gli Shudgen sarebbero comunque dissidenti anche indipendentemente dalle eventuali sovvenzioni cinesi? La risposta non è difficile da dare ed è indubbiamente la terza. Perché esserne così sicuri? Perché Pechino non aveva alcun bisogno di inventarsi una confessione che esiste già da oltre 300 anni, ma soprattutto perché è stato il Dalai ad innescare questa contestazione, avendoli messi al bando. Salvo Pechino non abbia pagato il Dalai… tutto può essere, visto che quest’uomo è comunque avvezzo a prendere soldi in cambio dei propri favori. A proposito, com’è che si chiama una persona che prende soldi in cambio dei propri favori?

Di sicuro, si può legittimamente pensare che la Cina possa avere interesse ad

avere i praticanti Shudgen come alleati, ma c’è un dettaglio: anche gli Shudgen, esattamente come il Dalai, rivendicano l’indipendenza del Tibet. Capite? La matassa si ingarbuglia ancora di più. Si può dire: “Sì, però quel che più conta è la distruzione dell’immagine del Dalai e per questo grandioso regalo Pechino è ben disposta a chiudere un occhio, anzi due, sul fatto che anche gli Shudgen siano indipendentisti”. Ma se facciamo questa considerazione, allora, dobbiamo parimenti chiederci per quale ragione Pechino non se li è fatti alleati da subito, cioè fin dal 1959? Perché, come ho appena detto, sino qualche anno fa gli Shudgen riconoscevano tranquillamente l’autorità del Dalai. Il loro dissenso è recentissimo e va quindi letto non come vero dissenso, ma solo come esercizio di “violenza compassionevole”, cioè come pura rappresaglia, parimenti violenta e generata dalla profonda delusione e dal doloroso senso di tradimento nel vedere come la propria guida politica, il Dio Uomo, l’Uomo Dio Infallibile, possa averli d’un tratto dichiarati “fuorilegge” senza il minimo rispetto, a loro dire, delle virtù di compassione e comprensione che egli stesso e per primo predica agli altri.

La “violenza compassionevole”, infatti, è quel tipo di violenza che deve essere

attuata per il raggiungimento di scopi superiori ed ecco come: da un lato, la rivelazione al mondo delle atrocità del regime teocratico lamaista, rappresenta l’atto di violenza; dall’altro, l’eventuale ravvedimento del Dalai che, spaventato dalla divulgazione di quelle verità dovesse ritirare l’anatema, rappresenterebbe lo scopo superiore raggiunto.

Il servizio prosegue poi con altre interviste e quindi si rientra in studio, dove arriva

come ospite una delle giornaliste che hanno realizzato il documentario, che dice: “… alla fine, a Dharamsala, tutti quelli che in un modo o nell’altro criticano il Dalai sono bollati come spie dei cinesi […] girare il filmato non è stato affatto facile perché siamo stati minacciati più volte. Alla fine ci hanno aggrediti e ci hanno distrutto una telecamera …”.

Avrete notato che ho citato Wikipedia quale fonte di alcuni fatti riportati in questo

lavoro. C’è da dire, però, che su Wikipedia l'argomento della violenza compassionevole del lamaismo non viene trattato come tema a sé. Si trova però la citazione della guerra finanziata della CIA e dell'addestramento dei monaci ad attività di guerriglia e terrorismo. Stante il fatto che la guerra è la sublimazione della violenza, ecco quindi che persino Wikipedia tratta della violenza lamaista, anche se non esplicitamente (vedi: http://en.wikipedia.org/wiki/14th_Dalai_Lama).

La stessa pagina del sito Wikipedia riporta altresì una curiosissima affermazione

del Dalai circa l'aborto. Il testo è in inglese e quindi provvedo a tradurlo: Il Dalai Lama ci ricorda che, secondo i precetti buddisti, l’aborto è un omicidio.

Nonostante ciò, il Dalai ha assunto una posizione sfumata su questo punto, perché, come egli stesso ha dichiarato in un’intervista al New York Times: «Naturalmente, dal punto di vista buddista, l’aborto è un omicidio ed è un fatto negativo, in linea di principio. Ma dipende dalle circostanze. Se il feto è malformato o se il nascituro dovesse rappresentare un serio problema per i genitori, questi sono casi dove si può compiere un’eccezione. Credo che l’aborto dovrebbe essere approvato o disapprovato secondo la circostanza.»

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Questa dichiarazione, anche se ai buddisti non tibetani - e non solo - può apparire blasfema ed inquietante, spiega meglio di qualsiasi altra argomentazione il principio lamaista della violenza compassionevole del quale stiamo trattando in questo capitolo, principio che ha sempre costituito la linea guida del lamaismo: l'aborto è un delitto, ma, come tutti i delitti, può anche essere “a fin di bene” secondo la circostanza.

E' assolutamente vero: non solo l’aborto, ma qualsiasi altra azione che la cultura

occidental-cristiana possa definire come "violenta" è ammessa dal lamaismo, purché sia giustificata. Il Dalai, durante quell’intervista, ha però omesso di specificare (o forse l'ha specificato, ma il pezzo non lo cita) che gli unici autorizzati a compiere atti di violenza al fine di raggiungere uno scopo superiore sono i lamaisti. Il comune mortale, se non "lamaisticamente accreditato" fa comunque peccato, anche qualora commetta lo stesso identico atto violento compiuto dal lamaista.

Gli esempi di quanto il Dalai Lama ed il lamaismo siano fautori della violenza come

sistema sono pressoché infiniti. Basta volersi documentare. Un’ulteriore indicazione che non lascia spazio a dubbi, la troviamo ben chiara nella pubblicazione “The Open Road: The Global Journey of the Fourteenth Dalai Lama” di Pico Iyer e Alfred A. Knopf.

Nel testo di questo libro, ad un certo punto si legge testualmente la seguente

affermazione del Dalai:

“Violence is fundamentally wrong. But in some exceptional circumstances, with an altruistic motive, when there is no other alternative, one can consciously and with full awareness of the personal karmic consequences, commit such an act.” 77

La cui traduzione è:

“La violenza è fondamentalmente sbagliata. Ma, in alcune circostanze eccezionali, se supportati da ragioni di altruismo, laddove non esista alternativa ed a patto che ci sia piena consapevolezza delle conseguenze karmiche 78, si può commettere tale azione”.

Ditemi adesso dov’è l’errore quando sostengo che il lamaismo è tutto fuorché una

filosofia non violenta. Ditemi adesso dove sbaglio quando cerco di dimostrare che il pragmatismo estremo orientale ha permeato il lamaismo al punto di renderlo una filosofia che fa della violenza un mezzo necessario e giustificato in quanto tale se destinato, in modo utilitaristico, al raggiungimento di determinati scopi.

Guardate che, tra l’altro, non c’è proprio nulla di anomalo nel fatto che una

religione possa ammettere il ricorso alla violenza quale mezzo risolutore. E’ cosa usuale. La stessa Sacra Bibbia è stracolma di precetti che prevedrebbero l’uso della violenza. Certo, in moltissimi si indignano di fronte a tale idea, ma sono altrettanto numerosi i culti che sostengono questo grave principio.

77 vedi: http://indiatoday.intoday.in/story/The+global+guru/1/9743.html 78 La “conseguenza karmica”, è una condizione che, secondo certe dottrine orientali come quella lamaista, si ripresenta nella vita successiva quale contrappasso all’operato della vita precedente. Per dirla in breve, se io in questa vita amo, nella vita successiva sarò amato. Se in questa vita faccio del male, nella vita successiva mi sarà fatto del male. Con questa scusa, i Lama hanno terrorizzato per secoli i loro sudditi, schiavi e servi, plagiandone le coscienze e commettendo ogni sorta di abuso contro di loro grazie al dogma che impone di rispettare il “karma negativo” derivante dalla vita precedente, senza ribellarsi alle violenze subite, ma accettandole come inevitabile conseguenza degli errori commessi in passato. E’ lo stesso subdolo principio del “peccato originale” cristiano: sopportare le disgrazie della vita perché già scritte, invece di ribellarsi ai soprusi del tiranno. E’ una delle strategie più antiche del mondo per il mantenimento del potere vessando i più deboli.

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La cosa scandalosa, allora, non è la violenza lamaista: semmai, lo è il fatto che ci venga propinata un’immagine falsata del vero contenuto di questa filosofia, spacciandola per non violenta e pacifica quando invece, sia per il fatto storico, sia per stessa ammissione dei suoi leader, si tratta di una dottrina che ricorre alla violenza con regolarità.

Tornando al contenuto dell’intervista, non dobbiamo limitarci a giudicare l’evento in sé e non importa essere “anti” o “pro” aborto. Assolutamente, non è questo il punto. La cosa su cui vi invito a meditare è che questa asserzione del Dalai è quanto di più eloquente si possa immaginare per delineare e chiarire il concetto di “violenza compassionevole”, quale fondamentale componente della matrice del lamaismo.

Un’altra testimonianza sul come la violenza sia un mezzo assolutamente normale

per il lamaismo, ci arriva da un’ulteriore dichiarazione del Dalai, rilasciata all’indomani dei disordini del 14 Marzo 2008 e che tuttora compare sul sito della BBC a questo link: http://news.bbc.co.uk/2/hi/asia-pacific/7299212.stm. Come al solito, ve la traduco in italiano:

In un’intervista alla BBC, il Dalai Lama, leader spirituale79 Tibetano, ha detto […] : “La situazione è diventata estremamente tesa. Oggi come ieri, il movimento tibetano è determinato e da parte cinese c’è uguale determinazione. Questo, in termini di risultato, significa: morti e aumento della sofferenza”. Le autorità cinesi hanno più volte sostenuto che queste dichiarazioni pubbliche del Dalai in realtà siano dei messaggi rivolti ai suoi seguaci, per dare ordini strategici sul da farsi. Nella fattispecie, questa dichiarazione potrebbe essere, secondo Pechino, un ordine a proseguire con gli atti di violenza. Non ho riscontro a che queste supposizioni delle autorità cinesi siano fondate, ma, sta di fatto che anche a me resta estremamente difficile leggervi qualsiasi intento pacifista o pacificatore.

Che il lamaismo sia una religione (anche se sarebbe meglio definirla “culto superstizioso”) violenta, è palese. I filmati taroccati della CNN, come dicevo in precedenza, risultano essere stati girati in India e Birmania, dove i lamaisti – anche lì – hanno spesso dato origine a comportamenti di natura aggressiva, provocando, in ugual misura, l’impiego della forza a tutela dell’ordine pubblico, da parte di polizia ed esercito.

Per contro, le televisioni occidentali hanno censurato o mai passato i filmati di

CCTV, ripresi tramite le predette telecamere a circuito chiuso, che mostravano i Lama ed altri al loro seguito, tra cui molti sciacalli, come protagonisti attivi dei disordini del 14 Marzo 2008 a Lhasa80.

Anche se, personalmente, lo considero esagerato e al momento privo di alcun

fondamento, non posso non segnalare che in rete circolino voci di un possibile, secondo, “undici settembre”, stavolta di marca lamaista81.

Per quelli che tra di voi non lo sanno, spiego che cos’è il movimento TYC al quale

abbiamo già accennato. E’ il cosiddetto congresso della gioventù tibetana in esilio volontario. Articoli comparsi in internet ci illustrano le posizioni di alcuni dei loro esponenti, le cui dichiarazioni ci aiutano a capire quale reale significato abbia il concetto di violenza nella filosofia del buddismo tibetano:

79 Del tutto errato. Il Dalai Lama è il leader politico in assoluto, l’uomo-dio e sovrano infallibile, che talvolta si occupa anche di religione. Il leader spirituale lamaista è il Panchen Lama. 80 Vedi http://www.youtube.com/watch?v=L6XD5A7-Fqg 81 Vedi http://www.youtube.com/watch?v=liLRZ_uobeI

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Traduzione da: http://factandtruth.wordpress.com  (omissis) … Tendzin Choegyal, esponente del TYC, fratello minore del Dalai e suo seguace, ha affermato che: «Le attività terroristiche possono consentire di raggiungere l’effetto più eclatante al costo più basso».  

(omissis)  …  Gaisang  Puncog,  ex  presidente  del  TYC,  ha  detto:  «Potremo  ricorrere  a qualsiasi metodo per servire la nostra causa, sia esso violento o meno».  

(omissis) …Uno dei più stretti e fidati collaboratori del Dalai, durante un discorso tenutosi al Booking  Institution  di Washington,  ha  riferito  del  pericolo  che  alcune  organizzazioni  di disperati possano causare instabilità su larga scala.  

(omissis) … In un congresso del proprio comitato direttivo centrale, tenutosi a Dharamsala in India,  il TYC ha approvato  la decisione di fondare un nucleo di guerriglieri addestrati, da far penetrare clandestinamente in Cina per dar vita alla lotta armata.  

(omissis)  …  Il  TYC  avrebbe  inoltre  già  congegnato  un  piano  preliminare  per  preparare uomini, fondi ed armamenti da introdurre in Cina attraverso il confine nepalese. Alcuni dei loro esponenti avrebbero altresì dichiarato di essere pronti a sacrificare la vita di almeno cento tibetani pur di ottenere una vittoria completa.  

Il cartello riprodotto qui a fianco, che si trova affisso su una delle colonne all’ingresso della lamasseria Sera Je Yiga in India, sancisce il divieto d’ingresso ai praticanti della confessione DOHEGYAL (Shudgen) e così recita: “ ATTENZIONE! Nessuno, sia esso monaco, suora o persona comune, che abbia relazione con DOHEGYAL (Shudgen) o con relativa cricca, è ammesso ad entrare qui, in quanto ci è proibito servirli”.

(foto b.n. a sinistra: Rebiya Kadeer). Tentare di comprendere il “pasticciaccio Tibet”, per la sua complessità, richiede molto sforzo ed attenzione, soprattutto per evitare di scadere in opinioni personali e restare il più possibile super partes. Più ci si informa, però, più si scoprono fatti che ci inducono a ritenere di aver a che fare con personaggi tutt’altro che immacolati. La netta sensazione, infatti, è quella di trovarsi di fronte al solito, losco, gioco di potere.

Avete letto, nelle pagine precedenti, dell’incendio alla moschea di Lhasa durante i disordini del 14 Marzo 2008. Qui accanto, nella foto a colori, vedete un tenero abbraccio tra Lhamo Döndrub e l’ultramiliardaria (in dollari) americana Rebiya Kadeer, sedicente capo spirituale dei rivoltosi musulmani di Urumqui, capitale della vicina provincia dello Xingjiang.

Che cosa significa questa foto dopo che i Lama hanno bruciato la moschea di Lhasa causando la morte orribile di inermi fedeli musulmani in preghiera? Si può ipotizzare che si tratti di una foto “terapeutica” per indurre le comunità lamaista e musulmana di Lhasa a riconciliarsi?

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Certamente, ma con una precisazione: non sono i musulmani di Lhasa ad aver bisogno di fare pace, perché sono loro ad essere stati aggrediti dai Lama. Questa foto, casomai, va ad ennesima conferma che l’uso sistematico della violenza, quale mezzo e metodo per il raggiungimento di obiettivi, è un punto cardine del modus operandi lamaista.

C’è anche una seconda, possibile,

interpretazione e cioè che si tratti di una foto che ritrae la sete di potere in tutta la sua peggiore allegoria, mostrando al mondo l’immagine di due persone in amorevole connubio quando invece si tratta di due che si disprezzano al punto di non esitare a bruciarsi reciprocamente vivi. Che cosa, allora, li accomuna? Li associa unicamente il funesto detto: “I nemici del mio nemico, sono miei amici” perché sono entrambi attori, sebbene con ruoli diversi, del medesimo progetto, già descritto, di destabilizzazione della Cina.

Continuando ad occuparci del Dalai, trattiamo adesso di alcune sue curiose frequentazioni.

Bruno Beger82 (1911-2004) era un ufficiale delle

SS, criminale di guerra condannato a Norimberga, antropologo del lager di Auschwitz, il cui compito era quello di fornire ai medici dei pretesti scientifici sulla superiorità della “razza” ariana, in modo da giustificarne gli efferati esperimenti sulle altre etnie.

Sebbene fu condannato, in sintesi, solo per falso ideologico in relazione al supporto dato dalle sue “scoperte” al genocidio ebraico, quando Beger era di stanza a Auschwitz-Birkenau selezionò personalmente 115 prigionieri, di cui 109 ebrei, che furono mandati al KL-Natzweiler-Struthof dove furono uccisi col gas dal comandante Josef Kramer. I cadaveri furono poi inviati all’Istituto di Anatomia di Strasburgo, dove il direttore, l'SS Hauptsturmfürer Prof. August Hirt, “specialista” in antropologia, stava allestendo una raccolta di scheletri a supporto della teoria sulla supremazia razziale ariana83. Nel 1938, il giovane antropologo Beger era aggregato come consulente scientifico alla terza spedizione nazista in Tibet comandata dal “cacciatore e zoologo” (sic) Ernst Schäfer84, che fu patrocinata dalla Ahnenerbe 85 di Heinrich

Himmler, il pianificatore della Shoah. Sul tetto del mondo, gli scienziati tedeschi avrebbero dovuto ottenere la prova delle origini della razza ariana. 82 cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Bruno_Beger e http://www.lager.it/libri_sulla_shoah_pagina1.html Talvolta il cognome viene scritto Berger (con una r in più) e questo rende particolarmente difficile il reperimento in internet di notizie riguardo a questo criminale, del quale pare non esserci una biografia completa sul web. Su Wikipedia Italia è addirittura assente. Chi volesse ulteriormente documentarsi è consigliato di ricercare sia come Beger che come Berger. 83 cfr. http://memoria.comune.rimini.it/binary/rimini_memoria/risorse/CRONOLOGIAshoa2.1177333133.pdf 84 cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Ernst_Sch%C3%A4fer 85 cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Ahnenerbe

Il Dalai e Bruno Beger

Bruno Beger all’età di ventisette anni, mentre esegue “misurazioni antropologiche” su un nativo tibetano.

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Infatti, lo scopo della spedizione era quello di trovare la mitologica città di Agharti, il misterioso regno sotterraneo raccontato dalle leggende, sede di un governo super partes composto appunto da saggi di razza ariana, che avrebbe occultamente guidato i destini dell’uomo86.

Non potendo, ovviamente mai, giungere a tale scoperta, il team “scientifico” (che oltre a Beger annoverava altri ciarlatani) optò allora per la dimostrazione che la razza ariana aveva un legame antropologico con quella tibetana, onde avallare comunque la teoria della discendenza dai saggi di Agarthi. La nobilitazione delle origini della razza ariana, in sostanza, era l’unico obiettivo della fondazione Ahnenerbe di Himmler. Successivamente (da qui l’amicizia col Dalai nella foto di cui sopra), alcuni scritti di Berger intesero legittimare l’indipendenza del Tibet, come “Lo status di indipendenza del Tibet nel 1938-1939 attraverso gli appunti di viaggio87”. Ma Beger non fu il solo. Anche Heinrich Harrer, intorno al 1940 scrisse un libro dal titolo “Sette anni in Tibet”, che sarebbe addirittura diventato, nel 1997, un film cult con Brad Pitt, ad esaltazione hollywoodiana della “non violenza” e della spiritualità tibetane, nonché della rivendicazione di indipendenza di quel territorio.

