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CUORE DI TIGRE

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CUORE DI TIGRE

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CUORE DI TIGREQuattordici tigrotti

sulle tracce di Emilio Salgari

a cura di

LUCA CROVI e CLAUDIO GALLO

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Per l’immagine di copertina, l’Editore resta a disposizione degli aventi dirittto.

© 2013 Alan D. Altieri, L’ombra di Suyodhana © 2013 Tullio Avoledo, I Pirati delle Twin Towers © 2013 Marco Buticchi, La trappola del ghepardo © 2013 Pino Cacucci, El Genovés © 2013 Massimo Carlotto, Fuga nella Sierra Madre © 2013 Piero Colaprico, Gli occhiali di Tremal-Naik Published by arrangement with Agenzia Santachiara© 2013 Alfredo Colitto, Il re dei maya © 2013 Luca Di Fulvio, La begum di Novara © 2013 Carlo Lucarelli, Un brutto momento Published by arrangement with Agenzia Santachiara© 2013 Marco Malvaldi, La perla del Sichuan © 2013 Mino Milani, Il vecchio. L’ultima avventura di Tommy River© 2013 Simone Sarasso, Le meraviglie del 2011 Pubblicato in accordo con l’autore c/o PINLA & Associati srl/ Piergiorgio

Nicolazzini Literary Agency© 2013 Marcello Simoni, I pirati di Negroponte © 2013 Wu Ming 5, Il Leviatano Published by arrangement with Agenzia Santachiara

ISBN 978-88-566-2934-7

I Edizione 2013

© 2013 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milanowww.edizpiemme.it

Anno 2013-2014-2015 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Stampato presso ELCOGRAF S.p.A. - Stabilimento di Cles (TN)

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MARCO BUTICCHI

Surrogato di cioccolata

Ripeto spesso di essere «venuto su a surrogato di cioc-colata (perché non esisteva ancora la Nutella) e a romanzi di Emilio Salgari». Nasco infatti nel 1957, sotto il segno di un solo canale televisivo arcipalloso e di librerie da divora-re con voracità. C’erano anche le infl uenze... non ci sono più le infl uenze di una volta, quando si restava a letto al calduccio e, mentre mamme e nonne si prodigavano nel posare sul comodino spremute e latte caldo, noi divorava-mo romanzi d’avventura sognando indomiti le tolde di navi nella tempesta, gli occhi di ghiaccio di Sandokan, le dolci principesse asiatiche.

Poi si cresce, si cresce tutti. Ma quelle sensazioni, quelle informazioni che rappresentano l’imprinting delle nostre coscienze, quello sciabordio di un praho alla fonda, quel cappello a larghe tese indossato da Yanez il portoghese, accompagnano una vita spesso prodiga di sorprese e di im-previsti.

Decine di anni più tardi, quando la televisione aveva centinaia di canali e le librerie si estendevano tentacolari lungo il perimetro di ogni parete della mia casa, ho incon-trato un uomo che mi ha cambiato la vita. Si chiamava Ma-rio Spagnol e, grazie a lui, ho dato sfogo alla mia più sen-tita passione: quella di scrivere. Immaginate il mio stupore

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quando ho scoperto che le collane salgariane di maggiore successo, quelle che, bambino, spostavo dal comodino per far posto al latte antinfl uenzale, erano state curate proprio da Spagnol. Mario era, ben più di quanto non lo sia il sot-toscritto, innamorato di Emilio Salgari. A lui dedico questo racconto perché ha regalato a tutti quelli della mia genera-zione (e di molte altre) il piacere di crescere leggendo il più grande autore d’avventura di ogni tempo. A Emilio Salga-ri chiedo perdono per aver approfi ttato indegnamente di alcuni dei suoi personaggi, ma l’ho fatto solo per meglio salutare la sua indimenticabile statura. Mi auguro di non aver creato troppo sconquasso sulla tolda della sua nave e prometto che uscirò dalle sue storie in punta di piedi, come un ghepardo nella savana...

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LA TRAPPOLA DEL GHEPARDOdi Marco Buticchi

Oceano Indiano, 1848

I piedi ben piantati sulla tolda, lo sguardo all’orizzonte. Le vele del convoglio che avanzava, posate sulla linea incer-ta del confi ne tra mare e cielo, sembravano sbuffi di candide nuvole. Sandokan ripiegò il cannocchiale e sorrise: «Ci fi ni-ranno in bocca, fratellino. Così quel maledetto pagherà col suo oro il male che sta seminando».

«Non ne sarei così certo» ribatté Yanez, ancora concen-trato su particolari invisibili a occhio nudo. «Nascoste die-tro le tre “lepri”, sono spuntate almeno un paio di navi da guerra!»

La Tigre puntò nuovamente lo strumento verso il largo e non riuscì a trattenere un’imprecazione: «Per mille demoni degli abissi! Non è facile distinguerle da questa distanza, ma sembrerebbero dei legni assai veloci; forse dei brigantini».

«Già» ribatté il portoghese, «e, con questa andatura, sono capaci di raggiungerci e di impensierire seriamente la Marianna.»

La Marianna era stata progettata e costruita sotto la di-retta supervisione di Sandokan e di Yanez. Ricalcava le li-nee e l’armamento dei veloci praho. Non era, però, dotata di galleggianti laterali ed era almeno quattro volte più gran-de delle normali imbarcazioni malesi: la sua stazza supera-va infatti le duecento tonnellate. A bordo si trovavano delle

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barriere d’acciaio mobili che, al momento dello scontro, potevano servire come riparo dalle bordate a mitraglia del nemico. Era armata a due alberi, provvista di dieci bocche da fuoco, cinque per ciascuna murata, e quattro colubrine per gli scontri ravvicinati e per proteggere il ponte dagli arrembaggi.

«Quanto pensi che ci vorrà ai due brigantini per rag-giungere le “lepri”, Yanez?»

«Almeno quattro ore, Sandokan. Poco meno di un paio d’ore saranno invece necessarie a noi per piombare addos-so al convoglio. Ciò signifi ca che godiamo di un discreto vantaggio su quei temibili velieri», rispose Yanez.

«E in quanto tempo pensi ci raggiungeranno?»«Ferme restando le attuali condizioni climatiche, diciamo

un paio di giorni. Ma prima o poi saremo costretti a combat-tere. E a soccombere, data la nostra palese inferiorità.»

«E allora venderemo cara la pelle, fratellino. Ma pri-ma di arrivarci voglio dare un sonoro ceffone all’orgoglio dell’inglese... Rotta verso il convoglio, timoniere. Pronti all’arrembaggio, miei tigrotti!»

I pirati risposero con un grido d’incitazione capace di fa re rabbrividire anche il più coraggioso degli uomini. I loro corpi bruniti rifulgevano al sole dell’Oceano Indiano come statue di bronzo di antichi guerrieri. Non avevano paura di morire ed erano pronti a sacrifi care la loro vita se so-lo Sandokan l’avesse ordinato. Sotto la sua guida avevano combattuto battaglie impossibili, avevano conquistato bot-tini leggendari ed erano sfuggiti mille e mille volte alla cat-tura. I tigrotti di Mompracem erano diventati così temuti dall’Oceano Indiano al Mar della Sonda che gli inglesi ave-vano potenziato la fl otta per ridurli all’impotenza. Ma i sud-diti della Corona erano interessati a non divulgare questo genere di notizie: in gioco c’era la credibilità dell’Impero, non solo i traffi ci delle Indie. Per questo motivo le scorri-bande di Sandokan venivano celate sotto un velo di spessa omertà. Il contingente d’oltreoceano aveva lo scopo di ren-dere nuovamente sicure le rotte asiatiche, senza dare troppo

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nell’occhio: non era interesse della potente Inghilterra che un branco di famelici pirati passasse alla storia. Al comando della fl otta gli inglesi avevano prescelto un esperto marina-io, una persona che conosceva quei mari come le sue tasche. Un uomo fedele solo all’odio che nutriva nei confronti della Tigre della Malesia: il rajah di Sarawak, James Brooke.

I risultati della crociata contro la pirateria si vedevano giorno dopo giorno. Per questo motivo Sandokan aveva deciso di spostare il territorio di caccia verso una zona meno battuta dalle navi di Brooke: la Marianna aveva dop-piato lo stretto della Sonda e attraversato l’Oceano India-no, sino a posizionarsi lungo le ricche rotte africane.

Alcuni giorni prima Yanez era sceso a terra nel porto di Zanzibar e qui aveva saputo che un trabaccolo e due bar-cacce avrebbero preso il largo da lì a pochi giorni. Il fatto che il carico fosse segreto era di per sé fonte d’interesse. Ma il vero motivo che aveva spinto le Tigri della Malesia a tendere una trappola alle navi da carico era che queste appartenevano all’odiato Brooke. Ma né Yanez né tanto-meno Sandokan avevano pensato che dritti nella trappola ci sarebbero fi niti loro e la loro nave.

«Eccoli!», esclamò James Brooke cercando di mettere a fuoco il cannocchiale. «Le nostre supposizioni erano esatte, comandante Wilde. Questo era il motivo per cui Sandokan e i suoi parevano scomparsi dalla faccia della terra: avevano semplicemente cambiato la zona di “pascolo”. Prepariamo-ci all’inseguimento. Quei codardi tenteranno di fuggire, ma li prenderemo.»

