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24 TESTIMONIANZE IL GENOCIDIO IN CAMBOGIA * Il Centro di documentazione della Cambogia (DC-Cam, Documentation Center of Cambodia) è sorto sulla base del Cambodian Genocide Justice Act approvato dal congresso statunitense nell’aprile 1994. Tale legislazione istituì, presso l’Ufficio per gli affari dell’Asia orientale e del Pacifico del Dipartimento di stato americano, l’Ufficio per le indagini sul genocidio cambogiano (Office of Cambodian Genocide Investigations), incaricato di indagare sulle atrocità del regime dei khmer rossi (1975- 1979). Nel dicembre 1994 l’ufficio stanziò i finanziamenti che consentirono la creazione di un programma accademico, il Cambodian Genocide Program (CGP) presso la Yale University, che si occupasse di ricerche, formazione e documentazione sul regime dei khmer rossi, al fine di raccogliere prove per determinare se e in che misura il governo della Kampuchea democratica avesse violato le norme penali internazionali contro il genocidio, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. Tra gli obiettivi principali del CGP; diretto da Ben Kiernan: 1) preparare un indice e una valutazione ragionata della documentazione, 2) intraprendere un’indagine storiografica, 3) offrire formazione giuridica. In vista di tali obiettivi nel gennaio 1995 il CGP creò il DC-Cam come filiale “sul campo” a Phnom Penh, affidato alla guida di Youk Chhang, un sopravvissuto dei campi di sterminio. Nel gennaio 1997 il DC-Cam divenne un istituto di ricerca indipendente cambogiano (non governativo e no profit) e da allora continua la sua intensa attività di ricerca e documentazione. Le testimonianze che seguono provengono dal suo archivio. Come sono riuscito a sopravvivere ai khmer rossi? di Youk Chhang È questa la domanda più frequente che i giornalisti mi hanno rivolto nei dieci anni in cui ho lavorato per il Centro di documentazione della Cambogia. Negli ultimi tempi, con l’avvicinarsi del trentesimo anniversario * Tratte dal sito del Centro di documentazione della Cambogia (www.dccam.org), traduzione dall’inglese di Teresa Albanese. della presa del potere da parte dei khmer rossi, mi è capitato spesso di pensare alla risposta. Il 17 aprile 1975 avevo quattordici anni. Mio padre era un architetto, in seguito arruolato nell’esercito di Lon Nol. Anche se all’inizio degli anni settanta stavamo meglio di tanti altri, i prezzi salivano di giorno in giorno e quindi dovevamo usare una certa cautela visto l’esiguo salario di mio padre. Tra l’altro diversi nostri parenti si erano trasferiti da noi a Phnom Penh per evitare la guerriglia nelle campagne. A casa nostra, ogni banana, ogni chicco di riso erano razionati. I miei erano sempre preoccupati che accadesse qualcosa di brutto alle mie sorelle, e dedicavano gran parte della loro attenzione a proteggerle. E la mia scuola chiudeva quasi ogni settimana. Per via di tutto ciò, imparai a fare molte cose da solo (per esempio, costruirmi gli aquiloni con la carta da giornale) e a stare per conto mio. In qualche modo diventare autosufficiente contribuì a prepararmi per la vita sotto i khmer rossi. Quando i khmer rossi cominciarono a evacuare Phnom Penh, ero a casa da solo; mia madre e un altro membro della famiglia erano partiti il giorno prima per un luogo più sicuro, dicendo che sarebbero tornati a prendermi. Ma le strade erano bloccate e il 18 aprile i khmer rossi mi dissero che dovevo andarmene. Uscii di casa, ma non avevo idea di dove andare perché il nostro quartiere era completamente abbandonato. Così cominciai a camminare. Lungo la strada sentii alcune persone dire che tornavano alloro villaggio natale, per cui decisi di dirigermi verso il paese di mia madre, nella provincia di Takeo. Visto che non avevo da mangiare, chiesi ai soldati dei khmer rossi di darmi qualcosa e loro mi diedero qualche biscotto di zucchero di palma. Dopo qualche settimana di cammino arrivai al villaggio. Nel frattempo mia madre aveva cercato di varcare il confine ed entrare in Vietnam, ma era stata fermata. Circa quattro mesi dopo, arrivò anche lei al villaggio e potemmo riabbracciarci. In seguito, la mia famiglia fu evacuata nella provincia di Battambang. Qualche mese dopo il trasloco, fui separato da loro e mandato a scavare canali in un’unità mobile di adolescenti. Per quasi un anno, di notte riuscivo a fare una capatina a casa per vedere la mia famiglia, ma più tardi la nostra unità cominciò a lavorare troppo lontano. Ero sempre più isolato, e mi sentivo più solo che mai. Da ragazzino di città, non avevo molte risorse di sopravvivenza, ma la fame può insegnarti un sacco di cose. Per esempio imparai a nuotare, così riuscivo a tuffarmi e a tagliare le dolci canne da zucchero che crescevano nelle risaie allagate. E imparai a rubare il cibo, a

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TESTIMONIANZE

IL GENOCIDIO IN CAMBOGIA*

Il Centro di documentazione della Cambogia (DC-Cam, Documentation

Center of Cambodia) è sorto sulla base del Cambodian Genocide Justice Act

approvato dal congresso statunitense nell’aprile 1994. Tale legislazione

istituì, presso l’Ufficio per gli affari dell’Asia orientale e del Pacifico del

Dipartimento di stato americano, l’Ufficio per le indagini sul genocidio

cambogiano (Office of Cambodian Genocide Investigations), incaricato di

indagare sulle atrocità del regime dei khmer rossi (1975- 1979).

Nel dicembre 1994 l’ufficio stanziò i finanziamenti che consentirono la

creazione di un programma accademico, il Cambodian Genocide Program

(CGP) presso la Yale University, che si occupasse di ricerche, formazione e

documentazione sul regime dei khmer rossi, al fine di raccogliere prove per

determinare se e in che misura il governo della Kampuchea democratica

avesse violato le norme penali internazionali contro il genocidio, i crimini di

guerra e i crimini contro l’umanità. Tra gli obiettivi principali del CGP;

diretto da Ben Kiernan: 1) preparare un indice e una valutazione ragionata

della documentazione, 2) intraprendere un’indagine storiografica, 3) offrire

formazione giuridica. In vista di tali obiettivi nel gennaio 1995 il CGP creò il

DC-Cam come filiale “sul campo” a Phnom Penh, affidato alla guida di

Youk Chhang, un sopravvissuto dei campi di sterminio. Nel gennaio 1997 il

DC-Cam divenne un istituto di ricerca indipendente cambogiano (non

governativo e no profit) e da allora continua la sua intensa attività di ricerca

e documentazione. Le testimonianze che seguono provengono dal suo

archivio.

Come sono riuscito a sopravvivere ai khmer rossi? di Youk Chhang

È questa la domanda più frequente che i giornalisti mi hanno rivolto nei

dieci anni in cui ho lavorato per il Centro di documentazione della

Cambogia. Negli ultimi tempi, con l’avvicinarsi del trentesimo anniversario

* Tratte dal sito del Centro di documentazione della Cambogia (www.dccam.org),

traduzione dall’inglese di Teresa Albanese.

della presa del potere da parte dei khmer rossi, mi è capitato spesso di

pensare alla risposta.

Il 17 aprile 1975 avevo quattordici anni. Mio padre era un architetto, in

seguito arruolato nell’esercito di Lon Nol. Anche se all’inizio degli anni

settanta stavamo meglio di tanti altri, i prezzi salivano di giorno in giorno e

quindi dovevamo usare una certa cautela visto l’esiguo salario di mio padre.

Tra l’altro diversi nostri parenti si erano trasferiti da noi a Phnom Penh per

evitare la guerriglia nelle campagne. A casa nostra, ogni banana, ogni chicco

di riso erano razionati. I miei erano sempre preoccupati che accadesse

qualcosa di brutto alle mie sorelle, e dedicavano gran parte della loro

attenzione a proteggerle. E la mia scuola chiudeva quasi ogni settimana. Per

via di tutto ciò, imparai a fare molte cose da solo (per esempio, costruirmi

gli aquiloni con la carta da giornale) e a stare per conto mio. In qualche

modo diventare autosufficiente contribuì a prepararmi per la vita sotto i

khmer rossi.

Quando i khmer rossi cominciarono a evacuare Phnom Penh, ero a casa da

solo; mia madre e un altro membro della famiglia erano partiti il giorno

prima per un luogo più sicuro, dicendo che sarebbero tornati a prendermi.

Ma le strade erano bloccate e il 18 aprile i khmer rossi mi dissero che

dovevo andarmene. Uscii di casa, ma non avevo idea di dove andare perché

il nostro quartiere era completamente abbandonato. Così cominciai a

camminare. Lungo la strada sentii alcune persone dire che tornavano alloro

villaggio natale, per cui decisi di dirigermi verso il paese di mia madre, nella

provincia di Takeo. Visto che non avevo da mangiare, chiesi ai soldati dei

khmer rossi di darmi qualcosa e loro mi diedero qualche biscotto di zucchero

di palma. Dopo qualche settimana di cammino arrivai al villaggio. Nel

frattempo mia madre aveva cercato di varcare il confine ed entrare in

Vietnam, ma era stata fermata. Circa quattro mesi dopo, arrivò anche lei al

villaggio e potemmo riabbracciarci.

In seguito, la mia famiglia fu evacuata nella provincia di Battambang.

