The Riddles of Pseudo-Joachim

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1 CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI GIOACHIMITI ABBAZIA FLORENSE-SAN GIOVANNI IN FIORE Ioachim posuit verba ista Gli pseudoepigrafi di Gioacchino da Fiore dei secoli XIII e XIV 8° CONGRESSO INTERNAZIONALE DI STUDI GIOACHIMITI 18-19-20 settembre 2014 Chiesa Abbaziale Florense – San Giovanni in Fiore Traduzione della relazione introduttiva del prof Bernard McGinn (University of Chicago Divinity School) Da Gioacchino allo Pseudo Gioacchino e ritorno Alla fine del 1523 Thomas Müntzer, un pastore tedesco sotto attacco per le sue predizioni relative all’avvento di una “nuova chiesa apostolica”, rispose ai propri critici in un trattato dal titolo Esplicita messa a nudo della falsa fede. Un tempo egli era stato un favorito di Martin Lutero, ma aveva rotto con lui ormai da parecchi anni. I due erano diventati feroci nemici. Il “Manifesto di Praga” di Müntzer, dell’anno 1521 fu uno dei documenti apocalittici più radicali dall’inizio dell’età moderna, in particolare per il suo violento richiamo all’avvento di un regno millenario. Così egli scriveva: “Il tempo del raccolto è a portata di mano! Così Dio mi ha scelto per il suo raccolto! Ho affilato la mia falce, perché i miei pensieri anelano alla verità…”.

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CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI GIOACHIMITI

ABBAZIA FLORENSE-SAN GIOVANNI IN FIORE

Ioachim posuit verba ista

Gli pseudoepigrafi di Gioacchino da Fiore dei secoli XIII e XIV

8° CONGRESSO INTERNAZIONALE DI STUDI GIOACHIMITI

18-19-20 settembre 2014

Chiesa Abbaziale Florense – San Giovanni in Fiore

Traduzione della relazione introduttiva del prof Bernard McGinn (University of

Chicago Divinity School)

Da Gioacchino allo Pseudo Gioacchino e ritorno

Alla fine del 1523 Thomas Müntzer, un pastore tedesco sotto attacco per

le sue predizioni relative all’avvento di una “nuova chiesa apostolica”, rispose ai

propri critici in un trattato dal titolo Esplicita messa a nudo della falsa fede. Un

tempo egli era stato un favorito di Martin Lutero, ma aveva rotto con lui ormai

da parecchi anni. I due erano diventati feroci nemici. Il “Manifesto di Praga” di

Müntzer, dell’anno 1521 fu uno dei documenti apocalittici più radicali dall’inizio

dell’età moderna, in particolare per il suo violento richiamo all’avvento di un

regno millenario. Così egli scriveva: “Il tempo del raccolto è a portata di mano!

Così Dio mi ha scelto per il suo raccolto! Ho affilato la mia falce, perché i miei

pensieri anelano alla verità…”.

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Queste convinzioni di Müntzer gli procurarono l’accusa di essere un seguace di

Gioacchino da Fiore e del suo insegnamento sull’«Evangelo Eterno». Per questo

motivo in una lettera allegata alla Esplicita messa a nudo della falsa fede egli

rispose che, benché nutrisse un grande rispetto per Gioacchino ed avesse letto il

Commentarium in Hieremiam dell’abate, “Io non derivo il mio insegnamento da

Gioachino, ma piuttosto dalla parola vivente di Dio, come proverò a tempo

debito sulla base di tutta quanta la Bibbia”.

Alquanti anni più tardi mostrò interesse per Gioacchino un personaggio

alquanto diverso. Nel 1571 il nobile francese Michel de Montaigne si ritirò nei

propri possedimenti in campagna e iniziò scrivere quegli Essais che lo resero

famoso. Müntzer era un fanatico; Montaigne era uno scettico. Peraltro entrambi

fecero menzione dell’abate calabrese. Nel suo primo saggio, nel capitolo “Dei

pronostici” (I.11), Montaigne manifesta la propria frustrazione per non essere

stato realmente in grado di vedere i Vaticinia de summis pontificibus. Egli

scriveva: “Vorrei proprio aver visto con i miei occhi queste due meraviglie: il libro

di Gioacchino, abate calabrese, che prediceva tutti i papi futuri […]; e quello

dell’imperatore Leone, che prediceva gli imperatori e i patriarchi di Grecia.

Questo sì, l’ho visto con i miei occhi, che nei disordini pubblici gli uomini, sbigottiti

dalla loro sorte, si buttano, come ad ogni altra superstizione, a cercare nel cielo

le cause e le minacce antiche della loro disgrazia”. Quindi egli aggiunge che lo

scopo di tali pronostici “… è favorito in particolare dal gergo oscuro, ambiguo e

fantastico di queste profezie, i cui autori, dal loro canto, non forniscono mai una

spiegazione chiara, così che la posterità può attribuire ad esse qualsivoglia

significato a sua scelta“.

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Dopo tutto, forse Montaigne aveva letto qualche opera pseudo-gioachimita!

Prendo avvio da questi episodi allo scopo di rammentarci che la nostra

attuale visione di Gioacchino è piuttosto diversa da quella che si riscontra a

partire dal Tredicesimo secolo sino alla metà del Diciannovesimo secolo. Per

tutto questo tempo quanto noi chiamiamo “Pseudo Gioacchino” fu almeno

altrettanto importante degli scritti autentici dell’abate calabrese, anzi - a dire il

vero – molto di più. Nessuna delle tre opere maggiori di Gioacchino fu stampata

più di una volta nel corso del Sedicesimo secolo, mentre il Super Hieremiam letto

da Müntzer conobbe tre edizioni (1516, 1525, 1577) [mille cinquecento sedici, -

venticinque, - settasette]. Dei Vaticinia de summis pontificibus che Montaigne

voleva esaminare esistono più di un centinaio di manoscritti, sono stati pubblicati

a stampa una volta prima della fine del Quattrocento e più di venti volte tra

Seicento e Settecento, in molti casi sulla base della versione curata da Pasquale

Regiselmo nel 1589 [mille cinquecento ottantanove]

Nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, dal momento che la critica storica

aveva cominciato a dimostrare che molte delle opere attribuite a Giocchino in

realtà non erano state scritte da lui, gli scritti pseudo-gioachimiti sono slittati sullo

sfondo delle ricerche intorno all’abate. Vi furono eccezioni, come il volume di

Bernhard Töpfer, Das kommende Reich des Friedens (1964) [mille novecento

sessanta quattro][trad. Italiana: Il regno futuro della libertà], e soprattutto The

Influence of Prophecy in the Later Middle Ages di Marjorie Reeves. Entrambi gli

autori erano consapevoli del fatto che le loro ricostruzioni erano lacunose, e che

dipendevano da testi non studiati in maniera sufficiente e non editi in modo

adeguato. Malgrado le ricerche condotte in seguito su quei testi e sulla loro

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storia, non esiste una ricostruzione complessiva e aggiornata di questo

importante capitolo nella storia della ricezione di Gioacchino. Forse questo

Congresso potrà rappresentare un’inversione di tendenza, nella misura in cui

potrà mostrare: (primo) perché e quando quei testi furono prodotti; (secondo)

quale fosse la loro relazione con le principali idee dell’abate: (terzo) quale è

stato il loro ruolo nella storia della “avventura” gioachimita. Più importante

ancora, ci auguriamo che questo incontro possa conferire un impulso alla

produzione di edizioni critiche di queste opere, notevolmente complesse.

