Tiscali sputtana il Manifesto: l'incredibile pasticcio dei falsi articoli di Regeni

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2/14/2016 L'incredibile pasticcio dei falsi articoli di Regeni http://notizie.tiscali.it/esteri/articoli/LincredibilepasticciodeifalsiarticolidiRegeni/ 1/4 L'incredibile pasticcio dei falsi articoli di Regeni Sulle tracce dei pezzi attribuiti al ricercatore: da qui la chiave per capire quando il giovane abbia incrociato i suoi carnefici di Giovanni Maria Bellu La domandachiave dell’inchiesta sul sequestro omicidio di Giulio Regeni è quando il giovane ricercatore italiano abbia incrociato il mondo di quelli che hanno deciso di ucciderlo. A questa domanda sta tentando di dare una risposta il pubblico ministero Sergio Colaiocco il quale, in occasione del funerale, ha trasferito il suo ufficio nella stazione dei carabinieri di Cervignano, a pochi chilometri da Fiumicello, per sentire come testimoni i colleghi e gli amici di Giulio. Ma c’era un altro documento prezioso. Un articolo scritto da lui che ilCorriere della Sera ha pubblicato domenica scorsa sotto il titolo: “Giulio Regeni, il primo articolo con pseudonimo sul Manifesto”. Un articolo, dunque, diverso da quello – ormai famoso – che il Manifestoaveva pubblicato due giorni prima, il 5 febbraio, all’indomani della notizia del ritrovamento del cadavere. 99 99

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L'incredibile pasticcio dei falsiarticoli di RegeniSulle tracce dei pezzi attribuiti al ricercatore: da qui la chiaveper capire quando il giovane abbia incrociato i suoi carnefici

di Giovanni Maria Bellu

La domandachiave dell’inchiesta sul sequestro omicidio di GiulioRegeni è quando il giovane ricercatore italiano abbia incrociato ilmondo di quelli che hanno deciso di ucciderlo. A questa domanda statentando di dare una risposta il pubblico ministero Sergio Colaiocco ilquale, in occasione del funerale, ha trasferito il suo ufficio nellastazione dei carabinieri di Cervignano, a pochi chilometri daFiumicello, per sentire come testimoni i colleghi e gli amici di Giulio.

Ma c’era un altro documento prezioso. Un articolo scritto da luiche ilCorriere della Sera ha pubblicato domenica scorsa sotto il titolo:“Giulio Regeni, il primo articolo con pseudonimo sul Manifesto”. Unarticolo, dunque, diverso da quello – ormai famoso – cheil Manifestoaveva pubblicato due giorni prima, il 5 febbraio,all’indomani della notizia del ritrovamento del cadavere.

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A leggerlo dopo quanto è successo si resta colpiti. E’ un’analisilucida e spietata della situazione dei lavoratori in Egitto. Proprio iltema della tesi di dottorato e del pezzo successivo. Di cui sembraquasi la premessa: “Gli attacchi del regime ai lavoratori e alle libertàsindacali – si legge  sono sempre più determinati. È del 28 aprilescorso la notizia di una sentenza dell’Alta corte amministrativa cherende illegale lo sciopero e costringe al pensionamento forzato ilavoratori condannati con questa accusa. Lo scorso 2 giugno, unveicolo militare ha aperto il fuoco su un sitin di operai chechiedevano un’ambulanza per un compagno ferito sul lavoro, in uncementificio di proprietà dell’esercito ad elArish, nel Sinai. L’attaccosi è concluso con la tragica morte di un lavoratore e il ferimento dialtri tre, e rappresenta un preoccupante segnale del livello diintolleranza dei militari verso le mobilitazioni dei lavoratori”.

L’impostazione è analoga a quella del servizio apparsosul Manifestoil 5 febbraio. Ed è identico uno dei luoghi dovevengono raccolte alcune delle interviste:  la sede Centro servizi persindacati e lavoratori (Ctuws), a pochi passi da piazza Tahrir.Esattamente lo stesso posto dove, l’11 dicembre, si svolsel’assemblea alla quale Regeni dedicò l’ultimo articolo. Non è un fattodi poco conto  che Giulio fosse già stato là. E’ una circostanza –viene da pensare  che può anticipare alla fine dell’estate il suoincontro con quel mondo che ha poi deciso di eliminarlo.

