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1. Ci fu una rimozione della rivolta di Tricarico nel marzo 1942, che è stata un aspetto di una labilità della

memoria più generale. Essa non ha trovato il suo storico, ci stava lavorando Rocco Scotellaro, come risulta da

diversi frammenti dell’Uva puttanella1, ma la sua morte interruppe il lavoro già iniziato2. E’ poi venuto un racconto

di Ann Cornelesin3, che secondo me non da alcun contributo a una ricostruzione dell’avvenimento e ad

esprimere un giudizio puntuale: al contrario, genera confusione coinvolgendo un generale falso giudizio sulle

rivolte contadine lucane negli ultimi anni del fascismo, anche se occorre subito precisare che l’opera complessiva

della Cornelisen merita un giudizio affatto diverso. Richiamo qui le parole conclusive del saggio di Vitelli:

«Torregreca, sulla scia del Cristo si e’ fermato a Eboli, è un romanzo antropologico straordinario: lo studio e la

rappresentazione di una comunità diventano strumento di una conoscenza più generale. Ci sono delle ottime

ragioni per riprenderne la lettura!»

Alla rivolta di Tricarico fa un accenno approssimativo Carlo Levi in uno scritto inedito del 1954, allorquando,

chiedendosi che cosa fosse accaduto in Lucania nei dieci anni «di guerra, campi di sterminio, viaggi e scoperte e

stragi», risponde che «appena si sapeva, senza attenzione, dei fatti di Tricarico del ’42-’43, di quelli di Irsina, delle

giornate di Matera, di Melfi, Avigliano ecc.; e poi della strage di Ferrandina, di Irsina, di Pisticci; e poi delle

numerose occupazioni delle terre»4.

Personalmente ho vivo il ricordo anche di una rivolta a San Mauro Forte nella primavera del ’40, che Levi non

cita. Avevo 10 anni e fede cieca nel Duce; allora abitavo ad Accettura, piccolo paese della montagna materana

vicinissimo a San Mauro, da cui, nonostante il blocco che impediva a chiunque di entrare o uscire dal paese,

filtravano notizie, che apprendevo con stupore, dolore e incredulità. Il filtro, per il vero, venica forato perché i

carabinieri mandati in servizio a San Mauro, passando per Accettura per recarsi a Stigliano o a Matera, riferivano

al maresciallo dei carabinieri, amico di mio padre. Di quella rivolta ha poi scritto Leonardo Sacco5, traendo il

racconto dai documenti del processo, che si concluse nel 1948 in un clima politico del tutto diverso, e la definisce

un avvenimento imprevisto, anzi sconcertante. «E per fortuna per il regime – annota - che la notizia non possa

essere diffusa».

Quando scoppiò la rivolta a Tricarico non avevo ancora compiuto dodici anni. Frequentavo la scuola media a

Napoli e, tornando per le vacanze di Pasqua, ne sentii parlare per la prima volta alla stazione di Grassano.

Salendo a Tricarico, col postalino di Chiruzzi, ebbi chiara la percezione della rivolta vedendo incrociarsi

macchine della polizia e dei carabinieri che procedevano nei due sensi, qualche cellulare, e le facce preoccupate

dei passeggeri a ogni passaggio di veicolo. Cercai si sapere e di capire quel poco che ebbi tempo e modo e fui in

grado di capire nei pochi giorni del mio soggiorno a Tricarico e, quando tornai per trascorrervi le vacanze estive,

della rivolta non se ne parlava più. Sembrava che non fosse accaduto nulla. E così nel corso degli anni … non se

ne è più parlato.

1 Uno si distrae al bivio, Basilicata editrice, Roma-Matera, 1974

2 Il racconto inedito di Rocco Scotellaro sarà pubblicato da Franco Vitelli in Il Granchio e l’Aragosta – Studi ai

confini della letteratura. Pensa MultiMedia, 2003. Il libro di Vitelli mi fu segnalato da Rocco Mazzarone –

altrimenti mai ne sarei venuto a conoscenza -. Con la sua morte, avvenuta un paio di anni dopo, e con la grave

malattia e morte di Antonio Albanese si sono essiccate le mie fonti d’informazione su Tricarico. Mi resta la

mailnglist del Centro di documentazione Rocco Scotellaro, ma non è la stessa cosa del contatto, sia pur mediato

dal telefono, che avevo con Mazzarone e con Albanese: nulla mi potrà più restituire l’ultimo intimo rapporto col

mio paese, che mi veniva donato da questi due indimenticabili carissimi amici. 3 Ann Cornelisen, Torregreca – Un picolo mondo nell’Italia meridionale-, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli,

1990, pp. 155 ss.