James Brooke era fi glio di un magistrato inglese coman-dato dalla Corona ad amministrare la giustizia in India. Qui James era nato nel 1803 in un sobborgo della città di Benares. Si era fatto le ossa nella Compagnia delle Indie, dandosi poi al libero commercio e stabilendosi in Borneo. Aveva messo a disposizione del sultano del Brunei le sue indubbie capacità militari durante la rivolta dei dayaki e, quando questi erano stati defi nitivamente sconfi tti, il sul-

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tano aveva fatto omaggio a Brooke del più esteso princi-pato del Borneo e lo aveva nominato rajah di Sarawak. Da quel momento, era il 1838, l’unico scopo della vita di James Brooke era stato quello di debellare la pirateria che fl agel-lava le coste asiatiche. E, nel mezzo della sua infi nita bat-taglia, Brooke aveva ingaggiato un duello all’ultimo sangue col più temuto tra i pirati: Sandokan, la Tigre della Malesia.

«Ma che diavolo stanno facendo quei maledetti?» si chiese Brooke incredulo. «Non si sono dati alla fuga. Ma-novrano anzi come non ci avessero visti e si stanno avven-tando sul convoglio!»

«A me il timone, tigrotto!» la voce di Sandokan si levò forte. «Condurrò io stesso la mia nave all’arrembaggio.»

«Ma dove stai dirigendo, fratellino?» disse Yanez preoc-cupato. «Se prosegui su questa rotta l’ammiraglia del con-voglio ci passerà sotto al naso.»

«E infatti non voglio arrembare il trabaccolo: conoscen-do Brooke il grosso del bottino non sarà a bordo della nave più bella e meglio difesa, ma scommetto che l’inglese lo avrà imbarcato su quella laggiù!» Così dicendo Sandokan indicò la più malconcia tra le due barcacce.

«Ti ricordo che avremo tempo per un solo arrembaggio, prima che i due brigantini ci siano addosso.»

«Come un ghepardo...» sussurrò la Tigre osservando con uno sguardo di fuoco le due navi armate che procede-vano di gran carriera verso di loro.

«Che cosa hai detto, Sandokan?» chiese Yanez.«Come il più veloce tra gli animali, dotato però di un’au-

tonomia assai limitata: fallito il primo tentativo di ghermire la preda, alle energie del felino non è concessa una prova d’appello. Se l’assalto va a vuoto, ci sono buone probabilità che il ghepardo muoia di stenti.»

«Allora, mio Ghepardo della Malesia, preparati a sbri-gare le tue faccende in gran fretta: se, come mi sembra, si tratta della Folgore, Brooke e i suoi ci daranno del gran fi lo da torcere.»

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«Questa nave» stava dicendo in quello stesso istante il comandante del brigantino al rajah del Sarawak, «fi la velo-ce come un predatore.»

«E allora comandante» gli fece eco Brooke, «appendete agli alberi ogni brandello di tela che avete a bordo. Questa volta Sandokan non ci dovrà sfuggire.»

La Folgore era un brigantino dalla linea fi lante e snella, un legno che, dopo una cruenta battaglia, era stato catturato ai corsari della Tortue. Brooke aveva insistito perché fosse riparato e, imbarcatosi lui stesso sulla Folgore, aveva ripreso il mare per cercare di spegnere l’incendio della sua vendetta. E non solo, aveva fatto costruire un altro brigantino del tut-to identico e lo aveva chiamato Rombo di Tuono: conosceva talmente bene i legni dei pirati da apprezzarli più di ogni al-tra nave. Adesso Folgore e Rombo di Tuono avanzavano alla massima andatura. Il vento teso e sostenuto metteva a dura prova le manovre delle navi, armate con due alberi di altezza quasi identica. Quello prodiero era dotato di vele quadre, mentre il trinchetto aveva una vela alla trina. La potenza di fuoco era notevole: dodici temibili carronate si affacciavano minacciose dai sabordi di ogni nave. Si trattava di cannoni di grosso calibro e di ridotte dimensioni, che dovevano il nome alle fonderie scozzesi Carron, dove un’arma di quel tipo fu costruita per la prima volta sul fi nire del 1700.

«Quel diavolo sembra capace di leggermi nel pensiero!», imprecò Brooke. «Ha disdegnato il trabaccolo e l’altra bar-caccia e sta puntando risoluto verso la nave che trasporta il tesoro. Come se quel demonio fosse dotato di poteri so-vrannaturali. Fate in fretta, comandante!»

«Per quanto possa fare in fretta, signore, ci vorranno sempre alcune ore prima di riunirci al convoglio. E quan-do arriveremo noi i pirati se la saranno già data a gambe.»

Sandokan seguiva con un occhio la manovra d’abbor-daggio e con l’altro i due brigantini che si avvicinavano. Aveva ragione il portoghese: dovevano fare in fretta.

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«Pronti all’arrembaggio! Mano alle armi! Fuori i ram-pini!», gridò Sandokan accostando deciso a dritta e ad-dolcendo poi la manovra sino a portare le due murate a contatto. La barcaccia era assai più bassa di bordo della Marianna. I pirati scavalcarono la battagliola e si lanciaro-no sul ponte del mercantile lanciando il loro temibile urlo di guerra. Avevano le armi in pugno ed erano pronti a ri-durre all’impotenza chiunque avesse loro sbarrato il passo.

La messinscena ideata da Brooke era completa: il cari-co d’oro e preziosi che doveva andare ad arricchire il già consistente tesoro del principato del Sarawak era stato chiuso all’interno di uno scrigno che, a sua volta, era sta-to celato dentro una botte da vino collocata nella stiva. A guardia del tesoro, il rajah non aveva voluto una schiera di militari che avrebbero dato nell’occhio, ma solo un pugno di uomini fi datissimi. Uno di questi, il colonnello Drums, era un’antica conoscenza della Tigre della Malesia. Drums era stato un uffi ciale dell’esercito coloniale di Sua Maestà. Seguendo Brooke nella sua “principesca” carriera, aveva mantenuto il grado delle giubbe rosse come fosse un titolo nobiliare. Lui e Sandokan si erano trovati più volte a fac-cia a faccia, senza che nessuno dei due fosse mai riuscito ad aver ragione dell’altro. A differenza di Brooke, che ave-va fatto della perfi dia la sua ragione di vita, Drums era un onorevole combattente.

L’equipaggio della barcaccia era costituito da venti da-yaki che, visto l’impeto dei pirati, non avevano opposto resistenza e si erano arresi senza colpo ferire. Alcuni colpi d’arma da fuoco erano invece risuonati quando gli uomini di Sandokan si erano affacciati al boccaporto della stiva. Ne era seguita una breve sparatoria, ma alla fi ne anche il drappello di tiratori era stato costretto ad arrendersi.

«Fermo Najad!» ordinò perentorio Sandokan a uno dei suoi che stava per passare a fi l di lama uno dei prigionieri.

«Perdonatemi, Tigre, ma questo straniero ha quasi fatto fuori due dei nostri. Pensavo non meritasse di vivere» ri-spose il pirata.

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«Nessuno dei miei ha mai ucciso un nemico inerme e quest’uomo è un valoroso, Najad» disse Sandokan, quin-di si rivolse al prigioniero. «È un vero piacere incontrarvi nuovamente, colonnello Drums.»

«Mi dispiace di non poter manifestare altrettanta gioia, Sandokan» rispose l’inglese.

«Non capisco come mai un combattente del vostro cali-bro non si trovi sulla Folgore a fi anco del suo signore. Que-sta bagnarola mal si addice al vostro grado e al vostro ran-go. O c’è qualche segreto che io non conosco e che invece dovrei sapere?»

L’occhiata fugace dell’uffi ciale alle botti in un angolo della stiva non sfuggì alla Tigre, mentre l’inglese rispon-deva: «Non c’è nulla di inusuale, Sandokan. E se anche vi fosse non ve lo direi mai».

«Mi dispiace, colonnello. Non siete stato suffi ciente-mente accorto e il timore di rivelare il segreto vi ha tradi-to con una semplice occhiata. Presto, uomini, verifi cate il contenuto di quelle botti!» disse Sandokan.

Pochi minuti più tardi il forziere veniva sbarcato sulla Marianna. Il colonnello e i suoi furono rinchiusi nella stiva. Un attimo prima di abbandonare la barcaccia, la Tigre si affacciò al boccaporto e disse: «Vi faccio dono della vita assieme ai vostri uomini, colonnello Drums, anche se sono convinto che il vostro rajah non mi userebbe le stesse pre-mure. Vi sono grato per avermi involontariamente svelato il nascondiglio della cassa blindata».

Il forziere non era troppo grande, una sorta di cubo di legno rinforzato da barre di ferro di meno di mezzo metro per lato. Ma, a giudicare dal peso, doveva essere stato riem-pito sino all’orlo. Venne posato sul tavolo da carteggio, dove Sandokan stava studiando lo scenario delle prossime mosse. Abbandonate le carte, il comandante forzò il grosso lucchetto e lui e il portoghese tuffarono le mani all’interno del contenitore: tra gli ori e le gemme alla rinfusa, un invol-to di cotone rosso attrasse l’attenzione della Tigre. Lo aprì e, al suo interno, si trovava una scultura in oro massiccio

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poco più grande di una spanna che raffi gurava un felino in caccia. Le macchie scure nella pelliccia erano costituite da piccoli diamanti neri, mentre due smeraldi di discreta caratura ne formavano gli occhi. Si trattava un oggetto di rara bellezza e inestimabile valore.

«Sembra una pantera» disse Sandokan, rimirandolo da ogni lato.

«Non credo si tratti di una pantera, guarda le scapole alte, la magrezza, il muso affusolato» gli fece eco Yanez, scarabocchiando qualcosa sul bordo della carta. «Quello è un ghepardo. Un ghepardo che il fato ha voluto donare al... Ghepardo della Malesia.»

