Tra teoria e dogmatica

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Tra teoria e dogmatica Sei studi intorno all’interpretazione Vito Velluzzi Edizioni ETS Temi e problemi del diritto STUDI filosofia del diritto JURA V. Velluzzi Tra teoria e dogmatica Sei studi intorno all’interpretazione uesta breve raccolta di saggi si ispira a un pro- posito metodologico preciso: fare filosofia del diritto attraverso il diritto. Ciò vuol dire impe- gnarsi in due direzioni tra loro complementari. La prima direzione riguarda l’oggetto dell’analisi. Esso è costituito dai discorsi realizzati con e sul diritto positivo dalla dottrina e dai giudici, e siffatto studio è compiuto al fine precipuo di svelare i presupposti da cui muovono e gli obiettivi che perseguono i giudici e i giuristi. La seconda direzione riguarda il modo col quale l’oggetto è indagato: gli istituti di diritto positivo vengono studiati in ragione degli spunti di interesse teorico che forniscono, all’interno di un quadro filosofico di riferimento e con gli strumenti propri del metodo idoneo a tratteggiarlo. Vito Velluzzi è professore associato confer- mato di Filosofia del diritto nell’Università di Milano, dove insegna Teoria e tecnica dell’in- terpretazione giuridica. Tra i suoi lavori recen- ti si ricordano: Commento agli artt. 12, 13 e 14 delle Disposizioni preliminari al Codice civile (per il Commentario del Codice civile diretto da E. Gabrielli) Utet, 2012; L’analogia e il diritto. Antologia breve (assieme a L. Pelliccioli) ETS, 2011; Le clausole generali. Semantica e politi- ca del diritto, Giuffrè, 2010. ETS Marcello Clarich Aurelio Gentili Fausto Giunta Mario Jori Michele Taruffo collana diretta da Temi e problemi del diritto STUDI filosofia del diritto discipline penalistiche - Criminalia discipline civilistiche discipline pubblicistiche TESTI CLASSICI JURA ISBN 978-884673450-1 9 788846 734501 € xx,00 Q

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Sei studi intorno all'interpretazione

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Tra teoria e dogmaticaSei studi intorno all’interpretazione

Vito Velluzzi

Edizioni ETS

Temi e problemi del diritto

STUDI

filosofia del diritto

JURA

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teor

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uesta breve raccolta di saggi si ispira a un pro-posito metodologico preciso: fare filosofia del diritto attraverso il diritto. Ciò vuol dire impe-gnarsi in due direzioni tra loro complementari.

La prima direzione riguarda l’oggetto dell’analisi. Esso è costituito dai discorsi realizzati con e sul diritto positivo dalla dottrina e dai giudici, e siffatto studio è compiuto al fine precipuo di svelare i presupposti da cui muovono e gli obiettivi che perseguono i giudici e i giuristi. La seconda direzione riguarda il modo col quale l’oggetto è indagato: gli istituti di diritto positivo vengono studiati in ragione degli spunti di interesse teorico che forniscono, all’interno di un quadro filosofico di riferimento e con gli strumenti propri del metodo idoneo a tratteggiarlo.

Vito Velluzzi è professore associato confer-mato di Filosofia del diritto nell’Università di Milano, dove insegna Teoria e tecnica dell’in-terpretazione giuridica. Tra i suoi lavori recen-ti si ricordano: Commento agli artt. 12, 13 e 14 delle Disposizioni preliminari al Codice civile (per il Commentario del Codice civile diretto da E. Gabrielli) Utet, 2012; L’analogia e il diritto. Antologia breve (assieme a L. Pelliccioli) ETS, 2011; Le clausole generali. Semantica e politi-ca del diritto, Giuffrè, 2010.

ETS

Marcello ClarichAurelio GentiliFausto Giunta

Mario JoriMichele Taruffo

collana diretta da

Temi e problemi del diritto

STUDI

filosofia del diritto

discipline penalistiche - Criminaliadiscipline civilistiche

discipline pubblicistiche

TESTI

CLASSICI

JURA

ISBN 978-884673450-1

9 7 8 8 8 4 6 7 3 4 5 0 1€ xx,00

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Temi e problemi del diritto

sTudidiscipline civilistiche

discipline penalistiche - Criminaliadiscipline pubblicistiche

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TesTi

classici

Comitato scientifico

Marcello clarich, aurelio Gentili,Fausto Giunta, Mario Jori, Michele Taruffo

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Vito Velluzzi

Tra teoria e dogmatica.sei studi intorno all’interpretazione

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Questo volume è stato pubblicato con il contributo dell’università degli studi di Milano,

dipartimento di scienze Giuridiche “cesare Beccaria”

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Al ricordo dei miei amati genitori Vincenzina e Antonio

«È assurdo attenersi a un’unica, rigida regola su ciò che andrebbe letto e ciò che andrebbe scartato,

poiché oltre la metà della cultura moderna dipende proprio dagli scarti»

(Oscar Wilde, Aforismi, a cura di A. R. Falzon, Milano, Mondadori, 1998, pp. 36-37)

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indice

indicazione delle fonti 10

Ringraziamenti 11

Presentazione 13

Sulla nozione di “interpretazione giuridica corretta” 19

Sui rapporti tra l’interpretazione sistematica della legge e degli atti giuridici 33

Osservazioni sull’analogia giuridica 65

Analogia giuridica e razionalità dell’ordinamento. note a margine 85

L’abuso del diritto in poche parole 97

Tutele “proporzionate”, prognosi del comportamento del coniuge (o ex coniuge) obbligato e interpretazione giudiziale 105

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Indicazione delle fonti

i. Sulla nozione di “interpretazione giuridica corretta” (in Cassazione penale, 7-8, 2004, pp. 2588-2598, qui si riproducono le pagine da 2588 a 2596).

ii. Sui rapporti tra l’interpretazione sistematica della legge e degli atti giuridici (in Studi Senesi, 3, 2001, pp. 545-585, si è aggiunta una po-stilla).

iii. Osservazioni sull’analogia giuridica (saggio inedito, ma in larga par-te tributario, seppur con modifiche, dei paragrafi da 19 a 23 del Commento agli artt. 12, 13 e 14 delle Disposizioni sulla legge in ge-nerale, in Commentario del Codice civile, diretto da e. Gabrielli, Delle persone, vol. 1, Disposizioni sulla legge in generale e art. 1-10 c.c., a cura di A. Barba e S. Pagliantini, Utet, 2012).

iV. Analogia giuridica e razionalità dell’ordinamento. Note a margine (in Ragion pratica, 27, 2006, pp. 377-386).

V. L’abuso del diritto in poche parole (riprende e sviluppa l’introdu-zione a L’abuso del diritto. Teoria, storia e ambiti disciplinari, ets, 2012, pp. 11-17).

Vi. Tutele “proporzionate”, comportamento del coniuge (o ex coniuge) obbligato e interpretazione giudiziale (in Nuova giurisprudenza civile commentata, 12, 2011, pp. 599-609).

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Ringraziamenti

Sono in debito soprattutto con il Prof. Mario Jori che ha assecondato e sol-lecitato il mio proposito di raccogliere questi studi. Per i suggerimenti forni-ti ringrazio i colleghi (e amici) Francesco Albertini, damiano canale, enrico diciotti, Aurelio Gentili, Anna Pintore, Francesca Poggi, Maddalena Rabitti, Mario Ricciardi e Giovanni Tuzet.

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PReSenTAziOne

il libro raccoglie sei scritti, quattro realizzati e pubblicati nell’arco di un decennio (2001-2011), più due parzialmente inediti. in questa pre-sentazione vengono spiegate le ragioni per le quali sono state messe as-sieme le pagine del libro e per le quali vengono proposte al lettore come un percorso articolato, non privo di qualche divagazione, ma unitario nelle ambizioni, con delle puntuali coordinate metodologiche e un co-stante e riconoscibile retroterra teorico. Per compiere questo tentativo di chiarificazione occorrono sia una premessa riguardante il titolo della raccolta, sia brevi precisazioni su ogni singolo lavoro.

La scelta del titolo (e del sottotitolo) Tra teoria e dogmatica. Sei studi intorno all’interpretazione, ha ragioni di metodo e di contenuto.

Per quanto riguarda il metodo gli scritti del libro sono di ispirazione analitica e apparentati con le ricerche di metagiurisprudenza costrutti-va1. Tuttavia, la scelta del metodo non è indifferente riguardo all’ogget-to. L’oggetto dell’analisi è costituito, infatti, dai discorsi realizzati e dai concetti impiegati dalla dottrina e dai giudici, e siffatto studio è compiu-to al fine precipuo di svelare i presupposti da cui muovono e gli obietti-vi che perseguono i giudici e i giuristi. V’è, inoltre, l’importante finalità di proporre ridefinizioni chiarificatrici dei concetti esaminati2.

1 R. Guastini, Lezioni di teoria analitica del diritto, Torino, Giappichelli, 1985, p. 12 ss. Seguire la via della metagiurisprudenza costruttiva significa elaborare ridefinizioni (dette pure definizioni esplicative) e sostenere che proporre ridefinizioni sia, o possa essere, filosofi-camente proficuo, che modificare e innovare in parte il significato di un vocabolo riducendone vaghezza e/o ambiguità a partire dai suoi usi linguistici, sia di per sé un fine meritevole sul piano filosofico. Scrive sempre Guastini: «Lo stile “costruttivo”: è l’approccio di quanti non si limitano ad un lavoro puramente descrittivo, “dal punto di vista esterno”, ma invece interven-gono direttamente nelle controversie tra giuristi: proponendo ad esempio delle ri-definizioni dei concetti contestati; ri-definizioni destinate, fatalmente, ad incidere sull’interpretazione dei documenti normativi. Questo tipo di teoria del diritto – non puramente descrittiva, ma anzi propositiva e stipulativa – si risolve, tendenzialmente, nella dogmatica stessa: è, se si vuole, la “alta dogmatica” di cui parla Scarpelli», R. Guastini, Teoria del diritto. Approccio metodologi-co, Modena, Mucchi editore, 2012, pp. 43-44.

2 esempi brillanti di impiego del metodo descritto sono i lavori di G. Pino, Il diritto all’identità personale. Interpretazione costituzionale e creatività giurisprudenziale, Bologna, il Mulino, 2003; M. atienza-J. R. ManeRo, Illeciti atipici. L’abuso del diritto, la frode alla legge, lo sviamento del potere (2000), trad. it. Bologna, il Mulino, 2004, nel quale i due filosofi del diritto

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Procedere con questo metodo e sull’oggetto indicato comporta so-vente una mescolanza di ruoli tra il teorico del diritto e il giurista in senso stretto3, così da aver indotto l’introduzione nella filosofia del di-ritto contemporanea del sintagma “alta dogmatica” per designare tali ricerche. Per il vero non tutti concorderebbero con l’opinione che le ricerche di metagiurisprudenza costruttiva siano, o debbano essere, ne-cessariamente di alta dogmatica e nemmeno con la tesi che tutte le ri-cerche di alta dogmatica siano, o debbano essere, di carattere metagiuri-sprudenziale nel senso indicato. ciò dipende soprattutto dalla vaghezza (e probabilmente pure dall’ambiguità) della nozione di alta dogmatica. non è il caso di inoltrarsi in complesse discettazioni sul metodo giuri-dico e sullo statuto della teoria e della filosofia del diritto, è opportuno però chiarire quali ricerche vengono proposte e perché per esse è cal-zante, seppur in grado differente, il sintagma “alta dogmatica”. così facendo risulterà chiaro cosa si intende per alta dogmatica e per quale ragione gli scritti di questo libro siano ad essa riconducibili e si collochi-no, appunto, tra teoria del diritto e dogmatica giuridica.

i contenuti del libro vertono sia sugli strumenti di lavoro tipici dei giuristi e dei giudici (l’interpretazione e l’integrazione del diritto in par-ticolare), misurandoli col metro del confronto con le riflessioni della dottrina e con i provvedimenti giudiziali, sia sugli oggetti di indagine propri dei giuristi, ma esaminati con piena consapevolezza del meto-do e delle questioni teoriche ad essi legate4. Metodo e contenuto sono,

spagnoli affrontano, come mostra il sottotitolo, il tema dell’abuso del diritto, della frode alla legge e dello sviamento di potere. Proprio sull’abuso del diritto verte il penultimo scritto di questo libro.

3 il riferimento fatto alla categoria dei giuristi in senso stretto è un po’ infelice, ma segno della difficoltà di distinguere nettamente il giurista dal teorico del diritto, non solo nella direzione della necessità per il teorico del diritto di essere anche un giurista, ma pure (se non addirittura soprattutto) nel senso che il giurista debba avere una solida formazione teorica. in tale direzione si muovono le considerazioni di L. GianfoRMaGGio, Il filosofo del diritto e il diritto positivo, in ead., Filosofia del diritto e ragionamento giuridico, a cura di e. diciotti-V. Velluzzi, Torino, Giappichelli, 2008, pp. 25-40. d’ora in poi in questa presentazione, per semplice comodità, si parlerà di dottrina o di giuristi tout court da un lato, di teorici del diritto dall’altro; mentre con la parola “giurisprudenza” ci si riferirà ai giudici tranne nel caso in cui essa compaia nel composto metagiurisprudenza.

4 Per un accostamento alla nozione di “alta dogmatica”, v. M. JoRi, Empirismo e dogmati-ca giuridica, in id., Saggi di metagiurisprudenza, Milano, Giuffrè, 1985, pp. 78-81; e si rammenti quanto affermato a suo tempo da a. Ross, Diritto e giustizia (1958), trad. it. Torino, einaudi, 1965, pp. 26-27: «il confine tra lo studio del diritto e la jurisprudence non è rigido. L’analisi logica si applica largamente anche nell’interno dello studio tradizionale del diritto. non esiste alcun criterio interno per determinare là dove lo studio del diritto finisce e dove comincia quello della jurisprudence», e jurisprudence, è noto, significa, con una minima approssima-zione, teoria del diritto. Sull’oggetto e sul metodo della dogmatica giuridica v. G. LaRiGuet,

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Presentazione 15

dunque, intimamente connessi. Vale la pena ripeterlo: l’oggetto dei vari scritti è costituito da temi tipici della teoria del diritto (le teorie dell’in-terpretazione giuridica, l’interpretazione sistematica, l’analogia giuridica etc.) e istituti di diritto positivo (la separazione personale dei coniugi, la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il contratto, l’ipoteca etc.) tra loro sovente intrecciati. Laddove ci si cimenta con questioni più strettamente teorico-giuridiche non mancano esemplificazioni tratte dalla giurisprudenza e dalla dottrina, a mo’ di banco di prova delle tesi elaborate5. di converso quando ci si occupa di istituti di diritto positivo, lo si fa in ragione di spunti di interesse teorico ed anche le proposte in-terpretative avanzate vogliono essere coerenti con un quadro filosofico di riferimento e con gli strumenti propri del metodo idoneo a tratteg-giarlo6.

Una notazione formale per i saggi già editi e qui riproposti: i criteri

Dogmática jurídica y aplicación de normas, córdoba, Alverani, 2006, pp. 98-118; G. B. Ratti, Sistema giuridico e sistemazione del diritto, Torino, Giappichelli, 2008, cap. Viii e letteratura ivi citata.

5 L’esigenza per il filosofo del diritto analitico di mettere alla prova i propri strumenti di lavoro “studiando le cose” è stata più volte rimarcata da Giovanni Tarello, come sottolineano R. Guastini-G. Rebuffa, Introduzione, in G. taReLLo, Cultura giuridica e politica del diritto, a cura di R. Guastini e G. Rebuffa, Bologna, il Mulino, 1988, p. 9.

6 A parere di chi scrive il sintagma “alta dogmatica” può designare (almeno) le ricerche appena menzionate nel testo, ed a riprova di ciò si leggano le parole di M. JoRi, Empirismo e dogmatica giuridica, cit., pp. 79-80: «Parlare di “dogmatica giuridica” infatti fa anche pensare alle concezioni del diritto, implicite e esplicite, che operano una qualche distinzione tra due tipi di descrizione giuridica, tra descrizione del diritto “alta” e “bassa”. La distinzione può basarsi su elementi soggettivi, a seconda che siano i “pratici” o gli scienziati del diritto a farla; ovvero può basarsi su una distinzione metodologica, per cui la dogmatica sarebbe la fase me-ramente descrittiva […] la scienza giuridica produrrebbe concetti ordinatori […] ovvero [su] una interpretazione semiotica, distinguendo tra descrizione che si serve solo di definizioni lessicali, e descrizione che si serve anche di descrizioni esplicative e convenzionali prodotte dal teorico […] A questi problemi non semplici di distinzione metodologica, si aggiungono essenziali distinzioni metametodologiche, che riguardano cioè il tipo di analisi metodologica e il suo fondamento: così si può analizzare il discorso (descrittivo) dei giuristi come è e come questi lo vedono; o anche come i giuristi non lo vedono, ma come i filosofi vedono che in realtà è; ovvero il discorso (descrittivo) dei giuristi come i teorici-filosofi dicono che dovrebbe essere. La più significativa di queste distinzioni è, secondo me, quella tra metodologia descrittiva e metodologia prescrittiva: tra la descrizione del metodo reale dei giuristi e la prescrizione di un metodo ideale di conoscenza giuridica». Una sicura fonte di ispirazione metodologica degli scritti che si propongono in questo libro è il filosofo del diritto Giacomo Gavazzi, vista la sua «costante preoccupazione per una teoria generale del diritto attenta al lavoro dei giuristi, alle loro esigenze di operatori che interpretano e applicano il diritto non meno che al loro ruolo nella continua (ri)definizione degli istituti e delle stesse categorie concettuali con le quali ren-der conto della sua struttura e delle sue funzioni», così t. MazzaRese, Giacomo Gavazzi e la teoria generale del diritto. La provocazione della sobrietà stilistica e metodologica, in ead. (a cura di), Teoria del diritto e filosofia analitica. Studi in ricordo di Giacomo Gavazzi, Torino, Giappi-chelli, 2012, p. 9.

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di citazione sono quelli della prima pubblicazione, ma da saggio a saggio non divergono di molto e le poche differenze non dovrebbero disturba-re troppo il lettore o indurlo a formulare un giudizio di sciatteria, alme-no questa è la speranza dell’autore.

È opportuno, ora, discorrere rapidamente dei singoli contributi. Lo scritto di apertura riguarda le teorie dell’interpretazione giuridi-

ca. Più precisamente esso verte sui vari modi in cui è possibile trattare della nozione di interpretazione giuridica corretta, o predicare la corret-tezza dell’interpretazione giuridica, in ragione dell’impostazione filoso-fica in tema di interpretazione delle formulazioni normative all’interno della quale ci si colloca. ciò porta con sé l’opportunità di una tassono-mia delle teorie dell’interpretazione e impone di capire, alla luce del carattere proprio di ciascuna teoria, quali e quanti siano i criteri della correttezza dell’interpretazione, o, in termini più radicali, se sia sensato parlare di interpretazione giuridica corretta. La conclusione dell’artico-lo prospetta una chiara preferenza per una teoria moderatamente scet-tica dell’interpretazione giuridica e tale predilezione viene argomentata ponendo in rilievo i tratti specifici dello scetticismo moderato prescelto, nonché la capacità di tale teoria di distinguere tra interpretazione e inte-grazione giuridica.

il secondo scritto riguarda l’interpretazione sistematica e ha una duplice finalità: proporre una adeguata ridefinizione della nozione per quanto riguarda l’interpretazione della legge; confrontare l’esito rag-giunto con l’interpretazione sistematica di taluni atti giuridici non legi-slativi.

il terzo saggio si pone in linea di continuità con i primi due ed è dedicato all’analogia giuridica. e infatti il passo dalle teorie dell’inter-pretazione giuridica, allo scetticismo interpretativo moderato, sino ad approdare all’analogia giuridica è davvero breve. Allo stesso modo è perpetuata l’abitudine di legare, in qualche guisa, l’analogia all’inter-pretazione sistematica. nelle pagine in questione si pongono in rilievo alcuni, ma non tutti, i profili problematici dell’analogia giuridica e si prospettano soluzioni (provvisorie) per taluni di essi. in questo scritto auspico che il lettore colga, nello svolgimento del cammino attraverso il libro, l’omogeneità del metodo e dei presupposti filosofico-giuridici che animano tutto il volumetto. Misurarsi con l’analogia giuridica significa, infatti, scendere sul terreno di questioni quali, per esempio, la distinzio-ne tra ragionamento analogico e interpretazione estensiva, tra l’analogia legis e iuris, e per tentare di dirimerle è indispensabile aver compiuto scelte intorno all’interpretazione giuridica nel suo complesso, al compi-

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Presentazione 17

to assolto, al suo interno, dagli argomenti interpretativi, ai modi di co-struire norme cosiddette inespresse nell’ordinamento e altro ancora.

L’analogia giuridica è oggetto anche del quarto saggio. Per il vero in esso si affronta un aspetto specifico del ragionamento analogico nel di-ritto che arricchisce e completa il quadro tracciato nel saggio immedia-tamente precedente. L’aspetto trattato è la nozione di ratio legis, il suo ruolo nell’analogia giuridica, e più in particolare se ed in quali termini attraverso la ratio si possano costruire analogie in grado di inserirsi ar-moniosamente nel sistema giuridico, garantendone (o senza romperne) la razionalità7.

il quinto articolo verte sull’abuso del diritto. L’abuso del diritto, in-fatti, è oggetto di attenzione consolidata e ricorrente da parte della dot-trina, della giurisprudenza e della teoria del diritto.

dei due volti dell’alta dogmatica menzionati all’inizio di questa nota introduttiva, ossia per un verso ragionare, in virtù di ciò che giuristi e giudici dicono e fanno, intorno ad alcuni strumenti di lavoro tipici della dottrina e della giurisprudenza, e per l’altro verso affrontare le medesi-me questioni trattate dalla dottrina e dalla giurisprudenza applicando il metodo ed i contenuti di un determinato approccio teorico, sino ad ora si è mostrato in prevalenza il primo. il compito di svelare per intero il secondo volto è affidato all’ultimo saggio. il lavoro ha lo scopo di pro-porre una soluzione interpretativa appropriata a talune questioni dibat-tute nell’ordinamento italiano riguardanti gli ambiti della separazione personale tra coniugi, della cessazione degli effetti civili del matrimonio e dei diritti reali di garanzia.

Tuttavia, è opportuno sottolinearlo, inoltrarsi in profondità nel terri-torio della dottrina e della giurisprudenza non significa abdicare il ruolo di teorico del diritto, non vuol dire, cioè, costruire la tesi proposta in maniera non sufficientemente argomentata, o sviluppare ragionamenti contraddittori, non vuol dire, insomma, lavorare in maniera metodolo-gicamente destrutturata8. non significa neppure ricusare l’uso dell’ap-

7 Sui rapporti tra ratio legis e coerenza v. le pagine, sempre attuali, di G. LazzaRo, Storia e teoria della costruzione giuridica, Torino, Giappichelli, 1965, pp. 257-268.

8 Queste cautele dovrebbero essere proprie di ciascun giurista, ecco perché il giurista non può non essere anche teorico del diritto. Tuttavia, è bene ribadirlo, anche il teorico del diritto non può non essere giurista, non può teorizzare intorno ad un oggetto che ignora o conosce superficialmente. Preciso che in queste pagine introduttive le nozioni di “filosofia del diritto” e di “teoria del diritto” sono state usate in maniera equivalente, senza con ciò voler sostenere che la filosofia del diritto debba esaurirsi nella teoria del diritto. Sui vari modi di intendere la filosofia del diritto e la teoria del diritto, nonché le loro relazioni e differenze reci-proche v. R. Guastini, Introduzione alla teoria del diritto, in id., Dalle fonti alle norme, Torino,

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Tra teoria e dogmatica18

parato di concetti tipico del filosofo del diritto per commentare sia la dottrina, sia la giurisprudenza. Al contrario è proprio mettendo in luce l’uso disinvolto, apodittico o inappropriato di tali concetti (per gli scritti in oggetto, solo per citarne alcuni: lacuna del diritto, principio del dirit-to, interpretazione sistematica, analogia, ratio legis) che si può criticare efficacemente la giurisprudenza e la dottrina, indicando, per esempio, una incongruenza tra il fine dichiarato e il mezzo usato per perseguirlo o che la conclusione raggiunta non è l’unica compatibile con le premesse poste, come magari asserito, e nemmeno quella più coerente con esse, oppure facendo emergere i presupposti etico-politici (volontariamente o involontariamente) non dichiarati delle scelte interpretative compiute da giuristi e giudici.

ecco perché gli scritti qui proposti hanno una salda giustificazione teorico-giuridica e si legano senza fratture e disarmonie, pur se alcuni di essi sono nati al di fuori di uno stretto contesto di teoria del diritto. detto in altri termini: pure dall’esame dei discorsi della dottrina e del-la giurisprudenza, praticando il “gioco” della critica giurisprudenziale e del confronto dottrinale, è possibile affrontare le questioni fondamentali e centrali della filosofia del diritto, senza sfuggire ad esse. ciò che rileva è farlo omettendo di trascurare il diritto positivo e i discorsi di chi con esso e su di esso lavora9.

Giappichelli, 1992, pp. 281-293; più di recente V. ViLLa, Il positivismo giuridico: metodi, teorie e giudizi di valore. Lezioni di filosofia del diritto, Torino, Giappichelli, 2004, pp. 33-43; P. Chias-soni, L’utopia della ragione analitica. Origini, oggetti e metodi della filosofia del diritto positivo, Torino, Giappichelli, 2005, specie pp. 82-104.

9 Per la distinzione tra problemi fondamentali e centrali della filosofia del diritto v. M. JoRi-a. PintoRe, Manuale di teoria generale del diritto, Torino. Giappichelli, 1995, p. 119: «Pos-siamo, in altre parole, chiamare problemi centrali di una disciplina […] quelli che incontria-mo ineluttabilmente nell’affrontare qualunque altro problema, senza che essi siano peraltro il punto di partenza e il fondamento filosofico delle domande e delle risposte: questi punti di partenza sono invece le soluzioni dei problemi fondamentali. Questa distinzione non riguarda solo i problemi di conoscenza e descrizione (epistemologici), ma anche quelli di valore, cioè etico-politici».

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SULLA nOziOne di “inTeRPReTAziOne GiURidicA cORReTTA”

soMMaRio: 1. L’interpretazione giuridica corretta: avvertenze preliminari. – 2. interpretazione giuridica corretta e teorie dell’interpretazione. – 3. interpretazione giuridica corretta e argomenti interpretativi. – 4. interpretazione giuridica corretta e gerarchie normative.

1. L’interpretazione giuridica corretta: avvertenze preliminari

Sfogliando le riviste ed i repertori di giurisprudenza1 è piuttosto age-vole rintracciare espressioni del tipo «secondo una corretta interpretazio-ne», «in base all’interpretazione corretta»2, oppure nella giurisprudenza costituzionale l’espressione «la corretta interpretazione delle disposizio-ni censurate alla luce della costituzione»3. non vi sono, quindi, grosse difficoltà ad accreditare l’importanza della questione della correttezza dell’interpretazione giuridica per giudici e giuristi. Altrettanto si può dire per gli scritti di teoria del diritto nei quali il tema della correttezza dell’in-terpretazione giuridica o meglio dell’interpretazione giuridica “corretta” si presenta, infatti, complesso e controverso: è un tema complesso perché lo si può esaminare da più di una prospettiva e anche da diverse impo-stazioni filosofiche4; è controverso perché, qualsiasi prospettiva si scelga, le soluzioni in campo sono molteplici. La questione può essere riassunta in due interrogativi: esiste un’interpretazione giuridica corretta? e quali sono i criteri della correttezza? Tuttavia, indipendentemente dalla pro-spettiva adottata, per poter almeno abbozzare una risposta agli interro-gativi appena posti, è necessario chiarire, preliminarmente, le nozioni di “interpretazione giuridica” e di “correttezza” rilevanti per il prosieguo. entrambe le nozioni appena menzionate sono assunte in questo breve

1 Si impone subito una precisazione: le considerazioni avranno ad oggetto l’interpreta-zione di quel particolare atto giuridico denominato “legge” e non anche l’interpretazione degli altri atti giuridici.

2 cass. civ., 25 gennaio 2002, n. 15105, in Nuova giur. civ. comm., i, 2003, p. 66; cass. pen., 24 ottobre 2001, n. 3383, in Cass. pen., 2003, p. 957.

3 V. per tutte c. cost., 7 maggio 2002, n. 170, in Giur. cost., 2002, p. 1400. 4 cfr. da ultimo d. CanaLe, Forme del limite nell’interpretazione giudiziale, Padova,

cedam, 2003, passim, e spec. pp. 132-148.

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saggio in un significato sufficientemente ampio, in maniera tale da con-sentire di non restringere eccessivamente lo spettro dell’indagine.

La nozione di interpretazione giuridica assunta come punto di par-tenza è la seguente: l’interpretazione giuridica consiste nella determina-zione di significato delle formulazioni normative. L’interprete formula, a conclusione del procedimento interpretativo, uno o più enunciati in-terpretativi del tipo «la formulazione normativa S significa F»5. Per quel che riguarda la nozione di correttezza (dell’interpretazione), v’è da dire che nella letteratura giusfilosofica, e di teoria dell’interpretazione in spe-cie, essa si presenta con molteplici significati e si sovrappone, a seconda dei casi, alle nozioni di “unica interpretazione”, “interpretazione giusta”, “interpretazione preferibile alle altre”, “interpretazione accettabile o am-missibile”. È necessario tener conto di questi molteplici usi, poiché la sovrapposizione (parziale o totale) tra “interpretazione giuridica corret-ta” ed una o più delle locuzioni prima richiamate, dipende dalla teoria dell’interpretazione giuridica che si assume, e quindi, dipende, in gran parte, da cosa si intende per “determinazione del significato delle formu-lazioni normative”. A parte la rilevanza che l’interpretazione giuridica corretta assume per le teorie dell’interpretazione, è arduo individuare tutti gli altri ambiti d’indagine rilevanti.

Ve ne sono di certo due dei quali ci si deve occupare. Bisogna conside-rare, infatti, che il significato delle formulazioni normative è determinato sulla base di (o meglio: è giustificato per mezzo di) argomenti interpreta-tivi, per cui anche l’esame del ruolo da essi svolto nell’interpretazione giu-ridica si rivela importante per affrontare il tema oggetto di questo breve saggio. È per mezzo degli argomenti interpretativi, infatti, che si giustifi-cano gli enunciati interpretativi, si spiega, cioè, per quali ragioni la formu-lazione normativa S significa F6. Bisogna considerare, inoltre, l’incidenza che le gerarchie normative hanno o possono avere sulla configurazione

5 Sulla nozione di enunciato interpretativo, inteso come enunciato riguardante il signi-ficato di enunciati normativi, cfr. R. Guastini, Enunciati interpretativi, in Ars Interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica, 1, 1997, pp. 35-52. come il lettore avrà notato, nel testo si usa il sintagma “formulazione normativa” e non “enunciato normativo”; la scelta è dovuta al fatto che l’oggetto dell’interpretazione giuridica può essere costituito da uno oppure da più enun-ciati normativi: la nozione di formulazione normativa è in grado di ricomprendere entrambe le ipotesi.

6 Scrive Riccardo Guastini, in id., Il diritto come linguaggio. Lezioni, Torino, Giappi-chelli, 2001, p. 131: «Un discorso interpretativo […] si può ritenere che normalmente […] includa […] una conclusione interpretativa, cioè un enunciato secondo il quale un certo testo giuridico (una formulazione normativa) deve essere inteso in un dato senso; nonché […] un insieme di argomenti interpretativi, cioè di argomenti che si adducono a sostegno di quella conclusione interpretativa».

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dell’interpretazione giuridica corretta, ciò in ragione dell’attenzione pre-stata a questo profilo sia dai teorici del diritto, sia dalla giurisprudenza.

Quanto si è detto sin qui ci indica il percorso da seguire: mettere in relazione il tema che ci occupa con le teorie dell’interpretazione, con gli argomenti interpretativi e con le gerarchie normative, ponendo in rilievo soprattutto, ma non solo, le molteplici accezioni assunte dalla nozione “interpretazione giuridica corretta”.

2. Interpretazione giuridica corretta e teorie dell’interpretazione

È ben noto, che il dibattito intorno all’interpretazione giuridica vede, ancora oggi, impegnate molteplici teorie (o meglio gruppi di teorie)7. nella recente letteratura si è soliti distinguere tre teorie dell’interpretazio-ne giuridica: formalista, scettica, mista o intermedia; questa tripartizione è però, problematica, specie per le finalità perseguite con questo scritto. La costruzione del terzo polo della teorie miste o intermedie, polo nell’al-veo del quale si riconducono tutte le teorie non radicalmente formaliste o scettiche, oppure tutte le teorie non solo formaliste o non solo scettiche, non consente un’adeguata trattazione del problema dell’interpretazione giuridica corretta, e per tale ragione non è opportuno seguirla8. invece

7 Si veda, nella letteratura di lingua italiana, le sintesi del dibattito fornite da P. Chias-soni, L’interpretazione della legge: normativismo semiotico, scetticismo, giochi interpretativi, in Studi in memoria di Giovanni Tarello, ii, Saggi teorico-giuridici, Milano, Giuffrè, 1990, pp. 121-161; C. Luzzati, Teoria e metateoria dell’interpretazione giuridica, in Sociologia del diritto, i, 1993, pp. 7-50; P. CoManduCCi, L’interpretazione delle norme giuridiche. La problematica attua-le, in M. bessone (a cura di), Interpretazione e diritto giudiziale, i, Torino, Giappichelli, 1999, pp. 1-20; con particolare, ma non esclusivo riguardo alla filosofia ermeneutica f. VioLa-G. zaCCaRia, Le ragioni del diritto, Bologna, il Mulino, 2003, specie pp. 211 ss.

8 La tripartizione riportata nel testo ha avuto notevole diffusione specie a partire da h. L. a. haRt, The Concept of Law, Oxford, Oxford University Press, 1961, trad. it. Il concetto di diritto, Torino, einaudi, 1965, cap. Vii. nella letteratura italiana vedi per tutti, R. Guastini, Le fonti del diritto e l’interpretazione, Milano, Giuffrè, 1993, cap. XXiV e id., Dalle fonti alle norme, Torino, Giappichelli, 1992, pp. 108-112. nel testo si è preferito parlare di gruppi di teo-rie e non semplicemente di teorie dell’interpretazione, poiché si tratta di molteplici teorie rag-gruppabili sulla base di un dato omogeneo. A tal proposito, infatti, non manca chi preferisce sostituire alla tripartizione una quadripartizione, che risulta in effetti euristicamente efficace, perlomeno con riguardo al tema che ci occupa, distinguendo tra cognitivismo, cognitivismo moderato, scetticismo e scetticismo moderato, il riferimento è a e. diCiotti, Verità e certezza nell’interpretazione della legge, Torino, Giappichelli, 1999, specie pp. 78-88, e 70-77 per ciò che concerne la correttezza dei giudizi interpretativi, cioè dei giudizi espressi per il tramite degli enunciati interpretativi. Le considerazioni compiute nel testo si ispirano alla quadripartizione citata, anche se con alcune variazioni concettuali e lessicali di non poco conto, quale quella relativa all’opportunità di non usare la parola “cognitivismo”, ma di continuare a seguire il più consolidato uso del termine “formalismo”.

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di individuare due poli estremi, quello formalista e quello scettico, per poi ricondurre (in maniera un po’ troppo indistinta) nel calderone delle teorie miste o intermedie tutto il resto, per i nostri scopi è preferibile procedere in maniera diversa, articolando il discorso su due poli, quello formalista e quello scettico, evidenziandone però più versioni, tra loro omogenee per alcuni versi, ma differenti per altri versi. Questo modo di procedere, ci permette di cogliere con maggior puntualità il rapporto che ciascuna teoria intrattiene con il problema dell’interpretazione giuridica corretta, mettendo bene in luce se ci sia ed eventualmente quale sia il criterio di correttezza adottato da ogni versione9.

della tesi formalista in campo interpretativo si danno almeno due versioni, a seconda che si ponga l’accento sul profilo semantico o sull’e-sito del procedimento interpretativo. Approfondiamo questa distin-zione. Secondo una prima ricostruzione la tesi formalista si risolve in una precisa teoria semiotica, per la quale le parole hanno un significato univoco e di conseguenza determinare il significato delle formulazioni normative vuol dire “individuare” il solo significato che la formulazio-ne esprime. Seguendo questa impostazione v’è, quindi, un’interpreta-zione corretta, ed è quella che coincide con il significato “univoco”, “proprio”, “letterale”, della formulazione normativa10. Un interprete formalista tratteggiato in siffatta maniera esprimerebbe enunciati inter-pretativi del tipo «la formulazione F significa S e solo S», sostenendo che ciò avviene in ragione del significato univoco, proprio, letterale delle parole. ne consegue, che qualsiasi significato attribuito alla formulazio-ne normativa F che non sia S determina un’interpretazione “non corret-ta”, o, per meglio dire, non è un’interpretazione di quella formulazione normativa (nell’esempio F).

in ambito teorico giuridico si parla di formalismo, a volte etichettato come “moderato”, o neoformalismo interpretativo anche per indicare

9 il che non significa che la tripartizione sia poco efficace sul piano ricostruttivo in senso assoluto, ma si ritiene lo sia in ragione delle specifiche finalità di questo scritto, tanto che anche chi scrive ha la tripartizione, cfr. V. VeLLuzzi, Interpretazione sistematica e prassi giurisprudenziale, Torino, Giappichelli, 2002, pp. 44-58.

10 Scrive in proposito M. JoRi, Formalismo giuridico, in Dig. disc. priv., Viii, Torino, Utet, 1992, p. 430: «il nocciolo di queste concezioni […] è comunque l’assunto che sia possibile giungere a soluzioni definitive ed esatte nell’interpretazione del diritto […] tradotto nei ter-mini appropriati di una teoria semiotica, questo assunto non può che corrispondere alla tesi, semioticamente stravagante, che ogni enunciato giuridico possiede, da solo o in congiunzione con altri, un unico significato proprio ovvero corretto». Le nozioni di significato “univoco”, “proprio”, “letterale” sono tutte controverse e non perfettamente sovrapponibili, ma qui posso solo fare questo cenno, rinviando in proposito ai saggi contenuti in V. VeLLuzzi (a cura di), Significato letterale e interpretazione del diritto, Torino, Giappichelli, 2000.

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quella teoria che, da un lato ammette l’indeterminatezza del linguaggio (cioè la vaghezza dei significati e l’ambiguità degli enunciati), e dall’al-tro sostiene che c’è una sola interpretazione corretta (vale a dire un risultato interpretativo, tra quelli determinabili, da preferire agli altri). Seguendo questa impostazione, quindi, l’interpretazione corretta non è legata all’idea che vi sia un solo, univoco significato sul piano semanti-co, ma, al contrario, si ammette l’imprecisione o la pluralità dei signifi-cati, pur ritenendo che ve ne sia uno “giusto”, “preferibile”, “migliore” degli altri11. Un formalista o neoformalista di tal fatta esprimerebbe, dunque, enunciati interpretativi del tipo «la formulazione normativa F può significare S, R, M, ma S è il solo significato»; S si pone come il significato corretto della formulazione F in ragione di uno o più crite-ri, criterio/i caratterizzato/i in maniera diversa dai vari autori12. R e M sono significati attribuibili alla formulazione normativa F, ma si tratta di significati “non corretti”.

Volendo riassumere quanto detto, si può individuare nella tesi forma-lista un nucleo comune alle due impostazioni esaminate: per ogni formu-lazione normativa v’è un solo significato corretto determinabile; solo che in un caso il significato è corretto poiché è l’unico veicolato dalle parole; nel secondo caso è l’unico significato corretto in virtù di uno o più criteri, pur essendo determinabili altri significati per quella formulazione nor-mativa13. così ricostruito, il nucleo concettuale del formalismo interpre-tativo risiede nell’individuazione di una sola interpretazione corretta, ma è ben chiaro, che all’interno dell’impostazione delineata si hanno teorie differenti in ragione del diverso criterio di determinazione della “corret-tezza” adottato.

Anche dello scetticismo interpretativo si possono individuare almeno due versioni, solitamente denominate scetticismo interpretativo estremo

11 Ammette, cioè, che per ogni formulazione normativa vi possano essere più risultati interpretativi, ma sostiene pure che tra questi uno solo è il significato corretto (o giusto, unico, preferibile etc.).

12 L’allusione è, ad esempio, alla nota posizione di Ronald dworkin, espressa e articolata dall’autore a più riprese, per il quale l’unica soluzione interpretativa corretta è individuabi-le grazie ai principi, ad onta della presenza di problemi di indeterminatezza del linguaggio. Si veda in particolare R. dwoRkin, Law’s Empire, cambridge Mass., Harvard University Press, 1986, trad. it. L’impero del diritto, Milano, il Saggiatore, 1989. Sul pensiero di dworkin e sul-le sue evoluzioni si rinvia ad a. sChiaVeLLo, Il diritto come integrità. Incubo o nobile sogno?, Torino, Giappichelli, 1998.

13 È bene ribadire ulteriormente questo punto. Per la prima versione del formalismo esposta, per F si dà solo il significato S, qualsiasi non S non è un significato ascrivibile ad F. Per la seconda tesi formalista, invece, per F si danno più significati ascrivibili (tra cui S), ma S è l’unico significato corretto.

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(o radicale o scetticismo tout court) e scetticismo interpretativo mode-rato14.

Un primo modo di caratterizzare la tesi scettica nel campo dell’inter-pretazione giuridica è strettamente correlato allo scetticismo in campo semiotico15. Lo scettico (estremista o radicale) sul piano interpretativo sostiene, infatti, che l’interprete può attribuire ad una formulazione nor-mativa qualunque significato. detto in altri termini, gli enunciati (e le parole che li compongono) avrebbero il significato attribuito loro da chi li esprime. Qualsiasi significato può essere il significato di una formulazione normativa, per cui alla formulazione normativa F possono essere attribu-iti indifferentemente i significati S, M, R, Z, …. n. da questa prospettiva la questione della correttezza dell’interpretazione perde ogni interesse, poiché o tutte le interpretazioni sono corrette, o forse non ha addirittura senso porsi la questione della correttezza dell’interpretazione giuridica16.

