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I prodotti tradizionali della Regione Marche testi a cura di Ferruccio Luciani ASSESSORATO ALL’AGRICOLTURA, ALIMENTAZIONE E PESCA - REGIONE MARCHE - 2006

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I prodotti tradizionalidella Regione Marche

testi a cura di Ferruccio Luciani

ASSESSORATO ALL’AGRICOLTURA, ALIMENTAZIONE E PESCA - REGIONE MARCHE - 2006

Testi a cura di Ferruccio Luciani - Assessorato all’Agricoltura, Alimentazione e Pesca

CoordinamentoLuana Spernanzoni, Leonardo Valenti - Assessorato all’Agricoltura, Alimentazione e Pesca

FotografieArchivi Regione Marche, Assam, Comune di Camerano, Comune di Montelupone, Comune di Treia,Azienda Bilancioni, Augusto Congionti, Lamponemedia, Benedetto Salvucci, Giorgio SorcinelliProgetto Grafico e StampaErrebi Grafiche Ripesi - Falconara Marittima - AN

Si ringraziano tutti coloro che hanno collaborato alla realizzazione di questa pubblicazione

Copyright © Regione Marche

Non è permessa la riproduzione di qualsiasi parte di questo libro, in qualsiasi forma realizzata,senza il permesso scritto dell’Assessorato all’Agricoltura, Alimentazione e Pesca

3prefazione

In questi ultimi anni, le Marche hanno impostato la promozione della propria immaginesul fatto di essere l’unica regione italiana “al plurale”. Al plurale per la grande diversità checaratterizza il territorio come la popolazione, la cultura come le attività economiche, ilfolklore come le tradizioni. Il patrimonio enogastronomico regionale è senza dubbio l’emblema delle Marche al plurale ein particolare lo sono i 150 prodotti tradizionali descritti in questa pubblicazione. Si tratta di prodotti diversissimi tra loro sia come storia che come dimensione produttiva. Per alcuni di essi, maggiormente rilevanti dal punto di vista economico, sono già stati attivatialcuni studi finalizzati all’ottenimento di un riconoscimento comunitario come DOP o IGP. Ma sono molti i prodotti la cui circolazione è limitata al mercato locale e non per questodobbiamo ritenerli meno importanti. Bisogna infatti effettuare una valutazione che non siconcentri solo sugli aspetti meramente produttivi ma tenga conto anche di altri obiettiviche possono essere perseguiti con la salvaguardia dei prodotti tradizionali: il manteni-mento di attività economiche in zone marginali, la tutela di alcune biodiversità che sareb-bero improponibili in zone agricole più produttive e la conservazione di un patrimonio cul-turale inestimabile. Tutti i cittadini delle Marche devono infatti sentirsi eredi di una grande ricchezza e allostesso tempo custodi di quella che possiamo definire l’identità marchigiana. E ognuno dei150 prodotti tradizionali racchiude in sé una parte del DNA regionale. Vedrete come la storia dei prodotti si sovrapponga continuamente a quella del nostro ter-ritorio. Avrete modo di incontrare, tra un formaggio stagionato in botti di rovere ed un dolcea base di riso, miele e farina di castagne, personaggi di un illustre passato: papi, condottieri,letterati… Incontrerete Garibaldi, Rossini, Leopardi, ma anche briganti e gente comune;gente che ha vissuto in povertà e che nella povertà ha appreso l’arte di realizzare prodottinutrienti e gustosi con le materie prime più modeste. Questa ricchezza che viene dalla povertà è la grande eredità che siamo chiamati a tramandareai nostri figli.Noi tutti dobbiamo sentire l’importanza di questa eredità; sentirne la responsabilità ma allostesso tempo esserne onorati.In effetti, la vera sfida che a livello regionale ci poniamo in quest’epoca di globalizzazione e diprofondi mutamenti è quella di perseguire un modello di sviluppo che non snaturi la nostraidentità. La competitività della nostra regione deve passare attraverso l’integrazione dei pro-dotti nel territorio.

E se la maggior parte dei prodotti non ha la dimensione economica per uscire dai confini na-zionali, e spesso neanche regionali, questo non deve essere un limite ma deve essere uno sti-molo a calibrare meglio la nostra attività promozionale facendo in modo di portare il turista làdove questi prodotti vengono ancora oggi ottenuti con le tecniche di una volta, di fargli cono-scere quindi, insieme al prodotto, anche un territorio con tutto quello che esso racchiude in ter-mini di ambiente, arte, cultura… D’altronde la più recente produzione legislativa regionale va tutta in questa direzione. Il censi-mento dei prodotti tradizionali si inserisce in un contesto più ampio che ha visto la RegioneMarche schierarsi inequivocabilmente contro gli OGM, istituire il repertorio regionale del pa-trimonio genetico, finanziare progetti finalizzati all’ottenimento di nuove DOP e IGP, realizzareil sistema regionale per la tracciabilità delle produzioni alimentari e, da ultimo, registrare unmarchio di qualità regionale. Infine, un’ultima considerazione, sempre legata ai prodotti tradizionali, riguarda una sfida cheabbiamo voluto raccogliere a difesa del gusto, nella convinzione che non si possa affrontarequalsiasi questione riguardante i prodotti alimentari solo con un approccio di tipo igienico-sa-nitario. In fondo i nostri antenati erano molto meno sprovveduti di quello che, con una certasupponenza, siamo portati a pensare oggi e adottavano molti accorgimenti sulla salubritàdegli alimenti che, anche alla luce delle conoscenze attuali, si rivelano assai efficaci. Perciò, seda un lato non si può prescindere dalla sicurezza alimentare, che deve essere assicurata perogni alimento che ingeriamo, dall’altro è altrettanto importante che questa sicurezza nondebba necessariamente passare attraverso lo stravolgimento di metodi produttivi che si ripe-tono da decenni quando non da secoli e non diventi, pertanto, sinonimo di omologazione edappiattimento del gusto. Ma qui rientra in campo il ruolo della Regione che, attraverso un’efficace attività di educazionealimentare, deve mettere il consumatore nella condizione di avere le necessarie cognizioni pereffettuare scelte consapevoli.In quest’ottica giunge il mio auspicio che questa pubblicazione contribuisca a far conoscere ilnostro patrimonio gastronomico e magari incuriosisca qualcuno, noi marchigiani per primi, adandare alla ricerca delle tante meraviglie disseminate sul nostro territorio.

Paolo PetriniAssessore all’Agricoltura,

Alimentazione e Pescadella Regione Marche

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PARTE GENERALEPresentazioneI prodotti tradizionali della Regione MarcheL’elenco dei prodotti tradizionali

LE CATEGORIE

BEVANDE ANALCOLICHE, DISTILLATI, LIQUORI VisnerVino cottoSapaTre liquori marchigiani

CARNI (E FRATTAGLIE) FRESCHE E LORO PREPARAZIONIIl maiale e la pistaUn macabro ritoDel maiale non si buttava proprio nullaLa parte nobile del maialeIl paté? Qui si chiama ciauscoloTra i salami sulle orme di GaribaldiAncora sul maialeLe carni fresche

PREPARAZIONE DI PESCI, MOLLUSCHI E CROSTACEI E TECNICHE PARTICOLARIDI ALLEVAMENTO DEGLI STESSIFiletti di trota affumicati

CONDIMENTIConserva di pomodoriPaste, salse e… salamore

GRASSI (BURRO, MARGARINA, OLI)L’olio de Marchia

FORMAGGIA ciascuno il suo pecorinoPecorino in botteDalla botte… alla fossaFormaggi al fico, al carciofo e al limone Dal Montefeltro, un poker di bontà

PRODOTTI DI ORIGINE ANIMALE (MIELE, PRODOTTI LATTIERO CASEARI DI VARIO TIPO)Il miele Ricotta e ricotta salata

PASTE FRESCHE E PRODOTTI DELLA PANETTERIA, DELLA BISCOTTERIA E DELLA CONFETTERIAIl pane e la pasta: ovvero i frutti del granoLa crescia e la tortaC’era una volta la colazioneI dolci del carnevaleFristinghi, frustenghe e bostrenghiDai fichi lonze e torroniSerpi, cavallucci ed altre creatureE non è finita

PRODOTTI VEGETALI ALLO STATO NATURALE O TRASFORMATILe delizie dell’ortoTanti modi di gustare l’oliva I prodotti del bosco, del sottobosco e del sottosuoloMele e pere: la frutta classica … ma non troppoVisciole e dintorniFrutta con fantasiaLa ricchezza della povertà

indice

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liquoreal cumino

trota Fario

salame di Fabriano

pane di Chiaserna

ricotta salata

lardo delMontefeltro

marronedel Montefeltro

crescia fogliataLa storia delle tradizioni marchigianeè la storia di un territorio incredibil-mente vario nella sua pur limitataestensione. Contaminazioni di ogni tiposi sono intrecciate nei secoli senza eli-dersi, ma generando dalla loro commi-stione nuove tradizioni e nuovi modellidi vita. Come l’aggettivo marchigianopuò essere utilizzato solo con una con-notazione territoriale, così, nell’agricol-tura, nell’allevamento, nella cucina, ingenere in ogni attività umana, assi-stiamo ad una esplosione di differentimodelli che prima di marchigiani sonofeltreschi, piceni, esinati, etc; o ancorameglio, urbinati, fanesi, maceratesi,moglianesi, vissani, etc. Il risultato èuna irripetibile densità di tradizioni, dif-ficilmente catalogabili e tutte estrema-mente vive; tradizioni che rendono leMarche il più moderno esempiodi come diversità e tolleranza generinobenessere e alta qualità del vivere.