4 Franco Vitelli, op. cit. p. 194.

5 Leonardo Sacco, Provincia di confino – La Lucania nel ventennio fascista -, Schena editore, 1995, pp. 322-23

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Degli strascichi inevitabili e dolorosi – alludo alle carcerazioni – non seppi nulla, assente com’ero da Tricarico per

seguire i miei studi. Gli unici ricordi che conservavo dei racconti confusi ascoltati in quella settimana di Pasqua

sono l’ordine del sindaco sul divieto di molinazione del grano, che fu la causa scatenante della rivolta e

l’apprezzamento della popolazione per gli sforzi di pacificazione compiuti dal segretario del fascio Alfredo

Toscano. E verso di lui si coglie un cenno di simpatia nel racconto incompiuto di Rocco Scotellaro.

Alfredo Toscano era tornato a Tricarico dalla Grecia dopo aver perso in combattimento alcune dita di una mano

(Rocco Scotellaro scrive di una mutiliazione all’orecchio), fu nominato segretario del fascio e fu l’unico fascista

tricaricese ad essere epurato e a perdere il lavoro di maestro, che era la sola fonte di reddito per il sostentamento

della sua famiglia, moglie e due figlie. Il provvedimento fu avvertito come un’ingiustizia da tutto il paese e scattò

la solidarietà della grande famiglia Toscano. Egli seppe reagire dignitosamente, si procurò un minimo reddito con

lezioni private, l’amnistia di Togliatti gli restituì il lavoro e la tranquillità economica, si laureò in giurisprudenza,

vinse un concorso alla pubblica istruzione e concluse la sua carriera come provveditore agli studi.

2. Il racconto di Rocco Scotellaro – scrive Franco Vitelli - è con tutta evidenza un frammento dell’Uva puttanella,

e il fatto che si presenti concluso non vuol dire che sia nella forma definitiva. Scotellaro aveva in animo di

lavorarci sopra ancora per molto, come ne farebbe fede un appunto dei Frammenti, da cui risulta l’intenzione di

lavorare con documentazione d’archivio (atti processuali a Potenza) e racconti autobiografici.

Vitelli asserisce inoltre che «Il racconto non si lascia penetrare a una prima lettura, costituisce schermo un

substrato antropologico e storico, che rivela i suoi connotati in un lingua che è la misura e il colore del paesaggio

umano e geografico. Occorre leggere e rileggere, entrare progressivamente in una dimensione che ubbidisce a

precisi statuti, senza la cui conoscenza la comprensione è preclusa…».

Sul piano della verità storica Vitelli osserva che il racconto include riferimenti a fatti e persone reali. La notizia

della rivolta arrivò davvero in Egitto e fu diffusa dal giornale Presse Egyptienne, la cui fonte, attraverso radio

Londra, erano i Servizi che avevano tutto l’interesse a far sapere ai prigionieri i moti contro il regime nascita.

Inoltre, l’accenno a sobillatori della rivolta fa riferimento alla voce diffusa che ad aizzare i contadini fossero stati

certi ambienti nittiani, all’interno dei quali si distingueva un prete, ossia – aggiungo io - don Peppe Uricchio, lo

storico direttore didattico “Pizzilone”.

Nel 1946, Nitti, appena rientrato dall’esilio in Francia, candidato all’Assemblea costituente, pronunciò un

discorso dalla cappella di San Pancrazio; in piazza assistetti al caloroso saluto e lungo abbraccio tra lo statista

lucano e don Peppe, che segnarono la fine di un lungo e forte sodalizio politico: riuscii infatti a sentire don

Peppe annunciare all’ex presidente del consiglio la decisione di schierarsi con la Democrazia cristiana, convinto

della necessità dell’unità politica dei cattolici.

Donna Matilde, inoltre, rinvia a una maestra, che si chiamava Lopresti, di cui ho un vago ricordo. Aveva un

incarico di rilievo nel fascio tricaricese e, come si evince dal racconto scotellariano, era ben vista dai contadini,

ragione per cui assunse il ruolo della mediatrice, che dai contadini non fu accolto, ma con rispetto.

Mi pare infine di ricordare, ma non ne sono sicuro, che il podestà «basso e rotondo», che fumava sempre, fosse

don Peppe Ferri, che abitava al Monte. Un ferro nuovo, per scadere un momento nel gossip caro al veterinario

Benevento (don Vincenzo Spirdillo). Egli aveva sposato una Ferri, la giunonica donna Mimma, figlia di don

Carmine Ferri, e don Vincenzo, per esaltare il lignaggio della famiglia della moglie, distingueva tra i Ferri vecchi

(e cioè di antico casato, cui sarebbe appartenuta la moglie) e i Ferri nuovi, di più recente ingresso nell’aristocratica

famiglia tricaricese.