Qualche mese dopo il trasloco, fui separato da loro e mandato a scavare

canali in un’unità mobile di adolescenti. Per quasi un anno, di notte riuscivo

a fare una capatina a casa per vedere la mia famiglia, ma più tardi la nostra

unità cominciò a lavorare troppo lontano. Ero sempre più isolato, e mi

sentivo più solo che mai. Da ragazzino di città, non avevo molte risorse di

sopravvivenza, ma la fame può insegnarti un sacco di cose. Per esempio

imparai a nuotare, così riuscivo a tuffarmi e a tagliare le dolci canne da

zucchero che crescevano nelle risaie allagate. E imparai a rubare il cibo, a

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uccidere e mangiare serpenti e topi, a trovare foglie commestibili nella

giungla.

Durante il regime, il cibo diventò il mio dio. Sognavo cibi di ogni genere, in

continuazione. Mi aiutava ad addormentarmi e mi dava la forza necessaria

per tornare ogni giorno a lavorare nei campi. Ancora oggi, quando vedo per

le strade bambini affamati, la cosa mi sconvolge. Non riesco a capire come

mai non abbiano abbastanza da mangiare ora che non viviamo più sotto i

khmer rossi. In quelle facce affamate vedo me stesso.

In quel periodo ero pieno di rabbia, il che mi creò qualche difficoltà con i

capi del villaggio e dell’unità. Ma scampai sempre all’uccisione grazie a

molte persone e ai loro piccoli gesti di solidarietà. Una volta i khmer rossi

mi chiusero nell’ufficio di sicurezza del sottodistretto, dove mi picchiarono e

mi torturarono. Un uomo che era cresciuto nel villaggio di mia madre andò

dal capo del sottodistretto per dirgli che ero ancora molto giovane e lo

implorò di risparmiarmi. Due settimane dopo mi fecero uscire di prigione. In

seguito quell’uomo fu accusato di avere parenti nelle zone nemiche e

nessuno sa che fine abbia fatto. Un uomo della “base”* di nome Touk portò

cibo alla nostra famiglia nel momento del bisogno. Trapeang Vang, il

villaggio dove abitavamo a Battambang, aveva un capo che veniva dalla

Zona occidentale; era una donna di nome Comrade Aun e aveva solo dodici

anni. Mia madre la pregò di non mandarmi a lavorare nei campi e le portò in

dono un paio di lucenti forbici cinesi. Mia madre quelle forbici le aveva

sempre conservate perché erano un regalo del suo fratello minore, ma le

sacrificò per me. Le forbici mi salvarono per qualche giorno, finché Angkar

non ordinò ad Aun di mandarmi nell’unità mobile.

Alla fine del 1978, in tutta la Cambogia cominciarono a circolare voci sulla

grande quantità di persone che stavano morendo (a Trapean Vang vivevano

1200 famiglie, ma solo dodici sopravvissero alla Kampuchea democratica) e

la gente iniziò a rubare e a vivere di espedienti. In quel periodo un uomo

della “base” disse a mio zio di fuggire in Thailandia perché aveva lavorato

per la Banca nazionale della Cambogia: se fosse rimasto, l’avrebbero

sicuramente ucciso. Il mio fratellastro partì poco dopo. Dopo qualche giorno

di cammino, tornò indietro perché aveva nostalgia della moglie. E mi disse

di non scappare. Io accettai, cosa che forse mi impedì di fare la stessa fine di

* “Base” (in inglese base people, base person) era il termine generalmente usato dai

khmer rossi per riferirsi ai contadini cambogiani.

mio zio. Lui continuò il viaggio verso la Thailandia, ma nessuno ebbe più

sue notizie. Ho il sospetto che sia saltato in aria su una mina.

È probabile che queste iniziative da parte di famigliari, ma anche di

sconosciuti, mi abbiano salvato la vita più di una volta. Quelle persone

capivano il valore della vita e facevano del loro meglio per difendere la

propria umanità in tempi in cui la cosa risultava assai difficile. Mi diedero

una ragione per sperare. I giornalisti e altre persone mi chiedono spesso se

continuo ad avere incubi sui khmer rossi. La mia vita a quell’epoca era un

incubo divenuto realtà, ma oggi non mi capita più di sognare il regime.

Invece mia madre fece un sogno su di me. Ero seduto in cima alla Montagna

dell’Occhio di Buddha, e guardavo lontano. Lei lo interpretò come un segno

che sarei sopravvissuto, e mi diede speranza.

Quindi durante la Kampuchea democratica non pensai mai di morire,

nemmeno una volta. Invece speravo che un giorno avrei dormito bene e

avrei avuto abbastanza da mangiare. Questa speranza è rimasta sempre con

me, incoraggiandomi a lottare per restare in vita.

I khmer rossi hanno cambiato la mia vita per sempre.

Il bisogno di trovare risposte al perché ho dovuto sopportare tutta quella

sofferenza e perdere tanti membri della mia famiglia durante il regime mi ha

portato alla mia professione di ricercatore sulla Kampuchea democratica.

Volevo sapere perché è stata assassinata mia sorella, perché io sono stato

incarcerato e torturato dopo aver cercato di trovare un po’ di verdura per una

delle mie sorelle che era incinta e stava morendo di fame, e perché mia

madre non ha potuto fare nulla per me quando mi torturavano. E volevo

anche la vendetta.

Le risposte a queste e altre domande le sto ancora cercando, ma ormai non

ho più un desiderio così forte di vendetta. Visitare la casa dove sono

cresciuto mi è stato di conforto; fa riemergere le speranze che avevo da

bambino sulla mia educazione, e tiene vivi i ricordi dei miei amici e dei miei

cari. Quando ero piccolo in quella casa coltivavo fiori: orchidee e altri fiori

tropicali. Oggi coltivo le stesse piante al Centro di documentazione della

Cambogia. Mi ricordano dove sono stato e dove sto andando.

17 aprile 2005

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Chey Sopheara racconta la storia delle fosse comuni dietro a Tuol

Sleng di Pongrasy Pheng

Il signor Chey Sopheara, cinquantun anni, è l’attuale direttore del Museo del

Genocidio Tuol Sleng. Sopheara ha detto che la fossa comune scoperta di

recente nel cortile di una villa abitata, a pochi passi dalla recinzione del

museo, è legata a quanto successe nel museo dopo la liberazione.

Sopheara era una delle guide al Tuol Sleng tra il 1979 e il 1980, quando lo

stato (lo stato rivoluzionario del popolo della Kampuchea) istituì un

tribunale popolare per processare il regime dei khmer rossi, al quale

avrebbero preso parte molti delegati delle nazioni socialiste. Nel 1979,

durante il processo ai khmer rossi, alla sua squadra fu ordinato di riesumare

la fossa per dimostrare alle delegazioni quante persone i khmer rossi

avevano ucciso nel complesso dell’ufficio S-21 durante il loro governo dal

1975 al 1979.

Sopheara era al corrente dell’esistenza di fosse comuni dietro a Tuol Sleng

perché glielo aveva raccontato un soldato pochi giorni dopo la liberazione.

Aveva però dimenticato il nome di quel soldato. “Nel 1979-1980, ovunque

la squadra scavasse, trovavamo ossa umane” ricorda. La sua squadra decise

di portare alla luce le fosse, che oggi si trovano nel cortile del signor Ay

Siphal, un calzolaio. All’epoca dietro il museo non c’erano residenze private

come oggi. Dietro al famigerato S-21, vicino alla fossa, c’erano i resti di una

casa in rovina e molti alberi di banano. La fossa era collocata presso un

gruppo di alberi. Quando la sua squadra la disseppellì, lui vide lacci, ossa,

teschi... Il ministro della salute e le autorità competenti accorsero sul posto e

si unirono alla squadra di Sopheara nel processo di riesumazione, che fu

bloccato qualche tempo dopo a causa del tremendo fetore emanato dai corpi.

Le ossa furono bollite in una grande pentola e su alcuni teschi era ancora

visibile qualche capello. Alcuni teschi, dopo essere stati bolliti e puliti,

furono disposti insieme a formare una specie di mappa e lasciati lì in mostra.

Sopheara ha detto che la sua squadra continuava a sospettare che i grossi

teschi e le ossa lunghe fossero le spoglie di qualche straniero.

Sopheara ha detto che proprio lui fu incaricato di portare alcune delle ossa

dalla provincia di Svay Rieng e dal cimitero di Tuol Kok (stazione radio

situata a nord della città). Stimava che nella tomba ci fossero dieci corpi. In

seguito la sua squadra prese una larga lastra di vetro per coprire la fossa e

mise una recinzione attorno alla tomba perché altri delegati stranieri e

giornalisti potessero vedere. La sua squadra era convinta che il vetro potesse

anche proteggere i resti dall’essere divorati dagli animali o ricoperti dalla

terra.

Nel 1993, la tendenza politica cambiò, la fossa fu coperta di terra (sopra il

vetro) e la recinzione abbattuta. Poco tempo fa, preparandosi a costruire

un’estensione della sua villa, Ay Siphal ha disseppellito la fossa con

l’intenzione di portare i resti in una pagoda. Sopheara ha affermato che

alcune delle ville costruite dietro al Museo del Genocidio Tuol Sleng devono

essere state erette sopra le fosse. I proprietari delle ville lo sapevano ma

hanno continuato a costruire e a vivere lì. Il vetro che ora vede in frantumi

era quello che la sua squadra aveva usato per coprire le ossa alla fine del

1979, e non apparteneva alla struttura originaria della fossa.

Sopheara ha parlato del recente rinvenimento della fossa comune dietro a

Tuol Sleng come di una vecchia storia. “Il signor Ay Siphal in realtà sapeva

della fossa sotto casa sua e non ha toccato le ossa finché non è stato pronto a

costruire una estensione della casa. Prima ha dovuto dissotterrare la fossa

comune e portare i resti alla pagoda per una cerimonia religiosa secondo la

tradizione khmer. Quindi la cosa non deve stupirvi più di tanto” ha detto

Chey Sopheara. “È una storia vecchia.”

Sogno o realtà di Sidney L. Liang

A volte nell’ombra mi appare una fugace visione nella forma di una vecchia

signora, ma non so di chi si tratti. Mi sveglio nel cuore della notte,

sentendomi circondato da altre presenze che svaniscono subito nel buio.