ANCONA

URBINO

PESARO

MACERATA

FERMO

ASCOLI PICENO

vino cotto

sapa

olivaascolanadel piceno

biscott’

ciauscolo

calcione

lonza di fico

carciofovioletto di Jesi

carciofomonteluponese

pecorino

pecorino

salame lardellato

marronedi Acquasanta

mistrà

lacrimadi spino nero

tartufobianco

tartufonero

pecorinodi botte

bostrengo

formaggiodi fossa

cipolladi Suasa

cavolfioretardivo di Fano

tacconi

maccheroncinidi Campofilone

salsicciadi fegato

roveja

taccole

visner

Quando si parla di prodotti agricoli e agroali-mentari, si ha un bel da fare a volersi districaretra prodotti tipici, biologici, attestazioni di spe-cificità, DOP, IGP, DOC, DOCG, IGT ecc… La ca-tegoria più “giovane”, in quanto ultima in or-dine cronologico, è quella dei prodotti tradizio-nali. Se si eccettuano infatti sporadici e genericiriferimenti presenti in qualche passo della rego-lamentazione comunitaria, il primo riferimentoesplicito alla categoria compare solo nel de-creto legislativo n. 173 del 30 aprile 1998 perdefinire quei prodotti le cui metodiche di lavo-razione, conservazione e stagionatura sonoconsolidate nel tempo. Lo stesso atto demandaalle regioni il compito di individuare, sul proprioterritorio, i prodotti con caratteristiche tradi-zionali da inserire in tanti elenchi regionali checonfluiranno poi in quello nazionale dei pro-dotti tradizionali, tenuto presso il Ministerodelle politiche agricole e forestali. Ministeroche, l’anno successivo, con D.M. 8 settembre1999, n. 350, fissa in 25 anni il periodo ditempo minimo da considerare ai fini dell’attri-buzione ad un prodotto dello status di “tradi-zionale”. Potrebbe sembrare cosa da poco mabasta scorrere l’elenco degli oltre 4000 prodotticensiti dalle regioni italiane per capire che nonsi tratta di una semplice lista di cose buone damangiare o di un diario dei ricordi e delle tradi-zioni. In realtà, l’elenco dei prodotti tradizionaliè un qualcosa di inscindibile dall’anima e dallacultura di un popolo. La Regione Marche è statauna delle prime regioni a credere nell’impor-tanza di quest’operazione tant’è che già nel no-vembre 1998, giocando d’anticipo persino sulladeterminazione dei criteri a livello nazionale,provvedeva all’individuazione di un primogruppo di prodotti a base di latte. L’esigenza

che spinse la nostra regione ad applicare contanta fretta la normativa che si andava deli-neando era quella di garantire la sopravvivenzadi produzioni che rischiavano di scomparire, inquanto l’adeguamento ad una normativa igie-nico-sanitaria sempre più stringente mal siconciliava con il rispetto di tecniche di produ-zione tradizionali.Il decreto 173/98 consentiva infatti ai prodottiriconosciuti come tradizionali, di poter accederead una serie di deroghe igienico-sanitarie, rife-rite in particolare alla natura dei materiali uti-lizzati per la lavorazione ed alle caratteristichedei locali di lavorazione, maturazione e stagio-natura. Un esempio per tutti: il formaggio difossa. Un prodotto universalmente conosciutoed apprezzato ma assai difficile da inquadrarenel nostro sistema sanitario. È evidente chesenza la possibilità di prevedere deroghe speci-fiche per questo e per altri prodotti, un interopatrimonio che, abbiamo visto, non è solo ga-stronomico, avrebbe seriamente rischiato o discomparire o di sopravvivere in uno stato di se-miclandestinità o di perdere le sue caratteri-stiche tradizionali omologandosi alla produ-zione industriale.Nasceva così, nel 1998, il primo elenco regionaledei prodotti tradizionali che era costituito da 9prodotti a base di latte. Da allora, l’elenco èstato continuamente aggiornato, fino ad arri-vare agli attuali 150 prodotti.Questo approfondito lavoro di catalogazione eaggiornamento è stato svolto, essenzialmente indue modi:- da un lato puntando su un’iniziativa diretta da

parte della Regione; proponendo, cioè, unaserie di prodotti già conosciuti in quantofrutto di precedenti studi, oggetto di pubbli-

9i prodotti tradizionalidella Regione Marche

10 cazioni o comunque tradizionalmente noti alivello sia regionale che locale;

- dall’altro avvalendosi del prezioso contributodi soggetti sia pubblici che privati (ammini-strazioni locali, associazioni di produttori, or-ganizzazioni professionali, singole aziendeecc…) che hanno inviato e continuano a in-viare segnalazioni, documenti storici e mate-riale fotografico sui prodotti tradizionali re-gionali.

Un lavoro non semplice, ma estremamente inte-ressante, quello di esaminare, valutare e classi-ficare tutto il materiale pervenuto. Non sempreagevole la collocazione di un prodotto in questao quella categoria. Ancora più arduo tracciare lelinee di confine tra un prodotto e l’altro, tenutoconto che di ogni prodotto esistono spesso nu-merose varianti e che lo stesso prodotto è desi-gnato con nomi diversi in zone diverse e che an-cora, in zone diverse, si usa lo stesso nome perindicare prodotti diversi. L’incarico di individuare i prodotti è stato asse-gnato ad un gruppo di lavoro, appositamentecostituito, composto da sei esperti individuatinell’ambito dell’Assessorato all’Agricoltura, del-l’Assessorato alla Sanità e dell’Agenzia di servizinel settore agroalimentare delle Marche –Assam. Trovandosi di fronte a qualcosa comepoco meno di un migliaio di segnalazioni, ilgruppo ha dovuto necessariamente operare unasintesi, in alcuni casi anche piuttosto spinta, con

l’intento di condensare in un’u-nica scheda, tutti

quei

prodotti affini tra loro o, perlomeno, riconduci-bili ad un’unica tipologia di prodotto. Ciò, co-m’era inevitabile, è andato a scapito del detta-glio, tant’è che non sempre è stato possibile va-lorizzare adeguatamente peculiarità e specifi-cità di alcune varianti a diffusione particolar-mente circoscritta.Va evidenziato, tuttavia, che l’elenco ha una na-tura dinamica, nel senso che, ogni anno, si pro-cede alla revisione ed all’aggiornamento delleschede, inserendo nuovi prodotti, defalcandoquelli che nel frattempo hanno ottenuto unaprotezione in ambito comunitario come DOP,IGP o attestazioni di specificità, integrando itesti sulla base della nuova documentazione ac-quisita di anno in anno.

Un elenco, quindi, che va ben al di là del possibileaccesso alle deroghe igienico-sanitarie che, aconti fatti, interessano solamente 15 dei 150 pro-dotti individuati nelle Marche, cioè appena il10%. La valenza che va riconosciuta all’opera-zione è assai più profonda in quanto va a toccare,attraverso la riscoperta del patrimonio gastrono-mico di una terra, l’identità stessa di una popola-zione. Attraverso la conoscenza di pratiche e tra-dizioni che non rispondono solo a logiche di mer-cato, abbiamo l’occasione di rimettere in discus-sione e migliorare non solo le nostre abitudini ali-mentari ma l’intero stile di vita che ci siamo “con-quistati” in nome del benessere.Certo è che se dovessimo valutare i prodotti in-

seriti nell’elenco solo sulla base dell’eco-nomicità, per intenderci, quella

stabilita dai parametri diMaastricht, molti di essi

sarebbero condannatisenza appello per averinfranto la legge delmercato. D’altra

parte, il concetto dieconomicità di unambiente rurale,dove l’unità produt-

11tiva tipo era rappresentata da una famiglia com-posta da non meno di 10-15 persone e che per-tanto non considerava la manodopera come uncosto, ha poco a che vedere con quello che, ad ap-pena 50 anni di distanza, spinge fortemente sullastandardizzazione; una standardizzazione a 360°che riguarda non solo il processo produttivo maanche la capacità stessa di percepire il gusto daparte del consumatore. Ma il concetto di economicità va anch’esso vistosecondo un’accezione più estensiva perché ilprodotto tradizionale non deve essere visto soloin funzione della PLV che da esso scaturisce di-rettamente. Bisogna invece considerare che lapossibilità di poter continuare determinati pro-dotti con determinate tecniche può contribuirea mantenere vitale il tessuto sociale di alcunearee a forte rischio di spopolamento, rivestendoin tal modo, un importante ruolo anche perquanto concerne la tutela dell’ambiente e la sal-vaguardia delle biodiversità.

I prodotti tradizionali, pertanto, insieme alle de-nominazioni di origine, rappresentano uno stru-mento strategico per la tutela e la valorizza-zione del territorio nel suo complesso e, ancheper questo, sono da considerare un patrimonioche non riguarda una singola azienda o un com-parto produttivo ma tutta la collettività.

LA STRUTTURA DELL’ELENCOL’elenco regionale dei prodotti tradizionali sipresenta come uno schedario, diviso in due se-zioni principali: una dedicata alla descrizione deiprodotti ed una alle deroghe igienico-sanitarie.Le schede descrittive dei prodotti sono, a lorovolta, divise in otto campi. Il primo riporta il nome della categoria di appar-tenenza del prodotto. I 150 prodotti individuatidalla Regione Marche sono suddivisi in nove ca-tegorie. La categoria più rappresentata, con ben44 prodotti, è quella che comprende paste fre-sche e prodotti della panetteria, della biscotteriae della confetteria.

Seguono: con 43, quella dei prodotti vegetaliallo stato naturale o trasformati, con 30, quelladelle carni fresche e, con 12, quella dei for-maggi. Le altre categorie contano solo pochi“iscritti”: 7 oli, 6 bevande e liquori, 4 condi-menti, 3 prodotti vari di origine animale e unsolo appartenente alla categoria delle prepara-zioni di pesci, molluschi e crostacei. Il secondo campo è riservato all’indicazione delnome del prodotto e dei suoi sinonimi, anchedialettali, più diffusi. Decisamente, si può direche la fantasia non manca e ci imbatteremo, nelcorso della pubblicazione, in casi veramente cu-riosi. Si passa, quindi all’indicazione del luogo di pro-duzione. Si tratta, evidentemente, di un dato pu-ramente indicativo, in quanto non ci troviamo difronte, nella maggior parte dei casi, a prodottisoggetti ad un disciplinare, per cui non esisteuna delimitazione territoriale vincolante. Fannoeccezione solamente alcuni prodotti per i qualisono in corso richieste di registrazione comeDOP o IGP.Nel riquadro successivo, si trova la descrizionedel prodotto intesa come composizione easpetto esteriore (dimensioni, colore, consi-stenza al tatto ecc…). Dove disponibili, vengonoinoltre riportati alcuni dati riferiti al profilo sen-soriale olfattivo e gustativo di ciascun prodotto. Il quinto campo, quello generalmente più cor-poso, riporta la descrizione delle metodiche dilavorazione, conservazione e stagionatura utiliz-zate.Il sesto e il settimo individuano, invece, gli ele-menti che possono costituire, eventualmente,oggetto di una deroga e precisamente: i mate-riali e le attrezzature specifiche che si utilizzanoper la preparazione e il condizionamento e i lo-cali di lavorazione, conservazione e stagionaturadei prodotti.L’ultima parte della scheda riporta invece gli ele-menti che comprovano la tradizionalità dei pro-dotti e delle procedure utilizzate. Si tratta, in

12 genere, di riferimenti bibliografici, ma non man-cano anche riferimenti a: sagre, manifestazioni,testimonianze scritte rilasciate da persone an-ziane, materiale fotografico e alle pubblicazionipiù svariate. La parte relativa alle deroghe riguarda 15 pro-dotti ed è composta da altrettante schede, diviseciascuna in sette campi.Come per le schede dei prodotti, i primi duecampi sono dedicati, rispettivamente, alla cate-goria ed al nome del prodotto. Come volevasi di-mostrare, la parte del leone la fanno i formaggiche sono presenti al gran completo: 12 su 12. Lealtre tre richieste di deroga riguardano due pro-dotti di origine animale (anch’essi a base dilatte) e uno di origine vegetale.Il terzo campo è quello che descrive l’oggettodella deroga e ne illustra la necessità. Bisogna, in

pratica, dimostrare che le caratteristiche peculiaridi un prodotto derivano dall’utilizzo di determi-nate tecniche tradizionali e che sarebbero snatu-rate utilizzando tecniche più evolute, conformialla vigente legislazione igienico-sanitaria. Nel campo successivo, vanno riportate le osser-vazioni sulla sicurezza alimentare dei prodotti,con l’indicazione degli eventuali rischi connessiall’uso di metodiche tradizionali e delle azioni daadottare per la loro prevenzione. Il quinto campo è riservato ai riferimenti norma-tivi, ovvero agli estremi delle leggi alle quali sichiede di derogare. Il sesto è riservato alle eventuali annotazioni eprescrizioni dei servizi sanitari regionali.L’ultimo è invece l’attestazione, rilasciata dallaRegione, sulla rispondenza del prodotto ai requi-siti di salubrità e sicurezza previsti dalla legge.