«Lo farò a pezzi con le mie mani» stava dicendo Brooke in quell’istante, gli occhi ridotti a fessure colme d’odio. «Lo appenderò scuoiato e agonizzante nella piazza di Ku-ching, in modo che tutti vedano la fi ne della Tigre della Malesia. Cancellerò per sempre il mito di quel maledetto assassino dalla mente dei miei sudditi e di chiunque altro ne divinizzi l’infernale fi gura. Guardate là, comandante. Stanno abbandonando la barcaccia dopo l’abbordaggio. Ho paura che siano riusciti a trovare il forziere: ci hanno messo solo pochi minuti. Quanto impiegheremo per rag-giungerli?»

«Lo sapete voi meglio di me, signore: le distanze in mare sono ingannevoli. Troppe sono le variabili in gioco: forza e direzione del vento, stato del mare e dell’armamento. Un porto che sembra vicino può costare giorni a battere il mare se la nave incappa in una bonaccia...»

«Non è il nostro caso, comandante e non vi ho chiesto un trattato di navigazione» tagliò corto Brooke. «Voglio solo sapere tra quanto saremo loro addosso.»

«Hanno un paio d’ore di vantaggio, signore. Penso che ci vorranno almeno un giorno e una notte prima di riuscire a ingaggiare battaglia.»

«Un giorno... e una notte» ripeté Brooke pensoso. Quin-di osservò il cielo che stava scivolando in una notte tropi-

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cale. «Ci sarà luna piena, questa notte e quell’anguilla non riuscirà a sfuggirci. Raddoppiate le guardie, comandante, anche sulla Rombo di Tuono. Fate in modo che gli uomini tengano gli occhi bene aperti e non perdano di vista la nave di Sandokan. Non vedo l’ora che siano alla portata della nostra artiglieria.»

Oceano Indiano, inverno 2012

L’avvocato Durevoix si stiracchiò pigramente, alzando-si dalla chaise-longue sul balconcino della cabina di pri-ma classe. Il sole si stava tuffando nell’Oceano Indiano e tutt’intorno sembrava che i colori dell’iride si fossero ac-cordati per dare vita allo spettacolo che si ripeteva ogni sera al calar del sole.

Marie Claire, una bella donna poco più che quarantenne, si fece vicino al marito e sospirò. Rimasero in silenzio, ab-bracciati, a contemplare le mille sfumature del cielo tropi-cale al tramonto. A Parigi, si dissero quasi fossero capaci di leggere l’uno nel pensiero dell’altra, faceva un gran freddo.

Il mare era calmo e la Coral Dream, una moderna città galleggiante capace di regalare una crociera indimenticabi-le ai suoi tremila passeggeri, avanzava senza troppi sforzi al largo delle coste del Madagascar.

“Don’t shoot me” faceva parte delle attrazioni di bordo: erano una cinquantina – ballerini, intrattenitori, cantan-ti, musicisti e persino un mago – gli artisti imbarcati che, nell’arco di ogni giorno (e notte) di crociera, davano vita a una serie di eventi capaci di accontentare ogni palato. Don’t shoot me aveva studiato a lungo, diplomandosi al conservatorio di Sarajevo a pieni voti. Dicevano anzi che era un talento del pianoforte. Un vero talento... costretto a suonare sulle navi passeggeri per campare.

In mezzo, tra il conservatorio e la Coral Dream, c’era stata la guerra. Quella maledetta guerra senza senso che

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aveva eretto un muro di pallottole per dividere la sua città. Ma, a posteriori, nessuna guerra ha un senso. E proprio durante un bombardamento si era guadagnato quel so-prannome: mentre tutto tremava e le case venivano squar-ciate dai missili serbi, lui era rimasto incollato al pianoforte a suonare, quasi volesse contrastare con le sue note l’urlo della battaglia. Miloslav, questo il suo vero nome, aveva an-che imbracciato il fucile e, dato che possedeva un’ottima mira, l’avevano spedito sul tetto di un caseggiato a semina-re morte tra gli ignari passanti al di là del ponte.

Il capotecnico Ghezzi conosceva la nave come le sue ta-sche. Non c’era angolo, anfratto o sottoscala nel quale non avesse fi ccato il naso cercando di mettere una pezza alle mille magagne a cui va incontro ogni gigante degli oceani nel corso di una crociera. La differenza tra i mercantili e i passeggeri stava, era solito ripetersi Ghezzi, nella pubblici-tà: sul mercantile puoi dire a chiunque che cosa è capitato. Sulle navi passeggeri devi mantenere una sorta di aplomb per cui nessuno possa capire dalla tua espressione la gra-vità dell’accaduto. Ghezzi non era nato marinaio, ma era “caduto” nell’Oceano, dopo che la moglie lo aveva abban-donato tra le nebbie delle pianure parmensi. A quel punto lui si era ritrovato a prendere il mare per non morire.

Rebecca, ebrea russa, non aveva conosciuto le discrimi-nazioni nei confronti della sua gente da parte dei maledetti burocrati dell’apparato comunista. Ma appena le cose era-no cambiate, i suoi avevano abbandonato la Russia per gli Stati Uniti. Lì Rebecca aveva potuto frequentare una scuo-la di danza. L’imbarco come ballerina di scena sulla Coral Dream era il suo primo impiego.

L’Oceano Indiano rifl etteva placido i colori di quel tra-monto infuocato. La città galleggiante in festa lo solcava, splendente di luci. La notte era scesa velocemente, trasfor-mando i rossi vividi del tramonto in sfumature sempre più

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impenetrabili. La musica, diffusa dai potenti altoparlanti sui ponti esterni, poteva essere ascoltata a miglia di distan-za, nel silenzio assoluto della notte oceanica.

Il Ghepardo si muoveva lentamente, il corpo asseconda-va i movimenti della piccola imbarcazione d’assalto, ora in balìa delle onde a motori spenti. I sensi tesi come un felino pronto all’attacco. La musica gli giungeva distinta, sebbe-ne la Coral Dream si trovasse a oltre sei miglia di distanza. L’avevano soprannominato così per la velocità con cui riu-sciva a ghermire le sue prede, sino a quel giorno mercantili indifesi che incrociavano al largo del Corno d’Africa. Ma lui, al secolo Alì Al Dahari, conosceva i pregi e i difetti del-la velocità del felino: l’attacco consumava talmente tante risorse da non concedere appello. E quella volta la preda non sarebbe stato il solito mercantile disarmato e governato da un pugno di uomini; il Ghepardo aveva cercato di fare il salto di qualità. I riscatti provenienti dalle navi portacon-tainer, dalle petroliere e dalle bananiere non gli bastavano più. La causa della Guerra Santa aveva bisogno di denari. Di molti denari. E gli infedeli erano pronti a pagare miglia-ia e migliaia di dollari per ogni culetto bianco che lui avesse restituito sano e in vita. Era per quello che la nave madre, un peschereccio d’altura solo apparentemente malandato, aveva adagiato in mare sei velocissimi motoscafi fuoribor-do poco prima che la Coral Dream sfi lasse all’orizzonte. Si trattava di imbarcazioni leggerissime, basse sull’acqua per sfuggire ai radar. Su ognuna di queste trovavano posto una decina di uomini. Tutti erano armati con granate, pistole e pugnali. La maggior parte di loro imbracciava una versione leggera del mitragliatore AK47 Kalashnikov.

L’uffi ciale si strofi nò gli occhi distogliendo lo sguardo dallo schermo radar. Nel raggio di una cinquantina di mi-glia dalla Coral Dream, si trovavano solo alcune navi appa-rentemente ferme: doveva trattarsi dei pescherecci d’altura che solitamente battono il ricco tratto di mare tra la costa africana e il Madagascar. Altre navi incrociavano a settanta miglia di distanza. La notte era stellata e il mare calmo. Non

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c’era motivo di preoccupazione, si disse l’uffi ciale sedendo-si nella poltrona riservata al più alto in grado in plancia.

Nelle grandi sale la nave pulsava di vita: c’erano almeno tre feste in corso contemporaneamente con tanto di musica e animazione chiassosa in tre diverse sale. Al ristorante i passeggeri del secondo turno erano quasi a fi ne cena. Poi anche loro si sarebbero uniti agli altri per partecipare alle attività della serata.

Quello era il problema delle moderne navi da crociera, si disse il capotecnico Ghezzi: gestire il fl usso delle persone a bordo di una città galleggiante. I progettisti si doveva-no sbizzarrire per trovare spazi atti a contenere migliaia di passeggeri e, dato che in nessuna nave si poteva trova-re una “piazza” così grande, diventava importante gestire orari e attività per riuscire a frazionare i fl ussi nelle diverse sale e punti di ritrovo.

Nella sala da ballo a metà nave, Don’t shoot me si stava esibendo in un repertorio di piano bar. Un cultore della musica classica come lui non disdegnava nessun genere: tutta la musica era musica.

Nel teatro situato a prua, Rebecca stava truccandosi nei camerini. Tra meno di quindici minuti sarebbe andata in scena e il balletto che avevano provato nei giorni preceden-ti non era semplice.

Gerard Durevoix si alzò, spostò con galanteria la sedia per consentire a sua moglie di abbandonare agevolmente la tavola. La prese sottobraccio e si allontarono dal ristorante.