A questo punto, non posso non riportarvi integralmente la trama del film, così come appare pubblicata al link in nota88: “Nel 1939 l'alpinista austriaco Heinrich Harrer parte per una spedizione in Tibet con l'intento di scalare il Nanga Parbat, senza curarsi delle preoccupazioni della moglie Ingrid incinta, che affida all'amico Horst. Nel frattempo in Tibet, un bimbo di quattro anni viene designato come nuovo Dalai Lama e venerato dai fedeli. Quando gli scalatori arrivano al campo base, nel turbine della tempesta di neve, vengono fatti prigionieri dai soldati inglesi e scoprono che è scoppiata la guerra e loro, come austriaci, sono considerati nemici della Gran Bretagna. Portati in un campo di prigionia, dopo qualche tempo Harrer comincia a leggere libri che parlano del Tibet mistico, e poi riceve una lettera in cui la moglie chiede il divorzio per poter sposare Horst. Insieme ad altri compagni fugge dal campo, poi prosegue da solo. Dopo molte vicende, si ritrova col capo della spedizione Peter, insieme raggiungono Lhasa, la capitale del Tibet, dopo un viaggio che ha trasformato il carattere di Heinrich. Ormai adolescente, il Dalai Lama fa chiamare a palazzo Heinrich, e con lui passa molte giornate. Intanto la Cina invade ed occupa il Tibet. Di fronte all'invasione, Heinrich capisce che è il momento di fuggire e vorrebbe che il Dalai Lama lo seguisse. Ma il ragazzo rimane. Heinrich torna a Vienna, va dal figlio che non ha mai visto. Poi arrivano notizie sulla fuga del Dalai Lama in India. L'amicizia tra i due dura tuttora.”  

Vi prego di soppesare bene le frasi: “…e loro, come austriaci, sono considerati nemici della Gran Bretagna…” e: “L'amicizia tra i due dura tuttora”.

86 cfr. Pierluigi Tombetti: I Grandi Misteri del Nazismo (Editrice Sugarco) 87 cfr. http://web.archive.org/web/20021220183452/http://www.tibet.com/Status/bruno.html 88 cfr. http://it.movies.yahoo.com/s/sette-anni-in-tibet/index-136636.html

“Sette anni in Tibet” (la locandina originale del film)

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La trama che avete appena letto e che, ovviamente, non manca di sottolineare “l’invasione cinese”, omette quel che si suol dire un piccolo dettaglio, ma perché è proprio il film ad ometterlo (non c’entra, credo, il redattore della recensione).

Il dettaglio mancante è questo: furono considerati nemici della Gran Bretagna in

quanto “nazisti delle SS”, non perché semplicemente austriaci! Heinric Harrer, scomparso nel 2006, che scalava montagne anche per inseguire le chimere di Himmler, era un ufficiale delle SS89 e persino il capo della spedizione, Peter Aufschnaiter, che era un alpinista, era dipendente dell’ente nazista German Himalaya Foundation e nazista praticante a sua volta. L’amicizia tra il Dalai ed Heinrich dura davvero tuttora. Fantastico.

Dunque, se per dimostrare la liceità di un diritto che si avoca come “umano”,

qualcuno, ancora oggi, è costretto a citare dei nazisti ed il loro tutt’altro che umano operato per rivendicarlo, e se – peggio mi sento – c’è qualcun’altro che lo legittima addirittura con un film di portata internazionale senza rivelare le semplici verità di fondo, vuol dire che è veramente in atto il tentativo di sovvertire le realtà storiche, confidando nel fatto che l’opinione pubblica odierna abbia veramente perso ogni dignità ed ogni memoria. Non ho altre parole e lascio a voi gli ulteriori commenti. Parliamo adesso della croce uncinata, o “svastica”. Per anni – almeno io – ho sentito raccontare la fandonia di un Hitler culturalmente inetto, che avrebbe scelto il simbolo buddista come logo del proprio partito ignorandone del tutto il significato, al punto da riprodurlo al contrario senza rendersene conto e trasformandolo, inconsapevolmente, da simbolo porta fortuna (quando ruota in senso antiorario) a simbolo di sventura. Ebbene, non è così. Basta comparare le due immagini che seguono. Nessun errore: le due svastiche hanno lo stesso identico senso di rotazione.

Difatti, nella cultura orientale, dall’India al Giappone, la svastica (o croce uncinata)

si trova rappresentata sia in senso orario che antiorario, senza alcun rilevante cambiamento di significato. Poi, se fate i giusti collegamenti con quello che avete appena letto, vi apparirà congruo apprendere che questa svastica era già ampiamente in uso in Germania sia da parte dei primi movimenti che si rifacevano all'ideologia etno-nazionalista Völkisch, sia di associazioni parareligiose. Questo, già ben prima dell’avvento del nazismo, che la adottò definitivamente come simbolo nel 1920.

89 cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Heinrich_Harrer

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Sono davvero molti i fatti e le cronache che legano il lamaismo al nazismo, ma non si tratta di propaganda, bensì, purtroppo, di storia90.

Delegazione delle SS in visita ad alcuni nobili e dignitari di Lhasa (1938-39)

Nell’angolo in basso a sinistra, in piccolo, si leggono i dati di protocollo della fotografia che pare provenire da un archivio tedesco: Bundersarchiv, Field 135-KA, 10-072, Foto: Kranuse, Ernest | 1938/1939. Da sinistra, si riconoscono: Beger e Geer ; al centro: Tsarong Dzasa e Schäfer; a destra: : Wienert e Möndro (Möndo).

Benché questo lavoro abbia come scopo quello di consentire al lettore di farsi una

visione alternativa in modo da poter, se possibile, giungere ad una propria conclusione, vi prego di non fraintendere. In queste righe, non si cerca affatto di dimostrare che il lamaismo sia una religione che possa essere paragonata, od affiancata in alcun modo, all’ideologia nazista. Sarebbe ovviamente eccessivo, anche se questo spezzone di documentario del National Geographic sembrerebbe dimostrare che quantomeno una probabilità esiste (vedi: http://www.youtube.com/watch?v=bP_IohMUWaY).

Quello che, piuttosto, voglio evidenziare, è come il lamaismo non sia estraneo

all’uso della violenza al punto di non porre preclusioni né dogmatiche, né etiche, verso altre ideologie che, alla luce del sole, hanno fatto e fanno della violenza lo strumento principe per il raggiungimento dei propri fini. Lo dimostrano sia le foto che compaiono in queste pagine, sia la stessa ode a Mao Ze Dong che il Dalai scrisse e della quale abbiamo già parlato nel Capitolo VII.

Però, stento a credere che il Lama ed i nobili tibetani siano stati davvero in grado

di comprendere, al tempo, chi avessero veramente di fronte quando ricevettero questa delegazione delle SS in visita nel loro territorio. Allora non c’era davvero la comunicazione di massa e quindi penso sia inverosimile ritenere che i tibetani sapessero davvero e fino in fondo con chi stavano avendo a che fare. Ritengo molto più probabile che questi “occidentali dai capelli gialli” siano stati trattati con curiosità e rispetto e che sia stata offerta loro la migliore ospitalità, come si conviene nella tradizione di tutto l’estremo oriente.

90 Vedi http://www.youtube.com/watch?v=3aTMAf4z_H4

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Il fatto, però, che nel Tibet del tempo i nobili ed il clero fossero ritenuti – dalle stesse popolazioni suddite ancor prima che da loro stessi – appartenenti ad una razza superiore per volere divino, lascia supporre che se anche i tibetani avessero saputo del “mito ariano” non avrebbero potuto che condividerlo, in quanto assolutamente in linea con i loro princìpi dottrinali. Infatti, questa supposizione è ben confortata dal fatto che, successivamente, una volta appreso dalla storia di che tipo di regime si trattasse, il Dalai non ha affatto interrotto le relazioni, anzi, se possibile le ha intensificate.

Il Dalai e Miguel Serrano (foto a lato) Miguel Serrano (1929-2009) al secolo Miguel Joaquín Diego del Carmen Serrano Fernández. Amico personale del Dalai Lama e suo assiduo frequentatore secondo quanto ci riportano anche le cronache occidentali, è stato esponente intellettuale di spicco del Movimiento Nacional Socialista de Chile (M.N.S.), il partito nazista

cileno. I suoi libri, purtroppo ancora in circolazione, propagandano il culto anti-semita ed il mito della razza ariana come avente diretta discendenza divina. A lui è attribuita la fondazione della dottrina dell'Hitlerismo Esoterico. Secondo Serrano, gli Ariani sono Iperborei, cioè discendenti degli uomini-dio, i Divyas. Serrano postula una cospirazione globale che li vede opposti alle forze oscure del Kali Yuga, comandate dal dio degli ebrei: il Demiurgo, ovvero Satana, creatore della materia. In particolare, egli rielabora, estremizzandola, la teoria junghiana dell'inconscio collettivo ariano, e, come l'induista Savitri Devi, riconosce in Adolf Hitler l'avatar divino che si è opposto al nemico satanico-materialistico del Kali-Yuga. Quindi, tornando al Dalai e non volendo rinunciare ad un minimo di buon senso, appare veramente difficile, per non dire azzardato, riporre fiducia in un uomo che non ha mai fatto nulla per nascondere la propria simpatia - e talvolta persino il plauso - verso ideologie violente, soverchiatrici ed assassine come quelle naziste e quelle della setta Aum Shirinkyo. Per non parlare delle sue posizioni recentemente espresse sulla guerra USA in Afghanistan, eccetera. Dopo tutto quello che abbiamo sin qui illustrato, è indubbiamente rischioso dar fiducia ad un soggetto che, all’indomani delle “compassionevoli brutalità” che hanno causato, direttamente e di riflesso, la morte di molte persone a Lhasa per i disordini del 14 Marzo 2008, prima richiama i suoi alla tanto sbandierata non violenza e un attimo dopo, cioè il 15 Marzo 2008, chiede pubblicamente l'intervento armato (sic) dell'ONU.

Il Dalai e l’ex premier austriaco Haider, sulla cui fede neo-nazista sono in molti a nutrire molto più che semplici sospetti.

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Ancora un esempio di come si agghindava normalmente il Dalai (il terzo in primo piano da sinistra) nelle occasioni pubbliche, cioè prima che i costumisti di Hollywood iniziassero la geniale opera di “maquillage globale” per tramutarlo in un povero monaco questuante, umile, scalzo e penitente.

((IINNDDIICCEE))

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CCAAPPIITTOOLLOO XX

SSHHOOKKOO AASSAAHHAARRAA EE IILL DDAALLAAII ““LLHHAAMMOO””

Traduzione letterale integrale da: http://www.japantoday.com/category/politics/view/dalai-lama-arrives-in-japan

  

Il santone Shoko Asahara, il cui vero nome e' Chizuo Matsumoto, riconosciuto colpevole della strage al gas nervino nella metropolitana di Tokyo (1995) e di numerosi reati, tra cui altri 27 omicidi commessi in epoche diverse, è stato condannato a morte nel Febbraio del 2004 ed oggi è attentamente custodito nelle patrie galere giapponesi, in attesa dell’esecuzione. Shoko Asahara sostiene che «…fu il 14° Dalai (Lhamo Döndrub – nda) a condurlo personalmente sulla via della tradizione Mahayana del buddismo…» e vanta altresì di poter accorciare i tempi per diventare la reincarnazione di Buddha da due o tremila a soli dieci anni, spingendo la gente ad abbandonare le pratiche ascetiche prescritte dal buddismo ed a seguire i dogmi della propria setta, per raggiungere felicemente sia la longevità, sia lo status di Buddha.  Il Dalai, ha incessantemente redatto certificati e lettere di raccomandazione alle autorità giapponesi per Shoko Asahara, magnificandone le doti di “…abilissimo maestro di religione…” ed auspicando che il governo del Giappone volesse “…esentare la setta Aum Shirinkyo dal pagamento delle tasse, per poter liberamente propagandare il proprio credo…”. La prestigiosa rivista tedesca Foucs91 riporta che senza il supporto del Dalai Lama, sarebbe stato assolutamente impossibile per Shoko Asahara costruire il proprio impero segreto e guadagnare, entro un lasso di tempo di così pochi anni, la fama di essere uno dei più importanti leader religiosi del Giappone. In altre parole, sono stati gli abili maneggi del Dalai a tramutare questo inquietante individuo da ciarlatano imbroglione ed assassino (quale poi si è dimostrato) a “maestro di religione”. E’ stato grazie al Dalai, che ha persistentemente promosso e sostenuto l’immagine di Shoko Asahara, che la setta Aum Shinrikyo ha potuto acquisire il privilegio dell’esenzione

fiscale, accumulando fondi per finanziare i progetti criminosi successivamente attuati ai danni della comunità giapponese.

91 Si veda: http://www.focus.de/kultur/leben/modernes-leben-abschied-von-einem-mythos_aid_175560.html

 

Shoko Asahara

  Da sinistra: Lhamo Döndrub (14° Dalai Lama) e Shoko Asahara, ritratti mentre si tengono per mano, all’epoca delle sponsorizzazioni lamaiste della setta “Aum Shinrikyo” fondata da Shoko.

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Nella primavera del 1995, infatti, Shoko Asahara organizzò il tristemente famoso attacco terroristico, diffondendo il “Sarin”, un micidiale gas nervino, nella metropolitana di Tokio, uccidendo dodici persone ed intossicandone gravemente altre cinquemila, evento che ha sollevato grande indignazione ed estremo sgomento nel popolo giapponese.

Nell’Ottobre dello stesso anno, Shoko Asahara ed i suoi complici, seguaci della linea

dura, sono stati sottoposti a processo presso la corte di Tokyo e puniti secondo la legge. Ancora oggi, il 14° Dalai Lama, che si proclama strenuo paladino dei diritti umani, in un intervista rilasciata al Kyodo News Service ha dichiarato che Shoko Asahara resta suo amico e dice di essere ancora convinto che il culto propagandato dalla setta Aum Shirynkio sia “conforme” agli insegnamenti delle dottrine buddiste.

Molto verosimilmente, sono stati la legittimazione, il sostegno e il favoreggiamento

del Dalai ad aver reso Asahara risoluto nelle sue convinzioni assassine (la violenza compassionevole del buddismo Mahayana – nda), sentendosi forte di un simile appoggio. Comunque sia, il culto del male continua a fare del male, sotto la guida dei più variegati leader, i cui nomi cambiano costantemente.

 Fortunatamente, nel 1999 il Senato giapponese ha messo a punto una serie di

provvedimenti legislativi contro le sette della violenza, tra cui Aum Shinrikyo. Le autorità giapponesi, più in generale, hanno inoltre perfezionato un sistema di contromisure per mettere in condizione di non più nuocere i cosiddetti capi spirituali di ogni gruppo che abbia la violenza come metodo.

 

 

Il Culto della Distruzione Un attacco con gas letale scatena il terrore verso estremisti

che usano armi di distruzione di massa fatte in casa.  

((IINNDDIICCEE)) 

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CCAAPPIITTOOLLOO XXII

IIPPOOCCRRIISSIIAA DD’’OOCCCCIIDDEENNTTEE

Non vorrei scrivere quello che sto per scrivere, davvero, non vorrei. Come ho già detto, detesto chi tenta di far valere le proprie ragioni accusando gli altri ed anche se questo non è il mio intento, temo che possa essere scambiato per tale.

Non sopporto chi risponde ad una critica con una contro-critica. Trovo ripugnanti

quelli che, invece di portare argomenti a sostegno delle proprie ragioni, urlano più forte per aver ragione. Per cui, prendete quello che sto per scrivere come un’altra cronaca a proposito di popoli oppressi e niente di più. Mi limiterò, infatti, a trascrivere quello che altri hanno già scritto e pubblicato.

Perché questo capitolo si intitola così? Perché non avevo mai sentito parlare di

questa storia e vi garantisco che sono uno che legge e che si informa quotidianamente ed è proprio grazie a questa mia caratteristica, a questa mia continua sete di apprendere, che l’ho scoperta. Si parla della tragedia degli Inuit, gli Eschimesi degli igloo, per capirsi. Il fatto che in occidente e, per di più, in era assolu-tamente contemporanea, si sia perpetrato un delitto così atroce senza che nessuno l’abbia mai pubblicamente denunciato, senza che siano stati divulgati nelle case spot pubblicitari dove si vede un’auto Lancia guidata da Richard Gere correre felice tra gli igloo, senza che ci siano stati film con Brad Pitt intitolati “Sette anni in Canada”, senza che i “BeppiGrilli” di turno abbiano mai lanciato un’iniziativa intitolata “Free Inuit” dalle pagine del proprio blog e senza che nessun telegiornale abbia mai trasmesso immagini di cortei e manifestazioni di

protesta sotto le finestre delle ambasciate canadesi di mezzo mondo, tutto questo, mi dà semplicemente la nausea.

Allora, lasciamo da parte quello che avete letto sin qui. Fate finta di non avere

letto nulla e facciamo solo una considerazione: qual è la differenza tra gli Inuit canadesi ed i tibetani? Se questi due popoli ricevono un trattamento tanto diverso dalla comunità occidentale pur trovandosi in situazioni che qualcuno (non certo io) può ritenere analoghe, una differenza deve pur esserci tra i due casi. Qual è questa differenza? La differenza sta nel fatto che i tibetani sono in Cina e gli Inuit sono in Canada.

La dissomiglianza, quindi, è solo geografica? No, è politica. Che differenza politica c’è tra la Cina ed il Canada per giustificare una simile disparità di trattamento? La differenza è che la Cina, secondo i piani strategici delle potenze occidentali e come abbiamo già detto, deve essere prima o poi trasformata in terreno di conquista e quindi si deve mettere in atto ogni strategia atta alla sua destabilizzazione, mentre il Canada è già in mano loro. Questa è la differenza.

Quindi, citando nuovamente le parole dello stesso Dalai: « … i governi occidentali

si sono interessati agli affari interni del Tibet non per aiutarlo, ma per usarlo tatticamente come arma contro la Cina … », risulta molto difficile sostenere che non sia così.

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Il Canada, invece, è una nazione cosiddetta “civile”, un esempio storico di limpida democrazia da citare per far vergognare i comunisti. Quindi, un simile scandalo non può accadere e se accade deve essere negato, non deve essere reso noto, specialmente se uno dei complici principali di questo efferato misfatto è la Chiesa romana, altro avversario naturale dei comunisti.

Ora, atteso che i comunisti sono “il male”, che cosa sarebbero, a doveroso

paragone, il governo canadese e la Chiesa romana, visto quello che hanno combinato agli Inuit? Ecco perché bisogna stare cauti nell’affibbiare epiteti troppo frettolosamente. Ecco perché nulla si sa di questa tragedia.