Un secondo modo di caratterizzare la tesi scettica sostiene che il lin-guaggio giuridico ha dei difetti che connotano in senso discrezionale l’in-terpretazione giuridica. chiariamo meglio questo punto. Lo scetticismo moderato ritiene che il linguaggio sia affetto da problemi di indetermina-tezza, ritiene cioè che gli enunciati siano ambigui e che i significati siano vaghi. L’indeterminatezza del linguaggio fa sì che l’attività dell’interprete sia discrezionale ma non arbitraria, ritiene che all’interprete si presen-ti sempre una possibilità di scelta tra molteplici soluzioni interpretative possibili, dato che è chiamato a risolvere l’ambiguità e/o a ridurre la va-ghezza e tutti gli esiti interpretativi sarebbero tra loro equivalenti. Sottesa a tali considerazioni v’è dunque l’idea che il linguaggio, per quanto difet-toso, sia in una certa misura strumento efficace di comunicazione, oppure che vi siano dei criteri (non necessariamente regole linguistiche) in grado di delimitare le interpretazioni possibili di una formulazione normativa. insomma, lo scetticismo moderato fornisce un’immagine decisamente discrezionale dell’interpretazione giuridica, ma ne esclude l’arbitrarietà. Assumendo questa prospettiva, quindi, per la formulazione normativa F vi sono più soluzioni interpretative, ed ognuna è una “interpretazio-ne corretta”, ma l’ambito delle interpretazioni possibili è delimitato. ne consegue che non v’è alcun criterio idoneo rendere una delle inter-

14 nel lessico di alcuni autori la parola “scetticismo” è sostituita con la parola “realismo” (cfr. infra nota 18), così come il termine “formalismo” è talvolta sostituito dal termine “cogni-tivismo” (cfr. retro nota 8).

15 Per il vero, anche dello scetticismo semiotico esistono più versioni, per una sintesi si veda u. sCaRPeLLi-C. Luzzati, Compendio di filosofia del diritto, Torino, Giappichelli, 2000, pp. 79-82.

16 cfr. R. Guastini, Il diritto come linguaggio. Lezioni, cit., pp. 131-132.

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pretazioni possibili “più corretta” delle altre: le varie interpretazioni cor-rette sono equivalenti17.

il dato comune delle due varianti dello scetticismo interpretativo esa-minate consiste nell’escludere che per una formulazione normativa vi sia una sola interpretazione corretta, ma si hanno, invece, più soluzioni inter-pretative. nel caso dello scetticismo estremo, però, tutto ciò che decide l’interprete in ordine al significato di una formulazione normativa è co-munque corretto, mentre in base alla seconda impostazione (scetticismo moderato) l’ambito delle interpretazioni possibili è delimitato, e soltanto gli esiti interpretativi compresi in questo ambito sono corretti18.

Riguardo ai rapporti tra interpretazione giuridica corretta e teorie dell’interpretazione resta da fare un’ultima osservazione riguardante i gravi difetti, da più parti segnalati, in cui incorrono il formalismo e lo scetticismo nelle loro versioni più radicali. il primo (formalismo) trascu-ra, tra gli altri, i problemi degli enunciati e del loro significato, ad esempio l’ambiguità e la vaghezza, la cui rilevanza è pacifica da tempo negli ambiti della semiotica e della filosofia del linguaggio. il secondo (scetticismo) finisce col negare la possibilità di qualsiasi comprensione per mezzo del linguaggio, il che è poco plausibile e produrrebbe un esito paradossa-le, nel senso che lo scettico dovrebbe giungere, per ragioni di coerenza, a negare la stessa possibilità che si comprenda la sua posizione scettica.

A dire il vero, però, si può dubitare del fatto che formalismo e scet-ticismo nella versione estrema siano stati effettivamente sostenuti. Per quanto le semplificazioni storiografiche siano rischiose, si può asse-rire che la gran parte degli esponenti della Scuola dell’esegesi, indicati come paradigma del formalismo, sostenessero, ad esempio, la necessità dell’interpretazione letterale in quanto fedele espressione dell’intenzio-

17 A tal proposito è d’obbligo menzionare h. keLsen, Reine Rechtslehre, Wien, Franz deuticke Verlag, 1934, trad it. Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino, einaudi, 1952, pp. 120-121: «Se per “interpretazione” si intende la constatazione del senso della norma […] allora il senso di questo atto può essere soltanto la constatazione dello schema che rappresenta la norma da interpretare, e, con ciò, il riconoscimento delle varie possibilità che sono date entro questo schema. in conseguenza l’interpretazione della legge non deve condurre neces-sariamente a un’unica decisione come la sola esatta, bensì, possibilmente, a varie decisioni che hanno tutte il medesimo valore in quanto corrispondono alla norma da applicarsi». Questa posizione è stata ribadita da Kelsen nell’edizione del 1960, ove si trova esplicitata la nota di-stinzione tra interpretazione autentica e scientifica.

18 È evidente che la versione moderata dello scetticismo è suscettibile di assumere mol-teplici varianti, vale a dire tante varianti quanti sono i criteri di delimitazione delle interpre-tazioni possibili adottati, si veda per una esemplificazione M. baRbeRis, Filosofia del diritto. Un’introduzione teorica, Torino, Giappichelli, 2003, p. 219. Sullo scetticismo interpretativo, denominato però realismo, si veda di recente R. Guastini, Realismo e antirealismo nell’inter-pretazione, in Ragion pratica, 17, pp. 43-52.

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ne del legislatore, ma questa è ben altra cosa dall’assecondare la prima versione del formalismo sopra riportata19. Allo stesso modo, gli esponen-ti del realismo americano, accreditati come gli scettici per antonomasia, hanno affermato soprattutto la centralità dell’interpretazione giudiziale per comprendere cosa è il diritto (o cosa è diritto), ma dubito che sia ascrivibile loro la prima forma di scetticismo menzionata20. non stupisce allora, che il dibattito odierno in tema di interpretazione giuridica sia in-terno alle versioni moderate del formalismo e dello scetticismo, versioni suscettibili di molteplici articolazioni e varianti ed è proprio su questo terreno che la questione della correttezza dell’interpretazione giuridica acquista un particolare interesse.

3. Interpretazione giuridica corretta e argomenti interpretativi

Gli argomenti interpretativi sono dei procedimenti discorsivi per mezzo dei quali si giustifica una determinata interpretazione, si spiegano le ragioni per le quali si è attribuito un certo significato ad una formula-zione normativa, si spiega, cioè, perché alla formulazione normativa F si è attribuito il significato S. Quali e quanti siano gli argomenti dell’in-terpretazione è questione difficile da stabilirsi, nel senso che in ogni or-dinamento giuridico sovente si strutturano delle convenzioni in ordine al “come” giustificare le interpretazioni, e gli argomenti sono, quindi, sche-mi argomentativi basati su convenzioni. ne consegue che l’ammissibilità di un certo argomento interpretativo in una data comunità giuridica e la sua forza retorica rispetto agli altri argomenti, possono variare dal punto di vista diacronico per lo stesso sistema e dal punto di vista sincronico da sistema a sistema. Vi possono essere, cioè, regole che stabiliscono se un determinato schema argomentativo sia un argomento dell’interpretazio-ne spendibile e regole relative alla gerarchia tra gli argomenti ammessi21.

19 Sul punto, in maniera però parzialmente difforme, cfr. G. taReLLo, La scuola dell’Ese-gesi e la sua diffusione in Italia, in id., Cultura giuridica e politica del diritto, a cura di R. Guastini e G. Rebuffa, Bologna, il Mulino, 1988, pp. 78-79.

20 Una recente raccolta antologica di saggi di alcuni esponenti del realismo americano è quella curata da s. CastiGnone, C. faRaLLi, M. RiPoLi, Il diritto come profezia: il realismo americano, Torino, Giappichelli, 2002.

21 Bisogna tener conto dell’eventuale presenza di norme scritte disciplinanti l’interpre-tazione (per il nostro ordinamento l’art. 12, comma 1°, delle Preleggi), anche se la presenza di tali norme non conduce ipso facto ad asserire l’esclusiva rilevanza dei criteri interpretativi in essa dettati, in quanto: le stesse norme sono sottoposte ad interpretazione (con gli stessi criteri in essa indicati?) ed i criteri possono risultare incerti e/o le soluzioni interpretative in ordine ad essi molteplici; una possibile interpretazione può essere anche quella di ritenere che la pre-

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Alcuni teorici del diritto hanno compiuto un tentativo di ricognizione ed hanno variamente classificato gli argomenti interpretativi22. Per lo scopo di questo saggio tali questioni possono essere lasciate sullo sfondo, ciò che rileva sono i due seguenti profili: a) di regola i giuristi ed i giudici giustificano la determinazione di significato delle formulazioni giuridiche per mezzo di argomenti interpretativi, cioè di procedimenti discorsivi il cui uso è radicato nella comunità giuridica alla quale giuristi e giudici ap-partengono; b) così configurati gli argomenti interpretativi, risulta chiaro che possono esservi molteplici rapporti tra argomenti interpretativi e in-terpretazione giuridica corretta.

Ora si tratta di approfondire il punto b), punto, per il vero, com-plesso, nel senso che a seconda del ruolo assegnato agli argomenti inter-pretativi si può ricostruire un diverso rapporto tra questi e la questione dell’interpretazione giuridica corretta. Per un verso si può affermare, ad esempio, che i significati ascrivibili ad una formulazione normativa siano tutti quelli giustificabili per mezzo degli argomenti interpretativi ammessi in una data comunità giuridica, significati che sarebbero quindi tutti cor-retti. Per l’altro verso si può sostenere, invertendo l’ordine di rilevanza appena espresso, che gli argomenti interpretativi ammessi sono solo quel-li che consentono di giustificare un determinato risultato interpretativo, ad esempio quello conforme all’intenzione del legislatore, che sarebbe quindi l’unico corretto. Le soluzioni prospettabili sono molteplici, ben più ampie di quelle ora segnalate.

ciò che preme esporre, seppur in poche battute, non è l’intero qua-dro delle soluzioni prospettabili, bensì una ben determinata proposta sul ruolo svolto dagli argomenti interpretativi nell’interpretazione giuridica, in modo tale da indicare una accezione di interpretazione giuridica cor-

senza di norme di tal fatta non escluda l’operatività di altre fonti degli argomenti interpretativi, ma sia concorrente con essa.

22 Riguardo alla nozione ed al censimento degli argomenti si veda per tutti P. Chiassoni, La giurisprudenza civile. Metodi d’interpretazione e tecniche argomentative, Giuffrè, Milano, 1999, pp. 475 ss., ove si trova scritto che l’analisi argomentativa comprende «un catalogo di schemi argomentativi, o argomenti-tipo […] il catalogo di argomenti-tipo serve a identificare gli argomenti effettivamente utilizzati […] l’utilità euristica del catalogo dipende, di conse-guenza, dalla sua ampiezza, articolazione, e adeguatezza all’esperienza giuridica sulla quale si indaga o nella quale si opera». Alcuni degli argomenti tipizzati più di frequente nelle opere sull’interpretazione giuridica sono quelli: letterale, a contrario, a fortiori, dell’intenzione del legislatore, della coerenza del dettato legislativo, della conformità ai principi del diritto, della costanza del significato, della sedes materiae. La classificazione degli argomenti interpretativi più articolata è ancora quella di G. taReLLo, L’interpretazione della legge, Milano, Giuffrè, 1980, pp. 341 ss.; meno articolata, ma di notevole interesse è la classificazione proposta di re-cente da e. diCiotti, Interpretazione della legge e discorso razionale, Torino, Giappichelli, 1999, pp. 323-330.

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retta da preferire alle altre. Si tratta di una riflessione ancora allo stato embrionale, bisognosa di approfondimenti e modifiche, ma che si innesta nel contesto dell’analisi dei rapporti tra interpretazione giuridica corretta e argomenti interpretativi e per questa ragione viene proposta al lettore.

il quadro all’interno del quale ci si colloca è quello dello scetticismo moderato, si prendono le mosse, cioè, dal convincimento che l’interpre-te si trovi di fronte a più soluzioni interpretative, ma l’ambito di queste ultime sia delimitato23. Ma in qual senso può dirsi delimitato l’ambito delle soluzioni interpretative per una determinata formulazione nor-mativa? Per rispondere all’interrogativo è opportuno introdurre alcune distinzioni. Muovendo dall’assunto, problematico ma diffusamente con-diviso, che per interpretare è necessario conoscere la lingua nella quale è espressa la formulazione normativa. conoscere la lingua significa, di conseguenza, conoscerne le regole di funzionamento, ed allora si può af-fermare che il primo ambito a venire in questione è l’ambito dei significati possibili. Questo ambito (sincronicamente determinato e diacronicamen-te mutevole) è dato dai significati determinabili in base alle regole della lingua. Al primo ambito appena indicato se ne affianca un altro che può caratterizzarsi come un sotto-ambito o può sovrapporsi perfettamente al precedente: è l’ambito dei significati giuridicamente ammissibili, ed è anch’esso sincronicamente determinato e diacronicamente mutevole. Si tratta dell’insieme dei significati giustificabili per mezzo di uno o più argomenti dell’interpretazione ammessi nella comunità giuridica. ne se-gue, per usare una terminologia in voga tra i teorici del diritto, che tutti i casi sono per qualche verso difficili, poiché comportano una scelta di-screzionale dell’interprete, ma al contempo, tutti i casi sono per qualche verso facili, poiché si tratta pur sempre di una scelta compiuta tra più soluzioni delimitate24.

Seguendo questa terminologia qualsiasi significato giuridicamente ammissibile è anche corretto, nel senso che non può essere considera-to come un significato non ascrivibile ad una determinata formulazio-ne normativa. Può esservi, è vero, un’interpretazione che è, in maniera contingente per uno o più interpreti, “più corretta” delle altre, cioè più convincente, preferibile etc., ma siffatta interpretazione non esclude

23 con l’espressione “più soluzioni interpretative” non ci si riferisce al solo fenomeno dell’ambiguità, che è solo eventuale e si ha quando un enunciato è in grado di esprimere più significati, ma anche, se non soprattutto, alla vaghezza, fenomeno inevitabile che riguarda la precisione dei significati. L’interprete, infatti, opera discrezionalmente non solo quando scio-glie l’ambiguità, ma specie quando riduce la vaghezza.

24 La terminologia “casi facili” e “casi difficili” risale ad Hart ed è entrata copiosamente in uso nella letteratura giusteorica contemporanea, si veda retro nota 8.

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la correttezza delle altre, non è, cioè, l’unica interpretazione giuridica-mente fondata, è soltanto la “migliore” del lotto delle interpretazione corrette in quel dato momento per quell’interprete, ma, per così dire, non una volta per tutte25. Quest’ultimo profilo della gerarchia tra gli argomenti interpretativi è particolarmente delicato e sarebbe meritevole di approfondimento. in ogni caso ciò che importa sottolineare qui è la preferenza per una nozione di interpretazione giuridica corretta corre-lata all’ambito dei significati giuridicamente ammissibili, cioè dei signi-ficati giustificabili in base ad uno o più argomenti dell’interpretazione. Anzi, in tal modo la correttezza e l’ammissibilità giuridica dell’interpre-tazione finiscono col coincidere. Si tratta, probabilmente, di una nozione debole o minima di interpretazione giuridica corretta, poiché il ruolo della correttezza non consiste nell’accreditare un significato come pre-feribile (in termini assoluti) agli altri, bensì nel tracciare il novero dei significati che l’interprete non può non considerare giuridicamente am-missibili. Uno dei punti critici della nozione di interpretazione giuridica corretta delineata risiede nel far dipendere la correttezza dal livello di cogenza delle convenzioni su cui si fondano gli argomenti interpretativi: più quest’ultimo si abbassa, più la correttezza diviene impalpabile ed evanescente, più si innalza e più sostanziosa diviene la nozione di inter-pretazione giuridica corretta.

25 Può accadere che la forza retorica di una data interpretazione sostenuta con uno o più argomenti dell’interpretazione sia più elevata della forza retorica di altre interpretazioni giuridicamente ammissibili in ragione di una convergente opinione della gran parte degli in-terpreti, oppure che una data interpretazione sia semplicemente la preferita di quell’interprete senza che quest’ultimo si uniformi alla tendenza prevalente in quel momento. detto altrimenti: è possibile che si instauri una gerarchia convenzionale tra gli argomenti, ma non è detto che l’interprete la segua in ogni occasione. Per quello che riguarda la giurisprudenza, v’è da dire che a volte i giudici si riferiscono all’interpretazione corretta associandovi l’uso di più argo-menti interpretativi, si veda ad esempio cass. pen., Sez. Unite, 31. 5. 1993, n. 13, in Rivista penale, 2000, p. 785: «d’altra parte, per una corretta interpretazione della norma, il canone semantico deve essere integrato con gli altri criteri ermeneutici»; altre volte, invece, ritengono corretta l’interpretazione conforme (o “più” conforme) a costituzione, denominata interpre-tazione adeguatrice, si veda tra le tante cass. pen., 21. 1. 2000, n. 4957, in Rivista trimestrale di diritto penale dell’economia, 2000, p. 793; oppure ritengono corretta l’interpretazione letterale (si veda cass. pen., 15. 10. 1996, n. 5293, in Cassazione Penale, 1997, p. 1058). non mancano poi sentenze dal tenore piuttosto criptico, ove si parla di «interpretazione corretta e sistematica» senza che si comprenda se sia il ricorso al criterio sistematico a determinare la correttezza dell’interpretazione, oppure se l’interpretazione corretta si raggiunga grazie ad altri criteri interpretativi e poi possa (debba?) essere corroborata anche dal criterio sistematico (si veda Tar Umbria, 4. 6. 1998, n. 639, in Rassegna giuridica umbra, 1999, 630).

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4. Interpretazione giuridica corretta e gerarchie normative

Rimane da affrontare, come preannunciato all’inizio del saggio, il rap-porto tra interpretazione giuridica corretta e gerarchie normative.

Teorici del diritto e costituzionalisti hanno individuato molteplici tipi di gerarchie normative, ma non tutti i tipi di rapporto gerarchico individuati nelle varie ricostruzioni sono rilevanti per l’interpretazione giuridica26.

Procediamo con ordine.Si possono distinguere quattro gerarchie normative: a) strutturali;

b) di validità c) metalinguistiche; d) assiologiche27. Le prime (strutturali) intercorrono tra le norme sulla produzione giuridica e le norme la cui produzione è da quelle regolata. così se una norma x regola la produzio-ne della norma y, si può dire che x gerarchicamente sovraordinata ad y in senso strutturale. Le seconde (gerarchie di validità) intercorrono tra due norme, supponiamo le norme x e y, allorché è previsto che la norma x sia invalida se in conflitto con la norma y, come accade nei sistemi giuridici a costituzione rigida per le norme di rango legislativo, le quali sono invalide se in contrasto con la costituzione. Le gerarchie metalinguistiche si hanno quando una norma x verte su un’altra norma y in quanto la menziona, come accade, ad esempio, per le norme che dispongono l’abrogazione rispetto alle norme abrogate. Si ha gerarchia assiologica tra due norme allorché l’interprete attribuisce ad una di esse particolare valore, supe-riore al valore dell’altra pur trovandosi sul medesimo piano gerarchico (di validità). La peculiarità delle gerarchie assiologiche sta nell’essere isti-tuite dall’interprete, come accade, per fare un esempio, ogni volta che una norma contenuta in un codice (penale, civile, etc.), viene ritenuta “fonda-mentale”, “basilare”, per un certo ambito disciplinare, e così facendo vie-

26 Giovanni Tarello, ad esempio, individua tre tipi di gerarchie normative: tra fon-ti, strutturali e di competenza (cfr. G. taReLLo, L’interpretazione della legge, cit., cap. Vii). Si ha gerarchia tra fonti quando la fonte inferiore è invalida se in conflitto con la fonte superio-re; la gerarchia strutturale riguarda norme dello stesso livello allorché l’interprete attribuisce a talune norme la funzione di reggere l’attribuzione di significato ad altre norme, oppure è il legislatore a dettare norme che vertono su altre norme; si ha gerarchia di competenza quando un organo può produrre norme disciplinanti una determinata materia secondo una competen-za attribuitagli.

27 Si segue l’impostazione delineata da R. Guastini, Gerarchie normative, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1997, pp. 463-486, modificando in parte la terminologia su indicazione di Mario Jori. nel saggio di Guastini, infatti, al fianco delle gerarchie strutturali e assiologiche si trovano quelle materiali e logiche che in queste pagine si è preferito denominare “di validità” e “metalinguistiche”. Riguardo a queste ultime v’è da dire che lo stesso Guastini le ha di recente denominate “logiche o linguistiche”, cfr. R. Guastini, Il diritto come linguaggio, cit., p. 92.

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ne sovraordinata assiologicamente rispetto alle norme dello stesso codice relative al medesimo ambito disciplinare (per esemplificare: non esiste alcuna gerarchia di validità tra la norma di cui all’art. 1175 del codice civile e le altre norme in tema di obbligazioni, eppure quella norma viene ritenuta caratterizzante l’intero ambito disciplinare delle obbligazioni). Solitamente queste norme assurgono al rango di principio, in una delle molteplici accezioni che la parola può assumere. V’è da dire, inoltre, che di regola, ma non sempre come si è appena segnalato, le gerarchie assio-logiche riflettono gerarchie di validità (alle norme costituzionali, specie in regime di costituzione rigida, si attribuisce anche un particolare valore28).

Orbene, un modo diffuso, specie nel lessico della giurisprudenza29, di trattare dell’interpretazione corretta, è strettamente connesso alle ge-rarchie di validità ed a quelle assiologiche. Si sostiene, infatti, che nell’in-terpretare si debba evitare la formazione di antinomie, ne deriva che ove si stia interpretando una formulazione normativa bisogna assegnare ad essa un significato, tra quelli determinabili, non contrastante con una norma di rango gerarchico superiore30. Va chiarito però che la nozio-ne di “significato non contrastante” con la norma di rango superiore, che si tratti di una gerarchia di validità o di una gerarchia assiologica o che si presentino entrambe congiuntamente, può essere intesa, e sovente viene intesa, in due modi31. da un lato si ritiene che il significato non contrastante sia quello che non produce, anzi evita, un’antinomia, come si è appena detto. L’interpretazione corretta sarebbe, quindi, quella de-terminazione di significato di una formulazione normativa che evita il formarsi di un’antinomia32. in una seconda accezione il significato non contrastante non sarebbe semplicemente quello non antinomico, bensì il significato che consente la migliore “attuazione” o “valorizzazione”

28 V’è da dire che di solito, ma non sempre, le gerarchie strutturali e quelle di validità vanno in coppia, come per il caso delle norme costituzionali che regolano il procedimento di formazione delle leggi.

29 il riferimento è a molte delle sentenze interpretative di rigetto della corte costituzio-nale.

30 È chiaro che ciò presuppone che si sia già interpretata la formulazione normativa di rango superiore, e che si sia assunto il significato attribuitole come parametro di valutazione dell’interpretazione della formulazione normativa di rango inferiore. Per questo si è parlato direttamente di norma e non di formulazione normativa di rango gerarchico superiore.

31 ne segue che si hanno anche due accezioni di interpretazione adeguatrice, si veda retro, nota 25.

32 Sulle antinomie o incompatibilità tra norme è sufficiente richiamare a. Ross, On Law and Justice, London, Stevens & Sons, 1958, trad. it Diritto e giustizia, Torino, einaudi, 1965, p. 122: «esiste una incompatibilità tra due norme quando effetti giuridici incompatibili sono riferiti alla stessa fattispecie».

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della norma di rango gerarchico superiore. così ragionando l’interpreta-zione corretta della formulazione normativa di rango gerarchico inferio-re sarebbe quella che, per così dire, ottimizza i contenuti della norma di rango gerarchico superiore33.

33 Per approfondimenti ed esemplificazioni su questo punto e con particolare riguardo all’interpretazione sistematica mi sia consentito rinviare a V. VeLLuzzi, Interpretazione sistema-tica e prassi giurisprudenziale, cit., pp. 149-154.

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SUi RAPPORTi TRA L’inTeRPReTAziOne SiSTeMATicA deLLA LeGGe e deGLi ATTi GiURidici

soMMaRio: 1. Premessa. – 2. note sull’interpretazione sistematica della legge. – 3. L’ermeneutica contrattuale e l’art. 1363 c.c.: il contratto come testo-sistema. – 4. Segue… il sistema del documento testamentario e la sua interpretazione. – 5. L’atto amministrativo, il procedimento e l’interpretazione. – 6. il sistema del provvedimen-to giurisdizionale.

1. Premessa

i contributi di teoria del diritto recenti e più risalenti in tema di in-terpretazione giuridica sono, come noto, moltissimi. il tentativo di com-piere una rassegna della sola letteratura italiana, pur limitando l’indagi-ne al secolo scorso, rischierebbe con buona probabilità di risultare par-ziale, in ragione della vastità del panorama letterario in materia e dell’in-teresse manifestato in proposito dai giuristi esperti di singole discipline, oltreché dai filosofi del diritto1.

ciò nonostante, solo in rare occasioni ci si imbatte in opere che trat-tino congiuntamente dell’interpretazione della legge e di altri documenti di rilevanza giuridica, quali il contratto, l’atto amministrativo ed altri an-cora2. V’è infatti, da parte di giuristi e teorici del diritto, la tendenza per un verso a ritenere che ove si parli di interpretazione giuridica sia la leg-ge l’oggetto principale, se non proprio esclusivo, dell’indagine; per altro

1 Per un censimento della letteratura italiana del novecento sull’interpretazione giuri-dica di indirizzo analitico ed ermeneutico si veda V. fRosini, La lettera e lo spirito della legge, Milano, 1998, pp. 169-185. Una aggiornata bibliografia anche di contributi stranieri si trova nei volumi di e. diCiotti, Interpretazione della legge e discorso razionale, Torino, 1999, e c. Luzza-ti, L’interprete e il legislatore. Saggio sulla certezza del diritto, Milano, 1999, nonché nei saggi di vari autori contenuti in V. VeLLuzzi (a cura di), Significato letterale e interpretazione del diritto, Torino, 2000.

2 Fanno eccezione e. betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1949, rist. 1971; di recente tra i testi di teoria del diritto F. VioLa-G. zaCCaRia, Diritto e interpreta-zione. Lineamenti di una teoria ermeneutica del diritto, Roma – Bari, 1999, specie pp. 294-320; limitatamente all’atto amministrativo M.S. Giannini, L’interpretazione dell’atto amministrativo e la teoria generale dell’interpretazione, Milano, 1939; con riferimento al contratto e dedicando-vi un solo capitolo c. GRassetti, L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, Padova, 1938, rist. con appendice 1983, pp. 61-91.

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verso a ritenere che nello studio dell’interpretazione di altri documenti giuridici (nel lessico dei giuristi denominati “atti giuridici”) non sia uti-le, opportuno o più semplicemente che non sia importante l’uso delle tecniche e degli strumenti elaborati per l’interpretazione della legge.

Pur senza avere la pretesa di proporre una teoria generale dell’inter-pretazione valida sia per le formulazioni legislative sia per altri oggetti dell’attività interpretativa3, e senza voler discutere a fondo i problemi tecnici relativi a questi ultimi per affrontare i quali servono competenze specifiche4, con queste pagine si intende contrastare la tendenza posta in rilievo.

Più in particolare, valorizzando l’indicazione di un autorevole filo-sofo del diritto5, si ritiene che sia possibile fare teoria dell’interpretazio-ne per gruppi di oggetti dell’interpretazione; così procedendo i singoli oggetti dell’interpretazione giuridica (per ciò che ci riguarda la legge ed alcuni atti giuridici), possono essere raggruppati a partire dalla con-siderazione di un elemento comune, di un dato rilevante che autorizzi la trattazione congiunta dell’interpretazione (nel nostro caso di quella sistematica) dei singoli oggetti.

Per ciò che concerne le pagine che seguono l’elemento comune as-sunto come rilevante al fine di giustificare la trattazione del profilo er-meneutico sistematico della legge, del contratto, del testamento, dell’at-to amministrativo e della sentenza è costituito dal fatto che tutti questi sono documenti normativi, testi scritti dotati di rilevanza giuridica6 (è

3 Percorso seguito da e. betti, Teoria generale dell’interpretazione, vol. i e ii, Milano, 1955.

4 non v’è da parte di chi scrive l’intento di invadere sfere di competenza altrui, ma è bene ricordare che il filosofo del diritto non è altro dal giurista, ma è un giurista tra i giuristi, per cui la trattazione, se pur elementare, di temi tipici del diritto civile o amministrativo non deve stupire. Sul ruolo del filosofo del diritto cfr. L. GianfoRMaGGio, Il filosofo del diritto e il diritto positivo, in G. zaCCaRia (a cura di), Diritto positivo e positività del diritto, Torino, 1991, p. 7: «un filosofo del diritto che non studi il diritto non è un “mero filosofo del diritto”: semplicemente non è un filosofo del diritto. La filosofia è dentro e non accanto al conoscere ed all’operare del giurista».

5 il riferimento è a G. taReLLo, L’interpretazione della legge, in Trattato dir. Civ. e comm. Cicu e Messineo, Milano, 1980, p. 19.

6 È bene sottolineare che la dicotomia tra interpretazione della legge e di altri docu-menti di rilevanza normativa, comunemente denominati nel lessico dei giuristi “atti giuridici”, è dovuta anche all’adozione di una particolare teoria della norma giuridica (ed in alcuni casi dell’ordinamento giuridico). Se si ritiene infatti che le norme giuridiche abbiano, o debbano avere, i requisiti della generalità (disciplina di una classe di fattispecie) ed astrattezza (possibi-lità di osservanza o esecuzione ripetuta), è ovvio che, di regola, contengono norme giuridiche le sole leggi e non anche i contratti, i provvedimenti amministrativi o le sentenze dei giudici: da ciò deriverebbe la necessità di differenziare l’interpretazione della legge. Ma siffatta impo-stazione non è l’unica possibile. nella letteratura teorico generale v’è chi si è autorevolmente

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ovvio che il criterio di collegamento indicato vale solo per i contratti re-datti per iscritto).

La breve trattazione che segue è relativa, come anticipato poco so-pra, alla sola interpretazione sistematica, vale a dire agli argomenti dell’interpretazione ad essa ricollegabili.

il saggio ha la seguente struttura: nel primo paragrafo verrà chiarita la nozione di interpretazione sistematica della legge e sarà proposta una classificazione degli argomenti dell’interpretazione ad essa riconducibili, raggruppati per tipi omogenei; nei paragrafi successivi la classificazione elaborata verrà “messa alla prova” avendo riguardo all’interpretazione sistematica del contratto, del testamento, dell’atto amministrativo e della sentenza.

L’obiettivo, modesto, che si vuole conseguire è porre in rilievo, per sommi capi, in che modo dottrina e giurisprudenza trattino dell’inter-pretazione sistematica e degli atti giuridici in questione e se vi sia con-nessione, somiglianza tra le posizioni ricostruite ed uno o più tipi elabo-rati in ordine alle formulazioni legislative.

2. Note sull’interpretazione sistematica della legge

È banale ricordare con quanta vivacità sia dibattuto il tema dell’in-terpretazione giuridica: non essendo questa la sede per soffermarvisi compiutamente 7, è opportuno solo fornire una definizione di interpre-

espresso a favore di un concetto di “norma giuridica” molto ampio, in modo da farvi rientrare anche precetti di rilevanza giuridica singolari e concreti (cfr. H. keLsen, Teoria generale del diritto e dello stato, trad. it. Milano, 1952, pp. 125 ss.). da questa prospettiva legge e contratto, ad esempio, appartengono al medesimo genere: la norma giuridica (sul concetto di norma giuridica, sulle relazioni con le diverse concezioni delle fonti del diritto e per gli opportuni richiami bibliografici cfr. R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, in Trattato dir. civ. e comm. Cicu e Messineo, Milano, 1998, pp. 15-78). È noto, tra l’altro, che non sempre le leggi, intese in senso formale quali atti adottati da certi organi secondo determinate procedure, presentano i caratteri della generalità e della astrattezza (è il fenomeno delle leggi provvedimento su cui c. MoRtati, Le leggi provvedimento, Milano, 1968). Ma v’è di più. Può accadere che i contratti, ad esempio, presentino, almeno, il carattere della astrattezza: è il caso del contratto normativo, categoria nella quale rientrano, per alcuni, i contratti collettivi di lavoro, con il quale le parti determinano il contenuto di eventuali contratti che potranno concludere in futuro tra loro. Sull’interpretazione dei contratti normativi si veda il contributo di A. GentiLi, Sull’interpreta-zione dei contratti normativi, in Contratto e impresa, n. 3, 1999, pp. 1162-1193.

7 Si possono riscontrare diversi concetti, varie teorie (formalista, realista, intermedia), molteplici approcci (analitico, ermeneutico). Su tutti questi profili, inevitabilmente intrecciati tra loro, si è cimentata una sconfinata letteratura, si rinvia per una sintesi del dibattito contem-poraneo ed ulteriori indicazioni a H.L.A. haRt, Il concetto di diritto, trad. it. Torino, 1965, cap. Vii; A. MaRMoR (eds), Law and Interpretation. Essay in Legal Philosophie, Oxford, 1995, passim;

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tazione giuridica, il più possibile ampia e condivisa a prescindere dalla varietà degli approcci e delle teorie, per concentrare poi l’attenzione su-gli argomenti dell’interpretazione e su quelli sistematici in particolare. infatti, ciò che interessa per il nostro discorso sono i canoni, o tecniche, o argomenti sistematici dell’interpretazione.

L’interpretazione giuridica consiste nella determinazione del signifi-cato di formulazioni ed enunciati normativi compiuta da un soggetto-interprete. La stessa interpretazione si compie tramite l’uso di canoni o tecniche o argomenti8, i quali costituiscono il “mezzo” di determinazio-ne del significato delle formulazioni normative, o meglio di collegamen-to tra attività interpretativa e giustificazione del risultato cui si giunge9. i canoni interpretativi servono ad esplicitare discorsivamente le ragioni per le quali per una o più formulazioni normative si è determinato un certo significato. Gli argomenti dell’interpretazione consistono dunque in “discorsi” con i quali vengono addotte ragioni a sostegno di un deter-minato prodotto interpretativo10.

Su quali e quanti siano i canoni dell’interpretazione giuridica non v’è concordia11, in quanto si basano su regole convenzionali per l’accerta-

P. CoManduCCi, L’interpretazione delle norme giuridiche. La problematica attuale, in M. bessone (a cura di), Interpretazione e diritto giudiziale, vol. i, Torino, 1999, pp. 1-20; e. diCiotti, Verità e certezza nell’interpretazione della legge, Torino, 1999, pp. 1-88; P. Chiassoni, La giurisprudenza civile. Metodi di interpretazione e tecniche argomentative, Milano, 1999, pp. 475-648; R: Guasti-ni, Dalle fonti alle norme, Torino, 1992, pp. 101-126; F. VioLa-G. zaCCaRia, Diritto e interpreta-zione, cit., passim; R. aLexy, voce Interpretazione giuridica, in Enc. Scienze sociali, Roma, 1996, pp. 64 ss; U. sCaRPeLLi, L’interpretazione. Premesse alla teoria dell’interpretazione giuridica, in U. sCaRPeLLi-V. toMeo, Società norme e valori. Studi in onore di Renato Treves, Milano, 1984, pp. 141-165.

8 nel testo si usano indifferentemente i termini canoni, argomenti, tecniche dell’inter-pretazione intendendoli come sinonimi.

9 È bene precisare che le ragioni per le quali si ottiene un determinato prodotto in-terpretativo possono non essere esplicitate; oppure se argomentate non coincidono necessa-riamente con il processo intellettuale seguito dall’interprete nel compimento dell’attività; sul punto da ultimo e. diCiotti, Verità e certezza nell’interpretazione della legge, cit., p. 62 «così come il risultato interpretativo può essere o non essere esplicitato discorsivamente, an-che l’attività interpretativa può trovare o non trovare una testimonianza nel discorso. Se trova una testimonianza di questo genere, la trova in una argomentazione interpretativa».

10 i canoni interpretativi consentono così di controllare il risultato interpretativo at-traverso l’analisi dei ragionamenti che sostengono la proposta di una certa determinazione di significato, si vedano in proposito G. taReLLo, L’interpretazione della legge, cit., p. 67 e G. GaVazzi, Elementi di teoria del diritto, Torino, 1984, p. 77.

11 Lo segnala di recente R. aLexy, Teoria dell’argomentazione giuridica, trad. it. Milano, 1998, p. 185: «i canoni dell’interpretazione sono stati oggetto di discussione sin dai tempi di Savigny. Tutt’ora non v’è accordo in ordine al loro numero, al loro contenuto, ordine gerarchi-co e valore», si vedano anche pp. 193-196 per i richiami della letteratura tedesca in materia. da notare che lo studio delle tecniche interpretative è stato prerogativa prevalente, se non

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mento delle quali si pongono gli stessi delicati problemi relativi all’ac-certamento di qualsiasi altra consuetudine e convenzione12. classificarli e censirli è dunque difficile13, ma tra i molti censimenti proposti ricor-rono con costanza, assieme al sempre presente criterio letterale, canoni definiti “sistematici”, in quanto rivolti alla realizzazione, è banale sot-tolinearlo, dell’interpretazione sistematica14, intesa come determinazione di significato nella quale si deve tener presente la relazione tra la formu-lazione normativa e un qualche sistema.

È necessario soffermarci su quest’ultima nozione, molto usata ma vaga e ambigua15, e sui canoni interpretativi ad essa ricondotti. Si no-

proprio esclusiva, degli studiosi di impostazione analitica, ma non degli autori di ispirazione ermeneutica (nel senso di traduzione filosofica ermeneutica. nel corso della trattazione si userà il termine ermeneutica/o nel meno impegnativo e generico significato di interpretazione).

12 È ovvio che ove siano presenti norme che regolano l’interpretazione alcuni argomenti trovano fondamento in norme espresse e statuite. nel nostro ordinamento giuridico hanno avuto esplicito riconoscimento nell’art. 12, comma primo, delle disposizioni preliminari al codice civile, l’argomento del significato proprio delle parole e l’argomento dell’intenzione del legislatore. Senza indugiare su questo tema, l’analisi del quale ci condurrebbe troppo lontano, è sufficiente sottolineare che la presenza di norme regolanti l’interpretazione non necessaria-mente riduce la discrezionalità o agevola il lavoro dell’interprete, non fosse altro perché esse stesse debbono essere interpretate. in proposito si rinvia per i più ampi ragguagli a G. GoRLa, I precedenti storici dell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile del 1942 (un problema di diritto costituzionale?), in Foro it., V, 1969, cc. 112-132; R. Guastini, Le fonti del diritto e l’in-terpretazione, in Tratt. Dir. Priv. Iudica e Zatti, Milano, 1993, pp. 396-397; interessanti spunti critici in L. Mossini, Il significato proprio delle parole e l’intenzione del legislatore, in Riv. dir. civ., 1972, ii, pp. 330-358.

13 Si vedano i censimenti compiuti da c. PeReLMan, Logica giuridica, nuova retorica, trad. it. Milano, 1979, pp. 96-106, ove si riprende la classificazione elaborata a più riprese da Tarello e riproposta dallo stesso nella voce Argomenti interpretativi, in Dig. disc. priv., Sez. civ., vol. i, Torino, 1987, pp. 419-422; un’altra lista degli argomenti si trova in R. Guastini, Distinguendo. Studi di teoria e metateoria del diritto, Torino 1996, pp. 172-193; tra le opere più risalenti R. saC-Co, Il concetto di interpretazione del diritto, Torino, 1947, p. 70, il quale fornisce un inventario sui generis, non ripreso da autori successivi, indicando: canoni basati sulla conoscenza della lingua; della storia; del diritto comparato; del diritto naturale; del dato sociologico; dello scopo della norma e del sentimento dell’uguaglianza giuridica.

14 L’interpretazione sistematica era già presente nella nota quadripartizione dei canoni interpretativi proposta da F.c. Von saViGny, Sistema del diritto romano attuale, trad. it. Torino, 1886, pp. 215 ss.

15 d’altronde la nozione non è mai stata particolarmente approfondita. Si vedrà tra poco che vi sono spesso accenni brillanti, ma frammentari; già negli anni sessanta, nell’unica monografia tutt’ora esistente sul tema, Giorgio Lazzaro scriveva che «Può stupire il fatto che invero poca attenzione prestino alla cosiddetta interpretazione sistematica le numerose monografie, di autori italiani e stranieri, dedicate all’interpretazione in genere o al metodo della scienza giuridica» (così G. LazzaRo, L’interpretazione sistematica della legge, Torino, 1965, p. 1). Si è detto che quello di Lazzaro costituisce, almeno in italia, il solo contributo monografico in argomento. invero di recente sono stati pubblicati due lavori di V. itaLia, L’interpretazione sistematica delle norme e dei valori, Milano, 1993, cui ha fatto seguito L’interpretazione sistematica delle regole giuridiche, Milano, 1997, in buona parte riassuntivo del precedente,

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terà infatti che sotto l’etichetta d’“interpretazione sistematica” vengono ricondotti molteplici argomenti interpretativi e le ricostruzioni presenti nella letteratura sono le più varie16. Al fine di elaborare una ricostruzio-ne soddisfacente dei canoni sistematici è indispensabile in via prelimina-re procedere ad una breve, e necessariamente incompleta, rassegna delle posizioni presenti in teoria del diritto.