Solo pochi anni prima quelli come lui sarebbero stati chiamati mercenari. Poi gli americani avevano incomincia-to a chiamarli contractor. Da allora la professione di fare la guerra era diventata sempre più remunerativa. Era sta-to addestrato nei ranghi della Legione Straniera, poi ave-va cambiato diversi “padroni”, sempre imbracciando le armi. Aveva accettato l’imbarco sulla Coral Dream come un’occupazione di routine e poco pericolosa. Fare da ba-lia a qualche migliaio di crocieristi non lo impensieriva: gli

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unici interventi effettuati erano stati rivolti a tranquillizzare crocieristi alticci che minacciavano di attaccare briga con altri passeggeri. Il contractor accese una sigaretta e conti-nuò a passeggiare sul ponte lance. Sebbene fossero molto più a sud rispetto alle rotte battute dai pirati, era sempre bene restare all’erta. L’uomo osservò la brace della sigaret-ta e fece scudo al vento con il dorso della mano. Quando alzò gli occhi aveva quelli del Ghepardo, gialli, liquidi e assassini piantati nei suoi. Il contractor vide la pistola tra le mani del suo carnefi ce. Cercò di ripararsi con le braccia, ma fu inutile. Il revolver emise due sommessi sbuffi dal si-lenziatore. I proiettili trapassarono le mani e andarono a confi ccarsi nel cranio del mercenario. A quel punto i pirati salirono a bordo nel più assoluto silenzio. Avevano studia-to a lungo le planimetrie sui dépliant e sul sito della com-pagnia di armamento. Conoscevano la nave a menadito e ognuno si accinse a portare a termine il compito che gli era stato assegnato.

L’uffi ciale si alzò, si avvicinò allo schermo radar: gli era parso di scorgere un bagliore molto vicino alla nave, ma sicuramente doveva essersi sbagliato. Ancora si strofi nò gli occhi, scambiò una battuta col timoniere e, come era acca-duto poco prima, si trovò di fronte alla morte senza preav-viso. Il Ghepardo e uno dei suoi spostarono in un angolo i corpi privi di vita dell’uffi ciale e del timoniere. Quindi presero possesso della sala comandi.

I passeggeri ebbero l’impressione di trovarsi sul set di un fi lm d’azione. Nessuno riuscì a realizzare immediata-mente il dramma che si andava consumando.

Almeno due uomini armati fecero irruzione in ognuna delle sale gremite. Sparavano all’impazzata contro il sof-fi tto. Le schegge, il fumo e le scintille furono i soli protago-nisti sul palcoscenico della Coral Dream.

Il lungo corridoio interno del ponte di prima classe era intervallato da collegamenti perpendicolari che andavano da un lato all’altro della nave. Non appena Durevoix udì gli spari provenire dalla vicina plancia di comando, spinse

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sua moglie in uno dei corridoi verticali e le tappò la bocca, infi landosi assieme a lei in uno dei ripostigli per la bian-cheria.

«Fai silenzio, Marie Claire. Sta succedendo qualche cosa di terribile.»

Quasi a confermare la sua supposizione, il sistema in-terno di amplifi cazione incominciò a diffondere in ogni ambiente la voce roca di Alì Al Dahari: «Signori e signore vi prego di prestare la massima attenzione a questo comu-nicato» stava dicendo il pirata cimentandosi discretamente con la lingua inglese. «Mi rivolgo a tutti i passeggeri e ai membri dell’equipaggio. Il mio nome è Al Dahari, ma in occidente mi conoscete meglio come il Ghepardo. Vi sa-rete accorti che i miei uomini hanno preso possesso della nave. Da questo momento, signori, voi sarete miei prigio-nieri e, se le mie richieste verranno esaudite dai vostri go-verni, avrete salva la vita. Invito tutti i passeggeri e i mem-bri dell’equipaggio a raggiungere i punti di riunione, dove saranno presi in consegna dai miei uomini. Da questo mo-mento sulla Coral Dream vige la legge marziale: chi non si atterrà agli ordini sarà passato per le armi.»

Dalla porta socchiusa del suo nascondiglio Gerard ri-usciva a vedere un lungo tratto del corridoio principale, quasi sino al passaggio che conduceva al ponte di coman-do. Vide il Ghepardo uscire dalla plancia e incamminarsi lungo il corridoio. Uno dei suoi gli proteggeva le spalle con l’arma spianata.

In quel momento Marie Claire disse qualcosa. Gerard le premette nuovamente la mano sulla bocca. Doveva solo sperare che il pirata non avesse sentito. Il Ghepardo passò oltre lungo il corridoio, ma Durevoix non fece in tempo a tirare un sospiro di sollievo. Lo sguardo malvagio di Al Dahari fece capolino dallo spigolo. Il pirata fece cenno al suo scherano di tacere e aguzzò l’udito.

L’avvocato parigino ne valutò le potenzialità. Se non fos-se stato armato sino ai denti e protetto da decine di uomini, avrebbe potuto averne ragione senza diffi coltà. Il Ghepar-

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do aveva un fi sico esile, braccia lunghe che scendevano lungo i fi anchi. Era alto e magro. Gli occhi scuri, scavati. Poteva avere poco meno di trent’anni e faceva il terrorista e il pirata. Durevoix di anni ne aveva cinquanta e faceva l’av-vocato penalista. È vero che frequentava ormai da diversi anni una palestra di savate, la temibile arte marziale fran-cese. Ma che cosa avrebbero potuto le sue tecniche contro due uomini armati di mitra e pronti a usarlo?

Il Ghepardo camminava lungo il corridoio di collega-mento quasi in punta di piedi. Certo non immaginava che Gerard stesse osservando ogni sua mossa. La porta del ri-postiglio socchiusa attirò attenzione del somalo. Un ghigno si aprì sul suo volto, mentre metteva mano alla maniglia. L’aprì.

Marie Claire giaceva rannicchiata a terra, le braccia a co-prire il volto. Questa fu l’ultima immagine che il Ghepardo vide, prima di ricevere un colpo alle reni che lo fece barcol-lare. Al Dahari cercò di riprendere la posizione eretta per fronteggiare la minaccia, ma Durevoix fu più lesto di lui e lo colpì con la fronte in pieno viso. Il pirata portò le mani al volto e barcollò all’indietro. Prima di stramazzare a ter-ra, compì un paio di passi a ritroso nel corridoio. Gerard e Marie Claire sgusciarono via nell’istante in cui il corpo di Al Dahari si frapponeva tra loro e la linea di tiro, impe-dendo al secondo pirata di sparare. L’uomo scavalcò il suo capo a terra, ma fece solo pochi passi: sarebbero riusciti a catturare quei due prima o poi. Adesso la cosa più impor-tante da fare era costatare lo stato di salute del Ghepardo.

Ghezzi ascoltò il comunicato e la prima reazione fu quella di risalire sino al ponte di comando e vedere che cosa fosse accaduto. Poi cercò di calmarsi e ragionare: rag-giungere i locali della nave frequentati dai passeggeri si-gnifi cava consegnarsi ai pirati. Lui conosceva tutti i segreti della Coral Dream e avrebbe potuto dare fi lo da torcere ai misteriosi assalitori.

Miloslav era chino sul pianoforte a mezzacoda. Alzò gli

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occhi proprio nell’istante in cui i due pirati somali faceva-no irruzione. Continuò a suonare senza mai distogliere lo sguardo. Il giovane di colore – poteva avere forse vent’an-ni – era in piedi in mezzo alla sala. Teneva un SVD Dragunov puntato verso il soffi tto. Il fucile mitragliatore, dotato di canna lunga e cannocchiale di precisione, sembrava troppo pesante per le braccia del ragazzo. Le raffi che echeggiaro-no nella sala da ballo. Molti tra i passeggeri si gettarono a terra, altri cercarono riparo tra tavoli e seggiole. Quando l’impianto di amplifi cazione diffuse il comunicato di Al Dahari, nella sala regnava ancora il panico. Miloslav Don’t shoot me aveva abbandonato il pianoforte e, protetto dalla confusione, si era dileguato nel ventre della nave.

I somali agivano con sincronia cronometrica. Tre pirati fecero irruzione nel teatro gremito, mentre Rebecca si tro-vava ancora dietro alle quinte, pronta per entrare in scena. Accanto a lei una collega. Quando i primi colpi risuonaro-no nella sala, la ballerina che le era accanto perse la testa e prese a correre sul palcoscenico. La vide avvitarsi e acca-sciarsi a terra colpita al ventre. Fu solo il terrore a spingere Rebecca a fuggire in senso opposto, verso il passaggio che portava ai locali riservati al personale.

Nel ventre della nave correvano scale antincendio e ascensori di servizio che conducevano dal più alto al pon-te più basso. Ghezzi stava immobile davanti alla porta dell’ascensore. Stringeva una sbarra di acciaio in mano ed era pronto a vender cara la pelle. Quando le porte si apri-rono il tecnico ebbe un provvidenziale attimo d’esitazione, che gli impedì di menare la spranga: quelli che occupavano la cabina dell’ascensore non sembravano dei pirati.

Durevoix e sua moglie Marie Claire avevano incontrato il pianista e la giovane ballerina lungo il percorso e insieme avevano deciso di tentare la sorte e sfuggire alla cattura. Restarono attoniti a guardare il capotecnico fermo davanti alla porta dell’ascensore.

«Presto, per di là!» disse Ghezzi indicando ai quattro un corridoio. «Tra poco faranno un nuovo giro di perqui-

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sizione. Ma conosco anfratti in cui nessun pirata si sogne-rebbe di venirci a cercare.»

«Per quanto tempo ho perso i sensi?» chiese il Ghepar-do aprendo gli occhi.

«Qualche minuto, comandante» gli rispose l’uomo cer-cando di detergerlo dall’acqua fredda con cui aveva cercato di farlo rinvenire. La testata che Al Dahari aveva ricevuto in pieno volto gli aveva cambiato i connotati: il setto nasale si era frantumato e il naso era adagiato inerte, privo del sostegno osseo. Il Ghepardo si guardò intorno con occhi spiritati e pieni d’odio. «Dobbiamo trovare quella puttana e l’infedele che era con lei. È stato lui a ridurmi così. E quando li avremo presi moriranno con tutti gli onori dei bastardi. Torniamo in plancia: è tempo che il mondo intero impari a conoscerci.»