Un’attribuzione pseudonima ha fatto parte della tradizione apocalittica

sin dagli inizi, non da ultimo perché tanti libri della Bibbia, sia del Vecchio che del

Nuovo Testamento, sono pseudonimi: vale a dire, sono stati scritti con il nome di

autori che non avrebbero potuto redigerli. Una delle caratteristiche degli scritti

apocalittici pseudonimi sono i vaticinia ex eventu, ovvero eventi storici travestiti

da predizioni profetiche e collocati sotto l’egida del nome di figure autorevoli

del passato. Dal nostro punto di vista attuale, uno scritto pseudonimo equivale a

un plagio, più o meno, e pretendere di essere un’altra persona è reputato

altrettanto riprovevole che rubarne le idee e le parole. Non sempre fu così.

Scrive sotto il nome di un’antica e venerata figura fu spesso un atto di omaggio,

un tributo all’autorevolezza di un nome: così come, naturalmente, una strategia

al fine di rafforzare l’autorevolezza del proprio lavoro.

Uno dei segni più significativi della crescente fama dell’abate di Fiore è

costituto dal fatto che ben presto molti scritti pseudonimi gli furono attribuiti. Per

la gran parte della storia del Gioachimismo anch’essi fecero parte del canone

gioachimita. Gli studi storico-critici, che permettono agli studiosi della Bibbia di

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distinguere i differenti strati redazionali nel libro di Isaia, hanno consentito anche

ai medievisti di mettere a fuoco la distinzione tra le opere autentiche dell’abate

e gli scritti a lui attribuiti in seguito. Ma la storia della Bibbia guarda alla ricezione

di tutto il libro di Isaia, e non alla sua prima redazione. La determinazione su base

storica del contesto originario di qualsiasi testo (Sitz im Leben) rimane

fondamentale, ma non esaurisce il significato effettivo di un testo nella storia

successiva. Per questo motivo, la storia della ricezione (Rezeptionsgeschichte)

dell’abate calabrese è molto più della storia delle opera autentiche di

Gioacchino. Nella nostra ricerca è necessario includere la produzione, il

contenuto e la ricezione degli scritti pseudo-gioachimiti, al fine di acquisire un

quadro complessivo dell’impatto di Gioacchino.

In questa relazione introduttiva personalmente posso soltanto avanzare

alcune riflessioni su quei testi e sul loro significato, essendo consapevole dei limiti

in cui si imbatte qualsiasi ricostruzione generale, soprattutto in questo caso e in

questo momento. Le mie argomentazioni non si fondano su nuove ricerche

condotte personalmente su manoscritti, dal momento che dipendono dai

contributi di altri studiosi e da precedenti indagini da me condotte su questo

materiale: per tale motivo molte mie affermazioni hanno un carattere

provvisorio. Come ben sappiamo, i testi profetici medievali avevano un

carattere estremamente fluido, e venivano glossati, integrati e combinati con

altri passi allo scopo di mantenerli aggiornati malgrado il passare del tempo.

Questo processo di accrescimento costella la loro storia di interrogativi che

resistono agli sforzi persino dei più agguerriti editori di testi. Molti contributi che

ascolteremo nel prossimi giorni presenteranno delle novità concernenti queste

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opere. Per tale motivo personalmente non mi stupirei in maniera particolare, se

un certo numero delle osservazioni che farò fra poco dovranno essere

modificate oppure corrette sulla base di queste nuove ricerche. Niente di male

in tutto questo, dal momento che siamo tutti impegnati nella comune impresa di

determinare il significato dello “Pseudo Gioacchino” nella lunga storia

dell’apocalittica.

Un breve prospetto degli scritti pseudo-gioachimiti

Comincerò con il fornire una sorta di mappa generale del terreno,

distinguendo tre generazioni – o periodi – di produzione degli scritti pseudo-

gioachimiti. Non discuterò di opere come la Sibilla Erythea, due versioni della

quale furono elaborate negli anni Quaranta del Duecento, oppure del Liber

Horoscopus, risalente agli inizi del Quattordicesimo secolo, dal momento che

queste due profezie non furono attribuite all’abate calabrese, nonostante in

esse siano contenute molte tematiche tratte dalla tradizione gioachimita. Al

contrario, prenderò in considerazione opere come lo Introductorius in aeternum

evangelium, della metà del Tredicesimo secolo, e il Breviloquium, della metà del

Quattordicesimo secolo, in quanto pretendono di essere antologie degli scritti di

Gioacchino, dal momento che esse costituiscono interpretazioni, modificazioni e

sviluppi riferiti in maniera diretta agli scritti dell’abate.

La prima generazione degli scritti pseudo-gioachimiti si estende dalla

morte dell’abate nel 1202 [mille duecento due] all’incirca fino al 1235 [mille

duecento trenta cinque]. Il principale sforzo dei seguaci di Gioacchino

all’interno dell’Ordine florense (ivi compresi alcuni Cistercensi) subito dopo la sua

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morte fu di produrre una raccolta dei suoi scritti. Una siffatta iniziativa editoriale

includeva il Liber figurarum, che potrebbe essere descritto come “gioachimita”,

vale a dire in armonia con le concezioni autentiche dell’abate, piuttosto che

“gioachimitico”, nel senso di sviluppare idee e temi che prendevano spunto da

esse, ma in nuove direzioni. Al giorno d’oggi sarebbero in pochi a sostenere che

Gioacchino stesso abbia “confezionato” il Liber figurarum, vale a dire che egli

abbia raccolto in un unico manoscritto le figurae, da lui aveva elaborato per più

di due decenni. Piuttosto, gli stessi diagrammi che egli aveva lasciato dovettero

essere editati, probabilmente sviluppati e raccolti insieme dai suoi immediati

seguaci sotto la guida del suo successore, l’abate Matteo. I contorni e la

tempistica di un tale processo rimangono oscuri, malgrado le ricerche condotte

sul Liber nelle ultimi decenni. In questa sede non mi dilungherò sul Liber

Figurarum, ma vale la pena di riflettere sul fatto che una delle moderne chiavi

che introducono al pensiero dell’abate non è direttamente farina del suo sacco.