Attraverso la vita puntando verso il futuro, al tempo stesso sconvolto dalla

vaga sensazione di affetti sconosciuti, che vengono dal passato.

Oggi vivo in Massachusetts. Il mio nome di battesimo è Leap; il nome di

mio padre era Liang e quello di mia madre Pak. Sono nato in una famiglia di

contadini a Phoum Tatok, Srok Mong Russey, provincia di Battambang, nel

1970. Purtroppo non ho ricordi precisi degli anni precedenti al 1975. È tutto

mischiato con la tristezza, come lampi che illuminano ogni cosa durante un

uragano, e sconvolto da tornado che possono solo essere paragonati a un giro

sulle montagne russe.

Essere costretto a diventare adulto all’età di nove anni è stato estremamente

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difficile. Facevo del mio meglio per procurare un po’ di cibo alla mia

famiglia. Ero bravo a pescare rane e a catturarle nella stagione secca.

Ricordo che una volta presi una grossa rana in uno stagno privato e la

proprietaria dello stagno si avvicinò e mi chiese: “Mio marito sta morendo,

ha bisogno di mangiare, potrei avere una delle tue rane?”. Risposi di sì e le

diedi la rana più piccola che avevo preso quel giorno. Lei rifiutò, voleva

quella più grossa; la situazione mi mise tristezza e finii per darle la rana che

desiderava. Lei e il marito sopravvissero al regime e oggi vivono in Virginia.

Sono felice di avere ancora qualche bel ricordo come questo. A volte, a

occhi chiusi, sentivo fuori i passi di qualcuno che trascinava una vittima con

la bocca imbavagliata, incapace di produrre suoni a parte quelli della sua

lotta per la sopravvivenza. Nella fitta oscurità delle risaie sentivo rumori e

gemiti, e poi il silenzio. Era il suono delle persone picchiate a morte? Non lo

sapevo, ma dal mio villaggio di Ro Luos la gente sembrava sparire nel nulla.

Avevo paura. Come se non bastasse, ogni notte si sentivano i versi dei lupi

che ululavano in tutto il villaggio. Quei suoni si fermavano quando la luce

dell’alba copriva la terra. Non era una grande consolazione. Vedevo i miei

genitori solo di tanto in tanto, perché dovevano lavorare.

Mi misero in un gruppo di bambini miei coetanei (sei o sette anni);

potevamo vedere i nostri genitori solo una volta al mese. Non ci era

consentito mostrare alcun tipo di emozione. Non potevamo piangere, ridere

o agitarci quando incontravamo o salutavamo i genitori. Ogni giorno il capo

ci portava al lavoro: raccoglievamo letame e piante acquatiche alla fattoria.

La nostra normale giornata di lavoro iniziava attorno alle sei e trenta del

mattino e si rientrava alle sette di sera, ma non potevamo dormire prima di

aver partecipato alla riunione prevista dal programma, che terminava verso

le nove. Alcuni la definivano “sessione di lavaggio del cervello”.

Anno dopo anno, i genitori tengono i figli per mano, danno loro preziosi

consigli di vita: è così che dovrebbe andare. Mi rattrista tanto non ricordare

il viso di mio padre, che cosa faceva, chi era. E, cosa ancora peggiore,

l’unico ricordo che ho di lui è l’immagine di un lenzuolo bianco steso sul

suo corpo. È tragico, ma è l’unico ricordo che mi resta.

Le mattine erano insolitamente fredde nel novembre del 1976. Vedevo il

fumo che usciva dai camini e la foschia del mattino. La mia sorellina di

cinque mesi piangeva. Mia madre era molto indaffarata, e aveva il viso

segnato dal pianto. Sembrava sfinita. Io non capivo, mi sentivo smarrito in

quella confusione. Mio padre era morto; il suo corpo era steso di fronte alla

casa perché la gente potesse rendergli omaggio e rimase lì per tutta la

giornata. Le persone andavano e venivano, senza fermarsi a lungo per paura

di violare il coprifuoco imposto dai khmer rossi.

Verso la fine della giornata tutto era tranquillo, le persone tornavano alle

loro case. Quando il sole tramontò, tramontò anche un capitolo della mia

famiglia e della mia vita. La foschia del tramonto si posò sul nostro

villaggio, mentre mio fratello maggiore ansimava. Perché? Il calar della sera

consumò tutto il fiato di mio fratello. I muscoli del suo corpo si contrassero

e si indurirono. Morì quella stessa notte. Non capivo perché fosse morto ma

alla fine di quella gelida giornata di novembre vidi due corpi avvolti nei

lenzuoli bianchi, corpi che non avrei rivisto mai più. Mio padre morì al

mattino e mio fratello alla sera. Ero rimasto solo io a prendermi cura di mia

madre e della mia sorellina. A volte la vita è ingiusta e crudele.

Da quel giorno, la morte non mi fece più paura. Ricordo che una volta mia

madre mi chiese di svegliare la nonna per la cena. Quando arrivai da lei,

sentii un odore che ormai mi era familiare. Non potei svegliare la nonna

perché era morta nel sonno. Era morta da quasi un giorno. Non provavo

niente, ma restai seduto accanto a lei per un po’.

Anche se eravamo contadini, alcuni dei miei zii avevano studiato nei templi

della Cambogia, in Francia e in altri paesi stranieri. Uno dei miei zii, Pu

Tok, ricevette un’educazione impeccabile in khmer e francese. Un giorno

alcuni tizi vestiti di nero si presentarono a casa sua e gli dissero di prepararsi

perché sarebbero venuti a prenderlo e lo avrebbero portato a studiare

all’estero. Prima di uscire, uno di loro disse a mia zia: “Guardalo bene ... è

l’ultima volta che lo vedi”. Non tornò mai più a casa da sua moglie e sua

figlia. Un mesetto dopo, un uomo del villaggio disse a mia zia di aver visto

Pu Tok impiccato a un albero. Mesi dopo presero anche sua moglie. A oggi

non so cosa accadde alla loro figlia, che rimase sola.

Ricordo con grande chiarezza questi episodi; non riesco a togliermeli dalla

testa. A volte era così doloroso che per la frustrazione mi ritiravo in un

angolo e scoppiavo a piangere. A volte vedo luoghi, eventi e momenti, ma

non sono sicuro di cosa siano. Sono sogni o realtà? Con mia madre non

posso parlarne: temo di farla ripiombare nel dolore e nella tristezza. L’anno

scorso (2000) durante un’intervista ho scoperto che mia madre ha perso

diciassette parenti all’epoca dei khmer rossi. Per oltre vent’anni si è tenuta

dentro quello strazio. Il rumore di un petardo, uno pneumatico che esplode,

la gente che bussa la terrorizzano e riportano a galla tanti ricordi. Io e mia

madre siamo cittadini americani, ma non potremo festeggiare come tutti gli

altri il 4 luglio (festa dell’Indipendenza).

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Mia madre è la donna più forte che abbia mai conosciuto. Si è presa cura di

entrambi nell’epoca più crudele e terribile. Abbiamo lottato, con fede

incrollabile, camminando di notte e dormendo di giorno nel viaggio che ci

portò ad attraversare la Cambogia per giungere in Thailandia. Lungo la via

abbiamo visto gente uccisa dalle mine antiuomo, dalla fame e dalla

spossatezza. Grazie alla sua grande forza di volontà e determinazione, siamo

arrivati al campo Khao I Dang, dove sono iniziate le nostre nuove vite. Oggi

sono triste e arrabbiato. Mi hanno rubato le esperienze della giovinezza e

dell’infanzia e mi hanno praticamente spinto in un viaggio pieno di

incertezze. Non sono l’unico ad aver subito questi eventi che ti cambiano la

vita. I capi di quel periodo dovrebbero essere chiamati a rispondere davanti a

tutti i miei parenti, alla gente del mio popolo, e alla mia patria. Non c’è vita

che sia più preziosa di un’altra!

IL GENOCIDIO IN RWANDA*

Evariste N. 15 anni, in carcere al momento dell’intervista

Yolande: Tu hai ucciso all’età di 10 anni?

Evariste: Sì. Ero solo a casa, mio fratello era in viaggio d’affari. Mio padre

stava vendendo della birra. Mia madre era nei campi a lavorare. I miei due

fratellini, uno era al pascolo con le mucche e l’altro era fuori casa.

Innanzitutto ho dovuto spiegare dov’erano i miei famigliari. Mi hanno detto

che dovevo seguirli, per mostrarmi un lavoro da fare. Se non fossi andato,

mi avrebbero picchiato, perché significava che mia madre era complice del

*Da: Yolande Mukagasana e Alain Kazinierakis, Le ferite del silenzio.

Testimonianze sul genocidio del Rwanda, Bari: Edizioni La Meridiana, 2008, p. 44 e

p. 72.

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FPR e quindi mi avrebbero ucciso. Mia madre è una Tutsi. Quello che mi

parlava era una persona terrificante, bisognava ubbidirgli. Quando siamo

arrivati nel luogo in cui c’erano dei bambini da assassinare, non li abbiamo

trovati. Però Jean Damascane li ha scovati e ha gridato:

“Eccoli qua!” I bambini erano nascosti in una casa abbandonata. Li abbiamo

portati a casa loro e un Burundese ha iniziato ad ammazzarli. Però i bambini

non morivano ed il capo allora ha detto: “Non voglio che sia lei ad

ammazzarli, voglio che sia questo bambino a farlo”. Ha puntato il dito verso

di me. Mi hanno dato un machete, mi sono rifiutato di prenderlo e un uomo,

di forza, me lo ha messo fra le mani. Ho cercato di resistere e quest’uomo mi

ha dato un ceffone. Ho preso il machete e ho cominciato a colpirli. Non

avevo scelta.