REGIONE MARCHEAssessorato all’Agricoltura,

Alimentazione e Pesca

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BEVANDE ANALCOLICHE, DISTILLATIE LIQUORI

LIQUORE AL CUMINOLIQUORE ALL'ANICE - MISTRA'PRUNUS DI VALLE REA - LACRIMA DI SPINO NEROSAPAVINO COTTO - VI'COTTO - VI'CUOTVISNER - VINO DI VISCIOLE

CARNI (E FRATTAGLIE) FRESCHE E LOROPREPARAZIONE

BARBAGLIA - GOLETTABUDELLINO DI AGNELLO o CAPRETTO CRUDOCAPPONE RUSTICO - CAPPONE NOSTRALECARNE DEL CAVALLO DEL CATRIACARNE DELLA RAZZA BOVINA MARCHIGIANACARNE DI PECORA SOPRAVVISSANACIARIMBOLO - CIARINGOLO - BUZZICCO -CIAMBUDEOCIAUSCOLO - CIABUSCOLO - CIAVUSCOLOCICOLI - CICCIOLI - SGRISCIULICOPPA DI TESTA - TORTELLAFEGATELLIGALLO RUSPANTELARDO DEL MONTEFELTROLONZA - CAPOCOLLO - SCALMARITALONZINO - CAPOLOMBOMAZZAFEGATO - SALSICCIA MATTAMIACCIO - MIAGGIO - MIGLIACCIOPANCETTA ARROTOLATAPORCHETTAPROSCIUTTO AROMATIZZATO DEL MONTEFELTROPROSCIUTTO DELLE MARCHESALAME DI FABRIANOSALAME DI FRATTULA

CARNI (E FRATTAGLIE) FRESCHE E LOROPREPARAZIONE

SALAME DI PECORASALAME di SOPRASSATO o SOPPRESSATOSALAME LARDELLATOSALSICCIASALSICCIA DI FEGATOSPALLETTATACCHINO BRONZATO RUSTICO ONOSTRANO-GALNACC-DINDO

CONDIMENTICONSERVA DI POMODORIPASTA DI TARTUFO BIANCOSALAMORA DI BELVEDERESALSA DI OLIVE

FORMAGGICACIO IN FORMA DI LIMONECACIOTTACACIOTTA VACCINA AL CAGLIO VEGETALECAPRINOCAPRINO AL LATTICE DI FICOCASCIO PECORINO LIEVITO - PECORINOFRESCO "A LATTE CRUDO"CASECCFORMAGGIO DI FOSSAPECORINOPECORINO IN BOTTERAVIGGIOLOSLATTATO

GRASSI (BURRO, MARGARINA, OLI)OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVAMONOVARIETALE CORONCINAOLIO EXTRAVERGINE DI OLIVAMONOVARIETALE MIGNOLAOLIO EXTRAVERGINE DI OLIVAMONOVARIETALE PIANTONE DI FALERONEOLIO EXTRAVERGINE DI OLIVAMONOVARIETALE PIANTONE DI MOGLIANOOLIO EXTRAVERGINE DI OLIVAMONOVARIETALE RAGGIAOLIO EXTRAVERGINE DI OLIVAMONOVARIETALE RAGGIOLAOLIO EXTRAVERGINE DI OLIVAMONOVARIETALE SARGANO DI FERMO

I PRODOTTI TRADIZIONALI DELLA REGIONE MARCHECATEGORIA NOME DEL PRODOTTO

PASTE FRESCHE E PRODOTTI DELLAPANETTERIA, DELLA BISCOTTERIA,DELLA PASTICCERIA E DELLA CONFETTERIA

ANICETTIBISCOTTI DI MOSTOBISCOTTINI SCIROPPATI - BISCUTIN'BOSTRENGOCALCIONE DI TREIACALCIONI DI FAVE FRITTICASTAGNOLECAVALLUCCICHICHIRIPIENO o CHICHI'CIAMBELLA FRASTAGLIATA - CIAMMELLASTROZZOSACIAMBELLE ALL'ANICE O ANICINICIAMBELLONECICERCHIATACRESCIA - CRESCIA BRUSCA - SPIANATA -CACCIANNANZICRESCIA FOGLIATA - CRESCIA FOJATA -LU ROCCIUCRESCIA SOTTO LA CENERE - TORTA COI OVICRESCIOLINACROSTATA AL TORRONECROSTOLI DEL MONTEFELTROFAVE DEI MORTIFRISTINGO - FRISTINGU - FRESTINGHEFRITTELLE DI POLENTAFRUSTENGAFUNGHETTO DI OFFIDALONZA DI FICO - LONZINO DI FICO - LONZETTA DI FICO - SALAME DI FICOMACCHERONCINI DI CAMPOFILONE -CAPELLINI DI CAMPOFILONEMAIORCHINO- MAROCCHINOPAN NOCIATOPANE A LIEVITAZIONE NATURALEPANE DI CHIASERNAPANE DI PASQUA DI BORGOPACEPIZZA CON LE NOCIPIZZA DI PASQUA o CRESCIA DI PASQUAPIZZA o CRESCIA DI PASQUA AL FORMAGGIOQUADRELLI PELUSIROCCIATA - ERBATASCROCCAFUSISERPESFRAPPE- FIOCCHETTISUGHETTI - SUGHITTI - SCIUGHETI - SAPETTI

TACCONI - TACONTORRONE DI FICHI - PANETTO DI FICHITORTA DI GRANOTURCO IN GRATICOLAUNGARACCI - UNGARUCCI

PREPARAZIONE DI PESCI, MOLLUSCHI ECROSTACEI E TECNICHE PARTICOLARI DI AL-LEVAMENTO DEGLI STESSI

FILETTI DI TROTA AFFUMICATI

PRODOTTI DI ORIGINE ANIMALE (MIELE,PRODOTTI LATTIERO CASEARI DI VARIO TIPOESCLUSO IL BURRO)

MIELE DELLE MARCHERICOTTARICOTTA SALATA

PRODOTTI VEGETALI ALLO STATO NATURALEO TRASFORMATI

BACCHE DI BIANCOSPINO IN SCIROPPOCARCIOFO MONTELUPONESE o SCARCIOFENOCARCIOFO VIOLETTO PRECOCE DI JESICAVOLFIORE "PRECOCE DI JESI"CAVOLFIORE "TARDIVO DI FANO"CICERCHIACIPOLLA DI SUASACOMPOSTA DI CASTAGNECOTOGNATAFARINA DI GRANTURCO QUARANTINONOSTRANO DEL MACERATESEFARRO "TRITICUM DICOCCUM"GERMOGLI DI PUNGITOPO SOTT'OLIOGERMOGLI DI TAMARO SOTT'OLIOGERMOGLI DI VITALBA SOTT'OLIOGOBBO DI TRODICA - CARDO DI MACERATAGRANITA CON PESCHE DI MONTELABBATE -GRATTAMARIANNALAMPONI SCIROPPATIMARMELLATA DI BACCHE DI ROSA CANINAMARMELLATA DI COTOGNE E RADICIDI CICORIAMARMELLATA DI FICHI DELLA SIGNORAMARMELLATA DI MOREMARMELLATA DI MOSTO E MELE - MOSTARDAMARMELLATA DI POMODORI VERDIMARRONE DEL MONTEFELTROMARRONE DI ACQUASANTA TERMEMARRONE DI ROCCAFLUVIONE

14 I PRODOTTI TRADIZIONALI DELLA REGIONE MARCHECATEGORIA NOME DEL PRODOTTO

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MELA ROSA - PIANELLA - ROSETTA -DURELLA - APPIETTAMELA ROZZAMISTO DI FINE STAGIONEOLIVA RIPIENA ALL' ASCOLANAOLIVA TENERA ASCOLANA DEL PICENOOLIVE NERE MARINATE - OLIVE NERESTRINATEORZO MONDO TOSTATO MACINATO - ORZOMONDO TOSTATO - MACINATO ALL'ANICEPERA ANGELICAROVEJA - RUBIGLIO - CORBELLOTACCOLE

TARTUFO BIANCO (Tuber magnatum Pico)TARTUFO NERO ESTIVO (Tuber aestivum Vitt.)o SCORZONETARTUFO NERO PREGIATO (Tubermelanosporum Vitt.)VISCIOLATAVISCIOLE E AMARENE DI CANTIANOVISCIOLE ESSICCATEVISCIOLE SCIOLTE AL SOLE - VISCIULI A LUSOLE

I PRODOTTI TRADIZIONALI DELLA REGIONE MARCHECATEGORIA NOME DEL PRODOTTO

il visnerÈ un prodotto estremamente particolare chemolti conoscono con un nome, tanto improprioquanto efficace, che in genere fa inorridire sia glienologi che i legislatori: vino di visciole. Nonsembrava curarsene più di tanto il grande mece-nate e Duca d’Urbino, Federico da Montefeltro,se, come riporta il suo biografo e libraio di fi-ducia, Vespasiano da Bisticci, quasi non bevevavino se non de ciriege o de granate (ciliege o me-lograni). Oggi, onde evitare l’utilizzo di denomi-nazioni non consentite dalla legge, il prodotto siimmette generalmente in commercio con la dici-tura assai meno poetica di “bevanda aromatiz-zata a base di vino e visciole”. Noi, per semplicità,lo chiameremo con il suo sinonimo dialettale piùdiffuso e cioè visner. La zona di elezione del visner, la cui diffusione èalquanto limitata e che è ancora piuttosto diffi-cile reperire fuori dalle Marche, è l’entroterradella provincia di Pesaro e Urbino. La tecnica dipreparazione prevede, come d’altronde lamaggior parte dei prodotti tradizionali,diverse varianti. L’unica costante è datadalla presenza delle visciole che in ge-nere vengono utilizzate per 4/5 snoccio-late e per 1/5 intere, pestate insieme ainoccioli. Le visciole vengono quindiposte in una damigiana aggiun-gendo zucchero e vino rosso localein proporzioni variabili da zona azona. Nella zona di Pergola, dove ilvisner è più diffuso, l’impiego delvino è particolarmente generoso e,per dare ulteriore pregio a questo li-quore, si usa rigorosamente la ver-naccia rossa di Pergola. Si avviaquindi un processo fermentativo chedeve durare non meno di 60 giorni,durante il quale bisogna agitare pe-riodicamente la damigiana. Termi-

vino cotto

sapa

sapa

sapa

liquore al cumino

mistrà

lacrima di spino nero

mistrà

visner

17nata la fermentazione, si filtra il prodotto e,dopo aver aggiunto alcol a 90°, occorre lasciarloriposare per diversi mesi prima di poterlo im-bottigliare. Il prodotto finito, anche se, come abbiamo visto,non è un vero e proprio vino, non ha nulla da in-vidiare ai migliori vini da dessert. Con il suobouquet straordinariamente intenso, nel quale ilfruttato proprio del vino rosso si lega armonio-samente all’aroma delle visciole, il visner sisposa a meraviglia con il ciambellone e con idolci secchi locali. Molti, ancora, lo preferisconocome “vino da meditazione”. Meditate gente…

il vino cottoSempre per restare in tema di prodotti di difficileclassificazione, eccoci al vino cotto. Le prime no-tizie sulla presenza di vino cotto nel Piceno risal-gono circa al 200 a.c., precedendo quindi diqualche anno la regolamentazione comunitaria enazionale sia in materia di prodotti vitivinicoli chedi prodotti tipici e a denominazione di origine.Probabilmente, gli antichi romani non si interes-savano più di tanto al dibattito sulla natura mer-ceologica di questo prodotto e sulla denomina-zione di vendita più consona ad esso. Nel 70 d.c.Plinio parlava dei vini dolci e, riferendosi ai cotti,ne esaltava le qualità dicendo che “hanno il saporloro e non quel del vino” e che sono “opera d’in-gegno e non di natura, cuocendosi ilmosto sin che è consumato il terzodella sua quantità”. Anche Virgilioci descrive la preparazione del vinocotto, soffermandosi sulla schiuma-tura che veniva effettuata con unramo fogliato e precisando che laconcentrazione del mosto avveniva inun paiolo di rame. La presenza di vinicotti nella nostra Regione, in epochesuccessive, è attestata dal bottiglieredi Papa Paolo III Farnese, Sante Lacerio.