La complessità della storia delle opera autentiche o spurie di Gioacchino

nei primi decenni del secolo Tredicesimo può essere intesa dal breve testo un

tempo conosciuto come la Epistola subsequentium figurarum, che a lungo si è

ritenuto essere stata scritta dalla prima generazione gioachimitica, sino a

quando Stephan Wessley e Gian Luca Potestà hanno dimostrato che questa

opera, più propriamente denominata Genealogia, è in realtà un prodotto

precose, uscito dalla penna dell’abate intorno al 1176 [mille cento settantasei].

Infine, si deve menzionare il Liber contra Lombardum, che pare risalire al

1235 circa [mille duecento trentacinque] ed è unico nell’essere rivolto a

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difendere la teologia trinitaria di Gioacchino, una problematica ampiamente

ignorata dai successivi scritti pseudo-gioachimiti.

Il secondo periodo degli scritti gioachimitici va all’incirca dal 1235 [mille

duecento trentacinque] al 1270 [mille duecento settanta] ed è stato il più

produttivo, annoverando almeno sette trattati, tra brevi e lunghi, unitamente a

un certo numero di brevi profezie attribuite all’abate calabrese. La più popolare

fra le profezie brevi spesso ascritte a Gioacchino si incentra sull’anno 1260 [mille

duecento sessanta] come tempo della venuta dell’Anticristo:

Cum fuerint anni completi mille ducenti

Et decies seni post partum virginis alme,

Tunc Antichristus nascetur demone plenus.

Gran parte di tale produzione proviene dagli ambienti estremisti dell’Ordine

francescano, che iniziarono a interessarsi agli scritti dell’abate negli anni ’40 del

Duecento. Ciò non significa affatto che i Florensi e i Cistercensi avessero perso

interesse per Gioacchino. Spesso è difficile dire se un particolare testo abbia

avuto origine all’interno dell’Ordine di Gioacchino, oppure se sia stato prodotto

da “gioachimiti” francescani, in particolare per il fatto che talune opere furono

ripetutamente rielaborate e alla fine risultarono essere “francescanizzate” per

essere utilizzate nel contesto delle polemiche dell’epoca. Un altro aspetto

importante di questa seconda generazione, come è stato suggerito da Matthias

Kaup, riguarda il modificarsi del rapporto tra profezia biblica e peregrinae

prophetiae, così denominate da Gioacchino per indicare la loro estraneità al

canone biblico. Le opere maggiori di Gioacchino erano commenti biblici e, a

eccezione del trattato De prophetia ignota, da riportare ai suoi inizi, egli espresse

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un sospetto degno di Agostino nei confronti dell’utilizzazione di una profezia non

biblica.

Le tre opere più lunghe di questo periodo intermedio, il Super Hieremiam,

il De oneribus prophetarum, e la compilazione un tempo nota come il Super

Esaiam, sono fondamentalmente commenti scritturistici, malgrado includano

altri elementi. Altre opere della medesima generazione, peraltro si incentrano su

vaticinia non biblici, siano essi attribuiti al solo Gioacchino (ad esempio, la

Prophetia Abbatis Joachim…de Tribus Statibus Ecclesie), oppure a un gruppo di

autorità profetiche, come nel caso della Expositio Abbatis Joachimi super Sibillis

et Merlino. La confluenza dei tre grandi profeti extra-biblici in questo testo è

eloquente. La situazione in cui si trovava questa generazione intermedia sembra

avere indotto a una fascinazione nei confronti di profezie non-scritturistiche, che

divenne maggiormente pronunciata nell’ultimo periodo. Ad esempio, tale

interesse appare evidente nella costruzione di una lista di profeti (Gioacchino

compreso) da parte di Ruggero Bacone, secondo cui essi dovrebbero essere

studiati in modo tale da far sì che la Chiesa potesse meglio comprendere i segni

dei tempi.

Il “gioiello della corona” – per così dire – di questo secondo periodo è

rappresentato dal Super Hieremiam, che risulta tramandato in un numero

maggiore di manoscritti (almeno 27) [ventisette] e di edizioni rispetto a qualsiasi

opera autentica dell’abate. Nel 1859 [mille ottocento cinquanta nove] una tesi

di dottorato discussa a Tübingen da Karl Friderich aprì la stagione della critica

moderna negli studi su Gioacchino da Fiore, dimostrando che la versione di

questa opera stampata a Venezia nel 1516 [mille cinquecento sedici], così

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come l’edizione apparsa nel 1517 [mille cinquecento diciassette] dello Super

Esaiam, non potevano essere un’opera dello stesso Gioacchino. Per più di un

secolo gli studiosi di Gioacchino hanno accettato questa conclusione, nel

momento in cui si occupavano di determinarne il Sitz im Leben. Nel 1987 [mille

novecento ottanta sette] Robert Moynihan propose una nuova interpretazione,

sostenendo che il Super Hieremiam corrispondesse di fatto a un progetto

sviluppato in tre fasi: (primo) un nucleo centrale che potesse risalire allo stesso

Gioacchino, in quanto non vi sono contenuti vaticinia ex eventu che indichino

una data successiva all’anno 1200 [mille duecento]; (secondo) una sua

dilatazione, probabilmente basata su glosse incorporate in quel testo e

apparentemente derivate dai tentativi dei suoi primi seguaci, Florensi e/o

Cistercensi, di fare riferimento ad avvenimenti contemporanei; e infine (terzo) la

versione lunga del commento, in cui sono manifesti gli interesse dei Francescani

gioachimiti degli anni Quaranta del Duecento. Peraltro, Stephen Wessley non fu

affatto persuaso dalle argomentazioni di Moynihan a favore di un nucleo iniziale

autenticamente gioachimita e per il commento al profeta Geremia ha suggerito

un succedersi di interventi Florensi-Cistercensi e Francescani. L’intervento di Julia

Wannenmacher ci farà sapere qualche cosa di più sullo stato attuale delle

ricerche su questo importante testo.

Complicazioni analoghe riguardano il testo generalmente noto come

Super Esaiam, che invece nei manoscritti è chiamato Super prophetas, come

hanno mostrato le recenti ricerche di David Morris. Si tratta di un’opera

composita. Benché sia stato diffuso in un numero manoscritti inferiore a quello

del Super Hieremiam (secondo Morris 13 [tredici]) e stampato soltanto nel 1517

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[mille cinquecento diciassette], questo testo godette di una certa popolarità.