Yolande: A casa, prima di essere arrestato, com’era la tua vita?

Evariste: La mia vita era piena di incubi. Era il prezzo da pagare. I bimbi

che ho ammazzato erano i miei vicini di casa, venivano a mangiare a casa

mia ed io andavo a mangiare a casa loro.

Yolande: Adesso come sono i rapporti con i loro genitori?

Evariste: Sono loro che mi hanno fatto arrestare. I rapporti fra i miei

genitori e la loro madre si sono deteriorati. Io capisco questa donna, è troppo

duro da accettare. Credo che anche i miei genitori dovrebbero chiedere

perdono a questa donna, perché hanno un figlio assassino e perché è la

nostra famiglia che ha fatto loro del male.

Yolande: Qual è la decisione del tribunale?

Evariste: Devo andare in un centro di rieducazione. Recentemente siamo

stati sulla mia collina per un sopralluogo. I giudici si sono resi conto che non

avevo nascosto nulla. Io invece mi sono accorto che mia madre è andata

fuori di testa. In ogni caso anch’io sono morto.

Yolande: Se tu dovessi tenere una lezione a dei bambini cosa diresti loro?

Evariste: Direi di non commettere mai il peccato che ho commesso io,

assassinare. Direi loro che dovrebbero preferire la morte, poiché adesso è

come se fossi morto, esattamente come lo sarei se fossi stato assassinato.

Mia madre, quando piangeva, mi diceva: “Fatti coraggio. Spiega per bene

ciò che hai fatto e, soprattutto, che te lo hanno fatto fare”.

Yolande: E a te capita di piangere?

Evariste: lo non piango più, perché non sono più un bambino. Sono un

assassino. La mia infanzia è finita.

Intervista a Judith, 79 anni, sopravvissuta al genocidio

Judith: Mio marito era morto prima del genocidio, avevo sei figli, dodici

nipoti e non so quanti pronipoti. Sono stati tutti uccisi. Non mi restano che

una figlia e una nipote.

Yolande: Quando sei venuta a conoscenza della morte del presidente?

Judith: Il giorno dopo, dal sindaco Hategekimana. Lui ha trasmesso la

notizia ai consiglieri che a loro volta l’hanno trasmessa ai responsabili della

cellula e così di seguito. Si diceva che il presidente fosse stato ucciso dai

Tutsi. Siamo scappati tutti insieme verso il Burundi. I miei figli ed i loro

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sono stati tutti uccisi, l’uno dopo l’altro. Scavalcavamo i loro cadaveri e

proseguivamo. Ma sono molto triste quando penso a mia nuora, che aveva

dei bambini molto piccoli. I nostri vicini Hutu le avevano fatto credere che

l’avrebbero protetta. L’hanno uccisa. Ma questo odio dei vicini era iniziato

già prima dell’aprile 1994. Ci rubavano tutto, saccheggiavano le nostre

coltivazioni, solo per provocarci o per terrorizzarci. Ma ciò che più mi ha

addolorato maggiormente non è il fatto che abbiano ucciso mia nuora e i

suoi bambini, ma che li abbiano buttati nelle latrine. Quando siamo arrivati

al confine con il Burundi ho incontrato due uomini. Mi hanno preso tutto ciò

che avevo. Hanno iniziato a spogliarmi. Altri due passavano di là e hanno

detto: “Lasciate almeno a questa vecchia i suoi stracci”. Mi hanno lasciata

andare. Ho corso. Non potete immaginare quanto si possa amare la vita. I

soldati del Burundi mi hanno aiutata ad attraversare il ponte. I miei nipoti

erano passati da un’altra parte e i membri del FRODEBU li hanno uccisi. In

seguito ho vissuto in una paura senza fine. Non sopporto più né il rumore né

la folla. Penso in continuazione al machete. Tutte le volte che vedo dei

bambini penso ai miei. Vivo insieme a loro, pur sapendo che sono morti.

Yolande: Tu credi in Dio. Se tu lo vedessi, cosa gli diresti?

Judith: Lo sgrido in continuazione. Quando sono gentile con lui gli chiedo

perché non muoio e che cosa ci faccio ancora in questo mondo. Ma poi mi

dico che non voglio morire. Cosa ne sarebbe della mia nipotina senza di me?

Non ho di che vestirmi, ho difficoltà a trovare di che nutrire mia nipote e

non ho più forze. Mia figlia che è sopravvissuta è vecchia quanto me e

profondamente segnata dal genocidio: le sono stati uccisi il marito e tutti i

suoi bambini. Non ama più nessun rwandese, non c’è più amore in Rwanda e

tutti i sopravvissuti sono dei morti ambulanti. E tutto ricomincerà. Fino a

quando i Bianchi trasporteranno dei machete sui loro aerei e li daranno agli

Hutu ... Io odio i machete. Dalla morte del nostro re Rudahigwa incombe sul

Rwanda una notte senza fine. Non è mai più diventato giorno in Rwanda.

Yolande: Se qualcuno ti desse un machete cosa faresti? Ti vendicheresti?

Judith: Maledetto sia il machete. Pensi che saresti capace, tu, di prendere un

bambino e tagliarlo a pezzi? Mio Dio, che coraggio che hanno avuto questi

assassini!

Yolande: Che desiderio hai nella vita?

Judith: Desidero che mia nipote cresca, sia sana e possa continuare i suoi

studi. E anche che io trovi degli abiti, perché non ne ho ed ho paura di

restare nuda. Ma non mi piace parlare delle mie miserie. Dio ha creato la

morte. Ma ha creato anche l’uomo in grado di procreare, che è l’unico modo

per lottare contro la morte. Ma l’uomo ha creato la morte col machete, che è

al di sopra della morte creata da Dio. Una volta era Dio che decideva della

morte, ma oggi sono gli uomini.

CRONOLOGIE

Il genocidio cambogiano*

1945 Re Norodom Sihanouk proclama l’indipendenza della Cambogia

dall’impero coloniale francese (in cui il regno di Cambogia, antica

patria del popolo khmer, era stato incorporato nel 1887).Il re si accorda

in seguito con i francesi e il paese entra nell’Union française (sorta. di

Commonwealth). Una parte dei nazionalisti cambogiani dà vita a una

resistenza armata. 1950 I comunisti cambogiani si alleano ai vietnamiti contro il colonialismo

francese. 1953 Ottobre-novembre: indipendenza della Cambogia. I francesi cedono a re

Sihanouk l’autorità sulle forze armate, il sistema giudiziario e la politica

estera, tuttavia mantengono intatto il loro controllo sull’economia del

paese (in particolare nei lucrativi settori dell’import-export e delle

piantagioni di gomma). 1954 Conferenza di Ginevra: i francesi si ritirano da Vietnam, Laos e

Cambogia. 1955 Re Sihanouk abdica in favore del padre e fonda il Sangkum (Partito

della comunità socialista popolare), ispirato a ideali socialisti e

neutralisti, che vince le elezioni.

* A cura di Benedetta Tobagi.

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1960 Alla morte del padre, Sihanouk diventa capo di stato, ma rifiuta la

successione al trono. 1962 Scomparso il leader comunista cambogiano Tou Samouth, Saloth Sar

(nome di battaglia Pol Pot) ascende ai vertici della gerarchia comunista. 1963 Sihanouk avvia una campagna di arresti dei comunisti rivoluzionari; Pol

Pot entra in clandestinità. 1965 Escalation dell’impegno militare statunitense in Vietnam. Le forze

comuniste vietnamite (Viet Cong) cercano sempre più spesso rifugio in

Cambogia. Sihanouk interrompe le relazioni con gli Usa, mentre

all’interno continua la repressione contro i comunisti e le altre forze

dissidenti. Pol Pot visita il Vietnam e la Cina. 1967 Insurrezione comunista contro Sihanouk nella Cambogia

nordoccidentale. L’ideologia dei comunisti cambogiani fonde il

marxismo-leninismo ortodosso con un’esplicita difesa dell’etnia khmer,

da cui la denominazione “khmer rossi”, impiegata dallo stesso

Sihanouk. 1969 Inizio dei bombardamenti dei B-52 statunitensi sulle postazioni Viet

Cong in territorio cambogiano (si calcola che dal 1969 al 1973 abbiano

causato dai 50 ai 150.000 morti tra la popolazione civile). 1970 Un colpo di stato guidato da LonNol, con l’appoggio dei conservatori e

dei servizi segreti statunitensi, rovescia il governo del principe

Norodom Sihanouk. I khmer rossi si oppongono sia all’azione

statunitense che al nuovo governo; si scatena una guerra civile. Nel

frattempo si costituisce il Funk (Fronte unito nazionale khmer) che dà

vita a un governo clandestino in esilio in Cina, presieduto da Sihanouk. 1975 Le truppe di Lon Nol trattano la resa con il Funk, ma di fatto sono i

khmer rossi a prendere il potere, non qualificandosi come “comunisti”,

bensì con la denominazione di Angkar (organizzazione), che

manterranno anche in seguito.