Egli asseriva che nelle Marche non vi erano buonivini, ma tristissimi cotti (Garoglio- La nuova eno-logia). Salvo poi spezzare una lancia a favore del“vino cotto et grande” di San Severino e di quellodi Macerata (Orlandini – In difesa del vino cotto).Quindi, nelle Marche del 1500, esistevano vinicotti eccelsi accanto ad altri di infima qualità. Te-stimonianze più recenti ci sono fornite da un ar-

ticolo dell’Eco del Tronto del 23 dicembre 1868,che parla della tradizione picena di cuocere il vinoper difenderlo dall’acidificazione, e dall’opuscolo“I vini cotti e l’enologia picena” pubblicato dalDott. Silvio Laureti della Cattedra ambulante delCircondario di Ascoli Piceno. Arriviamo infine aigiorni nostri e registriamo, per questo prodotto, il-lustri menzioni come quelle che ne hanno fattoMario Soldati e Luigi Veronelli. Oggi, dopo 2200 anni di storia, la situazione delvino cotto non è delle migliori. Da un lato, il mer-

cato di quello che, in nome della nor-mativa vigente, si dovrebbe chiamare“mosto concentrato a fuoco diretto”è divenuto sommerso, potremmo diresemiclandestino, basato sul passapa-rola e sulla diretta conoscenza dei sin-goli produttori. Dall’altro, bisognaprendere atto di come la qualità inco-stante di cui ci narrava Sante Lacerioesista ancora. Ed è un vero peccato,perché i migliori vini cotti hanno delle

caratteristiche organolettiche a dir poco

18 eccezionali, a prescindere dal fatto che possano omeno essere definiti vini.La Regione Marche si impegna da anni per dareun futuro a questo prodotto; tant’è, che oltre adaverlo inserito nell’elenco dei prodotti tradizionaliha previsto anche aiuti specifici per la sua produ-zione all’interno del Piano di Sviluppo Rurale ap-provato dalla Comunità Europea per il periodo2000-2006. È stato inoltre finanziato uno speci-fico progetto all’Assam (Agenzia Servizi SettoreAgroalimentare delle Marche) finalizzato ad indi-viduare standard igienico-sanitari ottimali, a de-finire i requisiti qualitativi del prodotto, adomogeneizzare le varie tecniche produttive at-tualmente esistenti sul territorio e a redigere,infine, un disciplinare di produzione. Si èscelto quindi un percorso articolato e ri-goroso per valorizzare questo prodotto efarlo uscire dalla clandestinità, nellaconsapevolezza che il rilancio del vinocotto può avvenire solo in presenza di ele-vati standard qualitativi e igienico-sanitari.La zona di produzione del vino cotto è moltoestesa e comprende gran parte delle provincedi Macerata, Fermo ed Ascoli Piceno. Loro Pi-ceno, in particolare, che da quasi trent’anni or-ganizza la Sagra del vino cotto, può esserneconsiderata la patria. Attualmente, il vino cotto siprepara indifferentemente partendo da uvebianche o da uve rosse. Il mosto si fa bollire len-tamente in calderoni di rame anche se, recente-mente, si stanno effettuando anche delle prove inacciaio per verificare la possibilità di ottenere va-lidi risultati coniugando tradizione e tecnologia.Durante la bollitura, bisogna procedere continua-mente a “schiumare” il mosto, ad eliminare, cioè,quella schiuma superficiale costituita dalle so-stanze proteiche rese insolubili dall’alta tempera-tura. In questa fase, si determina una maggioreconcentrazione zuccherina e il mosto acquisiscenote aromatiche caratteristiche. Si usa anche ag-giungere, come aromatizzanti, delle mele co-togne. Per ottenere il classico vino cotto dolce, si

fa ridurre la quantità iniziale di mosto in una per-centuale variabile tra il 30 e il 50%. Se invece sipreferisce un prodotto più secco, basta ridurre op-portunamente la durata della bollitura. A concen-trazione ultimata si versa il mosto nelle botti dilegno dove avverrà la fermentazione. Successiva-mente, al fine di eliminare il materiale feccioso,possono essere effettuati uno o più travasi. L’in-vecchiamento avviene in botti di piccole dimen-sioni e dura almeno un anno, ma può protrarsi

anche molto più a lungo. È molto diffusa la pra-tica del rimbocco che consiste nell’unire il vino

cotto nuovo a quello degli anni precedenti. Varie sono pertanto le tipologie di vino cotto,ottenute con tecniche diverse da zona, par-

tendo da uve diverse. Qual è dunque ilvero vino cotto? Un raffronto tra diversicampioni di prodotto effettuato nel-l’ambito dello studio finanziato dallaRegione Marche, ci fornisce delle indi-

cazioni piuttosto interessanti al ri-guardo. Innanzitutto, è stato osser-

vato che i profili sensoriali più gradevoliappartengono a quei prodotti per i qualiè stata praticata una concentrazionenon troppo spinta, (non superiore al 30-

35%). Per quanto riguarda invece la gra-dazione alcolica ideale, essa deve atte-

starsi tra i 12 e i 15 gradi. Il residuo zuccherino,infine, può oscillare tra il 10% e il 20%. La com-binazione di questi tre elementi è possibile solo sela gradazione zuccherina delle uve dalle quali siottiene il prodotto è sufficientemente alta.Rimane la parte più piacevole, quella degli abbi-namenti a tavola. La versione secca viene, in ge-nere, utilizzata come vino da pasto e gli accosta-menti con le pietanze varieranno a seconda delsuo grado di concentrazione e del suo tenore al-colico. La versione dolce, invece, è da considerare,a tutti gli effetti, un “vino da dessert”, perfettocon crostate, ciambelloni, biscotti e con i dolci ru-stici della “bassa marca”.

19la sapaLa potremmo definire come una parente prossimadel vino cotto. In effetti, anche la sapa si ottieneattraverso la concentrazione a fuoco diretto delmosto, che in questo caso è molto più spinta inquanto si fa evaporare circa il 70-80% della quan-tità iniziale di mosto. Un metodo empirico perstabilire l’esatta durata della bollitura (dimedia 10-12 ore) è quello di versare unagoccia di sapa su un’unghia; se non scorrevia, è segno che ha raggiunto la giusta den-sità. La sapa così ottenuta si presentacome uno sciroppo dolcissimo, di colorevariabile dall’ambrato al rosso-violaceo,intenso odore di caramello e sapore mie-lato, sapido e vellutato. Terminata la bolli-tura, il prodotto viene decantato e poi im-bottigliato in recipienti di vetro, dove puòconservarsi anche per alcuni anni. Untempo, la sapa veniva utilizzata principal-mente, come il miele, in sostituzione dellozucchero che era assai raro. Era molto ap-prezzata, tuttavia anche nella prepara-zione di condimenti balsamici. LudovicoAriosto, ad esempio, la cita, mescolata all’a-ceto, come condimento per le rape. Costanzo Felici,vissuto a Piobbico nel Cinquecento, ci descrive, nelsuo ricettario, cipolle e carote cotte sotto la bracee condite con aceto e sapa. Un’antica ricetta con-siste nel mescolare, in una pentola, 100 grammi di

sapa e 120 grammidi aceto, fa-cendo restrin-

gere a bagnomariaper circa mezz’ora. Il composto così ottenuto, aro-matizzato a piacere con timo, santoreggia ed erbacipollina, è un appetitoso condimento da usare insvariate ricette a base di carni e verdure. Ancora oggi, si usa la sapa per impreziosire le pie-tanze più disparate, abbinandola con una buonadose di fantasia e anche un pizzico di audacia, sia

al dolce che al salato. Eccola dunque comparirecome condimento per ceci, fagioli o castagne op-pure sulla polenta. Così come è frequente ritrovarlanel ripieno di gustosi ravioli dolci, nei cavallucci ecome ingrediente di numerosi altri dolci sia nata-lizi che del periodo di Carnevale. Ma la sapa è im-piegata anche in curiose bibite o granite. I nostrinonni di campagna, ne versavano un po’ nell’acqua

fresca di pozzo e ne ottenevano una be-vanda che allo stesso tempo li dissetava e litonificava durante i faticosi lavori estivi. Ibambini, invece, attendevano con impa-zienza la prima neve, che veniva pressatain un bicchiere nel quale poi si versava unpo’ di sapa.

Qualcuno potrebbe obiettare che unasiffatta granita è più adatta al periodoestivo e che, in fondo, sostituire laneve con un po’ di ghiaccio prelevato

dal congelatore di casa nostra non sa-rebbe poi così deplorevole. Con ogniprobabilità, chi pensa questo non hamai provato l’emozione di guardare ilcielo per ore in attesa del primo fiocco,

di aspettare che lo strato di neve fosseabbastanza alto da potervi scavare conun cucchiaio e di scegliere il punto più

adatto dove trovare quella più pulita. Tutto questonon prima di aver strappato alla “vergara” il con-senso ad avere un po’ della preziosa sapa, da leitanto gelosamente custodita. Questa tradizione rivive ancora oggi durante laSagra della sapa che si svolge, ogni anno, a Rosora,in provincia di Ancona. Nell’occasione, viene pro-posto il gelato in coppa arricchito con un cucchiaiodi sapa. Nel maceratese, precisamente a Ripe SanGinesio, si rievoca, invece, nel mese di ottobre, latradizione dei fumi cotti (la cottura del mosto), conla riscoperta di antiche ricette tradizionali.