Certamente, di simili situazioni dolorose nel mondo ce ne sono a centinaia, forse a

migliaia, ma non potendo citarle tutte, prendo questa a simbolo di ogni dramma umano che sia stato rimosso dalla memoria collettiva per salvare la faccia delle democrazie false e bugiarde, o per la tutela di qualsiasi altro tipo di losco interesse che abusi di parole sacre come “libertà” e “pace” per il proprio sudicio tornaconto.

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CCAAPPIITTOOLLOO XXIIII

DDUUEE PPEESSII EE DDUUEE MMIISSUURREE

integralmente tratto da:

http://www.osservatoriosullalegalita.org/08/acom/12dic2/1212maunativi.htm

Violenze sui bambini o genocidio? Il caso dei Nativi Americani di “osservatoriosullalegalita.org”

Nel giugno 2008, il primo ministro canadese Stephen Harper ha chiesto ufficialmente scusa in una seduta parlamentare per gli orrori commessi nelle scuole cristiane in cui decine di migliaia di nativi americani furono praticamente reclusi con la forza da bambini. Circa 150.000 bambini Inuit e appartenenti alle Nazioni indiane furono prelevati forzatamente dalle loro comunità nei secoli scorsi e costretti a vivere nelle scuole residenziali, con lo scopo di imporre loro la cultura e la religione correnti nella maggioranza bianca del Paese. Secondo la CBC (testata canadese), le scuole residenziali canadesi erano circa 130 e alcune sono sopravvissute fino al 1996.

Negli USA, oltre 100.000 nativi americani furono costretti dal governo a frequentare scuole cristiane. "Il sistema, che ha avuto inizio con il presidente Grant nel 1869, è continuato anche nel 20° secolo" spiega Alessandro Profeti, che da anni approfondisce storia e cultura dei nativi americani. "Funzionari della Chiesa, missionari, e le autorità locali hanno preso i bambini dai loro genitori e li hanno spediti nelle scuole cristiane, le Boarding School, e costretti altri ad iscriversi nelle scuole cristiane delle riserve. - continua Profeti - Sono stati separati dalle loro famiglie, per la maggior parte dell’anno, talvolta senza una sola visita della famiglia. Praticamente imprigionati nelle scuole, i bambini hanno sperimentato una devastante litania di abusi, di assimilazione forzata e abusi sessuali e fisici. L’escalation di abusi sessuali sulle scuole delle riserve è continuata fino alla fine degli anni 1980". (vedi anche il rapporto della Commissione per la verità sul genocidio del Canada).

Secondo Profeti, "Le sevizie fisiche e psicologiche, le torture, gli stupri, i reati sessuali, gli omicidi e tutti gli altri atti di violenza, aggravati dal comportamento silente ed omertoso fin qui sistematicamente osservato dalla Chiesa, non possono e non devono essere ulteriormente nascosti. Tali crimini, che hanno avuto come conseguenza la morte, solamente nel Canada, di 50.000 bambini Nativi Americani, strappati alle loro famiglie con la complicità dei governi e costretti con la forza alla conversione culturale e religiosa, con la finalità e il modus operandi definito dal Diritto Internazionale come 'Genocidio'."

Studiosi e attivisti hanno solo adesso iniziato ad analizzare quelli che definiscono “gli effetti cumulativi di queste esperienze storiche in genere sulle comunità tribali e le generazione di oggi”. Effetti in molti casi devastanti. 

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Poiché, sottolinea Profeti, "il 72% di queste scuole-lager era gestita dalla Chiesa Cattolica, e per la restante parte da altre Chiese", sarebbe doverosa oggi un'ammissione ufficiale in cui il Vaticano riconosca "pubblicamente la propria responsabilità diretta in questi crimini" per onorare la memoria di quei ragazzini nativi americani e fare giustizia.

Alle accuse di diffamazione e disinformazione (non si mettono in discussione le sevizie, su cui vi sono testimonianze oculari, ma il fatto che di tali abusi siano state responsabili strutture cattoliche), Profeti e Kevin Annett rispondono con un elenco di chiese canadesi che portano nomi come "Chiesa Cattolica" o "Chiesa dell'Immacolata Concezione", che appaiono inequivocabili.

"Ci sono, afferma Profeti, 79 scuole residenziali indiane cattoliche romane, elencate in

questa lista che Annett stesso ci ha fornito, su un totale di 118 scuole residenziali che hanno operato in Canada tra il 1831 e il 1996. Giudicate voi se la nostra è diffamazione. Vi ricordiamo, che a questa lista mancano tutte le boarding school in USA, e le scuole delle missioni cristiane cattoliche nelle riserve". (e riferimenti alla Chiesa romana compaiono anche nel rapporto di cui sopra).

Annett - laureato in antropologia e Teologia e ministro della Chiesa Unita del Canada

- operò nella chiesa rurale di Manitoba e nei pressi di Toronto. Egli ha scritto due libri sugli abusi nelle scuole residenziali del Canada ed ha prodotto sul tema un documentario "Unrepentant: Kevin Annett and Canada's Genocide", vincitore nel 2006 del premio per la migliore regia all'International Independent Film & Video Festival di New York.

Il film descrive la storia personale di Annett quando si è scontrato con la Chiesa Unita per il suo interessamento ai fatti accaduti nelle scuole residenziali canadesi e il genocidio commesso dai responsabili religiosi di queste scuole, e riporta numerose testimonianze dei nativi sopravvissuti. Annett e' stato cacciato dalla Chiesa Unita e criticato - con diverse motivazioni - da coloro che vedono nella sua denuncia una minaccia alla riconciliazione fra la Nazione indiana canadese e le autorità e il popolo (non aborigeno) del Canada.

A settembre scorso, infatti, il governo canadese ha varato un piano di quasi due miliardi di dollari per indennizzare le vittime ed ha stabilito una commissione per la verità e la riconciliazione che esamini la questione. Ma Annett afferma che la questione non può essere chiusa con delle scuse e dei pagamenti. Occorre indagare sulle responsabilità penali e morali delle uccisioni, degli stupri, delle sterilizzazioni forzate e degli altri abusi perpetrati ai danni dei bambini nativi americani.

Per questo, Profeti e altri sostenitori della causa dei Nativi Americani chiedono di scrivere a Benedetto XVI presso Archivio segreto del Vaticano, Radio Vaticana, Uffico Internet della Santa Sede, “L’Osservatore Romano”, Diocesi di Roma, Ufficio Stampa e comunicazioni sociali del Vicariato di Roma, Famiglia Cristiana, Vatican Information Service, Chiesa Cattolica Italiana, Ufficio Nazionale per le Comunicazioni Sociali e Centro Televisivo Vaticano una lettera che chieda al Vaticano il riconoscimento delle proprie responsabilità. Questi, gli indirizzi E-mail a cui scrivere:

[email protected]; [email protected]; [email protected]; [email protected];[email protected]; [email protected]; [email protected]; [email protected]; [email protected];

[email protected]; [email protected]; [email protected]; [email protected]; [email protected];

[email protected]; [email protected]

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SSTTOORRIIEE DDII OORRRROORREE NNEELL TTIIBBEETT LLAAMMAAIISSTTAA

Traduzione integrale (note escluse) da: http://www.humanrights.cn/zt/magazine/200402004826102142.htm

di Liu Zhi Qing, della China Society For Human Rights Studies

Vi racconterò alcune storie accadute nel vecchio Tibet prima del 1950 dove, per il solo fatto di essere schiavi o servi, ci si poteva ritrovare con gli arti amputati, con gli occhi strappati o con il naso tagliato. Queste storie potrebbero andare al di là della comprensione di qualsiasi persona dotata di un minimo senso di umanità, se solo non fossero autentiche.

Il sistema della servitù e della schiavitù praticato nel vecchio Tibet, prima dell’arrivo dell’esercito di liberazione, si basava su una combinazione di regole civili e religiose, secondo le quali la stragrande maggioranza dei tibetani, oltre ai servi ed agli schiavi, avevano di fatto la propria vita alla mercé dei proprietari terrieri, degli aristocratici e dei religiosi. I versi di un’antica nenia popolare tibetana, recitano così:

I miei genitori mi hanno dato la vita

ma il mio corpo appartiene al padrone, io sono vivo solo in teoria

perché sono privato della libertà. Questa è la sofferenza degli schiavi e dei servi.

BBhhaa QQiinngg, che oggi ha sessantantré anni, è nato schiavo perché sua madre era una

schiava. A solo dodici anni già lavorava così duramente che il suo compito sarebbe risultato gravoso persino ad un adulto sano e forte. Doveva badare a tre dozzine di Lama92 e, contemporaneamente, ad un gregge di yak93. Mai che si fosse fermato una sola volta a tirare il fiato. Tra i suoi compiti c’erano anche la raccolta dell’acqua, delle legna secca e dello sterco di yak da usare come combustibile. A vent’anni gli fu imposto di arruolarsi nell’esercito tibetano.

«Ero riluttante a fare il soldato, ma ho dovuto» ricorda Bha Qing. «Mi fu detto che se avessi rifiutato, avrei avuto due sole alternative: trovare una persona da far arruolare al mio posto o tre anni di galera. Mi dissero anche che avrei ricevuto cento frustate al giorno, tutti i giorni, per tutto il periodo di detenzione».

Che ci crediate o no, molte reclute, schiavi o servi della gleba come Bha Qing, hanno dovuto rapinare o rubare per sopravvivere, in quanto il vecchio esercito tibetano non forniva né cibo, né uniformi.

92 Visto che si parla di pastorizia, è bene chiarire che per “lama” qui non si intende il camelide sudamericano, ma il sacerdote tibetano. Era consuetudine che i fanciulli appartenenti alle classi inferiori dovessero “servire i religiosi per educarsi”. 93 Bovino simile ad un bufalo a pelo lungo, che rappresenta ancora oggi una delle risorse principali dell’economia rurale tibetana.

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Non volendo rubare o commettere altri crimini per sopravvivere, Bha Qing vendette il fucile e, per questo, gli furono scorticate le gambe, amputato il naso e squarciate le guance.

«Dopo che ebbi confessato il fatto al comandante del reggimento, mi legarono i polsi alla coda

di un cavallo – prosegue Bha Qing – ed il cavallo partì al galoppo, con me attaccato, per cinque giorni, trascinandomi sul terreno roccioso. Non so come, ce la feci a sopravvivere e mi risvegliai in carcere. Lì, mi spellarono le gambe e, mentre mi scorticavano, aspergevano acqua salata sulla carne viva. Dopo circa due settimane mi hanno trascinato sulla riva del fiume, esponendomi al pubblico come un criminale che doveva essere punito. Mi infilarono dei ganci nelle guance e poi li hanno tirati in senso opposto, finché le mie guance non si sono squarciate. Alla fine, mi hanno amputato il naso».

  BBhhaaii QQiiaa, un altro schiavo, originario di Anduo, contea nel nord del Tibet, ha subìto l’amputazione della mano destra e a suo fratello furono cavati gli occhi, con l’accusa di aver rubato tre cavalli presumibilmente appartenenti a un monastero tibetano. Nonostante la sua condizione, Bhai Qia era riuscito a mettere da parte qualche soldo e, con suo fratello, si erano comprati due yak e sei pecore. «Un giorno, fummo fermati da un tizio che si presentò come il figlio del proprietario di un allevamento locale – racconta Bhai Qia – che ci disse di aver trovato tre cavalli abbandonati, senza che nessuno ne avesse rivendicato la proprietà. Ci chiese di condurli al suo pascolo, promettendo che poi ce li avrebbe regalati e noi gli credemmo».

   Di lì a poco, però, arrivarono degli inviati dei Lama a reclamare la proprietà dei tre cavalli. I due fratelli si scusarono e restituirono gli animali, aggiungendo persino dei doni. Nonostante ciò, furono arrestati con la scusa di aver fatto adirare gli dei per aver rubato da un monastero. I fratelli, ai quali furono immediatamente confiscati i miseri beni, restarono in galera per tre mesi, durante i quali al maggiore fu troncata la mano destra e al minore cavati gli occhi.

Ceppi atti ad imprigionare gli schiavi per le caviglie, in uso nel periodo di dominio lamaista.

Arti mummificati di schiavi contadini tibetani, risultato delle amputazioni a scopo punitivo (foto trasmessa da una TV di Hong Kong durante un programma di approfondimento sulla storia del Tibet).

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«Solo a quel punto – riferisce Bhai Qia – capimmo di essere stati incastrati. Il ragazzo che ci aveva truffato era un funzionario del governo locale, che aveva architettato il tutto per poterci rubare gli yack e le pecore94».

 CChhaaiibbaa CCiiddeenngg e suo fratello erano servi. Ad entrambi gli furono strappati i tendini

dalle caviglie per non essere stati in grado di pagare i tributi al loro padrone. La famiglia di Chaiba Cideng aveva ventotto capi di bestiame, per i quali dovevano

corrispondere ogni anno, al loro padrone, ventiquattro chili di burro, due pecore vive e due pelli di pecora, più sei once di argento. «Inoltre - dice Chaiba Cideng - dovevamo pagare cento cinquanta once extra di argento per ogni volta che il nostro padrone partiva per un viaggio».

Quando Chaiba Cideng aveva venticinque anni, una tormenta di neve colpì la zona e

ventisei dei loro capi di bestiame morirono nel disastro. La sua famiglia fu costretta a mendicare per vivere e sei dei suoi membri morirono di freddo e di fame, ma questo non li esentava dall’obbligo di continuare a pagare i tributi al loro padrone.

Quindi, su consiglio dei genitori, Chaiba Cideng e suo fratello fuggirono. Quando il

padrone lo venne a sapere, fece arrestare i loro genitori e le due sorelle, che furono incarcerati e sottoposti a tortura.

Pochi giorni dopo, però, anche i due fratelli furono catturati nel nascondiglio dove si

trovavano e furono portati in un carcere situato all’interno di un monastero tibetano. La loro punizione, che venne eseguita pubblicamente, consistette nell’estrazione dei

tendini dalle caviglie. «Incisero la pelle delle nostre caviglie - riferisce Chaiba Cideng - e, con le mani, afferrarono i tendini tirandoli più forte che potevano, finché non si ruppero, dopodiché ci versarono burro bollente sulle ferite e perdemmo conoscenza. Quando mi risvegliai, intorno a noi c’erano dei cani che leccavano il nostro sangue, sparso ovunque sul terreno».

 La madre di TTaabbaa CChhaaiibbaa morì quando lei aveva di 14 anni. La sua famiglia aveva

sette figli ed il padre, incapace di mantenerli, cedette i bambini più grandi come servi ad alcuni capi tribù locali, sperando che avrebbero avuto quantomeno la possibilità di sopravvivere.

Una sorella minore di Taba Chaiba andò a servire un capo tribù di nome Baichong. Avvenne così che, un giorno, la ragazza rovesciò accidentalmente un secchio di latte e per questo la moglie di Baichong la fece sdraiare supina per terra e poi la colpì ripetutamente con una pietra sull’addome. Tre giorni dopo, la ragazza morì.

Poi toccò ad un altro fratello più piccolo, che aveva appena undici anni. I cavalli ai

quali badava si persero e lui fu frustato per punizione. 94 Per poter comprendere la valenza del gesto apparentemente così inverosimile (far imprigionare e torturare selvaggiamente due fratelli solo per prendergli il bestiame), bisogna fare mente locale su due punti: il primo è che gli animali da allevamento in Tibet erano (e sono) una risorsa economica importantissima; il secondo, è che il messaggio di libertà dato da due schiavi che acquistano e gestiscono in proprio un gregge di animali era troppo pericoloso per la stabilità del sistema e bisognava che fosse esemplarmente punito.

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Incapace di sopportare il dolore delle frustate, il ragazzo fuggì sulla montagna. Il suo padrone lo inseguì e lui, nella concitazione della fuga, morì precipitando da un dirupo.

Quando aveva oramai diciotto 18 anni, Taba Chaiba serviva nella casa del capo villaggio locale, dove faticava giorno e notte quasi senza posa. Un giorno, anche lei, decise di fuggire. Fu catturata pochi giorni dopo e per punizione gli strapparono la rotula del ginocchio destro. «La ferita suppurava ed era infestata dai vermi. Nonostante fossi appena in grado di camminare - racconta Taba Chaiba - fui comunque costretta a lavorare per la sorella del capo villaggio».

La storia di Taba Chaiba è tutt'altro che eccezionale nel vecchio Tibet feudale.

 A soli dodici anni, YYuunnddiiaann, che ora vive a Xigaze nel Tibet occidentale, fu costretto a

lavorare per un monastero tibetano, insieme a membri della sua famiglia, dove badava a sessanta yak e cento pecore. «Non avevo cibo a sufficienza – ricorda Yundian – e la notte dormivo nell’ovile insieme alle pecore. Una notte, entrarono i lupi e portarono via una pecora. Per questo, fui picchiato a sangue».

Ma il peggio arrivò nell'estate del 1953 95, quando quaranta pecore morirono a causa di una malattia infettiva. «Il padrone, ben sapendo che non saremmo mai stati in grado di farlo, ci dette due giorni di tempo per rimborsarlo delle pecore perse, come se fosse stata colpa nostra – racconta – così decidemmo di scappare». Furono catturati tutti di lì a breve. «A mia madre furono tranciate le dita delle mani e cavarono gli occhi al mio patrigno. Quanto a me, mi legarono ad un albero e mi frustarono. I colpi di frusta erano talmente dolorosi che sono rimasto cieco dall’occhio sinistro».

Un giorno, nella prima metà del 1950, scoppiò un incendio in uno degli edifici di un monastero. Servi della zona accorsero sul posto e, insieme ad alcuni dei Lama, riuscirono a spegnere l'incendio prima che si propagasse al resto del monastero, tant’è che non ci furono danni gravi. Tuttavia, il “Buddha vivente” della lamasseria96 si ostinava, senza la minima prova, a sostenere che si fosse trattato di un incendio doloso.

Fu così che quattro di quegli stessi servi che avevano contribuito a spegnere

l’incendio furono gettati in carcere, accusati di essere i presunti colpevoli. Tentarono di estorcergli la confessione con la tortura, ma invano e quindi furono tutti sepolti vivi.

Ad una delle vittime, un servo di nome Gelong, troncarono gli avambracci prima di

seppellirlo, ancora vivo. Questi “trofei”, ormai mummificati e la cui foto è riportata in queste pagine, sono tutt’ora conservati in una vetrina all’intermo del monastero.

95 La collocazione temporale di questa testimonianza (1953), va ulteriormente a dimostrare come i privilegi feudali fossero sempre in essere anche dopo l’arrivo dell’esercito di liberazione cinese (1949), in quanto le leggi della Repubblica Popolare furono inizialmente tese a mantenere lo status originario, come già detto in precedenza. Questa strategia tollerante, che può apparire difficile da conciliare con l’immaginario occidentale di una Cina dittatorialmente spietata, è in realtà un classico della tattica militare cinese che trova origine e spiegazione nei dettati del manuale “Ping Fa” (ovvero: “L’Arte della Guerra” scritto dal leggendario Generale Sun Zi) datato dagli storici tra il 500 ed il 250 avanti Cristo. 96 Monastero dei Lama.