Dal racconto di Scotellaro viene fuori bene l’umanità di donna Matilde e del giovane segretario del fascio –

esponenti della classe contro cui si rivolgeva la rivolta - e, dal rispetto dei rivoltosi verso donna Matilde

soprattutto, ma non solo, viene fuori altrettanto bene il senso della lotta ingaggiata dai contadini (anzi dalle

donne, ché furono principalmente loro le protagoniste della rivolta).

3. Torregreca contiene il resoconto dell’esperienza di una assistente sociale americana, dell’Ohio, a Torregreca

(Tricarico). La Cornelisen giungeva a Tricarico dopo la pubblicazione dell’Uva puttanella di Rocco Scotellaro, ma

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stranamente – va detto – Scotellaro e la sua opera e la sua esperienza di animatore culturale e politico e di

assistente sociale-sindacalista sono ignorate.

Il racconto ruota attorno al personaggio di Luca Montefalcone (Rocco Mazzarone), che spedì il romanzo a me e a

mia moglie per gli auguri di un fine e inizio anno con la dedica «Natale 1990 – Capodanno 1991 da Luca

Montefalcone».

Nei primissimi giorni del 1991, quindi, lessi il romanzo, non ricavandone un giudizio negativo, tutt’altro. Ma il

racconto sulla rivolta di Tricarico, che occupa alcune pagine del romanzo, suscitò non poche perplessità. Ne

accennai a Mazzarone nel corso di una delle nostre usuali conversazioni telefoniche, ma l’argomento non fu

approfondito e fu rinviato tacitamente al mio ritorno a Tricarico in estate. Quando tornai a Tricarico non fu

possibile parlarne. Mazzarone era turbato per il forte risentimento della vedova di un medico tricaricese, suo

collega e amico, deceduto da non molto, per i riferimenti nel romanzo molto sgradevoli e gratuiti nei confronti

del marito, dei quali la signora lo riteneva l’ispiratore. La mia famiglia e la famiglia del medico erano e sono legate

da antica amicizia e grande affetto e la vedova mi manifestava, piangendo, con forte emotività, tutto il suo

risentimento nei confronti di Mazzarone, al quale poi riferivo. E Mazzarone riteneva che la signora non avesse

torto, non ovviamente a risentirsi nei suoi confronti, ma per il ritratto del medico tricaricese delineato nel

romanzo. Del racconto sulla rivolta di Tricarico, di cui nel romanzo Luca (Mazzarone) è soggetto narrante,

successe quindi che non se ne parlò.

Questo racconto colloca la rivolta due anni dopo la data effettiva, a marzo del 1944, e, ciò che più conta, a crollo

avvenuto del regime fascista e a ritirata precipitosamente effettuata dai tedeschi (un capitano e un soldato

canadese avevano «liberato» Tricarico il 18 settembre 1943!), in un clima politico ben mutato anche per gli eventi

tricaricesi, che vedevano iniziare ad emergere la figura di Rocco Scotellaro.

Sacco si limita a notare che lo spostamento in avanti dell’avvenimento determina «una confusione che non giova

alla comprensione degli avvenimenti»6, mentre Vitelli non esclude che possa trattarsi di un altro avvenimento. Ma

non si ricorda a Tricarico altro avvenimento, se non un blocco dell’autobus Tricarico-Scalo di Grassano, che non

sono in grado di collocare temporalmente, attuato da elementi di sinistra per motivi politici che non ricordo.

Quell’episodio rimase impresso nella memoria dei tricaricesi, perché fu utilizzato per perpetrare una lunga serie di

vendette mediante denunce al consolato americano di Napoli. Quelli erano tempi di emigrazione in Venezuela e,

per chi ne aveva i requisisti, negli Stati Uniti e, in tempi di maccartismo bastava una semplice denuncia perché

fosse negato il visto per l’emigrazione nell’«America ricca». Ne fu vittima anche un cugino di Rocco Scotellaro,

Vincenzo Miseo: un riferimento è nella poesia America di Rocco Scotellaro, in cui parla, per lavori alla tomba nel

decennale della morte del padre, di cinquantamila lire fatte risparmiare dal cugino

dopo tre giornate di fatica offerta

perché lui spera che io lo faccia partire

in America dove ha figli e moglie,

e lui, già cittadino, non lo vogliono.

Vincenzo Miseo emigrò in Venezuela dove attese alcuni anni che l’ondata maccartista passasse per ricongiungersi

alla sua famiglia negli Stati Uniti. Egli pagò con quegli anni di esilio la «colpa» di essere stato, come preciserò più

avanti, dirigente del partito socialista a Tricarico , dal quale, peraltro, era uscito, può darsi strumentalmente. Un

mio amico, Santino Paradiso, che non mi risulta fosse stato iscritto ad alcun partito di sinistra, fu invece vittima

del malanimo di un ignoto tricaricese, che sporse al consolato americano la falsa denuncia di aver partecipato al

blocco dell’autocorriera. Per questa denuncia fu espulso dall’America, dove aveva emigrato e si era sposato e

avuto un figlio.