Pochi minuti più tardi Al Dahari e i suoi pirati erano in capo alle scalette di ogni telegiornale del globo terrestre: quattromila persone, tra passeggeri e uomini dell’equipag-gio, tenuti in ostaggio su una cattedrale del mare in mez-zo all’Oceano Indiano avrebbero comunque fatto notizia. Corredata poi da una richiesta di riscatto di un miliardo di dollari in lingotti d’oro, la notizia si poteva trasformare in un ordigno atomico pronto a esplodere.

Oceano Indiano, 1848

La Tigre della Malesia sembrava annusare l’aria, valu-tando intensità e direzione del vento. Sino a quel momento le sue capacità marinare avevano consentito alla Marianna di tenere gli inseguitori a bada. Brooke e i suoi briganti-ni restavano a una decina di miglia di distanza. E andava avanti così da tre giorni e tre notti.

«Quel diavolo riguadagna lunghezze ogni volta che riu-sciamo a farci sotto. Deve essere davvero protetto dagli dèi degli inferi!» disse il comandante Wilde.

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«Non si tratta di demoni, comandante» disse Brooke adirato, «Sandokan conosce il vento e il mare come pochi altri: ci sta tenendo in scacco, sebbene i nostri brigantini siano più veloci del suo praho. Ma prima o poi ci verrà a tiro. Che cosa stanno facendo? Perché puntano verso terra?» adesso Brooke pareva preoccupato: conosceva tal-mente bene il suo nemico per sapere che qualsiasi manovra inaspettata nascondeva una trappola.

La costa del Madagascar si distendeva verde e rigoglio-sa a poca distanza dalla Marianna, separata dall’acqua az-zurra da una striscia di sabbia bianca e immacolata. Poco distante, un arcipelago di isole selvagge separava la costa malgascia dal mare aperto. Brooke ripiegò il cannocchiale e sentenziò. «Accerchiamo l’isola: li prenderemo prima che raggiungano il mare aperto.»

Anche Sandokan abbandonò il cannocchiale, un sorri-so soddisfatto dipinto sul volto: «Due amici per la pelle si conoscono molto meno di quanto non si conoscano due nemici. Sapevo che Brooke non ci avrebbe seguito tra le isole, così come ero convinto che i brigantini si sarebbero separati per aggirare Nosy Be.»

«Comandante Wilde» disse Brooke, «segnalate all’equi-paggio della Rombo di Tuono di costeggiare l’isola e rima-nere nascosti e pronti ad attaccare qualora la Marianna la circumnavigasse. Noi resteremo invece qui ad aspettare i pirati se decidessero di tornare indietro. In questo modo presidieremo entrambe le vie di fuga: a meno che Sandokan e i suoi non siano capaci di volare, non potranno sfuggirci.»

Le ombre della sera si andavano allungando sul mare. La Rombo di Tuono abbandonò la nave gemella per andarsi ad appostare dal lato opposto dell’isola.

La notte era trascorsa senza nessuna sorpresa. Il sole era già alto e il vento si era fatto meno intenso. La Rombo di Tuono era in panne, con la prora al vento e le vele fl o-sce, nascosta in una baia appena a ridosso di Nosy Sakatia, un’isoletta – poco più che uno scoglio – nella parte nord-occidentale dell’isola maggiore.

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Quando la scialuppa invelata doppiò lo spuntone pro-teso verso il mare, il comandante del brigantino non ebbe il tempo suffi ciente per manovrare e disporre la sua nave in favore di tiro. Sandokan timonava la scialuppa con mano ferma. Una spessa lastra di acciaio proteggeva la Tigre della Malesia e il carico della lancia dalle raffi che di proiettili. E infatti il comandante del brigantino, non potendo cancellare la minaccia con una salva dei suoi po-tenti cannoni, ordinò ai suoi di mettere mano a pistole e moschetti. Ma la lastra d’acciaio sembrava impenetrabile e i colpi rimbalzavano tra i lampi di mille scintille. Quan-do le vele della Rombo di Tuono presero fi nalmente vento e la nave si mosse lentamente, era ormai troppo tardi: la scialuppa era sottobordo. La Tigre della Malesia si era in-vece gettata in mare qualche istante prima e adesso, nuo-tando per quanto poteva sotto il pelo dell’acqua, cercava di allontanarsi.

Il comandante del brigantino ebbe solo il tempo di ac-corgersi che la lastra d’acciaio celava una ventina di barili di polvere innescati da una miccia a lenta combustione.

Il boato fu terribile: la scialuppa saltò in aria squarcian-do il fi anco del brigantino. Poco istanti più tardi una secon-da esplosione, ancor più violenta, distrusse ciò che restava della Rombo di Tuono e del suo equipaggio: la santabarbara della nave era saltata in aria.

Brooke si trovava a non più di quindici miglia di distan-za quando i due scoppi fecero tremare l’aria e gettarono sul rajah la consapevolezza del disastro.

«Presto, comandante Wilde, raggiungiamo la parte op-posta dell’isola. Ho il presentimento che sia accaduto qual-che cosa di molto grave.»

«Benvenuto a bordo, fratellino!» disse Yanez mentre Sandokan risaliva da una biscaglina che pendeva dalla mu-rata della Marianna. «Ti invidio: così fradicio non sentirai quasi il caldo che fa. A proposito di temperature: hai con-tribuito ben bene a riscaldare l’ambiente.»

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«Il bello deve ancora venire: sono certo che Brooke cor-rerà in soccorso dei suoi. Prepariamoci a fronteggiarlo.»

Fu la Folgore ad aprire per prima il fuoco, quando le due navi, alcune ore più tardi, incrociarono al largo della spiaggia di Andilana. Tutte e cinque le palle fi nirono fuori tiro, accompagnate dall’urlo di scherno dei pirati a bordo della Marianna.

«Non gioite, miei tigrotti!» disse Sandokan. «Questo è ciò che il nostro nemico vuole: che perdiate concentrazio-ne e lo sottovalutiate. Quella salva serviva a Brooke per aggiustare il tiro. Non vi illudete...»

In quel preciso istante un proiettile esplose con un fra-gore assordante sul lato di tribordo ammazzando sul colpo due uomini di Sandokan.

«Mano ai pezzi di dritta!» gridò la Tigre. «Facciamogli vedere con chi hanno a che fare. Fuoco!»

Il praho sembrò scosso da un terremoto. Il fumo impedì per alcuni istanti di valutare l’effetto della bordata. Poi i tigrotti proruppero in un grido di giubilo: anche la Folgore era stata colpita nello scafo da un paio di proiettili.

Le due navi a quel punto iniziarono un balletto di morte, fatto di fughe repentine, inseguimenti, manovre al limite e, ogni volta che entravano l’una nell’angolo di tiro dell’altra, erano i cannoni a far sentire le loro voci. Fu durante una di queste schermaglie che Sandokan ordinò di caricare alcuni pezzi con palle incatenate.

«Mirate agli alberi, artiglieri. Se riusciamo a fermarli ab-biamo buone probabilità di portare a casa la pelle. Fuoco!»

I proietti vorticarono nell’aria con un sibilo, pochi istan-ti più tardi l’albero di maestra della Folgore precipitò sul ponte in un groviglio di vele, drizze e sartie. Il brigantino rimase, ferito, al centro della baia di Befotaka, mentre la nave di Sandokan prese a girargli attorno.

Prima di soccombere sotto la salva decisiva, Brooke ebbe un sussulto e la sua voce tonante ebbe il potere di smorzare il panico che stava dilagando a bordo: «Mi seguirai all’infer-

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no, Sandokan! Che nessuno abbandoni la nave. Uomini ai pezzi. Fuoco!» gridò il rajah del Sarawak, lo sguardo col-mo d’odio.

Le due navi fecero fuoco all’unisono e il fragore delle bordate si perse nell’immensità dell’Oceano.

Pochi minuti più tardi tutto sembrava fi nito. Alcuni naufraghi, aggrappati ai relitti della Folgore, stavano cer-cando di riguadagnare la costa. La Marianna, pesantemen-te inclinata sulla dritta, si stava allontanando.

«La terraferma è vicina, i nemici che sono sopravvissuti riusciranno agevolmente a raggiungerla» disse Sandokan rivolto al portoghese. «A preoccuparmi ora è la nostra nave. Non so quanto tempo ci vorrà prima che affondi: ho paura che l’ultima bordata del brigantino sia stata fatale per la Marianna.»

Qualche tempo più tardi la nave arrancava a fatica, le stive completamente sommerse.

«Le pompe sono ormai inutili, Sandokan» disse uno dei suoi risalendo dal ventre del praho. «La Marianna sta af-fondando.»

«Ci areneremo su quella spiaggia» disse la Tigre indi-cando un isolotto poco distante. «Una volta appoggiata la chiglia alla sabbia valuteremo la possibilità di riparare la falla» quindi si rivolse al portoghese: «Penso sia meglio mettere al sicuro il bottino: sono convinto che Brooke sia sopravvissuto all’affondamento della Folgore. E presto o tardi ci verrà a cercare».

«Quell’inglese ha sette vite come i gatti» aggiunse Ya-nez. «Peccato si sia imbattuto in una tigre.»

«Non mi avevi chiamato ghepardo appena poco tempo fa, fratellino?»