Giorgio Lazzaro17 sostiene che il sintagma “interpretazione sistemati-ca” designa due procedimenti interpretativi. in primo luogo il procedi-mento interpretativo nel quale una norma viene interpretata tenendo in considerazione il contenuto di altre norme. in secondo luogo il proce-dimento interpretativo nel quale una norma viene interpretata alla luce della posizione che occupa nell’insieme degli enunciati normativi all’in-terno del quale è collocata. il primo procedimento si rifà, secondo Laz-zaro, all’idea che il diritto, il sistema giuridico, sia coerente18; il secondo all’idea che il legislatore disponga gli enunciati normativi secondo un certo ordine.

in un testo belga sull’interpretazione19 opera di François Ost e Mi-chel Van de Kerchove si trova una classificazione delle direttive, così come si esprimono gli autori, sistematiche dell’interpretazione, le quali vengono distinte in intrinseche ed estrinseche. Mentre l’unica direttiva sistematica estrinseca è la sedes materiae (rilevanza della collocazione dell’enunciato normativo), sono direttive sistematiche intrinseche la coe-renza (o sistematicità formale), la congruenza (o sistematicità funziona-le) e la costanza terminologica. Le direttive intrinseche hanno a fonda-mento l’idea che il legislatore sia un soggetto razionale e che esprima la sua razionalità nel non emanare norma logicamente contraddittorie, nel proseguire scopi omogenei, nell’utilizzare parole con significato co-stante. La sedes materiae, unica direttiva estrinseca, avrebbe invece altro fondamento, ma gli autori in questione non si preoccupano di indicare quale sia.

dedicati al tema che ci occupa. in realtà l’autore si limita a trattare dei condizionamenti interpretativi derivanti dai rapporti gerarchici tra norme nell’ordinamento italiano.

16 Tutte le ricostruzioni hanno in comune, lo si è già accennato, solo il riferimento ad una generica nozione di “sistema”, inteso come insieme di elementi connessi in maniera rilevante tra loro. Altre e più strette relazioni non è dato riscontrare. Sulle varie accezioni che il termine “sistema” ha assunto nel pensiero giuridico moderno e contemporaneo cfr. M. baRbeRis, L’evo-luzione nel diritto, Torino, 1998, pp. 143 ss., e letteratura ivi citata.

17 G. LazzaRo, L’interpretazione sistematica della legge, cit., passim.18 Va sottolineato che l’autore usa il termine coerenza in due diversi significati: assenza

di contraddizioni logiche da un lato; congruenza teleologica dall’altro.19 F. ost-M. Van de keRChoVe, Entre la lettre et l’esprit, Bruxelles, 1989, pp. 56-63.

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Giovanni Tarello20 riconduce all’interpretazione sistematica i canoni della costanza terminologica (impiego di un termine ad opera del legi-slatore sempre col medesimo significato), topografico o della sedes mate-riae (rilevanza della collocazione dell’enunciato nel discorso legislativo), dogmatico (uso dei concetti dogmatici nell’interpretazione) e tratta in maniera autonoma il canone della coerenza (che consiste nell’evitare la formazione di antinomie, di contraddizioni logiche tra norme).

La rilevanza nell’interpretazione dei concetti elaborati dalla dottrina (detti appunto concetti o costruzioni della dogmatica giuridica21) è po-sta in rilievo anche da altri autori. Secondo Aulis Aarnio22, infatti, sono sistematici gli argomenti delle costruzioni dogmatiche e della coerenza (intesa come assenza di contraddizioni logiche tra norme). Alexander Peczenik23 ritiene sistematici, oltre all’argomento dell’uso delle costru-zioni concettuali operate dalla dogmatica giuridica, i canoni dell’uso di una norma per interpretarne un’altra e del riferimento al sistema della legge nella quale è inserito l’enunciato da interpretare24.

Luigi Lombardi Vallauri25, nel suo Corso di filosofia del diritto ritiene che l’interpretazione sia sistematica «se interpreta quella norma esten-dendosi alla considerazione congiunta di altre norme»; è chiaro, pro-segue l’autore, che si può estendere in varia misura «ed è per attirare l’attenzione su questa possibilità di scelta […] del punto dove fermarsi, che ho suddiviso […] l’interpretazione sistematica in parziale e totale». L’interpretazione è dunque parziale se si prendono in considerazione solo alcune norme; è totale se si interpreta tenendo conto, per così dire, dell’intero o di gran parte dell’ordinamento giuridico.

Robert Alexy26, prendendo le mosse da una nozione molto ampia di interpretazione, in grado di comprendere le tipiche operazioni di inte-grazione del diritto, tratta dell’interpretazione sistematica nei seguenti termini. Gli argomenti sistematici sono tutti rivolti ad assicurare la coe-renza (nelle molte accezioni del termine) del sistema giuridico e possono

20 G. taReLLo, L’interpretazione della legge, cit., pp. 375-378.21 Sulle costruzioni della dogmatica cfr. G. LazzaRo, Storia e teoria della costruzione

giuridica, Torino, 1965.22 a. aaRnio, The Rational as Reasonable, dordrecht, 1987, pp. 126-128.23 a. PeCzenik, On Law and Reason, dordrecht, 1989, p. 384.24 da notare, per questo autore, l’uso di formule piuttosto generiche.25 L. LoMbaRdi VaLLauRi, Corso di filosofia del diritto, Padova, 1981, p. 64. nella stes-

sa pagina l’interpretazione sistematica viene contrapposta a quella settoriale che consiste «nell’interpretare la norma con se stessa».

26 il riferimento è ad R. aLexy, voce Interpretazione giuridica, cit., p. 68. nella nota opera Teoria dell’argomentazione giuridica, cit., p. 190, l’autore aveva individuato come sistematici i soli canoni della sedes materiae e della coerenza in senso stretto.

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essere suddivisi in otto sottogruppi. il primo sottogruppo comprende gli argomenti che assicurano la coerenza in senso stretto: essi mirano a far sì che le norme siano interpretate in modo tale da evitare la forma-zione di antinomie. il secondo sottogruppo è costituito dagli argomenti “contestuali”, relativi alla collocazione della norma ed alle sue relazioni con altre norme. il terzo sottogruppo riguarda l’uso dei concetti dog-matici a fini interpretativi. Al quarto sottogruppo sono riconducibili gli argomenti relativi ai principi di diritto. il quinto sottogruppo è forma-to da canoni (integrativi) che consentono il completamento del sistema giuridico (il principale è l’analogia). Sesto, settimo e ottavo sottogruppo comprendono argomenti che non fanno riferimento a norme, ma ad al-tri elementi rilevanti. Si tratta in particolare di canoni riferibili alla rile-vanza dei precedenti giudiziali, del momento storico in cui si interpreta al fine di garantire la coerenza della dimensione temporale (sono parole, per il vero un po’criptiche, usate dallo stesso Alexy), di altre esperienze giuridiche (argomenti comparativi).

Le ricostruzioni delle tecniche sistematiche dell’interpretazione ri-portate peccano però o per eccesso o per difetto. Tutte infatti, tranne quella di Alexy, tendono ad escludere dal novero degli argomenti siste-matici alcuni canoni interpretativi, in quanto tenendo conto soltanto di alcuni dei possibili significati del termine “sistema”, riducendone ecces-sivamente la rilevanza nel processo interpretativo, pervengono al risulta-to di trascurare canoni che hanno a che fare con una qualche nozione di sistema tenuta presente dall’interprete e quindi rilevante nel compimen-to della sua attività, oppure non specificano in maniera chiara i caratteri peculiari delle diverse tecniche. Queste ricostruzioni si rivelano per un verso parziali, per altro verso generiche.

Alexy, invece, non distinguendo tra interpretazione e integrazio-ne27, dilata eccessivamente il campo degli argomenti sistematici, inclu-dendovi sia canoni interpretativi, sia canoni integrativi, molto eteroge-nei tra loro.

È bene allora prendere le mosse da una ricostruzione priva dei difetti accennati che consenta, tra l’altro, di chiarire meglio alcuni concetti sin qui menzionati, ma non adeguatamente trattati.

27 Per quanto il confine tra interpretazione e integrazione risulti in alcuni casi incerto e di difficile individuazione, è bene tenere le due operazioni distinte: “interpretare” vuol dire determinare il significato di un testo normativo; “integrare” vuol dire fare qualche cosa di più e di diverso dalla determinazione di significato di un testo, ad esempio colmare le lacune e risolvere le antinomie: si tratta di operazioni che presuppongono l’interpretazione. Sul punto da ultimo e. diCiotti, Interpretazione della legge e discorso razionale, cit., pp. 451 ss.

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Per quanto a mia conoscenza il censimento più accurato e articola-to è quello compiuto da Riccardo Guastini28: prendiamolo a base della trattazione. Guastini distingue i seguenti argomenti sistematici.

Argomento del combinato disposto, in base al quale una formula-zione normativa è interpretata “in combinazione”, in connessione con altre. invero, lo si vedrà poco oltre sotto l’etichetta del combinato di-sposto si celano molteplici operazioni interpretative sistematiche e non, al punto da far seriamente dubitare che la formula indichi uno specifico canone dell’interpretazione.

Argomento della costanza terminologica, secondo il quale il legisla-tore impiega un termine o un sintagma sempre come il medesimo signi-ficato. in base a questo canone si ritiene che nell’ambito di uno o più testi normativi o dell’insieme dei testi normativi dell’ordinamento un termine abbia un significato costante, in quanto il legislatore opera co-me soggetto razionale sul piano linguistico29.

Argomento della incostanza terminologica, secondo il quale il signi-ficato di un termine o di un sintagma varia al variare del contesto in cui è inserito30.

Argomento delle costruzioni dogmatiche, in base al quale il significa-to dell’enunciato viene determinato a partire da un concetto elaborato dalla dogmatica31.

Argomento della coerenza, in base al quale si interpreta evitando la formazione delle antinomie. Questo canone interpretativo assume come rilevante la caratteristica della coerenza del sistema giuridico, dell’assen-za di contraddizioni logiche al suo interno.

Argomento della sedes materiae, o topografico, o della rilevanza della collocazione dell’enunciato normativo, in ragione del quale nell’inter-pretazione rileva la posizione della formulazione normativa in relazione all’ambito testuale in cui è collocata32.

28 R. Guastini, Le fonti del diritto e l’interpretazione, cit., pp. 388- 392.29 Un esempio ricorrente è dato dal termine “possesso” definito all’art. 1140 c.c. Si usa

l’argomento della costanza terminologica se si sostiene che “possesso” debba essere inteso nello stesso modo sia in ambito civile, sia in ambito penale.

30 Per cui la nozione di possesso rilevante in ambito penale è diversa da quella definita nel codice civile.

31 Si tratta in sostanza di adottare soluzioni interpretative che dipendono da preco-stituite costruzioni concettuali, calate dall’interprete sui testi normativi. Un esempio, noto e problematico, di costruzione della dogmatica giuridica è quello di negozio giuridico. Altro esempio di origine prevalentemente giurisprudenziale è dato dalla cosiddetta presuppo-sizione del contratto.

32 L’uso di tale argomento conduce ad attribuire rilevanza, ad esempio, alla sezione, al capo, al titolo in cui l’enunciato interpretando è collocato.

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Al censimento operato da Guastini è necessario aggiungere due ar-gomenti ulteriori: della congruenza e del riferimento o della peculiarità della materia regolata.

in base al primo nel compimento dell’attività interpretativa si assume come rilevante che il sistema giuridico tende a conseguire uno o più sco-pi tra loro “armonici”.

il secondo dipende dall’idea che nell’interpretazione si tenga conto della peculiarità della materia regolata.

Questi due ultimi argomenti sono entrambi legati all’uso dei princi-pi del diritto nell’interpretazione, ma sono connessi a due diversi modi di intendere i principi. con il primo canone si considerano i cosiddetti principi generali, caratterizzanti l’intero o gran parte dell’ordinamento, con il secondo ci si riferisce ai principi che caratterizzano soltanto un particolare ambito disciplinare o una certa materia33.

compiuta una ricognizione, seppur sommaria, della letteratura in te-ma di canoni sistematici dell’interpretazione e fornita una ricostruzione degli argomenti interpretativi che possono ritenersi sistematici, è neces-sario fare alcune considerazioni chiarificatrici, per poi procedere alla classificazione degli argomenti sistematici per tipi omogenei e cercare di valutarne l’utilità per l’interpretazione di alcuni atti giuridici.

nelle varie ricostruzioni proposte, inclusa la mia, i sistemi ai quali sono riferibili i vari canoni interpretativi sono molti, ed ognuno pre-senta caratteri peculiari. Se si rimane ancorati alla sola nozione più frequentemente assunta di sistema, inteso come insieme di elementi connessi tra loro in materia rilevante34, non si riesce a dar conto delle caratteristiche proprie dei molteplici argomenti sistematici dell’inter-

33 Accosta espressamente l’interpretazione sistematica ai principi del diritto P. PeRLin-GieRi, Il diritto civile nella legalità costituzionale, napoli, 1991, p. 201 ss. Ma com’è noto la nozione di principi del diritto è sia vaga, sia ambigua. Già alcuni anni or sono era stato autore-volmente notato che «i principi generali non costituiscono una categoria semplice ed unitaria, anzi con questa espressione si intendono spesso cose molto diverse» (n. bobbio, voce Principi generali del diritto, in Nov. Dig. It., vol. Xiii, Torino, 1966, p. 893). Qui interessa sottolineare che nella prassi e nelle opere di giuristi e teorici del diritto alla locuzione “principi del diritto” si associano norme dalle diverse caratteristiche. in particolare si definiscono principi sia le norme di particolare rilevanza per l’intero ordinamento (in ragione ad esempio della loro col-lazione gerarchica nel sistema delle fonti), sia le norme caratterizzanti un settore disciplinare o una materia (in ragione del “valore”, del peso assiologico ad esse attribuito). La letteratura sul tema è amplissima si rinvia per i necessari approfondimenti e richiami a R. Guastini, Dalle fonti alle norme, cit., pp. 112-121; M. atienza-J. Ruiz ManeRo, Tre approcci ai principi del dirit-to, in Analisi e diritto 1993, Torino 1994, p. 9 ss.; M. JoRi, I principi nel diritto italiano, in Soc. del dir., n. 2, 1983, pp. 7 ss.; L. PRieto sanCis, Sobre principios y normas, Madrid, 1992, specie cap. ii; A. GaRCia fiGueRoa, Principios y positivismo juridico, Madrid 1998, passim.

34 cfr. retro nota 16.

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pretazione. È di tutta evidenza, per esempio, che diversi sono i sistemi assunti come rilevanti dall’interprete nell’uso degli argomenti della coe-renza e della costanza terminologica. Si rende allora opportuno (ri)clas-sificare i canoni sistematici per tipi omogenei, in modo tale da porre in rilievo i caratteri comuni degli argomenti appartenenti al medesimo tipo e le differenze rilevanti tra i vari tipi. Questa operazione consente di individuare diverse “interpretazioni sistematiche” e il tratto caratte-ristico di ognuna di esse.

Si possono distinguere: a) interpretazione sistematico-teologica; b) interpretazione sistematico-testuale; c) interpretazione logico-sistema-tica; d) interpretazione sistematico-dogmatica. considerazione a parte merita il combinato disposto: nozione ambigua che sfugge ad una pun-tuale classificazione35 e non indica alcun specifico canone interpretativo.

a) il primo tipo (sistematico-teleologico) comprende gli argomen-ti della congruenza, del riferimento al settore disciplinare o alla materia regolata, dell’incostanza terminologica36. L’elemento che apparenta tut-ti i canoni menzionati risiede nel loro legame con il profilo teleologico, con le finalità, gli scopi, la ratio (o la rationes) delle norme giuridiche. Utilizzando una di queste tecniche dell’interpretazione si determina il significato delle formulazioni normative tenendo conto di un sistema costituito dalla ratio o dalle rationes di un gruppo di norme relative ad un ambito disciplinare, ad una materia, o all’ordinamento giuridico nel suo complesso. il sistema di riferimento può essere quindi più o meno ampio, ma è individuato dall’interprete avendo comunque riguardo al profilo teleologico37.

35 Si possono individuare non meno di tre accezioni di combinato disposto . in una pri-ma accezione per combinato disposto si intende, in maniera alquanto generica, l’interpretazio-ne effettuata combinando tra loro più enunciati normativi, o più parti del medesimo enunciato. così inteso, il combinato disposto non indica alcun particolare canone interpretativo. in una seconda accezione si fa riferimento al combinato disposto per indicare che il processo interpre-tativo è condizionato dalla presenza di gerarchie normative, per cui l’esito dell’interpretazione è il frutto della combinazione degli enunciati normativi sovraordinato e sotto ordinato. in una terza accezione la formula del combinato disposto evoca il problema delle presupposizioni lin-guistiche, vale a dire del rinvio, esplicito o implicito, che un enunciato normativo può operare ad altra formulazione normativa.

36 L’incostanza terminologica non è, come potrebbe apparire ad una prima analisi, cano-ne simmetrico all’argomento della costanza terminologica. Quest’ultimo, lo si vedrà tra poco, ha natura testuale. L’incostanza terminologica è invece caratterizzata dalla presenza di con-siderazioni di natura teleologica. Se si sostiene che un termine assume significato peculiare e diverso da quello ad esso attribuito in altro ambito, in ragione del contesto, si operano con-getture in ordine alle esigenze, alle finalità che il contesto medesimo porta con sé, esigenze e finalità che giustificano la diversa attribuzione di significato.

37 Un insieme di norme si dice congruente se, oltre ad essere privo di contraddizioni

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b) il secondo tipo (sistematico-testuale) comprende gli argomen-ti della costanza terminologica e della sedes materiae (o rilevanza della collocazione della formulazione normativa). il sistema di riferimento è, in questo caso, il testo normativo, o meglio il documento normativo inteso come “testo”, ovvero come sequenza di enunciati che stanno in relazione necessaria tra loro in modo da risultare coesi e coerenti sul piano linguistico38. il significato di ogni enunciato dipende dagli, ed allo stesso tempo condiziona gli, altri enunciati che lo precedono e lo seguono. L’insieme di enunciati componenti un testo costituisce quindi un discorso unitario39.

c) il terzo tipo (sistematico-logico) comprende il solo argomento della coerenza. Questo canone interpretativo ha a fondamento l’idea che il sistema giuridico debba essere privo di antinomie, di contraddi-zioni logiche tra norme e che queste ultime debbano essere prevenu-te per mezzo dell’interpretazione40. insomma, il sistema giuridico ca-ratterizzato come necessariamente coerente è il sistema di riferimento dell’interprete.

d) il quarto tipo (sistematico-dogmatico) comprende l’argomento

logiche, è “armonico”, “fa senso nel suo insieme”; sulla congruenza giuridica, cfr. n. MaCCoR-MiCk, La congruenza nella giustificazione giuridica, in P. CoManduCCi-R. Guastini, L’analisi del ragionamento giuridico, vol. i, Torino, 1987, pp. 243-255, più di recente K. kRess, Coherence, in d. PatteRson (eds), A Companion to Philisophy of Law and Legal Theory, London, 1996, pp. 533-552. Per la commissione tra interpretazione sistematica e teleologica, ricorrente nella letteratura, si veda per tutti K. enGisCh, Introduzione al pensiero giuridico, trad. it. Milano, 1970, pp. 120-121.

38 Su questi caratteri del testo cfr. M. L. aLtieRi biaGi, Linguistica essenziale, Milano 1995, pp. 285-294, specie p. 285 ove si trova scritto che «ciò che caratterizza una grammatica del testo è la possibilità di rendere conto di fenomeni che vanno al di là della misura sintattica della frase. Sono queste relazioni interfrasali che consentono […] di distinguere un testo da una qualsiasi giustapposizione di frasi».

39 Scrive in proposito U. VoLLi, Manuale di semiotica, Roma-Bari, 2000, pp. 72-74: «i segni sono sempre in relazione con altri segni, non esistono mai da soli […] è necessario dunque […] un oggetto di analisi più realistico […] Questa nozione allargata dell’oggetto della semiotica è il testo, che si può considerare come l’oggetto concreto di una comunicazione […] sufficientemente coerente ed autonomo per poter essere considerato come unitario». e anche c. SeGRe, Testo, in Dizionario di linguistica, diretto da G. L. Beccarla, Torino, 1996, pp. 721-722: «Su questa premessa si può avviare uno studio sulle connessioni del discorso al di sopra e al di là della frase […] Si tratta insomma di enucleare i legami contenutistici e formali che rendono compatta una successione di frasi indipendenti solo (e non sempre) dal punto di vista sintattico. intense perciò le ricerche di coerenza dei testi. È infatti evidente che in una succes-sione unitaria di frasi esistono legami che scavalcano i limiti delle frasi stesse; che una singola frase è spesso priva di significato se non viene messa in rapporto con quelle attigue».

40 Sulle antinomie sono ancora attuali le pagine di A. Ross, Diritto e giustizia, trad. it. Torino, 1965, pp. 122-125, ove la ben nota tripartizione delle antinomie: totale-totale, totale-parziale, parziale-parziale.

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delle costruzioni dogmatiche. in questo caso il sistema cui si riferisce l’interprete è dato dalla costruzione giuridica da lui stesso operata o mu-tuata da altri autori.

Ognuno dei tipi di interpretazione posti in rilievo comprende canoni sistematici, i quali però hanno alle spalle diversi sistemi di riferimento, presentano somiglianze e differenze sono tutti sistematici, ma rispondo-no a criteri diversi di sistematicità (teleologica, testuale, etc.).

Premesse queste note sull’interpretazione sistematica della legge è giunto il momento di mettere alla prova la classificazione proposta.

3. L’ermeneutica contrattuale e l’art. 1363 c.c.: il contratto come testo-sistema

La letteratura in tema di interpretazione del contratto è vastissima: sarebbe arduo, se non addirittura impossibile, renderne conto compiu-tamente in poche pagine41. È opportuno solo introdurre il tema in ragio-ne delle finalità del lavoro.

L’interpretazione del contratto consiste nella determinazione del si-gnificato giuridicamente rilevante del complesso di enunciati in cui si articola il contenuto contrattuale42, ed è disciplinata dal codice civile agli articoli da 1362 a 1371. Proprio il primo comma dell’art. 1362 c.c., il quale dispone che «nell’interpretazione del contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole», viene indicato come l’enunciato normativo basi-lare in tema di interpretazione del contratto.

41 Si vedano almeno c. GRassetti, L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, cit., per ciò che concerne il codice del 1865; per il codice vigente e. betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit, cap. XVii; G. Cian, Forma solenne ed inter-pretazione del negozio, Padova, 1969; V. Rizzo, Interpretazione dei contratti e relatività delle sue regole, napoli, 1985; L. biGLiazzi GeRi, L’interpretazione del contratto, in Codice civile commen-tario diretto da P. Schlesinger, artt. 1362-1371, Milano, 1991; c. sCoGnaMiGLio, Interpretazione del contratto e interessi dei contraenti, Padova, 1992; per una originale analisi dell’ermeneutica contrattuale alla luce di alcune categorie proprie della linguistica si veda n. iRti, Testo e con-testo, Padova, 1996; un panorama complessivo della dottrina italiana è tracciato nel volume curato sempre da n. iRti, L’interpretazione del contratto nella dottrina italiana, Padova, 2000; per una ampia rassegna di giurisprudenza si veda G. aLPa, G. fonsi, G. Resta, L’interpretazio-ne del contratto. Orientamenti e tecniche della giurisprudenza, Milano, 2001.

42 cfr. di recente A. CataudeLLa, I contratti. Parte generale, Torino, 2000, p. 138: «il discorso sull’interpretazione del contratto è strettamente collegato con quello sul conte-nuto perché, se il contenuto è costituito dal complesso di regole che le parti dettano per dare assetto ai propri interessi, lo strumento per individuare tali regole è la comprensione del senso dell’accordo».

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chiaramente, come per ogni altra formulazione normativa, e al pari quindi della disciplina legale dell’interpretazione delle formulazioni legi-slative, si pone il problema di dover determinare il significato delle stes-se formulazioni normative sull’interpretazione del contratto. e infatti si è discusso a lungo se “la comune intenzione delle parti” da ricercare con l’operazione ermeneutica debba essere intesa in concreto, quale volontà reale delle parti, oppure in senso oggettivo, avendo riguardo alla dichia-razione contrattuale (per ciò che ci riguarda a ciò che è stato espresso nel testo, nel documento)43. Quest’ultima impostazione sembra preva-lere in dottrina, ed è in effetti da preferire, per almeno una ragione fon-damentale: un’indagine sulla volontà concreta delle parti, sganciata dai possibili significati che le parole utilizzate nel testo contrattuale possono assumere, è destinata con molta probabilità al fallimento, in quanto è difficile se non impossibile risalire a ciò che due soggetti hanno voluto indipendentemente da ciò che hanno espresso, dichiarato, e non si ve-de quali strumenti sarebbero decisivi a tal fine senza ricondurre gli esiti dell’indagine ai possibili significati che il testo può esprimere. L’opera-zione ermeneutica è dunque rivolta a determinare la comune intenzione delle parti espressa nella dichiarazione contrattuale.

Oltre al primo comma dell’art. 1362, il codice civile dedica all’in-terpretazione altre formulazioni normative: il secondo comma dell’art. 1362 (relativo alla rilevanza del comportamento complessivo delle par-ti), e gli artt. da 1363 a 137144. Gli articoli in questione sono stati va-riamente classificati, nel senso che è stata individuata per un verso una

43 come si è già detto l’indagine è limitata ai contratti redatti per iscritto, restano esclusi i contratti che si traducono in dichiarazioni orali. La polemica appena segnalata nel testo è stata frutto della ben conosciuta contrapposizione tra due diverse teorie del negozio giuridico, categoria della quale il contratto ha costituito il caso paradigmatico: le teorie della volontà e della dichiarazione (per una sintesi si veda c. M. bianCa, Diritto civile, vol. iii, Il contratto, Mi-lano, 2000, pp. 16-39). da notare, inoltre, che così come per la disciplina legale dell’interpre-tazione della legge anche per il contratto si è posto il problema della natura derogabile o meno delle norme che ne regolano l’interpretazione, problema ormai risolto per ciò che concerne il contratto, sembra, a vantaggio della tesi della natura vincolante (in questo senso già G. oPPo, Profili dell’interpretazione oggettiva del negozio giuridico, Bologna, 1943, p. 162).

44 L’art. 1362, comma secondo dispone che «Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto»; dell’art. 1363, relativo alla interpretazione complessiva delle clausole, si dirà tra poco: l’art. 1364 riguarda le espressioni generali, l’art. 1365 le indicazioni esemplificative, l’art. 1366 riguarda il ruolo della buona fede (oggettiva), l’art. 1367 è espressione del principio di conservazione, l’art. 1368 è riferito alle pratiche generali interpretative, l’enunciato di cui all’art. 1369 riguarda le espressioni con più sensi; l’art. 1370 stabilisce la regola dell’interpreta-zione contro l’autore della clausola, ed infine l’art. 1371 stabilisce le cosiddette regole finali o di “chiusura” dell’interpretazione del contratto.

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caratteristica comune tra vari articoli al fine di raggrupparli in maniera omogenea, e per altro verso una gerarchia tra i diversi gruppi delineati45.

così si ritiene che gli articoli 1362, comma secondo, e da 1363 a 1365 siano rivolti all’individuazione della comune intenzione delle parti e che gli articoli da 1367 a 1371 siano invece sussidiari, entrino in gioco solo qualora, una volta utilizzati i criteri ermeneutici degli articoli prece-denti, rimanga ancora dubbio e incerto il significato delle dichiarazioni contrattuali46. Va segnalato, in proposito, senza avanzare la pretesa di affrontare l’argomento, che è stato, ed è a tutt’oggi, particolarmente vi-vace il dibattito intorno al ruolo svolto dall’art. 1366 riguardante l’inter-pretazione secondo buona fede del contratto. ciò è indicativo anche del fatto che la presenza di enunciati normativi regolanti l’interpretazione può spesso accrescere dubbi ed incertezze, piuttosto che ridurli. Si è ri-tenuto infatti, da parte di alcuni, che la regola espressa dall’enunciato normativo in oggetto fosse da annoverare tra i criteri di individuazio-ne della comune intenzione (fosse come si suol dire, criterio di inter-pretazione soggettiva); per altri, invece, l’interpretazione secondo buona fede sarebbe da affiancare ai criteri di natura oggettiva, rilevanti e utili qualora permangano dubbi sulla comune intenzione. non mancano poi i sostenitori di una terza posizione per i quali l’art. 1366 c.c. sarebbe una “norma ponte”, criterio di collegamento tra i due gruppi di norme e quindi di particolare importanza per il processo ermeneutico, per-meando quest’ultimo nella sua interezza, e dovrebbe essere utilizzato

45 Una diversa impostazione dei rapporti tra le norme sull’interpretazione del contratto si trova in V. Rizzo, Interpretazione dei contratti e relatività delle sue regole, cit., passim.

46 invero, non mancano in giurisprudenza decisioni che indicano il criterio letterale quale metodo sufficiente al compimento dell’operazione ermeneutica, nel senso di ritenere superflua l’indagine sulla comune intenzione delle parti, qualora la lettera del contratto sia chiara. Una attenta analisi della giurisprudenza rivela, però, che quest’ultima non ha, il più delle volte, l’intento di escludere la necessità di ricercare la comune intenzione, ma sostiene la perfetta corrispondenza tra significato letterale ed intenzione comune; vale a dire: ogni ulterio-re indagine è superflua se già attraverso l’interpretazione letterale risulta il significato secondo l’intenzione. Tra le molte sentenze cass. civ., 20 gennaio 1984, n. 511, in Mass. giust. civ., 1984, p. 171; più di recente cass. civ., 11 agosto 1999, n. 8590, in Mass. giust. civ, 1999 p. 1800: «in tema di interpretazione del contratto, nella ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento ermeneutico è costituito dalla considerazione della connessio-ne logica delle parole e delle espressioni impiegate dagli stessi per rendere manifesto il loro intento, di modo che, quando il significato di esse sia chiaro e non equivoco, nonché rivelatore della volontà comune, la suddetta ricerca può ritenersi correttamente ed utilmente conclusa». Ma vi sono pure sentenze nelle quali si subordinano la ricerca della comune intenzione e l’uso dei criteri a ciò deputati, all’interpretazione letterale, così ad esempio corte App. cagliari, 13 gennaio 1995, in Riv. giur. Sarda, i, 1996, p. 1: «La ricerca della volontà comune dei contraenti e l’interpretazione sistematica della clausola di stile acquistano rilievo interpretativo solo se adoperati in funzione integrativa rispetto al principale canone dell’interpretazione letterale».

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congiuntamente ai criteri soggettivi ed eventualmente a quelli oggettivi, temperandone gli esiti in ragione dell’operare della buona fede47.

Per trattare dell’interpretazione sistematica del contratto è oppor-tuno tornare brevemente sul primo comma dell’art. 1362, per poi con-centrare l’attenzione su quanto disposto dall’art. 1363 del codice civile. È stato notato che nel primo degli enunciati normativi vengono indicati «due doveri: il dovere negativo di “non limitarsi al senso letterale delle parole”, e il dovere positivo “di indagare quale sia stata la comune in-tenzione delle parti” […] il dovere di non limitarsi al “senso letterale” implica che le parole siamo dotate di una pluralità di sensi, l’uno dei quali assuma il carattere di “senso letterale”. La norma presuppone la polisemia; e che nella cerchia dei significati ricevuti dalla parola, uno di essi abbia […] il valore di significato “letterale” o “primario”. La poli-semia è nel sistema linguistico: i singoli testi di parole esigono l’accerta-mento di un significato»48. Per cui l’indagine sulla comune intenzione svolge il compito di selezionare, tra i vari possibili significati del testo, il significato ad essa corrispondente.

L’indagine sulla comune intenzione deve essere compiuta secondo quanto disposto dall’art. 1363 c.c. avendo riguardo al complesso dell’at-to, in quanto «Le clausole del contratto si interpretano le une per mez-zo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal comples-so dell’atto». nella letteratura civilistica e in giurisprudenza si ritiene, comunemente, che questo enunciato normativo esprima la necessità di compiere l’interpretazione sistematica del contratto49. Ma sistematica in che senso? esaminiamo brevemente il contenuto dell’enunciato norma-tivo, per rispondere poi all’interrogativo appena posto.

innanzi tutto si pone il problema di individuare il significato del ter-

47 Su questo dibattito in sintesi V. Rizzo, L’interpretazione del contratto, in P. PeRLinGieRi (a cura di), Commentario al Codice civile, napoli, 1991, sub art. 1366. Sostiene la tesi intermedia A. tRabuCChi, Istituzioni idi diritto civile, Padova, 1989, p. 673.

48 La lunga citazione è tratta da n. iRti, Principi e problemi di interpretazione contrattua-le, in Riv. trim. dir. e proc. civ., n. 4, 1999, pp. 1139-1171, in particolare p. 1145.

49 Ad esempio c. M. bianCa, Il contratto, cit., pp. 431-432; V. RoPPo, Il contratto, in Tratt. Dir. Priv. Iudica e Zatti, Milano 2001, p. 475; F. CaRResi, Il contratto, in Trattato di diritto civile e commerciale a cura di Cicu e Messineo, vol. XXi, t. ii, Milano, 1987, pp. 526 ss.; per la manuali-stica F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, napoli 2000, p. 1051; in giurisprudenza cass. civ., 7 dicembre 1970, n. 2589, in Giur. It., i,1973, pp. 1507 ss., con nota di G. aLPa, ove si discorre di «clausole complessivamente intese in via sistematica», cui si aggiunga Trib. Roma, 20 aprile 1998, in Banca, borsa e titoli di credito, ii, 1999, pp. 265 ss, ove in motivazione si trova scritto che «l’art. 1363 c.c. impone […] di interpretare le clausole del contratto in via sistematica le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna di esse il senso che risulta dal complesso dell’atto».

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mine “clausola”: infatti a seconda di ciò che si intende per “clausola” varia l’ambito di testo contrattuale rilevante per compiere l’interpreta-zione cosiddetta complessiva e/o sistematica. in proposito è possibile ri-scontrare una varietà di opinioni sia in dottrina, sia in giurisprudenza50. Per il raggiungimento degli scopi esposti all’inizio è sufficiente rilevare quanto segue.

il contenuto del contratto è dato dal significato dell’insieme di enun-ciati dettati dalle parti: insieme che, unitariamente considerato, costi-tuisce appunto il testo contrattuale. Un enunciato è un’espressione in lingua di forma compiuta, individuabile secondo le regole semantiche e sintattiche della lingua in cui è formulato. detto ciò, tornando alla chia-rificazione della nozione di clausola, è bene menzionare una prima tesi rivolta ad intendere per clausola un “precetto negoziale autonomo”, va-le a dire una parte del testo contrattuale composta da uno o più enun-ciati con la quale i soggetti “dispongono” e non semplicemente “di-scorrono” dei propri interessi. clausola diviene così sinonimo di regola contrattuale51. A questa impostazione se ne contrappone un’altra che va in direzione opposta, distinguendo tra clausola e regola, precetto con-trattuale. in questa prospettiva, “clausola” è sinonimo di enunciato, e la clausola è costituita da ogni frammento del testo autonomamente in-dividuabile sulla base delle regole semantiche e sintattiche della lingua. ne deriva che una clausola può esprimere una o più regole «e una rego-la può risultare dalla considerazione di più clausole»52.

Le due nozioni di clausola menzionate non si escludono necessaria-mente a vicenda: può rilevare o l’una o l’altra a seconda del contesto in cui ci si trova ad operare53. in materia di interpretazione del contratto si ritiene più utile far riferimento alla seconda accezione di clausola, facen-do leva, principalmente, su due argomenti.

innanzi tutto viene rilevato che è proprio per mezzo dell’attività er-meneutica che si può accertare se una «determinata proposizione con-

50 Per una panoramica delle varie definizioni di “clausola” si veda da ultimo G. siCChie-Ro, Studi preliminari sulla clausola del contratto, in Contratto e impresa, n. 3, 1999, pp. 1194-1268.

51 È usata di frequente in proposito, in dottrina ed in giurisprudenza, la locuzione “clau-sola-precetto”, cfr. M. fRaGaLi, Clausole, frammenti di clausole, rapporti tra clausole e negozio, in Giust. civ., i, 1959, pp. 315 ss.

52 A. CataudeLLa, I contratti, cit. p. 110. Appropriata appare la terminologia usata da M. taMPoni, Contributo all’esegesi dell’art. 1419 c.c., in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1978, pp. 143 ss, il quale distingue tra “clausola-precetto” (la prima nozione individuata) e “clausola-proposizione” (la seconda nozione menzionata nel testo).

53 in questi termini si era espresso già c. GRassetti, voce Clausola del negozio giuridico, in Enc. Dir., vol. Vii, Milano, 1964, p. 184.

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tenuta in un contratto abbia o meno natura dispositiva»54, cioè se con essa le parti dispongano dei propri interessi. Se così stanno le cose, ecco il secondo argomento direttamente connesso al primo, l’interpretazione ex art. 1363 c.c. dovrebbe rivolgersi ad ogni enunciato del contratto, inclusi, per esempio, quelli che ripetono quanto stabilito in norme di diritto dispositivo derogabili dalle parti, se non altro perché anch’essi indicano una scelta operata dai soggetti che lo hanno posto in essere: ne consegue che ogni frammento, porzione del testo può risultare utile a ricostruire il significato dell’atto. Per “clausole del contratto” ex art. 1363 c.c. devono allora intendersi tutte le singole proposizioni in cui si articola il contratto.

Riguardo al contenuto dell’art. 1363 c.c. si pone anche un altro pro-blema interpretativo. L’enunciato normativo in questione si esprime let-teralmente nel senso dell’interpretazione delle clausole l’una per mezzo delle altre, ma già si è visto che proprio per mezzo dell’operazione erme-neutica è possibile individuare il significato dei diversi frammenti del te-sto contrattuale, per cui, se letteralmente inteso, l’art. 1363 c.c. finirebbe con l’instaurare un circolo vizioso e risulterebbe nella sostanza inappli-cabile55. il problema è stato superato scindendo il significato complessi-vo delle clausole, da quello letterale, prima facie attribuibile alle singole clausole. in realtà, se è vero che il senso complessivo dell’atto non può che risolversi nel significato delle clausole che lo compongono, si può però porre in rilievo che l’interprete può, dopo una prima (letterale o prima facie) determinazione di significato delle singole clausole, com-piere una nuova interpretazione delle stesse «nella prospettiva del senso unitario dell’operazione […] perché il senso attribuito alla singola clau-sola è destinato a specificarsi in relazione all’intento delle parti, così co-me emergente da una considerazione unitaria dell’operazione stessa»56. insomma, il significato della clausola oltre ad essere individuato sulla base delle sole regole che presiedono alla semantica e alla sintassi della

54 c. sCoGnaMiGLio, L’interpretazione, in I contratti in generale, Trattato dei contratti di-retto da P. Rescigno, a cura di e. Gabrielli, vol. ii, Torino 1999, pp. 913-1015, il brano citato è a p. 950.

55 È la acuta notazione di n. iRti, La sintassi delle clausole (note intorno all’art. 1363 c.c.), in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1989, pp. 421-427, specie p. 422 ove si trova scritto: «interpretazio-ne complessiva è quella, che si serve del complesso delle clausole, non già la interpretazione del complesso delle clausole, come unità dotata di senso». esemplifica l’autore: come è possibile stabilire il senso della clausola A per mezzo delle clausole B, c, d, se il senso di queste ultime è accertabile solo per mezzo della stessa clausola A? Pare però che l’interrogativo si possa scio-gliere a favore dell’applicabilità dell’art. 1363 c.c., sulla base di quanto appena detto nel testo.

56 c. sCoGnaMiGLio, L’interpretazione, cit., p. 954.

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lingua in cui è formulata, può (anzi deve) essere nuovamente determina-to considerando la clausola in relazione agli altri enunciati del testo di cui essa stessa fa parte57.

Si può, giunti a questo punto, ribadire l’interrogativo posto in rela-zione all’interpretazione sistematica del contratto: in che senso è siste-matica? Orbene sembra di poter dire che si tratta di interpretazione sistematico-testuale58. La considerazione del complesso delle clauso-le, delle varie porzioni del contratto è sì funzionale alla individuazione della comune intenzione delle parti, ma avendo riguardo al documen-to contrattuale inteso come “testo”, si potrebbe dire come “co-testo”. La ricerca della comune intenzione attraverso l’interpretazione sistema-tica comporta la necessità di passare da un significato provvisorio, prima facie (o letterale), ad un significato “co-testuale”, determinato in ragione del contesto linguistico nella sua totalità59.

Per cui la considerazione del documento contrattuale come un co-testo, porta con sé l’idea che le parti abbiano dato vita ad un discorso unitario, dotato di coesione e coerenza, ove il significato di ogni enun-ciato è influenzato, ed a sua volta influenza, quello degli altri enunciati che lo precedono e lo seguono. ne consegue che le clausole, cioè le va-rie componenti del discorso posto in essere, sono tra loro connesse in maniera necessaria e rilevante60. ecco allora che potrà rilevare nell’ambi-

57 condivisibile cass. civ., 3 febbraio 1971, n. 248, in Giust. civ., i, 1971, pp. 724 ss., per la quale «L’interpretazione di una clausola contrattuale non può essere condotta in abstracto, ossia in base al significato lessicale di una soltanto delle espressioni adoperate, prescindendo dal contesto unitario della clausola e delle altre clausole del negozio»; particolarmente signifi-cativa cass, civ., 11 giugno 1999, n. 5747, in Giur. It., i, 2000, p. 705: «nell’interpretazione del contratto il giudice non può arrestare la propria indagine al testo letterale della clausola, anche quando tale interpretazione possa essere compiuta senza incertezze sulla base del senso lette-rale delle parole, deve necessariamente riferirsi all’intero testo della dichiarazione negoziale coordinando e riconducendo ad unità le varie espressioni che in esso figurano».

58 non a caso carresi (F. CaRResi, Il contratto, cit. pp. 523 ss), tratta del genere “in-terpretazione testuale”, riconducendovi l’art. 1363, il quale all’interno del genere individuato rappresenta la specie dell’interpretazione sistematica.