L’ignobile pratica delle denunce anonime per il gusto di fare del male o «togliersi il mozzico», ossia vendicarsi di

un piccolo torto subito, doveva essere uno sport molto diffuso nei paesi del Meridione se il consolato americano

a Napoli sentì il bisogno di aprire una succursale in un grosso edificio di via Orazio, una delle vie più

6 Da Torregreca s’avvistò il nuovo Sud, in La Gazzetta del Mezzogiorno, 18 gennaio 1991

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panoramiche di Napoli, che dal Vomero scende a Mergellina. La succursale venne tenuta aperta per alcuni anni,

durante tutto il periodo maccartista, era collocata in un edificio più grande della sede del consolato e vi

lavoravano decine e decine di funzionari e impiegati. Non poche volte mi è capitato di vedere giungere a

Tricarico i tipici macchinoni americani con un funzionario per eseguire accertamenti. Una volta il funzionario

chiese di parlarmi, in quanto ero segretario della sezione della DC, ma io mi rifiutai. Il calvario di Santino durò

alcuni anni, anch’egli emigrò in Venezuela, ma finalmente, estirpato il bubbone maccartista, potette

ricongiungersi alla famiglia, a Totowa NJ. Forse pagò duramente per la madre, che si chiamava Miseo ed era

parente di Vincenzo

E’ necessario ora ricordare qual era la situazione politica a Tricarico quando la Cornelisen colloca la rivolta

(marzo 1944).

La vigilia di Natale del 1943 a casa Scotellaro fu fondata la sezione del partito socialista (che si chiamava PSIUP),

e il giorno di Natale fu costituito il comitato esecutivo provvisorio, la cui segreteria venne affidata a Rocco

Scotellaro, Innocenzo Bertoldo (calzolaio amico del padre di Rocco, suonatore di clarinetto nella banda locale,

antifascista confinato alle Tremiti, che egli chiamava «la mia Università») fu nominato vice segretario e Armento,

Miseo (a cui Rocco allude nella poesia America) e Desopo risultarono eletti consiglieri7.

Sindaco di Tricarico era Tommaso Gigli, agronomo, ammogliato (la moglie, leccese, si chiamava Paola ed era una

maestra distinta e benvoluta) senza figli. Gigli era stato l’ultimo podestà di nomina fascista e continuò a reggere

l’amministrazione comunale, come sindaco, sotto l’amministrazione militare alleata (AMGOT = governo militare

alleato) e nei primissimi giorni del passaggio sotto l’amministrazione italiana della cosiddetta «Italia del Re». La

continuità di Gigli alla direzione del Comune suscitava certamente stupore e provocava critiche, ma Gigli, che è

stato un brav’uomo, non può essere assolutamente confuso col sindaco Dabbraio, delinquente matricolato e

ladro, che la Cornelisen s’è inventato per spiegare il motivo della rivolta.

Nella riunione socialista a casa Scotellaro il giorno di Natale 1943, «Innocenzo Bertoldo fece un’aspra requisitoria

contro i fascisti e l’amministrazione locale guidata da Tommaso Gigli. Rocco Scotellaro, in previsione della

riunione dei comitati di liberazione del meridione (spostata da Napoli a Bari in quanto la città partenopea erta

troppo vicina al fronte di guerra) mise in evidenza, invece, l’azione dei partiti antifascisti e la loro unità politica

contro il governo presieduto da Badoglio …». Si può facilmente scorgere nei due interventi una diversa

profondità di visione politica, ma non un contrasto perché Scotellaro non poteva non essere convinto

dell’opportunità di un segno di discontinuità nella direzione del Comune.

Ma occorre precisare ulteriormente.

Il passaggio della Lucania all’amministrazione italiana si ebbe il 10 febbraio 1944. A Tricarico, dimessosi il

sindaco Gigli, ai primi di marzo del 1944 venne nominata dal prefetto di Matera una giunta commissariale

presieduta dal sindaco avvocato Carlo Grobert, azionista di Portici e vecchio esponente repubblicano, che il 25

luglio si trovava a Tricarico come confinato e vi rimase per un certo periodo per esercitare la sua professione.

Della giunta entrarono a far parte anche esponenti del partito comunista e della democrazia cristiana8.

Franco Vitelli scrive che della rivolta tricaricese del 1942 non c’è, comunque, una utilizzazione creativa, cosa che,

viceversa, troviamo in Torregreca9. Non posso essere d’accordo, non saprei a cosa possa servire una

«utilizzazione creativa» che reca sfregio a uomini e storie.

