Tre Io

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Tutto in una notte. Una notte che ha la misura di un’esistenza intera, anzi, di tre esistenze. Tre insospettabili personaggi, prigionieri e fiaccati dalle proprie vite, decidono di evadere, anche solo per una notte, dalla propria routine. Risultato: un romanzo che si legge come si guarda un “road movie”, un viaggio attraverso la parte più intima, insoddisfatta e recalcitrante dell’uomo contemporaneo che, suo malgrado, dovrà fare i conti con se stesso. Dante, Giulia e Andrea sono "Tre Io", tre voci narranti a cui è assegnato un colore diverso. Una differenziazione cromatica del testo che risponde a precise esigenze narrative. Una scelta per rendere la lettura agile; per rendere gli scambi e le incursioni dei personaggi immediate, incalzanti, fino all’inatteso epilogo.

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IENA

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© Neo Edizioni s.n.c. 2009

Neo EdizioniVia Volturno, 2

67031 – Castel di Sangro (AQ)

[email protected]

I edizione: aprile 2009ISBN-978-88-96176-01-6

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un romanzo diMario Rossi

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È ormai un’idea ricorrente.Mi assale, puntuale, la consapevolezza che niente abbia più

senso e che, per quanto io possa prodigarmi, tutti i miei sforzi sia-no vani.

Mi trascino claudicante in scenari che mi disgustano, danno nausea. Banalità, ineffi cacia, ridondanza. Vedo questo in ogni dove e quando della mia vita.

La presa di coscienza della mia inutilità, però, non è apati-ca. Sfocia in odio.

Un odio malsano.Totale.Un odio che abbraccia il mondo intero e non fa distinzioni,

che ingloba tutto il creato con greve soluzione di continuità.Odio il saluto di chi non mi conosce, la pioggia che impedi-

sce il pensiero, il sole che infonde false speranze. Odio il profu-mo dei campi in fi ore. Odio qualsiasi rimedio indolore. Odio mia madre per quanto mi ama e mio padre per come mi accetta. Odio l’intelligenza umana perché incapace di riscattare il mon-do dalla pochezza imperante.

Per primo odio me stesso ma sono un vigliacco e non ho la forza di farla fi nita. Metto un giorno avanti all’altro e conti-nuo, consapevole e sdegnato dell’inutile affanno che la vita im-pone per perpetuarsi.

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Oggi ho stentato ad alzarmi dal letto. L’idea era quella di restarci per sempre. Niente di catastrofi co o spettacolare. Un semplice rifi uto che si protrae a tempo indeterminato fi nché morte non sopraggiunga a determinarne determinatezza.

Rido al gioco di parole e penso che non tutti sarebbero in grado di coglierne il sarcasmo latente, che probabilmente sono sopra la media, che non per questo ho più cara la vita.

L’idea, dicevo, era di usare la coperta come riparo dagli im-pegni, rintanarmici sotto come un feto e farne scudo dal mon-do. Volevo usarla per fuggire dal ruolo che mi compete. Volevo farne una pietra tombale.

Non ce l’ho fatta. Anche in questo ho fallito.Un uomo può sopravvivere dieci giorni con un solo bicchie-

re d’acqua ed io ho l’abitudine di metterne uno sul comodino prima di addormentarmi. Quando ho preso un sorso stamatti-na ho pensato che se avessi dovuto aspettare dieci giorni sdra-iato a letto per farla fi nita, tanto valeva alzarsi.

Paradossalmente quel sorso mi ha riportato alla vita affos-sandomi in uno sconforto abissale.

Ho pensato che la perfezione è un concetto ambivalente. Utile per l’ottimista capace di tendere ad essa senza mai rag-giungerla; deleteria per i malati che vedono nella sua labilità la mediocrità del destino dell’uomo e la vacuità insita in ogni sua pulsione.

Ricordate un bicchiere d’acqua perfetto? Voglio dire, ricor-date il gusto, la temperatura, la consistenza esatti e proporzio-nati al vostro desiderio nell’istante preciso in cui l’avete bevu-to?

Io uno. Soltanto uno nella mia intera esistenza. Il resto dei miei giorni è riempito da sorsi d’acqua troppo calda, troppo fredda, troppo frizzante, con troppo cloro. E così per il cibo, la

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musica, i libri, la politica, la religione, il mio rapportarmi agli altri. Ogni singolo palpito vitale è un inutile tentativo di co-gliere la perfezione potenzialmente presente in esso.

Scampoli di bellezza, ecco. Le briciole, questo mi spetta. Inezie a differenza dell’anima delle cose.

Voglio capire la peculiarità che qualifi ca una sensazione, una persona, un attimo nel suo stesso concetto. Voglio conoscere la caratteristica esatta che divide qualcosa dalla genericità del tutto che le è intorno. Voglio toccare con mano l’unicità delle esperienze e carpirne i segreti in modo da renderla ripetibile.

Voglio l’inottenibile.Forte di questa convinzione mi aggiro in corridoi che non

mi appartengono. Troppo austeri, freddi, non fanno che ag-gravare il mio già precario equilibrio mentale. Emigro da un ambiente all’altro senza cognizione di causa. Sono un ectopla-sma. Un fantasma che esercita in terra straniera. Sono un’ani-ma in pena cui hanno negato il limbo natio. Una contraddi-zione in termini.

La mia stanza da letto somiglia ad una prigione. La cucina, una stamberga tetra in cui anche i topi evitano di soggiorna-re. Il bagno splende nella sua modestia e nella ricercata penu-ria di particolari rispondendo, da solo, all’opinione condivisa per cui la mia tana debba necessariamente essere un tugurio invivibile. Per non parlare, poi, di quella Maria Stella sempre intorno ad origliare, a tenermi d’occhio come fossi il peggior malfattore in terra.