59 Per la nozione di co-testo quale contesto linguistico e verbale si veda Y. baR-HiLLeL, La struttura logica del linguaggio, trad. it. Milano, 1973, pp. 455-477; alla rilevanza del conte-sto situazionale, cioè dell’intero contesto comunicativo e non solo di quello verbale, sarebbe invece ispirato l’art. 1362, secondo comma, il quale si riferisce al comportamento complessivo delle parti. Riguardo alla applicazione delle categorie tipiche della linguistica all’ermeneutica contrattuale, notevoli spunti si trovano in A. BeLVedeRe, Testo e discorso nel diritto privato, in Ars interpretandi 1997, pp. 137-156, specie pp. 149-151, e nel già menzionato libro di n. iRti, Testo e contesto, cit., passim.

60 in questa direzione è ben possibile considerare come “testo” non il singolo contrat-to, bensì l’insieme di documenti posti in essere dalle parti in virtù di un nesso funzionale o genetico (collegamento negoziale). Si avrà così una sorta di “macrotesto”, di insieme di testi

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Tra teoria e dogmatica52

to dell’operazione ermeneutica ogni componente del testo contrattuale quali, per esempio, la posizione della clausola nell’ambito del contratto, la ripetizione dello stesso termine in diversi punti, il richiamo tra diversi periodi del discorso contrattuale.

4. Segue … Il sistema del documento testamentario e la sua inter-pretazione

Merita almeno alcuni cenni l’interpretazione sistematica del testa-mento. infatti il problema dell’interpretazione del cosiddetto negozio di ultima volontà ha impegnato a lungo e continua a dividere la dottrina61. Vedremo tra poco, però, che l’elevato numero delle posizioni espresse e i contrasti caratterizzanti le riflessioni sull’ermeneutica testamentaria, non creano grossi problemi ai nostri scopi: individuare in quale senso si possa parlare di interpretazione sistematica del testamento. ciò mi esi-me dal dover trattare in maniera approfondita il tema e dal dover pren-dere posizione su molte delicate questioni, e consente invece di fare solo le considerazioni necessarie per il lavoro che si sta compiendo. dottrina e giurisprudenza sono pressoché concordi nel sostenere che l’interpreta-zione del testamento è caratterizzata, diversamente dal contratto, da una ricerca più intensa della effettiva o concreta volontà del testatore62.

Ma radicalmente diversi sono i modi di intendere “l’intensità della ri-

costituenti un unico discorso, e l’uso dell’art. 1363 c.c. risulta possibile. Per l’applicazione dell’art. 1363 al collegamento negoziale cfr. L. biGLiazzi GeRi, L’interpretazione del contratto, cit., pp. 103-104. Sulla nozione di macrotesto cfr. M. CoRti, Principi di comunicazione letteraria, Milano, 1976, passim.

61 Una rassegna recente si trova in R. CaRLeo, L’interpretazione del testamento, in n. iRti (a cura di), L’interpretazione del contratto nella dottrina italiana, cit., pp. 539 ss., sul tema cfr. al-meno P. ResCiGno, L’interpretazione del testamento, napoli 1952; M. aLLaRa, Principi di diritto testamentario, Torino, 1957, pp. 173 ss.; e. betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., pp. 425 ss.; F. ziCCaRdi, Le norme interpretative speciali, Milano, 1972; L. biGLiazzi GeRi, Il testamento, in Tratt. Dir. Priv., diretto da P. Rescigno, vol. Vi, t. 2, Torino, 1985, pp. 91 ss.; c. M. bianCa, Diritto civile, vol. ii, la famiglia e le successioni, Milano, 2001, pp. 655-657; G. baRaLis, L’interpretazione del testamento, in P. ResCiGno (a cura di), Successioni e donazioni, t. 1, Padova 1994, pp. 927 ss.; A. PaLazzo, Le successioni, in Tratt. Dir. Priv. Iudica e Zatti, t. 2, Milano, 2000, pp. 634 ss.

62 cfr. tra le tante Trib. Bologna, 12 giugno 1991, in Riv. notar., 1993, p. 1308: «L’inter-pretazione del testamento è caratterizzata, rispetto a quella del contratto, da una più intensa ricerca della volontà concreta del testatore». in dottrina R. CaRLeo, L’interpretazione del testa-mento, cit., p. 543: «L’attività dell’interprete per quanto riguarda l’interpretazione del testa-mento, sia che si ritenga diretta dalle norme sull’interpretazione del contratto, sia che si ritenga diretta da norme rinvenibili nella disciplina testamentaria, appare comunque tesa (e sul punto si registra una conformità di vedute) a ricercare la mens testantis».

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Sui rapporti tra l’applicazione della legge e degli atti giuridici 53

cerca” e “l’effettività” o la “concretezza” della volontà manifestata (for-mule alquanto vaghe).

Riguardo al primo profilo si pongono due problemi: a) in assenza di un corpo di disposizioni normative appositamente

dedicato all’interpretazione del documento testamentario63, è da stabili-re il ruolo svolto da alcune disposizioni normative dettate in materia te-stamentaria e riguardanti l’interpretazione (per esempio l’art. 625 c.c.);

b) e in stretta connessione con quanto appena detto ci si chiede se e quali delle norme sull’interpretazione del contratto siano applica-bili64 al testamento. nell’ambito delle varie opinioni in campo si posso-no rintracciare, oltre alle posizioni estreme di chi sostiene l’applicabilità al testamento delle sole norme interpretative per esso (implicitamente) dettate65 e rintracciabili nella disciplina testamentaria66, ed all’opposto di chi ritiene applicabili senza esclusione di sorta tutte le norme sull’in-terpretazione soggettiva del contratto e perlomeno alcune sull’interpre-tazione oggettiva67, una molteplicità di soluzioni intermedie difficilmen-te riconducibili ad unità. Si va, per compiere una sommaria rassegna, da chi ritiene applicabili alcune norme sull’interpretazione soggettiva del contratto, ma non quelle sull’interpretazione oggettiva, a chi sostiene che un giudizio di compatibilità con l’atto testamentario vada sempre compiuto e le norme sull’interpretazione del contratto debbano essere singolarmente considerate68, senza distinzioni tra norme di interpreta-zione soggettiva ed oggettiva, a chi intravede la possibilità di ricorrere

63 cfr. e. betti, L’interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., p. 425: «alla sovrab-bondanza di norme interpretative in tema di contratti, fa riscontro nella legge una completa assenza di norme esplicite di tal e natura in tema di testamenti».

64 Già P. ResCiGno, L’interpretazione del testamento, cit., p. 1, segnalava che «la ricerca proposta è di solito ridotta a questi termini: quali delle norme sull’interpretazione dei contrat-ti, grazie al rinvio, ammesso dall’art. 1324 (entro il limite di compatibilità) per gli atti tra vivi aventi contenuto patrimoniale, siano applicabili al testamento».

65 cfr. G. boniLini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, Torino, 2000, pp. 192-194, il quale argomenta l’esclusione dell’applicabilità delle norme sull’interpretazione del contratto a partire dall’art. 1324 c.c., ove l’applicabilità delle norme dettate per i contratti è limitata agli atti unilaterali tra vivi.

66 Su quali siano queste disposizioni, art. 625, comma primo a parte, non v’è unità di vedute.

67 Per questa impostazione L. biGLiazzi GeRi, u. bReCCia, f. d. busneLLi, u. natoLi, Diritto civile, vol. iV, t. 2, Le successioni a causa di morte, Torino, 1996, pp. 130-139, ove anche la tesi, negletta in dottrina e giurisprudenza, dell’applicabilità al testamento dell’art. 1366 c.c. (interpretazione secondo buona fede). in giurisprudenza per l’applicazione degli artt. 1363, 1367 e 1369 c.c. al testamento cfr. Trib. nuoro, 21 marzo 1996, n. 150, in Riv. giur. Sarda, i, 1997, pp. 407 ss., con nota di C. CiCeRo.

68 Si veda G. CRisCuoLi, voce Testamento, in Enc. Giur. Treccani, vol. XXXi, Roma, 1994, pp. 30-32.

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per l’individuazione della volontà del testatore ad elementi extratestuali anche allo scopo di correggere il significato letterale e co-testuale della scheda69.

Sullo sfondo v’è – giungiamo al secondo profilo indicato in prece-denza – il peso da attribuire al cosiddetto formalismo testamentario, va-le a dire se l’interprete debba comunque rimanere ancorato, nell’indivi-duazione della mens testantis, al documento70 (e prevalga quindi un’in-terpretazione testuale), oppure se questo principio sia superabile.

Orbene, le scarne considerazioni appena fatte consentono comun-que di giungere ad un risultato utile ai nostri scopi: individuare in quale senso sia corretto parlare di interpretazione sistematica del testamento. come per il contratto si tratta di interpretazione sistematico-testuale e ciò a prescindere dalla soluzione che si preferisce adottare riguardo alle regole da seguire nel processo interpretativo del testamento. È fuor di dubbio che a qualsiasi titolo lo si ritenga applicabile (in via analogica o altro) l’articolo 1363 c.c. e la regola in esso contenuta si pongono come strumenti necessari dell’interprete. Resta solo aperto il problema se l’in-terpretazione testuale sia sufficiente o meno. insomma un significato co-testuale deve essere individuato e bisogna interpretare le varia proposi-zioni testamentarie in connessione tra loro, salvo ritenere tale passo non esaustivo. ciò trova conferma anche nel disposto letterale del già men-zionato articolo 625 c.c., comma primo, il quale fa riferimento innanzi tutto al “contesto del testamento”, che è appunto il contesto verbale del

69 Su quest’ultimo principio ermeneutico denominato in dottrina di “ultraletteralità” cfr. da ultimo S. PaGLiantini, L’istituzione di enti estinti, ovvero dei problemi di un problema (spunti in tema di volontà testamentaria, interpretazione di buona fede e funzione sociale del dirit-to ereditario), Siena, 2000, pp. 32 ss. L’applicazione del principio di “ultraletteralità” determina quindi che la considerazione di elementi esterni alla scheda non serve solo a sciogliere l’even-tuale dubbio lasciato aperto dalla vaghezza e/o ambiguità dei termini impiegati dal testatore, ma ad individuare anche oltre, o forse si potrebbe dire “contro”, la scheda, la volontà effettiva del testatore. A sostegno si indica la disposizione dell’art. 625 c.c., il quale al primo comma recita: «Se la persona dell’erede o del legatario è stata erroneamente indicata, la disposizione ha effetto, quando dal contesto del testamento o altrimenti risulta in modo non equivoco quale persona il testatore voleva nominare».

70 cfr. di recente cass. civ., 15 giugno 1999, n. 5918, in Foro it., i, 2000, cc. 3294: «L’in-tenzione del de cuius di costituire un legato in sostituzione, ovvero in conto, di legittima deve emergere in maniera inequivoca sia da una espressa proposizione sia dal complesso delle pro-posizioni nelle quali si articola la scheda testamentaria». non mancano decisioni tese ad esclu-dere anche un’interpretazione testuale a vantaggio di una interpretazione meramente letterale, ove quest’ultima permetta l’individuazione della mens testantis, si veda Trib. Siena, 19 ottobre 1992, in Giur. It, 1, t.2, 1994, p. 1088: «quando dalla dizione letterale del testamento risulti in modo certo ed immediato la volontà del de cuius, deve ritenersi non solo superfluo, ma affatto precluso il ricorso alle norme di ermeneutica elaborate in tema di negozio giuridico e di testa-mento in particolare».

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documento testamentario (co-testo), rinviando il successivo “altrimenti” agli elementi estranei al testo. Se così non fosse, la presenza dell’avver-bio “altrimenti” risulterebbe di difficile comprensione.

5. L’atto amministrativo, il procedimento e l’interpretazione

A differenza di ciò che è accaduto per il contratto e per il testamen-to, pochi e frammentari sono i contributi dottrinali in materia di in-terpretazione dell’atto amministrativo71. Procediamo con ordine nella trattazione del tema, a partire da una breve caratterizzazione dell’atto e del provvedimento amministrativo, circoscritta agli scopi del presente lavoro. Anche di recente è stata rilevata, stante l’assenza di una defini-zione legislativa, la difficoltà di individuare i caratteri propri e costanti dell’atto amministrativo (ed in particolare di una specie del genere atto particolarmente rilevante: il provvedimento amministrativo). in dottrina si possono rintracciare molte definizioni e quindi teorie dell’atto e del provvedimento: soffermiamoci sul punto.

in un classico contributo dovuto ad uno dei maestri della materia si trova scritto che costituisce «atto amministrativo qualunque dichiara-zione di volontà, di desiderio, di conoscenza, di giudizio, compiuta da un soggetto dell’Amministrazione pubblica nell’esercizio di una potestà amministrativa»72. Alla definizione appena esposta se ne sono affianca-te altre nel corso degli anni rivolte soprattutto a porne in rilievo alcuni difetti 73. È stata ritenuta infatti sia generica, in ragione dell’accostamen-

71 Una ricognizione, che potrebbe risultare incompleta della letteratura rivela che l’unico contributo monografico è ancora quello di M.S. Giannini, L’interpretazione dell’atto amministra-tivo e la teoria generale dell’interpretazione, cit., passim; a livello manualistico (oltre al manuale dello stesso Giannini, ove sono riprodotte in sintesi le considerazioni contenute nell’opera mo-nografica), poche pagine dedicate al tema si trovano in G. Landi-M. Potenza, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 1998, pp. 242-243; R. GaLLi, Corso di diritto amministrativo, Padova, 1996, pp. 504-506; L. MazzaRoLLi, G. PeRiCu, F. A. RoVeRsi MonaGo, F. G. sCoCa (a cura di), Diritto Amministrativo, vol. 2, Bologna, 1998, pp. 1551- 1553; V. CeRuLLi iReLLi, Corso di diritto amministrativo, Torino, 1997, pp. 509-511; A. M sanduLLi, Manuale di diritto amministrativo, napoli, 1989, pp. 684-686; e. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2000, pp., 470-471; tra le voci enciclopediche R. LasChena, Interpretazione dell’atto amministrativo, in Enc. giur. Treccani, vol. XVii, Roma, 1989; un accenno anche in B. G. MattaReLLa, Il provvedimento, in s. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, t. 1, Milano, 2000, pp. 789-791; tra i testi di teoria del diritto F. VioLa-G. zaCCaRia, Diritto ed interpretazione, cit., pp. 294-300.

72 G. zanobini, Corso di diritto amministrativo, Vol. i, Milano, 1936, p. 243.73 Le vicende relative all’elaborazione dei concetti di atto e provvedimento ammi-

nistrativo sono complesse e non possono essere esaminate compiutamente in questa sede. È opportuno però trattarne brevemente al fine di valutare l’incidenza della teoria dell’atto e del provvedimento sul modo di concepire l’interpretazione degli stessi.

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to di dichiarazioni tra loro eterogenee: di volontà, di desiderio, di co-noscenza etc., sia in qualche misura “fuorviante”, in virtù del mancato collegamento tra atto e procedimento, nonché del riferimento alla ca-tegoria delle dichiarazioni di volontà, con il conseguente accostamento di certi atti amministrativi al negozio giuridico74. La strada della ricerca di una definizione soddisfacente di atto amministrativo è dunque ardua, a tutt’oggi percorsa dalla dottrina ripetutamente75, ma con fatica e con esiti ancora non del tutto appaganti.

conviene non insistere in questa direzione e prestare attenzione a due tendenze ormai diffuse nel diritto amministrativo recente volte a porre in rilievo: a) la rilevanza del provvedimento amministrativo in quanto atto che incide sulle situazioni giuridiche soggettive del privato; b) il rapporto esistente tra provvedimento e procedimento amministrativo.

Particolare importanza ha assunto nelle elaborazioni della dottrina e della giurisprudenza la nozione di provvedimento amministrativo, qua-le specie del genere atto. Si è visto, tra l’altro, che i problemi definitori hanno riguardato in origine la categoria atto amministrativo, ma inve-stono nel dibattito attuale soprattutto il provvedimento. Recente dottri-na sostiene infatti la necessità di concentrare l’attenzione sul provvedi-mento, in quanto costituisce espressione “tipica” della funzione ammi-nistrativa. il provvedimento è, in questa ottica, l’atto con cui l’autorità amministrativa dispone in ordine all’interesse pubblico di cui è titolare (in virtù di una specifica attribuzione), esercitando la propria potestà e incidendo quindi sulle situazioni soggettive del privato76.

Quest’ultimo percorso di analisi rivolto a privilegiare il provvedi-mento ed a delinearne alcune caratteristiche costanti in connessione con l’esercizio della funzione amministrativa, senza perciò volerne dare una definizione puntuale ed esaustiva, può rivelarsi proficuo per compiere considerazioni sull’interpretazione sistematica dell’atto amministrativo. Le osservazioni che seguono vertono soprattutto, anche se non esclusi-vamente, sui provvedimenti; prima di compierle però è necessario evi-denziare alcuni tratti essenziali del provvedimento, sulla scia dell’impo-stazione da ultimo menzionata, avendo riguardo in particolare alla co-siddetta “tipicità”.

74 Per l’evoluzione delle nozioni di atto e provvedimento cfr. F. G. sCoCa, La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento, in Dir. Amm., 1995, pp. 32 ss.; G. CoRso, L’attività amministrativa, Torino, 1999, pp. 116 ss. e 131 ss.

75 Si veda la messe di definizioni riportata con efficace sintesi da B. G. MattaReLLa, Il provvedimento, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, cit., pp. 706 ss.

76 cfr. R. ViLLata, in L. MazzaRoLLi ed altri, Diritto amministrativo, vol. ii, cit., pp. 1408- 1409.

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Sui rapporti tra l’applicazione della legge e degli atti giuridici 57

Si sostiene che il provvedimento amministrativo è tipico in quanto la tipicità sarebbe corollario o espressione del principio di legalità: «l’or-dinamento non può infatti tollerare che il tipo di effetto prodotto dal provvedimento amministrativo, subito dal privato […] sia rimesso alla volontà dell’amministrazione stessa»77. Per cui l’amministrazione opera per mezzo di provvedimenti che hanno certe caratteristiche (ma per ciò che ci interessa sono soprattutto tipici), esercitando poteri e potestà at-tribuiti dalla legge.

Porre brevemente in rilievo alcuni caratteri dell’atto e del provvedi-mento amministrativo è, lo si è già detto, rilevante, perché consente di sottolineare non solo la scarsità, ma anche l’insufficienza dei contributi apparsi in tema di interpretazione dell’atto e del provvedimento ammi-nistrativo.

L’assenza di una disciplina legislativa ad hoc ha indotto infatti dot-trina e giurisprudenza ad utilizzare, in maniera spesso acritica, le nor-me dettate in materia di interpretazione del contratto, compiendo solo qualche minimo adattamento dovuto alla “natura dell’atto” (ecco allora che il primo comma dell’art. 1362 c.c. è utilizzabile, ma si deve ricercare l’intenzione dell’autorità che ha emanato l’atto, e non quella delle parti; oppure la rilevanza del comportamento dell’amministrazione è subordi-nata all’interpretazione testuale)78. Ma se tale assimilazione era plausibi-le in epoca più risalente, quando l’atto amministrativo era se non pro-prio assimilato, comunque modellato sul concetto di negozio giuridico,

77 e. Casetta, Provvedimento e atto amministrativo, in Dig. Disc. Pubbl., vol. Xii, Torino, 1992, pp. 243-257, citazione tratta da p. 251 e ancora R. ViLLata, in L. MazzaRoLLi ed altri, Diritto amministrativo, vol. ii, cit., p. 1413: «il fondamento della tipicità può essere ravvisato negli stessi principi costituzionali concernenti lo svolgimento dell’attività amministrativa, essa poi comporta che le varie categorie di provvedimenti sono identificate dalle norme discipli-natrici dei relativi poteri e non rimesse all’autonomia creatrice dell’autorità amministrativa».

78 in giurisprudenza ad esempio cass. civ., 12 novembre 1998, n. 11409, in Mass. giust. civ., 1998, p. 2335: «L’interpretazione degli atti amministrativi soggiace alle stesse regole det-tate dagli artt. 1362 ss., c.c. per l’interpretazione dei contratti tra le quali ha carattere premi-nente, quella collegata all’elemento letterale – in quanto compatibili con il provvedimento amministrativo – dovendo il giudice anche ricostruire l’intento dell’Amministrazione ed il potere che ha inteso in concreto esercitare, tenendo altresì conto del complesso dell’atto e del comportamento dell’autorità amministrativa, oltre che di quanto può razionalmente intendere, secondo buona fede, il destinatario». nello stesso senso corte dei conti, 8 ottobre 1996, n. 133, in Cons. Stato, ii, 1997, p. 57. invero la giurisprudenza sembra spesso far riferimento alle norme sull’interpretazione del contratto in maniera puramente formale, fondandosi l’interpretazione dell’atto su altri criteri, si veda ad es. cons. Stato, 20 maggio 1997 n. 625. in Foro amm., 1997, p. 1660, ove è presente un richiamo all’art. 1366 c.c., ma invero che l’interpretazione dell’atto debba essere compiuta avendo riguardo alla condizione del destinatario dello stesso è dovuto all’operare del principio costituzionale del buon andamento della p.a. e non della buona fede oggettiva.

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Tra teoria e dogmatica58

e inteso quindi come manifestazione di volontà dell’amministrazione, una volta abbandonata la teoria negoziale e legato l’atto all’esercizio del potere, viene meno anche la possibilità di utilizzare senza le dovute cau-tele le norme sull’interpretazione del contratto79.

nell’interpretazione dell’atto amministrativo si deve allora tener con-to dei tratti peculiari dello stesso con particolare riguardo alle norme attributive del potere di cui l’atto o provvedimento è espressione, deter-minandone così il significato.

Ma nell’interpretazione dell’atto amministrativo è necessario prestare attenzione anche a un altro, non trascurabile fattore. nel diritto ammi-nistrativo contemporaneo la teoria dell’atto e/o del provvedimento ha perso la sua centralità a vantaggio della teoria del procedimento ammi-nistrativo. L’attenzione si è spostata dall’atto all’attività ed alla funzione amministrativa e l’attività è procedimento, vale a dire una sequenza di atti posti in essere in vista dell’adozione di un provvedimento finale80. d’altronde si è già visto come alcune recenti teorie dell’atto e del prov-vedimento ne modellino i caratteri in ragione del loro far parte, o essere espressione dell’attività procedimentale della pubblica amministrazione. La centralità conquistata dal procedimento rispetto al provvedimento che ne costituisce il risultato è dovuta anche alla presenza della legge n. 241 del 1990, che ha dettato la disciplina del procedimento amministra-tivo, stabilendo le modalità di attivazione, di partecipazione del privato, il responsabile del procedimento, l’obbligo di motivare gli atti e altro.

Orbene, in ragione delle considerazioni svolte, riteniamo si possa parlare di interpretazione sistematica dell’atto amministrativo, cioè di determinazione del suo significato in via sistematica, nel seguente senso.

V’è una interpretazione sistematico-testuale, in senso co-testuale, per la quale è necessario prendere in considerazione nel processo ermeneu-tico tutte le parti dell’atto, che costituiscono quindi il contesto linguisti-co81. in questa direzione è felice l’accostamento tra atto amministrativo

79 cfr. R. LasChena, voce Interpretazione dell’atto amministrativo, cit., p. 2: «il vero è che l’interpretazione dell’atto amministrativo si differenzia dall’interpretazione del negozio privato […] soprattutto in considerazione dei caratteri e del regime della volontà espressa nel primo che è sempre finalizzata al perseguimento di uno specifico e tipico interesse pubblico».

80 Per tutti M. S. Giannini, Diritto amministrativo, vol. ii, Milano, 1993, p. 100: «è quin-di possibile constatare che l’attività amministrativa delle amministrazioni contemporanee si svolge mediante procedimenti amministrativi: ciò costituisce un principio del diritto ammini-strativo contemporaneo».

81 Trib. Amm. calabria, sez. Reggio calabria, 14 novembre 1998, n. 1480, in Trib. amm. reg., i, 1999, p. 355: «L’atto amministrativo va interpretato nel complesso delle sue disposizioni, quindi tenendo conto delle premesse, della motivazione e del dispositivo».

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e contratto, ritenendo applicabile l’art. 1363 c.c., pur non essendo cor-retto parlare, per gli atti e i provvedimento di clausole, ma di elementi o parti. Spesso si può parlare però anche di interpretazione sistematico testuale, in senso macrotestuale, avendo riguardo alla natura procedi-mentale dell’attività amministrativa. Qualora vi sia un procedimento, il significato dell’atto non può non essere determinato senza considerare la sequenza di atti in cui si inserisce, la sua posizione all’interno del pro-cedimento (e ciò vale sia per i meri atti, quelli strumentali all’emanazio-ne del provvedimento finale, sia per quest’ultimo in quanto incidente sulle situazioni soggettive del privato). Per cui il procedimento può esse-re considerato una sorta di macrotesto, cioè un insieme di testi tra loro coordinati e coerenti, in ragione di un discorso unitario82.

V’è poi un altro modo nel quale si può intendere l’interpretazione sistematica del provvedimento, vale a dire in senso logico-sistematico al fine di evitare, se possibile, l’illegittimità dello stesso. Soprattutto in giu-risprudenza infatti è ricorrente l’affermazione che tra i possibili signifi-cati determinabili di un provvedimento, l’interprete è tenuto a scegliere quello conforme alle norme attributive del potere del quale il provvedi-mento è espressione83.

82 Sembra evocare l’immagine del procedimento come “macrotesto” R. GaLLi, Corso di diritto amministrativo, cit., p. 505: «Alla luce della legge 241 del 1990, che ha sancito la procedimentalizzazione dell’atto amministrativo, si deve ritenere che l’interpretazione extra-testuale non sia più consentita, perché solo attraverso la sequenza procedimentale è possibile ricostruire la volontà amministrativa». V’è da dire che l’art. 11, legge 241 del 1990, prevede la possibilità di porre in essere accordi tra p.a. e soggetti privati interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale o di sostituire il provvedimento finale; la stessa formulazione nor-mativa dispone che a detti accordi «si applicano, ove non diversamente previsto dalla legge, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e di contratti in quanto compatibili». Or-bene proprio la previsione del criterio della compatibilità esclude che agli accordi in questione si possano sic et simpliciter applicare le norme sull’interpretazione del contratto. d’altronde anche chi si esprime a favore dell’applicabilità delle norme sull’interpretazione del contratto ai suddetti accordi, si fa carico di precisare che un giudizio di compatibilità tra modello nego-ziale ed esercizio del potere amministrativo deve essere comunque compiuto (cfr. A. fedeRiCo, Autonomia negoziale e discrezionalità amministrativa, napoli, 1999, pp. 21 ss. e pp. 250-254).

83 Ad esempio cons. Stato, 4 novembre 1997, n. 1231, in Foro amm., ii, 1997, p. 3020: «in presenza di oggettive incertezze in ordine al contenuto di un provvedimento amministrativo, quando quest’ultimo si presta ad una duplice possibile interpretazione – l’una conforme, l’altra difforme dal dettato normativo – deve essere prescelta quella conforme alla legge». Si tratta di interpretazione adeguatrice (in uno dei possibili sensi di questa espressione) dell’atto ammi-nistrativo. nello stesso senso cons. Stato, 10 marzo 1997, n. 229, in Cons. Stato, i, 1997, p. 362: «Tra le possibili interpretazioni di un atto amministrativo deve darsi prevalenza a quella alla cui stregua l’atto stesso si appalesa conforme a principi di diritto ed alle fonti normative».

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Tra teoria e dogmatica60

6. Il sistema del provvedimento giurisdizionale

A conclusione dell’indagine è opportuno soffermarsi brevemente sull’interpretazione della sentenza84 . Per interpretazione della sentenza si intende, al pari di ciò che emerso per la legge e gli altri atti giuridici sino ad ora considerati, la determinazione del contenuto del provvedi-mento giurisdizionale85. Le brevi considerazioni che seguono sono ri-volte ad individuare in che senso sia possibile parlare di interpretazione sistematica della sentenza, cioè che cosa significa determinare in via si-stematica il contenuto della stessa.

È necessario subito porre in rilievo che anche per l’interpretazio-ne della sentenza si è spesso compiuto un accostamento con i criteri ermeneutici indicati per il contratto. così l’operazione ermeneutica è rivolta, seppur in letteratura l’opinione che segue sia espressa con va-rietà di accenti, all’accertamento della «corrispondenza della forma alla volontà»86. All’accertamento della mens iudicis, della volontà espressa nel provvedimento, in assonanza con l’art. 1362, comma primo c.c.

invero, anche i richiami effettuati dalla dottrina e da certa giurispru-denza alle norme sull’interpretazione del contratto al fine di determi-nare il significato della sentenza, non sono mai stati del tutto “acritici”, non hanno cioè mai perso di vista la peculiarità del provvedimento giu-risdizionale rispetto al contratto87. Si è sostenuto, per esempio, che l’in-terpretazione della sentenza non può mai fare appello a criteri extrate-stuali, in quanto «l’ordinamento vieta di usare elementi estrinseci in mo-

84 Le nozioni di sentenza e provvedimento giurisdizionale saranno usate come sinonime. La sinonimia è invero solo parziale, essendo provvedimenti giurisdizionali anche i decreti e le ordinanze.

85 non si considera quindi la sentenza intesa come “precedente”. Per la distinzione tra la sentenza come documento e come precedente e le conseguenti differenze sul piano inter-pretativo cfr. L. biGLiazzi GeRi, L’interpretazione del contratto, cit., p. 75 ss., nonché il corposo contributo di M. taRuffo, La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975, ove la distinzione tra sentenza come “segno” e come “regola”.

86 F. CaRneLutti, Lezioni di diritto processuale civile, vol. iii, Padova, 1931, p. 298; per una rassegna della dottrina in materia cfr. F. santanGeLi, L’interpretazione della sentenza civile, Milano, 1996, pp. 1-118. d’altronde il richiamo alle norme sull’interpretazione del contratto, per ciò che concerne l’atto amministrativo e la sentenza è dovuto anche al fatto che si tratta di atti singolari, concreti, di norme individuali per dirla con le parole di Kelsen (cfr. retro nota 6). da segnalare l’assenza di contributi per ciò che concerne l’interpretazione delle sentenze penali: ne consegue che le brevi considerazioni compiute in queste pagine, riguardano giuri-sprudenza e letteratura attinenti alla sentenza civile.

87 Tratto peculiare di tutte le opere che pur si muovono nel’ottica di assimilare il prov-vedimento giudiziale ad altri atti giuridici, al contratto in specie, si veda ad esempio c. GRas-setti, L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, cit., pp. 87 ss.

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do tale da modificare il senso testuale del dispositivo»88 e quindi sarebbe esclusa l’applicabilità delle norme sull’interpretazione del contratto che a tali criteri si riferiscono. Oppure si è ritenuto che l’applicabilità alla sentenza degli artt. 1363, 1367 c.c. derivi non da un’analogia impropo-nibile tra sentenza e contratto, ma dal fatto che esse contengono criteri generali dell’interpretazione89.

d’altronde già alcuni anni addietro non è mancato chi ha sostenuto apertamente l’autonomia dell’interpretazione della sentenza, rivendican-done le peculiarità funzionali e strutturali rispetto agli altri atti, e sem-bra essere questa la tendenza della recente giurisprudenza90. Vediamo in breve quali sono i criteri consolidati in giurisprudenza dell’interpre-tazione della sentenza, per poi valutare in che senso si possa parlare di interpretazione sistematica della stessa.

come è stato sottolineato in un recente studio91, sono quattro i cri-teri di interpretazione della sentenza (civile), ormai consolidati in giuri-sprudenza, ma non estranei alla dottrina: a) criterio letterale e sintattico; b) criterio sistematico detto anche della necessaria correlazione tra dispo-sitivo e motivazione; c) criterio funzionale; d) criterio di conservazione.

in base al primo criterio è necessario interpretare la sentenza aven-do riguardo al suo tenore letterale, ma il significato delle singole paro-le o espressioni deve essere determinato non isolatamente, ma avendo riguardo alla loro connessione sintattica. il criterio sistematico det-to anche “della totalità”, impone di tener conto del dispositivo e della motivazione della sentenza, non separando l’uno dall’altra, ma conside-randoli un complesso organico92. in base al terzo criterio (funzionale)

88 M.S. Giannini, L’interpretazione dell’atto amministrativo, cit., p. 190, il quale scrive che «l’interpretazione è rigidamente testuale», per cui «si applicano alla sentenza le norme degli artt. 1363, 1367, 1369 c.c. […] in quanto contengono principi logici di corretta interpre-tazione».

89 Si vedano in proposito le sentenze riportate da P. Chiassoni, La giurisprudenza civile. Metodi di interpretazione e tecniche argomentative, cit., pp. 117 ss., tra le quali spicca Trib. Bologna, 12 marzo 1955: per i giudici emiliani, infatti, è da escludere il ricorso alle norme sull’ermeneutica contrattuale per l’interpretazione della sentenza.

90 Per la dottrina si veda V. denti, L’interpretazione della sentenza civile, Pavia, 1946, passim, ed in specie, p. 27, ove è scritto che nell’interpretare è sì necessario ricostruire la mens iudicis, ma «attraverso gli elementi costitutivi della sentenza, secondo la funzione e la strutture che a ciascuno di questi elementi è attribuita dall’iter fissato dalle norme processuali». Per cui secondo questo autore non ha molto senso interrogarsi in maniera aprioristica se nell’inter-pretazione debba prevalere la ricerca della volontà o l’analisi della dichiarazione, in quanto si tratta di problema da risolvere alla luce di quanto stabilito dall’ordinamento.

91 il riferimento è a P. Chiassoni, La giurisprudenza civile, metodi di interpretazione e tecniche argomentative, cit. pp. 138 ss.

92 così ad esempio cass. civ., 24 novembre 1986, n. 6901, in Mass. giust. civ., 1986, fasc.

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è indispensabile intendere la sentenza in maniera adeguata rispetto alla domanda ed alle eccezioni di parte. il criterio di conservazione consiste nel determinare il significato della sentenza preferendo tra i possibili si-gnificati quello che consente all’atto di produrre effetti.

i criteri appena menzionati sono poi tra loro coordinati nel seguente modo. il criterio letterale deve essere associato a quello sistematico, il senso delle parole come risulta ad una prima lettura deve essere rivisto alla luce del complesso dell’atto, della correlazione necessaria che in-tercorre tra dispositivo e motivazione. Qualora si verifichi un contrasto tra dispositivo e motivazione, la prevalenza va assegnata al dispositivo, in quanto quest’ultimo contiene la sintesi della “volontà giudiziale”93, del contenuto precettivo della sentenza,

Orbene, appare abbastanza evidente che dottrina e giurisprudenza fanno riferimento all’interpretazione sistematica della sentenza in senso sistematico testuale. il canone cosiddetto della totalità fa infatti appello alla totalità del testo, alle varie parti di cui si compone il provvedimento, imponendo all’interprete, ad esempio, di non considerare il solo dispo-sitivo, oppure di tralasciare parti della motivazione, o di altri dati rile-vanti94.

da ciò deriva che anche nell’interpretazione sistematica della senten-za il sistema di riferimento è dato dal testo del provvedimento giurisdi-zionale.

Vale per la sentenza ciò che vale per il contratto, il testamento e l’at-to amministrativo (seppur per quest’ultimo vi siano da considerare i profili ulteriori che sono stati posti in rilievo).

Avendo riguardo ai tipi di interpretazione sistematica della legge

11; cons. Stato, 6 ottobre 1990, n. 712, in Foro amm., i, 1990, p. 676: «L’interpretazione della sentenza non va limitata al solo dispositivo dovendo estendersi anche al contenuto della sua motivazione». Per l’applicazione del criterio sistematico o della totalità alle sentenze della cor-te costituzionale cfr. Trib. di Bari, 1 marzo 1990, in Informazione e previdenza, 1990, p. 800: «Motivazione e dispositivo costituiscono elementi di uno stesso atto, unitariamente inteso […] da ciò consegue che per l’interpretazione della sentenza della corte costituzionale si deve utilizzare non soltanto il dispositivo ma anche la motivazione». La terminologia invalsa in dottrina e giurisprudenza di “canone della totalità” per indicare la necessaria considerazione nel processo ermeneutico del dispositivo e della motivazione, richiama, invero in maniera un po’ generica, il ben noto linguaggio di Betti.

93 in dottrina si esprime per la prevalenza del dispositivo sulla motivazione in caso di contrasto A. nasi, voce Interpretazione della sentenza, in Enc. Dir., vol. XXii, Milano, 1972, pp. 293 ss.; in giurisprudenza cass. civ. sez. lav., 10 novembre 1998, n. 11336, in Mass. giust. civ., 1998, p. 2317.

94 Per esempio V. denti, L’interpretazione della sentenza civile, cit., p. 33, ritiene mate-riale utile all’interpretazione della sentenza anche la domanda giudiziale, in analogia con il criterio funzionale invalso in giurisprudenza.

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proposti (sistematico-testuale, logico-sistematico, sistematico-teologico e sistematico-dogmatico), ed ai caratteri peculiari degli stessi posti in ri-lievo, si può asserire che l’interpretazione sistematico-testuale è di certo quella più utile allo studio dell’ermeneutica degli atti giuridici presi in considerazione.

Si è visto infatti che dal dato positivo, dalla prassi applicativa e da alcune riflessioni dottrinarie, emerge con ricorrenza e vigore la rilevan-za del “testo” come sistema di riferimento prevalente, anche se non esclusivo, dell’interprete. Solo per l’atto e per il provvedimento am-ministrativo si affianca all’interpretazione sistematico-testuale (“co” e “macro” testuale), in posizione non subordinata, l’interpretazione logi-co-sistematica.

Postilla del 2012

Questo saggio risale al 2001 ed è il più vecchio della raccolta. Al mo-mento della sua pubblicazione anticipava una parte dei contenuti del libro Interpretazione sistematica e prassi giurisprudenziale, pubblicato nel 2002 presso l’editore Giappichelli. Tuttavia il saggio conserva gran parte della sua attualità, sia per quanto concerne l’interpretazione del-la legge, sia per ciò che riguarda gli atti giuridici indagati. È vero che di letteratura sull’interpretazione della legge, sull’ermeneutica contrat-tuale e testamentaria ne è stata prodotta molta nell’ultimo decennio, ma è pur vero che riguardo all’interpretazione sistematica, ai suoi tipi, le riflessioni sopravvenute non hanno scardinato, a parer mio, le conclu-sioni raggiunte in questo scritto (e nel libro che ne è seguito). Solo per l’argomento dell’incostanza terminologica (si veda la nota 36) ho muta-to idea, ritenendo che esso possa essere ricondotto alla sedes materiae e non abbia autonomia. Sul versante della regolamentazione dell’atto am-ministrativo vi sono stati molteplici interventi normativi e continue pro-nunce della giurisprudenza, ma anche in questo caso mi sento di poter confermare l’impianto concettuale di fondo proposto in queste pagine per l’interpretazione dell’atto amministrativo: o l’impianto concettuale era valido allora e lo è pure adesso, oppure non lo era allora e non lo è nemmeno oggidì. non ho registrato, infine, significative novità per l’in-terpretazione della sentenza.

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OSSeRVAziOni SULL’AnALOGiA GiURidicA

soMMaRio: 1. Lacune del diritto, integrazione giuridica e analogia. – 2. definizio-ne ed elementi dell’analogia giuridica. – 3. Analogia, legalità penale e interpretazione estensiva. – 4. Giudizio di costituzionalità, ragionevolezza e analogia. 5. L’analogia iuris.

1. Lacune del diritto, integrazione giuridica e analogia

L’intento precipuo di questo saggio consiste nell’affrontare alcune que-stioni riguardanti l’analogia giuridica. Per raggiungere lo scopo bisogna riprendere talune considerazioni sviluppate nel primo scritto di questa rac-colta riguardo alle teorie dell’interpretazione giuridica, al fine di indicare con chiarezza i presupposti per il ricorso all’analogia giuridica.

Scegliendo di collocarsi all’interno della teoria dell’interpretazione giu-ridica moderatamente scettica è possibile distinguere, infatti, tra attività strettamente interpretative (sempre discrezionali, ma non arbitrarie) che conducono alla determinazione, attribuzione di un significato ad una di-sposizione normativa, e attività integrative, ossia che conducono alla attri-buzione di una conseguenza giuridica ad una fattispecie passando per la, ma non limitandosi alla, determinazione, attribuzione di significato ad una disposizione normativa1. L’integrazione può avvenire per mezzo di svariati strumenti, uno dei quali, il più conosciuto e di regola positivamente pre-visto nei sistemi giuridici, è, appunto, l’analogia2. confinando il discorso a questo strumento di integrazione va notato che solitamente si richiede per farvi ricorso la constatazione di una lacuna3.

1 Questo aspetto sarà considerato di nuovo e approfondito trattando della distinzione tra analogia e interpretazione estensiva.

2 in astratto, ovvero indipendentemente da quanto stabilito da un singolo ordinamento giuridico, si può avere, quindi, sia un’integrazione analogica, sia un’integrazione non analo-gica. L’analogia viene considerata un mezzo di auto-integrazione dell’ordinamento giuridico, ossia un mezzo che consente all’ordinamento giuridico di svilupparsi attraverso le proprie norme. Proprio per questa ragione è uno degli strumenti più radicati di integrazione ed è stato previsto dall’art. 12, 2° comma, delle disposizioni sulla legge in generale (dette Preleggi), che così dispone: «Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i princìpi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato»

3 Punto condiviso da giuristi, giudici e teorici del diritto seppur muovendo da nozioni

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Tra teoria e dogmatica66

La questione delle lacune del diritto è, come noto, tra le più complesse e annose della teoria del diritto contemporanea (e non solo), qui ci si limita a fornire una nozione generale di lacuna, una classificazione elementare delle lacune e a connettere i principali tipi di lacuna individuati con l’analogia giuridica4.