Il racconto della Cornelisen è narrazione creativa di inutili inverosimili episodi truculenti, di assassinï, di

violazioni di case private e di saccheggi, che stride col senso della lotta ingaggiata dai contadini, principalmente

dalle donne, che dal racconto di Scotellaro emerge così bene, anche se non viene sottaciuta la «stupidità

rivoluzionaria» della lotta stessa.

7 Giuseppe Settembrino, Scotellaro: la cronaca ritrovata, a cura della Pro Loco Tricarico, p. 7 ss.

8 Luigi Settembrini, op. cit. p. 10

9 F. Vitelli, op. cit., p. 194

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Mi pare evidente l’influenza esercitata sulla Cornelisen, e malamente utilizzata, della leggenda della cafonità narrata

da Carlo Levi nel racconto della rivolta di Matera contro i tedeschi del 21 marzo 1943.10 «Il conte Tramontano si

nascose nella scuderia fra i suoi splendidi cavalli, sotto un mucchio di fieno. Lì lo scovarono i contadini inferociti,

lo attaccarono, braccia e gambe, ai quattro cavalli più feroci e lo trascinarono fino alla piazza, dove arrivò semi-

squartato. Lo appoggiarono al bordo della fontana, you know?, e lì morì. A Matera per dieci giorni allora, c’è

stata la cafonità.

«La cafonità, il potere contadino, era durato dieci giorni. Poi naturalmente tutto era tornato come prima, con

qualche altro conte Tramontano».

Ma il racconto di Levi è di una precisione storica assoluta, direi che l’unica svista in cui incorre (e non libertà che

si prende) è sul sesso della prole del farmacista Beneventi, costituita di bambine e non di bambini. Il farmacista

Beneventi, fratello di mia suocera, fu ucciso in uno scontro a fuoco coi tedeschi in quel giorno di rivolta. La

creatività letteraria di Levi è nella levità con cui le parole scorrono sulla pagina e gradevolmente si leggono, e

nell’arte con cui è incastonata la leggenda della cafonità. La Cornelisen adopera i toni cupi e truculenti della

leggenda per descrivere fatti storici, Levi utilizza la leggenda per illuminare i fatti. La crudeltà oltre ogni

immaginazione del conte Tramontano è raccontata a New York in una pizzeria della seconda Avenue, all’angolo

della sessantesima, in faccia alla grande costruzione di ferro del ponte di Queens e al fiume azzurro dell’Est

River. Levi l’ascolta dal padrone della pizzeria, nato a Matera, dove non ritornava da trent’anni.

Il racconto di Rocco Scotellaro

«Lo seppero i prigionieri in Egitto, pubblicato dalla radio inglese, appena successe nel marzo del 1942, lo

sciopero dei contadini.

«Il tesseramento annonario, già in vigore in tutte le città, non interessava loro, anche quando uscirono le tessere

di macinazione, con le quali, dai più piccoli produttori di grano, tenuti a denunciare il loro raccolto, potevano

sfarinare ai mulini un quantitativo fisso di due quintali a persona.

«Una bella mattina, chi se l’era dato per inteso quell’ordine? Né i mugnai, né tanto meno i contadini, per ordine

del podestà i mulini si trovano chiusi.

«Il podestà, rotondo e basso, riceveva le prime proteste delle donne: - Vi abbiamo portato i bambini, sfamateli

voi!

- Vi faccio arrestare.

- E’ meglio, ci dovete mantenere.

- Andiamo a rompere le porte.

«Ma ancora non lo fecero, vollero sentire il Segretario del Fascio, un giovane garbato, che si portò la mano

all’orecchio sinistro, dove il padiglione non c’era più, lo aveva perso nella guerra di Grecia: – Vedete, - disse – c’è

la guerra, gli ordini non si discutono.

- Che ordini e ordini, - fecero le donne, - andiamo, camminate, questi non sono santi che fanno grazie!

«Il Maresciallo era lì fuori, con la sua faccia.

-Tengono tutti la faccia gialla stamattina, - andavano dicendo le donne. Così tutte quelle che tornavano dai mulini

chiusi e che avevano invano protestato rientrarono ognuna alla casa propria e fecero l'eclissi nei vicinati. Carmela

sulla scala si mise a predicare agitando le mani: - Grande giustizia, giustizia nera! Non sapete niente? Hanno

chiusi i mulini, stasera tornano da campagna, neanche un morso di pane.

- Non vuole fare più notte e giorno!

- Devono andare con la lingua per terra!

10 Carlo Levi, Tre ore di Matera, in Le Mille Patrie – Uomini, fatti, paesi d’Italia, Donzelli, Roma, 2000, pp. 193-

2003, che la Cornelisen avrebbe potuto conoscere essendo già stato pubblicato in «L’Illustrazione Italiana»,

dicembre 1952.