20 tre liquorimarchigianiOltre al visner, al vino cotto e alla sapa, troviamoaltri tre prodotti iscritti nella sezione “bevandeanalcoliche, distillati e liquori”. Si tratta del li-quore al cumino, del mistrà e della lacrima dispino nero. Il primo, estremamente raro, è stato censito nellazona di Ussita, all’estremo confine della provinciadi Macerata con l’Umbria. Liquore trasparente, dalsapore dolce e vellutato e dall’elevata intensità ol-fattiva, si ottiene dalla macerazione dei semi dicumino ai quali si aggiunge uno sciroppo dolce.Una volta amalgamato il tutto, il liquore viene fil-trato e imbottigliato. Trascorse 2 settimane, il li-quore al cumino, che nella zona è considerato unottimo digestivo, è pronto per il consumo. Ben altra notorietà può vantare il mistrà, larga-mente conosciuto e apprezzato in tutta Italia, so-prattutto nelle regioni centrali. È un liquore all’a-nice più o meno dolce, di corpo, dal retrogustosecco e amaro, le cui origini sono antichissime.L’anice (Pimpinella anisum) era già utilizzato dagliantichi egizi e dai babilonesi per via dei principigalenici che contiene. Lo apprezzavano moltoanche i Greci che, volendolo distinguere dalla ci-cuta con cui poteva essere confuso, lo chiamavanoanisos (non uguale). Nelle Marche, le due date daricordare per la produzione del mistrà, sono il1868 e il 1870, con l’entrata in funzione di dueimpianti, situati rispettivamente a Pievebovigliana(MC) e ad Ascoli Piceno. Le due aziende sonoormai molto affermate nel settore e si sono spe-cializzate nella produzione di due diverse tipologiedi prodotto: la prima produce un mistrà moltosecco, mentre l’altra è famosa per una versione piùdolce: l’anisetta.Nella preparazione del mistrà, si parte dai semi dianice ancora verdi che vengono fatti macerare per40 giorni in alcol a 70°. Si aggiunge successiva-

mente, a freddo, lo sciroppo di zucchero in misuravariabile a seconda del grado di dolcezza deside-rato. Si procede quindi al filtraggio e, infine, al-l’imbottigliamento. Oltre ad essere un ottimo di-gestivo, il mistrà è assai apprezzato come corre-zione nel caffè. In campagna, nel periodo dellamietitura, era usanza dissetarsi aggiungendoqualche goccia di mistrà all’acqua fresca delpozzo. Questa bevanda corroborante veniva chia-mata, nella zona di produzione del mistrà, com-prendente le province di Macerata, Fermo e AscoliPiceno, “l’acqua de mète”. Bisogna invece spingersi più a nord, precisamentenel territorio della Comunità montana del Catria edel Cesano, per trovare il terzo liquore iscrittonell’elenco: il prunus di Valle Rea o Lacrima dispino nero. È un liquore che si ottiene dalledrupe del prugnolo (Prunus spinosa) e di altrifrutti di bosco alle quali si uniscono zucchero evernaccia rossa di Pergola, che abbiamo già in-contrato a proposito della preparazione del vi-sner, al quale questo prodotto può essere assi-milato per alcuni aspetti della preparazione. Èuna bevanda che normalmente ha una grada-zione alcolica intorno ai 14° e che, servita frescama non troppo, ben si accompagna con dolci alcioccolato, torroni e pasticceria secca

il maiale e la pistaUN MACABRO RITOQuando non esisteva ancora la televisione, l’ucci-sione del maiale era senz’altro qualcosa di assolu-tamente sconvolgente nella quotidianità dei bam-bini di un tempo. Ai più piccini veniva sovente ri-sparmiato uno spettacolo così cruento mentre i piùgrandicelli aspettavano con trepidazione questoappuntamento annuale per verificare se il propriocoraggio era aumentato rispetto all’anno prece-dente e a volte si misuravano con i loro coetaneiper vedere chi era in grado di assistere più a lungoe più da vicino a questo rito tanto crudele quantoaffascinante. Se ne cominciava a parlare già qualche giornoprima poiché bisognava aspettare una giornatasufficientemente fredda da tenere lontane le insi-diose mosche che se solo avessero deposto le uovanei prosciutti avrebbero portato alla perdita dellaparte più preziosa del maiale. Bisognava poi accor-darsi con i vicini perché, come la maggior parte deilavori di campagna, anche per uccidere il maiale eper lavorarne le carni si formava una squadra,composta dai membri di più famiglie confinanti,che si spostava poi di casa in casa. Altre operazionipreparatorie erano quelle di portare ad affilare icoltelli dall’arrotino qualche giorno prima e di pre-parare le budella per insaccare i salumi. In queigiorni circolavano in casa anche prodotti che non sivedevano per tutto il resto dell’anno quali i pinoli el’uvetta oltre che grandi quantità di pepe nero ingrani. Quando tutto era pronto e le condizioni cli-matiche erano ottimali, si accendeva un grandefuoco e si metteva a bollire l’acqua per “pelare” ilmaiale in un calderone di rame. Il rito annuale eragià iniziato. Oggi, con la normativa sul benesseredegli animali, simili efferatezze non sono più pos-sibili e l’agonia del maiale è assai più breve. È importante sottolineare quest’aspetto perché sa-rebbe sbagliato pensare che ciò che appartiene alpassato sia tutto da riproporre tal quale; i progressi

prosciuttodi Carpegna

salame di Fabrianociauscolo

ciauscolo

lardo delMontefeltro

salame diFrattula

salsicciadi fegato

siano essi tecnologici o semplicemente normativicome in questo caso fanno parte anch’essi dellastoria delle nostre produzioni tradizionali e, se ri-spettosi delle caratteristiche peculiari di ciascunprodotto e dell’ambiente in cui esso viene ottenuto,sono senz’altro da accogliere positivamente.Semmai si può avere nostalgia di un tempo in cuila sofferenza e la morte erano ancora viste con ilgiusto rispetto e non erano considerate sempliceroutine o come una fase di un processo produttivo.Ma questo esula dall’ambito prettamente produt-tivo e attiene maggiormente agli aspetti sociali,etici e culturali della nostra civiltà contadina.

DEL MAIALE NON SI BUTTAVA PROPRIO NULLADopo la mattazione, il maiale veniva sezionato indue mezzene che si lasciavano frollare per un paiodi giorni, finché le carni non erano pronte per es-sere lavorate. La lavorazione delle carni e la pre-parazione degli insaccati è conosciuta nel nostrodialetto con il nome di “pista” e dà origine nellaMarche ad una moltitudine di prodotti, alcuni deiquali godono di una notorietà straordinaria; altri,invece, sono conosciuti solo a livello locale; altriancora sono relegati ad un consumo poco più chefamiliare. Ma, attorno alla “pista” vera e propria,

si svol-g e v a n oaltre opera-z i o n icol late-rali chepermette-vano di utilizzare tutte le parti delmaiale. Il sangue veniva raccolto e cucinatoin padella con cipolla, olio e erbearomatiche, oppure usatoper la preparazionedi un dolce. Sì,avete letto bene, proprio un dolce: il migliaccio. Sitratta di un dolce diffuso un po’ su tutto il terri-torio regionale soprattutto nelle zone interne.Piatto decisamente povero che caratterizzava unatradizione contadina e montanara che sapeva ri-cavare piatti nutrienti e gustosi anche dalle partimeno nobili del maiale. Il nome deriva dal miglioche storicamente veniva usato assai prima dellacoltivazione del mais per la preparazione della po-lenta e anche del pane. Oggi il migliaccio non siprepara più con la farina di miglio ma si usa co-munemente del pane grattugiato; tuttavia il nome

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23è ormai consolidato e pertanto continueremo achiamarlo così. Con il tempo si è anche arricchitodi qualche ingrediente tanto che oggi definirlopovero sembra poco appropriato in quanto, conqualche variante, possiamo trovare al suo interno:latte, uova, zucchero, miele, cioccolata fondente,alchermes, chicchi di caffè, cannella, noce mo-scata, buccia di arancia e di limone, mandorle,nocciole, burro ecc… Anche il grasso del maiale godeva della massimaconsiderazione in un periodo in cui non si facevaancora troppo caso alla linea. Si faceva bollire per2-3 ore in un caldaio dirame e si filtrava poiattraverso un panno oun sacco di tela inmodo da separare laparte liquida da quellasolida. La parte liquida,una volta raffreddata,costituiva lo strutto; ilcondimento di granlunga più usato sianella cucina quotidianasia come ingredienteper i dolci sia comegrasso per la frittura(curiosa l’abitudine di utilizzare come “recipiente”per la sua conservazione la vescica del maialenella quale veniva versato prima di solidificare).La parte solida, invece, rimaneva sul panno cheveniva attorcigliato alle estremità e successiva-mente pressato più volte con apposite “ganasce”di legno per favorire la fuoriuscita della restanteparte grassa liquida. A questo punto il contenutodel panno veniva condito con sale, pepe e alloro efatto raffreddare a temperatura ambiente. Ecco avoi i cicoli, detti anche ciccioli o, nel maceratese,sgrisciuli. Di aspetto asciutto e granuloso, questipiccoli grumi di carne di colore bruno dorato sonoottimi da gustare tal quali o anche particolar-mente indicati per insaporire schiacciate salate ecresce.

Un altro esempio classico di come del maiale siutilizzi davvero tutto è rappresentato dalla coppadi testa, conosciuta anche come tortella. L’ingre-diente base è costituito, come dice il nome, dallatesta del maiale che si fa bollire per almeno treore con la sola aggiunta di sale e di altre parti, ot-tenute dalla macellazione del suino: ossa, orec-chie, codino, zampetti e altre ancora, siano essesanguigne e rosse che cartilaginose. Dopo la cot-tura, le carni vengono disossate, sminuzzate e im-pastate rigorosamente a mano. L’impasto viene in-saporito con pepe, olive verdi, bucce d’arancio, mi-

strà, mandorle, pi-stacchi e pinoli earomi variabili a se-conda del gusto delnorcino (di frequentesi utilizza l’alloro). Ilcomposto vienequindi raccolto in unpanno e pressato per10-12 ore. Il prodottofinito si presenta nellatradizionale forma amattone anche seoggi è sempre più dif-fusa la forma cilin-

drica. Se poi anche la coppa vi sembra un cibotroppo raffinato, eccovi accontentati. Ultimata la“pista”, infatti, per quanta buona volontà si fosseprofusa nell’utilizzare con parsimonia tutta lacarne utilizzabile per la preparazione di insaccatipiù o meno nobili, rimanevano comunque le carnipiù sanguinolente, i pezzi di polmone e di reni, gliintestini, i nervetti, la lingua e altro ancora. Nientepaura, tutto ciò troverà posto, opportunamenteconciato con sale, pepe, aglio e altri aromi diversi aseconda della zona di produzione, in un ultimo in-saccato: il mazzafegato, altrimenti conosciutocome salsiccia matta. Un salume dal sapore decisoche va consumato fresco in quanto non è adatto aduna lunga conservazione ed è ancora diffuso, siapur limitatamente, in diverse zone della regione.