Per lacuna si intende la situazione in cui a una fattispecie (astratta, vale a dire una classe di casi a cui è riconducibile il caso sottoposto a giudizio) non è possibile riconnettere, in via interpretativa, una conseguenza giuridi-ca5. Se ciò che manca è una regolazione tout court, si ha una lacuna norma-tiva in senso stretto o proprio. Se invece manca una norma la cui esistenza sia condizione necessaria per l’efficacia di un’altra norma, si ha una lacuna tecnica o teleologica6. Ove invece la mancanza consista nell’assenza non di una qualsivoglia regolazione, bensì di una disciplina reputata giusta o adeguata, si ha una lacuna assiologica7.

di analogia e di lacuna differenti, v. Caiani, Analogia (teoria generale), in Enc. dir., ii, Milano, 1958, p. 349: «Perché si abbia ricorso all’analogia è necessario quindi: 1) che manchi una nor-ma giuridica positiva e vigente atta a qualificare direttamente un caso su cui il giudice sia chia-mato decidere», nonché il sofisticato apparato concettuale proposto da CaRCateRRa, Analogia (teoria generale), in Enc. giur. it., ii, Roma, 1988, pp. 8-9, il quale per fissare le condizioni del ricorso all’analogia distingue tra: caso incluso, caso escluso, caso omesso e caso dubbio; si ag-giunga beLVedeRe, I poteri semiotici del legislatore (Alice e l’art. 12 Preleggi), in Gianformaggio, Jori (a cura di), Scritti per Uberto Scarpelli, Milano, 1997, p. 95, nota 47: «L’ipotesi tradizionale del legislatore che plus (minus) dixit quam voluit può riguardare solo un momento logicamente successivo a quello – regolato dal 1° comma dell’art. 12 – della interpretazione in senso stretto, in cui la attività ermeneutica trova nel testo legislativo il proprio oggetto (ed il proprio limite) e mira ad accertare quid (voluit et) dixit il legislatore (che cosa ciò ha voluto dire ed ha effetti-vamente detto). Solo in un successivo momento – che trova un parziale riscontro nel 2° comma dell’art. 12 (relativo all’analogia) – ci si può porre il problema di una applicazione della legge che – valorizzandone la ratio – prescinda dai limiti di compatibilità testuale».

4 Per due diversi approcci alle lacune e per gli appropriati rimandi bibliografici alla co-piosa e continua produzione (italiana e straniera) sul tema v. Chiassoni, Tecnica dell’interpre-tazione giuridica, Bologna, 2007, p. 169 ss.; fittiPaLdi, Scienza del diritto e razionalismo critico. Il programma epistemologico di Hans Albert per la scienza e la sociologia del diritto, Milano, 2003, pp. 429-437 e 488-493.

5 Si è già detto che il lessico e sovente i concetti mutano da autore ad autore, tuttavia, nonostante il lavoro non si sottragga a personalizzazioni lessicali, si veda per una rappresenta-zione ancora attuale e pregevole sulle lacune Conte, Saggio sulla completezza degli ordinamenti normativi, Torino, 1962, passim.

6 Cottone, Le sentenze additive della Corte costituzionale: una proposta di analisi, in Analisi e diritto 2011, p. 82 in nota, annovera tra le lacune tecniche o teleologiche anche quelle «che derivano dalla mancanza di una norma legislativa che dia attuazione ad una norma costi-tuzionale programmatica».

7 in proposito Guastini, Defettibilità, lacune assiologiche, interpretazione, in id., Nuovi studi sull’interpretazione, Roma, 2008, p. 98, scrive: «una lacuna assiologica […] non consiste […] nella mancanza di una norma senza ulteriori specificazioni. ciò che manca non è una norma che disciplini la fattispecie […] giacché tale fattispecie in realtà è disciplinata. ciò che manca è un norma soddisfacente o “giusta” e, più precisamente, una norma “differenziatrice”,

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Osservazioni sull’analogia giuridica 67

Orbene, l’analogia come mezzo di integrazione è in grado di interferire con tutti e tre i tipi di lacuna. non è difficile comprendere il ruolo che l’analogia può svolgere nel caso delle lacune normative in senso stretto o proprio, ma, per quanto più raro nella prassi, non v’è ostacolo concettuale alcuno nel consentire l’uso dell’analogia per colmare lacune tecniche: in as-senza della norma che dovrebbe esserci è astrattamente concepibile che si cerchi una soluzione giuridica per mezzo di un’altra norma che regola casi simili a quella mancante, oppure che si ricorra ai princìpi generali dell’or-dinamento giuridico dello Stato. il ragionamento analogico può avere un peso rilevante anche in tema di lacune assiologiche, almeno per quelle lacu-ne assiologiche che nell’ordinamento italiano sono riconducibili al giudizio di legittimità costituzionale delle leggi ex art. 3, 1° comma, cost.8.

2. Definizione ed elementi dell’analogia giuridica

il 2° comma dell’art. 12 delle Preleggi9 presuppone, quindi, l’individua-zione di una lacuna (l’assenza di una precisa disposizione nelle parole usate dal legislatore) e indica in sequenza gli strumenti utili a colmarla: il ricor-so a casi simili o materie analoghe e ai princìpi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato; rimanda, quindi, all’analogia giuridica nelle sue due varianti legis e iuris10.

ossia una norma che disciplini diversamente una fattispecie che all’interprete appare diversa, cioè appunto meritevole di una disciplina distinta».

8 il punto sarà segnalato, più che affrontato, infra § 4, è opportuno puntualizzare subito, però, che le lacune assiologiche riguardano l’assenza di una norma differenziatrice e l’assenza di una norma eguagliatrice; tuttavia, per alcuni ove si lamenti l’assenza di una norma eguaglia-trice la lacuna sarebbe normativa in senso proprio e non assiologica (v. quanto riferito ancora da Guastini, Defettibilità, lacune assiologiche, interpretazione, cit., p. 106, nota 14).

9 La disposizione è stata riprodotta retro, nota 2.10 Sul ragionamento analogico nel diritto si veda GianfoRMaGGio, L’analogia giuridica

(1987), in ead., Filosofia del diritto e ragionamento giuridico, a cura di diciotti e Velluzzi, Tori-no, 2008, pp. 131-147 (alle cui tesi si attinge ampiamente con talune precisazioni e differenze); e per lo studio dei profili inferenziali dell’analogia giuridica tuzet, L’analogia giuridica come inferenza complessa, in id., Dover decidere. Diritto, incertezza e ragionamento, Roma, 2010, pp. 91-105. Questo e i prossimi paragrafi seguono quanto si è avuto modo di esporre ripetutamente in molteplici scritti, si rammentano i più recenti, ovvero VeLLuzzi, La distinzione tra analogia giuridica ed interpretazione estensiva, in Manzin, Sommaggio (a cura di), Interpretazione giuri-dica e retorica forense, Milano, 2006, 133-148; Analogia, uguaglianza e giurisprudenza della Corte europea di Giustizia, in AAVV., Diritto comunitario e sistemi nazionali: pluralità delle fonti e unitarietà degli ordinamenti, napoli, 2010, pp. 219-229; Argomenti interpretativi, in Pino, Schia-vello, Villa (a cura di), Filosofia del diritto. Introduzione critica al pensiero giuridico e al diritto positivo, in corso di pubblicazione per l’editore Giappichelli. A questi lavori e a quello di Tuzet menzionato sopra si rinvia per ulteriori riferimenti alla letteratura italiana e straniera, copiosa e costantemente in crescita, sull’analogia giuridica. Per ragguagli storici v. i recenti e ottimi

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in ambito giuridico si ragiona per analogia al fine di stabilire se due classi di casi meritino o meno il medesimo trattamento attraverso una com-parazione delle somiglianze e delle differenze tra le classi di casi in questio-ne: la rilevanza delle somiglianze determina l’equiparazione del trattamen-to giuridico, mentre la rilevanza delle differenze determina la negazione dell’equiparazione del trattamento giuridico11. Per mezzo dell’analogia, quindi, a una fattispecie giuridica non regolata (nel senso precisato) viene attribuita la medesima conseguenza giuridica prevista da una norma che regola una fattispecie simile in maniera rilevante (e quindi dissimile in ma-niera irrilevante) a quella non regolata12.

Si rendono necessarie tre puntualizzazioni. ecco la prima. Assumiamo quale situazione paradigmatica quella del

giudice (a esclusione di quello penale) chiamato a decidere un caso a lui sottoposto. Laddove il giudice constati una lacuna, vuol dire che rispetto al caso specifico egli si trova nella impossibilità di ricondurre il caso di specie

saggi raccolti da stoRti (a cura di), Il ragionamento analogico nel diritto. Profili storico-giuridici, napoli, 2010, passim.

11 Per l’ambito penale importanti considerazioni si trovano in donini, Disposizione e norma nell’ermeneutica penale, in Biscotti, Borsellino, Pocar, Pulitanò (a cura di), La fabbrica delle interpretazioni, Milano, 2012, pp. 73-121, e nel saggio contenuto nello stesso volume di PuLitanò, Nella fabbrica delle interpretazioni penalistiche, pp. 181-207.

12 che con l’analogia si estenda la stessa conseguenza giuridica a casi diversi, ma simili è un dato acquisito v. bobbio, Analogia (1957), in id., Contributi ad un dizionario giuridico, Tori-no, 1994, p. 1: «S’intende per “analogia giuridica”, o, con altre espressioni, “ragionamento per analogia”, “procedimento per analogia”, “estensione analogica”, “interpretazione analogica”, quell’operazione, compiuta dagli interpreti del diritto (giuristi e giudici in specie), mediante la quale si attribuisce ad un caso o ad una materia, che non trovano una regolamentazione espressa nell’ordinamento giuridico, la stessa disciplina prevista dal legislatore per un caso o per una materia simili»; si tratta di un dato acquisito che va però arricchito con le precisazioni riferite nel testo. che l’interprete non possa ricercare liberamente la conseguenza giuridica da estendere è altrettanto pacifico, per la giurisprudenza cass., 16.12.1982, n. 6935, in Giur. it., 2, 1984, p. 366: «il principio dell’annullabilità parziale del negozio, pur desumibile in via analogica dall’art. 1419 c.c., va inteso nel senso della semplice amputazione di una parte del negozio stesso; non può invece portare ad adeguamenti o rettifiche che hanno essenza di mo-dificazione del contenuto della restante parte del contratto». Si ricordi, inoltre, che l’art. 12, 2° comma, distingue i casi simili dalle materie analoghe, ovvero tra norme che regolano una fattispecie simile a quella non regolata nell’ambito della stessa materia e norme che regolano una fattispecie di una materia analoga: in entrambi i casi è indispensabile un giudizio di rile-vanza delle somiglianze e di irrilevanza delle differenze. Ritiene che i casi simili richiamino l’interpretazione estensiva e le materie analoghe l’analogia giuridica (legis), cass., 24.7.1990, in Il fallimento, 1991, p. 341, la cui motivazione costituisce il paradigma di come non andrebbero scritte le sentenze, indipendentemente dal condividerne le conclusioni. Una considerazione estemporanea: il giudizio di rilevanza delle somiglianze e di irrilevanza delle differenze è alla base anche della traduzione in termini operativi della (ricorrente) formula «si applicano in quanto compatibili» riferita a gruppi di disposizioni di una certa materia con riguardo ad altre fattispecie.

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stesso nell’ambito di una classe (fattispecie astratta) del sistema giuridico. Tuttavia, nel tentativo di procedere per analogia, il giudice effettuerà la comparazione tra classi omogenee per grado di generalità, e non tra una fattispecie concreta e una astratta13.

La seconda puntualizzazione. La definizione di analogia che si è forni-ta lega il ragionamento giuridico all’eguaglianza. che vi sia una relazione tra analogia giuridica ed eguaglianza è intuitivo. Superando le intuizioni si scopre che la relazione è ricostruita con intensità varia e terminologia diver-sificata14. L’eguaglianza consiste nell’eguale trattamento di situazioni eguali e nel diverso trattamento di situazioni che eguali non sono15, e allora in che senso esprimersi in termini di eguaglianza, di similitudine o di analogia vuol dire usare termini (almeno in parte) col medesimo significato?

Quale sia il rapporto fra i termini analogo, simile ed eguale può essere spiegato attraverso un felice esempio formulato da Letizia Gianformag-gio16. l’Autrice ha asserito che se si afferma “a e b sono eguali” lo si fa al fine di mettere in luce ciò che a e b hanno in comune; se si afferma che a e b sono diversi si sottolinea ciò che non hanno in comune. e cosa accade se si sostiene che a e b sono simili o analoghi? Letizia Gianformaggio ha so-stenuto che la particolarità dell’enunciato “a e b sono simili o analoghi”, sta nel fatto che la somiglianza (l’analogia) rivolge l’attenzione non soltanto su ciò che accomuna a e b ma pure sulle reciproche differenze. È un’espressio-ne che posta in relazione con le altre due porterebbe a riformulare queste ultime nel seguente modo: “a e b sono eguali” si converte in “a e b non sono proprio eguali ma comunque simili”; il secondo enunciato “a e b sono diversi” si converte nell’enunciato “a e b pur essendo diversi ciò nonostante sono simili”. Simile e analogo richiamano, quindi, un giudizio comples-

13 come si è avuto modo di scrivere, forse con un eccesso di semplificazione, in Analogia, uguaglianza e giurisprudenza della Corte europea di Giustizia, cit., p. 221: «Ove si sia chiamati a decidere se la conseguenza giuridica statuita per le lavatrici debba valere anche per la lavastovi-glie del signor Paolo, si farà una comparazione tra i caratteri delle lavatrici e delle lavastoviglie; la sorte della lavastoviglie del signor Paolo dipende dall’appartenere alla classe lavastoviglie».

14 Affermano, con differenti accenti, il nesso tra eguaglianza e analogia GianfoRMaGGio, L’analogia giuridica, cit., p. 140 ss.; CaRCateRRa, Analogia I) Teoria generale, cit.; per un caso giurisprudenziale accattivante dove emerge la connessione tra analogia ed eguaglianza cass., 25.3.1999, n. 2819, per la quale «non v’è ragione per non applicare la disposizione del codice civile dettata per la ricognizione di debito al caso inverso della dichiarazione di inesistenza del credito, in relazione al principio dell’uguale situazione tra le parti del rapporto obbligatorio».

15 Si sa che la nozione di eguaglianza è sia vaga, sia ambigua, una sintetica ma densa raccolta antologica in proposito è quella di feRRaGaMo (a cura di), Le formule dell’uguaglianza: da Kelsen a Nagel, Torino, 2004; per l’ambito giuridico soRRentino, Eguaglianza, Torino, 2011, passim.

16 GianfoRMaGGio, Ragionamento giuridico e somiglianza (1998), in ead., Filosofia del diritto e ragionamento giuridico, cit., pp. 207-209.

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so, vale a dire la necessità di tener conto, in una specifica argomentazione analogica, sia degli elementi di somiglianza sia di quelli di differenza fra le entità che vengono comparate17.

Limitando il discorso all’ambito giuridico si può notare che l’esempio costituisce uno strumento utile per valutare le condizioni argomentative minime di una buona analogia giuridica. Ossia: in ambito giuridico un ra-gionamento analogico è adeguatamente sviluppato, almeno nei tratti es-senziali, soltanto se si argomenta sia intorno alle somiglianze, sia intorno alle differenze tra le classi di casi raffrontate. Si tratta di una condizione necessaria di elaborazione di un ragionamento analogico giuridico18.

Un giudizio di rilevanza delle somiglianze concluderà per l’irrilevan-za delle differenze e quindi per l’attribuzione del medesimo trattamento giuridico alle classi di casi coinvolte; oppure si potrà avere un giudizio di rilevanza delle differenze e quindi una conclusione che nega il medesimo trattamento giuridico alle classi di casi coinvolte. ne consegue, ed è anche questa una tesi di Letizia Gianformaggio, che l’argomento a simili (analo-gico) e l’argomento a contrario sono entrambi argomenti che si fondano sull’eguaglianza come nucleo razionale; soltanto che l’argomento a simili è correlato all’accertamento della rilevanza delle somiglianze che consegue all’irrilevanza delle differenze, mentre l’argomento a contrario è correlato al giudizio di rilevanza delle differenze che rende irrilevanti le somiglianze19. Argomentando in questi termini l’analogia giuridica è un ragionamento comparativo legato all’eguaglianza20.

La terza puntualizzazione: per stabilire quando si è di fronte a somi-glianze rilevanti e quindi a differenze irrilevanti o quando si è di fronte a differenze rilevanti e quindi a somiglianze irrilevanti, v’è bisogno di un cri-terio21. Giuristi e giudici sostengono, è noto, che il criterio sia la ratio legis.

17 Ibidem; si è parlato nel testo di giudizio complesso, mentre Letizia Gianformaggio tratta di doppio criterio di rilevanza.

18 Per “condizioni argomentative minime di una buona analogia giuridica” si intendono, quindi, quei passaggi argomentativi che non possono mancare in un ragionamento analogico giuridico, pena la sua incompletezza.

19 cfr. ancora GianfoRMaGGio, L’analogia giuridica, cit., pp. 140-142. Per un approccio originale all’argomento a simili che asseconda l’inferenzialismo semantico v. CanaLe, tuzet, The A Simili Argument: An Inferentialist Setting, in Ratio Juris, 4, 2009, pp. 499-509.

20 All’eguaglianza intesa come produzione di norme ragionevoli, v. taReLLo, L’interpre-tazione della legge, cit., pp. 350: «in questa esplicazione, l’argomento a simili si presenta come una regola sulla produzione giuridica e precisamente come una regola che impone la produzio-ne di norme che abbiano l’effetto di ottenere per il secondo termine dell’analogia la disciplina che una norma preesistente impone al primo termine dell’analogia».

21 Sottolinea opportunamente GianfoRMaGGio, L’eguaglianza di fronte alla legge: princi-pio logico, morale o giuridico?, in ead., Eguaglianza, donne e diritto, a cura di Facchi, Faralli, Pitch, Bologna, 2005, p. 65: «a dividerci dunque non sono i significati che attribuiamo al termi-

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così si interpreta in chiave teleologica la disposizione normativa che regola una classe di casi individuandone, quindi, la ratio, e se alla medesima ratio è riconducibile la classe di casi non regolata vuol dire che le due classi me-ritano lo stesso trattamento giuridico, quello stabilito dalla norma (frutto di interpretazione teleologica della disposizione normativa)22.

È per mezzo della ratio legis che si valuta la rilevanza delle somiglian-ze e l’irrilevanza delle differenze. il richiamo alla ratio legis quale perno dell’analogia giuridica porta con sé tutta la problematicità della nozione messa ampiamente in luce da molti autori23. Qui preme sottolineare che il riferimento alla ratio pone in rilievo un aspetto fondamentale dell’analogia giuridica, ossia che l’analogia giuridica ha natura valutativa e di conseguen-za la correttezza dei ragionamenti analogici non può prescindere da come si individua e si usa l’elemento valutativo24. ciò comporta che le controver-sie relative ai ragionamenti analogici compiuti in ambito giuridico ruotano principalmente intorno a due aspetti: a) l’individuazione della ratio; b) la sua coerente applicazione.

3. Analogia, legalità penale e interpretazione estensiva

È risaputo che l’art. 14 delle Preleggi pone per le norme penali incri-minatrici il divieto di applicare le stesse norme oltre i casi e i tempi da esse considerati. Questa formula è interpretata in maniera unanime come divie-to di applicazione analogica delle norme penali incriminatrici. Allo stesso modo la dottrina e la giurisprudenza non dubitano della possibilità di poter

ne “eguaglianza”; sono piuttosto i criteri che impieghiamo per formulare i giudizi di eguaglian-za: sono dunque, in definitiva, i nostro scopi» (corsivi dell’autrice).

22 Scriveva già nella prima metà del ‘900 bobbio, L’analogia nella logica del diritto (1938), Milano, 2006, p. 134 : «i giuristi infatti, postisi alla ricerca del fondamento della analogia, son venuti fissando la loro esperienza al riguardo in quella notissima e apparente banale massima, che […] suona costantemente così: ubi eadem ratio, ibi eadem juris dispositio».

23 cfr. infra il saggio che segue in questa raccolta.24 cfr. aLexy, Teoria dell’argomentazione giuridica (1978), Milano, 1998, p. 221: «Si pos-

sono senz’altro analizzare le strutture logiche delle relazioni di somiglianza; tuttavia l’accer-tamento di una somiglianza giuridicamente rilevante non può essere ottenuta a partire da tale analisi. numerosi autori hanno perciò notato che alla base dell’analogia vi è una valutazione». Va precisato che « essendo l’eguaglianza il nucleo razionale dell’idea della giustizia distributi-va, non mi pare di poter ravvisare una gran differenza tra questa concezione del fondamento dell’analogia giuridica, e quella secondo cui fondamento ne è l’eadem ratio», GianfoRMaGGio, L’analogia giuridica, cit., p. 141; si veda pure CaRCateRRa, Analogia I) Teoria generale, cit., pp. 13-14, il quale dopo aver sostenuto che eguaglianza e identitas rationis presentano strutture differenti, conclude che esse hanno un essenziale aspetto logico in comune e si può «ritenere che nell’argumentum a simili il concetto di somiglianza possa specificarsi non solo mediante il criterio dell’identitas rationis ma altresì mediante quello dell’eguaglianza giuridica».

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interpretare estensivamente le disposizioni normative penali25. Ritengono, quindi, che l’interpretazione estensiva delle norme penali incriminatrici sia consentita.

Tuttavia, l’ammissibilità dell’interpretazione estensiva ha senso se si ri-tiene possibile differenziarla dall’analogia e se analogia e interpretazione estensiva si possano distinguere è discusso e controverso da tempo imme-morabile26. La ragione emerge con evidenza se si considerano le nozioni di

25 Tra le tante decisioni v. cass. pen., 8.1.1980, Riva, in Giust. pen., ii, 1980, p. 490: «L’interpretazione estensiva non incontra limitazioni nell’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale perché non amplia il contenuto effettivo della norma, ma impedisce che fattispecie ad essa soggette si sottraggano alla sua disciplina per un ingiustificato rispetto di manchevoli espressioni letterali. È infatti dovere dell’interprete applicare la norma più ampiamente di quanto la dizione letterale comporterebbe, in modo da far coincidere esattamente la portata della norma stessa con il pensiero e la volontà del legislatore»; cass. pen., 2.4.1986, Taddeo, in Cass. pen., 1987, p. 1116: «L’interpretazione estensiva, che non va confusa con l’applicazione analogica in via di principio vietata, si ha quando l’ambito di applicazione di una norma pe-nale viene esteso ad un caso che, pur non essendo espressamente ivi previsto, si deve ritenere compreso nella norma stessa risalendo alla intenzione del legislatore, cui si riferisce l’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale. di guisa che la massima ubi lex voluit dixit, ubi non dixit noluit vale per escludere l’interpretazione analogica e non già quella estensiva che avvie-ne per necessità logica e non per similitudine di rapporti». Ma guardando alla formulazione dell’art. 14, che vieta di andare oltre i casi e i tempi considerati dalle norme incriminatrici, non è una mera discettazione teorica o una illusoria proposta de iure condendo di matrice neo-illuministica interrogarsi sull’applicazione del divieto anche all’interpretazione estensiva, almeno per alcuni casi, pur se la prassi penale e la dottrina procedono nell’altra direzione; e si badi bene: si dovrebbe considerare il punto non in ragione dell’impossibilità di distinguere l’analogia dall’interpretazione estensiva, bensì in ragione del fatto che pur potendo distinguere anche l’interpretazione estensiva violerebbe (talvolta) l’art. 14 delle Preleggi; su questo aspetto v. fiandaCa, MusCo, Diritto penale. Parte generale, Bologna-Roma, 2009, pp. 125-126, e da ulti-mo, sia sul piano teorico giuridico, sia con riferimento al noto caso di Radio vaticana e del getto pericoloso di cose ex art. 674 c.p., tuzet, La storia infinita. Ancora su analogia e interpretazione estensiva, in Criminalia 2011. Annuario di scienze penalistiche, Pisa, 2012, pp. 507-519. Per le norme eccezionali la giurisprudenza è invece oscillante, ritenendo talvolta che l’art. 14 delle Preleggi vieti anche l’interpretazione estensiva e non solo l’analogia, cfr. PeLLiCCioLi, VeLLuzzi (a cura di), L’analogia e il diritto. Antologia breve, Pisa, 2011, pp. 189-198.

26 Un quadro dello stato dell’arte (non più aggiornatissimo ma pur sempre utile) è offerto da fRaCanzani, Analogia e interpretazione estensiva nell’ordinamento giuridico, Milano, 2003. Sul piano del diritto positivo il campo penale è quello maggiormente interessato, ma non il solo inte-ressato stante la presenza di norme eccezionali in molteplici, se non in tutti, gli ambiti disciplinari e pensando che in ogni caso residua l’opportunità di individuare il ragionamento compiuto e gli strumenti usati dall’interprete. notevoli spunti si possono trarre dai lavori di RoMano tassone, Sul problema dell’analogia nel diritto amministrativo, in Dir. amm., 2012, 1, p. 1 ss.; aLPa, Il ricorso all’analogia nella giurisprudenza. Esempi, tecniche, stili, in Nuova giur. civ. comm., 1998, ii, specie p. 50 ss.; beLVedeRe, Interpretazione estensiva e analogia: alcune considerazioni, in Dir. priv., 2001-2002, cedam, 2003, pp. 557-577; la letteratura penalistica su questo tema è amplissima, soprattutto se si pensa che in essa va inclusa la manualistica ove sovente, seppur con periodare stringato, si rinvengono intuizioni illuminanti e riflessioni profonde; per una rassegna della dottrina e del-la giurisprudenza v. CuPeLLi, sub art. 1, in Lattanzi, LuPo (a cura di), Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, i, artt. 1-38, La legge penale e le pene, Milano, 2010, pp. 1-133.

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analogia giuridica (presentata nelle pagine precedenti) e di interpretazione estensiva (comunemente intesa).

Per mezzo dell’analogia viene attribuita a una fattispecie (astratta) non regolata la medesima conseguenza giuridica prevista da una norma che regola una fattispecie simile in maniera rilevante (e quindi dissimile in maniera irrilevante) a quella non regolata. con l’interpretazione estensiva si determina un esito interpretativo diverso e più ampio rispetto ad una interpretazione precedente dello stesso enunciato normativo. Per un verso la distinzione appare chiara: l’analogia presuppone una lacuna e la colma estendendo una conseguenza giuridica ad una fattispecie non prevista sulla base di una somiglianza rilevante con la fattispecie regolata da una norma; l’interpretazione estensiva è invece operazione di natura strettamente in-terpretativa, nel senso che il significato dell’enunciato normativo (la nor-ma) viene ampliato sino a ricomprendervi una fattispecie esclusa da una interpretazione precedente. il principale aspetto critico è dato dal fatto che entrambi i procedimenti comportano un’estensione e non è agevole sapere sino a quale punto l’estensione operata resti interpretativa e quando invece divenga analogica (vale a dire integrativa).

Ai fini di questo scritto è opportuno fornire una (parziale) rassegna dei termini del dibattito che ha coinvolto autorevoli studiosi e poi affrontare la questione dalla prospettiva del diritto penale, la più rilevante per gli artt. 12 e 14 delle Preleggi, legando quanto si dirà alle considerazioni compiute con riguardo alle concezioni dell’interpretazione giuridica e alla possibilità e opportunità di distinguere l’interpretazione (anche estensiva) dall’inte-grazione analogica27.

norberto Bobbio si è cimentato più volte con l’argomento; ha sostenu-to dapprima che interpretazione estensiva e analogia sono pressoché equi-valenti sul piano del ragionamento28, per poi aderire alla posizione di Mas-simo Severo Giannini29 e sostenere successivamente che «l’interpretazione estensiva non esiste come tertium genus tra interpretazione dichiarativa

27 È diffusa e conosciuta l’idea che qualsiasi ragionamento abbia natura necessariamente analogica. Tuttavia, anche se così fosse, gli stessi assertori di tale posizione, almeno i più av-veduti, riconoscono che le questioni giuridiche legate all’analogia, come ad esempio il divieto di analogia per talune norme e ambiti e la distinzione tra analogia giuridica e interpretazio-ne estensiva, hanno senso se collocati «nella dimensione dell’analogia» e si può «tracciare un confine in qualche misura plausibile per mezzo di criteri adeguati», kaufMann, L’analogia. Un problema insoluto della scienza del diritto, in id., Analogia e “natura della cosa” (1965), napo-li, 2003, p. 16 (corsivi dell’autore). così ragionando permane l’interesse per l’oggetto di inda-gine: quale sia il rapporto tra analogia giuridica e interpretazione estensiva, seppur all’interno di una dimensione necessariamente analogica del ragionare.

28 bobbio, L’analogia nella logica del diritto, cit., p. 63.29 bobbio, Analogia, cit., p. 10.

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(comprendente anche l’interpretatio lata) e procedimento per analogia»30. Massimo Severo Giannini, dal canto suo, ha sostenuto in un approfondito studio sull’analogia che l’interpretazione estensiva non comporta, diversa-mente dall’analogia, il coinvolgimento di altre norme del sistema giuridico: nel caso dell’interpretazione estensiva si estende il significato della norma, nel caso dell’analogia si risale ad una norma superiore che comprende sia il caso regolato, sia quello simile in maniera rilevante da regolare31. Per Le-tizia Gianformaggio l’interpretazione estensiva altro non è che un’analogia facile, conforme al senso comune dei giuristi che non necessita di giustifica-zione32. Gaetano carcaterra sostiene che sia nell’interpretazione estensiva, sia nell’analogia entra in gioco la ratio legis: nella prima (interpretazione estensiva) essa serve a decidere i casi dubbi, nei quali «non si è in grado di stabilire univocamente se la norma attribuisca o no, neghi o no, a B la disciplina d»; nella seconda (analogia) la ratio serve a decidere casi omessi, ovvero casi in cui «la norma […] non attribuisce ma neppure nega a B la disciplina d»33. e sempre con riferimento al ruolo della ratio legis Andrea

30 bobbio, Ancora intorno alla distinzione tra interpretazione estensiva e analogia, in Giur. it., i, 1968, p. 698.

31 Giannini, L’analogia giuridica, in Jus, iV, 1941 e i, 1942, ora in id., Scritti, vol. ii, Mi-lano, 2002, pp. 187-255, il saggio è particolarmente utile, oltre che per la profondità delle argomentazioni in esso contenute, per la messe di riferimenti a saggi e manuali degli inizi del ‘900. Va detto che il modo di costruire (e ricostruire) il ragionamento analogico nel diritto adottato da Giannini trova tutt’ora significativi riscontri in giurisprudenza, v. cass., 3.9.2007, n. 18522, in Giust. civ., 2008, i, 1, p. 132, per la quale «al terzo datore di pegno, che abbia sod-disfatto il creditore, deve riconoscersi l’azione di regresso contro il fideiussore, in applicazione analogica di quanto disposto, in favore del terzo datore d’ipoteca, dall’art. 2871, 2° co., c.c.» in ragione del fatto che le due fattispecie sono accomunate dalla garanzia prestata al debitore da un terzo non debitore e rispondono, quindi, al medesimo principio; ancor più evidente risuona l’eco di Giannini in cass., 24.4.2004, n. 9982, in motivazione, ove si sostiene «che non risultano precedenti di questa corte, mentre autorevole dottrina da tempo ritiene che nell’accollo cumulativo che […] richiede l’adesione del creditore, deve ricevere applicazione analogica la regola stabilita per delegazione dall’art. 1268, 2° co., c.c., che degrada l’obbligazio-ne del delegante ad obbligazione sussidiaria, di tal che il creditore ha l’onere di chiedere pre-ventivamente, l’adempimento all’accollante. La dottrina ha argomentato in questo senso dalla compatibilità di sussidiarietà e solidarietà; dalla unità del fenomeno dell’assunzione del debito altrui; dalla disciplina di alcune ipotesi tipiche di accollo cumulativo; sul piano sistematico ha osservato che nell’accollo cumulativo il peso definitivo del debito è destinato a gravare intera-mente sull’accollante, sicché lo schema appropriato è quello dell’obbligazione solidale passiva ad interesse unisoggettivo, la cui modalità tipica è la sussidiarietà. il collegio recepisce l’indi-cato orientamento dottrinale e dà quindi soluzione affermativa alla questione negativamente risolta dal Tribunale, considerando che, come osservato dalla dottrina più recente, se aderisce all’accollo, accerta implicitamente il nuovo debitore nel ruolo di obbligato principale, con la conseguenza che l’applicazione della regola della degradazione dell’obbligazione dell’accollato ad obbligazione sussidiaria è pienamente giustificata».

32 GianfoRMaGGio, L’analogia giuridica, cit., p. 150. La differenza è quindi di mero grado. 33 CaRCateRRa, Analogia (teoria generale), cit., p. 8 e 16.

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Belvedere ritiene che l’interpretazione estensiva si possa distinguere dall’a-nalogia per il diverso uso della ratio stessa: per la prima è escluso il ricorso all’argomento a simili34.

Guardando a questa incompleta carrellata di opinioni si può osservare che: laddove due procedimenti siano assimilabili non significa necessaria-mente che conducano al medesimo risultato, dipende dal punto in cui il comune modo di procedere si arresta nell’un caso, ma non nell’altro. Tutte le opinioni riportate lasciano, inoltre, aperto un interrogativo: qual è il cri-terio che consente di capire che un caso è dubbio o omesso, oppure che l’interpretazione realizzata risponde al senso comune dei giuristi, o che si tratta di una estensione di significato pur sempre rapportabile alla formu-lazione normativa?

Si può fornire un tentativo di risposta ripercorrendo i passaggi cardine dello scetticismo interpretativo moderato fatto assurgere a teoria privile-giata dell’interpretazione giuridica e attraversando, senza pretesa di esau-stività, il campo del diritto penale con riguardo al principio di legalità che lo caratterizza.

Si rammenterà che lo scetticismo moderato sostiene che per ogni enun-ciato normativo vi sono più interpretazioni possibili e l’ambito delle solu-zioni interpretative è delimitato35. L’attività interpretativa è, dunque, di-screzionale, si sostanzia in una scelta, ma il prodotto dell’interpretazione di un certo enunciato normativo è tale solo se determinato all’interno di un lotto di significati delimitati. Ovviamente vi sono differenze non tra-scurabili tra i sostenitori dello scetticismo moderato in ragione del criterio che si ritiene idoneo a delimitare l’ambito delle soluzioni interpretative per un dato enunciato normativo. È importante anche segnalare la possibili-tà di distinguere tra interpretazioni possibili e interpretazioni ammissibili: possono esservi, infatti, risultati interpretativi possibili sul piano linguisti-co, ma inammissibili sul piano giuridico, ossia non giustificabili per mezzo di uno o più argomenti interpretativi ammessi nella comunità giuridica di riferimento. non tutti gli esiti interpretativi riconducibili al significato di un enunciato normativo sono per ciò solo accettabili sul piano della loro plausibilità giuridica.

Seguendo lo scetticismo moderato è possibile distinguere estensioni interpretative ed estensioni integrative, estensioni, queste ultime, che non costituiscono un esito interpretativo che possa essere considerato un signi-ficato di un determinato enunciato normativo. L’adozione dello scetticismo

34 beLVedeRe, Interpretazione estensiva e analogia: alcune considerazioni, cit., specialmen-te pp. 568-572.

35 cfr. retro il primo saggio riproposto in questa raccolta, specie il § 2.

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moderato consente, dunque, di distinguere attività e risultati interpretativi da attività ed esiti che interpretativi non sono, tra interpretazioni estensive e analogie.

Tuttavia, un certo significato può essere considerato un significato di quel particolare enunciato normativo in virtù del criterio usato per deli-mitare l’ambito dei possibili significati dell’enunciato normativo stesso. Sintetizzando di nuovo le posizioni in campo se ne possono delineare due principali: la prima individua l’ambito dei possibili significati per mezzo delle regole semantiche e sintattiche della lingua in cui è formulato l’enun-ciato normativo; la seconda fissa i paletti degli esiti interpretativi facendo ricorso alle tesi dogmatiche e ai giudizi di valore formulati o sottintesi da chi interpreta.

Bisogna inoltre ricordare che non è problematica soltanto la questione della scelta del criterio necessario a tracciare la cornice, ma è altrettanto rilevante la questione dell’applicazione del criterio. Se si scegliesse un cri-terio che non fosse mai, o quasi, in grado di assolvere il proprio compito, proseguire nel propugnarlo sarebbe infruttuoso. Tuttavia è ragionevole so-stenere che le regole riguardanti la semantica e la sintassi della lingua, per quanto talvolta di disagevole accertamento, mutevoli e in taluni casi di in-certa applicazione, garantiscono una comunicazione efficace e consentono di individuare sovente situazioni riconducibili nell’ambito di significato di un enunciato e (soprattutto) situazioni che non sono riconducibili nell’al-veo di significato di un enunciato.

Orbene, a questo punto si tratta di mettere assieme lo scetticismo mo-derato prescelto e le tematiche della legalità penale. Se si intende la legalità penale in senso stretto, la norma di chiusura del (sotto)sistema penale per cui (si perdoni la semplificazione) «tutto ciò che non è penalmente rilevan-te è consentito» andrebbe integrata così: «in caso di dubbio se un compor-tamento sia riconducibile ai significati possibili, bisogna preferire un esito interpretativo favorevole all’irrilevanza penale del comportamento»36. La legalità penale così configurata funge da criterio meta-interpretativo per risolvere le questioni interpretative dubbie, ovvero le questioni sul se un certo esito sia interpretativo o non lo sia. Anche da non esperti del diritto penale si coglie facilmente che l’adozione della prospettiva della legalità penale in senso stretto è in armonia con il dato normativo vigente (in par-

36 Scrive Caiani, Analogia (teoria generale), cit., p. 369: «esiste un valore o una esigenza generica, da cui dipende la posizione del divieto, che è valido per entrambe le categorie di nor-me: quelle penali e quelle eccezionali […] il divieto di analogia, in altri termini, non è che un particolare mezzo per mantenere per quanto possibile la portata di tali norme nei limiti della loro sfera diretta e immediata di applicazione».

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ticolare con gli artt. 1 e 199 c.p., 25, 2° comma, cost., e con l’art. 14 delle Preleggi).

il diritto penale può considerarsi un’impresa pienamente sensata sola-mente se lo si concepisce come destinato a farsi comprendere dai soggetti dei quali vuole scoraggiare i comportamenti. Si sa bene che questo non è l’unico scopo del diritto penale, ma si sa pure che è uno dei suoi scopi irrinunciabili. in ambito penale, dunque, il dato testuale, nella sua articola-zione semantica e sintattica, costituisce lo spazio di manovra all’interno del quale gli aspetti tecnici del diritto penale svolgono il loro ruolo. in campo penale, dunque, il dato testuale inteso nella sua massima estensione seman-tica (e sintattica) non è l’unico rilevante per l’interpretazione, ma non è mai irrilevante, costituisce il campo all’interno del quale l’interprete è tenuto a muoversi.

Per queste ragioni lo scetticismo interpretativo moderato preferito in questo commento si rivela il più adeguato. Le conseguenze di quanto si è detto sono principalmente quattro: 1) lo scetticismo interpretativo mode-rato nella sua versione che individua lo strumento idoneo a delimitare le interpretazioni possibili nelle regole semantiche e sintattiche della lingua, ben si presta a soddisfare le esigenze comunicative del diritto penale; 2) se si adotta la concezione della legalità penale in senso stretto d’innanzi a difficoltà o dubbi nell’applicazione del criterio si dovrà concludere per la non tipicità del fatto; 3) considerazioni di tipo dogmatico, sistematico, teleologico (chiamati poco addietro aspetti tecnici del diritto penale) ser-vono ad accreditare o a screditare esiti interpretativi che non oltrepassano la cornice: assolvono il loro compito soltanto se accreditano o screditano interpretazioni possibili giudicandole o meno giuridicamente ammissibi-li; 4) la nozione di interpretazione finisce col designare in via alternativa: interpretazioni che restano all’interno di quelle possibili e giuridicamente ammissibili, cioè sostenute da adeguate ragioni giuridiche; interpretazioni possibili ma giuridicamente non ammissibili, cioè non sostenute da ade-guate ragioni giuridiche.

Mentre estensioni che oltrepassano i possibili significati non sono inter-pretative, ma integrative37.

37 La giurisprudenza pullula di casistica significativa, v. per esempio cass. pen., 18.4.2012, n. 15048, in Guida dir., 24, 2012, p. 94: «L’interpretazione estensiva della norma pe-nale, lungi dall’essere vietata, è invece lecita e, anzi, doverosa, quando sia dato stabilire - attra-verso un corretto uso della logica e della tecnica giuridica - che il precetto legislativo abbia un contenuto più ampio di quello che appare dalle espressioni letterali adottate dal legislatore», nella specie la corte ha ritenuto ravvisabile la violazione dell’art. 483 c. p. nel comportamento dell’imputato accusato di aver falsamente attestato, nella domanda di arruolamento nell’e-sercito italiano, di avere conseguito il diploma di scuola media secondaria con una votazione

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4. Giudizio di costituzionalità, ragionevolezza e analogia

Si è detto che l’analogia giuridica può servire a colmare le lacune as-siologiche, ossia lacune nelle quali per una fattispecie v’è la presenza di una disciplina inadeguata e l’assenza di una disciplina adeguata. Bisogna argomentare a sostegno di questa affermazione.

il parametro di valutazione della inadeguatezza della regolamentazione esistente può essere sia esterno, sia interno al sistema giuridico. nel secon-do caso il giudizio di inadeguatezza consiste nell’accertamento di un con-trasto tra due norme del sistema giuridico38. Orbene, seguendo questa im-postazione è chiaro che in un sistema a costituzione rigida come il nostro ove è predisposto un controllo accentrato di legittimità costituzionale delle leggi, viene constatata una lacuna assiologica ogni volta che si solleva una questione di costituzionalità della legge. L’analogia entra in campo quando il parametro di legittimità costituzionale è costituito dall’art. 3, 1° comma, cost., riguardante l’uguaglianza e dal criterio di ragionevolezza che ne è stato derivato. Si ritiene infatti che il giudizio sull’eguale trattamento dei casi eguali e sul differente trattamento dei casi diversi non debba limitarsi alle sole situazioni espressamente contemplate dall’art. 3, 1° comma, cost. e nonostante sia ben noto che il sindacato costituzionale di ragionevolez-za ha assunto molteplici volti, non v’è dubbio che «sia sorto inizialmente nell’ambito del giudizio di eguaglianza e solo più tardi abbia acquisito una propria fisionomia specifica», forse si potrebbe sottolineare, molte altre fi-sionomie, non sempre così specifiche39.

di “buono” superiore a quella realmente ottenuta; ciò in quanto la disposizione normativa di riferimento, di cui all’art. 46, lett. m), d.p.r. 28.12.2000, n. 445, sulla cui base il dichiarante era tenuto a dichiarare il vero per il conseguimento di specifici effetti giuridici, pur ricollegando espressamente l’obbligo all’autocertificazione del «titolo di studio» e degli «esami sostenuti»; per una penetrante discussione di alcuni casi problematici v. PaLazzo, Testo, contesto e sistema nell’interpretazione penalistica, in doLCini-PaLieRo (a cura di), Studi in onore di Giorgio Mari-nucci, Milano, 2006, pp. 515-538, e Giunta (a cura di), Tra analogia giuridica e interpretazione estensiva. Opinioni a confronto, in Criminalia 2010. Annuario di scienze penalistiche, Pisa, 2011, pp. 347-382, con contributi di carcaterra, Mazzacuva, di Giovine, Velluzzi.