Esso consiste di quattro parti. In primo luogo, le Praemissiones, la raccolta di una

versione semplificata di figurae dell’abate, che si trova da sola in alcuni

manoscritti e anche unita ad altre prime edizioni a stampa di opere di

Gioacchino. La seconda parte della compilazione è un commento ai capitoli 1-

11 [uno-undici] di Isaia, che in seguito diede alla raccolta il suo nome. La terza e

la quarta parte consistono nei trattati De oneribus sexti temporis, e De septem

temporibus ecclesiae. Ancora una volta ci troviamo di fronte al problema della

datazione e dell’origine. Sino ad ora gli studiosi hanno considerato questa

compilazione come un prodotto dei Francescani gioachimiti risalente all’incirca

agli anni 1260-1265 [mille duecento sessanta – sessantacinque]. Sentiremo che

cosa ne pensa appunto David Morris.

Gli scritti più brevi di questo periodo intermedio non furono pubblicate a

stampa e le loro attestazioni nei manoscritti suggeriscono che furono molto

meno conosciuti. È possibile che il De oneribus prophetarum, un commento sulla

concordanza tra le calamità minacciate dai profeti del Vecchio Testamento e

gli avvenimenti italiani della metà del secolo, dati dagli anni Cinquanta del

Duecento. È attestato in otto manoscritti e fu edito da O[swald] Holder-Egger

nel 1908 [mille novecento otto]. La Expositio Abbatis Joachimi super Sibillis et

Merlino, di cui esistono sia una versione lunga sia una breve, si trova in almeno

una dozzina di manoscritti, ma non ha sinora trovato un editore moderno. Può

essere datata tra 1245 [mille duecento quaranta cinque] e 1250 [mille duecento

cinquanta]. L’accostamento dei tre maggiori profeti non biblici – la Sibilla,

Merlino e Gioacchino – mette in luce la preoccupazione di combinare fra loro

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autorità profetiche, un atteggiamento crescente nella seconda metà del

Tredicesimo secolo. Questo secondo periodo vide anche nel 1254 [mille

duecento cinquanta quattro] la pubblicazione del Liber introductorius in

evangelium aeternum di Gerardo da Borgo San Donnino, una serie di estratti e

di commenti ricavati dai tre maggiori scritti dell’abate. Nel 1255 [mille duecento

cinquanta cinque] la Commissione di Anagni, che condannò quell’opera, la

mise a confronto con i «testi originali di Gioacchino provenienti dal monastero di

Fiore», rilevando che i passi del Liber introductorius corrispondevano in larga

misura alle parole di Gioacchino, ma anche che l’abate era stato meno chiaro

nell’identificare l’anno 1260 [mille duecento sessanta] con l’inizio del terzo status.

Nella seconda generazione di autori pseudo-gioachimiti si assistette a un ruolo

crescente dei Francescani, e non esattamente frati appartenenti a frange

disamorate dell’Ordine. Al tempo del generalato di Giovanni da Parma (1247-

57) [mille duecento quaranta sette – cinquanta sette] il profetismo gioachimita

era arrivato a coinvolgere ampiamente l’Ordine ai suoi massimi livelli.

Se si esclude il Breviloquium, prodotto in Spagna nel 1351 [mille trecento

cinquantuno], la terza generazione di scrittori pseudo-gioachimiti rappresentò

ancora una volta un fenomeno italiano, che si produsse all’incirca fra 1280 [mille

duecento ottanta] e 1330 [mille trecento trenta]. In questo ambito si trovano

principalmente tre testi – o meglio: tradizioni testuali. La più importante è

costituita dai Vaticinia de summis pontificibus, come sono comunemente

chiamati al giorno d’oggi. Si trattava di uno scritto di un nuovo tipo, che fu

influente per secoli (anche se i tentativi più recenti di determinare il presente e il

futuro dei papi fanno in genere riferimento alla “profezia di Malachia”, risalente

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al secolo Sedicesimo, piuttosto che alle predizioni attribuite a Gioacchino). La

storia di questi Vaticinia, una combinazione di immagine, motto e breve

predizione (in seguito di furono aggiunti commenti), ha attirato l’attenzione

molto più di qualsiasi altra opera attribuita all’abate.

A quanto pare è possibile individuare almeno cinque fasi nell’evoluzione

dei Vaticinia, per quanto la rispettiva datazione e le reciproche relazioni di tali

fasi talvolta non siano ancora del tutto chiare. Nella prima fase si colloca un

oracolo filo-imperiale in lingua greca, attribuito a un imperatore del secolo

Decimo, Leone VI [sesto], ma che probabilmente è una creazione in lingua

greca del secolo Tredicesimo, per la quale furono utilizzati materiali precedenti.

Verso la fine del secolo Tredicesimo (più o meno intorno al 1285) [mille duecento

ottanta cinque] alcune di queste profezie (da 6 [sei] a 8 [otto]) furono trasposte

in latino per attaccare i cardinali Orsini, come ha dimostrato Andreas Rehberg.

Questa profezia politica risulta essere stata opera dei sostenitori della fazione dei

Colonna all’interno della curia romana. La terza fase coincise con l’evolversi in

una raccolta di quindici predizioni, in parte basate su quelle profezie relative a

cardinali, ma con l’inclusione di altri materiali. Questi vaticinia ex eventu

predicevano l’avvento di una serie di papi, da Nicolò Terzo a Benedetto

Undicesimo, sottolineando il ruolo del quinto nella serie, identificato con

Celestino Quinto. Si concludevano con una serie di immagini – dall’undicesima

alla quindicesima – che sembravano prospettare un ritorno di Celestini nelle vesti

di un santo papa risorto. Questa combinazione di motti, immagini e brevi

spiegazioni, denominata Genus nequam dal suo incipit, è attestata in nove

manoscritti e fu messa in circolazione a partire dal 1304 [mille trecento quattro],

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anche se le differenti fasi di questa evoluzione possono essere retrodatate

almeno di un decennio e sono comunque oggetto di discussione. In realtà

Genus nequam non risulta essere stata composta come un pezzo pseudo-

gioachimita. Solo uno dei manoscritti lo attribuisce all’abate, e prime attestazioni

lo collocano sotto il nome di Merlino oppure di un Rabanus anglicus altrimenti

ignoto. Ciò-non-di-meno a partire dal secondo decennio del secolo

Quattordicesimo il Francescano Spirituale Bernard Delicieux e altri lo ascrissero a

Gioacchino e tale attribuzione gli rimase attaccata.