Stamattina radendomi ho visto affi orare un viso dimentica-to.

Oggi sono nato.Di nuovo ho visto il mondo per la prima volta.Con gli occhi di un neonato cinico e attempato.

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Esco. Quest’aria stantia mi logora. Ho bisogno di cambia-re visuale. Queste mura le conosco da troppo e tra non troppo, sono convinto, mi faranno da tomba.

Appena fuori, vengo investito da una raffi ca di « Buonase-ra! »

« Buonasera » rispondo e mi defi lo.Con la coda dell’occhio osservo se il mio disinteresse ha re-

ciso la scia di familiarità che mi lega a quegli sconosciuti. Li ve-do tentennare con in bocca domande stoppate sul nascere; ri-volgerle, poi, gli uni agli altri perché troppo ingombranti da deglutire.

Li lascio cuocere nel loro brodo. Ne ho abbastanza di chiac-chiere inutili, di persone inutili, di sputacchi concitati nel trop-po slancio di spiegare.

Merito di meglio oggi.Mi faccio un rum.

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Tempo di ricordi stasera. La solitudine mi mette al muro e costringe a guardarmi dentro. Non proprio la vita che imma-ginavo ma cosa avrei da rimproverarmi? Trentasei anni. Spo-sata da nove. Una fi glia di otto, bella come il sole. Un mari-to premuroso che non mi fa mancare niente. Fiori alle feste comandate, abiti dignitosi, sorprese sporadiche ma calcolate in modo da stupire scientifi camente; capaci di suscitare emo-zioni e di alimentare la curiosità in attesa della prossima at-tenzione.

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Ho un reddito sopra la media, una suocera non invadente, una linea invidiabile.

Riesco anche ad avere qualche orgasmo nonostante il modo che mio marito ha di prendermi. Per lui il tempo non sembra essere passato. È rimasto giovane come quando ci siamo cono-sciuti, sportivo come quando ci siamo conosciuti, educato co-me quando ci siamo conosciuti. Mi scopa ancora come quan-do ci siamo conosciuti.

Credo sia riuscito a non invecchiare per lo sforzo che ci vole-va ad immaginarsi vecchio. È un uomo poco propenso al cam-biamento mio marito. La verità è che le novità lo spaventano. L’idea di discostarsi appena dal suo sistema di valori lo turba al punto di irrigidirsi e cadere in uno stato apatico soltanto suo. Diventa silenzioso, sospettoso, sfi ora quasi l’inappetenza.

Sono felice tutto sommato.Certo non devo farmi illusioni. Devo continuare a vivere la

vita seguendo i binari che qualcun altro ha tracciato per me. Quando, sposando Marcello, sono salita sui suoi ho fatto una scelta e ora devo solo seguire quella scelta presa liberamente. Le mie passioni sono rimaste indietro, come tante altre cose del resto. La carriera in psicologia, il teatro, l’amore per l’ar-te e la letteratura, i viaggi, sono tutte stronzate che non aiuta-no a vivere. Ci vuole tempo per coltivarle ed io… io non ho un minuto libero. Io devo fare la spesa, il bucato, preparare pranzo e cena, devo accompagnare Elisa a scuola, aiutarla nei compiti e controllare che non prenda una brutta piega. Devo mantenere rapporti con gli amici perché Marcello lavora fi no a tardi. Lo fa per garantirci un dignitoso tenore di vita. Devo essere gentile e affabile con tutti in modo che lui possa servir-sene al momento del bisogno.

Siamo complici io e mio marito.

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Siamo due soci, collaboratori, anime che il destino ha messo nella stessa casa intimandogli di perseguire un fi ne comune.

Non ci amiamo. Non ci siamo mai amati. Ci siamo sposa-ti perché rimasti soli. I nostri amici si erano accasati o emigra-ti verso nuovi lidi.

Se ci penso, il giorno del matrimonio non piangeva nessu-no. Nemmeno mia madre si è commossa. Il suo viso era impie-trito in una smorfi a che parlava di dolore e tacita apprensione per una fi glia concessa ad un uomo che non la meritava. Anco-ra mi chiedo che tipo di uomo immaginava per me, se ne im-maginava uno.

Ha pianto nei mesi a venire mia madre. Ha versato fi umi di lacrime per tre interminabili mesi fi nché il cuore ha detto ba-sta e fermandosi l’ha scaraventata in una cassa di ciliegio ama-ranto.

Io non ho pianto la sua morte.La odiavo.L’ho detestata per tutta la vita.Penso ancora a come ha ostacolato la mia crescita. Diceva che

avevo troppi grilli per la testa, che sarei stata inconcludente co-me mio padre morto quando ero ancora piccola. Diceva che avrei dovuto assomigliarle perché eravamo sole e lei aveva fatto del-la sua vita un monastero inespugnabile. Diceva che l’abbondan-za del mio seno era una vergogna. Arrivò a dire che era opera del demonio e che se qualcuno me l’avesse toccato sarebbero spun-tati tumori come funghi in un prato d’autunno. Ho sempre tro-vato bizzarre le sue similitudini ed encomiabile la sua sensibilità, credo che una scimmia avrebbe avuto più istinto materno. Gra-zie a lei arrivai vergine al matrimonio e la maledissi il giorno del mio primo rapporto. Mi aveva vietato un piacere così caldo, così grande e innocuo.

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