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Indicandoci gli “autori” degli avambracci mummificati di suo marito, Gesang, vedova di Gelong, ci racconta di quando fu incarcerata insieme ad un’altra donna: «Ci costrinsero a denudarci e poi ci legarono insieme. Quindi ci picchiarono con un bastone di legno durissimo, duro come il ferro, minacciando di seppellire vive pure noi. Poco tempo dopo quelle percosse, le nostre gambe, piene di pus e sangue, si stavano incancrenendo».

Le donne furono torturate giorno dopo giorno, senza posa, fino a che non furono trasferite in un carcere governativo, situato ai piedi del palazzo Potala a Lhasa, dove furono messe in cella insieme a due uomini. La cella era umida, buia e infestata da scorpioni. Gesang vi rimase per sei mesi senza processo, prima di essere esiliata nel sud del Tibet, insieme ai suoi figli, un maschio e due femmine. Racconta Gesang: «Loro (i funzionari – nda) avevano già venduto mio figlio ancor prima che partissimo ed incassarono il ricavato non appena arrivammo nel luogo dell’esilio, dopo averlo consegnato al nuovo padrone. Per evitare che anche le mie bambine fossero vendute, scappammo insieme. La bambina più piccola morì poco dopo. L’altra figlia ed io tornammo a Lhasa, dove fummo costrette a mendicare per vivere».

 Da dove arriva tutta questa crudeltà? Dopo aver letto queste storie, non potete non

chiedervi perché la classe dirigente del vecchio Tibet fosse così crudele con i sudditi. Chiedete a qualsiasi ex schiavo o servo, sia uomo che donna, come Bhaqing, Bhaiqia o Gesang ed otterrete sempre la stessa risposta: le loro sofferenze sono state il risultato di quelle leggi, scritte o non scritte, esclusivamente volte a inchiodare il miserabile in un abisso eternamente buio, per il mantenimento impunito del potere e dei privilegi.  

  

Gabbia di legno dove venivano imprigionati i criminali condannati, per essere esposti al pubblico ludibrio prima che fosse comminata la pena.

   

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In Tibet, sino al 1950, la legge veniva applicata mediante due codici: il Quechimu, o "codice clericale" e il Jiachimu, o "codice secolare". I Lama potevano essere processati solo mediante il codice clericale. Per inciso, un Lama poteva essere giudicato in base al codice secolare solo se fosse stato prima spogliato dello status di religioso97.

Entrambi i codici risalgono a 1.300 anni fa, quando in Tibet c’era già una società schiavista, durante il cosiddetto regno di Tubo. Col passare del tempo, i codici sono stati "aggiornati", integrando, in particolare, le leggi della dinastia Yuan (1271-1368) quando la Cina era governata dai Mongoli.

Vigevano anche statuti emanati dai governi locali e persino le lamasserie potevano “fare leggi” autonomamente, per soddisfare le proprie esigenze. In aggiunta a queste leggi scritte, gli schiavi ed i servi erano tenuti a rispettare numerose leggi non scritte, mediante l’applicazione delle quali i loro padroni erano autorizzati a vessarli e violentarli in qualsiasi modo. Gli aristocratici civili e religiosi potevano persino avere delle “prigioni private” nelle quali incarcerare chiunque, a piacere. Insomma, tutto quello che avrebbe mai potuto dire anche un solo membro della classe dominante, nobile o lama che egli fosse, era legge.

 I vecchi codici giuridici facevano distinzione tra tre categorie di persone: quelli della

classe superiore, quelli della classe media e quelli della classe inferiore. Inoltre, ciascuna di queste classi era a sua volta suddivisa in tre sottoclassi, che rappresentavano i diversi status sociali.

Sulla base di questo criterio di divisione, i codici dichiaravano in termini

assolutamente espliciti che la classe dei proprietari dei servi, quella gli aristocratici civili e quella dei divino-religiosi avevano il diritto di governare gli altri. In altre parole, gli schiavi ed i servi erano destinati a soffrire e, in nessun caso, essi avrebbero dovuto resistere a questa volontà divina.

Ecco alcune disposizioni di legge relative agli schiavi ed ai servi: “Tu non devi essere

disobbediente al Saggio ed al Nobile”; "Tu devi seguire la strada percorsa dagli antichi Re”; “Tu devi parlare ed agire secondo gli insegnamenti buddisti”.

I casi che coinvolgessero persone di diverso status sociale, mostravano un’evidente

disparità di trattamento già sancita a priori. Ad esempio: “Il subordinato che percuote il suo superiore e l’ufficiale inferiore che mostra disobbedienza all’ufficiale superiore, sono reati gravi”; “Le ribellioni popolari sono un reato grave”. “Ogni persona che disobbedisce al suo padrone deve essere arrestata”.

 Le leggi condannavano il ladro a pagare un indennizzo pari a sette od otto volte il

valore di ciò che aveva rubato se la vittima era un uomo comune, ma se il derubato era un proprietario di servi, un nobile od una lamasseria, il risarcimento era di ottanta volte il valore.

Nel caso, poi, in cui il derubato fosse stato appartenente ad uno dei ranghi sociali o

religiosi più alti, il valore dell'indennità poteva arrivare a diecimila volte.

97 Sorprendente analogia con la legge vaticana. Probabilmente, o esiste un “centro panclericale di coordinamento giuridico” del quale ignoriamo l’esistenza o, più semplicemente, il vero punto in comune delle grandi religioni non è quello dell’unico dio, bensì quello del mantenimento del potere temporale.

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Il servo, per aver procurato danni fisici al proprio padrone, doveva essere punito, oltre al risarcimento, con l’amputazione delle mani e delle gambe. Però, nel caso in cui fosse il padrone ad aver causato danni fisici al servo, questi era tenuto solo a curarlo, senza corrispondere alcun risarcimento.

Nel caso in cui un alto funzionario, un nobile di alto rango o un religioso buddista

fosse assassinato, il colpevole era condannato a morte, più un’indennità in oro pari allo stesso peso della vittima.

Invece, se il morto ammazzato era un fabbro, un macellaio, un mendicante, un

vagabondo o una donna di basso rango, l'indennità da corrispondere era corrispondente al valore di una corda di paglia e l’assassino, se non condannato a morte, veniva sottoposto a punizioni corporali come l’amputazione degli arti, l’estrazione dei tendini dalle caviglie, l’accecamento, il taglio del naso o della lingua, l’asportazione delle rotule.

Le esecuzioni consistevano nel venire affogati o fatti precipitare da una rupe. Dopo la

condanna e prima della comminazione della pena, il criminale veniva lasciato per un periodo in balia dei delinquenti di strada.

Si poteva anche essere condannati a chiedere l’elemosina incatenati per le caviglie

durante il giorno ed in cella la notte. Venivano usati strumenti di tortura come le catene alle caviglie ed ai polsi, la frusta, il bastone e la gabbia di legno.

Gli strumenti di tortura, oltre alle catene, alle manette per i polsi e le caviglie, alla

frusta, al bastone ed alla gabbia di legno, includevano anche l’immersione delle mani del condannato in olio bollente e persino il dover cavalcare un cavallo di bronzo reso bianco dall’incandescenza.

Un altro supplizio era il cosiddetto “cappello di pietra”, ovvero un macigno del peso

di decine di chilogrammi, con al centro un foro, che veniva calzato sulla testa del condannato il quale finiva per morire col collo spezzato per il peso insopportabile, dopo aver sofferto all’inverosimile per tentare, invano, di sostenerlo.

Ci sarebbero moltissime altre storie da raccontare, per descrivere a quali indicibili

sofferenze fossero sottoposti i servi e gli schiavi nel Tibet prima dell’arrivo dell’esercito cinese, per cui pensiamo che non vi sarà difficile farvi un’idea su quale tipo di società ci fosse nel vecchio Tibet.

 

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CCAAPPIITTOOLLOO XXIIVV

LLOO SSTTRRAANNOO CCAASSOO DDEELL PPAANNCCHHEENN LLAAMMAA SSCCOOMMPPAARRSSOO

Parliamo del sacro bambino tibetano che si dice sia stato rapito dalla polizia cinese. Parliamo di quel fanciullo che viene definito dai sostenitori della causa tibetana come “il prigioniero politico più giovane della storia”.

Il Panchen Lama (in italiano: il Grande Erudito, il Grande Studioso) è la seconda

carica istituzionale del lamaismo dopo il Dalai, dal quale viene nominato. Il Panchen, al contrario del Dalai, non si occupa anche di amministrazione temporale, ma solo di religione.

Cominciamo subito col dire che questo titolo, tradizionalmente, non esisteva. Fu

inventato di sana pianta, intorno alla metà del XVII secolo, dal quinto Dalai Lama, Lozang Gyatso solo per omaggiarne il proprio precettore, Lobsang Chökyi Gyalsten, abate del monastero di Tashilhunpo a Shigatsé. La cosa ridicola, visto che si trattava di un titolo mai esistito prima e creato appositamente per ossequiare un influente personaggio dell’aristocrazia religiosa, è che, nonostante ciò, il Panchen Lama venne subito considerato come la reincarnazione del Buddha Amitabha98.

Il povero Buddha Amitabha scoprì così, di punto in bianco e senza essere stato avvisato, di essersi reincarnato in Lobsang Chökyi Gyalsten quando lo stesso era ormai in età molto avanzata. Non solo, lo stesso Lobsang Chökyi Gyalsten, in uno slancio di mistica generosità, volle attribuire il titolo di “reincarnato” del Buddha Amitabha anche ai suoi ultimi tre predecessori, già defunti da tempo e che l’avevano precorso nel ruolo, quindi autoproclamandosi quarto Panchen Lama.

Ma il Grande Erudito Lobsang Chökyi Gyalsten, era talmente “erudito” da non aver considerato un particolare: il Buddha Amitabha non è che se ne stesse lì, nullafacente, nel suo Sukhāvatī a girarsi i pollici (anche se viene spesso ritratto proprio in questa posizione) aspettando che il

primo Panchen venuto gli dicesse come, quando ed in chi reincarnarsi. Le reincarnazioni, lui, se l’era sempre fatte d’iniziativa, senza aspettare il consiglio di nessuno e mai avrebbe pensato di poter prendere ordini addirittura da un abate.

Il fatto di essere stato reincarnato in contumacia, senza il suo esplicito consenso e, per di più, in tre persone già morte e sepolte, costrinse il Buddha Amitabha ad annullare numerosissime reincarnazioni già fatte e quindi a pagare i danni previsti per rescissione contrattuale senza preavviso. 98 Il nostro lettore I.T. ci fa notare che secondo la tradizione tibetana i Buddha non si reincarnano fisicamente in una persona. Si tratterebbe, bensì, della cosiddetta trasmissione del “continuum mentale” o “emanazione Buddhica”, cioè di una reincarnazione a livello mentale, spirituale, non fisico. Quindi il termine “reincarnazione” citato in questo capitolo a proposito del Buddha Amitabha e del Panchen Lama va inteso in questo senso. Poco cambia, anzi, nulla.

Rappresentazione del Buddha Amitabha Il Grande Buddha o Dai-Butsu

nel tempio Kōtoku-in (Giappone)

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A nulla valsero, nel famoso processo di Buddhaksetra, le tesi dei suoi legali sul legittimo impedimento. Essi sostennero che fosse stato all’oscuro di tutto, che fu messo di fronte al fatto compiuto e che quindi fu costretto all’annullamento di molte reincarnazioni per cause indipendenti dalla sua volontà, ma il tribunale lo condannò al risarcimento delle parti lese basandosi sul teorema che, essendo un Buddha, non poteva non sapere. Tutta questa storia, lo mandò decisamente in bestia ed infatti si reincarnò in un facocero del Serengeti.

Il Buddha sperava che questo animale, per la prelibatezza delle carni, avesse vita

breve, in modo da dedicarsi presto a qualcosa di meglio, ma fu tutto inutile. Il facocero, essendo una reincarnazione divina, campò trecentosei anni contro ogni aspettativa, stabilendo un record assoluto, anche se non fu mai omologato dal National Geographic che subodorava irregolarità.

Voci non confermate, sostengono che il Buddha Amitabha, da quel giorno, si sia

iscritto ad un corso di “terapia di gruppo” e che, non avendo ancora trovato una spiegazione logica al fatto di essersi reincarnato a sua totale insaputa in ben quattro Panchen Lama di cui uno ottuagenario e tre già mummificati, tuttora lo frequenti.

Facili ironie a parte, l’ultimo Panchen Lama in attività è stato il decimo, che si chiamava Lobsang Trinley Lhündrub Chökyi Gyaltsen, il quale, dopo la fuga dell’odierno Dalai in India, restò al suo posto a Lhasa, come abbiamo già detto, continuando tranquillamente ad esercitare le proprie funzioni di guida spirituale.

Quello che dovrebbe esserci oggi, cioè l’undicesimo Panchen Lama, è il bambino ritratto qui a fianco. Si chiama Gedhun Choeki Nyima ed è nato a Lhari il venticinque Aprile del 1989. L’attuale Dalai ne ha prematuramente comunicato al mondo lo stato di Panchen il quattordici Maggio 1995, quando aveva ancora solo sei anni e difatti, subito dopo, le autorità cinesi lo hanno messo “in regime di protezione”, cioè in una situazione di anonimato molto simile, per capirsi, a quella dei nostri pentiti di mafia, facendolo praticamente sparire, insieme alla sua famiglia. Tutt’oggi, nulla più si sa di lui. In Giappone circola voce che sia morto di malattia qualche tempo fa. Le autorità cinesi si limitano a dire che sta bene. Qualcuno sostiene che sia ancora vivo e che stia effettivamente bene, ma che sia stato “rieducato” in modo da essere favorevole alle politiche cinesi in

Tibet. Fatto sta che la sua sorte, per ora, resta un mistero. Perché parlo di questo bambino? Non solo perché la sua sparizione è una delle

accuse principali che il separatismo tibetano muove contro Pechino, ma soprattutto perché l’insospettabile Melvyn Goldstein, insigne antropologo statunitense e uno tra i più accreditati studiosi del Tibet del mondo, assegna categoricamente la responsabilità dell’accaduto al 14° Dalai Lama.

Riporto integralmente, qui di seguito, la traduzione di un passo del suo libro “The

Snow Lion and the Dragon – China, Tibet and the Dalai Lama (Berkeley: University of California Press, 1997), 108-10”:

Gedhun Choeki Nyima l’11° Panchen Lama

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“La decisione del Dalai di annunciare prima del dovuto la nomina del nuovo Panchen Lama è stata, a dir poco, politicamente idiota. Certamente, i suoi supporter tibetani e occidentali si sono rincuorati nel vedere il Dalai esercitare ancora la propria autorità, anche in tale circostanza, ma il prezzo pagato è stato enorme ed i vantaggi nulli. In pratica, il Dalai ha regalato a quel bambino la garanzia di tutta una vita da trascorrere agli arresti domiciliari”. E’ fortissima la tentazione di ritenere che il Dalai sapesse molto bene che cosa sarebbe successo dopo quell’annuncio. Perché, dunque, l’avrebbe fatto? Per quale ragione Goldstein dice che l’individuazione del Panchen Lama è stata fatta prematuramente?

Basta fare due conti per capirlo e per farsi venire dei sospetti grossi come una

casa. Facciamo prima il punto della situazione: il Sig. Lhamo Döndrub, 14° Dalai Lama, oggi ha settantacinque anni. Con tutti gli auguri di lunga vita che possiamo fargli, la sua scomparsa è un evento al quale dobbiamo seriamente cominciare a prepararci. Che cosa succederebbe se il Dalai morisse oggi che non è stata ancora stata individuata la reincarnazione che lo sostituirà?

Succederebbe che il Panchen sarebbe proclamato Dalai. E’ possibile, quindi, che il Sig. Döndrub voglia, invece, designare come suo successore un altro bambino? Facciamo anche un’altra, verosimile, ipotesi. Mettiamo il caso che, per una qualsiasi ragione, vuoi puramente religiosa, vuoi per un semplice gioco di potere, il clero lamaista in Tibet si stufasse di vedere il proprio “capo” sempre in esilio volontario e volesse, invece, disporre di un leader fisicamente presente sul territorio. Che cosa succederebbe? Succederebbe, anche in questo caso, che sarebbe il Panchen ad essere proclamato Dalai. (si veda correzione più avanti).

E’ davvero fuori dal mondo pensare, alla luce di tutto questo, che il Dalai abbia

paura di essere destituito anzitempo? Stante il fatto che lo status di reincarnato non è rilevabile con una TAC, ma viene

stabilito per semplice affermazione dai Lama che possono, di fatto, nominare chi meglio credono, non credo siano ipotesi da poter escludere se si ha un minimo di buon senso, visti gli interessi tutt’altro che mistici che ci sono in ballo.

Ognuno sia libero di pensarla come vuole, ma i fatti restano e sono questi: le “ricerche” che avrebbero portato all’individuazione di Gedhun Choeki Nyima quale undicesimo Panchen Lama furono affidate al Lama Chadrel Rinpoche il quale, a missione compiuta, ne comunicò il nome in gran segreto al Dalai Lama.

Se qualcuno vi dicesse che alcuni monaci di Tashi-Lhunpo, prima che il Dalai

facesse l’annuncio pubblico, stavano pianificando di far fuggire il bambino dal Tibet, per trasportarlo in un luogo sicuro, che cosa pensereste?

Così come era venuto a sapere della nascita del bambino reincarnato, è verosimile

supporre che sapesse anche del piano di fuga concertato dai monaci di Tashi-Lhunpo per proteggerlo? Se sì, è veramente fuori dalla logica ritenere che si sia trattato di un vero e proprio tradimento, un atto deliberato del Dalai, che ha così agito in tutta fretta per eliminare un potenziale concorrente prima che fosse sottratto al raggio d’azione della polizia cinese? Se non lo sapeva, possibile che il Dalai “Oceano di Saggezza”, sia invece così rincoglionito da non aver considerato che la prima cosa successa dopo il suo annuncio sarebbe stato l’intervento della polizia cinese?

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Ci rendiamo conto che se in Italia un bambino di sei anni venisse nominato anche solo “consigliere comunale”, gli autori dell’investitura sarebbero quantomeno internati nel reparto psichiatria di un ospedale di sicurezza?

Ci rendiamo conto che in qualsiasi paese civile quello che i Lama hanno combinato

a questo bambino, nominandolo Panchen, si chiama “circonvenzione di incapace” ed è un delitto gravissimo?