24 E che dire, infine, dei ciarimboli? In pratica budellodi suino bollito, condito ed essiccato. Manco adirlo, si utilizzano le budella che avanzano dopoaver insaccato tutti i salumi. Vengono rivoltate, la-vate con acqua e aceto, lasciate a mollo per unanotte e quindi bollite con aceto, alloro, un pizzicodi basilico e un pezzetto di buccia d’arancia. Unavolta scolate, si condiscono con aglio, pepe, sale,semi di finocchio e si mettono a seccare vicino alfuoco per almeno tre giorni, dopodiché i ciarimbolisono pronti per il consumo.

la parte nobiledel maialeDopo questi esempi di “ingegneria norcina” che cihanno per un attimo fatto assaporare quella cul-tura contadina del non buttare nulla del riciclarequalsiasi genere commestibile così lontana daquella attuale che, in nome del PIL, ci spinge con-tinuamente allo spreco, passiamo ora a trattare iprodotti più nobili della lavorazione del suino. E, separliamo di nobiltà, non possiamo non partire dalprosciutto. Si potrebbe parlare del Prosciutto diCarpegna, il primo prodotto a base di carne delleMarche a fregiarsi della prestigiosa denomina-zione di origine protetta (DOP) che da anni fa par-lare marchigiano i buongustai di vari paesi: dalNord Europa agli Stati Uniti, fino all’estremooriente. Oppure del Prosciutto delle Marche, cheattraverso la ripetizione di metodiche collau-date da secoli e tramandate di generazionein generazione è sicuramente uno dei pro-dotti di punta della norcineria marchi-giana. Vogliamo invece soffermarci su unprodotto, sicuramente meno noto ma ve-ramente unico. È il Prosciutto aromatiz-zato del Montefeltro: un prodotto partico-larissimo che ci porta nell’entroterra dellaprovincia di Pesaro e Urbino, nell’antica terradei Montefeltro da cui prende, appunto, il nome.

Da maiali allevati nella zona, si ottiene il coscioche viene massaggiato ed aromatizzato con pepeed altri aromi per facilitare l’uscita del sangue edell’acqua. Il prosciutto viene quindi messo sottosale per 20-30 giorni su appositi sgocciolatoi op-portunamente inclinati. Rimosso il sale, si lava conacqua calda e si mette ad asciugare prima di pas-sare alla fase successiva in cui il prosciutto vieneabbondantemente bagnato nel vino cotto e aro-matizzato con aglio, alloro, zucchero e rosmarino.A questo punto, il prosciutto viene nuovamentecosparso di pepe e fatto affumicare per tre mesi. Levecchie case di campagna della zona disponevanodi apposite nicchie che si trovavano direttamentein comunicazione con la canna fumaria del ca-mino. Dopo l’affumicatura il prosciutto deve subireuna lunga stagionatura da uno a tre anni in tradi-zionali sacchi di tela o in panni di lino o di cotone.Quindi un procedimento lungo e paziente che ci ri-porta ad epoche in cui non si andava sempre difretta, in cui si rispettavano i ritmi dellanatura e il tempo e l’esperienzaerano considerati ingredientifondamentali per la buona ri-uscita di qualsiasi prodottoal pari delle altre ma-terie prime.

il patè? qui sichiama ciauscoloUn altro “gioiello di famiglia” della norci-neria marchigiana è sicuramente rappresen-tato dal ciauscolo, detto anche ciavuscolo ociabuscolo. La caratteristica che rende questoprodotto immediatamente riconoscibile daglialtri salumi è senza dubbio la sua spalmabilità.In molti lo paragonano, per questo, proprio adun paté; un paté straordinariamente gustosoma anche di un’insospettabile freschezza inquanto il ciauscolo richiede una stagionaturamolto più breve rispetto agli altri salumi. È per-tanto il primo prodotto della “pista” ad essereconsumato e di conseguenza il primo a termi-nare. Per gustarne appieno le caratteristiche,questo prodotto va infatti consumato nei pri-missimi mesi dell’anno. Tradizione vuole che,per la colazione della mattina di Pasqua, si af-fetti il primo salame lardellato da gustare in-sieme alla tradizionale Pizza di Pasqua al for-maggio. Confini temporali quindi, ma ancheconfini geografici per questo prodotto chetrova la maggior diffusione nella provincia diMacerata ed è presente nella parte meridio-nale della provincia di Ancona e in alcune zonedel fermano e dell’ascolano, soprattutto nelcomprensorio dei Monti Sibillini. Nell’anconetano, il ciauscolo si presenta legger-mente più magro e meno spalmabile fino ad evol-vere nel salame di soprassato detto anche comu-nemente soppressato, che si fa stagionare gene-ralmente da uno a tre mesi. Ma, a caratterizzarela provincia di Ancona, sono soprattutto i sa-lami lardellati tra cui spiccano ilceleberrimo Salame di Fa-briano che tratteremo aparte, e il rarissimo Sa-lame di Frattula, pro-dotto con le carni dei

suinia l l e -vati con me-todi tradizionali sulle collineche separano il Cesano dal Nevola. Il salame lardellato, stagionato non meno di 2-3mesi, è diffuso anche in provincia di Ascoli Picenodove, nelle zone dove non si produce il ciauscolo,si consuma abbondantemente la salsiccia. Que-st’ultima è ottima sia fresca, magari accompa-gnata con una bruschetta condita con un po’ disale e olio extravergine di oliva locale, oppure es-siccata o, ancora, conservata sott’olio. La salsicciaè presente, oltre che nell’ascolano, anche in altrezone del territorio regionale, mentre, caratteri-stica di questa provincia, con qualche sconfina-mento nel maceratese, è la salsiccia di fegato.Ma torniamo al nostro paté, pardon ciauscolo.Singolare anche nel nome, che sembrerebbe es-sere un diminutivo latino di “cibo”. Alcuni terminidialettali con i quali si usava designare tradizio-nalmente questo prodotto, quali “ciabusco”, “ci-vuscolo” o “cibbusco”, sarebbero infatti la corru-zione del latino “cibusculum”, ovvero piccolo cibo.Un insaccato, quindi, da consumare al di fuori daipasti principali, per uno spuntino o una merenda,l’ideale per gli allevatori itineranti o transumantiun tempo molto numerosi nelle Marche.

Il cronista ottocentesco Francesco Pro-caccini, nel suo diario manoscritto

“Miscellanea veritas” ci tra-manda con incredibile minu-ziosità una serie di informa-zioni sugli usi e costumi lo-

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26 cali, tra cui i prezzi di vendita dei generi comme-stibili commercializzati sulla piazza di Montenovo(oggi Ostra Vetere) nel periodo che va dal 1815 al1840. Troviamo quindi, in questo periodo, i prezzidei ciauscoli, indicati indifferentemente comeCciabuscoli (con la doppia “c” iniziale) o come cia-buschi. Ciabuschi è, tra l’altro, un cognome relati-vamente diffuso nell’area esino-fabrianese, a te-stimonianza della presenza storica del ciauscoloanche in questa zona, che rappresenta l’estremoconfine settentrionale della sua produzione. Un’altra testimonianza, consistente in una rice-vuta rilasciata da un “pistarolo” o mazzarino” alConte Pietro Bonarelli nel 1801, disponibile pressol’archivio storico di famiglia a Sappanico di An-cona, dimostra la presenza del prodotto anche apochi chilometri dalla costa. Ma i risultati migliorisi hanno nelle zone montane e collinari dove lacombinazione di basse temperature e di tassi diumidità non troppo elevati consente di prolungareil periodo di produzione di questo prodotto che, piùdi altri, risente della stagionalità.Ma il clima, da solo, non basta; per fare un buonciauscolo, bisogna innanzitutto fare attenzionealla scelta delle carni, che devono essere di primaqualità e devono derivare dalla spalla, dalla pan-cetta, dal prosciutto e dal lombo, con aggiunta dilardo e di carni provenienti da altri tagli minori.Grande importanza riveste quindi il grasso chedeve essere sempre sodo e bianco. Va pertanto pre-stata un’attenzione particolare all’alimentazionedel maiale, che dev’essere il più possibile tradizio-nale e non contenere mangimi che pos-sano conferire odori sgra-devoli al grasso o alterarneil colore o, ancora, abbas-sarne il punto di fu-sione. Le carni vannomacinate piùvolte poichél’impasto de-v’essere molto

fine. Si aggiungono quindi, oltre al sale e al pepe,anche aglio e vino bianco. L’insaccatura si ef-fettua tradizionalmente in budello naturale, pre-cedentemente dissalato, disinfettato e aromatiz-zato, con legature alle estremità (è stato riscon-tato anche il ricorso a più legature). La pezzaturamedia del ciauscolo va da mezzo chilo ad un chiloe la lunghezza si aggira intorno ai 30 centimetri.Il prodotto insaccato, una volta asciugato, vienesottoposto ad una breve stagionatura, co-munque non inferiore a 15 giorni, in locali contemperatura compresa tra 10° e 16°. In alcunicasi si effettua anche l’affumicatura in appositevasche. Il ciauscolo è uno dei prodotti per i quali è stata ri-chiesta la registrazione comunitaria come IGP nel-l’intento di tutelare e promuovere uno dei prodottiche meglio rappresenta la tradizione rurale mar-chigiana.

tra i salami, sulleorme di GaribaldiProbabilmente l’unità d’Italia si sarebbe fattaanche senza il Salame di Fabriano; tuttavia è do-cumentato come questo salume abbia contribuitoa dare un po’ di sollievo all’eroe dei due mondi al-lorché vecchio, ammalato e ridotto in povertà, tra-scorreva i suoli ultimi anni nell’isola di Caprera. Afargli omaggio dei pregiati salumi era stato un suocaro amico fabrianese, un certo Benigno Bigon-zetti, come testimonia una lettera di ringrazia-

mento del 23 aprile 1881, in cui è ancoravisibile il timbro postale de La

Maddalena, indirizza-tagli dallo stesso

Garibaldi. Ma ilsalame di Fa-briano era co-nosciuto ed ap-

prezzato già

27molto tempo prima; tant’è che se andiamo a sfo-gliare i libri delle tariffe conservati presso l’ar-chivio storico del Comune di Fabriano, pos-siamo osservare come il salame avesse unaquotazione addirittura superiore a quella delprosciutto. Nel 1692, una “libra” di salame eraquotata 42 quattrini rispetto ai 32 del pro-sciutto vecchio e ai 28 del prosciutto nuovo.Nel 1782, il divario era aumentato essendopassato il salame a 60 quattrini la “libra” e ilprosciutto vecchio rimasto pressoché stabile a33. Nel 1780, il salame ha un valore esatta-mente doppio a quello del prosciutto vecchio:80 quattrini contro 40. Il perché di tanta noto-rietà va ricercato nello straordinario gusto delSalame di Fabriano; un gusto che ci viene di-rettamente dalla natura. Il vero Salame di Fa-briano non conosce infatti, ancora oggi, addi-tivi chimici e rispetta in pieno il naturale sus-seguirsi delle stagioni tant’è che viene prodottoessenzialmente nei mesi di dicembre e gennaioper arrivare, al più tardi ai mesi di marzo eaprile. La particolarità di questo salume stanella coesistenza, nella fetta, di una partemagra dal colore rosso rubino e di cubetti digrasso (i lardelli) di 5-7 mm di lato. Sia la fra-zione magra che i lardelli sono piuttosto com-patti e fanno in modo che la fetta risulti pocoelastica. Il magro per essere idoneo alla lavora-zione del Salame di Fabriano deve provenire dacarni scelte accuratamente dal prosciutto edalla spalla del suino. Va quindi macinatomolto finemente per 3 o 4 volte. I lardelli pro-vengono ovviamente dal lardo del maiale ehanno una particolare importanza in quanto laparte grassa è quella che più risente di unabuona o cattiva alimentazione del suino. Quindi la qualità del Salame di Fabriano iniziamolto prima della lavorazione delle carni; po-tremmo dire che dipende dallo “stile di vita” delmaiale; questo proprio a causa dell’estrema na-turalità del prodotto per il quale non si può ba-rare in quanto nulla si aggiunge alle carni se