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- Devono crepare nel sonno!

- Guerra che non vieni qua!

- Cristo che non te li chiami! Li prenda il moto!

«Gridarono per più di un'ora, che c'era un vespaio e certo si sentiva leggero fino in campagna.

- Avanti! - Portiamo i bambini in piazza. lo non me ne torno o che mi ammazzano o che la vinciamo. '

- Avanti andavano i bambini e i ragazzi, dietro le donne. Apparve il primo gruppo come un corteo che

accompagna il morto. Arrivò il grosso dalla Rabatana e dalla Saracena, poi in quel punto uscirono dalle scuole e

rimasero là. Che te ne fai di una festa grande? Non c'erano gl'impiegati e i maestri e i signori e i bottegai, non

arrvavano gli uomini dalla campagna.

«L'esploratrice donna Matilde girò ai fianchi per convincerle, ci sapeva fare «La lana ai soldati l'oro alla patria»: -

Hai fatto scuola? Tornati a casa in grazia di Dio. Hai da mangiare Signoria?

«Il gruppo delle Autorità era davanti al Circolo e al Fascio, in mezzo il podestà, che fumava sempre.

«A uno a uno gli uomini stavano alle spalle, tre di loro a tagliare i fili del telefono, furono i soli che stettero poi in

cantina tutta la sera e poi – dopo il successo - andavano trovando le guardie per averle testimoni - se aprivano il

Municipio, volevano i certificati per la Cassa Malattia, andavano urgentemente al capoluogo l'indomani.

«Cominciò con una pietra, stavano rifacendo il corso, ce ne erano a mucchi; per poco non colpì la faccia

abbottata del Maresciallo, che si scansò in tempo, ma prese un carabiniere alla scapola. Da dove uscirono tutte

quelle pietre. Si chiusero dentro nel Circolo, nel Fascio che aveva un cancelletto sul viale e si poteva correre in

caserma,dove le autorità si rifugiarono. Il Segretario, poco prima, aveva ordinato di armarsi agli avanguardisti; poi

era comparso su un balcone e aveva tentato di parlare, tra i fischi non ce la fece, si tenne la mano all'orecchio. Le

donne non ce l'avevano con lui, si capiva che le sue parole erano ingenue e non risolvevano la matassa.

«Meno male che smise, perché c'erano le donne con la veste nera, o dei mariti o dei figli. La folla si mosse verso i

portoni chiusi, gli uomini passarono avanti, dal viale ogni tanto si sentiva un colpo di moschetto in aria, ma era

un tocco dell'orologio in quel vespaio.

«Tutte le sedie, le poltrone, il biliardo, le sputacchiere, i tavoli verdi sulla strada. Quegli uomini pensarono se

dovevano sfasciare il Fascio per prendere i moschetti, nel viale però, dov'era accorso un lembo di folla a vedere

dopo i colpi, non c'era nessuno. Le pietre, certo non salvarono il Fascio, che fu tempestato, l'indomani si

trovarono dappertutto passate per la finestra. I giovani ruppero le sedie a una a una, facevano l'affanno come con

la scure. Le carte da gioco un vecchio dal biliardo le lanciò sui bambini.

- Al Municipio adesso. - Voltandosi quelli davanti al Circolo si trovarono scoperti perché gli altri erano già al

Municipio. Per far cadere la porta ci vollero le scuri. Dettero il fuoco ai primi armadi di carte che trovarono.

Veniva un puzzo, era l'archivio. Era fatta sera. Altri stupidi spingevano la saracinesca dell'ufficio postale, non

sapendo dei fili, altri andarono a casa del podestà: - Qui non c'è, ve lo giuro, - gridava la moglie dal balcone.

«I più testardi restarono la notte, volevano nelle mani quello che fumava sempre.

«La mattina dopo, vennero con i camion, ne presero centocinquanta di ogni età, maschi e femmine. Fu preso

anche per sbaglio un milite, era contadino, fu rilasciato qualche giorno prima degli altri, dopo tre mesi di carcere.

«Venne il Federale e dopo che il Segretario politico disse «Che c'entra il popolo? sono stati i sobillatori», gli

avanguardisti, gli studenti gridavano le città e le terre da rivendicare e fischiavano a Churchill, cantavano «Duce,

duce, chi non saprà morir?», il Federale cominciò: - Ricordatevi bene, - si appannò la piazza, tutti i contadini

vennero a sentire, muti e indifferenti, gli stessi del giorno della rivolta.

- Se toccavate il Fascio, - c'erano le lastre rotte e la porta era sfregiata per le pietre - sarei venuto con i miei

squadristi - si toccò il petto col pugno, - e avrei fatta piazza pulita, - lanciò la mano aperta e la mosse intorno.