La raccolta, peraltro, risultò presto non più attuale, aprendo la strada a

una quarta fase quando, intono al 1330 [mille trecento trenta] i Fraticelli italiani

composero una seconda serie di quindici profezie (il cui incipit è Ascende

calve), allo scopo di aggiornarla con i ritratti di papi recenti, in termini

generalmente negativi. Questo gruppo si conclude con la figura di un Papa-

Anticristo, rappresentato come un dragone dalla testa umana, con il motto

Terribilis es, quis resistet tibi? (Ps. 75:8). È degno di nota il fatto che questi prodotti

francescani della terza generazione di scrittori pseudo-gioachimiti non

provenivano più da personaggi al vertice dell’Ordine oppure dalla loro cerchia

immediata, ma da religiosi reietti e rinnegati, che furono perseguitati,

imprigionati e persino messi a morte. L’ultima fase dell’evoluzione dei Vaticinia,

al di là dell’ambito temporale del mio intervento, ebbe luogo al tempo del

Concilio di Costanza (intorno agli anni 1415 -17) [mille quattrocento quindici –

diciassette], quando alcuni polemisti misero insieme le due raccolte, mettendo

la seconda avanti alla prima. Era questa l’immagine relativa al passato e al

futuro del papato, confondente ma popolare, che Michel de Montaigne

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avrebbe voluto vedere: se così fosse stato, probabilmente le sue idee a

proposito dell’utilità dei pronostici non sarebbero state modificate.

L’ Oraculum Cyrilli, un altro testo composito, a sua volta incentra le sue

predizioni sull’avvento di uno o più santi papi. Secondo la leggenda, durante la

celebrazione della messa un angelo avrebbe consegnato Cirillo del Monte

Carmelo una rivelazione scritta su due tavolette d’argento. Intrigato dalla loro

oscurità (il che, almeno in parte, è vero), Cirillo le mandò a Gioacchino per

averne delucidazioni. L’oracolo originario potrebbe essere stato scritto alla fine

degli anni Novanta del Duecento, allo scopo di difendere il francescano

gioachimita Pietro di Giovanni Olivi (morto nel 1297) [mille duecento novanta

sette]: il commento pseudo-gioachimita è in attesa di ricerche più approfondite.

L’Oraculum e il suo commento furono popolari, attestati da almeno sedici

manoscritti e due antiche edizioni a stampa (Venezia 1516 [mille cinquecento

sedici] e Lione 1663 [mille seicento sessanta tre]), prima dell’edizione moderna di

Paul Piur nel 1912 [mille novecento dodici].

L’ultimo testo di questo periodo è il Liber de Flore, il cui titolo completo è

Liber Joachim de Flore de summis pontificibus. Questo testo, che sopravvive in

circa quattordici manoscritti e due versioni (la prima databile all’incirca al 1300-

1303) [mille trecento – trecento tre], fu anch’esso un prodotto degli Spirituali

Francescani e mostra la loro fissazione a proposito del papato dopo

l’abdicazione e la morte di Celestino Quinto. Vi si predice un’imminente serie di

pastores angelici (è la prima volta che questa espressione viene utilizzata), che

collaboreranno con un ultimo imperatore, francese, nel dare inizio a un era

millenaria. Malgrado la sua circolazione relativamente limitata, egli aprì la porta

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a un importante capitolo nella storia dell’influenza di Gioacchino sulla profezia

politica, orientate in senso filo-francese. In tale ambito ebbero un particolare

sviluppo l’attesa dell’avvento di papi santi da parte dei Gioachimiti e

l’assunzione da parte francese della profezia dell’Ultimo Imperatore.

Perché queste opera, vuoi popolari vuoi oscure, furono prodotte? Perché

i loro autori/compilatori vollero metterle sotto il nome di Gioacchino? In che

misura il loro pensiero si ricollega a Gioacchino? Quanto hanno contribuito alla

storia della attese apocalittiche. Sono domande a cui non è possibile rispondere

esaustivamente in questa sede. Mi limiterò ad avanzare alcune osservazioni.

Lo Pseudo-Gioacchino: Contesti e contenuti

Se ci domandiamo: “Perché Gioacchino?”, di necessità la prima risposta

è ovvia: Gioacchino era il più grande autentico profeta che avesse vissuto nel

medioevo. Ovviamente Gioacchino non si considerava un profeta nel senso di

avere ricevuto una rivelazione speciale a proposito di quanto doveva avvenire

in futuro, ma aveva sempre insistito sul fatto di avere ricevuto la grazia del

donum intellectus, che gli aveva conferito una intelligentia spiritualis del modo in

cui la Bibbia rivela la struttura complessiva e i dettagli degli eventi, passati,

presenti e a venire. Ciò-non-di-meno l’abate non esitò a esporre il suo pensiero a

proposito del futuro, anche se lo fece spesso con precisazioni che i suoi seguaci

ignorarono Alcuni aneddoti relativi alla sua persona mostrano che, persino

durante la sua stessa vita, egli era considerato in grado di predire gli eventi futuri

per un’ispirazione divina. A stento ci si può sorprendere che una reputazione

siffatta abbia continuato ad accrescersi dopo la sua morte. Nelle liturgia

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florense, in un’antifona per i Vesperi nella festa di Gioacchino lo mette in

evidenza:

«Beatus Joachim, spiritu dotato prophetico, decoratus intelligentia, errore procul

haeretico, dixit futura praesentia.»

A mio parere, l’avveramento di una delle principali predizioni dell’abate fu la

principale ragione del crescere di tale convinzione: vale a dire, il suo annuncio

dell’avvento di due ordini di viri spirituales. A prescindere dalle differenze tra la

concezione dell’abate di “uomini spirituali” e la realtà storica degli ordini

mendicanti, Francescani e Domenicani, nel Tredicesimo secolo, per molti frati

sarebbe stato difficile non vedere in Gioacchino un proprio speciale profeta,

come dimostra la lettera enciclica Salvator saeculi, che Humbert de Romans e

Giovanni da Parma sottoscrissero congiuntamente nel 1255 [mille duecento

cinquanta cinque]. Persino uno scettico come Tommaso d’Aquino ammise che

a volte Gioacchino da Fiore ci aveva azzeccato, anche se unicamente sulla

base di congetture umane. È probabile che Tommaso avesse in mente il

pronostico relativo al suo Ordine.

Però, se Gioacchino divenne famoso sulla base di una profezia rivelatasi esatta,

quanto altri aspetti del suo messaggio apparivano ancora rilevanti e quanto

abbisognavano di essere integrati? A questo punto si affaccia la questione dello

“Pseudo Gioacchino”.

Credenze e scritti apocalittici sono spesso presentati come una risposta a

una crisi, ad esempio una persecuzione oppure una catastrofe naturale. Ciò è

vero soltanto in parte. Come mezzo per conferire senso alla storia e al suo

significato ultimo l’apocalittica rappresenta una risposta non soltanto alle crisi

Page 18: The Riddles of Pseudo-Joachim

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ma anche alle occasioni che si presentano: sia le une sia le altre sono sotto gli

occhi dello spettatore, vale a dire di colui il quale scruta i segni dei tempi. Eventi

negativi che noi giudichiamo di maggior impatto, come la Peste Nera, possono

avere avuto un’influenza su credenze e scritti apocalittici, ma spesso non hanno

affatto cambiato le regole del gioco, per così dire. Al contrario, episodi che

sembrano relativamente di minore importanza, come l’abdicazione di un oscuro

papa Celestino Quinto, possono contribuire alla creazione di un paradigma

completamente nuovo: la leggenda dell’avvento di un pastor angelicus.