Il turpe crimine, come giustamente sostiene Goldstein, è stato quello di

coinvolgere una creatura innocente in affari politici di questa gravità. L’immondo misfatto, è stato quello di fargli pagare delle conseguenze

pesantissime per avergli delinquentemente affibbiato, contro la sua consapevolezza e senza la minima possibilità di reazione o difesa, delle responsabilità paradossali senza nessun fondamento razionale, con l’ingiustificabile aggravante della superstizione e, oltretutto, in assenza di alcuna giustificazione pratica se non quella di voler mantenere il potere a tutti i costi e senza scrupoli, persino a scapito della vita di un bimbo innocente. Nota (Ottobre 2010): A seguito della segnalazione di un lettore, ho appreso che le informazioni che sopra avete visto barrate sono inesatte. A pagina seguente, il chiarimento.

Esecuzione pubblica di pene corporali a Lhasa, durante la signoria lamaista (1950).

A sinistra: in attesa della fustigazione. A destra: l’esecuzione della sentenza.

Questi tibetani terrorizzati, in attesa della punizione, formavano una pattuglia di guardie di frontiera. Secondo la procedura che dovevano seguire, spararono ad un gruppo di stranieri (in seguito rivelatisi agenti della CIA) che stavano tentando di entrare nella provincia autonoma del Tibet, uccidendone alcuni. Sfortunatamente, la lettera delle autorità locali tibetane dove si diceva che questi “visitatori” avevano via libera, arrivò troppo tardi. Frank Bessac99, uno dei sopravvissuti, ricorda: “Prima che potessimo intervenire, tagliarono il naso e le orecchie al capo pattuglia”. Le altre guardie furono risparmiate dalla mutilazione per intercessione di quegli stessi stranieri ai quali avevano sparato. La punizione venne quindi convertita in 50 frustate ciascuno. Le foto qui sopra sono state scattate da Bessac, che ha poi narrato l’accaduto, e dai suoi colleghi.

((IINNDDIICCEE))

99 Vedi: http://www.thelongridersguild.com/bessac.htm ed alla pag. 130 della rivista LIFE del 13 Novembre 1950, reperibile su Google Libri (http://books.google.it/bkshp?hl=it&tab=wp) digitando nel campo di ricerca le parole chiave: “life; this was the perilous trek to tragedy”.

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RREETTTTIIFFIICCAA DDII IINNFFOORRMMAAZZIIOONNII EERRRRAATTEE CCOOMMPPAARRSSEE NNEELLLLEE PPAAGGIINNEE PPRREECCEEDDEENNTTII

Un nostro lettore (E.C.) ci ha segnalato, nell’Ottobre 2010, che alcune importanti

informazioni contenute nelle pagine precedenti e riguardanti il meccanismo di successione tra Panchen Lama e Dalai Lama sono errate.

A supporto, E.C. ha inviato il commento di un’Associazione italiana, tra le più

accreditate tra quelle che sostengono la causa del “Tibet libero” e che egli stesso avrebbe interpellato in proposito. Il lettore ci ha girato l’E-mail che ha ricevuto in risposta al proprio quesito, ma che non posso qui riprodurre perché non sono stato sinora autorizzato a farlo. Comunque sia, data l’autorevolezza di tale spiegazione, ne teniamo debitamente conto e ringraziamo ancora il nostro lettore per averci fatto avere questa importantissima osservazione che ci consente di rettificare quanto precedentemente scritto.

In sintesi, il commento dice innanzitutto il che Lama Chadrel Rinpoche, è stato

incaricato da Pechino di trovare la reincarnazione del Panchen Lama, ma che ha successivamente scelto di rivelare al Dalai Lama i risultati della sua ricerca e che ha pagato con sei anni di carcere la sua fedeltà al Dalai. Il portavoce dell’Associazione che ha risposto al nostro lettore E.C. ammette tuttavia che, annunciandone pubblicamente il riconoscimento, il Dalai Lama abbia compiuto un errore di valutazione non ponendosi (sic) il problema dell'incolumità del piccolo.

Poi, il commento spiega altresì come funzioni la prassi lamaista in tema di

successioni. “Non è affatto vero – si legge testualmente nell’E-mail – che se il Dalai Lama morisse sarebbe proclamato Dalai Lama il Panchen Lama. Non è mai successo, non fa parte della tradizione tibetana. Per tradizione, il Dalai Lama riconosce (riconosce soltanto) il nuovo Panchen Lama e viceversa, nessuno dei due subentra all'altro”.

Devo sinceramente ringraziare il nostro lettore e l’esperto dell’Associazione (anche

se può apparire un ossimoro dato il contesto, ma aspettate…) per aver fornito questo chiarimento, senza il quale non sarebbe stato possibile rilevare l’errore, sempre che di errore si tratti. Per il momento, essendo questa la spiegazione più autorevole che possediamo, la prendiamo per buona. Se, in futuro, dovessimo venire in possesso di interpretazioni diverse e parimenti accreditate, le pubblicheremo. Infatti è pur sempre vero che quanto avevo scritto in precedenza è opinione condivisa da molti altri conoscitori della materia, anche se non è questo il vero punto.

Appena ho appreso di questa smentita, sono rimasto perplesso perché non

riuscivo a capire per quale ragione altri specialisti dell’argomento avessero così fermamente imputato al Dalai Lama la responsabilità dell’accaduto.

L’essenza della differenza tra le due interpretazioni, difatti, non sta nella

descrizione giusta od errata del protocollo lamaista di successione del Dalai, ma nell’intento del Dalai che alcuni definiscono deliberatamente criminoso e che l’Associazione interpellata spiega, al contrario, come un banale errore di leggerezza. Leggerezza che comunque, cara la mia Associazione, è costata moltissimo a tutti gli attori principali di questa vicenda, tranne che al Dalai, ovviamente.

Questo dubbio mi ha veramente tormentato per alcuni giorni. Come mia abitudine,

sono andato a cercare altre informazioni al riguardo e sono giunto alla conclusione che – sebbene il mio lettore abbia avuto ragione nel dire che mio racconto precedente contenesse delle inesattezze riguardo alle modalità di successione tra Panchen e Dalai – il risultato non solo non cambia di una virgola, ma delinea addirittura un quadro più grave.

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L’Associazione dice una cosa che, sinceramente, ignoravo e cioè che sia stato il partito comunista cinese a ordinare la ricerca del Panchen reincarnato. Il Lama Chadrel Rinpoche, in quanto uomo di fede, una volta “rintracciato” il bambino, ha però sentito il dovere morale e religioso di dirlo al Dalai e non a Pechino. Massimo onore alla sua fedeltà, quindi, visto che, a detta dell’Associazione che ha fornito il commento, il gesto gli sarebbe costato oltretutto sei anni di galera. Ma non dimentichiamo che i monaci di Tashi-Lhunpo stavano organizzando la fuga del bambino proprio per metterlo al riparo da quello che poi, invece, è purtroppo accaduto.

Questo allora significa che il Dalai, facendo l’annuncio pubblico, ha combinato un

tale disastro che uno tsunami al confronto diventa una pioggerellina primaverile. In un colpo solo, questo imbranato è riuscito: 1) a vanificare il piano di fuga concertato dai monaci di Tashi-Lhunpo; 2) a far arrestare il suo fedele Chadrel Rinpoche; 3) a rovinare l’esistenza di un bambino innocente, forse condannandolo a morte; 4) a rendere del tutto inutile il suo avvenuto riconoscimento; 5) a far pagare - ad altri, s’intende - un prezzo incommensurabile, in cambio di nulla. Credo che non ci siano parole per definire il livello di imbecillità con il quale è stata gestita la faccenda.

Se si conosce l’inglese e se si ascoltano le interviste del Dalai Lama dalla sua viva

voce (senza doppiaggio), quando lo si sente parlare durante le conferenze, con quei suoi toni alti e bassi di voce che spesso sconfinano nello squittìo del falsetto, con quelle risatine spesso ingiustificate e quasi sempre fuori tempo, con quel suo voltarsi continuamente verso i suoi compagni di palcoscenico in cerca di consensi, specialmente quando dice vacuità, in effetti si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un cretino.

Certamente, il Dalai si esprime con la cadenza tipica di molte lingue estremo-

orientali e chi non ne conosce bene i meccanismi fonetici può senza dubbio rimanere vittima dell’impressione che quest’uomo sia effettivamente stupido, ma non solo per il tono di voce. Essenzialmente, per l’assoluta inconsistenza di quasi tutti i suoi discorsi, per la totale mancanza di spessore e di argomenti, ma soprattutto per le disarmanti banalità che snocciola ripetutamente, come se davvero fossero concetti filosofici. I suoi discorsi, di solito, sono la fiera dell’ovvio. Pertanto, è molto facile essere indotti a ritenere che sia un incapace.

D’altronde, poverino, va capito: non è mica allenato al confronto. Se uno viene

considerato uomo-dio sin dalla nascita, vuol dire che non è mai stato messo veramente alla prova nel dover dimostrare la ragione delle sue affermazioni: per quelli che credono in lui, il Dalai Lama ha ragione a prescindere, perché infallibile. Già… ma si tratta davvero di stupidità? Stando a quanto ho successivamente scoperto, credo proprio di no e, anzi, a questo punto ritengo che l’ipotesi che si sia trattato di un atto deliberato del Sig. Lhamo Döndrub per liberarsi di un potenziale concorrente diventi assolutamente più plausibile. Prima, anche se plausibili, erano pur sempre supposizioni. Adesso, invece, si tratta di prove molto pesanti.

In precedenza, avevo sostenuto che il Dalai avesse voluto eliminare il nuovo

Panchen perché suo possibile successore. L’Associazione interpellata dal nostro lettore ci ha spiegato, invece, che non è così perché stando alla procedura lamaista non è mai successo che un Panchen sia subentrato al Dalai. Bene. Allora, se non teme la concorrenza del Panchen, che cosa teme il Dalai? Poc’anzi, vi ho accennato al fatto di aver fatto delle ricerche ulteriori, che ho indirizzato nella comunità tibetana in esilio (volontario) in India. In internet si trova un sacco di materiale, ma quello che più fornisce garanzia di attendibilità sono i filmati e le interviste. Sempre su YouTube, è pubblicato lo spezzone di un documentario, a firma del Sig. Eric Campbell, prodotto dalla ABC e distribuito dalla Journeyman Pictures, che potrete vedere collegandovi al link in nota100.

100 Vedi: http://www.youtube.com/watch?v=gC46L5kBsIs

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Questo video, che dura circa un quarto d’ora, ci parla di un ragazzo di venticinque anni (ventitré, all’epoca del filmato) che il Dalai ha riconosciuto come 17° Karmapa Lama101. Lo vediamo percorrere le strade di Ladakh in un auto blindata, scortata da gorilla, come Michael Jackson buonanima. Si chiama Orgyen (o Urgyen) Trinley Dorje ed ha la faccia pulita, solare, con gli occhialetti, da ragazzo della sua età.

Tradizionalmente, il Karmapa Lama è a capo dei Karma Kagyu, la sotto-scuola più estesa del lignaggio Kagyupa, uno dei quattro principali del buddismo tibetano. La rivalità storica tra questa scuola e quella dei Gelugpa, alla quale appartiene l’odierno Dalai Lama, è emblematica. Spesso, il conflitto è sfociato in sanguinose guerre, ma per voi che avete già letto della “violenza compassionevole” del lamaismo, questa non è certo una sorpresa. Sempre secondo il mito lamaista, il Karmapa incarna la forza attiva di tutti i Buddha e la sua nascita fu predetta già da Buddha Sakyamuni e da Guru Rinpoche. A causa di una controversia nel processo di riconoscimento, l’identità del Karmapa attuale è sotto disputa tra due “reincarnati”: Orgyen Trinley Dorje, quello del quale stiamo parlando, riconosciuto sia dal Dalai Lama che dal governo cinese di Pechino e Trinley Thaye Dorje, riconosciuto da Mipham Chokyi Lodro, ovvero Shamar Rinpoche (Shamarpa), ma non addentriamoci nell’esame di questa discussione perché ne usciremmo col mal di testa. Torniamo al filmato. Il Sig. Campbell intervista Orgyen Trinley Dorje, che al proprio fianco (non inquadrato) ha un “Marpion Lama” che non esita ad intervenire quando le domande dell’intervistatore si fanno troppo spinte o comun-que differiscono da quanto preventivamente concordato (vedi minuto 13 e 30 secondi del filmato).

Orbene, Orgyen Trinley Dorje è nato nel 1985 ed all’età di sette anni – cioè nel 1992 – è stato riconosciuto come reincarnazione del precedente Karmapa Lama, ovvero tre anni prima che fosse annunciato Gedhun Choeki Nyima come reincarnazione del Panchen Lama. Dov’è la cosa sconvolgente? E’ che Orgyen Trinley Dorje è

già stato destinato come successore del Dalai Lama… dal Dalai Lama stesso. Questo è quanto ci fa sapere una fonte del tutto autorevole: il Sig. Tenzin

Dhundup, membro del TYC, al minuto 1 e 55 ed al minuto 7 e 40 dello stesso filmato. In quest’ultima sequenza, Campbell chiede a Tenzin Dhundup: «Così lei vorrebbe che il Dalai Lama indicasse lui (Orgyen Trinley Dorje - nda) come proprio successore?» e Dhundup risponde: «Credo proprio di sì, anzi, l’ha già fatto.».

Ma l’Associazione di cui sopra ci ha spiegato che è il Panchen Lama a designare il

Dalai Lama. Può quindi un Dalai Lama designare il proprio successore? Guardando la cronologia dei Dalai Lama che si sono succeduti dal 1391 in poi102 e vedendo come spesso si sia operato per nepotismo o per volere dell’autorità del tempo (mongola, cinese o manciù), in linea di principio non sarebbe certo uno scandalo, né una novità. 101 Il Karmapa Lama, nella tradizione lamaista, è "Colui che compie l’azione buddhica" o "Il Signore dell’attività buddhica". 102 Cfr. http://www.experiencefestival.com/dalai_lama_-_list_of_dalai_lamas

Orgyen Trinley Dorje

Trinley Thaye Dorje

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Inoltre, il Dalai Lama è l’Uomo Dio infallibile e se lui dice che così dev’essere, non vedo proprio come possano contraddirlo.

L’ipotesi si fa dunque del tutto concreta: Lhamo Döndrub ha denunciato alla

polizia cinese l’11° Panchen Lama per evitare che questi potesse investire, in futuro, un successore diverso da quello che egli aveva già deciso tre anni prima.

Non dimentichiamo che, come ci ha rivelato il portavoce dell’Associazione pro-

Tibet, è stato Pechino a commissionare la ricerca del Panchen, non il Dalai. Questo che cosa significa? Significa che il Dalai non ha mai commissionato la

ricerca del Panchen (anche se avrebbe dovuto essere lui a farlo) semplicemente perché non gli non serviva che qualcuno nominasse il suo erede, in quanto l’aveva già scelto.

Ed ecco perché ha fatto l’annuncio prematuro: per eliminare il Panchen ed

impedirgli così di sovvertire, un giorno, la sua decisione. Il Dalai sa bene che quando il Panchen Lama “costruito” dal governo cinese sarà

inviato a Lhasa, non sarà riconosciuto dalla comunità dei credenti, né, tantomeno, da quella internazionale. Nel frattempo, quello “veramente reincarnato” sarà sparito e dimenticato. Ergo: non resterà solo che nominare Dalai il suo Karmapa preferito (visto che anche i Karmapa sono due).

Inoltre, se Orgyen Trinley Dorje succederà a Lhamo Döndrub, non è affatto vero che saranno infrante regole secolari, come commenta lo stesso Campbell nel suo servizio, per le ragioni che ho spiegato prima in merito al modo con cui, storicamente, sono stati nominati i Dalai.

Oltretutto, chi riconosce l’autorità del Dalai Lama come essere soprannaturale ed

incarnazione di Chenresi (Avalokitesvara), l’arcangelo che non può sbagliare, non potrà che accettarne le decisioni, esattamente così come fa sempre il “parlamento” tibetano in esilio (volontario) di Dharmasala e così come la succitata intervista al Sig. Tenzin Dhundup ha ampiamente chiarito, al di là di ogni possibile dubbio.

Del resto, è stato lo stesso Dalai ad avanzare l'ipotesi che la nomina dei futuri

Dalai Lama possa essere presto messa ai voti, come avviene per le alte cariche di altre religioni103 e con un parlamento completamente asservito al suo volere come quello che si ritrova, il gioco è fatto.

In sintesi:

1. l’unico che avrebbe potuto nominare un successore diverso dal suo figlioccio, era il Panchen Lama;

2. l’unico modo per impedire al Panchen Lama di riconoscere un Dalai diverso, era

quello di metterlo in condizione di non poter esercitare la propria autorità. Quello di farlo sparire è uno dei modi;

3. in quanto all’altro Panchen Lama, quello “nominato” da Pechino, è solo un

fantoccio che sarà inevitabilmente disconosciuto dalla comunità internazionale pro-Tibet, ma soprattutto dal parlamento tibetano in esilio (volontario) di Dharmasala. Quindi, lui e le sue eventuali decisioni non rappresenteranno alcun problema.

103 Cfr: http://it.wikipedia.org/wiki/Dalai_Lama#Il_futuro_del_Dalai_Lama

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(da sinistra) Orgyen Trinley Dorje, 17° Karmapa Lama e Lhamo Döndrub, 14° Dalai Lama.

Questa foto risale al 2000 quando Orgyen Trinley Dorje, al tempo quindicenne, raggiunse il Dalai nel proprio esilio (volontario) di Dharmasala in India.

Tenzin Dhundup. membro del TYC di Ladakh

Conferma che il Dalai Lama ha già designato Orgyen Trinley Dorje come suo successore.