-Ora tornatevene a casa, dite ...

«Non diede nessuna notizia dei carcerati, la gente se ne andò, i signori ricevettero il Federale nella loro sede

«Circolo del Littorio» già bell'e rimessa a nuovo. L'uomo che fumava sempre, il podestà, gli disse, levando il

bicchiere di vermut, da uno dei tavolini verdi, che il Circolo era in linea».

Il racconto di Anne Cornelisen

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«Il Podestà era un certo Dabbraio, un tipo che in piazza puliva gli stivali strofinandoli sul di dietro dei suoi

pantaloni. Egli possedeva della terra, non molta, e come Podestà ebbe la sua prima e forse unica occasione di

esercitare il potere. Era giovane. Pensava che il fascismo sarebbe durato per sempre, perciò per lui essere Podestà

significava essere Zar a vita e commise l’errore di essere crudele, inutilmente , brutalmente crudele.

Improvvisamente cadde il fascismo. Per un po’ sembrò che nulla fosse cambiato. Egli era ancora il Podestà, le

direttive venivano ancora da lui, ma dovette sentirsi in apprensione. Difatti decise di riscuotere tutte le multe e

tasse non pagate. Se il nuovo governo le avrebbe richieste bene; altrimenti si sarebbe trovato un piccolo gruzzolo

di sua proprietà. Ma sottovalutò la sua gente. Essi stavano morendo di fame. Non c’era lavoro, le pensioni e i

sussidi non venivano pagati, ed ogni chicco di grano andava all’ammasso nei magazzini del governo, per essere

ripartito ai contadini in quantità sempre più piccole. Gli anziani stavano in piazza “fantasticando” come dicono

qui. Può darsi che se accadesse questo o quest’altro noi potremmo… ma no. Erano troppo bloccati dalla paura,

dalla fame e dalla tradizione per fare qualcos’altro diverso dal fantasticare… rifiutando di pagare le tasse ad un

governo inesistente. Anche le donne parlarono; ma esse erano più giovani, con una vita davanti a loro. La paura

non le toccava perché la polizia non poteva inventare per loro un inferno peggiore di quello in cui esse già

vivevano quotidianamente.

« Un giorno si sparse la voce – nessuno sa da dove venisse – che podestà stava raccogliendo le sue carte e

progettava di fuggire quella notte. Senza alcun piano o segnale, le donne si riversando fuori della Rabata urlando

“al Comune – al Comune!”. In un’ora non rimase nulla: sedia e tavoli furono buttati fuori dalla finestra. I registri

piovvero in piazza come neve. Furono fatti dei falò: tutto fu bruciato. Gli uomini stavano ancora in piazza. Poi le

donne diedero assalto al dazio, agli uffici del catasto… non solo distrussero la mobilia ma soprattutto distrussero

i documenti che potevano incriminare qualche contadino di Torregreca. D’ora in poi ci sarebbe stato nuovo

inizio. diedero fuoco all’ufficio della guardia e stavano quasi per prendere il comando dei carabinieri, quando si

alzò il grido “le linee telefoniche! Tagliate le linee prima che chiamino aiuto!” ed una delle donne più anziane si

arrampicò sul palo al bivio con la strada principale. Tagliò i fili e diede al torresi tre giorni di grazia per la loro

rivolta.

«Quando non c’era più pericolo gli uomini cominciarono a partecipare. Irruppero nei magazzini di grano,

saccheggiarono il mulino e i negozi; ma la loro vendetta la riservarono per il “Circolo dei civili”. Spaccarono ogni

cosa e gli diedero fuoco. Quindi si riversarono sulle case dei padroni… sempre cauti, gli uomini… non ferirono

nessuno, ma irruppero nelle dispense e presero formaggio, salame e vino, tutte cose che non vedevano da anni.

«Le donne erano andate dai carabinieri per prendere un particolare maresciallo, uno di quelli che si erano

specializzato in trattamenti di olio di ricino e manganelli di gomma. Lo presero a forcate rendendolo un

colabrodo. In realtà durante tutto questo tempo cercavano il Podestà. Lo acciuffarono mentre cercava di

sgattaiolare alla chetichella dal paese e lo legarono al monumento in piazza. Due uomini furono messi di guardia,

ma guardarono dall’altra parte quando furono scagliate pietre e istigarono i bambini a torcergli il naso. Dabbraio

prese calci nell’inguine fino a che non era quasi morto e poi qualcuno prese dei ramoscelli e accese un fuoco

sotto di lui. Si mise tanta paura che fece la pipì nei pantaloni. Tutti si divertirono a più non posso. Qualcuno

aveva costretto don Gaetano a barricarsi nell’Ufficio Postale; ogni volta che tentava di svignarsela per andare a

casa prendeva un forcone nella pancia. Fu bloccato lì per tre giorni fino a quando venne l’esercito».