Val la pena di fare una verifica. L’articolo pubblicatodal Corriere con la firma di Regeni è, infatti, uno di quelli che eranostati pubblicati sotto pseudonimo, come correttamente chiarisce iltitolo. Il Manifesto ha fatto sapere di averli rimossi dal suo sito perragioni di sicurezza. Anche questo è stato rimosso. Si tratta di vederese in qualche altro sito che l’aveva ripreso all’epoca ne sia rimastatraccia. Una ricerca banale. E’ sufficiente isolare alcune frasi,copiarle, poi trasferirle in un motore di ricerca. La risposta èimmediata. L’articolo c’è ancora. Lo riportano diversi siti. Compareanche in una rassegna stampa dell’Arci datata 3 luglio 2015.Andiamo a cercare lo pseudonimo. Sarà ancora una voltaquell’”Antonio Drius” che Giulio utilizzò per l’articolo sull’assemblea

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sindacale dell11 dicembre? No. E’ diverso. L’articolo è firmato condue nomi e cognomi. Strano pseudonimo. A vederlo parrebbe unanormale doppia firma di un articolo scritto assieme da due autori.

Ed è proprio così. Una scoperta sconcertante. I due nomi nonsono di fantasia. Si tratta dei nomi di due ricercatori che hannoscritto, ognuno per conto suo, diversi articoli sull’Egitto e sul mondoarabo.  Non li riportiamo per scrupolo benché siamo consapevoli chechiunque può fare, o aver già fatto, la stessa nostra facile ricerca. Dicerto quell’articolo non è di Giulio Regeni. D’altra parte, sia i familiari,sia i suoi più stretti amici e colleghi, hanno ripetuto fino allosfinimento che Giulio aveva inviato al Manifesto un solo articolochiedendo, invano, che fosse pubblicato sotto pseudonimo. Quelloapparso il 5 febbraio.

Insomma, l’articolo pubblicato sul Corriere è inutilizzabile perrispondere alla domanda fondamentale. Dobbiamo cancellare tutti iragionamenti che la sua lettura ci aveva suggerito. Non è vero cheGiulio era stato già nella sede del Centro servizi per sindacati elavoratori. O, se vi era già stato, quell’articolo non lo dimostra. Perchéè stato scritto da altri. Abbiamo perso tempo. E il Corriere dellaSera – a cui evidentemente quell’articolo è stato dato come di GiulioRegeni  è stato indotto a compiere un errore. D’altra parte, chiavrebbe potuto immaginare che in un momento così delicatoqualcuno potesse arrivare fino al punto di spacciare come di Regeniun articolo non suo? Ingannando l’opinione pubblica e dando ancheun piccolo contributo a fuorviare un’inchiesta in corso?

Per tentare di capire abbiamo avviato un’altra ricerca sul web.Incrociando alla testata del Corriere le parole “Regeni” e “pseudonimo”. Abbiamo trovato un bell’articolo di Fabrizio Roncone,pubblicato sul Corriere domenica scorsa. E’ il resoconto di una visitanella redazione del Manifesto. Colpisce questo passaggio. “Quantiarticoli gli avete pubblicato?”, domanda l’inviato del Corriere alcaporedattore Esteri del Manifesto. La risposta: “Tre, compresoquello che abbiamo messo in prima pagina dopo la sua morte. Ilprimo era scritto a quattro mani, con doppia firma: il suo pseudonimo

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e il nome e il cognome di un’altra persona. La richiesta di firmare conlo pseudonimo, conoscendo la violenza del regime egiziano, ci èsembrata del tutto comprensibile”. “La madre di Giulio – insisteFabrizio Roncone  sostiene che suo figlio avrebbe voluto collaborarecon voi: e che voi non gli avete dato questa possibilità”. La risposta:“È falso. L’ultimo articolo Giulio lo ha spedito ai primi di gennaio. Manon siamo riusciti a pubblicarlo subito per ragioni di spazio, neigiornali capita. Il 9 gennaio, Giulio e l’altro che scriveva con lui adoppia firma, mi mandano una email, chiedendo, con garbo, se cifossero dei problemi. Io gli dico di aver pazienza: l’idea è dipubblicare l’articolo in concomitanza con l’anniversario di piazzaTahrir”. Invece è stato pubblicato – contro il parere della famiglia –solo dopo la morte del ragazzo.

Forse è il caso, finalmente, di fare chiarezza. Nessuno ha tempoda perdere. Specialmente quando si è davanti a un fatto così tragicoe a un’inchiesta delicatissima in pieno svolgimento.