Oceano Indiano, inverno 2012

Tra le due pareti d’acciaio c’era lo spazio suffi ciente perché riuscissero a scivolarci dentro vincendo il senso di

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naturale claustrofobia. I cinque fuggitivi si erano infi lati nell’intercapedine buia tra uno dei serbatoi di combustibi-le e la doppia parete di sicurezza. Gli uomini del Ghepardo stavano battendo la Coral Dream in lungo e in largo per scovarli. Era solo grazie al capotecnico se erano riusciti, sino a quel momento, a sfuggire alla cattura.

«Dobbiamo abbandonare la nave» disse Ghezzi quando uscirono dal nascondiglio. «Ma, prima di farlo, dobbiamo immobilizzare la Coral Dream: se i pirati riuscissero a rag-giungere una delle loro basi lungo la costa, diventerebbe impossibile per chiunque liberare gli ostaggi.»

«Entrambe le opzioni proposte, nostro comandante» disse Durevoix con tono scherzoso, «sono impercorribili.»

«Il fatto che abbiamo ancora suffi ciente spirito per scher-zare» ribatté Ghezzi, «mi fa invece capire che non ci siamo ancora dati per vinti. Conosco questa nave come nessun al-tro. A bordo ogni cosa viene comandata da computer e la tecnologia è, per defi nizione, vulnerabile... silenzio! Si sta avvicinando qualcuno.»

Nel locale entrò lo stesso ragazzo che aveva fatto irruzio-ne nella sala da ballo. Quando il pirata si accorse di loro era ormai troppo tardi: Miloslav gli era balzato addosso e l’av-vocato parigino lo stava riempiendo di pugni. Ridotto all’im-potenza e malconcio, il somalo venne legato e imbavagliato.

«E adesso» disse Ghezzi, «vediamo di riuscire a tagliare la corda. Chi di noi ha dimestichezza con questo?» aggiun-se poi il tecnico di bordo indicando il mitragliatore.

«Si tratta di un SDV Dragunov calibro 7,62. Un’arma rus-sa molto precisa e abbastanza leggera. Durante la guerra ne avevo uno in dotazione» disse Don’t shoot me.

«Allora tu sarai il nostro braccio armato, Miloslav» disse Durevoix.

Il gruppetto di fuggitivi raggiunse guardingo uno dei portelli laterali che venivano utilizzati per imbarcare i pas-seggeri sulle lance. I pirati, dopo aver fatto irruzione, l’ave-vano alato per consentire agli altri di arrembare con facilità e così era rimasto, con alcuni motoscafi legati e trascinati

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dalla nave nel suo lento movimento. Un pirata armato di Kalashnikov sorvegliava l’imbarcadero.

«Nascondetevi all’interno dell’ospedale» disse Ghezzi agli altri. «Io devo risolvere una questione» così dicendo estrasse dalla tasca una chiavetta USB e, senza dire altro, si avviò verso l’ingresso della sala macchine che si trovava poco distante dall’ospedale.

Il computer che controllava l’intero sistema Diesel-elet-trico della Coral Dream si trovava all’interno della sala con-trollo, dietro uno spesso vetro che isolava l’ambiente dai quattro giganteschi propulsori diesel. Ghezzi attese che i due terroristi sparissero alla vista e sgattaiolò nella stanza. Qui giunto inserì la chiavetta elettronica in una presa late-rale, impartì al computer alcune precise istruzioni e quindi cercò di riguadagnare l’uscita. Uno dei pirati sbucò dal re-tro del motore e, vedendolo, gridò qualcosa nella sua lin-gua. Poi puntò l’arma ed esplose alcuni colpi in direzione dell’ombra che stava fuggendo.

A poca distanza dall’imbarcadero, Miloslav teneva d’oc-chio la sentinella che presidiava l’unico accesso. Non ebbe esitazione quando udì gli spari: imbracciò il fucile, prese la mira ed esplose un sol colpo, uccidendo all’istante l’uomo.

«Presto» disse il pianista ai suoi, «imbarcatevi su quel motoscafo. Prenderemo il largo non appena Ghezzi ci avrà raggiunto. Lei, avvocato, prenda il mitragliatore della sen-tinella: ci tornerà sicuramente utile.»

Mentre correva verso la salvezza, Marie Claire inciam-pò. Fu forse perché impegnato a raccogliere l’arma che suo marito si rese conto che lei non era riuscita e seguirli quan-do Ghezzi era già saltato a bordo e l’imbarcazione si era allontanata. Ormai era troppo tardi: un manipolo di pirati erano sull’imbarcadero e stavano sparando all’impazzata, per fortuna con scarsi risultati. Al contrario Miloslav, con grande precisione, li teneva sotto scacco e copriva le spalle dei suoi durante la fuga.

Erano lontani quando videro due somali prendere sotto le braccia Marie Claire che zoppicava vistosamente.

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«Le prometto che ritorneremo a liberarla. La nave è in-governabile: ho manomesso il sistema che controlla i pro-pulsori elettrici e cambiato la password del computer che li comanda. La Coral Dream è solo in grado di girare su se stessa.» Le parole di Ghezzi non riuscirono a sollevare Durevoix dal dolore e dai rimorsi.

Il Ghepardo si trovava in plancia. Al suo fi anco il coman-dante stava comunicando attraverso un telefono: «È così, signor presidente. Tutti i passeggeri e i membri dell’equi-paggio sono tenuti sotto tiro. E i pirati dicono che...».

«...Adesso parlo io» disse Al Dahari strappandogli la cor-netta di mano. «Diciamo, signor presidente, che se non ci consegnerete un miliardo di dollari in lingotti d’oro accop-peremo un culetto bianco ogni ora. Chiudo la conversazione certo che abbiate compreso la gravità del momento.»

Interrotta la comunicazione, il Ghepardo si rivolse al co-mandante: «Spero che il presidente degli Stati Uniti abbia capito che non abbiamo tempo da perdere e non stiamo scherzando. Adesso diriga per rotta quattro gradi: dobbia-mo toglierci da qui e arrivare a “casa” prima che tutti i corpi speciali del mondo si gettino alla nostra ricerca.»

«Non risponde!» disse il comandante mostrando il pic-colo timone elettronico che girava a vuoto. «Sembra che le eliche direzionali siano bloccate!»

«La maggior parte di questi colossi del mare sono mossi da un sistema diesel-elettrico» stava dicendo Ghezzi ai suoi compagni di avventura, mentre il motoscafo dirigeva ver-so un isolotto circondato da sabbia bianca. «A differenza della propulsione classica, il sistema evita i disagi causa-ti dall’asse d’elica e garantisce notevoli vantaggi. I motori diesel fungono da generatori e producono energia elettrica, sia per illuminare la città galleggiante, sia per alimentare i tre gruppi propulsivi composti da eliche collegate a moto-ri elettrici subacquei. I gruppi fungono da timoni e sono in grado di ruotare su se stessi facilitando le manovre. Ho manomesso i comandi e le tre eliche non possono muoversi

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dalla posizione in cui si trovano. La nave è condannata, al-meno sino a che io non cambierò la password, a compiere una continua virata a dritta di trenta gradi.»

«Non accetta la mia password e neppure quella degli altri uffi ciali» disse il comandante scuotendo il capo. Gli occhi irrorati di sangue del Ghepardo lo osservavano con disprezzo.

«Lei mi sta prendendo in giro, comandante» gridò il pi-rata alzando la pistola con mano ferma.

Marie Claire, dopo la cattura, era stata condotta sulla plancia e stava aspettando che il Ghepardo si “occupasse” anche di lei. Gridò quando si accorse che il pirata, infi lata a forza la canna nella bocca del comandante, stava per fare fuoco: «Fermo, Al Dahari! Il comandante dice la verità. Una delle persone che sono fuggite era un tecnico di bor-do: è lui che ha manomesso i comandi».

«Adesso mi devo far raccontare» il Ghepardo aveva lo sguardo carico d’odio «quel che succede sulla “mia” nave da una puttana infedele! Non so se quanto dici corrisponda a verità, ma in ogni caso il comandante non mi serve più.» Il Ghepardo sorrise alla telecamera impugnata da uno dei suoi che stava riprendendo la scena. Tirò il grilletto e la te-sta del comandante esplose come una zucca matura.

«Manda il cortometraggio al presidente americano, Mo-hammed. Così il mondo intero capirà che non è più tempo per giocare.»

Oceano Indiano, 1848

«Hai placato la tua ispirazione pittorica?», disse Sando-kan sorridendo.

Yanez stringeva un pennello tra le dita sporche di vernice. Sulla roccia di fronte a lui il muso di un felino dipinto di fre-sco. Il portoghese lo contemplò reclinando la testa di lato. La torcia sorretta da Sandokan illuminava l’interno della grotta.

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«Mi sembra che sia venuto bene, non trovi fratellino?» «Hai un avvenire davanti a te, Yanez!», esclamò Sando-

kan. «L’importante è che riusciamo a ritrovare il nascondi-glio del forziere, se torneremo su quest’isola.»

«Non sarà diffi cile, Tigre: tutte le orme di ghepardo che ho mirabilmente dipinto conducono al forziere. Non potremo sbagliarci. Ho solo un rammarico: quello di aver speso la mia vita ad arrembare navi, mentre avrei potuto passare alla storia come un pittore eccelso...»

«Tralascio i dubbi che nutro sulle tue capacità pittori-che, Yanez. Il mio scetticismo deriva dalla tua impossibilità a condurre un’esistenza sedentaria. Non sei capace di te-nerti lontano dall’azzardo, amico mio.»

«In questo devo darti ragione, Sandokan. Allora conti-nuerò a rischiare la pelle al tuo fi anco con la speranza di passare alla storia.»