((IINNDDIICCEE))

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CCAAPPIITTOOLLOO XXVV

LLAA ““DDEEMMOOCCRRAATTIICCAA CCOOSSTTIITTUUZZIIOONNEE”” DDEELL GGOOVVEERRNNOO TTIIBBEETTAANNOO IINN EESSIILLIIOO

Il 14 Giugno del 1991, l’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo Tibetano104, ha adottato un documento denominato “Charter of the Tibetans In-Exile” (La Carta dei Tibetani in esilio)105 che, in pratica, sarebbe la loro costituzione democratica. Quando lo appresi, rimasi sinceramente spiazzato. Mi chiesi: che il lamaismo voglia davvero compiere una svolta epocale e mettersi al passo coi tempi? Stante il fatto storico inconfutabile che la democrazia è un concetto totalmente estraneo, antitetico, al lamaismo, com’è possibile, quindi, che questo possa coesistere con il fondamento dittatoriale teocratico della loro gerarchia e del loro stesso protocollo tutt’ora vigenti? Vista la palese impossibilità delle due cose di convivere, cos’è veramente successo? Com’è stato congegnato quel documento? Si è rinunciato all’autorità assoluta del Dalai a favore di un impostazione realmente democratica dell’amministrazione temporale o, più semplicemente, si è subordinata la sacralità dei princìpi democratici al volere del Dalai? La lettura di questa costituzione mi ha veramente suscitato ilarità. In pratica, è stato come leggere le dichiarazioni del proprietario di un cane che, mentre lo tiene ben saldo al guinzaglio, sostiene che l’animale sia libero di comportarsi come meglio crede. Insomma, non c’è bisogno di essere pro o contro la causa del “Tibet libero”, per capire subito che si è oggettivamente di fronte al goffo e mal riuscito tentativo di camuffare una dittatura teocratica da democrazia costituzionale. Perché, allora, questa costituzione è stata promulgata? Più avanti, quando accenneremo all’esigenza che ogni governo moderno ha di dover apparire strutturato democraticamente per non essere giocoforza criticato, se non addirittura messo all’indice ed osteggiato, dalla comunità internazionale, ci riferiamo proprio a questo: la “carta dei tibetani in esilio”, a prima vista, appare essere un documento basato su princìpi democratici, ma salta subito all’occhio la pesante incongruenza alla quale ho poc’anzi accennato: come possono stare insieme teocrazia e democrazia? Infatti. Basta leggere il documento per capire, sin dalla sua prima riga, come funzionino le cose. Facciamolo insieme, quindi. Leggiamone qualche passo, tra i più significativi: Articolo 1 Inizio Questa Carta, ratificata dall’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo Tibetano ed approvata da Sua Santità il Dalai Lama, entrerà in vigore il giorno che sarà deciso da Sua Santità Il Dalai Lama. Viene subito, immediatamente, da ridere. Già questo taglia, per così dire, la testa al toro, non lasciando dubbio alcuno sul fatto che l’autorità teocratica assoluta del Dalai sarà ben garantita e neanche minimamente scalfita da questo documento.

104 Questo organo, nonostante il nome, non rappresenta affatto il popolo tibetano odierno, essendo espressione esclusiva di coloro che decisero di lasciare il Tibet nel 1959 (circa novantamila individui contro una popolazione di oltre tre milioni). 105 Il documento originale pare sia stato scritto in Tibetano. Una tra le versioni in inglese più note, è quella al seguente indirizzo web: http://www.servat.unibe.ch/icl/t100000_.html dalla quale abbiamo tradotto i brani qui trascritti.

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Questa costituzione, non rappresenta alcun genere di garanzia democratica. Al contrario, per come è strutturata e per il ruolo di preminenza assoluta che essa assegna al Dalai Lama ed alle sue interazioni con gli organi di governo, delinea non già il profilo di una pur comprensibile monarchia costituzionale 106 , ma addirittura quello di una riconfermata “monarchia teocratica”. Infatti, stando all’articolo 1 della costituzione, il Dalai potrebbe persino aver deciso di non far mai entrare in vigore la costituzione “approvata dal popolo”. Si potrebbe anche evitare di leggere oltre, essendo già tutto estremamente chiaro, ma andiamo avanti. Il prosieguo (per chi voglia leggerselo integralmente, rimandiamo al link indicato) è un susseguirsi di articoli elencanti norme e disposizioni apparentemente basate sul comune concetto di democrazia e di libertà. Finché, ahimè, non si arriva al Capitolo IV (l’Esecutivo), dove si leggono queste disposizioni che, di fatto, vanificano tutte le buone intenzioni enunciate negli articoli precedenti e successivi. Capitolo IV L’Esecutivo Articolo 19 Il Potere Esecutivo Il potere esecutivo dell’Amministrazione tibetana deve essere assegnato a Sua Santità il Dalai Lama e deve essere da Lui esercitato, sia direttamente, sia per mezzo di funzionari a lui subordinati, in conformità ai disposti di questo articolo. In particolare, a Sua Santità il Dalai Lama deve essere data facoltà di esercitare i seguenti poteri esecutivi in qualità di Capo Supremo del Popolo tibetano. (a) approvare e promulgare disegni di legge e regolamenti stabiliti dall’Assemblea Tibetana; (b) promulgare atti ed ordinanze con valenza di legge; (c) conferire onorificenze; (d) convocare, aggiornare, rimandare e prolungare l’Assemblea Tibetana; (e) dare indicazioni ed indirizzi all’Assemblea Tibetana ogni volta che sia necessario; (f) sciogliere o sospendere l’Assemblea Tibetana; (g) sciogliere il Kashag107 o destituire uno o più Kalon108; (h) dichiarare emergenze e convocare riunioni speciali di primaria importanza; (j) autorizzare referendum nei casi in cui si tratti di questioni primarie in conformità ai disposti di questa Carta. Articolo 20 Il Kashag ed il Primo Kalon Il Kashag ed il Primo Kalon sono responsabili in primis per l’esercizio del potere esecutivo dell’Amministrazione Tibetana, subordinata a Sua Santità il Dalai Lama. Uno dice: passi per il potere esecutivo, ma almeno quello legislativo sarà ben stato assegnato all’assemblea di governo o ad un altro organo democratico? Non scherziamo. Lo chiarisce senza la minima possibilità di equivoco l’articolo 36:

106 Comprensibile perché la monarchia costituzionale, storicamente, è il primo passo per il graduale transito da governo a monarchia assoluta a governo democratico. 107 Il Kashag è un organo consultivo per il governo del Tibet, in quanto non riveste poteri esecutivi, né legislativi. Si tratta di un’istituzione imperiale cinese, la cui creazione risale al 1751 per opera dell’imperatore cinese Qian Lon della dinastia Qin. Il Kashag era composto da quattro persone, di cui tre laici ed un religioso e si pronunciava, con mero intento di consulenza, esponendo semplicemente la propria opinione su problematiche amministrative. 108 Membro del Kashag. Il Kashag odierno, al quale il documento si riferisce, è composto da sette Kalon.

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Articolo 36 Potere Legislativo Il potere e l’autorità di legiferare, devono interamente risiedere nell’Assemblea Tibetana, la cui attività legislativa necessita dell’assenso di Sua Santità il Dalai Lama per diventare legge. Nella lettura di questo inquietante documento, rifiutandomi persino di credere all’evidenza, ho avuto il dubbio che certe interpretazioni potessero essere state inquinate dagli effetti della doppia traduzione (da tibetano ad inglese, da inglese ad italiano), alterando il significato originario dei concetti. L’unica via, quindi, mi è parsa quella di proseguire l’analisi per verificare se tali asserzioni trovassero conferma o smentita negli articoli successivi.

Il Kashag di Lhasa nel 1938/1939 composto da 4 Kalon

La foto qui riprodotta, come si vede nel suo tag in basso a sinistra, è stata scattata da Ernst Schäfer, durante la spedizione delle SS naziste in Tibet ordinata da Heinrich Luitpold Himmler in persona (vedi capitolo La Violenza Compassionevole) ed è stata tratta da http://en.wikipedia.org

Come abbiamo visto, la figura del Kalon (in quanto membro del Kashag) è quindi un elemento di primaria importanza nell’esercizio dei poteri legislativo ed esecutivo. Sebbene la subordinarietà dei Kalon ai voleri del Dalai Lama sia sancita dalle norme, speravo che, quantomeno, la loro elezione fosse protetta da qualche meccanismo di garanzia democratica a prova di manipolazione, che ne garantisse l’imparzialità. Le modalità per l’elezione dei Kalon, sono elencate all’Articolo 21 di questa costituzione. La lettura dei primi sette commi dell’articolo, pare confortare il presupposto di democraticità, finché non appare, inesorabile, l’ottavo comma: Articolo 21 Elezione dei Kalon […dal comma 1 al 7, l’articolo elenca i requisiti che il candidato deve avere e le modalità di elezione, stabilendo che i Kalon siano eletti dall’Assemblea Tibetana. Salta subito all’occhio, però, il minimo percentuale veramente alto dei voti che i Kalon devono aggiudicarsi per potersi considerare eletti: ben il 70% dei suffragi. A fronte del mancato raggiungimento di questo improbabile livello percentuale – ben difficilmente ottenibile in qualsiasi democrazia – il documento stabilisce che sia l’assemblea a decidere quale debba essere il nuovo limite percentuale, che comunque non deve essere inferiore al 55%. In caso di ulteriore insuccesso, ecco come risolve il comma 8…]

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(8) Se la maggioranza dei due terzi dei membri presenti nell’Assemblea Tibetana disapprova la riduzione della percentuale di voti necessari all’elezione, o se, a seguito della riduzione, tale percentuale ridotta non viene comunque raggiunta, la questione deve essere sottoposta a Sua Santità il Dalai Lama e, al riguardo, si dovrà decidere secondo il Suo parere. Qualora il comma 8 non fosse sufficientemente chiaro nel ribadire l’assoluto potere decisionale del Dalai, arriva in “soccorso” il comma 10: (10) a) Se il numero dei Kalon eletti fosse esiguo ed insufficiente a garantire l’esercizio del ruolo in modo efficace, il Kashag può rivolgersi all’Assemblea Tibetana per porre la questione a Sua Santità il Dalai Lama affinché, con il Suo consenso, l’Assemblea Tibetana possa eleggere i Kalon da assegnare ai posti vacanti per le rimanenti posizioni. Ma il definitivo colpo di spugna sugli ultimi dubbi circa l’onnipotenza del ruolo politico del Dalai Lama, arriva dall’articolo 111 in merito alla questione forse più importante: le modalità di emendamento delle norme costituzionali: Articolo 111 Emendamenti alla Carta (1) fatta eccezione per gli articoli 3 e 4 del Capitolo I, per tutti gli articoli dei capitoli II e III, nonché per l’articolo 19 del capitolo IV109 previsti da questa Carta, ogni altra disposizione può essere modificata, emendata o rivista, se necessario, mediante risoluzione approvata da oltre due terzi della totalità dei membri dell’Assemblea Tibetana e con il consenso si Sua Santità il Dalai Lama, in conformità alla legge. Chi ha tempo per farlo, si legga pure, come ho fatto io, l’intero documento per evitare il rimorso di aver omesso o non adeguatamente valutato qualche aspetto. Vi garantisco, però, che questo breve esame è già più che sufficiente per dimostrare come, in realtà, lungi dall’essere uno strumento di democrazia, la Carta dei Tibetani in Esilio altro non sia che un mezzo per consolidare l’autorità assoluta del Dalai Lama salvando le apparenze verso il mondo occidentale che lo sponsorizza, USA in testa con circa due milioni di dollari all’anno di sovvenzioni pagate, più o meno inconsapevolmente, dai contribuenti americani110. Si tratta – se mi passate il neologismo – di uno “scudo per le allodole”, di un documento, cioè, che finge democrazia per dribblare l’opinione pubblica internazionale, ma che in realtà mette il Dalai Lama ed il suo potere al riparo da eventuali effetti democratici indesiderati che, con l’avanzare inesorabile dei tempi, finirebbero prima o poi per minare l’efficacia della dittatura teocratica che il lamaismo ha sempre esercitato e che, a quanto pare, non è minimamente intenzionato a dismettere.

((IINNDDIICCEE))

109 L’articolo 19 del Capitolo IV, come abbiamo già visto, è quello che conferisce plenipotenziarità esecutiva al Dalai Lama. 110 Secondo quanto sostiene Webster Griffin Tarpley, giornalista investigativo statunitense. Tarpley ha vissuto in Italia negli anni della contestazione e negli anni di piombo. Ha seguito da vicino, in particolare, la vicenda di Aldo Moro, dirigendo una commissione indipendente d'inchiesta patrocinata dal parlamentare italiano Zamberletti.

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CCAAPPIITTOOLLOO XXVVII

LLAA RREEIINNCCAARRNNAAZZIIOONNEE QQUUAALLEE MMEEZZZZOO PPEERR IILL MMAANNTTEENNIIMMEENNTTOO DDEELL PPOOTTEERREE

La reincarnazione, di per sé, è un argomento estremamente delicato. Si può crederci o no, ma è un dogma di fede e, in quanto tale, merita il massimo rispetto. Appunto per questo, invece, meritano il massimo disprezzo coloro che ne abusano a fini di potere.

In tutte le organizzazioni sociali dove vigano ancora regole genuine, siano esse

branchi di lupi o collettività umane, i capi sono scelti per acclamazione e, di solito, questa scaturisce dal fatto che gli acclamanti riconoscono all'acclamato dei meriti speciali.

Ogni individuo, sia esso animale od uomo, matura la propria caratteristica

definitiva solo quando raggiunge l'età adulta e quello che di lui influisce sugli altri membri del clan al punto di essere riconosciuto capo sono, appunto, la sua personalità, il suo sapere, la sua forza, la sua perizia nel fare le cose e via dicendo.

Tuttavia, nessun capo può sentirsi al sicuro in eterno. In nessuna organizzazione,

che si fondi su regole oneste, il ruolo di "capo" è permanente. Quelli che detengono la leadership sono costantemente sottoposti a prove della loro abilità e, soprattutto, devono guardarsi dalle insidie che gli arrivano dai potenziali concorrenti. Questo succede in modo naturale, indistintamente, tra tutti gli esseri viventi che passino la propria esistenza in strutture sociali umane o branchi animali evoluti, che dir si voglia.

Ogni potenziale concorrente del capo in carica, avrà certamente avuto esperienze

diverse da quelle del leader del momento. Potrà avere più cultura o più forza, potrà conoscere più cose, potrà, insomma, aver avuto un percorso di vita che, attraverso l'esperienza, l'abbia formato in modo tale da essere migliore del capo attuale.

Ma, ahimè, i nuovi capi, solitamente, portano innovazioni e modifiche rispetto a

quanto faceva il capo precedente. Le innovazioni di un nuovo capo, data appunto la sua diversità dal precedente, possono anche annullare quello che era stato predisposto. Il nuovo capo potrebbe, ad esempio, persino cancellare dei privilegi che prima erano considerati acquisiti ed intoccabili (basti pensare ai leoni maschi che quando si insediano in un nuovo branco uccidono tutti i cuccioli figli del maschio dominante spodestato, oppure all’operato dei ministri Brunetta e Gelmini, durante il quarto governo Berlusconi), può insomma sconvolgere gli equilibri che il capo precedente aveva stabilito. Come possono, dunque, i capi in carica tutelarsi da questo genere di insidia? Per gli onesti animali non c'è modo, ma per gli umani furbacchiotti un modo c’è ed è quello di poter controllare il percorso formativo (cioè la vita) di tutti coloro che possano potenzialmente aspirare, in futuro, a spodestarli.

Questa attività di sorveglianza, assolutamente esclusiva del genere umano, viene

regolarmente messa in atto da qualsiasi potentato, qualunque e ovunque esso sia: si cerca di controllare lo sviluppo della gente, gestendone la formazione sin dall'infanzia. Solitamente, la scuola e la televisione sono i mezzi cardine da dover usare per riuscire nell'intento. Ecco perché nel lamaismo i "capi" vengono scelti quando sono ancora bambini. Vengono sradicati dalla famiglia e portati in monastero. Qui, sono sottoposti ad un veemente condizionamento culturale in modo che da grandi non possano che "agire in quel modo".

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Il bambino, per tutto il suo periodo di formazione, non entrerà mai in vero contatto con entità esterne al monastero. Non avrà compagni di giochi che non siano dello stesso entourage e, probabilmente, non giocherà neppure. Non parliamo poi di televisione od altro genere di svaghi. Con la scusa della "santità" il bambino sarà tenuto isolato dal mondo mediante un sistema coercitivo che in qualsiasi altra nazione del mondo civile sarebbe punito dalla legge come crimine.

Il bimbo sarà completamente assorbito dallo studio della religione e delle sue

pratiche. Non potrà formarsi una personalità pluralista, perché non conoscerà mai la pluralità. Non potrà che diventare un religioso bigotto.

Ecco perché il Dalai Lama ed il Panchen Lama, insieme ad altre figure di preminenza nel lamaismo, vengono scelti da piccoli. Inoltre, il metodo con cui i Lama vanno alla ricerca dei bambini “reincarnati” ha dei tratti che, secondo quanto ci racconta anche il regista israeliano Nati Baratz, ricordano fin troppo da vicino la circonvenzione d’incapace e persino le tecniche di adescamento tipiche dei pedofili111. Qualunque genitore degno di tale nome, lotterebbe come una belva, sino a sacrificare la propria vita, se qualcuno attentasse all’incolumità del proprio piccolo. Ma di fronte al fatto che il figlio sia una "reincarna-zione di Buddha", il genitore, ovviamente anch'egli

credente, soggiace suo malgrado al "volere divino". La scusa della reincarnazione, quindi, è la chiave del meccanismo che rende attuabile questa immonda strategia.

Se si riesce a comprendere bene questo aspetto, ci apparirà chiaro come il sole il

fatto che il lamaismo altro non miri che alla restaurazione del potere e dei privilegi che ad esso erano associati. Il Dalai Lama, capo amministrativo del lamaismo, non può correre il rischio di essere spodestato da un individuo che, nei fatti, sia diverso da quel che si richiede che un Dalai sia. Infatti, non può essere messa a repentaglio la salvaguardia dei privilegi storici dei quali lui e tutta la classe dominante del lamaismo hanno sempre beneficiato, cosa che potrebbe facilmente accadere se il nuovo Dalai fosse, ad esempio, un indipendente, che so, un laureato di Harward o comunque un tibetano adulto, ormai vissuto e formatosi in contesto moderno e pluralista.

Non deve esistere una persona diversa da quella istituzionalizzata dello stereotipo

storico di Dalai e l'unico modo efficace è quello di controllare la situazione col dogma della reincarnazione, laddove i dogmatizzanti unici possibili siano gli stessi Lama che, ovviamente, avendo il diritto esclusivo di individuare (leggi: decidere) quale sia il bambino reincarnazione del Buddha di turno, o dei suoi “continuum mentali” che dir si voglia, di fatto sceglieranno sempre e solo chi piace a loro.

Le leggi cinesi, invece, grazie all'obbligo scolastico fino ai 16 anni ed al codice

penale che ne punisce severamente eventuali trasgressioni, impediscono l'esercizio di questa pratica medievale sui minori e ciò rappresenta una delle ragioni fondamentali per le quali il Dalai se ne è andato in esilio volontario. E’ solo dall'esilio, infatti, che il Dalai può continuare a far rapire bambini con la scusa del "volere divino" a proprio piacimento, cosa che gli costerebbe la sacrosanta galera se lo facesse da cittadino cinese.

((IINNDDIICCEE))

111 Cfr. http://www.thelmagazine.com/newyork/tibets-next-top-lama/Content?oid=1185714

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CCAAPPIITTOOLLOO XXVVIIII

CCOONNCCLLUUSSIIOONNII

Tibet indipendente? Per mano di chi? Affidato a chi? Alla luce dei fatti sin qui descritti, pare fortemente improbabile che il Dalai Lama,

ex monarca di stampo medioevale per nascita, cultura e formazione, in passato e tuttora ispiratore, fautore e promulgatore di atti di violenza tanto “compassionevole” quanto feroce e gratuita, sostenitore di princìpi controversi come l’elevazione mistica della superstizione, della fornicazione, dell’aborto, della tortura, dell’omicidio e delle violenze sui minori, sia mai in grado di gestire un paese modernamente, in pace e democrazia. Il protocollo lamaista di amministrazione temporale, infatti, è sempre stato l’antitesi della democrazia e della fratellanza, come abbiamo visto.