La rivolta di San Mauro Forte

(Leonardo Sacco)

.

« S. Mauro appare un comune politicamente poco impegnato, e quindi non desta preoccupazioni per l’ordine

pubblico. Anche il fascismo arrivò in ritardo, solo nel ’23, a cose fatte; ma dopo il delitto Matteotti alcuni iscritti

al partito si dimisero. Qui non vi erano mai stati nuclei di partiti, e in questi anni la questura registra solo tre

sovversivi, certamente non attivi: due professionisti ed un insegnante.

Page 8: Torregreca - antoniomartino.myblog.itantoniomartino.myblog.it/media/02/00/1451000630.pdf · Ci fu una rimozione della rivolta di Tricarico nel marzo 1942, che è stata un aspetto

8

« Gli avvenimenti del 30 e 31 marzo mostrano l’insofferenza di una società contadina ridotta in grosse difficoltà,

la quale di fronte all’ennesima vessazione fiscale protesta in massa come non sembrerebbe possibile in un piccolo

paese alla vigilia della seconda guerra mondiale.

« La vicenda ricostruibile dall’incartamento del processo – che si concluderà otto anni dopo, in ben altro clima

politico – è stata citata più volte, giustamente, come sintomatica del distacco, mai colmatosi, tra masse contadine

meridionali e fascismo. Qui non c’è stata adesione al movimento piccolo-borghese che si è impadronito del

potere, e poi non c’è stato consenso al regime. C’è una diffusa piccola e piccolissima proprietà a viti, ulivi,

frutteto, sulla quale poggia l’equilibrio sociale. Senza risorse esterne, senza più emigrazione, di anno in anno le

cose sono peggiorate. Nello stesso periodo si son dovute fare le denunce per i fabbricati, ed è aumentata la tassa

sul patrimonio. Ecco perché basta una nuova, errata, imposizione fiscale, per portare all’esasperazione,

predisporre alla sollevazione.

« Sono stati notificati cinquecento avvisi di pagamento per i contributi agricoli unificati. L’entità delle somme

richieste fa ben presto emergere errori notevoli compiuti dagli uffici, dall’estensione dei terreni alla loro qualità,

dalla duplicazione delle partite al numero delle giornate da tassare. Un altro migliaio di avvisi sono pronti, e nel

pomeriggio del 30 marzo, dopo animata discussione in piazza, a centinaia i contadini di S. Mauro si dirigono

verso il municipio, per protestare contro il podestà, e, in sua mancanza, per fare a pezzi gli avvisi non ancora

notificati. E’ un’azione rapida, quasi senza incidenti, ma non manca chi pensa di recidere i fili delle reti

telegrafiche e telefoniche, per impedire, o almeno ritardare, interventi polizieschi.

« La notizia, invece, arriva ai carabinieri dalla vicina Stigliano, per cui il giorno seguente raggiungono S. Mauro

rinforzi di polizia per indagare sui fatti, e identificare anzitutto coloro che hanno distrutto gli avvisi di

pagamento. In Municipio viene compilato un elenco di 23 persone, invitate a presentarsi subito nella caserma dei

carabinieri. Sono in 13 a presentarsi per chiarire i fatti. Ma ciò che gli inquirenti non hanno previsto è che se il

giorno prima, verso il Municipio, hanno marciato in cinquecento, oggi sono ancora più numerosi, e reclamano

l’immediata liberazione dei concittadini trattenuti in caserma. Dopo le otto di sera il tumulto aumenta. Il numero

dei dimostranti e la tattica che seguono disorienta i Carabinieri. Essi aggirano la caserma da ogni lato e

cominciano a bersagliarla con sassate, premendo verso il portone d’ingresso. I Carabinieri sperano a scopo

intimidatorio, mentre si ritirano in caserma e poiché l’assedio di circa ottocento dimostranti non cessa, rimettono

in libertà i 13 inquisiti. Ma quando la folla dirada, soddisfatta per il risultato ottenuto, sulla piazza si contano un

morto e cinque feriti (uno dei quali muore subito dopo).

« Il processo che seguirà riguarderà 130 persone distinte in 39 contadini, 65 contadini poveri, 21 braccianti, 5

artigiani, in maggior parte tra i 20 e i 40 anni. Ma l’avvenimento ha coinvolto, come s’è, accennato, un numero

ben maggiore di cittadini, con una significativa partecipazione di donne e di giovani. Il clima intimidatorio del

regime poliziesco è infranto. Dopo oltre un anno usciranno in libertà provvisoria i 44 imputati ancora in carcere».