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del 03/07/15, pag. 12

Egitto, anniversario con scioperi Egitto. A due anni dal golpe militare il sindacalismo indipendente si impegna su lotte locali dopo il divieto di sciopero imposto dal governo. L’esercito va all’attacco dei cementifici di el-Arish, mentre il governo punta su una politica liberista e a favore degli strati più ricchi, come dimostra l’eliminazione della tassa sui redditi milionari. Si tratta di una chiara predilezione del regime per i potenti gruppi di affari, a scapito delle fasce più deboli della popolazione Gianni Del Panta e Francesco De Lellis IL CAIRO Il grande movimento di massa degli ultimi quattro anni in Egitto ha coinciso con imponenti e diffuse contestazioni operaie. Gli scioperi nelle fabbriche hanno davvero messo alle strette il regime. Tutti i momenti chiave della storia egiziana recente dalla destituzione di Mubarak al golpe militare, fino alla fine del primo governo ad interim, sono state precedute da imponenti mobilitazioni nelle fabbriche. Neoliberismo Le cose peggiorano. Jano Charbel, attivista vicino al movimento operaio, boccia il regime militare senza mezzi termini. «La politica economica di al-Sisi è la più neo-liberista mai sperimentata dall’Egitto, rappresenta l’apice del processo avviato da Sadat e poi proseguito negli ultimi disastrosi vent’anni della presidenza Mubarak», ci assicura. Agli occhi di molti osservatori non è chiaro quanto questa direzione sia frutto di una precisa strategia del regime militare del Cairo o piuttosto una scelta forzata dalla necessità di rinsaldare i legami con le élite capitaliste nazionali e internazionali, vitali per attirare investimenti. Sta di fatto che misure come l’eliminazione della tassa sui redditi milionari e la riduzione dell’aliquota massima di tassazione al 22,5%, per citare solo le ultime, danno il polso di una chiara predilezione del regime per i potenti gruppi di affari a scapito delle fasce più deboli della popolazione. Il decantato «ritorno alla stabilità», ottenuto al prezzo di migliaia di morti in piazza, arresti e condanne di attivisti, non si è tradotto in crescita economica, come promesso dagli autori del golpe, e il clima che si respira oggi, soprattutto tra i giovani che speravano nella ripresa economica, è di profonda rassegnazione. Gli attacchi del regime ai lavoratori e alle libertà sindacali sono sempre più determinati. È del 28 aprile scorso la notizia di una sentenza dell’Alta corte amministrativa che rende illegale lo sciopero e costringe al pensionamento forzato i lavoratori condannati con questa accusa. Lo scorso 2 giugno, un veicolo militare ha aperto il fuoco su un sit-in di operai che chiedevano un’ambulanza per un compagno ferito sul lavoro, in un cementificio di proprietà dell’esercito ad el-Arish, nel Sinai. L’attacco si è concluso con la tragica morte di un lavoratore e il ferimento di altri tre, e rappresenta un preoccupante segnale del livello di intolleranza dei militari verso le

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mobilitazioni dei lavoratori. Dopo questo episodio si è tenuta un’assemblea a cui ha partecipato anche un alto ufficiale che tentava di placare gli animi degli operai. «Quella divisa che voi portate è di nostra proprietà. Vogliamo un’inchiesta sull’accaduto, vogliamo essere trattati come esseri umani», gli ha urlato uno dei contestatori. Crisi e mobilitazioni «L’esercito vuole far passare il concetto che la rivoluzione sia finita con la caduta di Mubarak e che oggi le proteste operaie rappresentino solo rivendicazioni corporative contrarie all’interesse nazionale», aggiunge Charbel. Tale visione è supportata anche dal sindacato unico Etuf (Federazione egiziana dei sindacati), che in occasione delle celebrazioni della Festa del lavoro presso l’Accademia di polizia, ha consegnato al presidente al-Sisi un «codice di condotta» in cui esprime il «rifiuto degli scioperi», si impegna al dialogo con governo e imprenditori e denuncia la «politicizzazione del sindacato», con riferimento al movimento sindacale indipendente. La Federazione egiziana dei Sindacati indipendenti (Efitu — prima nella storia del paese, fondata simbolicamente in piazza Tahrir a pochi giorni dall’inizio delle rivolte anti-Mubarak), è già stata protagonista di lunghe stagioni di scioperi e mobilitazioni, ma vive oggi un periodo di crisi. Uno spartiacque decisivo è stato proprio il golpe del 3 luglio 2013, apertamente appoggiato da alcuni dei leader più importanti di Efitu. La frattura aperta in quel frangente si è andata ad aggiungere ad altre difficoltà e limiti preesistenti. «Nonostante possa contare su una lunga esperienza in scioperi e mobilitazioni, il movimento dei lavoratori non ha avuto tempo e modo di maturare le capacità necessarie a costruire e gestire organizzazioni sindacali», ci dice Heba Khalil dell’Egyptian Center for Economic and Social Rights (Ecesr), think tank dell’avvocato comunista Khaled Ali. A questo si aggiungono le grosse ambiguità nel quadro giuridico che regola la costituzione dei sindacati, gli impedimenti burocratici per ottenere un riconoscimento legale, e i problemi finanziari a cui questi vanno incontro. «Molti lavoratori hanno paura delle conseguenze economiche per chi lascia la federazione ufficiale (Etuf): il rischio è quello di perdere le quote versate per anni nelle casse del sindacato, e con esse dover rinunciare ad una buonuscita che può arrivare anche a 100mila ghinee (l’equivalente di quasi 12mila euro)», considera Nadine Abdallah del German Institute for International and Security Affairs di Berlino. Repressione Difficoltà organizzative e repressione fanno sì che le proteste operaie vengano organizzate su base locale, con rivendicazioni limitate e a breve termine, senza l’articolazione di una strategia comune. Anche le accuse di sabotaggio e terrorismo nei confronti dei sindacati indipendenti si sono fatte frequenti dopo la deposizione di Morsi, ma in maniera più leggera rispetto a quanto accaduto agli ordini professionali, teatro di vere e proprie epurazioni ai danni dei sindacalisti vicini alla Fratellanza musulmana. Nonostante le pressioni sul sindacato, secondo un rapporto del Mahrousa Center, le proteste operaie nei primi mesi del 2015 sono state 393, un numero che indica sì una flessione rispetto agli anni precedenti ma che in realtà dimostra un livello piuttosto alto di conflittualità nei luoghi di lavoro. La stampa indipendente e le ong che si occupano di diritti sociali riportano ogni giorno notizie di proteste, marce, scioperi e occupazioni sui luoghi di lavoro, senza contare i numerosi conflitti aperti nelle campagne tra contadini e gruppi di affari per l’accesso alla terra e alle risorse idriche. Nonostante la puntuale risposta violenta degli apparati di sicurezza e la chiusura dello spazio politico, la rilevanza del fenomeno testimonia forse la più grande conquista della cosiddetta «Primavera egiziana» e dei movimenti sociali che l’hanno animata: il superamento delle paure e una maggiore disponibilità a protestare e organizzarsi di fronte alle violazioni dei diritti.