38 e infatti Chiassoni, Tecnica dell’interpretazione giuridica, cit., pp. 169 ss., riconduce le lacune assiologiche di questo tipo nell’ambito delle antinomie.

39 La citazione è tratta da bonCineLLi, I valori costituzionali tra testo e contesto. Regole e forme di razionalità nel giudizio costituzionale, Torino, 2007, p. 96. Sul sindacato costituzionale di ragionevolezza delle leggi e sulle sue molte varianti si rinvia (oltre che a bonCineLLi, I valori costituzionali tra testo e contesto, cit., cap. iV) ai contributi di sCaCCia, Gli “strumenti” della ra-gionevolezza nel giudizio costituzionale, Torino, 2000, il quale individua tre gruppi di strumen-ti, ossia di razionalità sistematica, di efficienza strumentale, di giustizia-equità, e MoRRone, Il custode della ragionevolezza, Milano, 2001; interessante in proposito c. cost., 27.10.2006, n. 343, in Giur. cost., 5, 2006, pp. 3418 ss., con nota di RuotoLo, Per una gerarchia degli argo-

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Una volta legata l’analogia all’uguaglianza e l’uguaglianza alla ragione-volezza, o perlomeno ad uno dei modi di essere della ragionevolezza, risul-ta agevole comprendere il nesso tra ragionamento analogico, giudizio di legittimità costituzionale delle leggi basato sull’art. 3, 1° comma: ogni volta che si giudica della violazione dell’eguaglianza si ragiona per analogia, valu-tando rilevanza delle somiglianze e irrilevanza delle differenze, riscontran-do, eventualmente, indebite assimilazioni o differenziazioni di disciplina40. ciò non vuol dire che ogni volta che si richiama la ragionevolezza si ragiona per analogia, stante il ricco strumentario riconducibile nell’ambito operati-vo del sindacato costituzionale di ragionevolezza delle leggi41.

5. L’analogia iuris

Sin qui il discorso condotto ha riguardato l’analogia legis, che nell’or-dinamento giuridico italiano si considera regolata dalla prima parte del 2° comma dell’art. 12 delle Preleggi; lo stesso comma si chiude rinviando l’in-terprete ai “princìpi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”, alla cosiddetta analogia iuris. i princìpi generali dell’ordinamento giuridico del-lo Stato si inseriscono nel più vasto ambito dei prìncipi del diritto, ovvero uno dei luoghi classici e sempre attuali della discussione giuridica. il tema merita parchi ma necessari cenni42.

menti dell’interpretazione, in cui la ragionevolezza serve a contestare l’assenza di una ratio plausibile della legge oggetto di giudizio. Sul ruolo che la nozione di ragionevolezza ha assunto anche in ambiti giuridici differenti dal giudizio di legittimità costituzionale delle leggi v. zoR-zetto, La ragionevolezza dei privati. Saggio di metagiurisprudenza esplicativa, Milano, 2008; sull’uguaglianza e sulla ragionevolezza nell’Unione europea v. baRbeRis, Europa del diritto, Bologna, 2009, pp. 198-202.

40 Proprio per questa ragione Letizia Gianformaggio (L’analogia giuridica, cit.) con-siderava la giurisprudenza costituzionale sull’art. 3, 1° comma, cost., il terreno più fertile e proficuo per lo studio del ragionamento analogico nel diritto. Si potrebbe aggiungere la giurisprudenza della corte europea di Giustizia, visto che la penuria di decisioni nelle quali c’è un richiamo espresso all’analogia non deve far pensare che il concetto di analogia non sia abbondantemente utilizzato dalla corte. Si può affermare, anzi, che il concetto di analogia è massicciamente presente nella giurisprudenza della corte, per quanto la parola analogia o formule ad essa semanticamente equivalenti, non siano impiegate. il ragionamento analogi-co trova ingresso attraverso le nozioni di non discriminazione (è il dato più macroscopico), di non commensurabilità delle fattispecie e di obiettiva e giustificata diversità di tratta-mento, cfr. VeLLuzzi, Analogia, uguaglianza e giurisprudenza della Corte europea di Giusti-zia, cit.

41 Va da sé che una cosa è registrare l’adozione nella prassi giurisprudenziale di diffe-renti significati di ragionevolezza e di differenti strumenti di controllo della legittimità delle leggi correlati a ciascun significato; mentre ben altra cosa è ritenere questa prassi corretta o scorretta, fondata o non fondata sul diritto positivo vigente.

42 Si riprendono le considerazioni formulate in VeLLuzzi, Le clausole generali. Semantica

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i princìpi del diritto possono essere classificati da svariati punti di vista, per esempio in relazione alla loro genesi, al rapporto che intercorre tra loro e le gerarchie normative, alla funzione che assolvono, a una proprietà strutturale o semantica43.

Avendo riguardo al profilo genetico dei princìpi, si è soliti distinguere tra princìpi espressi e inespressi, a seconda che si individui un principio in un qualche enunciato normativo esplicitamente formulato, oppure che il principio non coincida con un enunciato normativo espressamente formu-lato, bensì sia ricavato, secondo svariate tecniche e modalità, da una o più formulazioni normative44.

Per ciò che concerne il rapporto tra princìpi e gerarchie normative si attribuisce di solito il rango di principio a enunciati normativi che hanno una elevata collocazione nel sistema delle fonti di un certo ordinamento giuridico (per esempio le norme costituzionali in un sistema a costituzione rigida qual è il nostro), oppure alle quali si attribuisce, indipendentemente o con l’ausilio della gerarchia appena trattata, una particolare importanza e rilevanza nell’ordinamento giuridico nel suo complesso o in una parte più o meno estesa di esso (si parla al riguardo di gerarchie assiologiche).

Per quanto concerne le funzioni che i princìpi del diritto possono as-solvere se ne richiamano usualmente tre. i princìpi possono rilevare, cioè, nella produzione, nell’interpretazione o nell’integrazione del diritto. Più in particolare talune norme sono princìpi in quanto regolano a vario titolo la produzione di altre norme, stabilendo, per esempio, chi ha la competenza e/o le modalità della produzione normativa. i princìpi rilevano nell’inter-

e politica del diritto, Milano, 2010, cap ii, § 4, dove si prova a delineare il rapporto tra princìpi del diritto e clausole generali.

43 i criteri per poter classificare i princìpi non si esauriscono in quelli proposti, ma qui interessa fornire una carrellata dei più ricorrenti.

44 Scrive Guastini, La sintassi del diritto, Torino, 2011, 80-81: «Principi inespressi sono quelli “privi di disposizione”, ossia non esplicitamente formulati in alcuna disposizione norma-tiva, ma elaborati o “costruiti” dagli interpreti […] i principi inespressi, tuttavia, sono frutto non propriamente di interpretazione (in senso stretto, cioè ascrizione di senso a specifici testi normativi), ma di costruzione giuridica, ossia di integrazione del diritto ad opera degli inter-preti. essi sono desunti dagli operatori giuridici: ora da singole regole, ora da insiemi più o meno vasti di regole, talvolta dall’ordinamento giuridico nel suo complesso». in argomento si vedano inoltre Ratti, Sistema giuridico e sistemazione del diritto, Torino, 2008, cap. Xi, ove si censiscono parecchi dei ragionamenti con cui i giudici e i giuristi individuano i princìpi ine-spressi; tuzet, L’abduzione dei principi, in Ragion pratica, 33, 2009, pp. 517-539; che i princìpi inespressi si abducano è sostenuto pure da CaRCateRRa, Presupposti e strumenti della scienza giuridica, Torino 2011, pp. 193-195 e dello stesso autore Indizi di norme, in Soc. dir., 3, 2002, pp. 123-139, per il quale le disposizioni normative in cui si manifesta il principio costituiscono segni, indizi della presenza del principio nell’ordinamento, segni e indizi che possono trovare conferma e uscire rafforzati se sussistono una serie di condizioni, quali per esempio il numero di segni, di indizi e la probabilità a priori dell’esistenza del principio nell’ordinamento.

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pretazione laddove a enunciati normativi di rango inferiore nella gerarchia delle fonti rispetto al principio non possa essere attribuito un significato in contrasto col principio stesso (se n’è trattato in più occasioni). i princì-pi rilevano, verrebbe da dire: ovviamente, nell’integrazione del diritto, in quanto possono essere utilizzati per colmare le lacune45.

con riferimento a una peculiare proprietà strutturale o semantica, ri-guardante, cioè, il modo in cui i princìpi sono formulati, il lessico di giuristi e teorici del diritto è prodigo di indicazioni: i princìpi sono, infatti, a fatti-specie aperta, oppure altamente vaghi, o caratterizzati da un elevato grado di generalità. i princìpi hanno una fattispecie aperta in quanto sono norme defettibili che non enumerano in maniera esaustiva «le eccezioni in presen-za delle quali la conseguenza giuridica non si produce»46. Per altri i princìpi hanno il carattere della vaghezza molto accentuato. certa letteratura asso-cia ai princìpi il tratto della generalità, attribuisce ai princìpi un grado di generalità più elevato rispetto a quello posseduto dalle altre norme che non sono princìpi. Ma è ben noto che la generalità, intesa come il riferimento a classi di soggetti, oggetti o situazioni, è una proprietà graduabile e che si hanno, quindi, norme più generali rispetto ad alcune norme ma meno ge-nerali rispetto ad altre, ragion per cui in virtù del carattere della generalità una norma può essere o può non essere un principio a seconda del contesto normativo considerato47.

Bisogna aggiungere, inoltre, che le caratteristiche menzionate vengono considerate talvolta esclusive e talaltra cumulative. V’è chi pensa che una caratteristica tra quelle menzionate valga a connotare un principio del di-ritto, per esempio: i princìpi hanno la fattispecie aperta, senza che importi quale rango occupino nella gerarchia delle fonti etc. Per altri, invece, i prin-cìpi possono condividere più caratteri tra quelli menzionati, e infatti alcuni

45 È il caso dell’art. 12, 2° comma, delle Preleggi, prima e seconda parte, v. cass., Sez. un., 17.5.1989, n. 2336, per la quale alla seconda parte della disposizione normativa «è lecito ricorrere in mancanza, nel nostro ordinamento, di un qualsiasi altro principio che possa col-mare la lacuna». Va rammentato che riguardo alle modalità di applicazione è opinione diffusa che i princìpi, a differenza delle norme che non sono princìpi, si applicano secondo la tecnica del bilanciamento, per tutti v. ManiaCi, Razionalità ed equilibrio riflessivo nell’argomentazione giudiziale, Torino, 2008, dove il lettore potrà trovare l’esame della gran parte dei nodi nevral-gici del dibattito contemporaneo sul ragionamento giuridico.

46 Guastini, Il diritto come linguaggio. Lezioni, Torino, 2001, 32; sulla defettibilità delle norme giuridiche in generale e su quella dei princìpi del diritto in particolare v. Ratti, Norme, principi e logica, Roma, 2009, pp. 141 ss., e 249 ss.

47 Alcuni autori ritengono che i princìpi posseggano, più che una elevata generalità, la caratteristica della genericità e «le formule generiche sono poco informative, non distinguono, fanno di ogni erba un fascio, come suole dirsi» (così Luzzati, Prìncipi e princìpi. La genericità nel diritto, Torino, 2011, p. 17); sulla genericità come uno dei tratti distintivi dei princìpi del diritto v. PintoRe, Norme e principi. Una critica a Dworkin, Milano, 1982, p. 23.

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di essi attengono all’aspetto genetico, altri a quello strutturale, altri ancora a quello funzionale.

Rivolgendo l’attenzione al 2° comma dell’art. 12 delle Preleggi e facendo tesoro di quanto appena riferito, si possono compiere le seguenti notazioni.

i princìpi ai quali l’articolo si riferisce sono quelli inespressi, se così non fosse e si trattasse di princìpi espressi, questi potrebbero essere applicati direttamente, come qualsiasi altra norma, per decidere il caso oggetto di giudizio48. i princìpi sono generali, ossia ricavati non da una, due disposi-zioni, bensì da una molteplicità di disposizioni che presentano elementi in comune e in grado di regolare, una volta che ve n’è stata l’esplicitazione, una classe molto ampia di casi. Questo punto è particolarmente delicato, poiché in giurisprudenza non mancano decisioni in cui il ricorso ai princìpi generali è argomentato, almeno così sembra, a partire da una sola disposi-zione normativa49.

inoltre si è più volte detto che la generalità è questione di grado, ragion per cui v’è la necessità di stabilire quale sia il grado di generalità che il principio deve soddisfare per poter essere considerato un principio gene-rale dell’ordinamento giuridico dello Stato. non va sottaciuto che ai sen-si dell’art. 12, 2° comma, delle Preleggi i princìpi oltre a essere generali, devono appartenere all’ordinamento giuridico dello Stato. Qui si pone il problema di valutare se l’attuale quadro delle fonti del sistema giuridico italiano permetta di considerare «dello Stato» anche princìpi che proven-gono da fonti non statali, ma che all’interno dell’ordinamento giuridico hanno efficacia e assumono un rango di rilievo50. V’è chi opta per una in-

48 Fatto salvo il problema dell’applicazione diretta della costituzione (dei principi costi-tuzionali), in uno dei modi di intendere l’applicazione diretta, v. Guastini, La sintassi del dirit-to, cit., pp. 206-209, specie p. 208, dove si distinguono cinque situazioni in cui si può parlare di applicazione diretta della costituzione, ovvero: a) il caso in cui il giudice di sua iniziativa solle-va una questione di legittimità costituzionale; b) il caso in cui il giudice è chiamato a valutare la non manifesta infondatezza di una questione di legittimità costituzionale sollevata con istanza di parte; c) il caso in cui il giudice afferma l’illegittimità costituzionale di un regolamento; d) il caso in cui il giudice svolge un’interpretazione adeguatrice; e) il caso, il più pregante, in cui usano una norma costituzionale per decidere la controversia (anche nelle relazioni tra privati).

49 cfr. cass., 11.11.1986, n. 6584, la quale cassa con rinvio esprimendo il seguente prin-cipio di diritto «il giudice chiamato a decidere una controversia relativa ad un rapporto giuri-dico anomalo, che non trovi disciplina nell’ordinamento, deve fare ricorso ai principi generali dell’ordinamento stesso, a norma dell’art. 12 delle Preleggi. Fra questi principi generali nel campo dei rapporti patrimoniali vi è quello che si racchiude nella espressione rebus sic stanti-bus, cui si ispira l’art. 1467 c.c., in forza del quale un rapporto giuridico patrimoniale, ove non altrimenti disciplinato, non può essere mantenuto in vita quando siano venute meno, in misura notevole, le condizioni di equilibrio sulle quali esso è sorto», viene da chiedersi: se l’art. 1467 c.c. è l’unico segno, indizio dell’esistenza del principio, il principio esiste davvero?

50 Per talune delle fonti del diritto dell’Unione europea la questione del significato delle parole «dello Stato» può essere giocata sul tavolo del rapporto tra ordinamento statale ed eu-

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terpretazione conforme dell’art. 12, 2° comma, adeguandone il significato, appunto, all’attuale e “mobile” sistema delle fonti51.

Si deve ulteriormente riflettere sul fatto che i princìpi richiamati sono inespressi e che nel lessico dei giuristi e dei giudici essi vengono identificati con l’analogia iuris.

il ricorso ai princìpi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato quale ultima istanza per assegnare una disciplina al caso oggetto di giudi-zio è denominato, appunto, analogia iuris, ossia ragionamento analogico sviluppato a partire da un principio generale. Per il vero è più corretto dire che l’analogia iuris perviene alla formulazione di un principio generale piuttosto che partire da esso. infatti, il tratto caratteristico del ragionamen-to analogico in questione risiede nel prendere avvio non da un singola di-sposizione normativa (com’è per l’analogia legis), bensì da più disposizioni normative e nel giungere all’individuazione della ratio, del principio comu-ne alle varie disposizioni normative. il principio individuato verrà utilizzato per colmare la lacuna. Tra i due ragionamenti analogici legis e iuris esiste una differenza di grado. La base normativa di individuazione del principio è, si potrebbe dire: deve essere, vista la formulazione dell’art. 12, 2° com-ma, delle Preleggi, nel caso dell’analogia iuris più ampia.

che la differenza sia soltanto di grado è opinione diffusa in letteratura, e l’opinione maggioritaria può essere riferita con il chiaro periodare di Ric-cardo Guastini: «anche l’applicazione di una qualsivoglia norma suppone la ricerca di un principio: precisamente di quel principio che costituisce la ragione, il fine, il motivo (la ratio, come suol dirsi) della norma in questione. Pertanto si può dire che, quando il diritto presenta una lacuna, l’interprete è obbligato […] a colmarla facendo ricorso: o ad un principio particolare che stia a fondamento di una norma specifica (cosiddetta ratio legis) o, in mancanza, ad un principio generale, che stia a fondamento di un intero complesso di norme. nell’un caso […] la lacuna è colmata mediante analo-gia legis; nell’altro, essa è colmata mediante analogia juris»52.

ropeo, e può trovare differenti soluzioni a seconda del modo in cui il rapporto è costruito.51 O almeno al modo in cui alcuni lo configurano; in proposito v. fRanzoni, L’interpre-

tazione adeguatrice al diritto comunitario, in AA.VV., Diritto comunitario e sistemi nazionali: pluralità delle fonti e unitarietà degli ordinamenti, cit., pp. 133 ss., specie p. 140 per l’art. 12, 2° comma, delle Preleggi. Si rammenti che per parte della dottrina questa lettura è comun-que inadeguata, visto che un’interpretazione corretta dell’articolo in commento richiede di far capo all’interpretazione adeguatrice della legge come primo e principale criterio interpretati-vo. Va detto, inoltre, che per talune fonti il rango da attribuire ad esse è oggetto di ricostruzioni diversificate e di polemiche accese, su entrambe le questioni appena trattate v. CieRVo, Saggio sull’interpretazione adeguatrice, Roma, 2012, passim.

52 Guastini, Interpretare e argomentare, Milano, 2011, p. 192, nota 46. Si può dire, quin-di, che anche l’analogia legis giunge alla formulazione di un principio, ma si tratta di un prin-

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Per quanto sia abitudine inveterata degli studiosi e della prassi identifi-care i princìpi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato con l’analo-gia iuris, va segnalato che i ragionamenti ricondotti nell’ambito di questa nozione hanno sovente un legame tenue, o addirittura nessun legame, con l’analogia. Si tratta, infatti, di ragionamenti nei quali manca un giudizio di rilevanza delle somiglianze e di irrilevanza delle differenze, oppure tale giudizio viene presupposto, assunto ma non argomentato dall’interprete53.

cipio specifico, particolare, sotteso ad una sola disposizione o a poche disposizioni (per questo aspetto è determinante il grado di generalità fissato per giudicare generale un principio) e in grado di colmare la lacuna. Per Chiassoni, Tecnica dell’interpretazione giuridica, cit., p. 241 «il procedimento di ricorso ai princìpi generali può essere inteso come articolato, parimenti e in modo schematico, in due fasi logicamente distinte. nella prima fase, d’interpretazione testuale del discorso delle fonti, l’interprete perviene alle […] seguenti conclusioni: i) nessuna dispo-sizione, nel suo significato giuridicamente corretto, riconnette ad una fattispecie astratta (F) una conseguenza normativa (G), ovvero la conseguenza opposta (non G); ii) non appartiene al discorso delle fonti alcuna disposizione che, nel suo significato giuridicamente corretto, riconnetta la conseguenza G a una fattispecie prima facie simile a F, nell’àmbito della stessa materia; iii) non appartiene al discorso delle fonti alcuna disposizione che, nel suo significato giuridicamente corretto, regoli una fattispecie appartenente a una materia analoga a quella cui appartiene la fattispecie F, imputandole la conseguenza G (o non G). nella seconda fase, dedicata all’integrazione della disciplina giuridica, l’interprete argomenta la ragionevolezza, o plausibilità, dell’applicazione di una norma implicita n, che riconnette a F la conseguenza G (o non G), poiché n può essere ricavata da uno o più princìpi di diritto […] mediante opportune operazioni di concretizzazione degli stessi: ad esempio, sulla base di considerazioni strumen-tali (o mezzo-a-fine) o di congruenza assiologica» (corsivi dell’autore).

53 Si veda PattaRo, Opinio iuris. Il diritto è un’opinione: chi ne ha i mezzi ce la impone. Lezioni di filosofia del diritto, Torino, 2011, pp. 203-210, il quale opportunamente sottolinea e mostra che la nozione di analogia iuris non di rado è usata da giuristi e giudici in un significato improprio che non ha nulla a che spartire col ragionamento analogico, nel senso che il princi-pio generale è individuato e applicato prescindendo da qualsiasi considerazione della rilevanza delle somiglianze (e della irrilevanza delle differenze) tra le fattispecie.

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AnALOGiA GiURidicA e RAziOnALiTà deLL’ORdinAMenTO. nOTe A MARGine

soMMaRio: 1. Premessa – 2. L’analogia giuridica come argomento a proportio-ne. – 3. il criterio della proporzione, la ratio legis e il sistema razionale del diritto. – 4. Le molte razionalità possibili dell’ordinamento giuridico.

1. Premessa

in questo scritto intendo compiere alcune riflessioni su un’afferma-zione di Letizia Gianformaggio in tema di analogia giuridica1. nello scritto L’analogia giuridica pubblicato nel 1986 all’interno del volume Studi sulla giustificazione giuridica2, al fine di spiegare per quale ragione l’analogia in campo giuridico non possa essere considerata un procedi-mento logico formalmente valido, Letizia Gianformaggio così motiva la sua opinione:

«L’analogia […] va considerata un procedimento logico formal-mente valido? evidentemente no, dal momento che i valori espressi nei rapporti da eguagliare sono valori qualitativi e non quantitativi, e quindi sono sempre suscettibili di interpretazioni diverse, e di di-scussione. Ma questo non significa che tali valori possano venir fis-sati ad libitum dall’interprete. Significa soltanto che il sistema razio-nale del diritto […] non è un dato, ma il prodotto, perennemente in fieri, della collaborazione tra legislatori, giuristi, giudici […] Oppu-

1 Quelli sull’analogia e sul ragionamento giuridico sono i primi scritti di Letizia Gian-formaggio con i quali mi sono confrontato in passato, da studente: per questa ragione mi ci-mento, oggi, con uno di essi. di certo le pagine che seguono non rendono adeguatamente conto della ricchezza, complessità e originalità del pensiero dell’autrice; auspico soltanto che possano contribuire a tenere viva l’attenzione sulla sua produzione scientifica più strettamente teorico-giuridica. Mi preme rammentare che con Letizia Gianformaggio mi sono laureato e formato negli anni senesi, è stata lei il primo positivo, responsabile e decisivo esempio di attac-camento alla ricerca e alla didattica. Le sono profondamente grato per aver creduto nelle mie capacità, per avermi fatto crescere sotto molteplici aspetti, ma soprattutto per essere stata un’a-mica presente e preziosa in uno dei momenti più delicati e difficili da me sino ad ora vissuti.

2 L. GianfoRMaGGio, L’analogia giuridica, in ead., Studi sulla giustificazione giuridica, Torino, Giappichelli, 1986, pp. 133-154. Lo stesso scritto è stato pubblicato un anno più tardi come voce enciclopedica, si veda L. GianfoRMaGGio, Analogia, in Digesto, iV ed., Torino, Utet, 1987, vol. i, ad vocem. Le citazioni contenute in questo articolo si riferiscono alla pubblicazione del 1986.

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re, se non lo è (o se si ritiene che non lo sia e/o che non debba esser-lo: né un dato, né un prodotto), vuol dire che mancano i presupposti per strutturare una forma di ragionamento che possa sensatamente esser chiamato “per analogia”»3.

cosa si intende per sistema razionale del diritto? La questione è epo-cale, è ben noto che v’è poca chiarezza sia per ciò che concerne la stessa razionalità dell’ordinamento giuridico, sia con riguardo a quali siano le condizioni della sua realizzazione4. Questi due ultimi temi possono es-sere affrontati da varie prospettive, ma nelle prossime pagine intendo trattarne dall’angolo visuale specifico (e modesto) dell’analogia giuridi-ca ed in particolare in stretta aderenza con la questione del controllo della scelta del valore qualitativo (nel lessico di Letizia Gianformaggio) realizzata dall’interprete, scelta indispensabile per compiere un ragiona-mento analogico in ambito giuridico5. Bisogna, cioè, chiedersi: in base a quali criteri la scelta compiuta dall’interprete può essere considerata o non considerata ad libitum? e pur ammettendo che la scelta non sia arbitraria, la non arbitrarietà è già di per sé garanzia di razionalità? e se sì di quale tipo di razionalità si tratta? Per abbozzare una risposta (o un tentativo di risposta) a tali interrogativi è necessario riassumere breve-mente i punti salienti del pensiero di Letizia Gianformaggio sull’analo-gia giuridica.

2. L’analogia giuridica come argomento a proportione

nelle dense pagine dedicate all’analogia giuridica si trovano svariati spunti di originalità e interesse, così come argomenti nuovi a sostegno

3 L. GianfoRMaGGio, L’analogia giuridica, cit., pp. 147-148. Questa tesi di evoca chiara-mente il pensiero di n. MaCCoRMiCk, Ragionamento giuridico e teoria del diritto (1978), Torino, Giappichelli, 2001, p. 143: «il punto, piuttosto, è quello di dimostrare che la decisione richiesta è del tutto coerente con il corpo delle regole giuridiche vigenti, e rappresenta un’estrapolazio-ne razionale da esse, nel senso che gli obiettivi politici e gli scopi diretti che si ritiene che simili regole perseguano, sarebbero pro tanto messi in discussione e soggetti ad eccezioni irrazionali se il caso in questione non venisse deciso per analogia in base alle stesse regole».

4 Uso come sinonimi i sintagmi sistema giuridico e ordinamento giuridico, lo stesso vale per le espressioni razionalità dell’ordinamento giuridico e sistema razionale del diritto.

5 che l’analogia giuridica contempli un elemento valutativo è un dato condiviso dalla gran parte della letteratura, cfr. ad esempio, R. aLexy, Teoria dell’argomentazione giuridica (1978), Milano, Giuffrè, 1998, p. 221: «Si possono senz’altro analizzare le strutture logiche delle relazioni di somiglianza; tuttavia l’accertamento di una somiglianza giuridicamente rile-vante non può essere ottenuta a partire da tale analisi. numerosi autori hanno perciò notato che alla base dell’analogia vi è una valutazione».

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di tesi risalenti. il cuore della tesi è appunto antico, ma secondo Letizia Gianformaggio tutt’ora il più appropriato:

«ebbene, l’analogia in diritto non è il paradigma, e non fonda una probabilità. Analogia è proporzionalità […] Quale che sia il me-rito (= il criterio), si potrà sempre trovare una giustizia secondo il merito»6.

in presenza di una fattispecie regolata ed un’altra non regolata, al fi-ne di stabilire perché esse meritino la medesima disciplina

«Se rispondessimo solo: “perché i due casi sono simili”, elude-remmo il problema di fondo. non si produce nessuna analogia par-tendo da una sola norma. Ma un sistema razionale, cioè coerente e consistente, di valutazioni è facile trovare per ciascun caso la sua esatta collocazione – o, almeno, questo è il presupposto dell’ana-logia – : basta conoscere la regola di distribuzione delle parti […] Questa ricostruzione dell’analogia è la più vecchia e tradizionale: il fondamento dell’analogia nel diritto è il nucleo razionale dell’idea della giustizia distributiva, cioè l’eguaglianza […] eguaglianza di rapporti, cioè proporzionalità»7.

e quindi dato un sistema di norme la conseguenza giuridica da im-putare ad una fattispecie non regolata espressamente si determinerà procedendo in tal modo: dapprima si individueranno le differenze rile-vanti tra le fattispecie regolate prese in considerazione, indagando poi se tra le fattispecie regolate ve ne sia una che non presenta le differenze rilevanti individuate

«Se una tale fattispecie si troverà si procederà a simili, se non si trova si procederà a contrario, se se ne trova una nei cui confronti F4 presenta delle differenze che sono sì rilevanti per la conseguenza giuridica di quella fattispecie, ma nel senso – opposto al precedente – di far considerare F4 ancor più meritevole di quella conseguenza giuridica, alla luce del sistema normativo in oggetto, allora si proce-derà a fortiori»8.

6 L. GianfoRMaGGio, L’analogia giuridica, cit., pp. 144-145. 7 Ivi, pp. 145-146, v’è da notare l’insistenza sulla razionalità del sistema giuridico come

presupposto necessario dell’analogia nel diritto. 8 Ivi, p. 147, dove F4 è la fattispecie non regolata. il ragionamento analogico così inteso

è, dunque, alla base di tre modi di argomentare: a simili, a contrario, a fortiori.

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3. Il criterio della proporzione, la ratio legis e il sistema razionale del diritto

L’analogia giuridica è quindi un argomento a proportione. i giuristi e i giudici sono soliti rintracciare il criterio della proporzione nella ratio di una o più norme, l’individuazione della quale consente di stabilire la rilevanza della somiglianza, ed anche di operare l’estensione della conse-guenza giuridica da essa/e prevista alla fattispecie non regolata9. La ratio rappresenta l’elemento valutativo del ragionamento analogico. Per po-ter fare analogia giuridica bisogna, quindi, interpretare teleologicamente una o più norme. Sull’interpretazione teleologica vale la pena spendere alcune considerazioni, poiché l’analogia ha un senso o si pone in armo-nia col sistema razionale del diritto, lo si è visto, solo se la ratio non è determinabile, per così dire, a piacimento dall’interprete.

in termini molto generici può dirsi teleologica qualsiasi interpreta-zione di una o più norme per la quale il significato della norma stessa è determinato avendo riguardo al fine (o ai fini) da essa perseguiti. Se si guarda all’uso della nozione di ratio legis fatto dai giudici e giu-risti non si può fare a meno di riscontrarne la elevata vaghezza e l’am-biguità10.

innanzi tutto è dubbio se lo scopo o gli scopi perseguiti da una o più norme debbano essere considerati soggettivi o oggettivi11. La ratio, in-fatti, può essere intesa in senso soggettivo, facendo riferimento all’inten-zione del legislatore, oppure in senso oggettivo, considerando la legge

9 Questo vale per svariati modi di concepire il fondamento dell’analogia giuridica, in-cluso quello proposto da Letizia Gianformaggio: cfr., L’analogia giuridica, cit., p. 146, nota 31: «Voglio sottolineare che, essendo l’uguaglianza il nucleo razionale dell’idea della giustizia distributiva, non mi pare di poter ravvisare una gran differenza tra questa concezione del fon-damento dell’analogia giuridica, e quella secondo cui fondamento ne è l’eadem ratio […] solo che a parer mio, la ratio di una norma ce la può fornire solo la considerazione del sistema delle norme cui essa appartiene». Sul rapporto tra ratio legis, uguaglianza e analogia, nonché su altri aspetti salienti dell’analogia giuridica v. a. CeRRi, L’analogia nel sistema del diritto positivo, in S. cassese, G. carcaterra, M. d’Alberti, A. Bixio (a cura di), L’unità del diritto. Massimo Severo Giannini e la teoria giuridica, Bologna, il Mulino, 1994, pp. 273-314.

10 È bene segnalare che la ratio di una norma, intesa come ragione giustificatrice della medesima, può non coinvolgere gli scopi perseguiti, vale a dire che può non essere teleologica. Ma nel testo ci si uniforma all’uso diffuso nel lessico dei giuristi e giudici di identificare la ratio legis con gli scopi e le finalità perseguite dalla legge, salvo poi trovarsi in disaccordo su che cosa siano gli scopi e le finalità e su quale sia il criterio preferibile per individuarli. Riprendo qui, in sintesi e con qualche variazione, le considerazioni compiute nel mio Interpretazione sistematica e prassi giurisprudenziale, Torino, Giappichelli, 2002, pp. 122-128

11 Le locuzioni “interpretazione teleologico soggettiva” e “interpretazione teleologico oggettiva” sono state impiegate in particolare da autori di area germanica, v. per tutti k. en-GisCh, Introduzione al pensiero giuridico (1968), Milano, Giuffrè, 1970, pp. 133-155.

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come provvista di “proprie finalità”, senza aver riguardo ai soggetti che l’hanno prodotta12.

il secondo problema, connesso al precedente, è costituito dalla pos-sibilità di individuare l’intenzione del legislatore o gli scopi oggettivi delle norme: si tratta cioè di valutare se ciò sia realmente possibile e con quali strumenti.

La tesi per la quale nell’interpretazione è rilevante l’intenzione del legislatore è stata sostenuta, seppur con diversa intensità, da varie scuole di pensiero, ed ha trovato, è ben noto, conferma nelle disposizioni pre-liminari al codice civile italiano del 1942, all’articolo 12, 1° comma13. Ma si sa pure che le leggi, e più in generale i documenti normativi pro-dotti da organi collegiali, sono frutto non di una volontà unilaterale, ma di un incontro di volontà diverse e il loro contenuto risulta essere di fre-quente frutto di compromesso, senza che sia possibile individuare uno o più scopi omogenei perseguibili. insomma attraverso questo criterio sembrerebbe davvero difficile, se non impossibile, individuare un uni-voco scopo o fine perseguito dalla norma in virtù di quanto voluto da chi quella norma ha prodotto14. invero, alcuni dei sostenitori di tale tesi non contestano la fondatezza di tali critiche, ma spostano il piano del dibattito, caratterizzando in termini diversi l’intenzione del legislatore. essi sostengono che non è necessario individuare un’effettiva ed univo-ca volontà o intenzione del legislatore, ma che si può, con maggiore faci-lità, individuare un’intenzione facente capo ad una pluralità di soggetti in base ad indici presuntivi, con riferimento ad una intenzione che può

12 È curioso, tra l’altro, constatare che, con varietà di accenti, la medesima posizione (oggettiva o soggettiva) è stata assunta da correnti e scuole di pensiero eterogenee, lo rileva con riferimento alla Scuola dell’esegesi ed alla giurisprudenza dei concetti, G. zaCCaRia, L’arte dell’interpretazione, Padova, cedam, 1990, p. 47: «due tendenze dottrinarie come L’ecole de l’éxegèse e la Begriffjurisprudenz, pur così diverse nei presupposti scientifici e culturali, con-cepiscono l’attività dei giuristi interpreti come essenzialmente […] conoscitiva di un oggetto già determinato», vale a dire la volontà del legislatore.

13 L’art. 12, comma 1, dispone: «nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore», su alcuni problemi posti da questa disposizione v. a. beLVedeRe, Analisi dei testi legislativi e art. 12 delle Preleggi, in A. Palazzo (a cura di), L’inter-pretazione della legge alle soglie del XXI secolo, napoli, esi, 2001, pp. 149 ss.

14 Si tratta di un’osservazione diffusissima in letteratura cfr. almeno R. Guastini, Le fonti del diritto e l’interpretazione, Milano, Giuffrè, 1993, pp. 394-395: «È dubbio che ad un organo collegiale si possano riconoscere una volontà o una intenzione nello stesso senso in cui si parla di volontà o intenzione in relazione ai singoli individui […] inoltre ogni documento normativo nasce dalla collaborazione di diversi soggetti […] infine, accade normalmente che un documento normativo […] sia frutto di attività negoziale»; una sintesi del dibattito sul punto si trova nel contributo di e. diCiotti, Verità e certezza nell’interpretazione della legge, Torino, Giappichelli, 1999, pp. 127-157.

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essere ragionevolmente attribuita ad un insieme di individui, oppure ad una volontà presunta o cosiddetta standard15.

Pertanto, la questione riguarda così l’efficacia degli strumenti utiliz-zati per ricostruire l’intenzione del legislatore. da parte di alcuni, allora, si ritiene che l’intenzione del legislatore sia costituita dallo scopo o da-gli scopi condivisi da chi ha approvato il documento normativo, o dalla maggioranza di essi. il criterio utilizzato è quello della coincidenza tra intenzione del legislatore e scopi condivisi dalla maggioranza16. Questo criterio fa capo all’uso dei lavori preparatori al fine di individuare la vo-lontà della maggioranza, ma il ricorso ai lavori preparatori non può es-sere ritenuto “infallibile” e quindi risolutore. Questi ultimi, e con essi gli altri atti nei quali è contenuto il resoconto dell’attività che conduce all’emanazione del documento normativo, sono anch’essi enunciati in lingua, il più delle volte quindi vaghi e/o ambigui, interpretabili in vari modi (e ci si può domandare: secondo quale criterio?); tra l’altro non v’è nessun indice giuridico esplicito della rilevanza dei lavori preparatori stessi17.

Altri preferiscono ricorrere ad un modello di legislatore ideale, le-gando gli scopi perseguiti ai caratteri ad esso attribuiti, ci si raffigura, cioè, l’immagine di un “buon legislatore”18, coerente e ragionevole, il

15 Per una specifica costruzione teorica riferibile al generico orientamento descritto cfr. J. Raz, Intention in Interpretation, in R. P. George (ed.), The Autonomy of Law, Oxford, cla-rendon Press, 1996, pp. 249-286.

16 e. dRiedGeR, The Construction of Statutes, London, Butterwhorts, 1976, p. 82: «The “intention of Parliament” is, in a sense, a fiction. it is not an intention formulated by the mind of Parliament, for Parliament as so mind; and it is not the collective intention of the members of Parliament for no such collective intention exists. The only real intention is the intention of the sponsors and the draftsman of the bill that gave rise to the Act; but that is not the intention of Parliament. The “intention of Parliament” can only be an agreement by the majority that the words in the bill express what is to be known as the intention of Parliament».

17 d’altronde non mancano casi di determinazione dell’intenzione del legislatore in aperto contrasto con i lavori preparatori. Ripropongo un esempio emblematico. L’art. 1174 del codice civile stabilisce che «la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione deve es-sere suscettibile di valutazione economica»; è discusso se questo requisito, denominato della patrimonialità della prestazione, debba intendersi in senso oggettivo o soggettivo. Orbene, di recente è stato scritto che «la patrimonialità della prestazione andrebbe […] valutata in termini rigorosamente oggettivi […] poiché […] il legislatore, in contrasto con quanto affer-mato nella Relazione al Re, ha accolto un concetto prettamente oggettivo di patrimonialità, concetto che non può non prevalere sulle contrastanti intenzioni espresse nella Relazione al Re» (f. anGeLoni, La patrimonialità della prestazione, in Contratto e impresa, 1, 2001, pp. 893-911, a p. 895).

18 Ad esempio b. windsCheid, Diritto delle pandette, vol. i, (1862), Torino, Utet, 1925, pp. 66-69, scriveva: «può ammettersi che il legislatore abbia voluto dire piuttosto che qualche cosa di sensato e congruo che di vuoto e sconveniente […] può avvenire, e si verifica spesso, che il legislatore stesso non abbia avuto una percezione chiara del concetto […] e si sia arresta-

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quale in base a tali caratteri non può che perseguire alcune finalità piut-tosto di altre.

Anche la tesi per la quale la ratio legis consiste nelle finalità oggettive della legge, in essa immanenti, è fortemente problematica. Guardando alla letteratura in materia si nota che i sostenitori della interpretazione teleologico-oggettiva si sono preoccupati principalmente di criticare con dovizia di argomenti la tesi soggettiva soprattutto al fine di escludere la rilevanza dei lavori preparatori, ma ben poco hanno detto per indicare quali siano i criteri adeguati ad individuare la finalità oggettiva della leg-ge. da parte di alcuni si è detto, lo si ripete, che lo scopo perseguito è immanente al testo, oppure che i valori tutelati sono da porre in connes-sione con la volontà dell’ordinamento giuridico19.

cosa dire, dunque dell’individuazione della ratio legis? La tesi “in-tenzionalista” nella sua versione estrema e la tesi oggettiva, nei termini generici in cui è solitamente formulata, paiono entrambe rivolte ad ac-creditare operazioni interpretative altamente discrezionali20. Per la pri-ma non v’è la possibilità di individuare una effettiva ed univoca volontà del legislatore, e per la seconda serve a ben poco dire che un testo di legge è portatore di proprie finalità senza indicare in ragione di quali criteri sia possibile individuarle. La versione moderata della tesi “inten-zionalista”, ricorrendo ad una volontà standard, presunta, del legisla-tore, determina una idealizzazione dell’intenzione stessa, la quale viene determinata sulla base di qualità attribuite convenzionalmente ad un le-gislatore “modello”, perdendo così il legame con i soggetti che hanno prodotto il testo di legge21. Anche l’uso del criterio della maggioranza

to ad una forma di manifestazione dello stesso che non risponde completamente alla sua vera portata».

19 Si veda ad esempio e. betti, L’interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, Giuffrè, 1971, p. 111: «l’elemento […] valutativo e assiologico è immanente alla norma stessa da interpretare».