Per quale ragione, oggi, dovrebbe essere diverso? Quale cambiamento epocale

sarebbe mai avvenuto nei rituali lamaisti per far sì che i metodi tradizionali siano stati abiurati o quantomeno modificati? Chi può garantircelo? Ad oggi, non sono pervenute notizie di cambiamenti in questo senso, anzi, casomai abbiamo recentemente assistito a sanguinosissime dimostrazioni dell’esatto contrario. Serve, piuttosto, una seria riflessione, perché non bisogna fare confusione nel valutare.

Come già detto, la fratellanza universale e il raggiungimento della pace attraverso

l’amore per il prossimo mediante il sacrificio di se stessi a favore degli altri, sono valori cristiani, non lamaisti. Il dato di fatto è che al Dalai non appartengono né la nostra cultura, né i nostri valori morali, né, tantomeno, quelli etici o religiosi.

Vorrei che riuscissimo quantomeno a dubitare ed a porci delle domande. Quando

pensiamo a quei monaci non violenti, è perché siamo ingannati dall’immaginario consolidato e collettivo, dai film, dai racconti e dalle novelle che vengono propagate sin dagli anni della guerra fredda e che continuano ad essere diffuse ancora oggi, persino in modo subliminale, attraverso apparentemente innocenti spot pubblicitari112, oppure no?

Prima di dare una qualsiasi risposta, è bene non dimenticare il fatto che i non

cristiani, quando per convenienza devono farsi comprendere dall’occidente che è prevalentemente cristiano, adottano linguaggi ed atteggiamenti di matrice cristiana (la fratellanza, l’amore universale, il perdono). Lo fanno solo per poter comunicare, perché di fondo non ci credono, oppure no? Due persone, infatti, si comprendono solo se parlano la stessa lingua e non è affatto da escludere che il Dalai abbia deciso di parlare la nostra, anche se non gli appartiene, per tornaconto.

E’ giusto ingannare l’opinione pubblica? E’ legittimo contaminare irreversibilmente

la cultura della gente, spacciando un regime per pacifico e democratico senza il minimo conforto storico, anzi, contro le prove dell’inverso? E’ giusto sponsorizzare un sistema che ancora oggi dimostra di essere violento, sopraffattore e anacronistico, solo perché si pensa che questo serva da piede di porco per scardinare il “forziere Cina”?

E’ assolutamente certo che il Dalai sia figlio della cultura tibetana, ma è

assolutamente incerto – perché non ne abbiamo la benché minima prova – che egli ed i suoi seguaci siano intenzionati a rinnegare gli aspetti di intolleranza e fondamentalismo violento, tipici della loro cultura. Purtroppo, abbiamo semmai le evidenze storiche dell’esatto contrario, specialmente le più recenti e quelle che avete letto sin qui.

112 Vedi la pubblicità delle auto Lancia con testimonial Richard Gere ed il videoclip “I love the world” (Bundiada) di Discovery Channel.

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Col senno di poi, mi viene da dire che sia stato un grave danno, per le autorità cinesi, non essere riusciti ad impedire che il Dalai ed il suo entourage fuggissero in India. Secondo me, se ci fossero riusciti e se li avessero messi addirittura in condizione di poter agire liberamente, il lamaismo si sarebbe condannato con le proprie mani.

La conseguenza di oggi è che il Dalai non si esprime in libertà nel proprio

ambiente naturale e quindi può ben far finta di essere quello che non è: un lupo in gabbia non può azzannare le pecore, ma non per questo è mansueto.

E’ mia precisa opinione che il governo cinese, non essendo stato capace di

trattenerli, sia stato privato della possibilità di fare sì che il lamaismo, con le sue azioni genuine e con la naturale perpetrazione del proprio metodo storico, svelasse al mondo il proprio carattere violento, intollerante e sopraffattore e che pertanto finisse per essere doverosamente bandito dalla comunità internazionale, senza colpo ferire e senza che il governo di Pechino avesse dovuto essere accusato di alcuna responsabilità.

Adesso, è come sperare di riuscire a dimostrare la pericolosità di un leone

tenendolo incatenato. Al contrario, un leone incatenato è innocuo ed ispira persino compassione. Per capire davvero la minaccia che rappresenti un leone, bisogna lasciarlo libero di agire finché, prima o poi, non assale una vittima e la sbrana, com’è normale che sia, per la sua natura di animale predatore.

Però, in riferimento a quanto ho appena sostenuto, si pone allora un serio

dilemma, al quale resta molto difficile dare una risposta equilibrata: è meglio aspettare che un criminale commetta un delitto per poterlo poi legittimamente arrestare, oppure è preferibile – già sapendo che razza di malfattore egli sia - metterlo da subito in condizione di non nuocere, magari anche arbitrariamente, prima ancora che possa far male a qualcuno?

Se è vero che incarcerare precauzionalmente un possibile delinquente per

impedirgli di nuocere può essere un atto contrario ai diritti umani, perché non dovrebbe essere altrettanto lesivo della libertà umana quello di mettere a repentaglio l’incolumità di molte più persone consentendo ad un potenziale criminale di scorrazzare liberamente? Francamente parlando, se è valido il primo concetto a maggior ragione deve essere valido anche il secondo, salvo non scadere in una discriminazione che saprebbe molto di losca politica e molto poco di vera tutela dei diritti umani. In qualsiasi organizzazione sociale degna di tale nome, infatti, gli interessi del singolo non devono mai prevalere su quelli della collettività, specie se trattasi di interessi che attentano all’incolumità materiale o morale delle persone.

La stragrande maggioranza dell’opinione pubblica occidentale, non conosce la

storia dei Tibet e non sa che cos’era il Tibet prima del 1949. Divertitevi a chiedere a vostri amici e conoscenti, meglio se acculturati, e vedrete. Tranne non incappiate in un vero esperto delle civiltà orientali, vedrete che nessuno sa della schiavitù, né della teocrazia.

Per cui, il gioco è facile: sul Tibet si può raccontare di tutto e l’opinione pubblica lo

prenderà sempre per buono in quanto pochissimi sanno come stessero davvero le cose. Addirittura in tanti tra quelli che nel Marzo 2008 hanno vigorosamente protestato sotto le ambasciate cinesi, teneramente avvolti in bandiere e foulard tibetani, ignoravano persino dove fosse il Tibet, come molte interviste televisive hanno dimostrato. Quindi, almeno voi, non fatevi più prendere in giro, da ora in poi.

A questo punto, è necessario un parallelo esplicativo con la Chiesa romana. Nel

corso dei secoli, specialmente in epoca medioevale e rinascimentale, la Chiesa di Roma, essendo un potere autonomo senza controllo superiore, si esprimeva liberamente.

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Si rendeva, così, responsabile di fatti che sarebbero poi risultati essere nient’altro che orrende atrocità, come l’inquisizione e la conversione forzata e violenta dei popoli esotici conquistati dalle imperiali potenze cattoliche di allora.

Poi, a seguito degli eventi storici ai quali ho precedentemente accennato e che

portarono alla caduta dello Stato Pontificio, con il conseguente annullamento, almeno formale, del potere temporale dei Papi, le notizie di tali infamie si ridussero di molto.

Ciò avvenne perché le nefandezze si erano davvero ridotte in numero o forse solo

perché non venivano più commesse alla luce del sole come prima, essenzialmente per vergogna verso un’opinione pubblica che, nel frattempo, aveva acquistato una maggiore coscienza critica grazie alla progressiva diffusione dell’istruzione e, quindi, della cultura.

In epoca moderna, grazie all’opera progressiva di azzeramento del filtro culturale

delle masse, la Chiesa Cattolica è man mano tornata ad essere sempre più libera da imposizioni, arrivando addirittura a condizionare essa stessa l’operato dei governi dei paesi che la riconoscono e non viceversa. Però, grazie a Dio (!) la struttura della Chiesa di Roma ha una falla: riesce molto male a tenersi al passo con i tempi113.

Oggi nel mondo c’è un mezzo che in antichità non esisteva e contro il quale la

Chiesa Cattolica sembra non avere ancora messo a punto un antidoto efficace: l’informazione diffusa attraverso i media.

Questo preziosissimo e pericolosissimo strumento, quando riesce a non farsi

imbavagliare, ci consente di conoscere quello che succede. E’ stato così che abbiamo potuto sapere della tragedia degli Inuit, dello scandalo

dello IOR, di Marcinkus, dei sacerdoti pedofili e di come la Chiesa di Roma abbia spesso operato non solo per occultare questi ed altri delitti, ma, soprattutto, per continuare a perpetrarli, al punto di indurci a ritenere che li considerino, probabilmente, un mezzo per il mantenimento del potere.

Questo per dire che, al di là della sacrosanta indipendenza alla quale tutti i popoli

di questo mondo hanno diritto, sarebbe interessante sapere quale sia il tipo di regime che il Dalai intenda instaurare in Tibet qualora tornasse al Potala Palace. Al momento, non ce l’ha ancora detto, ma la cosa più drammatica è che nemmeno lo si può immaginare.

Infatti, come si fa, di solito, a prevedere il modo in cui evolverà una cosa?

Scientificamente, ci si basa sulle esperienze precedenti definendone gli indici e si prevede quel che accadrà facendo una comparazione tra gli indici, appunto, delle esperienze pregresse e quelli che preludono al fenomeno imminente. Quindi, se per il Tibet si pensa ad un metodo amministrativo nuovo, magari persino di stampo occidental-democratico e quindi scollato dalla tradizione lamaista, non abbiamo, purtroppo, alcun indice precedente da analizzare per fare alcuna previsione.

Abbiamo, casomai, la prova esattamente opposta, perché qui di prove si tratta,

non di opinioni. Poc’anzi vi ho parlato del documentario dell’emittente francese France 24 sulla condizione degli adepti del credo Shugden.

Curiosamente, su YouTube è presente un altro documentario, stavolta tratto da Al

Jazeera, che ha praticamente le stesse identiche sequenze di quello di France 24, tranne alcune scene, al punto da chiedersi di chi sia la vera paternità di quel servizio.

113 Si pensi che la Congregazione Generale dei Gesuiti (Compagnia di Gesù), i cui orientamenti, di fatto, governano la dottrina della Chiesa cattolica ancor più delle encicliche papali, si è riunita solo 35 volte in 452 anni, dal 1558 ad oggi.

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Potete vederlo collegandovi al link indicato in nota114. Secondo me è probabile che, come si usa oggi, il servizio sia stato girato in realtà da un’impresa cosiddetta “freelance” che l’ha venduto ad entrambi, i quali l’hanno poi montato, ognuno, secondo la propria discrezione.

Ma poco importa. Nella versione di Al Jazeera, al minuto 5 e 5 secondi, il

giornalista chiede al Sig. Tsultrim Tenzin 115 che è un MP, ovvero un membro del parlamento tibetano in esilio (volontario), se avessero mai dibattuto - in parlamento - la questione Shudgen.

L’intervistato, dà una risposta a dir poco scioccante: «No, perché non c’e stato

nessun litigio, nessuna contestazione. Se ci fosse stata un’opposizione, ne avremmo dibattuto, ma sapevamo di essere già tutti d’accordo. Non abbiamo nessuna ragione per dubitare delle decisioni del Dalai Lama. Noi non lo consideriamo come un essere umano. Lui è un essere soprannaturale. Lui è Dio e non pensa mai per se stesso, ma solo per gli altri […] il nostro sistema è completamente democratico, tutti sono soddisfatti perché ognuno può esprimersi liberamente». Sì, salvo non contraddire l’infallibilità dell’Uomo Dio, dico io. Questi devoti del Dalai, sono talmente candidi sull’espressione del loro profondo credo, da non rendersi assolutamente conto di quanto sia pazzesca, al giorno d’oggi, un’affermazione del genere. Se da un lato si tratta di un atto di fede ammirevole, dall’altro è terribile solo pensare che possa esistere un “parlamento” del genere.

Sempre nella versione di Al Jazeera, subito dopo l’intervista che ci ha così bene

illuminati sulla caratteristica di assoluta “democraticità” del parlamento tibetano in esilio (volontario), al minuto 6 e 5 secondi ce n’è un’altra, ancor più raccapricciante, a colui che è stato primo ministro del governo tibetano in esilio (volontario) sino al 27 aprile 2011, tale Samdhong Rinpoche116, che all'epoca dell'intervista era ancora ben in carica.

L’intervistatore gli mostra uno di quei cartelli, apposti all’ingresso di tutti i negozi

di Dharmasala117, che vieta l’ingresso ai praticanti Shugden. Il “primo ministro”, che trasuda fastidio da tutti i pori, prende il cartello, lo legge e commenta: «E’ vero… (poi legge dal cartello): “Coloro che non si sono dissociati dalla perpetrazione (del culto) dello spirito (Shudgen), sono cortesemente pregati di non entrare in questo negozio” … E’ molto chiaro… e quindi perché loro dovrebbero entrare in quel negozio?! E’ ingiusto per la controparte … Molti praticanti Shudgen stanno diventando terroristi e sono capaci di uccidere chiunque… sono capaci di picchiare chiunque. E’ molto chiaro che adesso la gente seguace di Shudgen è molto vicina al governo della Repubblica Popolare Cinese. Questo è evidente.».

Già: “Perché loro dovrebbero entrare in quel negozio?!”. Allucinante. C’è da

chiedersi in quale misura le dichiarazioni di questo signore siano frutto di un principio di Alzheimer (ma allora perché era nientemeno che primo ministro?!) e quanto, invece, siano la gelida rappresentazione della verità. Se a farle fosse stato un membro del parlamento Svedese, sicuramente si sarebbe trattato di demenza senile, ma datosi che si tratta di un Lama tibetano, la risposta è assolutamente coerente con quella del Sig. Tsultrim Tenzin e, anzi, sarebbe stato sorprendente il contrario. L’una risposta conforta l’altra e la completa. Questo è il quadro. Questo è il modo migliore per capire che cosa sia, in realtà, il lamaismo e come esso intenda amministrare il proprio regno.

114 Vedi: http://www.youtube.com/watch?v=KqON2lxArek 115 Vedi: http://www.tpprc.org/dhotoe.html 116 Il termine “rinpoche” in tibetano significa “il prezioso” ed è praticamente il titolo onorifico riservato ai Lama reincarnati. 117 Cittadina nel nord dell’India, situata nel distretto di Kangra, il cui nome può anche apparire scritto come Dharmashala, o Dharamshala,, o Dharamsala.

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Ecco, i tibetani martoriati e martirizzati dalla feroce oppressione cinese, possono dunque stare tranquilli: se torna il Dalai, avranno un bel parlamento democratico, ma così democratico che nessuno dei suoi membri si sognerà mai neppure di mettere in dubbio le parole ed il volere del Dio Uomo infallibile.

Ora, miei cari e sbigottiti lettori, voi che avete sempre creduto (non per colpa

vostra, ma perché ve l’hanno fatto credere) che il Dalai Lama sia un povero fraticello scalzo ed ignudo, simbolo di pace, un agnellino sacrificale vittima della feroce repressione dei comunisti cinesi, sarà bene che vi diate la sveglia prima che finiscano di anestetizzarvi il cervello del tutto: quelle interviste sono vere e non sono certamente frutto della propaganda cinese.

Quelle interviste sono “la diretta” della situazione. Quelle telecamere vi hanno

portato a Dharmasala a vedere come stanno davvero le cose. Quelle telecamere vi hanno fatto ascoltare la vera voce ed i veri pensieri dei tibetani in esilio e adesso capite perché metto sempre l’aggettivo “volontario” di seguito alla parola “esilio”. Quelle telecamere vi hanno dimostrato che la democrazia è un concetto assolutamente sconosciuto al lamaismo. Quelle telecamere vi hanno fatto capire che tutto quello che vi ho sinora raccontato è solo la triste ed amara verità.

I media occidentali, anche se ne parlano poco, quando lo fanno ci presentano il

governo tibetano in esilio (volontario) di Dharmasala come un fulgido esempio di democrazia. Dopo quello che avete appreso, certamente vorreste chiedere una perizia psichiatrica per chi sostiene queste argomentazioni, visto che di fronte a tali evidenze anche l’essere prezzolati o faziosi non è una posizione sostenibile senza rischiare di essere presi per imbecilli avendo detto che quello di Dharmasala è un parlamento democratico. E’ davvero possibile, nel 2010, anche solo a pensare che possa esistere un parlamento che si definisce “democratico” e che, allo stesso tempo, decide i destini della propria gente non osando mettere in dubbio le decisioni del Dalai Lama perché il Dalai Lama è Dio?

Ma tutto questo, se ci pensiamo bene, è normale. Il Dalai Lama, così come il Papa

dei cattolici e le alte cariche islamiche o dell'ebraismo, è un'autorità religiosa che basa l'efficacia del suo operato sulla teocrazia e questo è un fatto inevitabile, per stessa definizione del ruolo. Invece, siccome l'età moderna sventola il vessillo della democrazia come modello di vita sociale e politica da adottare per tutte le popolazioni del mondo, ecco che, giocoforza, i capi religiosi come il Dalai Lama e gli altri summenzionati, devono obbligatoriamente mostrarsi in qualche modo democratici per poter continuare ad avere l'appoggio della comunità internazionale e non rischiare di essere messi al bando come dittatori teocratici fuori dal tempo e dalla logica.

Purtroppo per loro (ma essenzialmente per i loro sudditi) la democrazia in senso

reale intesa, è un vestito che non si adatta affatto all'esercizio del potere assoluto temporale e religioso e, come ogni vestito che va stretto, spesso si strappa e finisce per mostrare le nudità sottostanti che si vorrebbe restassero nascoste.

E' semplicemente ridicolo che la massima autorità religiosa, specie se ritenuta

"infallibile" e "dio vivente" come il Dalai, demandi davvero le decisioni politiche e religiose ad un parlamento, così come non ha alcun senso che un parlamento che riconosce il Dalai come essere soprannaturale (Uomo Dio) ne possa contraddire o persino semplicemente mettere in discussione le decisioni.

Nell’intervista che compare nel filmato di YouTube (che spero abbiate già visto) il

Sig. Tenzin, esperto veterano del parlamento tibetano in esilio, spiega anche fin troppo ingenuamente quale siano il vero ruolo e la vera influenza del Dalai Lama nelle decisioni politiche.

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Tsultrim Tenzin lascia quindi ben comprendere come il loro parlamento sia in realtà un organo virtuale che non fa altro che ratificare le decisioni del Dalai Lama, alle quali non si oppone mai, visto che ciò è impedito dalla loro vigente “costituzione” (vedi Capitolo XV), ma soprattutto perché il Dalai è da loro stessi considerato essere soprannaturale ed infallibile in quanto tale.