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Per questo si dice ottimista Talal Shokr, tra i primi animatori del movimento sindacale indipendente, membro del consiglio direttivo della Federazione democratica dei lavoratori (Edlc). Lo incontriamo nella sede del Centro servizi per sindacati e lavoratori (Ctuws), a pochi passi da piazza Tahrir. Lo troviamo indaffarato mentre detta il testo di un volantino a un altro attivista che batte alla tastiera le parole del compagno più anziano. Talal oggi si occupa di girare in lungo e in largo l’Egitto per tenere seminari di formazione diretti a lavoratori e contadini che intendono costituire sindacati indipendenti sui posti di lavoro o nei villaggi. «Il movimento crescerà, sono fiducioso», ci assicura sfoderando un grande sorriso.

2/15/2016 Giulio Regeni, il primo articolo con pseudonimo sul Manifesto  Corriere.it

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Giulio Regeni, il primo articolo con pseudonimo sul ManifestoIl primo testo pubblicato sul quotidiano dal ricercatore friulano ucciso al Cairo:una disamina su tutti i momenti chiave degli ultimi quattro anni della storiaegiziana

di Giulio Regeni

Giulio Regeni

Il grande movimento di massa degli ultimi quattro anni in Egitto ha coinciso conimponenti e diffuse contestazioni operaie. Gli scioperi nelle fabbriche hannodavvero messo alle strette il regime. Tutti i momenti chiave della storia egizianarecente dalla destituzione di Mubarak al golpe militare, fino alla fine del primogoverno ad interim, sono state precedute da imponenti mobilitazioni nellefabbriche.

NeoliberismoLe cose peggiorano. Jano Charbel, attivista vicino al movimento operaio, bocciail regime militare senza mezzi termini. “La politica economica di alSisi è la piùneoliberista mai sperimentata dall’Egitto, rappresenta l’apice del processoavviato da Sadat e poi proseguito negli ultimi disastrosi vent’anni dellapresidenza Mubarak”, ci assicura. Agli occhi di molti osservatori non è chiaroquanto questa direzione sia frutto di una precisa strategia del regime militare delCairo o piuttosto una scelta forzata dalla necessità di rinsaldare i legami con leélite capitaliste nazionali e internazionali, vitali per attirare investimenti. Sta difatto che misure come l’eliminazione della tassa sui redditi milionari e lariduzione dell’aliquota massima di tassazione al 22,5%, per citare solo le ultime,danno il polso di una chiara predilezione del regime per i potenti gruppi di affaria scapito delle fasce più deboli della popolazione. Il decantato «ritorno allastabilità», ottenuto al prezzo di migliaia di morti in piazza, arresti e condanne diattivisti, non si è tradotto in crescita economica, come promesso dagli autori delgolpe, e il clima che si respira oggi, soprattutto tra i giovani che speravano nellaripresa economica, è di profonda rassegnazione. Gli attacchi del regime ailavoratori e alle libertà sindacali sono sempre più determinati. È del 28 aprilescorso la notizia di una sentenza dell’Alta corte amministrativa che rendeillegale lo sciopero e costringe al pensionamento forzato i lavoratori condannaticon questa accusa. Lo scorso 2 giugno, un veicolo militare ha aperto il fuoco su