20 La questione della rilevanza dell’intenzione del legislatore può essere posta anche nel senso che è irrilevante il fatto che non si possa individuare l’effettiva intenzione del le-gislatore affinché l’intenzione stessa assuma importanza nell’interpretazione, specie se tale importanza è imposta da una norma (nel nostro ordinamento il già citato art. 12, comma 1, delle Preleggi). La presenza di questa norma imporrebbe, quindi, di congetturare plausibil-mente intorno all’intenzione del legislatore e di farne uso nell’interpretazione. Oltretutto se si ammette l’esistenza di casi (per quanto rari) nei quali l’intenzione del legislatore è chiara, al-lora è contestabile la tesi per la quale dall’impossibilità di individuare sempre l’intenzione del legislatore, essa non vada individuata mai: cfr. e. fittiPaLdi, Scienza del diritto e razionalismo critico, Milano, Giuffrè, 2003, p. 350, nota 112; cui si aggiunga, seppur da diversa impostazione filosofica, a. MaRMoR, Interpretation and Legal Theory, Revised second edition, Oxford, Hart Publishing, 2005, cap. Viii.

21 e infatti sia nella letteratura italiana, sia in quella anglosassone, la nozione di inten-

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non è efficace: non si può, infatti, dare per scontato che vi sia una volon-tà della maggioranza, o che tutti i soggetti che hanno approvato un cer-to documento avessero l’intenzione di perseguire gli stessi scopi, e che questa intenzione risulti in maniera inequivocabile dai lavori preparato-ri. Per quanto riguarda l’impostazione teleologico-oggettiva essa appare un coacervo di formule “semanticamente vuote”, capaci di essere riem-pite in piena libertà dall’interprete22.

il discorso appena condotto induce a ritenere gli strumenti usati dai giuristi e dai giudici per attribuire uno scopo ad una norma frutto di una scelta discrezionale, scelta ammantata di una vana pretesa di ogget-tività, oppure di una altrettanto discutibile sovrapposizione tra proprie intenzioni, intenzioni di un legislatore ideale e intenzioni del legislatore, per così dire, “reale”. Ammesso che l’interprete formuli congetture in-torno alla ratio (soggettiva od oggettiva che sia) di una norma, si posso-no configurare due situazioni: a) l’interprete compie una individuazione dello scopo accettabile, cioè definibile come esito di un procedimento interpretativo; b) l’interprete attribuisce uno scopo che non è l’esito di un procedimento interpretativo. Per essere più chiari. Se l’individuazio-ne della ratio è rivolta alla determinazione del significato della norma, per mezzo della ratio non si potrà attribuire qualsiasi significato alla norma, ma solo alcune attribuzioni potranno dirsi frutto di interpreta-zione e non di qualche altra attività23.

Uno scopo potrà dirsi plausibilmente lo scopo o uno degli scopi di una data norma se: è compatibile con la formulazione letterale della nor-

zione del legislatore assume vari significati incluso quello di ratio oggettiva, cfr. V. ViLLa, L’in-tenzione del legislatore nell’art. 12 delle disposizioni preliminari, in F. Viola, V. Villa, M. Urso, Interpretazione e applicazione del diritto tra scienza e politica, Palermo, cleup, 1974, pp. 125-138; P. Chiassoni, La giurisprudenza civile. Metodi d’interpretazione e tecniche argomentative, Milano, Giuffrè, pp. 503-504; R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, Giuffrè, Milano, 2004, pp. 150 ss.; G.c. MaCCaLLuM JR., Legislative Intent and Other Essays on Law, Politics and Morality, Madison, University of Wisconsin Press, 1993, pp. 3-35.

22 Profilo opportunamente sottolineato da R. saCCo, L’interpretazione, in G. Alpa. R. Guarneri, P. G. Monateri, G. Pascuzzi, R. Sacco, Le fonti non scritte e l’interpretazione, Torino, Utet, 1999, pp. 252-253: «la scelta filtrata attraverso la considerazione della ratio, non è il riconoscimento di un dato oggettivo. È una scelta. Meno che mai la ratio della norma è più univoca del significato linguistico del testo. Le rationes possibili sono molte».

23 Queste ultime affermazioni sottintendono un’esplicita preferenza per una teoria dell’interpretazione giuridica non radicalmente scettica, ovvero una teoria che concepisce l’in-terpretazione giuridica in estrema sintesi nei seguenti termini: «si prendono le mosse, cioè, dal convincimento che l’interprete si trovi di fronte a più soluzioni interpretative, ma l’ambito di queste ultime sia delimitato», il brano è tratto dal mio Sulla nozione di “interpretazione giuridica corretta” (e sui suoi rapporti con l’interpretazione estensiva), in Cass. pen., 7/8, 2004, p. 2594 (ora parzialmente riprodotto in questo volume). nel saggio ho usato il termine norma in maniera promiscua, riferendola sia alla formulazione normativa, sia al suo significato.

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ma; se non è incompatibile con finalità di altre norme, specie se rego-lanti la medesima materia o appartenenti allo stesso ambito disciplinare; se non è uno scopo assurdo24. All’interno della compatibilità tra fina-lità attribuita e criteri di accettabilità della stessa qualsiasi attribuzione di ratio è da ritenersi corretta. ne consegue che i criteri di valutazione della bontà dell’attribuzione della ratio ad una norma, permettono più che altro di escludere alcuni significati dal novero di quelli attribuibi-li alla norma stessa, piuttosto che individuare un solo significato come quello compatibile con, o diretto a realizzare la ratio. Più che un’effetti-va e cristallina intenzione del legislatore cui fare capo, si avrà, di solito, l’individuazione di un’intenzione del legislatore che non appaia inaccet-tabile, corroborata dalla formulazione del testo e da altri elementi giuri-dicamente rilevanti accolti da giudici e giuristi. Più che una lampante e immanente finalità della legge, avremo uno scopo attribuito dall’inter-prete che non stride con la formulazione della norma stessa, plausibile e non assurdo o contraddittorio con altre norme e per questo in grado di essere accolto come scopo di quella norma25.

Riassumendo. L’analogia giuridica è un argomento a proportione; il criterio della proporzione ha natura valutativa ed è costituito dalla ratio di una o più norme; la determinazione della ratio è operazione discre-zionale, la quale lascia aperta la porta a molteplici soluzioni; per cui an-che se l’interprete non può determinare qualsiasi ratio, può comunque individuarne, sovente, molteplici, tutte accettabili, plausibili sul piano giuridico. Vediamo se quanto si è detto ha qualche riflesso sull’analogia giudica e sul profilo specifico segnalato in apertura dell’articolo.

24 Seguo con qualche variazione lessicale l’impostazione di e. diCiotti, Interpretazione della legge e discorso razionale, Torino, Giappichelli, 1999, pp. 414 ss., ma è chiaro che altri criteri di accettabilità possono essere individuati e che il numero e il contenuto dei criteri dipende direttamente dalla teoria dell’interpretazione che si adotta. detto in sintesi: a seconda della teoria dell’interpretazione adottata vi saranno o potranno esservi diverse condizioni di accettabilità dell’attribuzione della ratio.

25 Ad esempio: chi potrebbe ragionevolmente sostenere che lo scopo dell’art. 575 del codice penale italiano che punisce «chiunque cagiona la morte di un uomo» ha lo scopo di in-centivare o comunque consentire liberamente l’uccisione delle donne? che “uomo” voglia dire “essere umano” e non “persona di sesso maschile” è pacifico: l’attribuzione dello scopo di cui si è detto sopra sarebbe compatibile con la lettera (la parola “uomo” è portatrice di entrambi i significati di cui sopra) ma palesemente assurda, oltre che ripugnante, per le più svariate ragio-ni giuridiche (la più semplice: il contrasto con altre norme dell’ordinamento, molte delle quali di rango costituzionale). Lo spunto per formulare questo esempio l’ho tratto da e. fittiPaLdi, Scienza del diritto e razionalismo critico, cit., pp. 349 ss.

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Tra teoria e dogmatica94

4. Le molte razionalità possibili dell’ordinamento giuridico

Poniamo, dunque, in connessione quanto detto sin qui con quanto sostenuto da Letizia Gianformaggio e con gli interrogativi che ne sono seguiti.

Sulla scorta dell’impostazione qui proposta è da ritenersi corret-ta l’affermazione che l’elemento valutativo del ragionamento analogico non possa essere fissato arbitrariamente; ad ogni modo i vincoli che si incontrano nella determinazione di tale elemento consentono comunque di poter scegliere tra più soluzioni, di individuare più valori, ossia più criteri della proporzione giuridicamente plausibili. Se il ragionamento analogico può dirsi sensato in quanto si inserisce nel sistema razionale del diritto, in quanto ne rispetta, cioè, la coerenza e la consistenza, si potranno sviluppare per la medesima fattispecie non regolata svariati ra-gionamenti analogici razionali, cioè non antinomici col sistema di riferi-mento e con esso “armonizzabili”. ciò in virtù del fatto che se il criterio della proporzione è la ratio di una o più norme (delle norme che si pren-dono in considerazione per compiere uno specifico ragionamento) e la sua determinazione non è univoca, si hanno tante razionalità possibili del ragionamento analogico compiuto e del sistema giuridico nel quale essa si inserisce, quante sono le opzioni interpretative accettabili relative alla individuazione della ratio, ovvero al poter riconoscere quella ratio come la eadem ratio della fattispecie regolata e di quella non regolata.

Per spiegare e chiarire meglio la modesta conclusione appena for-mulata, si può riprendere la metafora dworkiniana della chain novel 26. Gli interpreti, i giudici in particolare, al pari di un gruppo di scrittori impegnati nella realizzazione a più mani dello stesso romanzo, nel porre in essere un ragionamento analogico sono chiamati a costruire il sistema razionale del diritto, inserendo nel sistema stesso l’analogia compiuta in maniera compatibile e, per così dire, “armoniosa”.

Tuttavia, nel nostro caso, lo scrittore che si accinge a redigere il capi-tolo di sua competenza, non si trova costretto a seguire una sola direzio-ne di sviluppo della narrazione, bensì, pur proseguendo nella scrittura del medesimo romanzo di chi ha realizzato i capitoli precedenti e senza iniziare un romanzo diverso, ha la possibilità di scegliere tra più alter-native narrative, tutte compatibili con la parte di romanzo già scritta. Semmai ciò di cui si potrà discutere sono le qualità letterarie dello scrit-tore di turno, se abbia proseguito l’opera più o meno brillantemente.

26 Ormai notissima, v. R. dwoRkin, Diritto come letteratura (1983), in id., Questioni di principio, Milano, il Saggiatore, 1990, pp. 147 ss.

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Analogia giuridica e razionalità dell’ordinamento 95

Ma un conto è dire che lo scrittore ha scritto un altro romanzo, altra co-sa è sostenere che quel capitolo poteva essere più accattivante. Allo stes-so modo l’interprete compie un’analogia sensata, che contribuisce alla costruzione della razionalità dell’ordinamento giuridico, ogniqualvolta individui l’elemento valutativo del ragionamento analogico rispettando dei criteri di accettabilità giuridica, criteri che consentono però l’adozio-ne di più soluzioni e quindi la realizzazione di più sistemi razionali del diritto. così come uno scrittore può essere più o meno bravo, allo stes-so modo l’interprete potrà sviluppare un ragionamento analogico più o meno convincente, ma si tratterà pur sempre di un ragionamento che ha senso denominare “per analogia”, sempre che la fissazione del valore qualitativo avvenga entro i limiti di cui si è trattato. V’è una evidente differenza tra ciò che non è analogia e ciò che può essere indicato come un’analogia migliore di altre. interrogarsi su come scegliere la migliore tra le opzioni possibili è un’altra storia, che coinvolge comunque valuta-zioni e preferenze dell’interprete.

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L’ABUSO deL diRiTTO in POcHe PAROLe

“Abuso: uso eccessivo, indebito o arbitrario”(G. deVoto-G.C. oLi, Dizionario della lingua italiana)

iniziamo con un po’ di giurisprudenza tributaria europea e nazionale utile a individuare taluni nodi cruciali in tema di abuso del diritto.

Uno dei contratti sui quali si focalizza spesso l’attenzione del fisco è il sale and lease back: «in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’appartenenza di due società al medesimo gruppo d’imprese, pur non escludendo sul piano civilistico la liceità di un contratto di sale and lease back posto in essere tra le stesse, ed avente ad oggetto beni strumenta-li già ammortizzati dalla società venditrice, consente di ravvisare in tale operazione un comportamento elusivo, configurabile come abuso del di-ritto, potendosi escludere, proprio in virtù della rilevanza unitaria confe-rita dal legislatore al gruppo d’imprese, che tale contratto realizzi l’effetto economico proprio della locazione finanziaria, consistente nell’assicura-re al locatore una maggiore disponibilità di denaro, e dovendo pertanto concludersi che esso è volto esclusivamente a realizzare un vantaggio fi-scale, costituito per la società utilizzatrice dalla possibilità di portare in detrazione i canoni di locazione, e per la società locatrice di effettuare nuovamente l’ammortamento dei medesimi beni»1. Quanto si è appena riferito varrebbe in termini generali, poiché «in materia tributaria inte-gra gli estremi del comportamento abusivo quell’operazione economica, che tenuto conto sia della volontà delle parti implicate che del contesto fattuale e giuridico, ponga quale elemento predominante ed assorbente della transazione lo scopo di ottenere vantaggi fiscali, con la conseguenza che il divieto di comportamenti abusivi non vale più ove quelle operazio-ni possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta»2. Per i tributi armonizzati l’indicazione arriva dalla corte eu-ropea di giustizia: «La nozione di abuso del diritto nell’ambito dell’ordi-namento comunitario deve ricondursi all’inammisibilità per gli operatori

1 cass. civ., sez. tributaria, 8 aprile 2009, n. 8481, in Rep. Foro it., Tributi in genere [6840], n. 174, corsivi aggiunti.

2 cass. civ., sez. tributaria, 22 settembre 2010, n. 20030, in fisconline.

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di avvalersi fraudolentemente delle disposizioni del diritto comunitario. il contegno o comportamento abusivo deve risultare da un insieme di ele-menti di natura obiettiva comprovanti l’esclusività dello scopo perseguito dalle operazioni economiche, volte essenzialmente all’ottenimento di un vantaggio fiscale»3.

ecco, quindi, che di abuso del diritto i giudici nazionale ed europeo trattano reiteratamente, per quanto, a onor del vero, l’abuso del diritto abbia avuto fortune alterne. esso è stato, ed è ancora, al centro della ribalta giurisprudenziale, dottrinale e filosofico giuridica, tuttavia per lunghi periodi è stato accantonato o relegato ai margini della discussio-ne. Tornare, anzi continuare a riflettere sull’abuso del diritto è sensato per molteplici ragioni. innanzi tutto dal punto di vista dell’attualità giu-risprudenziale e dottrinale il tema dell’abuso del diritto vive un momento di elevata rilevanza per il sistema giuridico italiano (e per il diritto dell’u-nione europea), specie per gli ambiti disciplinari del diritto civile dei con-tratti e del diritto tributario4. in secondo luogo dal punto di vista della

3 corte giust. Ue, 21 febbraio 2008, causa c-425/06, in fisconline. La sentenza caposti-pite è la Halifax del 21 febbraio 2006, c-255/02.

4 Lo si è appena visto. Per il diritto civile dei contratti la sentenza che ha riacceso, se non addirittura infiammato, il dibattito è la ormai notissima cass. civ., 18 settembre 2009, n. 20106, pubblicata in varie sedi editoriali tra cui Resp. civ. e prev., 2, 2010, p. 345 ss., con il com-mento di a. GentiLi, Abuso del diritto e argomentazione giuridica, una delle massime tratte è la seguente: «È abusivo l’esercizio ad libitum, e cioè senza proporzionalità dei mezzi usati rispetto agli interessi contrapposti, che si esprima nella procedimentalizzazione attraverso trattative o riconoscimento di indennità al concessionario, del diritto di recesso ad nutum dal contratto di concessione di vendita»; per ulteriori riferimenti e approfondimenti v. gli scritti di Paolo comanducci, Giovanni cazzetta, Mauro Orlandi e Aurelio Gentili contenuti in V. VeLLuzzi (a cura di), L’abuso del diritto. Teoria, storia, ambiti disciplinari, ets, Pisa, 2012. Va ricordato che l’abuso del diritto ha trovato il suo primo ancoraggio in ambito proprietario nell’art. 833 c.c. sul divieto di atti emulativi, almeno così pensano taluni studiosi e certa giurisprudenza; per un interessante caso in materia condominiale v. cass. civ., 27 giugno 2005, n. 13732, reperibile sulla banca dati De jure.

Per il diritto tributario bisogna dire che la produzione giurisprudenziale è continua e non priva di oscillazioni (v. L. d. CoRRado, Elusione tributaria vs lecito risparmio d’imposta: un revirement della Corte di Cassazione?, in Diritto e giustizia, 2011, p. 35 ss., nella manualistica G. faLsitta, Manuale di diritto tributario, Parte generale, Padova, cedam, 2010, pp. 213-217) si segnalano, in aggiunta alle sentenze già menzionate, cass. civ., sez. tributaria, 21 aprile 2008, n. 10257, in Riv. dir. trib., 2008, 7-8, ii, p. 448: «non hanno efficacia nei confronti dell’amministrazione finanziaria quegli atti posti in essere dal contribuente che costituiscono abuso del diritto, cioè che si traducano in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale. Tale inefficacia non opera laddove il contribuente fornisca la prova dell’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico» e cass. civ., sez. tributaria, 26 ottobre 2011, n. 22508, in www.ilsole24ore.com/norme, che segue il medesimo orientamento; più prudente, invece, cass. civ., sez. tributaria, 21 gennaio 2011, n. 1372, in Diritto e giustizia, 2011, p. 35. il dibattito sull’abuso del diritto in campo tributario è vivace e tra le proposte in campo v’è pure quella di introdurre

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filosofia giuridica l’abuso del diritto ha ricevuto in anni recenti rinnovata attenzione nelle aree di lingua italiana e castigliana, attenzione sfociata nella produzione di svariati saggi che hanno prospettato nuove chiavi di lettura del tema, con particolare riguardo alla teoria del diritto soggettivo, della norma giuridica e del ragionamento giuridico5.

d’altronde l’abuso del diritto costituisce un tipico esempio di argo-mento appartenente all’alta dogmatica6, e per questo è un terreno sul quale giuristi positivi e filosofi del diritto sono chiamati a rispondere, per soddisfare le rispettive esigenze, ai medesimi interrogativi, quali ad esempio: si può abusare di un diritto soggettivo? Qualora si ritenga di sì, a quali condizioni? Le condizioni variano a seconda dell’ambito di-sciplinare? Qual è il rapporto tra interpretazione giuridica e abuso del diritto? Un confronto tra i giuristi positivi e i filosofi del diritto è, dun-que, inevitabile se si vogliono fornire risposte plausibili agli interrogativi appena sollevati7. ecco la ragione precipua per cui l’abuso del diritto è stato discusso da filosofi del diritto, studiosi di diritto civile, tributario e processuale8.

una specifica disciplina legislativa sostitutiva o aggiuntiva rispetto all’art. 37 bis del dPR 600 del 1973 (disposizioni antielusive); sui vari progetti di legge v. s. fossati, Una legge per l’abuso del diritto, in Il Sole 24 Ore del 27 ottobre 2011, sull’opportunità di un intervento normativo ad hoc e. de Mita, Abuso del diritto, la Cassazione delinea la legge, in Il Sole 24 Ore del 30 ottobre 2011; ulteriori informazioni si trovano in Le guide de Il Sole 24 Ore, n. 11, 9 marzo del 2012. Per la vicenda dell’abuso del diritto nel diritto dell’Unione europea v. L. CRuCiani, Clausole generali e principi elastici in Europa: il caso della buona fede e dell’abuso del diritto, in Riv. crit. dir. priv, 3/2011, p. 473 ss.

non bisogna trascurare la rilevanza che l’abuso del diritto può assumere nell’ambito della contrattazione collettiva o aziendale in termini di abuso di negoziazione, v. Trib. Torino, sez. lavoro, 14 settembre 2011, n. 4020, in Argomenti di diritto del lavoro, 1, 2012, con nota di V. de stefano.

5 Si veda l’ottimo G. Pino, L’abuso del diritto tra teoria e dogmatica (precauzioni per l’uso), in G. Maniaci (a cura di), Eguaglianza, ragionevolezza e logica giuridica, Milano, Giuffrè, 2006, pp. 115-175 e letteratura ivi citata.

6 Ossia un terreno in cui il confine tra lo studio del diritto e la teoria del diritto non è ben definito, per dirla con le note parole di A. Ross, Diritto e giustizia (1958), trad. it. Torino, einaudi, 1965, pp. 26-27.

7 Le questioni poste riguardano pure la giurisprudenza, per cui le risposte agli interro-gativi sollevati si rivolgono alla teoria, alla dogmatica e ai giudici.

8 All’abuso del diritto con riguardo al processo, civile in particolare, è dedicato il saggio di M. taRuffo, L’abuso del processo, in V. VeLLuzzi (a cura di), L’abuso del diritto. Teoria, storia, ambiti disciplinari, cit., pp. 139-148. Senza trascurare l’importanza della prospettiva storica: infatti i concetti giuridici hanno un’origine e uno sviluppo, le questioni dibattute in un dato periodo storico sono il risultato di azioni, omissioni, riflessioni avvenute in precedenza e solo avendone contezza è possibile comprendere a fondo le tesi avanzate nel dibattito del presente. Per una storia dell’abuso del diritto in connessione con la responsabilità civile v. G. Cazzetta, Responsabilità civile e abuso del diritto tra otto e novecento, in V. VeLLuzzi (a cura di), L’abuso del diritto. Teoria, storia, ambiti disciplinari, cit., pp. 51-104.

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nel prosieguo non intendo fornire una sintesi delle risposte date dalla letteratura giuridica (teorica e dogmatica) alle domande, bensì mi pro-pongo di esporre, in maniera succinta, da dove le domande provengono, quali sono le discussioni giurisprudenziali, dottrinali, filosofico giuridi-che che le hanno ispirate facendone il punto di riferimento principale, per quanto non esaustivo, del discorso recente (ma pure di quello risalen-te) sull’abuso del diritto. Vorrei spiegare, cioè, l’abuso del diritto in po-che ma significative parole, lasciando trarre le implicazioni del discorso al lettore.

Si può abusare di un diritto soggettivo? Questa è la domanda per antonomasia, visto che il nodo cruciale consiste nello stabilire se sia sen-sato porsela e ove si ritenga di no l’indagine dovrebbe arrestarsi. i critici dell’abuso del diritto, infatti, reputano l’interrogativo privo di pregio e l’abuso del diritto non configurabile sul piano concettuale: l’esercizio di un diritto soggettivo o è lecito, oppure se si risolve in un cattivo esercizio cade nella sfera dell’illecito. La rilevanza giuridica del comportamento si esaurisce nella coppia liceità/illiceità, non v’è spazio alcuno per un ter-tium genus, una figura ibrida, per così dire “del formalmente lecito ma sostanzialmente non consentito” o di ciò che “è corretto prima facie ma scorretto, abusivo appunto, a un più attento esame”. Seguendo questa impostazione l’abuso del diritto soggettivo non sarebbe uno strumento grazie al quale il diritto oggettivo riscatta la propria miseria, per usare la celebre prosa di Pietro Rescigno, bensì un mezzo per veicolare instabilità nelle relazioni giuridiche, per rendere incerto quel che è certo in base a quanto stabilito dalle norme dell’ordinamento, per rendere illecito, in maniera surrettizia e ideologica, ciò che è lecito per il diritto oggettivo9. ciò varrebbe anche in presenza di norme che fanno espresso divieto di abusare del diritto soggettivo, le quali sarebbero, stante la non configu-rabilità concettuale dell’abuso del diritto, inutili, o peggio ancora veicoli delle preferenze individuali dell’interprete.

coloro che sostengono le ragioni dell’abuso del diritto soggettivo,

9 Le formule adottate nel testo vogliono evidenziare la difficoltà (presente sia in dot-trina, sia in giurisprudenza) di collocare sic et simpliciter l’abuso del diritto nell’area dell’ille-cito, non a caso Manuel Atienza e Juan Ruiz Manero hanno intitolato il loro libro sull’abuso del diritto, la frode alla legge e lo sviamento di potere Illeciti atipici, trad it. Bologna, 2004. La difficoltà di cui si è appena riferito è ben rappresentata anche dalla questione di quali siano le conseguenze più appropriate per l’atto abusivo: inefficacia, risarcimento o entrambi.

il riferimento a Pietro Rescigno riguarda il saggio L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., i, 1965, p. 205 ss. Preciso inoltre che nell’ambito di questa introduzione il sintagma “norma giuridica” viene usato talvolta per indicare l’enunciato del discorso delle fonti, talaltra per indicare il contenuto di significato dell’enunciato normativo.

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ovvero della possibilità di configurarlo sul piano concettuale, muovono da un presupposto comune e una sua sommaria ricognizione conduce il discorso verso il coinvolgimento di tutti gli altri interrogativi in sospeso, ossia delle condizioni in presenza delle quali l’abuso sia configurabile, dell’incidenza dell’ambito disciplinare e del rapporto tra abuso del dirit-to e interpretazione giuridica. Vale la pena, quindi, trattare le differenti questioni non singolarmente ma assieme, visto il reciproco intreccio che le caratterizza.

il presupposto evocato per ammettere l’abuso del diritto soggettivo è una caratteristica degli stessi diritti soggettivi. Per essere più chiari: si afferma che il diritto soggettivo è attribuito da norme giuridiche per uno o più scopi determinati, ossia per soddisfare uno o più interessi o per garantire una certa sfera d’autonomia alla persona10. ne segue che se il diritto soggettivo non viene esercitato per conseguire lo scopo o gli scopi dell’attribuzione, bensì scopi diversi o ulteriori, l’esercizio del diritto sog-gettivo va censurato11.

Siffatto approccio richiama una visione, per così dire, strumentale del diritto soggettivo per la quale le ragioni dell’attribuzione del diritto costituiscono sempre il metro di valutazione dell’esercizio del diritto me-desimo. ciò stabilito non v’è alcuna difficoltà nel ritenere che una moda-lità di esecuzione del diritto soggettivo conforme a quanto disposto dalla norma intesa in conformità alla sua formulazione linguistica, possa essere considerata difforme dal diritto oggettivo in quanto non riconducibile alle ragioni dell’attribuzione del diritto soggettivo12.

È piuttosto evidente che la visione strumentale del diritto soggettivo reagisce sull’interpretazione delle norme giuridiche imponendo all’in-terprete di colmare lo scarto tra lettera e scopo della norma a favore di

10 Sul diritto soggettivo per tutti G. Pino, Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuri-dico nello Stato Costituzionale, Bologna, 2010, pp. 77-96 e bibliografia ivi citata. nel testo non si è presa posizione tra interest theory e choice theory quali diverse giustificazioni del diritto soggettivo, anche se il modo in cui i fautori del divieto dell’abuso del diritto abitualmente argomentano sembra presupporre la teoria dell’interesse a fondamento del diritto soggettivo.

11 Già trattare di finalità diverse o di finalità ulteriori non è secondario o superfluo e varia non poco le condizioni di accertamento dell’abuso.

12 Si tratta dell’ennesima riproposizione del dualismo tra lettera e spirito della norma giuridica. il metro per stabilire la prevalenza dello spirito sulla lettera attraverso l’affermazione del divieto di abuso del diritto soggettivo può essere costituito dai principi del diritto, ovvero dalla configurazione del divieto di abuso del diritto come principio del diritto (espresso o inespresso) o dalla sua riconducibilità ad uno o più principi del diritto (espressi o inespressi) dell’ordinamento giuridico. Questa linea d’analisi presuppone la distinzione tra regole e prin-cipi e implica che ciò che è lecito a livello delle regole può non esserlo a livello dei principi. Sul punto si vedano i saggi di Paolo comanducci, di Manuel Atienza e Juan Ruiz Manero, in V. VeLLuzzi (a cura di), L’abuso del diritto. Teoria, storia, ambiti disciplinari, cit.

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quest’ultimo. L’abuso del diritto, quindi, entra in gioco ogni volta che la lettera della norma è considerata più ampia, sovradeterminata rispetto allo scopo, ossia alla formulazione linguistica della norma sono ricondu-cibili modalità di esercizio del diritto soggettivo in grado di frustrare la finalità dell’attribuzione del diritto soggettivo medesimo13.

Se gli oppositori dell’abuso del diritto nutrono sovente una fiducia esagerata nell’interpretazione letterale, ovvero ritengono che la formu-lazione della norma sia in grado di indicare con chiarezza le azioni e le omissioni che costituiscono esercizio del diritto soggettivo (area del leci-to) distinguendole da quelle che non costituiscono esercizio di quel di-ritto soggettivo (area dell’illecito), v’è da dire, per contro, che la strada della ricerca dello scopo della norma (delle ragioni dell’attribuzione del diritto soggettivo) propugnata dai fautori dell’abuso del diritto (rectius: del divieto di abusare del diritto) è lastricata di insidie, ma soprattutto intrisa di discrezionalità interpretativa14. L’abuso del diritto comporta, infatti, una riduzione teleologica della norma attributiva del diritto: classi di casi regolate sulla base della sua formulazione vengono ad essa sottratti in ragione della presenza o dell’assenza di uno o più elementi, presenza o assenza che determina uno scostamento non sopportabile tra ragioni dell’attribuzione del diritto e risultato ottenuto con il suo concreto eser-cizio15. il rischio è che la dilatazione dell’area di applicazione del divieto di abuso del diritto possa portare a riduzioni teleologiche talmente ampie da svuotare del tutto o in gran parte le facoltà e i poteri costitutivi di un particolare diritto soggettivo, impedendone l’esercizio in situazioni la cui riconduzione alla norma attributiva del diritto appare chiara o poco difficoltosa16.

Mi pare che da queste poche considerazioni emerga con chiarezza lo stretto legame tra abuso del diritto e interpretazione delle disposizioni normative, soprattutto tra abuso e discrezionalità interpretativa.

Riassumendo quanto si è scritto sino a ora: l’esercizio del diritto è

13 Riprendo il lessico di f. sChaueR, Le regole del gioco, trad. it. Bologna, 2000, passim. 14 V. retro il saggio Analogia giuridica e razionalità dell’ordinamento. Note a margine.15 Bisogna tenere presente, inoltre, che non si può pacificamente discorrere di illecito

solo perché una azione (o perché no, pure una omissione) è apparentemente rientrante tra quelle di esercizio di un diritto soggettivo, ma si colloca fuori dal suo scopo: in questo caso si potrebbe ragionevolmente parlare non di illecito, bensì di non esercizio del diritto soggettivo. Vale a dire che può non esservi sovrapposizione necessaria e completa tra area del non eserci-zio del diritto e area dell’illecito.

16 Afferma correttamente P. CoManduCCi, Abuso del diritto e interpretazione giuridica, in V. VeLLuzzi (a cura di), L’abuso del diritto. Teoria, storia, ambiti disciplinari, cit., p. 29, che se-guendo quanto sostenuto da cass. civ., 18 settembre 2009, n. 20106, risulterà sempre possibile svuotare di contenuto precettivo qualunque clausola contrattuale.

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abusivo se non rispetta le condizioni che soddisfano le ragioni dell’at-tribuzione del diritto soggettivo stesso. Orbene, un aspetto importante da rammentare è il seguente: si può controvertere pure su quali siano queste condizioni in grado di soddisfare le ragioni dell’attribuzione. Un esempio nostrano è costituito dai già menzionati casi dell’abuso del diritto in campo tributario e degli atti emulativi ex art. 833 del codice ci-vile. non è chiaro, infatti, se il contribuente faccia un uso improprio, abu-sivo appunto, della norma che gli attribuisce un beneficio fiscale ove agi-sca al solo fine di ottenere il beneficio e non anche per realizzare lo scopo principale della norma in questione, oppure se basti la compresenza del fine, per così dire egoistico, o in terza istanza se una valutazione in termini psicologico-soggettivi sia inutile e si debba riscontare, invece, se ciò che il contribuente ha realizzato sia di per sé in grado di frustrare la finalità principale della norma. Allo stesso modo dottrina e giurisprudenza sono divise in due schieramenti opposti, quello dei soggettivisti e quello degli oggettivisti, con riguardo agli elementi costitutivi degli atti emulativi17.

insomma, pur se si ritiene configurabile sul piano concettuale la figura dell’abuso del diritto e si considera sensato, di conseguenza, sanzionare l’esercizio abusivo del diritto soggettivo, bisogna tener conto di moltepli-ci fattori di diritto positivo. Mi spiego. L’abuso del diritto si inserisce in ordinamenti e ambiti disciplinari specifici e ciò ha, o può avere, svariati riflessi sul modus operandi del divieto di abusare del diritto soggettivo. Quanto ho detto sin qui ha già fatto emergere, infatti, che: a) talvolta l’abuso del diritto può essere ricondotto a norme espresse

17 È controverso se gli atti emulativi richiedano per essere vietati lo scopo di nuocere al vicino, in senso affermativo si esprime cass. civ., 9 ottobre 1998, n. 9998, in Giust. Civ. Mass., 1998, p. 2046: «Per aversi atto emulativo vietato dall’art. 833 c.c. occorre il concorso di due elementi: a) che l’atto di esercizio del diritto non arrechi utilità al proprietario; b) che tale atto abbia il solo scopo di nuocere o arrecare molestia ad altri», nella direzione opposta va, invece, Trib. Salerno, 9 luglio 2002, in Arch. civ., 2002, p. 1075: «Per aversi atto emulativo vietato ai sensi dell’art. 833 c.c. è necessaria la sussistenza di uno specifico divieto sanzionatorio ovvero un comportamento idoneo esclusivamente a danneggiare il vicino». Si rammenti che in campo tributario sono abusive le operazioni «eseguite al solo scopo di procurarsi un vantaggio fisca-le», cass. civ., sez. tributaria, 5 maggio 2006, n. 10353, in Obbligazioni e contratti, 8-9, 2006, p. 761, ma nella già menzionata cass. civ., sez. tributaria, 21 gennaio 2011, n. 1372, in Diritto e giustizia, 2011, p. 35, la suprema corte sostiene che «L’applicazione del principio di abuso del diritto deve essere guidata da una particolare cautela, essendo necessario trovare una giusta linea di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e libertà di scelta delle forme giuridiche, soprattutto quando si tratta di attività d’impresa», nel caso di specie la cas-sazione ha ritenuto che l’amministrazione finanziaria non poteva spingersi sino a imporre una misura di ristrutturazione societaria diversa da quella adottata e giuridicamente possibile solo perché la misura indicata dall’amministrazione avrebbe comportato un maggior carico fiscale. ciò anche se la scelta della società sia stata adottata al solo fine di ottenere un risparmio fiscale.

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dell’ordinamento giuridico e il suo contenuto dipende dal modo in cui la norma stessa viene interpretata;

b) l’interpretazione della norma che espressamente contempla l’abuso del diritto (che sia qualificata o che non sia qualificata come un prin-cipio) condiziona l’interpretazione della norma attributiva del diritto soggettivo, orientandola verso il soddisfacimento delle ragioni dell’at-tribuzione del diritto soggettivo;

c) sia la norma che regola l’abuso, sia le norme che conferiscono diritti, si collegano con altre norme di uno o più ambiti disciplinari e con eventuali norme di chiusura degli ambiti disciplinari stessi. ciò può comportare un diverso atteggiarsi dell’abuso del diritto (ossia posso-no variare le condizioni di accertamento dell’abuso del diritto);

d) in assenza di una norma che regoli espressamente l’abuso del diritto sog-gettivo si pone il problema di trovare allo stesso abuso un ancoraggio nor-mativo nell’ordinamento: tutto ciò determina articolate argomentazioni e giustificazioni sovente connesse con l’elaborazione di norme inespresse qualificate come principi o con la riconduzione del divieto di abuso del diritto a norme espresse (anch’esse qualificate come principi). Le vicen-de del sistema giuridico italiano testimoniano la presenza di entrambe le tendenze appena menzionate. Per un verso l’art. 833 c.c. è stato ritenu-to l’indice, il punto di emersione del divieto di abuso del diritto, e cioè l’elemento o uno degli elementi in grado di costituire la base normativa dalla quale trarre il principio di divieto dell’abuso del diritto soggettivo. Per l’altro verso in certe decisioni e contributi della dottrina il divieto di abuso del diritto è stato ritenuto una specificazione del principio di buona fede oggettiva (artt. 1337, 1366, 1375 c.c.) oppure dei principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione (art. 53 cost.) per quanto concerne l’ambito tributario. così ragionando l’abuso del diritto non è un principio da ricavare e formulare, bensì espressione dei contenuti di un principio già formulato nell’ordinamento giuridico. Questo breve scritto ha preso le mosse dall’affermazione che per stu-

diare adeguatamente il tema dell’abuso del diritto il confronto tra filosofi del diritto e giuristi positivi sia ineludibile. non so se le rapide osservazio-ni compiute abbiano portato acqua al mulino di tale tesi, mettendo ade-guatamente in risalto l’intreccio tra questioni teoriche e dogmatiche. È certo, però, che chi continuerà a voler comprendere a fondo e commenta-re a ragion veduta la giurisprudenza sull’abuso del diritto non potrà farlo senza dotarsi di una solida formazione teorica e il teorico che vorrà dire qualcosa di sensato sull’abuso del diritto difficilmente potrà prescindere dagli spunti che la giurisprudenza offre.

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TUTeLe “PROPORziOnATe”, PROGnOSi deL cOMPORTAMenTO deL cOniUGe (O EX cOniUGe)

OBBLiGATO e inTeRPReTAziOne GiUdiziALe

soMMaRio: 1. Una decisione “senza precedenti”. – 2. La garanzia ipotecaria, la natura del credito e l’interpretazione della legge. – 3. interpretazione letterale, si-stematica e funzionale in che senso? – 4. Ancora un interrogativo: una questione di legittimità costituzionale per irragionevole differenziazione?

1. Una decisione “senza precedenti”

Giovanni Tarello esortava i filosofi del diritto analitici a mettere alla prova i propri strumenti di lavoro, ad applicare un metodo piuttosto che discuterlo1. Giacomo Gavazzi riteneva che la teoria del diritto potesse es-sere praticata anche, forse soprattutto, “dal basso”, ossia a partire da pro-blemi posti dalla dottrina e dalla giurisprudenza2. Letizia Gianformaggio sosteneva che un filosofo del diritto, per definirsi tale, deve essere anche giurista3. Le pagine che seguono costituiscono un tentativo di soddisfare i propositi metodologici appena ricordati attraverso l’analisi di tre sentenze, una di legittimità e due di merito riguardanti la garanzia ipotecaria del cre-dito del coniuge separato o dell’ex coniuge divorziato4. L’esposizione della vicenda mostrerà, si spera, le potenzialità delle questioni emergenti per l’ap-plicazione di taluni strumenti di lavoro tipici del filosofo del diritto analitico (o analista che dir si voglia), del loro conseguente interesse per la tecnica e la teoria dell’interpretazione giuridica, della necessità di conoscere taluni ambiti del diritto civile per cogliere nella loro interezza i nodi teorici intrec-ciati con le questioni più squisitamente di diritto positivo.

i fatti controversi alla base delle tre sentenze sono sempre i medesimi:

1 nell’opuscolo illustrativo della neonata rivista Materiali per una storia della cultura giuridica pubblicato da il Mulino, Bologna, 1975, Tarello raccomandava «lo studio di cose piuttosto che lo studio di come bisognerebbe studiarle».

2 G. GaVazzi, L’onere. Tra la libertà e l’obbligo, Torino, Giappichelli, 1969, p. 9, nella quale l’onere viene indicato come ideale punto d’incontro dei due modi di fare teoria del dirit-to, dall’alto e dal basso.

3 L. GianfoRMaGGio, Il filosofo del diritto e il diritto positivo, in ead., Filosofia del diritto e ragionamento giuridico, a cura di e. diciotti e V. Velluzzi, Torino, Giappichelli, 2008, pp. 25-40.

4 Per un primo accostamento v. f. finoCChiaRo, Del Matrimonio, t. 2, Commentario Scialoja e Branca, Bologna-Roma, zanichelli-il foro italiano, 1993, p. 439 ss.

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un coniuge o ex coniuge è obbligato da una sentenza di separazione o di divorzio o da un verbale di separazione consensuale omologata per decre-to a versare una somma periodica all’altro coniuge o all’ex coniuge a titolo di mantenimento o di solidarietà post-coniugale. Facendo valere la senten-za o il decreto il coniuge o ex coniuge creditore iscrive ipoteca su un be-ne immobile dell’obbligato, basando l’istituzione della garanzia reale sulla disposizione del comma 5 dell’art 156 c.c.: «La sentenza costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale», o in caso di divorzio sull’art. 8, com-ma 2 della legge 898 del 1970: «la sentenza di divorzio costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’articolo 2818»5. L’obbligato però chiede che l’ipoteca venga cancellata, in quanto non v’è stato, e/o non v’è ragione di ipotizzare che vi sarà da parte sua, inadempimento dell’obbli-go che su di lui grava.

La sentenza della corte di cassazione dalla quale prendere avvio risale al luglio del 20046. in quella occasione la corte stabilì che «in tema di garan-zie per il pagamento dell’assegno di separazione e di divorzio, la valutazione del coniuge, in favore del quale la sentenza di separazione riconosca l’asse-gno di mantenimento, circa la sussistenza, ai fini dell’iscrizione ipotecaria ai sensi dell’art. 2818 c.c., del pericolo di inadempimento del coniuge obbliga-to, resta sindacabile nel merito, onde la mancanza – originaria o sopravve-nuta – di tale pericolo determina, venendo meno lo scopo per cui la legge consente il vincolo, l’estensione della garanzia ipotecaria e di conseguenza, il sorgere del diritto dell’obbligato ad ottenere dal giudice, dietro l’accerta-mento delle condizioni anzidette, l’emanazione del corrispondente ordine di cancellazione ai sensi dell’art. 2884 c.c.».