Dunque non ci si dovrebbe sorprendere che gli avvenimenti che fornirono il

contesto alla produzione pseudo-gioachimita fossero allo stesso tempo sia

grandi sia piccoli, sia sconvolgenti sia privi di conseguenze. Non ho la possibilità

di discutere tutti gli aspetti del pensiero dell’abate che furono ripresi e adattati

dai suoi seguaci, come appunto la sua trattazione dell’Anticristo. Mi

concentrerò invece su tre principali tematiche proprie di Gioacchino, che si

dimostrarono capaci di grandi sviluppi nel corso del Tredicesimo secolo, in

quanto che rispondevano così bene ai problemi del momento. La prima fu lo

sforzo di attuare la migliore forma di vita religiosa. La seconda fu il tentativo di

dare un senso alla storia nel pieno dei conflitti dinastici che turbavano l’Italia nel

corso del Tredicesimo secolo. La terza fu il dibattito sulla natura del papato. Tutte

queste tematiche hanno un’eco nel pensiero autentico dell’abate calabrese,

ma furono ampliate, sviluppate e a volte radicalmente modificate da uno

Pseudo-Gioacchino.

Le previsioni di Gioacchino a proposito dei viri spirituales erano parte

integrale della sua visione di un’importanza meta-storica della più alta forma di

Page 19: The Riddles of Pseudo-Joachim

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ordo monasticus, da realizzarsi nel terzo status. Gli Ordini mendicanti colsero

nella sua speranza un importante risvolto della propria identità. Tale fascinazione

fu prevalente piuttosto tra i Francescani che tra i Domenicani: vale a dire, tra le

“colombe” piuttosto che tra i “corvi”, nei termini dello Super Hieremiam. Ciò-

non-di-meno alcuni Domenicani furono attratti dalle profezie gioachimite, allo

stesso modo in cui lo furono in seguito altri Ordini religiosi, come gli Agostiniani e i

Gesuiti. Il coinvolgimento degli Ordini religiosi, e in particolare dei Francescani, è

della massima importanza, dal momento che la produzione di letteratura

apocalittica rimase un’occupazione prevalentemente chiericale durante il

Tredicesimo secolo.

L’immaginazione apocalittica cerca di dare un senso al tumulto della

storia, non da ultimo in tempi di rapido cambiamento. Uno dei modi principali

per fu la creazione di schemi per le età del mondo, enumerazioni che erano

ritenute essere state rivelate da Dio, vuoi nella Bibbia vuoi in rivelazioni

successive. Gioacchino era un maestro nel calcolare tali periodi, producendo

schemi assai complessi di età, basati sui numeri due, tre, sette e dodici, così

come le combinazioni di cinque e sette, e sulla enumerazione di generazioni, in

particolare quarantadue e centocinquanta/ cento cinquanta tre. L’innovazione

dell’abate maggiormente percepita, la nozione di tre grandi status della storia,

ascritti al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, era ricollegata alle sue predizioni

dell’imminenza del terzo status. Benché egli abbia espresso questa speranza con

una certa cautela, era facile leggerlo come se dicesse che il grande

cambiamento non avrebbe avuto luogo più tardi del 1260 [mille duecento

sessanta]. Di conseguenza alcuni testi del medio periodo dello Pseudo

Page 20: The Riddles of Pseudo-Joachim

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Gioacchino, come il Super Hieremiam, includono un robusto insegnamento sulla

concezione dei tre status della storia. Non sorprende che una siffatta

speculazione sia scemata dopo il 1260 [mille duecento sessanta]. Pochi tra gli

Pseudo Gioacchino che seguirono, ad eccezione del Breviloquium, prestarono

grande attenzione all’enumerazione delle età della storia. Tra i lettori

francescani dell’abate, che è possibile identificare, come Bonaventura da

Bagnoregio e Pietro di Giovanni Olivi, l’attenzione si spostò sullo sviluppo dello

schema di un doppio settenario, proprio di Gioacchino: vale a dire le

concordanze tra il tempo della Vecchia e della Nuova legge - anche se Olivi

faceva sue le speranze nell’avvento di una terza età.

Gioacchino spesso identificava le età della storia in relazione ai

governanti, vuoi quelli descritti nel Vecchio Testamento vuoi i re e gli imperatori

noti della storia cristiana. Almeno nel secondo status i governanti, all’interno e al

di fuori della Cristianità, hanno un ruolo principalmente negativo, come flagelli

mandati da Dio per mettere alla prova e purificare i fedeli, in particolare

durante le ultime generazioni del secondo status. Gioacchino non nutriva alcun

interesse per le visioni apocalittiche, di carattere positivo, relative al ruolo

dell’imperatore, che per almeno cinque secoli erano andate sviluppandosi sia in

Oriente sia in Occidente. Nessun Ultimo Imperatore del Mondo per lui! Eppure, le

lotte politiche e dinastiche che devastarono la penisola italiana durante tutto il

Tredicesimo secolo non soltanto fornirono l’occasione per ampliare la visione

negativa che Gioacchino aveva del potere secolare, ma indussero alcuni dei

suoi seguaci a domandarsi se con questo si esaurisse la .storia.

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Potenti imperatori non hanno un ruolo positivo? Le lotte dinastiche

costituiscono una caratteristica-chiave nelle profezie dello Pseudo Gioacchino,

cominciando dalle guerre tra Federico Secondo e il papato e i suoi alleati,

proseguendo con i conflitti tra gli eredi di Federico e gli Angioini negli anni

Cinquanta e Sessanta del Duecento, e arrivando alle dispute tra Angioini e

Aragonesi alla fine del secolo. Gli scritti gioachimitici della seconda generazione

svilupparono in maniera significativa la visione negativa che l’abate aveva del

ruolo dell’imperatore, concentrandosi su Federico II come l’Anticristo atteso, la

cui malvagità si sarebbe pienamente manifestata durante il passaggio al terzo

status nell’anno1260 [mille duecento sessanta] . L’inattesa morte di Federico nel

1250 [mille duecento cinquanta] sconvolse questo scenario, e il fatto che i suoi

discendenti continuassero a lottare per il suo patrimonio fece sì che il mantello

dell’Anticristo passasse sulle loro spalle. Ahimè! Il trascorrere della temuta data

del 1260 [mille duecento sessanta] pose fine a molte di queste attese. Lo

possiamo vedere dal racconto di un disilluso gioachimita francescano,

Salimbene da Parma. Nel 1264 [mille duecento sessantaquattro], mentre si

trovava in un convento a Ravenna, a Salimbene fu chiesto da un confratello se

egli era stato gioachimita. Egli rispose: “Tu dici la verità, ma dopo la morte

dell’imperatore Federico e il trascorrere dell’anno 1260 [mille duecento sessanta]

ho completamente abbandonato quell’insegnamento e mi propongo di

credere soltanto a quello che vedo”. Il tentativo di ridatare al 1290 [mille

duecento novanta] l’anno di transizione al terzo status, vale a dire a quaranta

generazioni di distanza dalla Passione di Cristo, piuttosto che dalla sua Natività,

era una tattica dilatoria che presto perse di utilità.