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un sitin di operai che chiedevano un’ambulanza per un compagno ferito sullavoro, in un cementificio di proprietà dell’esercito ad elArish, nel Sinai.L’attacco si è concluso con la tragica morte di un lavoratore e il ferimento dialtri tre, e rappresenta un preoccupante segnale del livello di intolleranza deimilitari verso le mobilitazioni dei lavoratori. Dopo questo episodio si è tenutaun’assemblea a cui ha partecipato anche un alto ufficiale che tentava di placaregli animi degli operai. “Quella divisa che voi portate è di nostra proprietà.Vogliamo un’inchiesta sull’accaduto, vogliamo essere trattati come esseriumani”, gli ha urlato uno dei contestatori.

Crisi e mobilitazione“L’esercito vuole far passare il concetto che la rivoluzione sia finita con lacaduta di Mubarak e che oggi le proteste operaie rappresentino solorivendicazioni corporative contrarie all’interesse nazionale”, aggiunge Charbel.Tale visione è supportata anche dal sindacato unico Etuf (Federazione egizianadei sindacati), che in occasione delle celebrazioni della Festa del lavoro pressol’Accademia di polizia, ha consegnato al presidente alSisi un “codice dicondotta” in cui esprime il “rifiuto degli scioperi”, si impegna al dialogo congoverno e imprenditori e denuncia la “politicizzazione del sindacato”, conriferimento al movimento sindacale indipendente. La Federazione egiziana deiSindacati indipendenti (Efitu — prima nella storia del paese, fondatasimbolicamente in piazza Tahrir a pochi giorni dall’inizio delle rivolte antiMubarak), è già stata protagonista di lunghe stagioni di scioperi e mobilitazioni,ma vive oggi un periodo di crisi. Uno spartiacque decisivo è stato proprio ilgolpe del 3 luglio 2013, apertamente appoggiato da alcuni dei leader piùimportanti di Efitu. La frattura aperta in quel frangente si è andata ad aggiungeread altre difficoltà e limiti preesistenti. “Nonostante possa contare su una lungaesperienza in scioperi e mobilitazioni, il movimento dei lavoratori non ha avutotempo e modo di maturare le capacità necessarie a costruire e gestireorganizzazioni sindacali”, ci dice Heba Khalil dell’Egyptian Center forEconomic and Social Rights (Ecesr), think tank dell’avvocato comunista KhaledAli. A questo si aggiungono le grosse ambiguità nel quadro giuridico che regolala costituzione dei sindacati, gli impedimenti burocratici per ottenere unriconoscimento legale, e i problemi finanziari a cui questi vanno incontro.“Molti lavoratori hanno paura delle conseguenze economiche per chi lascia lafederazione ufficiale (Etuf): il rischio è quello di perdere le quote versate peranni nelle casse del sindacato, e con esse dover rinunciare ad una buonuscita chepuò arrivare anche a 100mila ghinee (l’equivalente di quasi 12mila euro)”,considera Nadine Abdallah del German Institute for International and SecurityAffairs di Berlino.

RepressioneDifficoltà organizzative e repressione fanno sì che le proteste operaie venganoorganizzate su base locale, con rivendicazioni limitate e a breve termine, senzal’articolazione di una strategia comune. Anche le accuse di sabotaggio eterrorismo nei confronti dei sindacati indipendenti si sono fatte frequenti dopo ladeposizione di Morsi, ma in maniera più leggera rispetto a quanto accaduto agliordini professionali, teatro di vere e proprie epurazioni ai danni dei sindacalistivicini alla Fratellanza musulmana. Nonostante le pressioni sul sindacato,secondo un rapporto del Mahrousa Center, le proteste operaie nei primi mesi del2015 sono state 393, un numero che indica sì una flessione rispetto agli anniprecedenti ma che in realtà dimostra un livello piuttosto alto di conflittualità neiluoghi di lavoro. La stampa indipendente e le ong che si occupano di dirittisociali riportano ogni giorno notizie di proteste, marce, scioperi e occupazionisui luoghi di lavoro, senza contare i numerosi conflitti aperti nelle campagne tracontadini e gruppi di affari per l’accesso alla terra e alle risorse idriche.Nonostante la puntuale risposta violenta degli apparati di sicurezza e la chiusura