«Anche questo sarà diffi cile: sulle nostre imprese Brooke ha imposto un velo di silenzio. Ai superstiti degli arrem-baggi è fatto divieto di raccontare l’accaduto, pena un’ac-cusa di alto tradimento. Quando proprio non possono far-ne a meno, le autorità parlano di generici “pirati”, al più di “pirati malesi”. E i giornali sono pronti a raccogliere con enfasi le false notizie ricevute. Nessuno si ferma mai a in-dagare o fa menzione della giusta guerra che ci oppone al perfi do Brooke. Credo che la storia non conserverà traccia del nostro passaggio. Non ci regalerà neppure la medaglia di terribili assassini. Insomma, se ti preme marchiare il cor-so del tempo, cerca un altro modo, fratellino...»

«Mah, Sandokan. Gente come noi, che accetta una vita rischiosa quanto imprevedibile, che valore vuoi che at-tribuisca alla storia? Sono però convinto che da qualche parte prima o poi qualcuno si ricorderà di noi, magari ammantando le nostre imprese col sapore dolce della leg-genda...»

«Magari, fratellino. Ma adesso andiamo alla spiaggia: le falle sono state riparate e la Marianna può riprendere il mare. Ti senti pronto per una nuova avventura?»

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«Anche in capo al mondo, al fi anco del Ghepardo della Malesia!» disse Yanez rimirando per un’ultima volta i suoi disegni.

Oceano Indiano, inverno 2012

I soli esseri umani che l’isola di Nosy Tanikely era abi-tuata a ricevere erano i turisti che, con cadenza settimana-le, erano accompagnati nella visita dalle guardie del parco naturale. Tutti gli altri giorni l’isolotto restava deserto, di esclusiva proprietà di lemuri, pipistrelli giganti e dell’infi -nità di creature marine che popolavano l’acqua cristallina.

«Abbiamo carburante suffi ciente solo per ritornare alla nave. Ma nulla di più» disse Ghezzi valutando il livello dei serbatoi, dopo che avevano trascinato in secca il motosca-fo. «Cerchiamo qualche cosa da mangiare e intanto ragio-neremo sul da farsi.»

Fu proprio mentre si addentravano nella foresta che Rebecca notò le orme dipinte sull’ingresso di una grotta: «Guarda, Miloslav. Sembra che qualcuno si sia divertito a disegnare delle orme di felino sulla parete... quelle di una lince... o di un ghepardo. E ce ne sono altre» proseguì la giovane addentrandosi nell’antro oscuro, «...e altre ancora. Pare che le orme indichino un percorso. Vieni, Miloslav, tienimi la torcia e dammi una mano. Proviamo a scavare sotto la roccia sulla quale il misterioso pittore ha disegna-to una testa di ghepardo. Sembra che il resto del corpo dell’animale si perda nel terreno sottostante.»

Ghezzi e l’avvocato li aspettavano sulla spiaggia. Il tec-nico stava cercando di confortare Durevoix che appariva distrutto dal rimorso di aver abbandonato Marie Claire nelle mani dei pirati.

«Lei e io torneremo a prenderla, gliel’ho promesso, Du-revoix. Cerchi di reagire, non poteva fare altrimenti. Alme-no ci è rimasta una possibilità, seppur remota, di strappare sua moglie dalle grinfi e dei pirati.»

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«Guardate che cosa abbiamo trovato seguendo delle trac-ce disegnate sulle pareti di una grotta!» disse Miloslav indi-cando il forziere che aveva caricato su una barella di fortuna e che adesso si stava trascinando dietro.

«Avete già visto che cosa contiene?» chiese Ghezzi in-curiosito.

«Non ancora. Dobbiamo far saltare la serratura. Qua-lunque cosa ci sia dentro, la divideremo in parti uguali tra di noi. Spero solo che il contenuto dell’antico forziere ripa-ghi la nostra brutta avventura» ribatté Miloslav.

«Conosco solo un modo per uscire da questo incubo» disse Durevoix: «Riabbracciare mia moglie».

Da lì a poco il forziere fu aperto: era pieno di gioielli, oro e gemme di rara bellezza. Si trattava di una vera e pro-pria fortuna.

«Siamo ricchi. Anzi, siamo ricchissimi!» esclamò felice Miloslav, anche se la preoccupazione per la bella signora francese gravava su tutti.

Era notte fonda quando Durevoix si avvicinò all’imbar-cazione dopo aver posto alcuni tronchi sulla spiaggia per facilitare l’alaggio. Non appena incominciò a spingere il motoscafo verso l’acqua, una voce si levò dall’oscurità.

«Me l’aspettavo, avvocato!» disse Ghezzi. «Sapevo che avrebbe provato a trascinarlo in mare.»

«Il peso del destino di mia moglie grava solo su di me. Mi lasci andare.»

«Non è vero, Durevoix. Lei e io abbiamo un patto e il sottoscritto non è mai venuto meno alla parola data. L’aiu-to a mettere in mare il motoscafo e sarò con lei come le ho promesso.»

«Aspettate un secondo» disse la voce di Miloslav. «Da-teci il tempo di sotterrare nuovamente lo scrigno dove lo abbiamo trovato: Rebecca e io ne abbiamo appena parlato e ci sembra giusto essere al vostro fi anco.»

«Ma il tesoro...» disse Durevoix.«Ha resistito per anni nel suo nascondiglio. Non credo

che qualche giorno ancora possa nuocergli» disse Rebecca.

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Poco più tardi il motoscafo solcava veloce il mare scuro della notte.

«Vede, mia bella signora, come mi ha ridotto suo mari-to?» stava dicendo il Ghepardo indicando a Marie Claire il naso gonfi o a dismisura.

«Devo dire, signore, che dovreste accanirvi con la natu-ra poco generosa e non contro mio marito» disse la donna sfoderando tutto il suo coraggio. «So che non mi sarà con-cesso di vivere a lungo. Vi chiedo di uccidermi adesso.»

«Sarebbe troppo facile. Mi riprenderò con gli interessi il dolore che sto provando. Morirete, questo è certo. Ma lo fa-rete maledicendo il momento in cui siete venuta al mondo.»

«È rimasto un solo modo per salire a bordo e mi auguro che non abbiano provveduto a serrare le chiusure stagne di quell’accesso. Dopo che siamo fuggiti i pirati hanno ritratto il portello» disse Ghezzi osservando la sagoma della Coral Dream in lontananza. «Rimane solo l’accesso del pilota.»

«Accesso del pilota?» chiese Durevoix.«Ogni nave ha, poco sopra la linea di galleggiamento, un

portello attraverso il quale imbarca il pilota prima dell’or-meggio o lo sbarca sulla pilotina appena in mare aperto. Anche la Coral Dream ne possiede uno e non credo che i pirati si siano preoccupati di verifi care la chiusura stagna. Se così fosse esiste un meccanismo che consente di aprire la porta anche dall’esterno in caso di emergenza. Tra poco avremo modo di verifi carlo.»

La Coral Dream dondolava pigramente all’ancora. Dopo diversi tentativi di far funzionare i propulsori direzionali, anche la crudele testardaggine del Ghepardo si era arresa all’evidenza: la nave non era governabile. Questo esponeva il commando terrorista a una serie di rischi che non si sa-rebbero presentati se fossero stati in grado di raggiungere la loro base.

«Poco male» aveva detto Al Dahari rivolto ai suoi. «Se qualcuno cercherà di attaccarci ci difenderemo e, sino al

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momento in cui avremo un così gran numero di “merce di scambio”, nessuna testa di cuoio si azzarderà a tentare una sortita.»

Gli scalini, dei semplici tubi piegati a “U” e saldati alla murata, conducevano sino al portello per i piloti. Ghezzi pigiò su uno scomparto a scomparsa a fi anco dell’apertura e attivò il meccanismo manuale d’emergenza.

Avevano remato per miglia per affi ancare il motoscafo alla nave senza dare nell’occhio. La notte era scura e i ra-dar non potevano individuare un’imbarcazione così pic-cola. Le due sentinelle che presidiavano il ponte più alto rivolgevano la loro attenzione alle grandi vetrate illuminate del salone, all’interno del quale si trovavano centinaia di passeggeri stremati e impauriti.

«Salite uno alla volta!» sussurrò Ghezzi, dopo avere aperto la porta.

Giunti all’interno, i quattro si accorsero che le sole zone illuminate erano quelle dove si trovavano gli ostaggi. Al-trove regnava l’oscurità per dissuadere eventuali fuggiaschi dal tentare nuove sorprese. Ghezzi si avvicinò a tentoni a un armadietto d’emergenza ed estrasse una torcia elettrica: «Con questa riusciremo a salire ai ponti superiori senza in-ciampare nel primo ostacolo».

«Gli ostacoli veri verranno più avanti» fece eco Milo-slav. «Quando, con due fucili mitragliatori in quattro, cer-cheremo di farla in barba ad alcune decine di pirati armati sino ai denti.»

«Non voglio essere disturbato per nessun motivo!» disse Al Dahari al suo scherano mentre richiudeva la porta della suite più lussuosa della nave, la bocca atteggiata a un si-nistro sorriso. Mostrando quella stessa inquietante espres-sione si rivolse alla donna. «Adesso siamo fi nalmente soli, signora Durevoix ed è giunto il momento di incominciare a fare i conti.» Così dicendo il ghepardo allentò la cintura dei pantaloni in tessuto mimetico.

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Marie Claire lo guardò con odio. «State lontano, ma-ledetto!» gridò protendendo le mani come un rapace gli artigli.

«Grida, grida pure, puttana. Tanto nessuno verrà mai a salvarti» le braccia scarne del pirata erano dotate di una for-za insospettabile e le sue mani di una presa ferrea. Ghermì la donna alla vita, lei si divincolò e allora lui la strinse per i polsi, quindi la colpì al volto con un manrovescio.