non sale e pepe quanto basta e tanta, tantaesperienza, tramandata di generazione in ge-nerazione. Il resto lo fa il tempo. Niente stagio-nature a tempo di record per il Salame di Fa-briano che ha bisogno di qualche mese peresprimere tutte le proprie potenzialità. Per con-cludere, una notizia bella ma solo in parte: ilSalame di Fabriano fa parte del primo gruppo dipresidi istituiti da Slow Food (6 in tutte leMarche). Da un lato è una notizia che fa sicu-ramente piacere in quanto attesta la grande re-putazione di cui gode questo prodotto e puòcontribuire sicuramente alla salvaguardia ed alrilancio di questo prodotto. Se però andiamo aesaminare i criteri in base ai quali sono statiistituiti i presidi, dobbiamo prendere atto diuna triste realtà: il Salame di Fabriano è consi-derato a rischio di estinzione. Questo potràstupire i consumatori meno attenti in quanto ilSalame “tipo Fabriano” è uno dei prodotti piùpresenti e più venduti nei banconi dei super-mercati. Ma il salame di Fabriano è un’altracosa e c’è solo da auspicare che i pochi produt-tori rimasti prendano coscienza della necessitàdi unirsi per tutelare insieme il loro prodotto,richiedendone la registrazione come DOP o IGP.

ancora sul maialeMa non finisce qui. Nell’elenco dei prodotti tra-dizionali, sono infatti ben 22 i prodotti che si ri-cavano dal maiale, alcuni presenti in tutta la re-gione, altri più localizzati, altri ancora estrema-mente rari. Uno di quelli diffusi su tutto il territorio regio-nale è la pancetta arrotolata. Lunga 30-40 cen-timetri, si presenta nella classica forma cilin-drica con un diametro di circa 10 centimetri.Mentre la affettiamo, possiamo renderci contofacilmente del perché viene chiamata in questomodo. L’arrotolamento delle carni, infatti, fa sìche la parte magra di colore rosso vivo e la parte

28 grassa di colore bianco, conferiscano allafetta un tipico disegno a spirale. Prima diessere consumata, è sottoposta ad unastagionatura di almeno quattro mesi. Procedendo in ordine sparso, troviamo poi labarbaglia, o goletta, ricavata dal guanciale.Si tratta di una sorta di pancetta arrotolata,molto più grassa ma anche molto più gustosa(sempre che il grasso sia di ottima di qualità,come abbiamo già visto a proposito del ciau-scolo e del Salame di Fabriano). A detta dei cul-tori della cucina tradizionale, è un ingredienteinsostituibile nell’amatriciana. Ma la massimaattestazione di nobiltà per la parte grassa delmaiale, la riscontriamo in provincia di Pesaro e Ur-bino, dove si produce una vera prelibatezza: illardo del Montefeltro, che viene consumato siaallo stato naturale che conservato in salamoia.Altre due specialità marchigiane a base di carne dimaiale sono rappresentate dalla lonza (localmenteconosciuta come capocollo o scalmarita) e dallonzino (altrimenti detto capolombo). La diffe-renza tra lonza e lonzino è data non dalle loro di-mensioni come si potrebbe pensare erroneamente,bensì dalle carni utilizzate (muscoli cervicali supe-riori nella prima, muscoli della lombata nel se-condo). Nella lonza, inoltre, la parte grassa equella magra sono alternate e conferiscono allafetta un aspetto variegato, mentre nel lonzino ledue frazioni sono ben separate. Un altro prodotto molto particolare è la spalletta,ricavata dalla spalla del maiale, che rappresentavail prosciutto dei poveri in quanto destinata al con-sumo familiare delle nostre antiche famiglie con-tadine, mentre era consuetudine che il prosciuttovero e proprio venisse barattato con il maiale daallevare per l’anno successivo. Saltando di palo in frasca, ecco un gustoso pro-dotto a base di fegato di maiale: i fegatelli, per lacui preparazione si procede così. Si taglia il fegatodi maiale a tocchetti che vengono cosparsi abbon-dantemente di sale e pepe ed avvolti uno ad unonella rete di maiale, che sarà stata preventiva-

mente tenuta a bagno in acqua freddaper renderla più morbida. Si passa

quindi a preparare degli spiedini in-filzando in un rametto di alloro itocchetti di fegato alternandoli afoglie di alloro. Gli spiedini pos-sono essere cotti sia alle brace cheal forno, dopodiché possono es-sere consumati subito oppure

conservati. Per la conservazione,che può durare anche tutto l’in-

verno, si usa metterli in barattoli di vetro o di ter-racotta, completamente ricoperti di strutto. Perconcludere, infine, chi non ha mai assaggiato unasaporita e croccante porchetta cotta nel forno alegna? Ogni borgo, ogni paese, ha una sua ricetta“segreta” e tantissimi sono gli esti-matori di questo prodottoda annoverare,senza dubbio,tra i più ca-ratteristici equalificantidel nostro terri-torio.

le carni frescheOltre che per i prodotti trasformati, le Marche sifanno apprezzare anche per le carni fresche, dellequali è possibile trovare diversi esempi molto inte-ressanti. Si tratta di prodotti che devono la lorospecificità essenzialmente alle tecniche di alleva-mento utilizzate, nelle quali si conciliano la neces-sità di adeguarsi alle moderne esigenze produttivecon l’attenzione alla qualità delle carni e al ri-spetto delle condizioni di vita degli animali. Tra questi, il prodotto che meglio si identifica conla nostra regione è senz’altro la carne della razzaBovina marchigiana, presente su tutto il territorioregionale con prevalenza nelle zone interne. Unacarne magra, succulenta e consistente alla masti-

29cazione, che sa farsi apprezzare ben al di là dei no-stri confini. Oltre che per tagli di carne fresca daconsumare lessa, arrosto, brasata, in umido o allagriglia, si presta per preparare ragù, involtini, pol-pette ecc… La marchigiana rientra, insieme adaltre 4 razze bianche, nell’IGP (indicazione geo-grafica protetta) del “Vitellone bianco dell’Appen-nino centrale”. Viene generalmente allevata allostato brado o semibrado, in stalle libere oppure astabulazione fissa.Caratteristica delle zone montane del maceratesee dell’ascolano, è invece la Pecora sopravvissana,una razza ottenuta, nel XVIII secolo, da un incrociotra arieti merinos e pecore vissane. Taglia media,vello bianco, testa corta e tozza e corna a spirale,presenti solo nei maschi, sono alcune delle carat-

teristiche distintive di questa pecoraa duplice attitudine(carne e lana). Anche

il suo latte è eccellente,pur se prodotto in quan-

tità modesta. Lacarne si presenta di

colore rosa chiaro, di so-lida consistenza musco-lare con moderata pre-

senza di grasso.L’allevamento degli animali è preva-

lentemente a pascolo brado per la mag-gior parte dell’anno. Nel periodo invernale,

la razione alimentare è integrata con cereali,legumi e foraggi essiccati. Gli agnelli si alimen-

tano con latte materno e, al raggiungimento delpeso di 10-12 kg, possono venire utilizzati per laproduzione del classico “abbacchio” oppure pos-sono essere venduti, successivamente, al peso di20-25 kg, all’età di 2 o 3 mesi. La carne della pe-cora adulta è invece impiegata nell’uso di piatti“forti” tipici della tradizione pastorale. Le carni diquesta razza, come anche di altre presenti nell’altomaceratese, sono utilizzate anche per la prepara-zione del curioso salame di pecora. Un altro pro-dotto tradizionale, sempre di origine ovina, è il bu-

dellino, ingrediente fondamentale della famosacoratella che, in padella con cipolla o pomodoro,o con le uova in gustosissime frittate, spicca neimenù di molti ristoranti e trattorie delle nostrezone interne. Più circoscritta è invece la diffusione di un altrotipo di carne, ancora relativamente rara sulle no-stre tavole anche se, vuoi per il gusto particolare,vuoi per le caratteristiche nutrizionali eccellenti,trova continuamente nuovi estimatori. È la carnedi Cavallo del Catria, una razza originaria dell’o-monimo gruppo montuoso. Il Cavallo del Catria di-scende dai cavalli originariamente utilizzati per illavoro, tiro leggero o sella ed è inserito nel registroanagrafico delle popolazioni equine riconducibili agruppi etnici locali. Nella maggior parte delleaziende, l’allevamento è finalizzato alla produ-zione di puledri che vengono macellati ad un’etàvariabile tra i 6 ed i 18-20 mesi. La carne, moltoapprezzata nella zona, si presta anche alla produ-zione di insaccati e prodotti conservati. Ma le Marche sono note anche per i cosiddettianimali di bassa corte. L’allevamento avicolo, inparticolare, conta ben tre rappresentanti nell’e-lenco regionale dei prodotti tradizionali: il Cap-pone rustico, il Gallo ruspante e il Tacchinobronzato. Si tratta di animali che caratterizzavanole nostre aie e dei quali si cerca anche nelle mo-derne forme di allevamento, di salvaguardare lecaratteristiche tradizionali, soprattutto per quantoriguarda la consistenza, l’aroma e il sapore dellecarni. Una particolare attenzione viene rivoltaall’alimentazione che deve essere basata essen-zialmente sui cereali (con una significativa pre-senza di erba medica per il Tacchino bronzato),alla densità degli animali che non deve mai es-sere eccessiva e al rispetto dei tempi naturali dicrescita. Per il Gallo ruspante è stata anche ri-chiesta la protezione comunitaria come “Specia-lità tradizionale garantita”.

filetti di trotaaffumicatiLa trota Fario trova un habitat ideale nelle acquefredde e correnti del comprensorio di Visso, dovenasce il fiume Nera. In questa zona, è molto diffusol’allevamento della trota che viene largamenteconsumata come prodotto fresco, oltre che inquesta particolare preparazione.Il peso ideale per il consumo viene raggiunto tra idue anni e mezzo e i tre anni. Per preparare i filettidi trota affumicati, si prendono i filetti e si lavanocon acqua alla quale si aggiunge aceto o limone.Dopo 4-5 giorni di salamoia con aggiunta di es-senze odorose, vengono esposti all’aria per qualchegiorno e successivamente vengono affumicati. Ilprodotto va conservato in luogo fresco e asciutto.Attualmente è assai diffusa la tecnica del sottovuoto che permette di conservare a lungo il pro-dotto senza influire sulle sue caratteristiche orga-nolettiche.