2/15/2016 Giulio Regeni, il primo articolo con pseudonimo sul Manifesto  Corriere.it

http://www.corriere.it/cronache/16_febbraio_07/giulioregeniprimoarticolopseudonimomanifestodba71638cd6511e59bb8c57cba20e8ac.shtml 3/3

dello spazio politico, la rilevanza del fenomeno testimonia forse la più grandeconquista della cosiddetta “Primavera egiziana” e dei movimenti sociali chel’hanno animata: il superamento delle paure e una maggiore disponibilità aprotestare e organizzarsi di fronte alle violazioni dei diritti. Per questo si diceottimista Talal Shokr, tra i primi animatori del movimento sindacaleindipendente, membro del consiglio direttivo della Federazione democratica deilavoratori (Edlc). Lo incontriamo nella sede del Centro servizi per sindacati elavoratori (Ctuws), a pochi passi da piazza Tahrir. Lo troviamo indaffaratomentre detta il testo di un volantino a un altro attivista che batte alla tastiera leparole del compagno più anziano. Talal oggi si occupa di girare in lungo e inlargo l’Egitto per tenere seminari di formazionediretti a lavoratori e contadiniche intendono costituire sindacati indipendenti sui posti di lavoro o nei villaggi.“Il movimento crescerà, sono fiducioso”, ci assicura sfoderando un grandesorriso.

In Egitto, la seconda vita dei sindacatiindipendenti- Giulio Regeni, IL CAIRO,05.02.2016

L'articolo. L’ultimo reportage di Giulio Regeni, su un’affollata assemblea di uomini e donne per lalibertà. Iniziative popolari e spontanee rompono il muro della paura nato dopo la speranza dellaprimavera araba

Pubblichiamo qui l’articolo inviatoci da Giulio Regeni, e sollecitato via e-mail a metà gennaio, suisindacati indipendenti in Egitto. Ci aveva chiesto di pubblicarlo con uno pseudonimo così comeaccaduto altre volte in passato. Dopo la sua scomparsa, rispettando prudenza e opportunità,l’abbiamo tenuto nel cassetto sperando in un esito positivo della vicenda. Dopo il barbaro omicidio alCairo del ricercatore friuliano abbiamo deciso di offrirlo ai lettori come testimonianza, con il veronome del suo autore, adesso che quella cautela è stata tragicamente superata dai fatti.

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Al-Sisi ha ottenuto il controllo del parlamento con il più alto numero di poliziotti e militari dellastoria del paese mentre l’Egitto è in coda a tutta le classifiche mondiali per rispetto della libertà distampa. Eppure i sindacati indipendenti non demordono. Si è appena svolto un vibrante incontropresso il Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati (Ctuws), tra i punti di riferimento delsindacalismo indipendente egiziano.

Sebbene la sala più grande del Centro abbia un centinaio di posti a sedere, la sera dell’incontro nonriusciva a contenere il numero di attiviste e attivisti sindacali giunti da tutto l’Egitto perun’assemblea che ha dello straordinario nel contesto attuale del paese. L’occasione è una circolaredel consiglio dei ministri che raccomanda una stretta collaborazione tra il governo e il sindacatoufficiale Etuf (unica formazione ammessa fino al 2008), con il fine esplicito di contrastare il ruolo deisindacati indipendenti e marginalizzarli tra i lavoratori.

Sebbene oggi Ctuws non sia rappresentativo della complessa costellazione del sindacalismoindipendente egiziano, il suo appello è stato raccolto, forse anche inaspettatamente, da un numeromolto significativo di sindacati.

Alla fine, saranno una cinquantina circa le sigle che sottoscriveranno la dichiarazione di chiusura,rappresentanti dei più svariati settori economici, e dalle più svariate regioni del paese: dai trasportialla scuola, dall’agricoltura all’ampio settore informale, dal Sinai all’Alto Egitto, passando per ilDelta, Alessandria e il Cairo.

La circolare del governo rappresenta un ulteriore attacco ai diritti dei lavoratori e alle libertàsindacali, fortemente ristrette dopo il colpo di stato militare del 3 luglio 2013, e ha così fatto dacatalizzatore di un malcontento molto diffuso tra i lavoratori, ma che stentava fino ad oggi aprendere forma in iniziative concrete.

Movimento in crisiDopo la rivoluzione del 2011 l’Egitto ha vissuto una sorprendente espansione dello spazio di libertàpolitiche. Si è assistito alla nascita di centinaia di nuovi sindacati, un vero e proprio movimento, di

cui il Ctuws è stato tra i protagonisti, attraverso le sue attività di supporto e formazione.

Tuttavia, negli ultimi due anni, repressione e cooptazione da parte del regime hanno seriamenteindebolito queste iniziative, al punto che le due maggiori federazioni (la Edlc ed Efitu) nonriuniscono la loro assemblea generale dal 2013.