«Grida! Più lo fai e più mi piace!» disse ancora il Ghe-pardo, il volto trasfi gurato dalla sua perversa follia. La sua mano si mosse rapida, afferrò un lembo del vestito da sera che la donna ancora indossava e lo strappò. I seni di Marie Claire sobbalzarono nudi. Istintivamente la donna fece per coprirsi e il pirata le fu sopra, il suo alito sul volto di lei, le sue mani che si insinuavano ovunque. Marie Claire tentò un’ultima disperata difesa, poi si accorse atterrita che stava per cedere.

«Così... Brava!» ansimò il pirata. «Ho domato puledre di ogni tipo nella mia vita e, dopo, mi hanno sempre rin-graziato.»

Marie Claire lo sentì irrigidirsi e riuscì solo a pregare che fi nisse presto. Chiuse gli occhi con quel corpo sopra di lei, immobile... immobile? Aprì gli occhi. Il sangue colava dal capo di Al Dahari, gli occhi erano vitrei. In controluce si stagliava una fi gura che brandiva una torcia elettrica nella mano a mo’ di corpo contundente.

«Gerard? Tu qui? Ma... non eri...»«Presto, Marie Claire. Indossa questo e seguimi. Non

c’è tempo.»Solo a quel punto la donna si rese conto che Ghezzi e

Miloslav presidiavano la porta della stanza. Nel corridoio il corpo di un somalo privo di vita.

«Scendiamo per le scale di servizio. Dobbiamo raggiun-gere il motoscafo.»

Come era accaduto all’andata, i fuggitivi non incontra-rono nessun terrorista lungo il percorso: i pirati erano trop-po impegnati a tenere a bada i passeggeri.

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Salirono sul motoscafo mentre il cielo si accingeva a ri-schiarare: tra poco avrebbe fatto giorno.

Miloslav mise in moto i due fuoribordo proprio quando un grido echeggiava sopra le loro teste: «Eccoli!», gridò la sentinella, esplodendo subito dopo una raffi ca in direzione dei fuggitivi. Il pianista osservò impotente i colpi che si ab-battevano sul quadro di strumentazione, immediatamente dopo i motori si spensero. Don’t shoot me imbracciò a quel punto il fucile preparandosi a vendere cara la pelle.

Sul ponte piscina della Coral Dream, intanto, si erano radunati più di trenta pirati che cercavano inutilmente di affacciarsi alla battagliola per investire con un muro di fuoco i fuggiaschi. Ma erano invece questi a tenere in-chiodati gli uomini di Al Dahari. Quest’ultimo, ripresosi dal forte colpo affi bbiatogli da Durevoix, gridava rivolto ai suoi come in preda al delirio: «Dobbiamo prenderli! Se ci scappano anche stavolta, vi impicco tutti con le mie mani!».

«Che faremo quando avremo fi nito le pallottole?» chie-se Ghezzi durante una rara pausa.

«Non riesco neppure a immaginarlo. Credo di essere agli ultimi colpi» rispose Miloslav.

In quel preciso istante una raffi ca partì dalla nave. Ghez-zi emise un lamento e si accasciò.

«È fi nita, amore mio! Ma almeno siamo insieme» disse Durevoix, stringendo Marie Claire in un abbraccio.

Miloslav esplose la sua ultima raffi ca e si preparò a mo-rire.

Il comandante dei SEALS, imbarcato sull’elicottero da trasporto truppe, stava osservando la scena ripresa dalla telecamera a visore notturno montata su un aereo spia. L’assembramento di quasi trenta terroristi in un sol punto giocava a suo favore. Era il momento di intervenire se vole-vano avere qualche probabilità di salvare gli ostaggi.

Era stato il presidente in persona ad avergli conferito la più completa libertà d’azione: poteva attaccare in qualsia-

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si momento lo ritenesse opportuno. Il mondo non poteva sottostare a un ricatto terroristico di quella portata.

Il Ghepardo si sporse dalla battagliola, il Kalashnikov stretto in pugno. Prese la mira: i primi a morire sarebbero stati i coniugi francesi, poi avrebbe fatto fuori gli altri a uno a uno. Sarebbe stato tutto sin troppo facile.

«Preparatevi, infedeli. Per voi le porte dell’inferno stan-no per aprirsi!» gridò il pirata, il dito sul grilletto.

Il missile fi loguidato TOW lanciato dall’elicottero dei SEALS lo centrò in pieno torace ed esplose, disperdendo brandel-li dell’assassino e schegge infuocate ovunque. Poi scoppiò l’inferno e la nave fu presa d’assalto da una cinquantina di uomini dei corpi scelti che si calavano dagli elicotteri sotto un pesante fuoco di copertura.

Meno di mezz’ora più tardi era tutto fi nito.

Ghezzi si risvegliò dopo l’operazione. I suoi quattro amici erano attorno al letto.

«Bentornato nel mondo dei vivi!» disse Miloslav non appena il tecnico aprì gli occhi.

«Dove ci troviamo?» chiese Ghezzi con un fi lo di voce.«Nell’ospedale di un incrociatore americano. Dicono

che l’operazione sia riuscita e lei è fuori pericolo. Non nego che abbiamo temuto per la sua vita» rispose l’avvocato pa-rigino.

«Che cosa è successo?» chiese Ghezzi che aveva perso i sensi appena era stato colpito.

«I SEALS hanno attaccato la nave, riducendo all’impoten-za quasi metà dei pirati in un colpo solo. Quindi si sono riversati nell’interno e sono riusciti a mettere in salvo tut-ti gli ostaggi fatta eccezione per quelli precedentemente accoppati dai pirati. Il bilancio è di una decina di feriti e un’anziana signora colta da infarto. Ma pare che se la cave-rà anche lei» disse Durevoix.

«Allora è davvero fi nita?» chiese Ghezzi con un sorriso.«Non direi» intervenne Miloslav. «A parte il recupero

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del nostro tesoro che effettueremo tutti insieme quando lei starà meglio, c’è un ulteriore problema: la Coral Dream dovrebbe salpare e non possono muoverla sino a che non consegnerete loro la password per sbloccare i propulsori.»

Amsterdam, inverno 2012

La città era stretta in una morsa di gelo. Nell’elegante stanza rivestita di legno pregiato la temperatura era invece perfetta. Le trattative erano state condotte da Rebecca e da Marie Claire, che avevano mostrato doti commerciali senza pari.

Il titolare della De Jong & Co, una prestigiosa multina-zionale, leader nella commercializzazione di pietre prezio-se, consegnò l’assegno a ciascuno dei presenti.

«Bene, signori» disse il signor De Jong, «mi auguro che l’estenuante trattativa trovi le parti soddisfatte e, credete-mi, ho fatto grandi sforzi per corrispondere a ciascuno di voi un assegno da dodici milioni di dollari, ma ho avuto controparti... ehm... irremovibili» disse il commerciante olandese sorridendo alle due donne. «Peccato per il “pez-zo forte della collezione” che avete voluto tenere per voi. Ma adesso vi lascerò soli come mi avete chiesto.»

Una volta che De Jong ebbe lasciato la stanza, Durevoix consegnò a Ghezzi un involto.

«Abbiamo tramato durante la sua assenza, Ghezzi. E abbiamo riconosciuto di essere vivi grazie alle sue capaci-tà, al suo altruismo e al suo coraggio. Abbiamo deciso che “il pezzo forte della collezione”, come lo ha chiamato De Jong, spettasse a lei a titolo di profonda gratitudine per aver salvato la vita a noi e ad alcune migliaia di persone.»

Ghezzi armeggiò con il drappo di velluto che racchiu-deva l’oggetto. Pochi istanti più tardi la statua d’oro del ghepardo cesellata con smeraldi e diamanti neri luccicava nelle sue mani.

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«Ve ne sono grato, amici miei. Quando si parte per una nuova crociera nell’Oceano Indiano?»

«Prima di quanto tutti voi pensiate» disse Rebecca. «Mi-loslav e la sottoscritta hanno deciso di convolare a nozze e il matrimonio si celebrerà sull’isola di Nosy Tanikely. Tutti voi sarete chiamati come testimoni e quindi non potrete mancare.»

«C’è ancora una cosa, Ghezzi» aggiunse Marie Claire. «Nell’osservare il ghepardo d’oro, il signor De Jong ha sco-perto un nascondiglio celato dalla montatura degli smeral-di. Al suo interno ha trovato questo» così dicendo la donna consegnò a Ghezzi un pezzo di carta logorato dal tempo. «Sembra si tratti di un brandello di una carta nautica sul quale qualcuno, molti anni fa, ha scritto in lingua porto-ghese queste parole: “Il Ghepardo della Malesia”.»

«Ghepardo della Malesia?» domandò Durevoix. «Mi sembra di ricordare qualcosa... un pirata malese, il suo braccio destro portoghese... erano gli eroi delle mie letture quando ero ragazzo.»

«Non si trattava di un ghepardo, bensì della Tigre della Malesia. E il suo alter ego si chiamava Yanez ed era por-toghese» lo corresse Ghezzi. «Erano i protagonisti dei romanzi di Emilio Salgari. Nelle sue opere i personaggi realmente esistiti – come James Brooke, il perfi do rajah del Sarawak – si incontravano spesso con fi gure partorite dalla vulcanica fantasia dell’autore. Chissà quali altre vicissitu-dini ci avrebbe regalato il più grande scrittore d’avventura di ogni tempo, se anche Sandokan e Yanez avessero dav-vero cavalcato la Storia...»