17 aprile: i khmer rossi marciano su Phnom Penh e iniziano a evacuare

la popolazione della capitale. Viene proclamata la Repubblica

democratica di Kampuchea, il cui presidente è Sihanouk. Pol Pot entra a

far parte del governo. 1976 Sihanouk si dimette; Pol Pot, il “Fratello Numero Uno”, diviene primo

ministro. I khmer rossi assumono il pieno dominio sulla Cambogia,

volto a instaurare un primitivo egualitarismo sociale, attraverso

l’evacuazione delle città, l’abolizione della moneta corrente, la chiusura

dei confini, la collettivizzazione delle terre, l’eliminazione delle

persone collegate al precedente regime e di qualsiasi forma di

opposizione al regime, una serie di feroci purghe interne al partito. I

trasferimenti in massa della popolazione e la mancanza di

organizzazione nelle campagne provocano terribili carestie. Il regime

dei khmer rossi in quattro anni (1975- 1978) compie un vero e proprio

genocidio della popolazione cambogiana (le stime variano da uno e

mezzo a tre milioni di vittime). 1977 Le purghe sono estese alle campagne. La Cambogia mantiene relazioni

amichevoli con la Cina, mentre assume atteggiamenti d’ostilità (che

sfociano a volte nell’attacco militare) verso Thailandia, Laos e

Vietnam. Gli Usa e la Cina supportano i khmer in opposizione al

Vietnam, che gode dell’appoggio sovietico. 1978 Gli oppositori al regime di Pol Pot si rifugiano in Vietnam e chiedono

l’appoggio militare di Hanoi. In seguito a ripetute incursioni khmer nel

territorio vietnamita, a fine anno scoppia la guerra. 1979 7 gennaio: Phnom Penh presa dai vietnamiti; il regime di Pol Pot cade,

inizia l’occupazione vietnamita, che appoggia l’ascesa di Heng Samrin

alla presidenza della Kampuchea democratica. 1980 L’ex campo di prigionia S-21 diventa Museo del Genocidio.

1987-89 Disimpegno militare vietnamita dal paese. Nel paese continua la guerra

civile; Hun Sen, leader del Pcc (Partito comunista cambogiano),

filovietnamita, diventa primo ministro e proclama lo stato di Cambogia.

Con la fine della Guerra fredda i khmer rossi perdono il loro valore

strategico agli occhi degli Usa. 1991 Le quattro fazioni in lotta (capeggiate rispettivamente da Sihanouk, Pol

Pot, Hun Sen e Son Sann) firmano gli accordi di pace di Parigi

(“Accordo sulla composizione politica complessiva del conflitto

cambogiano”), che però resteranno sulla carta. 'Onu avvia la sua più

vasta e costosa operazione di peacekeeping mai condotta fin ad allora. 1993 Elezioni generali, boicottate dai khmer rossi. Vittoria del partito realista

del Funcinpec (acronimo di “Front Uni National pour un Cambodge

Indépendant, Neutre, Pacifique, et Coopératif”), seguito dal Pcc di Hun

Sen. Ripristinata la monarchia. 1994 Il movimento dei khmer rossi, che hanno ripreso la guerriglia, è

dichiarato fuori legge.

Aprile: negli Usa (amministrazione Clinton), nonostante l’iniziale

opposizione del Dipartimento di stato, il Congresso approva il disegno

di legge del senatore Charles Robb per il “Cambodian Genocide Justice

Act” (22 U.S.c. 2656, Part D, sections 571-574), che afferma:

“È politica degli Stati Uniti supportare gli sforzi per consegnare alla

giustizia membri dei khmer rossi per i loro crimini contro l’umanità” e

“invita il presidente a raccogliere, o assistere apposite organizzazioni o

individui nella raccolta di dati rilevanti riguardo il genocidio in

Cambogia [...] a incoraggiare l’istituzione di una corte penale nazionale

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o internazionale per giudicare gli accusati di genocidio”. 1996 Pol Pot scioglie formalmente il movimento dei khmer rossi, ormai

irrimediabilmente indebolito: i militanti passeranno dalla lotta armata a

quella parlamentare (una soluzione che aveva rifiutato solo tre anni

prima); parte delle forze della defunta organizzazione si raccoglie

attorno al nuovo regime. La corona garantisce l’amnistia all’ex ministro

degli Esteri della Kampuchea democratica, Ieng Sary, in cambio

dell’appoggio al nuovo governo. Circa 4000 soldati, quasi la metà delle

truppe dei khmer rossi, vengono integrati nell’esercito reale. 1997 Istituita in Cambogia un’apposita task force per il processo ai khmer

rossi, al fine di creare strutture legali e giudiziarie per processare i

superstiti leader dell’organizzazione per crimini di guerra e contro

l’umanità. La task force si insedia in due edifici del quartier generale

delle forze armate reali di Cambogia (Rcaf), nella provincia di Kandal,

presso Phnom Penh. Riceve assistenza tecnica e legale da esperti pro

venienti da Onu, Francia, India, Russia, Australia. I progressi nella sua

attività sono lenti ed esitanti (anche per carenza di fondi). Il vicepremier

chiede all’Onu assistenza per organizzare il processo contro i khmer

rossi. 1998 Vittoria del Pcc alle elezioni; si forma un governo di unità nazionale

guidato da Hun Sen. 15 aprile: Pol Pot muore nel campo khmer rosso di

Anlong Veng, sul confine con la Thailandia, dove era detenuto già

dall’estate precedente (un processo sommario nel luglio 1997 l’aveva

condannato al carcere a vita), a seguito di dissidi interni al movimento.

Dicembre: resa degli ultimi leader dei khmer rossi sopravvissuti (Khieu

Samphan e Nuon Chea). 1999 6 marzo: arrestato Ta Mok, “il macellaio”.

9 maggio: arrestato Duch, ex direttore dell’S-21. 2001 Su proposta Onu, il governo cambogiano approva la legge per

l’istituzione dell’Ecce (acronimo di “Extraordìnary Chambers in the

Courts of Cambodia”), una corte internazionale speciale per giudicare i

crimini compiuti dai khmer rossi nel periodo della Kampuchea

democratica, firmata il 10 agosto da re Norodom Sihanouk.

L’istituzione di una corte internazionale mista viene incontro alle gravi

difficoltà in cui versa il sistema giudiziario cambogiano, gravemente

compromesso dalla politica di sterminio dell’intellighenzia condotta dai

khmer rossi. 2006 Muore in carcere Ta Mok. Duch, accusato di genocidio, resta l’unico tra

gli ex leader khmer rossi in carcere. Si trovano ancora a piede libero: il

“Fratello Numero Due” Nuon Chea, ottant’anni, luogotenente di Pol

Pot, il più alto in grado tra i superstiti; Ieng Sary, età ignota, ministro

degli Esteri dal 1976 al ‘78, malato di cuore; Khieu Samphan,

settantaquattro anni, capo di stato dal 1976 al ‘79, imparentato con Pol

Pot e Ieng Sary.

Marzo: il segretario generale dell’Onu Kofi Annan nomina i giudici per

il processo dei leader khmer rossi.

4 maggio: il ministro della Giustizia cambogiano, Ang Vong Vathana,

annuncia che il consiglio supremo dei magistrati ha finalmente

approvato una giuria mista per l’Ecce, formata da dodici giudici

internazionali da dieci diversi paesi (Australia, Austria, Canada,

Francia, Giappone, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Polonia, Sri Lanka e

Usa), e diciassette cambogiani, che presiederà il lungamente atteso

tribunale per i crimini di genocidio dei leader khmer rossi. 2007 Luglio: i giudici prestano giuramento. L’inizio del processo è atteso per

la metà dell’anno (data da definire).

Il genocidio rwandese

14° sec. I tutsi arrivano nella regione, già abitata da twa (pigmei) e hutu

(bantu). 17° sec. Il re tutsi Ruganzu Ndori sottomette il paese. Fine

1800: re Kigeri Rwabugiri crea uno stato unificato, militarmente

centralizzato. 1858: l’esploratore britannico Hanning Speke è il

primo europeo a visitare il territorio. 1890: Il territorio diventa

Da: http://www.nigrizia.it/atlante/rwanda

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parte dell’Africa Orientale Tedesca. 1916: le forze belghe

occupano il paese. 1923: la Lega delle Nazioni affida al Belgio il

mandato di governare il Rwanda-Burundi (indirettamente

attraverso i re tutsi). 1946: il Rwanda-Burundi diventa un territorio

fiduciario delle Nazioni Unite, governato dal Belgio. 1957: la

maggioranza hutu pubblica un manifesto in cui chiede una più

giusta ripartizione del potere (proporzionata alla consistenza

numerica dei gruppi etnici); nasce il Partito del movimento di

emancipazione hutu (Parmehutu). 1959 Gli agricoltori hutu si ribellano contro la monarchia; Kigeri VI e

decine di migliaia di tutsi fuggono in esilio. 1961: il Rwanda

diventa repubblica. 1962: dopo una sanguinosa guerra civile, il

Belgio abbandona il territorio; il Parmehutu vince le elezioni; 1°

luglio: il Rwanda diventa indipendente, separandosi dal Burundi;

Gregoire Kayibanda, un hutu, è eletto presidente; molti tutsi

fuggono. 1963 Nuova guerra civile; 20.000 tutsi sono uccisi e 160.000 espulsi dal

paese. 1973, luglio: il col. Juvénal Habyarimana rovescia il

governo di Kayibanda. 1978: nuova costituzione; Habyarimana è

eletto presidente. 1988 50.000 hutu burundesi si rifugiano in Rwanda per sfuggire a

violenze etniche. 1990, ottobre: 600 militari del Fronte popolare

del Rwanda (Fpr) invadono il paese dall’Uganda, ma sono respinti.

1991: promulgata la nuova costituzione che consente il

multipartitismo. 1992, marzo: circa 300 tutsi sono massacrati; altri

15.000 si rifugiano nella regione di Mugesera.

Genocidio 1993-94

4 agosto

1993

Il presidente Juvénal Habyarimana, l’opposizione parlamentare e i

guerriglieri tutsi del Fronte patriottico rwandese (Fpr) firmano ad

Arusha (Tanzania) un accordo di pace che prevede la spartizione

del potere in un governo provvisorio; dal 1990 l’Fpr, muovendo

dall’Uganda, ha compiuto azioni militari in territorio rwandese; il

regime di Habyarimana, espressione della maggioranza hutu ma

non certo un esempio di democrazia, ha il sostegno della Francia. 5 ottobre Nasce la Missione Onu in Rwanda (Minuar), con 2.500 uomini,

operativi da metà dicembre. 23 ottobre Melchior Ndadaye, di etnia hutu, primo presidente burundese

democraticamente eletto, è assassinato da ufficiali tutsi golpisti. 28 dicembre Secondo quanto previsto dagli accordi di pace, un battaglione

dell’Fpr (600 uomini) si installa a Kigali, a protezione dei propri

uomini nel governo di transizione.