Di fatto ogni sindacato agisce ormai per conto proprio a livello locale o di settore. L’esigenza diunirsi e coordinare gli sforzi però è molto sentita, e lo testimonia la grande partecipazioneall’assemblea, oltre ai tanti interventi che hanno puntato il dito contro la frammentazione delmovimento, e invocato la necessità di lavorare insieme, al di là delle correnti di appartenenza.

Gli interventi si sono succeduti a decine, concisi, spesso appassionati, e con un taglio moltooperativo: si trattava di proporre e decidere insieme il «cosa fare da domani mattina», un appelloripetuto come un mantra durante l’incontro, data l’urgenza del momento e la necessità di delineareun piano d’azione a breve e medio termine.

Da notare la presenza di una nutrita minoranza di donne, i cui interventi sono stati in alcuni casi trai più apprezzati e applauditi dalla platea a maggioranza maschile. La grande assemblea si è poiconclusa con la decisione di formare un comitato il più possibile rappresentativo, che si incarichi digettare le basi per una campagna nazionale sui temi del lavoro e delle libertà sindacali.

Conferenze regionaliL’idea è quella di organizzare una serie di conferenze regionali che portino nel giro di pochi mesi aduna grande assemblea nazionale e possibilmente ad una manifestazione unitaria di protesta («aTahrir!» diceva anche qualcuno tra i presenti, invocando la piazza che è stata teatro della stagionerivoluzionaria del periodo 2011–2013, e che da più di due anni è vietata a qualsiasi forma diprotesta).

L’agenda sembra decisamente ampia, e include tra gli obiettivi fondamentali quello di contrastare lalegge 18 del 2015, che ha recentemente preso di mira i lavoratori del settore pubblico, ed è stataduramente contestata nei mesi passati.

Nel frattempo, proprio in questi giorni, in diverse regioni del paese, da Assiut a Suez, al Delta,lavoratori di società nei settori del tessile, del cemento, delle costruzioni, sono entrati in sciopero aoltranza: per lo più le loro rivendicazioni riguardano l’estensione di diritti salariali e indennitàriservate alle società pubbliche.

Nuova ondata di scioperiSi tratta di benefici di cui questi lavoratori hanno smesso di godere in seguito alla massiccia ondatadi privatizzazioni dell’ultimo periodo dell’era Mubarak.

Molte di queste privatizzazioni dopo la rivoluzione del 2011 sono state portate davanti ai giudici, iquali ne hanno spesso decretato la nullità, rilevando diversi casi di irregolarità e corruzione.

Tali scioperi sono per lo più scollegati tra di loro, e in gran parte slegati dal mondo del sindacalismoindipendente che si è riunito al Cairo.

Ma rappresentano comunque una realtà molto significativa, per almeno due motivi. Da un lato, purse in maniera non del tutto esplicita, contestano il cuore della trasformazione neoliberista del paese,che ha subito una profonda accelerazione dal 2004 in poi, e che le rivolte popolari esplose nel

gennaio 2011 con lo slogan «Pane, Libertà, Giustizia Sociale» non sono riuscite sostanzialmente aintaccare.

L’altro aspetto è che in un contesto autoritario e repressivo come quello dell’Egitto dell’ex-generaleal-Sisi, il semplice fatto che vi siano iniziative popolari e spontanee che rompono il muro della paurarappresenta di per sé una spinta importante per il cambiamento.

Sfidare lo stato di emergenza e gli appelli alla stabilità e alla pace sociale giustificati dalla «guerra alterrorismo», significa oggi, pur se indirettamente, mettere in discussione alla base la retorica su cuiil regime giustifica la sua stessa esistenza e la repressione della società civile.

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“Il testimone”, la prima pagina del manifesto di oggi

2/15/2016 6 Febbraio 2016 Il caso dell’ultimo articolo di Regeni pubblicato dal Manifesto dopo il no della famiglia

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Il caso dell’ultimo articolo di Regeni pubblicato dalManifesto dopo il no della famiglia