Per prima cosa è bene rammentare le molte formulazioni normative coinvolte7. il quadro di riferimento è il seguente: l’art. 156 del codice ci-vile dispone al comma 4 che «il giudice che pronunzia la separazione può imporre al coniuge di prestare idonea garanzia reale o personale se esiste il pericolo che egli possa sottrarsi all’adempimento degli obblighi previsti dai precedenti commi e dall’art. 155»; il medesimo articolo stabilisce al comma

5 decreto di omologazione della separazione consensuale e sentenza costituiscono en-trambi titoli idonei a iscrivere ipoteca giudiziale a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art 158 c.c. pronunciata da corte cost., 18 febbraio 1988, n. 186, in Giustizia civile, i, 1988, 879: «non la sola sentenza che pronunzia la separazione giudiziale ex art. 156, comma 5, ma anche il decreto di omologazione della separazione consensuale, ex art. 158, deve essere considerato titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale ai sensi dell’art. 2818 c.c.».

6 cass. civ., sez. i, 6 luglio 2004, n. 12309, reperibile sulla banca dati De Jure. 7 Una puntualizzazione terminologica: nell’ambito di questo scritto si intende per di-

sposizione normativa, formulazione normativa, enunciato normativo, un enunciato del discor-so delle fonti del diritto.

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5 che «la sentenza costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’articolo 2818» e al comma 6, primo inciso, dispone che «in caso di inadempienza, su richiesta dell’avente diritto, il giudice può disporre il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato»; l’art. 8, comma 2 della legge 898 del 1970 statuisce: «la sentenza di divorzio costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’articolo 2818»8; l’art. 2818 c.c. regola i provvedimenti da cui deriva l’ipoteca giudiziale disponendo che «Ogni sentenza che porta condanna al pagamento di una somma o all’a-dempimento di altra obbligazione ovvero al risarcimento dei danni da liqui-darsi successivamente è titolo per iscrivere ipoteca sui beni del debitore»9; l’art 2852 c.c. riguarda il grado dell’ipoteca: «L’ipoteca prende grado dal momento della sua iscrizione, anche se è iscritta per un credito condiziona-le. La stessa norma si applica per i crediti che possano eventualmente nasce-re in dipendenza di un rapporto già esistente»; l’art. 2884 c.c. dispone che la cancellazione dell’ipoteca possa essere eseguita se ordinata per sentenza.

il lettore noterà piuttosto agevolmente che dalla lettura prima facie degli enunciati normativi del comma 5 dell’art. 156 c.c. e dell’art. 8, comma 2 della legge 898 del 1970, non risulta il requisito del pericolo dell’inadempi-mento del coniuge obbligato per iscrivere e soprattutto per far permanere la garanzia ipotecaria del credito dell’altro coniuge10. La decisione dei giudici di legittimità era priva di precedenti in termini, com’è abitudine dire, e resta ad oggi carente di riscontri successivi al medesimo grado di giudizio, ma ha avuto proseliti e raccolto critiche tra i giudici di merito11.

8 È bene rammentare che il medesimo articolo prevede al comma 1, al pari dell’art. 156, comma 4 c.c., che «il Tribunale che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti ci-vili del matrimonio può imporre all’obbligato di prestare idonea garanzia reale o personale se esiste il pericolo che egli possa sottrarsi all’adempimento degli obblighi di mantenimento», e al comma 7 stabilisce che «Per assicurare che siano soddisfatte o conservate le ragioni del credi-tore in ordine all’adempimento degli obblighi di cui agli articoli 5 e 6, su richiesta dell’avente diritto il giudice può disporre il sequestro dei beni del coniuge obbligato a somministrare l’assegno».

9 L’articolo si compone anche del secondo comma, in base al quale «Lo stesso ha luogo per gli altri provvedimenti giudiziali ai quali la legge attribuisce tale effetto».

10 Si vedrà tra poco che nella ricostruzione degli argomenti usati dal Tribunale di Mi-lano e forse pure da quelli proposti dalla cassazione, iscrizione e permanenza della garanzia ipotecaria vanno tenute concettualmente distinte (v. infra nota 16). Si noti, per inciso, ma la notazione non è banale, che il requisito di cui si è appena detto nel testo è estraneo pure alla formulazione dell’art. 2818 c.c.

11 Almeno è quanto risulta sino al momento in cui questo scritto è stato dato alle stampe. Per il vero una sentenza del 1991 (cass. civ., 20 novembre 1991, n. 12428, in Giustizia civile, i, 1992, p. 681) occupandosi della questione con riferimento ad una ipoteca giudiziale iscritta a seguito di divorzio e riprendendo giurisprudenza risalente agli anni Settanta, ha sì indicato nel pericolo di inadempimento un requisito per l’iscrizione dell’ipoteca, ma rimettendo la valutazione del pericolo medesimo al creditore e rendendola insindacabile in futuro da parte

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infatti, nel marzo del 2007, il Tribunale di Roma si è posto in rotta di collisione con la sentenza di cui sopra affermando che «il verbale di sepa-razione consensuale costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale e l’ipoteca è una facoltà del creditore prevista dall’ordinamento, facoltà che prescinde dall’inadempimento del debitore o dalla sussistenza di periculum in mora. La circostanza che il comma 6 dell’art. 156 c.c. preveda la possi-bilità di ottenere un sequestro in caso di inadempimento e che il comma 4 preveda che, in caso di pericolo di sottrazione all’adempimento, si possa ot-tenere una garanzia reale o personale rende palese che l’iscrizione ipotecaria di specie non possa ritenersi attuabile solo nella ricorrenza di presupposti di pericolo di sottrazione della garanzia dell’adempimento, ma ne prescinda, prevedendo che, ove vi sia titolarità di un credito accertato giudizialmente, il creditore abbia la facoltà di esercitare un diritto di garanzia previsto dalla legge»12. nel discostarsi dal precedente di legittimità il giudice del tribunale romano si premura di replicare ad uno dei punti rilevanti dell’argomenta-zione adottata dalla Suprema corte, vale a dire la necessità di istituire, per via di interpretazione, una proporzione tra la tutela accordata dall’art 156 ai commi 4 e 6 e quanto previsto dal medesimo articolo al comma 513.

La tesi della corte di cassazione è invece ripresa e fatta propria dal Tri-bunale di Milano in una sentenza del giugno 2009, nella quale si ribadisce che «è consentita l’iscrizione di ipoteca giudiziale sui beni del coniuge gra-vato da mensilità di assegno di mantenimento o divorzile non ancora scadu-te in caso di pericolo di un inadempimento futuro», in più si aggiunge che «qualora l’ex coniuge goda ancora di un cospicuo patrimonio immobiliare, non sussiste alcuna ragione per il mantenimento delle suddette ipoteche»14.

Orbene, quale sia il punto controverso a livello giudiziale è presto det-to: l’avvenuto inadempimento o il pericolo che questo si realizzi in futuro è un requisito necessario per l’iscrizione e per il permanere della garanzia ipotecaria del credito al mantenimento o dell’assegno di solidarietà post-

del giudice, al quale veniva sottratta ogni facoltà di valutare, su richiesta dell’obbligato, la legittimità della permanenza della garanzia. L’elemento significativo di novità introdotto con la sentenza del 2004 risiede nel fatto che il pericolo di inadempimento futuro non solo può, ma deve essere valutato dal giudice.

12 Trib. Roma, 21 marzo 2007, n. 5758, stralci della sentenza si possono leggere ne Il civilista, 5/2008, pp. 68-77, con commento di M. a. VeCChi.

13 il medesimo problema si pone per i commi 1, 2, 3 e 7 dell’art. 8 legge 898 del 1970. nel resto della nota di farà riferimento all’art. 156 c.c., anche in ragione del fatto che le sen-tenze, pur quando riguardano casi di divorzio, argomentano prevalentemente riferendosi a quell’articolo, per poi sostenere che altrettanto vale per lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

14 Trib. Milano, 18 giugno 2009, n. 7941, inedita, la massima è reperibile nella banca dati De Jure.

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coniugale? La risposta positiva o negativa all’interrogativo passa dall’inter-pretazione delle disposizioni normative sopra ricordate ed è proprio da un esame più approfondito degli argomenti usati nelle sentenze che si potran-no sviluppare molteplici considerazioni di teoria e di tecnica dell’interpreta-zione giuridica.

2. La garanzia ipotecaria, la natura del credito e l’interpretazione della legge

Vediamo più in dettaglio quali sono le argomentazioni proposte dalla giurisprudenza richiamata nel primo paragrafo.

da un lato si trova l’affermazione del Tribunale di Roma, secondo la quale le disposizioni normative di cui agli articoli 156, comma 5 c.c., e 8, comma 2 legge 898/1970 sono chiare e non affette da equivocità o ambigui-tà di sorta: sulla base della sentenza (o del verbale di separazione) il credi-tore ha titolo valido per iscrivere ipoteca, nonché per farla permanere nel tempo. nessun altro requisito è richiesto, che piaccia o che non piaccia.

dall’altro lato vi sono la cassazione del 2004 e il Tribunale di Milano per i quali tale lettura del quadro normativo è semplicistica e inaccettabile: vediamone le ragioni.

i giudici di legittimità argomentano ispirandosi «al sistema normativo, subordinando l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale ad un requisito, quello del pericolo, non letteralmente previsto dalle norme interpretate. il quadro normativo, appunto, presuppone, per l’operare delle varie forme di garan-zia dell’adempimento dell’assegno di mantenimento e divorzile, che vi sia quantomeno un fondato timore per le mensilità future. Anzitutto, il primo comma del citato art. 8 ed il quarto comma del parimenti citato art. 156, con disposizioni tra loro affini, prevedono che il giudice che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ovvero la separazione, può imporre all’obbligato di prestare idonea garanzia reale o personale solo se esiste il pericolo che egli possa sottrarsi all’adempimento nella corresponsione di quanto dovuto all’altra parte. Giusto il penultimo comma dell’art. 156 c.c., e le analoghe disposizioni dei commi dal terzo al settimo dell’art. 8 legge n. 898/1970, inoltre, anche le misure del sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato e dell’ordine ai terzi di versamento diretto agli aventi diritto sono subordinate al caso di inadempienza dell’ob-bligato dunque ad un inadempimento già verificatosi»15.

Queste le parole della cassazione che secondo il Tribunale di Mila-

15 i corsivi sono aggiunti.

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no «ha ritenuto di interpretare in chiave sistematica il combinato disposto dell’art. 156 comma 5 c.c. (o art. 8, comma 3 legge 898/1970) e dell’art. 2818 c.c. […] Benché la soluzione interpretativa offerta richiedesse for-se una più approfondita motivazione, soprattutto con riferimento alla non ben chiarita correlazione tra pericolo di inadempimento ed inadempimento già verificatosi, non si ritengono condivisibili le critiche mosse alla sentenza […] sotto il profilo dell’interpretazione letterale, ossia nel senso che il testo delle norme non autorizzasse […] una soluzione come quella che la cas-sazione ha adottato». Prosegue il togato ambrosiano «in effetti, mancando nell’art. 2818 c.c. ogni riferimento di tipo applicativo al particolare caso di condanna al pagamento dei crediti futuri, una interpretazione letterale nel senso di una interpretazione chiaramente desumibile e dunque pedisse-quamente aderente alla lettera della norma […] neppure pare configurabile […] d’altra parte, ove si aderisse all’interpretazione sostenuta dalla conve-nuta nel senso di permettere sempre e comunque al coniuge o ex coniuge di iscrivere ipoteca sui beni immobili dell’obbligato a prescindere da ogni inadempimento o pericolo di inadempimento […] si perverrebbe a risultati inaccettabili che provano a contrario la bontà della tesi cui qui si accede. così opinando, si sottometterebbe infatti l’obbligato all’esercizio non solo potestativo, ma anche con effetti permanenti nel tempo […] di una facoltà di iscrizione di ipoteca da parte dell’altro coniuge o ex coniuge […] oltre agli effetti negativi sul patrimonio in termini di possibilità di vendere l’im-mobile […] ai notori effetti negativi in caso di richieste di accesso al credito bancario o finanziario»16.

16 i corsivi sono aggiunti. chiosa il Tribunale di Milano che l’interpretazione sistematica adottata porta a concludere che: è consentita l’iscrizione di ipoteca al coniuge (o ex coniuge) beneficiario anche in relazione alle mensilità dell’assegno di mantenimento o divorzile non ancora scadute, ma a condizione che vi sia il pericolo che l’obbligato possa sottrarsi all’adempi-mento delle sue obbligazioni; in un primo momento si lascia al solo beneficiario la valutazione della sussistenza del pericolo; tale valutazione, tuttavia, è sindacabile nel merito dal giudice, per cui ove l’obbligato chieda al giudice stesso di disporre la cancellazione dell’ipoteca ai sensi dell’art 2884 c.c., il giudice può e deve verificare l’effettiva sussistenza del requisito del pericolo di inadempimento; la mancanza, originaria o sopravvenuta, del requisito del pericolo di inadempimento, determina l’insussistenza dello scopo per cui la legge consente il vincolo e fa sorgere, di conseguenza, il diritto dell’obbligato ad ottenere l’ordine di cancellazione.

il giudice ambrosiano rimprovera alla cassazione di non aver tenute distinte in maniera espressa, ma soltanto implicita, le fattispecie di titolo all’iscrizione e titolo alla permanenza della garanzia. nella ricostruzione “sistematica” riportata poco sopra, infatti, è il Tribunale di Milano a trarre tutte le conseguenze dell’impostazione configurata dai giudici di legittimità, conseguenze rimaste nell’ombra nella pur lunga motivazione della sentenza del 2004.

Per approfondire ulteriormente: il giudice interviene sempre ex post, cioè dopo che l’iscri-zione ipotecaria è avvenuta, ma al giudice stesso possono essere chieste due cose differenti: a) riscontrare che non vi era una valida ragione per operare l’iscrizione, visto che in quel mo-mento non sussisteva alcun inadempimento o pericolo di adempimento dell’obbligo e la situa-

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Tutto ciò si legherebbe alla natura del credito, ossia al carattere futuro del credito vantato dal coniuge o ex coniuge beneficiario17. Sostiene, infatti, il giudice lombardo che: a) la funzione dell’ipoteca è rivolta a tutelare credi-ti, cioè «posizioni giuridiche di diritto relativo in atto»; b) la corresponsione periodica di un assegno determina il sorgere di un credito del beneficiario nei confronti dell’obbligato, credito che al momento della sentenza e pri-ma della scadenza di ciascun termine periodico di pagamento, non è attua-le e nemmeno esigibile; c) manca una norma generale in tema di garanzia ipotecaria per crediti non ancora sorti; d) la formulazione dell’art. 2852 c.c. «pare sottintendere, quale principio generale, che l’ipoteca può essere con-cessa anche per crediti futuri, ma col limite che i crediti futuri da garantire non dipendano da rapporti non ancora insorti»18.

ecco, quindi, che nell’argomentazione dei vari giudici sono emerse l’in-terpretazione letterale con i suoi esiti palesi (ma per taluni inaccettabili) e con quelli oscuri, una chiave sistematica di lettura alternativa a quella let-terale, il ruolo rilevante della funzione e della natura degli istituti coinvolti. A fronte di questo quadro è giunto il momento di mettere un po’ di ordine lessicale e concettuale al suo interno, di fare una minima opera di terapia linguistica e attraverso questa svelare alcune debolezze argomentative di tutte o soltanto di alcune delle decisioni sin qui riassunte.

3. Interpretazione letterale, sistematica e funzionale in che senso?

Riassumendo. il Tribunale di Roma caldeggia l’interpretazione lettera-le dell’art. 156, comma 5 (e dell’omologa disposizione normativa in tema di divorzio), mentre la cassazione e il Tribunale di Milano si oppongono a questa impostazione e ostracizzano l’interpretazione letterale dell’art. 2818 c.c., a cui l’art. 156, comma quinto rinvia19.

zione, al tempo della domanda, non è mutata; b) verificare che pur essendo giustificata l’iscri-zione non è giustificato il protrarsi della garanzia ipotecaria, poiché non sussiste più il pericolo di inadempimento futuro. Quest’ultimo chiarimento però è dell’autore di questo scritto, men-tre non appare formulato con nitore nel periodare della Suprema corte e nemmeno nelle parole del giudice lombardo. che il giudice possa intervenire solo dopo l’iscrizione dell’ipoteca, su impulso del debitore, è confermato dalla giurisprudenza per la quale la domanda del coniuge (o ex coniuge) creditore rivolta a ottenere l’autorizzazione all’iscrizione di ipoteca è inammis-sibile per difetto di interesse, in quanto lo stesso coniuge (o ex coniuge) creditore può proce-dere direttamente all’iscrizione (in questi termini cass. civ., 20 novembre 1991, n. 12428, cit.).

17 Anche su questo punto si dovrà tornare.18 i corsivi sono aggiunti.19 il significato letterale è il risultato dell’interpretazione compiuta per mezzo dell’argo-

mento letterale, ma visto che usare l’argomento letterale vuol dire far capo al significato let-terale, i due sintagmi “significato letterale” e “interpretazione letterale” possono considerarsi

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Tra teoria e dogmatica112

Ma la nozione di interpretazione letterale utilizzata nei discorsi dei giu-dici è la stessa? Sembrerebbe di no. il Tribunale di Roma sostiene che la massima estensione semantica della disposizione normativa di cui all’art. 156, comma 5 c.c. non contempla il requisito del pericolo dell’inadempi-mento: l’interpretazione letterale equivale qui all’insieme dei significati at-tribuibili alla disposizione normativa. Lo stesso giudice, infatti, scrive che introdurre il requisito del pericolo dell’inadempimento significherebbe li-mitare una facoltà del coniuge creditore prevista dalla legge. di tenore as-sai diverso è, invece, l’affermazione del Tribunale di Milano che rivolge in via principale l’attenzione all’art. 2818 c.c., disposizione normativa della quale una interpretazione letterale non pare configurabile, poiché manca un significato chiaramente desumibile dalla formulazione della disposizione normativa oggetto di interpretazione. il significato letterale parrebbe essere qui non uno qualsiasi dei significati attribuibili alla disposizione normativa, bensì il significato chiaro (palese?) e se la chiarezza non v’è, allora non v’è neppure il significato letterale. La cassazione, invece, non sembra negare l’esistenza di un significato letterale dell’art. 156, comma 5, ma ritiene che esso vada corretto e superato alla luce dell’interpretazione sistematica.

Soffermiamoci sugli argomenti spesi dalla Suprema corte e dal Tribuna-le di Milano.

iniziamo dal secondo. Per prima cosa vale la pena notare che il giudi-ce lombardo sposta l’attenzione dalla formulazione dell’art. 156, comma 5 c.c., alla formulazione dell’art. 2818 c.c.; sarebbe quest’ultima disposizione normativa a non avere un chiaro significato e quindi non sottoponibile a in-terpretazione letterale. Tuttavia la domanda da porsi è: che cosa c’è di tanto oscuro nella disposizione normativa che dispone «Ogni sentenza che porta condanna al pagamento di una somma o all’adempimento di altra obbliga-zione ovvero al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente è titolo per iscrivere ipoteca sui beni del debitore»? Ovviamente si può discutere su quali provvedimenti siano sentenze di condanna al pagamento di una som-ma o all’adempimento di altra obbligazione20, ma non v’è dubbio che lo sia

sinonimi. Sul tema sono tutt’ora importanti i saggi di chiassoni, Luzzati, Mazzarese, Pastore e Villa contenuti in V. VeLLuzzi (a cura di), Significato letterale e interpretazione del diritto, Tori-no, Giappichelli, 2000, passim. Per riferimenti bibliografici più recenti v. f. PoGGi, Significato letterale: una nozione problematica, in P. CoManduCCi-R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 2006. Ricerche di giurisprudenza analitica, Torino, Giappichelli, 2007, 196 ss., e P. Chiassoni, Tecnica dell’interpretazione giuridica, Bologna, il Mulino, 2007, p. 60 nota 14. Una curiosità: i giudici di merito e di legittimità non menzionano l’art. 12 comma 1 delle preleggi e i criteri interpretativi in esso contenuti.

20 Una sintetica, ma ben curata, rassegna della dottrina e della giurisprudenza si trova nel Commentario al codice civile a cura di P. Cendon, Milano, Giuffrè, 2008, pp. 747-760.

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la sentenza di cui all’art. 156, comma 5 c.c., tanto è vero che i commentatori hanno ritenuto questa disposizione normativa ridondante, pleonastica, su-perflua, iterativa dei contenuti dell’art. 281821. insomma, vista la formula-zione dell’art. 2818 c.c., non v’è dubbio che essa abbia quale suo possibile significato, ossia a essa attribuibile applicando le regole semantiche e sintat-tiche della lingua italiana, quello che consente l’iscrizione e la sua perma-nenza sulla base della sentenza o del decreto di omologazione. L’argomen-to per il quale la lettera è oscura, troppo oscura per poter essere seguita, non persuade. A fare chiarezza dovrebbe soccorrere il sistema. Ma a que-sto punto è evidente che l’appello all’interpretazione sistematica non trova fondamento nell’assenza di chiarezza della formulazione normativa dell’art. 2818 c.c., bensì nella sua inadeguatezza. e infatti il Tribunale di Milano, dopo aver ritenuto che l’interpretazione letterale non è configurabile, affer-ma, contraddicendosi, che se si seguisse la stessa interpretazione letterale (dunque configurabile) si giungerebbe a risultati inaccettabili: «si sottomet-terebbe infatti l’obbligato all’esercizio non solo potestativo, ma anche con effetti permanenti nel tempo […] di una facoltà di iscrizione di ipoteca da parte dell’altro coniuge o ex coniuge […] oltre agli effetti negativi sul patri-monio in termini di possibilità di vendere l’immobile […] ai notori effetti negativi in caso di richieste di accesso al credito bancario o finanziario».

non v’è da scandalizzarsi se questioni semanticamente chiare sono ri-tenute giuridicamente opache, o trasformate in situazioni giuridicamente opache, ma è importante vagliare in base a quali argomenti l’opacità è so-stenuta o costruita22. nel caso del giudice meneghino mi pare che egli abbia individuato una lacuna assiologica, ovvero non una mancanza di disciplina, bensì la presenza di una disciplina inidonea alla luce di supposte conside-razioni sistematiche23. il significato chiaro è per il giudice l’equivalente del significato adeguato e da preferire, per cui il significato letterale non essen-do chiaro è inadeguato e va scartato, mentre il significato frutto per lui di argomentazioni sistematiche è chiaro, adeguato e quindi da adottare.

Vale la pena, allora, spendere qualche parola sull’interpretazione siste-

21 Si tengano presenti le parole di G. GoRLa, P. zaneLLi, Del pegno e delle ipoteche, Com-mentario Scialoja e Branca, Bologna-Roma, zanichelli-il foro italiano, 1992, p. 289: «Quanto all’ipotesi del comma 2° (ora art. 156 5° comma) si è osservato che detta espressa previsione è rimasta, nonostante l’unanime riconoscimento della sua superfluità perché ogni condanna a prestazioni alimentari è sempre stata considerata titolo idoneo all’iscrizione di ipoteca giudi-ziale, a sottolineare l’importanza della tutela del coniuge […] economicamente più debole».

22 cfr. M. baRbeRis, Filosofia del diritto. Un’introduzione teorica, Torino, Giappichelli, 2003, p. 227.

23 Sulle lacune assiologiche v. per tutti R. Guastini, Defettibilità, lacune assiologiche, in-terpretazione, in id., Nuovi studi sull’interpretazione, Roma, Aracne, 2008, pp. 97-118.

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matica per comprendere in qual guisa il giudice milanese ne abbia fatto uso. Se si guarda al modo in cui giudici, giuristi e teorici del diritto trattano dell’interpretazione sistematica, si nota che la nozione è polisensa, ovvero ad essa sono ricondotte svariate tecniche interpretative. non solo. Moltepli-ci sono pure le nozioni di sistema che le tecniche interpretative presuppon-gono24. Un modo affatto generico di intendere l’interpretazione sistematica è quello per il quale si interpreta sistematicamente se si combinano tra loro più disposizioni normative o parti di esse (cosiddetto combinato disposto).

Ma v’è da dubitare seriamente che il ricorso al combinato disposto sia costruttivo25. Vediamo il perché. Si possono individuare almeno tre accezio-ni di combinato disposto. in una prima accezione per combinato disposto si intende ciò di cui si è appena parlato: l’interpretazione effettuata com-binando tra loro più enunciati normativi, o più parti di diversi enunciati normativi o dello stesso enunciato. così inteso, il combinato disposto non indica uno specifico argomento interpretativo, diviene sinonimo di attività interpretativa, in quanto, tranne che in rare occasioni, l’operazione interpre-tativa comporta il coinvolgimento di una serie di enunciati normativi e non solo di un singolo enunciato delle fonti. in una seconda accezione combina-to disposto equivale a interpretazione adeguatrice. Si fa riferimento al com-binato disposto per indicare che il processo interpretativo è condizionato dalla rile vanza di gerarchie normative, per cui l’esito dell’interpretazione è il frutto della combinazione degli enunciati normativi sovraordinato e ge-rarchicamente inferiore, o per essere più precisi, del con dizionamento che il contenuto di significato della fonte di rango gerarchico superiore opera sulla determinazione di significato del l’enunciato di rango inferiore. in una terza accezione la formula del combinato disposto evoca il rinvio ad altre disposizioni normative, vale a dire del rinvio che un enunciato normativo può operare ad altro enunciato normativo. in questo caso l’interprete lavora tenendo conto dell’enunciato in cui v’è il rinvio, e non può però evitare di operare la determinazione del significato del l’enunciato oggetto del rinvio.

24 Sul tema rinvio al mio Interpretazione sistematica e prassi giurisprudenziale, Torino, Giappichelli, 2002, passim, dove gli argomenti sistematici vengono raggruppati in quattro distinti tipi di interpretazione: sistematico-dogmatica; sistematico-testuale; sistematico-tele-ologica; logico-sistematica (v. retro il secondo saggio di questa raccolta). Sull’interpretazione sistematica si veda anche l’ottima trattazione di G. b. Ratti, Sistema giuridico e sistemazione del diritto, Torino, Giappichelli, 2008, specie cap. X e Xi e da ultimo R. Guastini, Interpretare e argomentare, in Trattato Cicu e Messineo, Milano, Giuffrè, 2011, parte terza, cap. iV, § 8, 9, 10.

25 Riprendo in breve quanto già scritto a suo tempo in Interpretazione sistematica e prassi giurisprudenziale, cit., pp. 161-163. nel testo si usano le espressioni argomento interpretativo e tecnica interpretativa come fungibili, vengono entrambe assunte nel significato di discorsi rivolti ad accreditare, sostenere un risultato interpretativo, ossia la determinazione del signifi-cato di una o più disposizioni normative.

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in sintesi, il combinato disposto è una formula che individua un oggetto dell’interpretazione, ma non individua uno specifico argomento interpreta-tivo. dietro il sintagma si cela una serie di operazioni interpretative che pos-sono essere compiute con uno o vari argomenti interpretativi, sistematici e non.

nella pingue motivazione della sentenza del Tribunale di Milano v’è senza dubbio lo sforzo di leggere in maniera congiunta le formulazioni nor-mative coinvolte dalla fattispecie (156, comma 5, 2818, 2852 c.c.), anche in ragione dell’espresso rinvio all’art. 2818 compiuto dall’art. 156, comma 5, ma nulla più di questo. La chiave di lettura sistematica evocata, per ripro-durre il lessico giudiziale, presuntivamente risolutrice, destinata a far luce sulla vicenda, se intesa come sopra evidenziato, ovvero riferita al combinato disposto nella prima e nella terza delle accezioni segnalate, si rivela una luce fioca, poco adatta ad illuminare il cammino. ciò che conta, infatti, è ben altro. Senza mezze misure bisogna rilevare che dietro il combinato disposto v’è, nel nostro caso, il soggettivo sentimento di giustizia del giudicante: il sistema di riferimento del giudice è il suo personale senso di giustizia e sulla base di questo viene vagliata la normativa che c’è, giungendo alla conclusio-ne che se fosse interpretata in una certa maniera (la si può chiamare lettera-le o in altro modo, poco importa), condurrebbe a esiti inaccettabili.

Per dirla con altre parole. Più che costruire un’interpretazione sistema-tica alternativa il giudice supera la formulazione normativa, va oltre i suoi possibili significati linguistici colmando la lacuna assiologica per mezzo dell’aggiunta di un requisito, l’avvenuto inadempimento o il pericolo attua-le o futuro di inadempimento, conforme al suo senso di giustizia, ma non riconducibile al significato delle formulazioni normative esaminate, nem-meno guardando alla loro massima estensione semantica, pur ottenuta com-binandole assieme26. Viene introdotta una eccezione implicita all’art. 156, comma 5 c.c., una condizione di applicazione non riconducibile alla sua formulazione (comunque interpretata), rendendola, così, defettibile27.

26 L’interpretazione giuridica è intesa nell’arco del saggio non in senso generico, ossia come un’attività giuridica compiuta per individuare una norma generale che offra una soluzio-ne ad un caso, bensì è intesa in senso specifico, ossia come determinazione del significato degli enunciati normativi (v. G. ManiaCi, Razionalità ed equilibrio riflessivo nell’argomentazione giu-diziale, Torino, Giappichelli, 2009, pp. 250-251).

27 Sui vari significati di defettibilità nel diritto v. P. Chiassoni, La defettibilità nel diritto, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2, 2008, pp. 471-506. chiassoni individua undici contesti d’uso dell’aggettivo defettibile e del sostantivo defettibilità e nell’esaminarli ri-percorre gran parte della vasta letteratura in lingua italiana, castigliana e inglese. Ovviamente l’operato del Tribunale di Milano risulta più o meno problematico a seconda della teoria del diritto che si assume: un accanito giusrealista, per esempio, si limiterà a registrare l’accaduto e a farne tesoro per il futuro; mentre un giuspositivista, per quanto non ingenuo e dotato di

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Si potrebbe obiettare che per dipanare la matassa a favore della soluzio-ne adottata dal Tribunale di Milano è decisivo l’argomento della natura del credito vantato dal coniuge (o ex coniuge) creditore e della ragione della tutela a esso accordata attraverso l’ipoteca giudiziale, una sorta di interpre-tazione funzionale dell’ipoteca giudiziale associata al carattere futuro del credito garantito28. Tuttavia questo argomento è per un verso incoerente e per l’altro verso suicida, nel senso che accredita la tesi opposta a quella cal-deggiata.

Scendiamo nei dettagli. Per prima si segnala l’incoerenza. Pur tenendo ferma la natura futura

del credito vantato dal coniuge o dall’ex coniuge e pur accettando la tesi che la funzione dell’ipoteca sia quella di garantire posizioni giuridiche di diritto relativo in atto (sono le parole della motivazione della sentenza mila-nese), non si vede come si possa affermare che non v’è una norma in tema di garanzia ipotecaria per crediti non ancora sorti e subito dopo indicare nell’art. 2852 c.c. un principio generale. il contenuto di questo principio sa-rebbe appunto quello di consentire l’iscrizione ipotecaria per i crediti futu-ri, per quanto col limite della loro dipendenza da rapporti giuridici già sorti. Quindi non solo non v’è carenza di regolamentazione della materia, ma la disciplina fa capo addirittura a una norma che assurge al rango di principio generale.

Per seconda si indica la parte suicida del ragionamento. Per quanto la nozione di rapporto giuridico sia concettualmente controversa, al punto da aver impegnato e interessato anche i filosofi del diritto, sarebbe davvero ar-dito e molto complicato sostenere che il credito del coniuge o dell’ex co-niuge non si fonda su un rapporto già in essere29. Basta rammentare, infatti, che si verte in materia di ipoteca giudiziale e il beneficiario procede all’iscri-zione dopo aver ottenuto un titolo valido per legge, ovvero una sentenza o

un atteggiamento critico, ossia colui «che cerca di determinare cosa dicono le fonti del diritto e qualora il risultato gli sembri ancora incompleto e contraddittorio […] cerca di distinguere quanto è ricavabile con i mezzi interpretativi concessi dalle fonti stesse e quanto in tale ope-razione deriva invece dai suoi valori, dalle sue opinioni e dai suoi interessi» (così M. JoRi, Del diritto inesistente. Saggio di metagiurisprudenza descrittiva, Pisa, ets, 2010, p. 120), troverebbe l’argomentazione carente proprio riguardo alla distinzione raccomandata.

28 Sulla funzione dell’istituto ipotecario e dei vari tipi di ipoteca v. a. ChianaLe, L’i-poteca, in Trattato di Diritto civile a cura di Sacco, Torino, Utet, 2005, passim; sulla natura del credito del coniuge separato e sulle garanzie predisposte dall’art. 156 c.c., v. e. zanetti VitaLi, La separazione personale dei coniugi, in Commentario a cura di Schlesinger e Busnelli, Milano, Giuffrè, 2006, sub art. 156.

29 non a caso il giudice non lo dice apertamente ma è vagamente allusivo. il filosofo del diritto a cui ci si riferisce è L. baGoLini, Note intorno al rapporto giuridico, in Archivio giuridico, ii, 1944, pp. 193-208.

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un decreto di omologa della separazione, provvedimenti che di certo istitu-iscono un rapporto giuridico tra debitore e creditore, rapporto sul quale si basa l’obbligo dello stesso debitore di adempiere con regolare periodicità le prestazioni future. Orbene: il credito (futuro) del coniuge (o ex coniuge) trova saldo ancoraggio in un rapporto esistente; che l’ipoteca possa garanti-re crediti futuri fondati su rapporti esistenti è un principio generale sanci-to dall’art. 2852 c.c.; ergo la permanenza della garanzia pare attuazione del principio e non in contrasto con esso. in tal guisa la natura futura del cre-dito e la funzione dell’ipoteca non forniscono alcun sostegno all’introduzio-ne dell’avvenuto inadempimento o del pericolo dell’inadempimento futuro quale requisito per la sopravvivenza della garanzia ipotecaria30.

Ora la cassazione. A dire il vero l’argomento principale addotto dai giu-dici di legittimità è più lineare e meno fumoso di quelli sostenuti dal giudice di merito meneghino. L’attenzione è tutta rivolta all’art 156 c.c. (e alla cor-rispondente normativa in materia di divorzio) e l’interpretazione sistematica evocata si gioca internamente alle tutele apprestate dalle disposizioni nor-mative sulla separazione personale tra coniugi (e sul divorzio). Questo argo-mento è stato speso pure dal Tribunale di Milano, ma come un argomento tra i molti e senza attribuirgli un peso determinante, mentre nella motiva-zione della sentenza della Suprema corte acquista valore decisivo. Anzi per il giudice di merito l’interpretazione sistematica coinvolgeva primariamente le disposizioni normative in materia di ipoteca e secondariamente le dispo-sizioni riguardanti la separazione personale e il divorzio.

Per la Suprema corte vale l’opposto. Più in particolare, è opportuno sot-tolinearlo, il collegio ha scritto che «non è, tuttavia, da trascurare, il fatto che il primo comma del citato art. 8 ed il quarto comma del parimenti ci-tato art. 156, con disposizioni tra loro affini, prevedono che il giudice che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ovvero la separazione, può imporre all’obbligato di prestare idonea garanzia reale o personale solo se esiste il pericolo che egli possa sottrarsi all’adempi-mento nella corresponsione di quanto dovuto all’altra parte [dunque] pare inevitabile dover concludere sulla base di una lettura in chiave “sistemati-ca” […] la quale tenga altresì conto, da un lato, pur sempre dell’autonomia, rispetto all’art. 2818 c.c., delle previsioni di cui all’art. 8, comma secondo, legge 898/1970 e di cui all’art. 156, quinto comma c.c., nonché, dall’altro lato, del fatto che anche le misure del sequestro di parte dei beni del co-niuge obbligato e dell’ordine ai terzi di versamento diretto agli aventi di-

30 Si parla solo della sopravvivenza della garanzia ipotecaria e non anche della condizio-ne per la sua istituzione in virtù di quanto detto retro nota 16.

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ritto sono subordinate a norma del penultimo dell’art. 156 c.c., come pure ai sensi delle disposizioni affini dell’art. 8 della citata legge, commi dal ter-zo al settimo […] al “caso di inadempienza” dell’obbligato […] la relativa mancanza, originaria o sopravvenuta, determina, venendo appunto meno lo scopo per cui la legge consente il vincolo, l’estinzione della garanzia ipote-caria già prestata”31. Sostenendo l’autonomia delle disposizioni normative dell’art. 156 c.c., comma quinto e dell’art. 8, comma secondo, della legge 898/1970 rispetto all’art. 2818 c.c., la Suprema corte sembra voler dire che se si leggessero questo disposizioni normative in maniera subalterna all’art. 2818 c.c., la tesi maggioritaria (ripresa dal Tribunale di Roma) sarebbe inec-cepibile, è solo guardando al sistema delle tutele apprestate dall’art. 156 c.c. e dall’art. 8 legge 898/1970 e al loro scopo che è possibile, anzi necessario, attribuire al debitore diligente, non inadempiente e dalla prognosi di adem-pimento favorevole, il diritto alla cancellazione dell’ipoteca.

insomma, anche la cassazione rende defettibile il comma 5 dell’art. 156 c.c., tuttavia non usa l’interpretazione sistematica e funzionale in modo contradditorio, confuso e generico a mo’ di cortina fumogena per occulta-re ragioni equitative calibrate su un proprio metro di giustizia. i giudici di legittimità richiamano, invece, la necessità di una proporzione delle tutele apprestate per garantire il credito del coniuge o ex coniuge. Se garanzie per-sonali, altre garanzie reali (rispetto all’ipoteca), versamenti diretti da parte del datore di lavoro del debitore, possono essere disposti, a seconda dei ca-si, soltanto se ricorre inadempimento o il pericolo del medesimo, è irragio-nevole, ingiustificato, sproporzionato, permettere che la garanzia ipotecaria gravi su uno o più beni del debitore in assenza di una di queste condizioni. Si evidenzia una lacuna assiologica, ovvero la presenza di una disciplina ina-deguata, in quanto la garanzia ipotecaria è trattata, senza ragione, in manie-ra diversa dalle altre garanzie reali, personali e dalle ulteriori forme di tutela previste del credito del coniuge e dell’ex coniuge.

4. Ancora un interrogativo: una questione di legittimità costituzio-nale per irragionevole differenziazione?

L’argomentazione della cassazione è quindi meno articolata, ma indub-biamente più lineare, dei ragionamenti sviluppati dal Tribunale di Milano, per quanto i giudici di legittimità e di merito giungano alla stessa conclusione.

V’è, però, un punto importante da valutare sulla base dell’assetto costi-tuzionale dei poteri proprio dell’ordinamento giuridico italiano, ovvero se

31 i corsivi sono aggiunti.

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l’introduzione del requisito dell’inadempimento o del pericolo dell’inadem-pimento, estraneo alla formulazione e alle possibili interpretazioni del com-ma 5 dell’art. 156, spettasse alla cassazione oppure no. Ovviamente questo punto rileva sempre che si vogliano prendere le norme giuridiche, costitu-zionali e non, sul serio.

Si è visto che l’argomento sistematico e teleologico usato dalla cassazio-ne solleva una questione di proporzione delle tutele che si traduce in un problema di ingiustificata differenziazione del trattamento di situazioni riconducibili alla medesima ratio. Si tratta pertanto di un tipico problema rilevante ex art. 3, comma 1, costituzione32. Per risolvere il problema la cassazione non procede a una determinazione di significato dell’art. 156, comma 5, conforme a costituzione, non aveva spazi semantici per farlo, ma colma la lacuna assiologica innestando il requisito previsto in altri commi del medesimo articolo nel comma 5.

È il modo corretto di procedere o si sarebbe dovuta sollevare questio-ne di legittimità costituzionale ex art. 3, comma 1, della costituzione per irragionevolezza della disciplina disposta dall’art. 156, comma 5? Se si di-smettono gli abiti del teorico del diritto e si indossano quelli del dogmatico a questo interrogativo si deve rispondere: è necessario sollevare la questio-ne di legittimità costituzionale33. La cassazione non può seguire scorciatoie decisionali sostituendosi al giudice delle leggi, può solamente agevolargli il lavoro adottando interpretazioni costituzionalmente orientate, ma ove ciò non sia possibile è ai giudici costituzionali che bisogna rivolgersi. in ambito giuridico non conta soltanto il risultato, ma anche il modo attraverso il qua-le il risultato è conseguito e il rispetto delle competenze istituzionali è essen-ziale per ritenere una decisione adottata “secondo diritto”34.

32 Sui legami tra art. 3, comma 1 della costituzione, ragionevolezza e analogia giuri-dica si rinvia alle pagine di V. bonCineLLi, I valori costituzionali tra testo e contesto, Torino, Giappichelli, 2007, cap. iV e alla bibliografia ivi citata, nonché al § 4 del saggio Osservazioni sull’analogia giuridica, in questo libro.

33 così come di accoglimento avrebbe dovuto essere l’eventuale pronuncia della corte costituzionale sul quesito di legittimità. Se la questione di legittimità costituzionale fosse stata sollevata avrebbe comportato da parte del collegio costituzionale una sentenza di incostituzio-nalità dell’art. 156, comma 5 per la parte in cui non prevede etc.

34 Per dirla con le autorevoli parole di M. GaLLo, Moralité, napoli, esi, 2011, p. 170, bisogna fare sempre attenzione alle soluzioni che «possono trasformare un ordinamento in qualcosa che assomiglia ad una veste di Arlecchino, fatta di pezze scelte di volta in volta dal gusto di chi deve fornire di abito un ignudo».

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• Stefano Canestrari, Fausto Giunta, Roberto Guerrini, Tullio Padovani,Medicina e diritto penale, 2009

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• Mario Ricciardi, Diritto e natura. H.L.A. Hart e la filosofia di Oxford,2008

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• Gianmarco Gometz, Le regole tecniche. Una guida refutabile, 2008

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• Aldo Schiavello, Perché obbedire al diritto? La risposta convenzionalistaed i suoi limiti, 2010

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