1994, 5 gennaio: il presidente Habyarimana presta giuramento

quale presidente del governo provvisorio a base allargata, che deve

essere varato. 21 febbraio È assassinato a Kigali il ministro dei lavori pubblici e dirigente del

Partito socialdemocratico (opposizione hutu); nella notte sono

uccise 70 persone, tutsi o hutu pro-Fpr. 6 aprile L’aereo del presidente Habyarimana, di ritorno da un vertice

regionale in Tanzania, è abbattuto da un missile poco prima

dell’atterraggio all’aeroporto di Kigali; con lui viaggiava il

presidente burundese Cyprien Ntaryamira. 7 aprile Cominciano i massacri nella capitale; sono uccisi, tra gli altri, la

primo ministro Agathe Uwilingiyimana e dieci caschi blu belgi che

tentano di proteggerla. 9 aprile Francia e Belgio intervengono per evacuare i propri connazionali.

16 aprile Il Belgio, che ha sempre tenuto un atteggiamento filo-tutsi, ritira la

proprie truppe (780 uomini) dalla Minuar. 21 aprile Il Consiglio di sicurezza dell’Onu riduce a 270 gli effettivi della

Minuar; il rappresentante speciale Onu in Rwanda, Jacques-Roger

Booh, ha chiesto invano l’invio di una forza di interposizione di

almeno 5.000 uomini. 12 maggio L’Alto commissariato Onu per i diritti umani definisce “genocidio”

le uccisioni in corso nel paese.

4 luglio: i guerriglieri dell’Fpr conquistano Kigali. 17 luglio L’Fpr di Paul Kagame ha il controllo del paese e dichiara “la fine

della guerra”; le milizie hutu cercano scampo in Zaire (oggi Rd

Conto), portandosi dietro 2 milioni di rifugiati hutu; le stime più

prudenti ritengono che, in poco più di tre mesi, siano state uccise

500mila persone (in gran parte tutsi, ma anche hutu oppositori di

Habyarimana); c’è anche chi parla di 800mila morti e chi si spinge

fino al milione. 1994 I campi profughi in Zaire cadono sotto il controllo delle milizie

hutu responsabili dei massacri in Rwanda. 1995 Estremisti hutu e forze governative zairesi attaccano i tutsi

banyamulenge (di origine tutsi) che vivono in Zaire; Kinshasa tenta

di forzare i rifugiati a rientrare in Rwanda; un tribunale

internazionale, nominato dalle Nazioni Unite, comincia a giudicare

i responsabili delle atrocità. 1996 Le forze rwandesi attaccano i campi profughi in Zaire, nel tentativo

di sterminare le milizie hutu e costringere i rifugiati a rimpatriare. 1997 Sostenuti dalle forze governative rwandesi e ugandesi, i ribelli

zairesi depongono Mobutu Sese Seko; Laurent Kabila diventa

presidente dello Zaire (rinominato Repubblica democratica del

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Congo). 1998 Kabila non mantiene la promessa di espellere gli estremisti hutu e

il Rwanda si allea con nuovi gruppi di ribelli zairesi; ha inizio il

coinvolgimento militare rwandese nell’Rd Congo. 2000 Marzo: in seguito a una sconfitta nella formazione del nuovo

governo, il presidente rwandese Pasteur Bizimungu, un hutu, si

dimette;

Aprile: i ministri e il parlamento eleggono presidente Paul Kagame

(già vicepresidente). 2001 Ottobre: iniziano le elezioni per formare i tribunali tradizionali,

denominati gacaca, per giudicare i “genocidari”;

Dicembre: nuova bandiera e nuovo inno nazionale per promuovere

l’unità e la riconciliazione. 2002 Aprile: l’ex presidente Bizimungu è accusato di attività contro la

sicurezza dello stato e arrestato;

Luglio: Kagame e Kabila firmano un accordo di pace, in virtù del

quale Kigali s’impegna a ritirare le proprie truppe dall’Rd Congo;

Kinshasa promette di aiutare a disarmare gli hutu accusati del

genocidio del 1994;

Ottobre: il Rwanda dichiara di aver completato il ritiro delle sue

truppe (ritorneranno 4 anni dopo per sostenere i ribelli congolese

contro il governo di Kabila). 2003 Maggio: si vota la bozza di una nuova costituzione;

Agosto: Kagame vince le elezioni presidenziali;

Ottobre: alle prime elezioni parlamentari multipartitiche il Fpr

ottiene la maggioranza assoluta in parlamento; gli osservatori

europei denunciano irregolarità e frodi;

Dicembre: tre direttori di mezzi di comunicazione, incolpati di

incitare gli hutu a uccidere i tutsi durante il genocidio, sono

condannati all’ergastolo. 2004 Marzo: Kagame rigetta il rapporto francese che lo accusa di aver

ordinato l’abbattimento dell’aereo presidenziale;

Giugno: l’ex presidente Bizimungu è condannato a 15 anni di

prigione. 2005 Marzo: le Forze democratiche di liberazione del Rwanda (Fdlr–

hutu), accusate di aver creato instabilità nell’Rd Congo e di aver

preso parte al genocidio, dichiarano di voler cessare le ostilità;

luglio: il governo libera 36.000 prigionieri accusati di aver preso

parte al genocidio. 2006 Gennaio: le tradizionali 12 province sono rimpiazzate da regioni

più piccole con lo scopo di creare aree amministrative diverse dal

punto di vista etnico;

Novembre: il Rwanda rompe le relazioni diplomatiche con la

Francia, dopo che il giudice francese Jean-Louis Bruguière ha

spiccato un mandato di cattura contro Kagame, ritenendolo

colpevole dell’abbattimento dell’aereo presidenziale;

Dicembre: don Athanase Seromba è il primo prete cattolico a

essere condannato per aver partecipato al genocidio; la Corte

penale internazionale (Cpi) lo condanna a 15 anni di prigione. 2007 Febbraio: altri 8.000 accusati di genocidio sono liberati;

Aprile: l’ex presidente Bazimungu è perdonato e liberato da

prigione;

Ottobre: inizio dell’inchiesta sull’abbattimento dell’aereo

presidenziale;

Novembre: il Rwanda firma un accordo di pace con l’Rd Congo;

secondo l’accordo, il governo di Kinshasa consegnerà a Kigali e

alla Cpi i responsabili del genocidio rifugiatisi nell’Rd Congo. 2008 Gennaio: la polizia francese arresta Marcel Bivugabagabo, ex

ufficiale militare rwandese, il cui nome è sulla lista dei ricercati dal

governo di Kigali;

Febbraio: un giudice spagnolo spicca mandati di cattura contro 40

ufficiali dell’esercito rwandese, accusandoli di genocidio,

terrorismo e crimini contro l’umanità, ma Kagame risponde che il

giudice «può andare all’inferno»;

Maggio: Callixte Kalimanzira, ex ministro, è processato dalla Cpi

per genocidio;

Agosto: il Rwanda accusa la Francia di aver avuto un ruolo diretto

nel genocidio e spicca mandati di cattura nei confronti di 30 alti

ufficiali francesi, ma Parigi nega le accuse; settembre: il Fronte

patriottico rwandese di Kagame ottiene la maggioranza alle

elezioni politiche; l’ex viceprocuratore, Simeon Nshamihigo, è

condannato all’ergastolo da un tribunale Onu per il ruolo da lui

svolto nel genocidio (arrestato nel 2001, mentre lavorava come

investigatore per la difesa sotto falso nome);

Ottobre: il governo decide che la lingua usata nelle scuole è

l’inglese, non più il francese;

Novembre: Rose Kabuye, assistente del presidente Kagame, è

arrestata in Germania, perché ritenuta implicata nell’abbattimento

dell’aereo presidenziale; il Rwanda espelle l’ambasciatore tedesco

e richiama il suo ambasciatore da Berlino;

Dicembre: Simon Bikindi, noto cantante burundese, è condannato a

15 anni di prigione per genocidio; un rapporto Onu accusa il

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Rwanda e l’Rd Congo di sostenere i ribelli tutsi nell’est dell’Rd

Congo; Kigali nega di fornire loro le armi e di arruolare bambini

soldato; Theoneste Bagosora (“il colonnello della morte”) è

condannato all’ergastolo per genocidio dal tribunale Onu di Arusha

(Tanzania). 2009 Gennaio: l’ex ministro della giustizia, Agnes Ntamabyariro, è

condannata all’ergastolo per cospirazione, pianificazione del

genocidio e incitamento alla popolazione a prendervi parte;

Febbraio: le truppe rwandesi, dopo essersi spinte nell’Rd Congo

per attaccare ribelli hutu, si ritirano; la Corte condanna a 25 anni

l’ex cappellano militare Emmanuel Rukundo per genocidio e

stupro;

Marzo: Beatrice Nirere, parlamentare e membro del governo, è

giudicata colpevole di genocidio e condannata all’ergastolo da un

tribunale tradizionale (gacaca);

Novembre: il Rwanda è ammesso al Commonwealth; Francia e

Rwanda ristabiliscono le relazioni diplomatiche, dopo 3 anni di

interruzione;

Dicembre: il Rwanda è dichiarato “paese libero da mine”; il

presidente Kagame si vede assegnare il premio “Abolizionista

dell’anno” dall’associazione italiana radicale “Nessuno tocchi

Caino”; scoppia la polemica (si accusa Kagame di aver abolito la

pena di morte per indurre gli stati presso cui i molti ricercati

accusati di genocidio si sono rifugiati a restituirgli al Rwanda). 2010 Febbraio: il presidente francese Sarkozy visita Kigali, come segno

di riconciliazione, dopo anni di reciproche accuse sul genocidio;