Corriere della Sera, sabato 6 febbraio 2016Giulio Regeni non è mai entrato in queste stanze. Ci arrivava con lesue email. Clic. Ha scritto quel ragazzo dall’Egitto. Propone un servizio sui nuovimovimenti operai. Sul sindacalismo indipendente che si batte controil governo di AlSisi. Chiede di poter firmare con uno pseudonimo,è prudente, fa bene. Clic. La redazione de il manifesto è in un condominio del quartierePortuense. Un corridoio lungo con le luci al neon, armadi pieni difaldoni, la macchinetta del caffè davanti alla segreteria. Simone Pieranni è il redattore del servizio Esteri che apriva e leggevale email di Giulio. «Il primo contatto, nel luglio scorso: si presenta, ci spiega chi è, diceche fa ricerca, è uno studioso, dice che gli piacerebbe scrivere sulnostro giornale». Quanti articoli gli avete pubblicato? «Tre, compreso quello che abbiamo messo in prima pagina dopo lasua morte. Il primo era scritto a quattro mani, con doppia firma: ilsuo pseudonimo e il nome e il cognome di un’altra persona. Larichiesta di firmare con lo pseudonimo, conoscendo la violenza delregime egiziano, ci è sembrata del tutto comprensibile». La madre di Giulio sostiene che suo figlio avrebbe voluto collaborarecon voi: e che voi non gli avete dato questa possibilità. «È falso. L’ultimo articolo Giulio lo ha spedito ai primi di gennaio.Ma non siamo riusciti a pubblicarlo subito per ragioni di spazio, neigiornali capita. Il 9 gennaio, Giulio e l’altro che scriveva con lui adoppia firma, mi mandano una email, chiedendo, con garbo, se cifossero dei problemi. Io gli dico di aver pazienza: l’idea è dipubblicare l’articolo in concomitanza con l’anniversario di piazzaTahrir». E loro? «Loro rispondono che, a malincuore, lo avrebbero allora pubblicatosul sito NenaNews, una sorta di agenzia di stampa che si occupa diMedio Oriente». Nelle sue email, Giulio ti ha mai detto, esplicitamente, di averepaura? «No, mai». Ti ha dato l’impressione di voler intraprendere la professione delgiornalista? «No. La sensazione che forniva era quella di un giovane ricercatoreche avesse scelto il manifesto per divulgare le cose interessanti chetrovava». Viene a sedersi anche Tommaso Di Francesco, il condirettore(colpisce l’assenza di voci, di rumori: una redazione, anche quando è

2/15/2016 6 Febbraio 2016 Il caso dell’ultimo articolo di Regeni pubblicato dal Manifesto dopo il no della famiglia

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(colpisce l’assenza di voci, di rumori: una redazione, anche quando èal lavoro, provoca sempre un trambusto di sottofondo che qui, però,non c’è). Forse è la stanchezza per un certo tipo di dolore che, periodicamente,vi colpisce. «Abbiamo vissuto giorni di morte, sì. Nicola Calipari morì la sera chefu liberata Giuliana Sgrena. Poi Vittorio Arrigoni ucciso a Gaza.Però Giuliana era una nostra inviata, era a Bagdad per raccontare laresistenza irachena. Vittorio era un nostro collaboratore. Giulio…ecco, Giulio stava diventando un nostro collaboratore». Gli avete pubblicato l’ultimo articolo nonostante il divieto impostodalla famiglia: sul web, e non solo, vi hanno criticato in molti. «Ho parlato con l’avvocato della famiglia. La diffida èincomprensibile». Spiegati. «La diffida, arrivata alle 19.25 di giovedì, ruotava su due ragioni. Laprima: non mettere a rischio la vita dei genitori di Giulio… Ma loro,scusa, non erano in ambasciata e a stretto contatto con i nostriservizi? La seconda… Vabbé, no, la seconda non te la dico». Fammi insistere. «Guarda, è tremenda anche solo a dirsi: i genitori non volevano chel’articolo di Giulio fosse pubblicato per non mettere a repentaglio lasua incolumità. Purtroppo, però… il suo corpo era già statoidentificato». La stanza del direttore è in fondo al corridoio. Una stanza sobria, piccola, con un bel quadro di Luigi Pintor, uno deipadri fondatori del giornale (fino a qualche tempo fa, in corridoio,incontravi ancora Valentino Parlato, sempre con il suo sorriso,con la sua capacità di vedere le cose da un’angolazione diversa especiale). Lei, Norma Rangeri, è al computer: sta scrivendo il suo editoriale. Sembri amareggiata. «Sì, lo sono, e molto: anche se ormai dovrei aver capito come va ilmondo dell’informazione in questo Paese e come sia veloce e semprepiù terrificante il frullatore delle strumentalizzazioni… No, dico: sonoarrivati a scrivere che quel ragazzo era arruolato dai servizisegreti…». Continua. «Invece era solo un ricercatore che raccontava ciò che scoprivaalzando il velo su alcuni aspetti del governo di Al Sisi, le cuiatrocità vengono ignorate dalla comunità internazionale…Purtroppo, sai come finirà? Il regime fingerà di aver individuato iresponsabili dell’uccisione e così tranquillizzerà tutti quelli chevogliono poter continuare i loro affari economici con l’Egitto…». E poi la coincidenza. Venti minuti dopo. Le agenzie di stampa battono la notizia: due persone arrestate alCairo, sono sospettate di aver avuto un ruolo nell’uccisione di GiulioRegeni.

Fabrizio Roncone

2/15/2016 6 Febbraio 2016 Il caso dell’ultimo articolo di Regeni pubblicato dal Manifesto dopo il no della famiglia

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Fabrizio Roncone