Dunque, prima di fare presagi sul futuro di un Tibet indipendente in mano e per

mano del Dalai, dovremo chiederci, soprattutto, come potrebbe mai accadere alcuna innovazione a cura di chi non ha mai praticato, ma soprattutto non ha mai dimostrato di voler praticare, tantomeno oggi, alcun altro metodo se non il proprio. Molto più verosimile pensare ad una restaurazione del regime precedente. Non ci sono e non ci sono mai state notizie storiche di democrazia in Tibet. Per contro, la Cina è piena di monaci tibetani che circolano liberamente. Tutti i santuari buddisti cinesi, tibetani e non, ne ospitano spesso alcuni, perché quelli che non fanno ricorso alla “violenza compassionevole” sono affascinanti predicatori. La religiosità di per sé, non è affatto proibita in Cina. E’ osteggiata, di sicuro, l’organizzazione religiosa che si arroghi potere temporale, o che interferisca a livello politico, o la cui dottrina destabilizzi l’ordine pubblico, ma non la fede religiosa in quanto tale.

E’ pur vero che nel periodo della rivoluzione culturale (1967-1977 ca.) ci fu la

proibizione totale del culto religioso, ma non solo in Tibet: in tutta la Cina. I monasteri tibetani (e gli altri luoghi di culto) furono chiusi ed i monaci furono rimandati presso le proprie famiglie di origine ad eseguire compiti socialmente produttivi, come i lavori agricoli. Non è affatto vero che tutti i templi furono rasi al suolo, anche se le Guardie Rosse (giovani intellettuali tibetani) distrussero molti oggetti e luoghi di culto. Allorché la situazione si fece caotica, l’esercito assunse il controllo per ripristinare l’ordine sociale. Il governo cinese fece pubblica ammissione degli errori perpetrati in quel periodo e finanziò il restauro di tutto il patrimonio religioso tibetano danneggiato. I monaci tornarono nei monasteri. Circa duemila lamasserie (i monasteri del Lama) furono restaurati e resi nuovamente operativi.

Oggi, in Cina ci sono luoghi di culto dappertutto, di qualsiasi religione. Ovunque ci

sono templi buddisti e taoisti. Chiese cristiane, moschee e sinagoghe si trovano in ogni grande città e, se la comunità locale lo richiede, anche nei piccoli centri. Basti pensare proprio al “Tempio dei Lama” di Pechino, che è il più famoso tempio buddista della capitale ed è uno dei più grandi complessi sacri di tutta la Cina.

Mi rivolgo ad eventuali lettori esterrefatti: sì, signori miei, in Cina si prega tutti i

giorni, ovunque. Non fatevi prendere per il bavero. Gli oltre venti milioni di mussulmani che sono in Cina non sono tutti nei campi di rieducazione come vuol farci credere certa stampa occidentale (fatta eccezione per i seguaci di Al Qaeda e gli assassini di Urumqi sinora messi in condizione di non più nuocere). Per quanto riguarda la cristianità, in Cina oggi ci sono oltre 16 milioni di fedeli, 55.000 chiese e 36.000 missionari118.

So perfettamente che definire il lamaismo un regime "dispotico e spietato" crea

scandalo, perché va contro un immaginario collettivo arciconsolidato: è un po’ come dire che Babbo Natale è pedofilo. Sta di fatto, però, che la via della verità è sempre stata lastricata di scandali, da Gesù Cristo in poi.

L’opinione pubblica occidentale vede il Dalai come un martire, come una figura

sacra e casta, come un angelico simbolo di pace, quando la cosa è, invece, quantomeno degna di più ampia e seria discussione: egli appare al mondo come un santo vivente, essendo stato persino appellato “Sua Santità”, ma i fatti storici, se presi in seria considerazione, conducono a ritenere l’esatto opposto.

118 Vedi: http://www.ilgiornale.it del 09.11.2010

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Lo stesso governo di Pechino, ben consapevole di quanto l’immacolata effigie del Dalai sia oramai radicata nell'immaginario collettivo mondiale grazie a una tremenda ed incessante propaganda di stampo hollywoodiano, fa ben poco, o quasi nulla, per divulgare altre verità, forse nel timore di attirarsi maggiori inimicizie e limitandosi, di fatto, a tenere lontani i curiosi o, più verosimilmente, per puro e semplice disinteresse.

Purtroppo, in questo senso Pechino non ha tutti i torti: è pericolosissimo sradicare

una credenza consolidata, anche se fondata sul nulla o, come in questo caso, sull’impostura.

Della straordinaria utilità di questo efficace quanto immorale principio, ne sa

qualcosa, tanto per cambiare, la stessa Chiesa cattolica. Dopo la legittimazione costantiniana (III° secolo D.C.), per non scontentare la plebe ed evitare sommosse, la chiesa di Roma – ai cui vescovi Costantino concesse la facoltà di legiferare – non abolì le feste pagane, che rimasero al loro posto nel calendario.

Ne fu cambiato solo il nome e lo fecero in modo talmente spudorato da spostare

persino la data del Natale di Gesù al 25 Dicembre 119 . Perché? Perché secondo la tradizione romana il 25 Dicembre era già un’importantissima festa pagana, dove si celebravano la nascita del Sole e del dio Mitra. Abolirla avrebbe provocato un crollo di popolarità, se non addirittura una rivolta.

Nulla di nuovo sotto il sole, appunto. Allora, come sosteneva Gustave Le Bon120

nella sua opera “Psicologia delle folle”, parlando degli uomini di potere e della loro capacità di mentire contro l’evidenza:

«Quando si tratta di far penetrare idee e credenze nello spirito delle folle, i metodi sono: l'affermazione, la ripetizione, il contagio […]. Più l'affermazione è concisa e sprovvista di possibilità di riscontro, più essa ha autorità: i libri religiosi e i codici di tutte le epoche hanno sempre proceduto per semplice affermazione […]. Ben si comprende l'influenza della ripetizione sulle folle, vedendo quale potere essa esercita sugli spiriti più illuminati. La cosa ripetuta finisce difatti per attecchire in quelle regioni profonde

dell'inconscio in cui si elaborano i motivi delle nostre azioni. In capo a qualche tempo, dimenticando qual'é l'autore della affermazione ripetuta, finiamo per credervi. In tal modo si spiega la forza mirabile dell'annunzio.».

119 Al momento in cui intervenne la variazione, il natale di Gesù, che nelle chiese proto-cristiane si celebrava addirittura in Luglio (!), si festeggiava il 6 Gennaio. La Chiesa Ortodossa d’Oriente, infatti, continua a rispettare la data che i cattolici romani hanno, invece, ipocritamente attribuito all’Epifania per mantenere la festività pagana del dio del sole. 120 Nato a Nogent-le-Rotrou il 7 maggio 1841, lo psicologo sociale Gustave Le Bon è noto particolarmente per la sua opera "La psicologia delle folle" nella quale indaga il comportamento delle masse, entrate allora prepotentemente tra gli attori della storia con gli sviluppi dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione.

Gustave Le Bon

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Con tutto che quando Le Bon scrisse queste cose, il mondo non aveva ancora conosciuto la tremenda potenza condizionatrice di mezzi d’informazione come la televisione ed il cinema.

I cinesi, mediante una mirabile sintesi di ugual valenza, dicono: «Tre uomini fanno

una tigre». Infatti, se vedeste un uomo darsi alla fuga gridando: «Aiuto! C’e una tigre!» voi

potreste anche solo incuriosirvi e nulla più, ma vedendone anche un secondo scappare urlando spaventato allo stesso modo, inizierebbero a sorgervi quantomeno dei dubbi.

Se addirittura ne vedeste un terzo fuggire come i primi due… beh, è certo che

anche voi ve la dareste a gambe. Vedremo che cosa ci dirà la storia. L’importante è non rendersi mai complici di

delitti, soprattutto quando vengano vergognosamente compiuti col pretesto della libertà.

((IINNDDIICCEE))

    

  

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SSUULL  PPRREESSUUNNTTOO  GGEENNOOCCIIDDIIOO,,  HHAA  RRAAGGIIOONNEE  IILL  DDAALLAAII  OO  NNOO??  (appendice di approfondimento)  Visto che lo scopo di questo libro è accertare – per quanto possibile – come siano davvero andate  le  cose  e  considerato  che  le  informazioni  storiche  sono  abbastanza  confuse  e contraddittorie,  gli  unici  dati  ai  quali  possiamo  riferirci,  con  un minimo  di  fiducia,  per tentare una ricostruzione attendibile, sono i numeri diffusi dagli organismi internazionali.  

Anche se di fesserie, nella loro storia, ne hanno sparate parecchie, stavolta non dubitiamo dell’OMS e della Banca Mondiale. Per stabilire se il Dalai abbia ragione in merito al numero di tibetani che, secondo lui, sarebbero stati “sterminati dal genocidio cinese”, non ci resta che operare una dimostrazione per assurdo (non in senso letterale, ma scientifico, come si dice  in geometria razionale) partendo dal postulato che quanto sostiene Lhamo Döndrub sul  numero delle persone uccise, sia vero. 

 

Cosa dice  il Dalai?  Il Dalai, fondamentalmente, dice tre cose:   1)  i tibetani nel 1949 erano 1,2 milioni di persone; 2)  i cinesi ne hanno uccisi oltre un milione dal 1949 al 1959; 3)  i tibetani oggi  sono  circa 3 milioni. Cosa dicono  i dati   dell’OMS e dalla Banca Mondiale? Concordano  con  quanto  sostiene  il Dalai  e  cioè  sul  fatto  che  la  popolazione  odierna  di tibetani autoctoni sia di 3 milioni circa. Partendo dal dato iniziale chiaro a tutti di 1,2 milioni di  individui  e  sottraendo  gli  1,0  milioni  di  persone  uccise  come  sostiene  il  Dalai,  ne consegue che il numero dei tibetani superstiti nel 1960 avrebbe dovuto essere uguale a 0,2 milioni.  Mettiamo che ciò sia vero. 

 

A questo punto dovremmo adottare una formula statistica seria , di quelle che si usano per calcolare  le  potenzialità  di  incremento  demografico.  Tali  formule  devono  tener  conto dell’età delle persone, del loro sesso, del loro stato di salute, del loro reddito (ovvero della disponibilità di risorse necessarie ad una corretta sopravvivenza), delle condizioni culturali ed ambientali e di tutta una serie di altre variabili incidenti che, se applicate ad una base di 0,2 milioni di  individui  in un posto  come  il  Tibet del 1959,  ridurrebbero  il numero delle coppie  fertili  ad  una  cifra  ridicola  e  quindi  potremmo  andare  già  tutti  a  casa, spernacchiando sonoramente il Dalai.  

Però  abbiamo  detto  che  per  rispetto  non  vogliamo  spernacchiare  sonoramente  Lhamo “Sua  Santità  Oceano  di  Saggezza  e  Difensore  della  Fede”  Döndrub,  quindi  diamo  per assunto che gli 0,2 milioni di superstiti siano maschi e femmine esattamente al 50%, tutti sani, tutti eterosessuali, tutti sposati già a sedici anni di età e tutti fertili. Abbiamo quindi 0,1 milioni (100.000) coppie di tibetani in grado di procreare. Un’altra serie di postulati che dobbiamo  enunciare  per  ridurre  al minimo  il  rischio  di  essere  costretti  a  spernacchiare sonoramente Sua Santità Oceano di Saggezza, è che nel periodo dal 1959 ad oggi:  

1. nessuno sia mai morto; 2. ogni donna tibetana, dalla nascita in poi, abbia sempre avuto almeno due figli ogni 

16 anni; 3. tutte  le  coppie,  indistintamente,  abbiano  sempre  avuto  almeno  due  gemelli 

eterozigoti di sesso opposto: un maschio e una femmina; 4. le 100.000 coppie iniziali abbiano avuto 6 figli ciascuna, 3 maschi più 3 femmine, ed 

abbiano mantenuto la fertilità fino ai 61 anni di età. 

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Fatte tali premesse, passiamo ai calcoli veri e propri:  

Periodo (intervallo di 16 

anni) 

Popolazione iniziale 

Coppie fertili Individui procreati 

Popolazione totale a fine intervallo 

1959 – 1975  200.000  100.000  200.000  400.000 1975 – 1991  400.000  200.000  400.000  800.000 1991 – 2007  800.000  400.000  800.000  1.600.000 

Differenza col dato OMS odierno di 3.000.000 :  ‐1.400.000  

Vedete  bene  che  non  ci  siamo,  neanche  lontanamente. Oltretutto,  tenendo  conto  delle palesi assurdità di premessa che ho usato nel  fare  il calcolo,  se   quanto  sostiene  il Dalai fosse  vero  i  tibetani  oggi  dovrebbero  essersi  già  estinti  come  il  Dodo121.  Salvo  non  si vogliano mettere  in discussione  i dati demografici dell’OMS, della Banca Mondiale e dello stesso Dalai, c’è solo una spiegazione: quello che afferma  il Dalai  in merito al genocidio è falso ed ha ragione Patrick French quando dice che i numeri sono stati truccati.  

Ma c’è un fatto ancor più attendibile: il dato ufficiale delle Nazioni Unite122. Questo indica nell’1,71%  il tasso di crescita medio asiatico annuo dal 1960 ad oggi (2010). Quindi,   se  la popolazione  tibetana  odierna  ha  raggiunto  la  cifra  di  3 milioni  e  se  è  vero  il  predetto coefficiente  dell’ONU,  matematicamente  significa  che  si  è  partiti  da  una  base  di esattamente 1,2 ÷ 1,3 milioni individui nel 1960.  

Il tutto senza considerare che, per onestà, bisognerebbe applicare un doveroso “sconto” a questo  tasso, datosi che al  tempo  in Tibet non esistevano  le condizioni di prosperità che c’erano  in  altri  stati  asiatici. Verosimilmente,  quindi,  se  come  è  vero  il  tasso  di  crescita iniziale della popolazione tibetana è stato  inferiore all’1,71%, è altrettanto evidente che è andato  progressivamente  aumentando,  addirittura  superando  la media  asiatica.  Ricordo che l’aumento del tasso di crescita di qualsiasi specie animale, umana o non che essa sia, è strettamente legato all’oggettivo miglioramento delle condizioni di vita.  

Non possiamo ovviamente negare che il conflitto del 1959 abbia causato  la morte di molte persone  (quantomeno di quelle  che  hanno  combattuto),  ma  neanche  possiamo ammettere  che  siano  state  oltre  un milione,  come  dice l’interessato  Dalai.  E’  purtroppo  “naturale”  che  in  una guerra  ci  siano  dei  morti,  però  da  qui  a  dire  che  si  è trattato di un genocidio, ce ne corre e ci vuole davvero una bella faccia di cartapesta per sostenerlo.  

Mi  dispiace  disilludere,  ma  i  numeri  non  ammettono interpretazioni politiche o  filosofiche:  i numeri possono  solo essere alterati e, purtroppo per coloro che sicuramente sono in buona fede, quello di sommarli anziché farne la media è un espediente che funziona solo fino a quando non viene scoperto. 

  ((IINNDDIICCEE))  

121 Gallinaceo delle isole Mauritius, famoso per la sua docilità, estinto dai colonizzatori olandesi e portoghesi che lo cacciarono indiscriminatamente. Oggi è  uno dei simboli delle specie animali in pericolo di estinzione. 122 cfr.: http://economistiinvisibili.splinder.com/post/22251368/Crescita+demografica+e+sviluppo  

 

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Wisdom Publications 2001;

• Webster Griffin Tarpley (Pittsfield, Massachusetts,

1946).

  

Page 110: Tre Uomini fanno una Tigre

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© - Tutti i diritti sono riservati - Rev. 15.03.2012 che annulla e sostituisce le precedenti.

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Tibet libero = Tibet separatista?   Questo è il punto che l’opera tenta di chiarire.  Per l’autore, non v’è il minimo dubbio: il Tibet è una  provincia  cinese  da  tempi  immemorabili  e quindi  si  tratta  di  separatismo.  Documenti  e testimonianze  non  mancano  e  tutto  ciò  che viene  citato,  specialmente  sulla  presunta ipocrisia  del  Dalai  Lama  e  sul  conseguente carattere  apologetico  dell’esaltazione  della  sua figura, riconduce  favorevolmente a tale tesi.  Tuttavia,  sin dalle prime  righe,  viene  lasciata  al lettore ampia facoltà di valutazione.  L’autore, mediante  la citazione di  fatti odierni e documenti storici che commenta, vuole giungere alla  dimostrazione  che  l’aristocrazia  teocratica tibetana,  che  dal  1949  al  1958  fu progressivamente spogliata dei propri privilegi di casta  fino  ad  essere  spodestata,  stia propagandando il falso storico dell’indipendenza del Tibet col solo fine di riprendersi il potere.  Inoltre  egli  sostiene  che,  parallelamente,  il fenomeno  sia  tutt’oggi  sfruttato  dalle  potenze occidentali le quali, col pretesto di supportare la “causa tibetana”,  in realtà perseguono tutt’altro fine, cioè quello dello smembramento della Cina 

per  spartirsene  le  ricchezze,  quale  naturale  continuazione  dell’originale  piano  di  conquista britannico di epoca vittoriana.  

D’altronde,  è  pur  vero  che  è  stato  lo  stesso  Dalai  Lama  a  dichiarare,  anche  abbastanza recentemente,  che  l’Occidente  si  è  interessato  alla  causa  del  Tibet  solo  per  usarlo  come  arma tattica contro la Cina.  

Dovunque stia  la verità, un fatto è certo: se da un  lato è doveroso che qualunque etnia del mondo abbia la sacrosanta facoltà di rivendicare autonomia ed indipendenza, dall’altro la comunità internazionale  dovrebbe  usare  ogni mezzo  per  impedire  che  questo  nobile  diritto  sia  vilmente strumentalizzato a fini di potere da un monarca assoluto, fuori dal tempo e dalla logica, supportato da  appena  un  centinaio  di  migliaia  di  persone  che  vengono  abusivamente  ed  impunemente spacciate per portavoce di un intero popolo. 

   

La rivolta dei Boxer (1901)  

La  foto  ritrae  un  gruppo  di  ribelli  della  rivolta  dei Boxer, prigionieri delle truppe USA, appartenenti alla "Società  dei  Pugni  Giusti  e  Armoniosi",  che  erano appunto  chiamati  semplicemente  "Boxer"  dagli occidentali  per  via  della  loro  pratica  nelle  arti marziali.  L’insurrezione  scoppiò  a  seguito  della stipula  dei  trattati  iniqui,  o  “trattati  ineguali”,  che sancivano  l’ingerenza  straniera  in  Cina  ai  fini  della sua spartizione tra le superpotenze di allora (Europa, Russia,  USA  e  Giappone),  sotto  lo  sguardo connivente  della  dinastia  Qing  con  a  capo  Cixi,  la terribile  “Imperatrice  Vedova”,  Regina  Madre  al tempo dell’ultimo imperatore Pu Yi (v. omonimo film di Bertolucci).