Marzo: Agathe Habyarimana, vedova del presidente assassinato nel

1994, è fermata nell’Essonne, dipartimento alle porte di Parigi, su

richiesta di Kigali, che ne chiede l’estradizione con l’accusa di

coinvolgimento nella pianificazione del genocidio rwandese;

Aprile: la leader dell’opposizione, Victoire Ingabire Umuhoza, che

s’è detta pronta di competere contro Kagame nelle elezioni di

agosto, è arrestata; poco dopo, anche il suo avvocato finisce in

prigione; due alti ufficiali dell’esercito sono arrestati, pochi giorni

dopo un rimescolamento del governo;

Giugno: Faustin Kayumba Nyamwasa, ex alleato di Kagame ma

divenuto suo oppositore, è ferito in una sparatoria in Sudafrica,

dove vive in esilio; Bernard Ntaganda, candidato del Partito

socialista Imerakuri, e André Kagwa Rwisereka, leader dei Verdi,

sono arrestati; ucciso il giornalista Jean-Léonard Rugambage;

Luglio: ancora arresti e omicidi; arrestata Agnes Uwimana Nkusi,

che ha chiesto chiarezza sulla morte di Rugambage sul suo

giornale; l’opposizione decide il boicottaggio delle presidenziali;

9 agosto: Kagame vince con il 93% dei voti;

Settembre: una fitta rete di organizzazioni non governative

spagnole lancia una campagna che mette nel mirino il presidente

del Rwanda: chiedono che gli sia tolta la copresidenza del gruppo

di sostegno agli Obiettivi del Millennio, fino a che tribunali

francesi e spagnoli non chiariscano le sue responsabilità

sull’attentato che ha innescato il genocidio del 1994 e su recenti

assassini e detenzioni arbitrarie; ottobre: un rapporto dell’Onu

dichiara che gli attacchi delle forze rwandesi contro i civili hutu

rifugiati nell’Rd Congo, se confermati, sarebbero da considerare

“genocidio”; ufficiali militari esiliati, il gen. Kayumba Nyamwasa

e il col. Patrick Karegeya, formano un nuovo partito, il Congresso

nazionale del Rwanda.

2011 Febbraio: Bernard Ntaganda, leader dell’opposizione, è accusato di

fomentare le tensioni etniche e condannato a 4 anni di prigioni;

gruppi per i diritti umani criticano la sentenza;

Giugno: l’ex ministro per la famiglia, Pauline Nyiramasuhuko, è la

prima donna a essere giudicata colpevole di genocidio da una corte

internazionale; settembre: l’ex candidata presidenziale Victoire

Ingabire è portata in corte, accusata di negare il genocidio e di

essere in contatto con un gruppo terroristico;

Novembre: il Rwanda restituisce all’Rd Congo 82 tonnellate di

metalli preziosi rubati dalle sue forze militari;

Dicembre: la Corte penale internazionale libera il leader hutu

Callixte Mbarushimana per insufficienza di prova (è il primo

sospettato a essere liberato da una corte). 2012 Giugno: il Rwanda chiude i gacaca (tribunali tradizione) dopo 10

anni di attività; gruppi per i diritti umani ritengono che queste corti

non hanno mai raggiunto gli standard internazionali richiesti; il

governo dichiara che il 65% dei circa 2 milioni di persone

processate sono state giudicate colpevoli; luglio: Usa, Gran

Bretagna e Olanda bloccato i loro aiuti al Rwanda, dopo che l’Onu

ha accusato il governo di Kagame di fomentare la ribellione

nell’Rd Congo offrendo addestramento alle milizie ribelli (Kigali

nega);

Ottobre: una corte condanna Victoire Ingabire a 8 anni di prigione,

con l’accusa di aver minacciato la sicurezza dello stato; dicembre:

la Corte internazionale per il Rwanda (Ictr), voluta dall’Onu,

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condanna Augustin Ngirabatware, ex ministro e ritenuto

organizzatore chiave del genocidio, a 35 anni di prigione. 2013 Febbraio: la Ictr annulla le condanne per genocidio inflitte nel

2011 agli ex ministri Justine Mugenzi e Prosper Mugiraneza,

provocando lo sdegno dei procuratori.

Genocidio ed epurazione etnica nella ex-Jugoslavia

Lo Stato jugoslavo nasce nel 1918 e nel 1945, in seguito alla guerra di

liberazione dal nazifascismo guidata dal comunista Josip Broz, ‘Tito’,

diviene una Repubblica federale formata dalle sei repubbliche di Serbia,

Montenegro, Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Croazia e Macedonia, oltre alle

province autonome del Kosovo e della Vojvodina. Dopo la scomparsa di

Tito (maggio 1980), che per circa 40 anni aveva garantito la coesione

pacifica di una realtà fortemente eterogenea dal punto di vista etnico,

politico, religioso e culturale, si apre una fase di instabilità determinata da

Da Daniela Caravaggi, La guerra civile nell’ex-Jugoslavia (1991-95), Treccani.it,

14,06,2006.

un’inflazione crescente, da un forte indebitamento estero e da un farraginoso

sistema decisionale legato alla rappresentanza etnica. Nel 1990 si dissolve la

Lega dei comunisti, il partito unico, dal 1945 punto di riferimento della

Federazione. Da allora cominciano a manifestarsi interessi economici

divergenti, contrasti politici e forti spinte nazionaliste.

Nel 1992 la Slovenia e la Croazia dichiarano la loro indipendenza mentre la

minoranza serba presente nella Croazia si dichiara a sua volta indipendente

con l’appoggio militare della Serbia, scatenando il conflitto serbo-croato

(1991-92), che vede il cessate il foco grazie a un intervento dei caschi blu

dell’ONU nel febbraio 1992. La Serbia, alla guida del comunista-

nazionalista Milosevic, è lo Stato più potente dell’area, difende le sue

prerogative politico-economiche e, con l’obiettivo di una ‘Grande Serbia’,

vuole tutelare i 2 milioni di serbi che vivono al di fuori della repubblica.

Così nel 1992 il fronte si sposta in Bosnia-Erzegovina (con la popolazione

per il 44% musulmana, per il 31% serba, per il 17% croata) dove i serbi si

oppongono all’indipendenza voluta dai musulmani e dai croati. I serbo-

bosniaci e l’esercito federale occupano il 70% della Bosnia, bombardano la

capitale Sarajevo, effettuano operazioni di pulizia etnica e religiosa, stuprano

le donne bosniache. La comunità internazionale dimostra sostanzialmente la

sua impotenza di fronte al conflitto che è terminato nel 1995 grazie

all’imponente intervento armato della Nato, con un bilancio di 250.000

morti ed oltre 2 milioni di profughi. Gli accordi di Dayton (Usa) firmati il 21

novembre 1995 da Milosevic per i serbi, da Tudjman per i croati e da

Izetbegovic per i bosniaci stabiliscono che la Bosnia è un unico stato

composto però da due diverse entità: una Federazione musulmano-croata ed

una repubblica serbo-bosniaca.

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DOCUMENTI

CONVENZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI (1948)

Preambolo Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri

della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il

fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo;

Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti dell’uomo hanno

portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che

l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godono della libertà di parola

e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la

più alta aspirazione dell’uomo;

Considerato che è indispensabile che i diritti dell’uomo siano protetti da

norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere,

come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione;

Considerato che è indispensabile promuovere lo sviluppo dei rapporti

amichevoli tra le Nazioni;

Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto

la loro fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore

della persona umana, nell’eguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna, ed

hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un migliore tenore di vita

in una maggiore libertà;

Considerato che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire, in

cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l’osservanza universale dei

diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali;

Considerato che una concezione comune di questi diritti e di queste libertà è

della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni;

L’Assemblea Generale proclama la presente Dichiarazione Universale dei Diritti Dell’Uomo come ideale da

raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo

e ogni organo della società, avendo costantemente presente questa

Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione,

il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure

progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo

riconoscimento e rispetto tanto fra popoli degli stessi Stati membri, quanto

fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione.

Art. 1 Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono

dotati di ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito

di fratellanza.

Articolo 2 1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella

presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di

colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere,

di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.

2. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico,

giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona

appartiene, sia che tale Paese o territorio sia indipendente, o sottoposto ad

amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi altra

limitazione di sovranità.

Art. 3 Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria

persona.

Art. 4 Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; La

schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.

Art. 5 Nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamento o punizioni crudeli,

inumani o degradanti.

Art. 6 Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua

personalità giuridica.

Art. 7 Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna

discriminazione, ad un’eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto

ad un’eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente

Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.

Art. 8 Ogni individuo ha diritto ad un’effettiva possibilità di ricorso a competenti

tribunali nazionali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui

riconosciuti dalla costituzione o dalla legge.

Art. 9 Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato.

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Art. 10 Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad una equa e

pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine

della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, nonché della

fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta.

Art. 11 1. Ogni individuo accusato di reato è presunto innocente sino a che la sua

colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel

quale egli abbia avuto tutte le garanzie per la sua difesa.

2. Nessun individuo sarà condannato per un comportamento commissivo od

omissivo che, al momento in cui sia stato perpetrato, non costituisse reato

secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non potrà del

pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella applicabile al momento in

cui il reato sia stato commesso.

Art. 12 Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua

vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a

lesioni del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad

essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni.

Art. 13 1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i

confini di ogni Stato.

2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e

di ritornare nel proprio Paese.

Art. 14 1. Ogni individuo ha diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle

persecuzioni.

2. Questo diritto non potrà essere invocato qualora l’individuo sia realmente

ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle

Nazioni Unite.

Art. 15 1. Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza.

2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua

cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza.