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Peraltro una necessità, profondamente radicata, di attribuire un ruolo

all’imperatore negli ultimi avvenimenti iniziò gradualmente a fare spazio a un

buon imperatore che si opponesse a un malvagio governante anticristiano.

Queste speranze si fissarono sulla monarchia francese, che emergeva come la

più forte potenza nell’Europa dell’ultima parte del Tredicesimo secolo. Malgrado

Gioacchino avesse escluso un ruolo positivo per i governanti nel suo scenario

apocalittico, possiamo rilevare l’iniziale emergere di tradizioni imperiali

gioachimitiche nei testi degli anni Cinquanta e Sessanta del Duecento, quando i

propagandisti papali furono lesti nell’esaltare gli Angioini loro alleati attribuendo

loro un ruolo nell’imminente trionfo sulle forze dell’Anticristo (leggi: i discendenti

di Federico) e nel rinnovamento della Chiesa. Un nuovo capitolo nella storica

dell’apocalittica tardo medievale fu aperto a partire dagli inizi del

Quattordicesimo secolo, quando nel Liber de Flore – e altrove – sotto il nome di

Gioacchino fu delineato uno scenario completo nei dettagli della

collaborazione nei tempi finali tra un Ultimo Imperatore francese e uno o più

Papi Santi.

Il terzo contesto è papale. Gioacchino aveva meditato sul ruolo di papi

buoni e cattivi negli ultimi giorni del secondo status ed era arrivato a sperare in

un novus dux papale nel tempo del passaggio al terzo status. Le sue concezioni

relative al futuro del papato, in particolare nella forma in cui furono espresse

tardivamente nei Tractatus super quatuor evangelia, non sono sempre chiare e

sono state oggetto di interpretazioni divergenti. Nella seconda metà del

Tredicesimo secolo erano crescenti i timori a proposito di un carattere “anti-

cristiano” dei papi in carica, ritenuti “politici”, ed incoraggiavano le speranze

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nell’avvento di papi santi che avrebbero riformato il papato, assunto un ruolo

meno attivo in una politica di potere, e costituito un modello di santità. Un certo

numero di scrittori, attivi tra la metà e la fine del Tredicesimo secolo, come gli

autori del Super Hieremiam, Salimbene da Parma e Ruggero Bacone, furono

affascinati dall’aspettativa nell’avvento di un papa santo. Il contesto e gli

sviluppi di tali speranze devono essere ulteriormente indagati, ma non è possibile

farlo in questa sede. La politica di potere dei papi regnanti nel corso del

Tredicesimo secolo diede vita a una difficile situazione, una sorta di gioco senza

né vinti né vincitori, nel senso che più i vescovi di Roma si intromettevano, con

maggiore o minore successo, nelle dispute locali, in Italia e in Europa, tanto

meno assomigliavano ai santi pastori del gregge di san Pietro. A quanto pare

molti credenti si trovavano a loro agio in questa situazione: altri invece no. Nella

misura in cui i papi apparvero sempre più interessati alla politica, più forti si

fecero le speranze in un cambiamento radicale nelle persone dei papi, se non

forse dell’intero sistema [delle istituzioni ecclesiastiche]. All’incirca fra 1280 [mille

duecento ottanta] e 1305 [mille trecento cinque] ciò favorì l’emergere di una

vera e propria leggenda del pastor angelicus. Un fattore-chiave fu costituito dal

contrasto tra il santo eremita Pietro del Morrone, eletto papa con il nome di

Celestino Quinto, dopo un lungo conclave, e il suo successore, il potente,

intransigente ed estremamente politico Bonifacio Ottavo (1294-1303) [mille

duecento novanta quattro – mille trecento tre]. A partire dai primi anni del

Quattordicesimo secolo era venuto alla luce uno dei più potenti contributi

all’apocalittica tardo medievale da parte di uno Pseudo Gioacchino: la profezia

dell’avvento di uno o più papi santi, i quali, in collaborazione con l’Ultimo

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Imperatore, avrebbero sconfitto l’Anticristo, riformato la Chiesa, convertito il

mondo e governato in un’età millenaria prima dell’Ultimo Giudizio.

Se molti dei temi sviluppati da uno Pseudo Gioacchino avevano le loro

radici nelle opera autentiche dell’abate calabrese, benché di necessità

ampliati e adattati, e se altri, come le tradizioni concernenti l’Ultimo Imperatore,

erano in contrasto con le concezioni di Gioacchino ma erano stati incorporati

nella tradizione gioachimitica, per delineare un quadro generale del passaggio

da Gioacchino da Fiore allo Pseudo Gioacchino è inoltre necessario prestare un

poco di attenzione ad alcuni importanti aspetti del pensiero dell’abate, che

sembrano essere stato ampiamente trascurati ovvero dimenticati da quanto

scrissero nel suo nome. Anche in questo caso ne menzionerò soltanto tre. Essi

sono però temi centrali per Gioacchino: il suo insegnamento sulla Trinità; la sua

comprensione della intelligentia spirituale della Bibbia; il suo misticismo.

I moderni teologi sono arrivati a riconoscere l’originalità della teologia

trinitaria di Gioacchino, non soltanto nella sua intuizione fondamentale di

iscrivere l’azione delle tre persone nella struttura della storia attraverso le due

diffinitiones, gli schemi dell’Alpha e dell’Omega, ma anche in molti dettagli di

tale intuizione, come la sua teoria delle missioni divine e la sua volontà di

presentare la Trinità per mezzo di figurae. L’attacco di Gioacchino contro la

teologia trinitaria di Pietro Lombardo attesta che si trattava di un argomento

controverso. La condanna delle concezioni di Gioacchino, contenuto nel

decreto Damnamus di Quarto concilio del Laterano (un decreto che gli

risparmiò una condanna personale come eretico), comportava che l’abate era

destinato a restare sospetto per quasi tutti i teologi scolastici, anche per quanti

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silenziosamente facevano ricorso al suo pensiero. Le prime cerchie gioachimite,

tra i Florensi e i Cistercensi, si opposero a questa condanna e, come dimostra il

Liber contra Lombardum, tentarono di mettere in atto una difesa. Opporsi a un

decreto conciliare, peraltro, era futile e persino pericoloso nel lungo periodo. Si

capisce dunque perché lo Pseudo Gioacchino in larga misura abbandonò il

Trinitarismo dell’abate.