Art. 16 1. Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una

famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi

hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto

del suo scioglimento.

2. Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno

consenso dei futuri coniugi.

3. La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto

ad essere protetta dalla società e dallo Stato.

Art. 17 1. Ogni individuo ha il diritto ad avere una proprietà privata sua personale o

in comune con gli altri.

2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua proprietà.

Art. 18 Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e di religione;

tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di

manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, la

propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel

culto e nell’osservanza dei riti.

Art. 19 Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il

diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare,

ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza

riguardo a frontiere.

Art. 20 1. Ogni individuo ha il diritto alla libertà di riunione e di associazione

pacifica.

2. Nessuno può essere costretto a far parte di un’associazione.

Art. 21 1. Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio Paese, sia

direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti.

2. Ogni individuo ha diritto di accedere in condizioni di eguaglianza ai

pubblici impieghi del proprio Paese.

3. La volontà popolare è il fondamento dell’autorità del governo; tale

volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni,

effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, o secondo una

procedura equivalente di libera votazione.

Art. 22 Ogni individuo in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza

sociale nonché alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la

cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse

di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua

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dignità ed al libero sviluppo della sua personalità.

Art. 23 1. Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste

e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la

disoccupazione.

2. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione

per eguale lavoro.

3. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione equa e

soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia un’esistenza

conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, ad altri mezzi di

protezione sociale.

4. Ogni individuo ha il diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la

difesa dei propri interessi.

Art. 24 Ogni individuo ha il diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una

ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite.

Art. 25 1. Ogni individuo ha il diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la

salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo

all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi

sociali necessari, ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione,

malattia, invalidità vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei

mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.

2. La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i

bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa

protezione sociale.

Art. 26 1. Ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita

almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione

elementare deve essere obbligatoria.

L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e

l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base

del merito.

2. L’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità

umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà

fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza,

l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire

l’opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace.

3. I genitori hanno diritto di priorità nella scelta di istruzione da impartire ai

loro figli.

Art. 27 1. Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale

della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico

ed ai suoi benefici.

2. Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali

derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia

autore.

Art. 28 Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i

diritti e la libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere

pienamente realizzati.

Art. 29 1. Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è

possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità.

2. Nell’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere

sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per

assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e della libertà degli altri e

per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del

benessere generale in una società democratica.

3. Questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere esercitati

in contrasto con i fini e i principi delle Nazioni Unite.

Art. 30 Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di

implicare un diritto di qualsiasi Stato gruppo o persona di esercitare

un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti e delle

libertà in essa enunciati.

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CONVENZIONE PER LA PREVENZIONE

E LA REPRESSIONE DEL DELITTO DI GENOCIDIO (9 dicembre 1948)

Adottata dalla Risoluzione 260 (III) A dell’Assemblea Generale delle

Nazioni Unite il 9 dicembre 1948. Entrata in vigore il 12 gennaio 1951.

Le Alte Parti Contraenti

- considerando che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella

Risoluzione 96 dell’11 dicembre 1946 ha dichiarato che il genocidio è un

crimine di diritto internazionale, contrario allo spirito e ai fini delle Nazioni

Unite e condannato dal mondo civile;

- riconoscendo che il genocidio in tutte le epoche storiche ha inflitto gravi

perdite all’umanità;

- convinte che la cooperazione internazionale è necessaria per liberare

l’umanità da un flagello così odioso,

- convengono quanto segue:

Art. I -: Le Parti Contraenti confermano che il genocidio, sia che venga

commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra, è

un crimine di diritto internazionale che esse si impegnano a prevenire e a

punire.

Art. II - Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno

degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in

parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:

(a) uccisione di membri del gruppo;

(b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;

(c) il sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a

provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;

(d) misure miranti a impedire le nascite all’interno del gruppo;

(e) trasferimento forzato di bambini del gruppo a un altro gruppo.

Art. III - Saranno puniti i seguenti atti:

(a) il genocidio;

(b) la cospirazione mirante a commettere genocidio;

(c) l’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio;

(d) il tentativo di commettere genocidio;

(e) la complicità nel genocidio.

Art. IV - Le persone che commettono il genocidio o uno degli atti elencati

nell’articolo III saranno punite, sia che rivestano la qualità di governanti

costituzionalmente responsabili o che siano funzionari pubblici o individui

privati.

Art. V - Le Parti Contraenti si impegnano a emanare, in conformità alle loro

rispettive Costituzioni, le leggi necessarie per dare attuazione alle

disposizioni della presente Convenzione, e in particolare a prevedere

sanzioni penali efficaci per le persone colpevoli di genocidio o di uno degli

altri atti elencati nell’articolo III.

Art. VI - Le persone accusate di genocidio o di uno degli altri atti elencati

nell’articolo III saranno processate dai tribunali competenti dello Stato nel

cui territorio l’atto è stato commesso, o dal tribunale penale internazionale

competente rispetto a quelle Parti Contraenti che ne abbiano riconosciuto la

giurisdizione.

Art. VII - Il genocidio e gli altri atti elencati nell’articolo III non saranno

considerati come reati politici ai fini dell’estradizione.

Le Parti Contraenti si impegnano in tali casi ad accordare l’estradizione in

conformità alle loro leggi e ai trattati in vigore.

Art. VIII - Ogni Parte Contraente può invitare gli organi competenti delle

Nazioni Unite a prendere, ai sensi della Carta delle Nazioni Unite, ogni

misura che essi giudichino appropriata ai fini della prevenzione e della

repressione degli atti di genocidio o di uno qualsiasi degli altri atti elencati

all’articolo III.

Art. IX - Le controversie tra le Parti Contraenti, relative all’interpretazione,

all’applicazione o all’esecuzione della presente Convenzione, comprese

quelle relative alla responsabilità di uno Stato per atti di genocidio o per

uno degli altri atti elencati nell’articolo III, saranno sottoposte alla Corte

internazionale di Giustizia, su richiesta di una delle parti impegnate nella

controversia.

Art. X - La presente Convenzione, di cui i testi cinese, inglese, francese,

russo e spagnolo fanno ugualmente fede, porterà la data del 9 dicembre

1948.

Art. XI - La presente Convenzione sarà aperta fino al 31 dicembre 1949 alla

firma da parte di ogni Stato membro delle Nazioni Unite e di ogni Stato non

membro al quale l’Assemblea Generale abbia rivolto un invito a tal fine.

La presente Convenzione sarà ratificata, e gli strumenti di ratifica saranno

depositati presso il Segretario generale delle Nazioni Unite.

Dal gennaio 1950, alla presente Convenzione potranno aderire qualsiasi

Stato membro delle Nazioni Unite e qualsiasi Stato non membro che abbia

ricevuto l’invito summenzionato. Gli strumenti di adesione saranno

depositati presso il Segretario generale delle Nazioni Unite.

Art. XlI - Ogni Parte Contraente potrà, in qualsiasi momento, mediante

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notificazione indirizzata al Segretario generale delle Nazioni Unite,

estendere l’applicazione della presente Convenzione a tutti i territori o a uno

qualsiasi dei territori riguardo ai quali abbia la responsabilità dei rapporti

con l’estero.

Art. XIII - Nel giorno in cui i primi venti strumenti di ratifica o di adesione

saranno stati depositati, il Segretario generale redigerà un processo verbale

e trasmetterà una copia di esso a ciascuno Stato membro delle Nazioni

Unite e a ciascuno degli Stati non membri previsti nell’articolo XI.

La presente Convenzione entrerà in vigore il novantesimo giorno successivo

alla data del deposito del ventesimo strumento di ratifica o di adesione.

Qualsiasi ratifica o adesione effettuata posteriormente a quest’ultima data

avrà effetto il novantesimo giorno successivo al deposito dello strumento di

ratifica o di adesione.

Art. XIV - La presente Convenzione avrà una durata di dieci anni a partire

dalla sua entrata in vigore.

In seguito essa rimarrà in vigore per successivi periodi di cinque anni fra

quelle Parti Contraenti che non l’avranno denunciata almeno sei mesi prima

della scadenza del termine.

La denuncia sarà effettuata mediante notificazione scritta indirizzata al

Segretario generale delle Nazioni Unite.

Art. XV - Se, in conseguenza di denunce, il numero delle Parti firmatarie

della presente Convenzione diverrà inferiore a sedici, la Convenzione

cesserà di essere in vigore dalla data in cui l’ultima di tali denunce avrà

efficacia.

Art. XVI - Una domanda di revisione della presente Convenzione potrà

essere formulata in qualsiasi momento da qualsiasi Parte Contraente,

mediante notificazione scritta indirizzata al Segretario generale.

L’Assemblea Generale deciderà le misure da adottare, se del caso, in ordine

a tale domanda.

Art. XVII - Il Segretario generale delle Nazioni Unite notificherà a tutti gli

Stati membri delle Nazioni Unite e agli Stati non membri previsti

nell’articolo XI i seguenti atti:

(a) le firme, ratifiche e adesioni ricevute in applicazione dell’articolo XI;

(b) le notificazioni ricevute in applicazione dell’articolo XII;

(c) la data in cui la presente Convenzione entrerà in vigore, in applicazione

dell’articolo XIII;

(d) le denunce ricevute in applicazione dell’articolo XIV;

(e) l’abrogazione della Convenzione, in applicazione dell’ articolo XV;

(f) le notificazioni ricevute in applicazione dell’articolo XVI.

Art. XVIII - L’originale della presente Convenzione sarà depositato

nell’archivio delle Nazioni Unite.

Una copia certificata conforme sarà inviata a tutti gli Stati membri delle

Nazioni Unite e a tutti gli Stati non membri previsti nell’articolo XI.

Art. XIX - La presente Convenzione sarà registrata dal Segretario generale

delle Nazioni Unite alla data della sua entrata in vigore. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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