Più sorprendente è invece la frammentaria ricezione della ricca teoria

ermeneutica dell’abate. Nella prima edizione di The Study of the Bible in the

Middle Ages (1940) [pubblicato nel mille novecento quaranta] Beryl Smalley

liquidò l’esegesi di Gioacchino da Fiore come rappresentante di “un attacco di

demenza senile” nell’ambito dell’antica tradizione di esegesi spirituale della

Bibbia, anche se con signorilità ridimensionò le sue espressioni nella prefazione

alla terza edizione del proprio libro. Da allora una lunga strada è stata percorsa.

Un crescente numero di studi sulla teoria e sulla pratica esegetica dell’abate lo

hanno messo in luce come una delle menti esegetiche più creative del

medioevo. Come accade nel caso della enumerazione delle età del mondo,

Gioacchino delinea una varietà di descrizioni dei sensi della Scrittura – tre sensi,

quattro sensi, cinque sensi, sette sensi, dodici sensi, e persino quindici sensi nello

Psalterium decem cordarum. Il groviglio di queste variazioni per i sensi biblici, allo

stesso modo delle interpretazioni – spesso tediose – di passi per tutta la Bibbia,

non deve oscurare ai nostri occhi la finalità complessiva della sua esegesi e della

sua concezione del significato della storia: la crescita della intelligentia spiritualis,

cioè la più profonda comprensione del ruolo della Trinità nella storia e nella vita

comunitaria della Chiesa, data dallo Spirito. Gioacchino stesso ci racconta in

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qual modo la concordia del Vecchio e del Nuovo Testamento gli sia stata

rivelata nella sua visione di Pasqua a Casamari. Le concordanze, peraltro,

appartengono al significato letterale della Bibbia. Esse costituiscono il

fondamento necessario della comprensione spirituale, ma non la esauriscono.

Gioacchino inoltre afferma che la visione pasquale gli rivelò la plenitudo

dell’Apocalisse, vale a dire l’intimo significato spirituale dell’intera Bibbia. Quelli

che Gioacchino denominava come gli svariati generi di intellectus

contemplativus (Expos., 173r), oppure di intelligentia allegorica sive

contemplativa (Expos., 26r, 115r), erano necessari per scolpire il significato della

storia sacra nell’anima del credente e nella vita del futuro novus ordo pertinens

ad tertium statum di contemplativi, come denominato in una famosa figura.

Benché un certo numero di opere pseudo-gioachimite abbia fatto ricorso alle

concordanze di Gioacchino, a quanto pare la ricchezza della sua teoria sulla

intelligentia spiritualis non fu compresa opppure fu trascurata dalla maggior

parte dei suoi seguaci. L’esegesi di Gioacchino rimane un unicum: a volte

imitata e parodiata, mai realmente compresa.

Tutto ciò ci conduce all’ultimo punto della mie considerazioni. Come

messo in evidenza per primo da Ernesto Buonaiuti, Gioacchino da Fiore era un

mistico, sia pure di un tipo inconsueto, sia a motivo della sua nozione di

misticismo sociale (la vita associata per Buonaiuti), sia – a mio parere – per

avere ricollegato due filoni gemelli risalenti alle origini del Cristianesimo –

l’apocalittico e il mistico – che erano stati separati nella Chiesa primitiva nel

corso del secondo e del terzo secolo. Non è il momento per reiterare le

argomentazioni per sostenere che la concezione di Gioacchino di una

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crescente intelligentia spiritualis implica una trasformazione mistica, che è

progressiva, condivisa e imminente. Non posso poi occuparmi di un’altra

questione: in che misura Gioacchino pensava che una tale trasformazione

condivisa sarebbe stata universale nel tertius status, oppure limitata soltanto alla

comunità del novus ordo. Le speranze di Gioacchino fanno capolino, sia pure in

una forma “francescanizzata”, negli scritti di Bonaventura da Bagnoregio e di

Pietro di Giovanni Olivi, mentre non ne trovo tracce significative nelle profezie

pseudo-gioachimitiche. Benché uno Pseudo Gioacchino predíca spesso

l’avvento di tempi migliori, le sue profezie sono incastonate in contesti politici

esterni: la sconfitta dei nemici della Cristianità, la pace tra papa e imperatore, la

riforma istituzionale della Chiesa. La dimensione mistica del messaggio di

Gioacchino sembra essere andata persa per strada.

Conclusioni

Ho sostenuto che lo Pseudo Gioacchino costituisce una parte vitale della

storia della ricezione dell’abate calabrese. Ho anche discusso con quali

modalità i seguaci di Gioacchino abbiano sviluppato alcune delle maggiori

tematiche dei suoi scritti autentici, spesso però trascurandone altre. Vista come

un fenomeno storico, la storia dello Pseudo Gioacchino è affascinante: un

rompicapo, o meglio, una serie di rompicapo. Nella prospettiva della storia della

teologia, peraltro, a mio parere lo Pseudo Gioacchino suscita un’impressione

molto contenuta. Gioacchino fu un teologo di grande originalità. Ancora oggi le

sue complesse teorie sull’esegesi, sulla natura della storia e sulla Trinità ispirano

serie riflessioni teologiche. Nel 1964 [mille novecento sessanta quattro] il giovane

Jürgen Moltmann scrisse una lettera all’anziano Karl Barth.Vi proclamava:

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“Gioacchino è più vivo di Agostino”. Non è necessario essere d’accordo con

Moltmann – a mio parere sia Gioacchino sia Agostino sono piuttosto “vivi”. Il

fatto è che Gioacchino resta un interlocutore della teologia contemporanea,

che lo si voglia elogiare come Moltann oppure attaccare come Henri de Lubac.

Non è la stessa cosa con lo Pseudo Gioacchino. Gioacchino aveva intuizioni

che continuano a essere fonte di ispirazione. Lo Pseudo Gioacchino annoverava

una serie di programmi politico-ecclesiastici che attraggono la curiosità dal

punto di vista storico. Il Gioacchino politico ha trionfato sul Gioacchino spirituale.

In tal senso la ricerca storico-critica sull’abate iniziata più di un secolo e mezzo fa

aveva ragione: è nel Gioacchino autentico che si può ancora ritrovare una

sapienza teologica in grado di essere un contributo al nostro nuovo millennio.