trota Fario

conservadi pomodoriFino a non molto tempo fa, quasi tutte le famiglieproducevano e confezionavano in casa la conservadi pomodori per tutto l’anno. Si utilizzavano i po-modori più maturi, generalmente del tipo San Mar-zano che, una volta lavati accuratamente, venivanoprima ben scolati e poi tagliati in pezzi. A questopunto venivano passati più volte fino ad ottenereuna salsa semiliquida. La salsa veniva imbottigliatae le bottiglie, chiuse ermeticamente, venivano fattebollire per circa 30 minuti avvolte in sacchi di jutae fogli di giornale per evitare la rottura. Era fre-quente l’aggiunta di un trito di sedano, carota e ci-polla o di una foglia di basilico. Queste stesse pro-cedure vengono ripetute perfettamente immutateancora oggi anche se la tradizione di “farsi la con-serva in casa” è assai meno diffusa di un tempo. Ècurioso osservare come vengano utilizzate le botti-glie più disparate che vengono accantonate du-rante l’anno proprio per riporvi la conserva. È pos-sibile trovare le une vicine alle altre, bottiglie dibirra, di succhi di frutta o delle bibite più svariate,di dimensioni più grandi o più piccole, in modo daavere a disposizione la quantità di conserva neces-saria in base al numero dei commensali. Esiste anche una variante della conserva, ormaiquasi in disuso, in cui i pomodori a pezzi vengonofatti bollire per diverse ore, passati al setaccio e poifatti bollire ancora. La salsa così ottenuta vienefatta asciugare per diversi giorni su una spianatoiae quindi modellata in panetti che vengono lasciatiessiccare al sole. I panetti si ungono quindi con oliod’oliva e si avvolgono nella carta oleata. Tradizio-nalmente, i panetti venivano conservati in broccheo pigne di coccio che si esponevano (spandevano)sulla via principale del paese e formavano la cosid-detta “spasa”.

pastadi tartufobianco

salamoradi Belvedere

conservadi

pomodori

32 paste, salsee salamoreScorrendo la lista dei prodotti tradizionali delleMarche, ci imbattiamo in tre condimenti assaidiversi tra loro ma tutti e tre estremamente in-teressanti. Il primo è la Pasta di tartufo bianco,originaria della Provincia di Pesaro e Urbino, inparticolare del territorio delle Comunità Mon-tane dell’Alta Valmarecchia, del Montefeltro, delCatria e del Nerone e dell’Alto e Medio Metauro.Un tempo, questo condimento veniva preparatoessenzialmente in casa o in qualche ristorantetipico, mentre oggi la pasta di tartufo bianco èprodotta anche su scala industriale ed ha rag-giunto una diffusione ed una notorietà eccezio-nali. Ottima sulle tartine o sui crostini, arric-chisce le pietanze più svariate in alternativa o inaggiunta al tartufo fresco. Ma, attenzione all’etichetta perché la qualità delprodotto finale dipende essenzialmente dalla qua-lità della materia prima utilizzata ed è noto che infatto di tartufi esistono in commercio i prodottipiù svariati, provenienti da tutte le parti delmondo, con differenze di qualità e di prezzoenormi. La vera pasta di tartufo bianco deve esserel’esaltazione della semplicità in quanto è com-posta solo da Tuber magnatum Pico, olio (megliose extravergine di oliva), sale e pepe senza l’ag-giunta di aromi e additivi di alcun tipo. Consape-vole della necessità di fare chiarezza e di garantireil consumatore sulla qualità di ciò che acquista, laRegione Marche ha approvato un’apposita leggeper rendere trasparente, oltre al barattolo di vetroche contiene la salsa, anche l’etichetta, la qualedeve consentire di individuare in modo inequivo-cabile la materia prima utilizzata e la sua prove-nienza. Grosso modo dallo stesso areale, proviene la Salsadi olive, peraltro diffusa, con qualche variazione,anche in altre zone della regione. Il prodotto, di

consistenza morbida e molto granulosa, mantieneil colore verde tipico delle olive e sorprende, ad unprimo assaggio, per una leggera presenza di acetoche, insieme all’alloro, ai semi di finocchio, all’a-glio e all’olio entra a far parte della composizionedi questa gustosa salsa che possiamo assaporarenegli abbinamenti più fantasiosi. La preparazioneè molto semplice. Le olive, raccolte nel mese di novembre, vengonoconciate in salamoia al 7% di salinità con foglie dialloro, semi di finocchio ed aglio. Una volta toltedalla salamoia, vengono snocciolate e la polpaviene schiacciata fino a diventare una pasta allaquale si aggiungono olio, aceto e una piccolaquantità di aglio. Il prodotto finito viene quindi in-vasettato in barattoli di vetro nei quali viene abi-tualmente commercializzato. La Salamora di Belvedere, infine, ci porta a cono-scere le tranquille colline di Belvedere Ostrense edei comuni circostanti. In questa zona, nel periodo

autunnale, si prepara un condimento che si ot-tiene facendo macerare, nell’olio novello, le partiverdi del finocchio selvatico privato di fiori e semi,bucce di arancio e alcuni spicchi di aglio. Dopocirca un mese, si separano dall’olio, l’aglio, lebucce d’arancio e, dopo averlo strizzato, anche ilfinocchio. La salamora viene quindi versata in ap-positi contenitori di vetro e conservata fino all’au-tunno successivo. È un prodotto tipico della tradi-zione contadina, spesso utilizzato in occasioni im-portanti della vita di campagna quali la battitura,oppure nei giorni di festa. Il connubio ideale? Conil coniglio in porchetta.

l’olio de MarchiaDa una pianta preziosa, che arricchisce e caratte-rizza un paesaggio agrario di rara bellezza, comequello marchigiano, un prodotto ancora più pre-zioso in grado di arricchire ogni pietanza: l’oliod’oliva (è sottinteso che stiamo parlando dell’ex-travergine). E c’è da dire che quello marchigianoha sempre goduto di una reputazione invidiabile.Scrive il Muratori nelle sue “Antichità d’Italia delMedio Evo” che nel 1228, le navi marchigiane cheapprodavano sulla riva del Po a Ferrara pagavanoun pedaggio, il “ripatico”, pari a 25 libbre d’olio eche a questo olio veniva conferito un valore su-periore a quello degli oli provenienti da altre re-gioni. Anche i Veneziani apprezzavano “l’olio deMarchia” che veniva separato dagli altri per es-sere rivenduto ad un prezzo superiore in virtù delcolore e del sapore, come si legge nei capitolaridell’arte dei “Ternieri” di Venezia redatti nel 1263.Giungendo all’anno 1347 scopriamo che leMarche esportano 2.500 orci di olio d’oliva ai la-naioli fiorentini e, se permettete, esportare olio inToscana è di per sé una garanzia di qualità non datutti. Ancora alla fine del 1500 si ha notizia di

esportazioni tant’è che Botero, nelle sue“Relazioni Universali”, scrive

che “La Marca abbonda digrani, olio e vino e ne

manda copiagrande fora”. Altre

notizie di esportazionidi olio sono desunte dal

Registro delle bollette ditutte le merci degli anni 1396e 1397 e si riferiscono a tra-sporti effettuati dal porto diRecanati al porto di Venezia.Anche Papa Innocenzo VIII,come riferirono alcuni oratoridi ritorno da Roma nel 1486,amava avere olio recanatesealla sua mensa. Man mano che

sarganodi Fermo

raggia

mignola

coroncina

piantonedi Falerone

raggiola

34 ci avviciniamo ai giorninostri, i riferimenti sto-rici si fanno sempre piùnumerosi e tutti testimo-niano la grande reputa-zione che questo pro-dotto può vantare.A questo punto, verrebbeda chiedersi a cosa debbatanta fortuna l’olio mar-chigiano. È difficile indi-viduare una sola ragione,un fattore in grado di fare la differenza. Inrealtà, la qualità e la tipicità dell’olio marchi-giano sono il frutto della combinazione di diversifattori: la base varietale utilizzata, che vedeunirsi al Frantoio ed al Leccino una serie di va-rietà locali diverse da zona a zona, il particolareambiente pedoclimatico marchigiano, le tec-niche agronomiche tradizionali e, non ultima, lasapiente tradizione frantoiana che vede coesi-stere le tecnologie più all’avanguardia con i pic-coli impianti tradizionali a gestione familiare. Ilrisultato è un olio che, da anni, non fa che col-lezionare riconoscimenti a livello nazionale edinternazionale. L’olio tipico marchigiano è carat-terizzato da un gusto prevalentemente dolce eleggero, mediamente fruttato, talora con sen-tore di amaro e piccante. La presenza di nume-rose varietà tipiche dell’ambiente marchigianoche si mescolano al Frantoio ed al Leccino inproporzione variabile, esaltando di volta in voltaquesta o quella caratteristica, rende possibileuna combinazione pressoché infinita di sfuma-ture e aromi per cui ogni assaggio di olio diviene

un momento unico edirripetibile. E l’elencoregionale dei prodottitradizionali mette in ri-lievo proprio queste va-rietà locali tant’è che vitroviamo iscritti bensette oli, tutti rigorosa-

mente monovarietali. Questi oli rappresen-tano, allo stesso tempo,il passato ed il futuro inquanto, se è vero che laloro origine si perdenella notte dei tempi, èaltresì vero che proprioin questi ultimi anni laloro produzione sta ri-scontrando un grossofavore verso i consuma-

tori che ne apprezzano, oltre che l’elevato livelloqualitativo, anche la loro riconoscibilità, dovutaproprio al fatto di essere ricavati da un’unica va-rietà di oliva. Gli oli iscritti provengono dalle seguenti varietà:Raggiola, Raggia, Mignola, Coroncina, Piantonedi Mogliano, Piantone di Falerone e Sargano diFermo.La raggiola è una cultivar marchigiana diffusasoprattutto in provincia di Pesaro e Urbino. È co-nosciuta anche con diversi sinonimi, tra cui: Ra-giola, Vergiola, Corgiola e Correggiolo.Pur non essendo estremamente produttiva, si faapprezzare per una certa costanza oltre che perl’elevata resa alla lavorazione. L’olio, di coloreverde tendente al giallo, è di un buon fruttato,mandorlato, prevalentemente dolce, legger-mente amaro e piccante. La Raggiola è anchemolto apprezzata come oliva da mensa per viadella polpa particolarmente dolce. Per certi versi simile alla Raggiola, la Raggia hatrovato il suo habitat ideale in provincia di An-cona, in particolare nel territorio dei comuni diMonte San Vito, Ostra, Ostra Vetere, BelvedereOstrense, San Marcello e Morro d’Alba ma è dif-fusa anche nello Jesino dove è conosciuta comeMandolina, per via del tipico sentore di man-dorla verde. Spostandoci poco più a sud incontriamo la Mi-gnola, che è particolarmente diffusa nel comunedi Cingoli, fino alle aree più interne, e nella Val-

35lesina. L’olio che se ne ricava è mediamentefruttato, con sentori peculiari di erba e frutti dibosco: il sapore è marcatamente amaro e pic-cante, con note di dolce più o meno accentuate.Tipica dell’entroterra maceratese è invece la Co-roncina, diffusa prevalentemente a Caldarola,Serrapetrona, Belforte del Chienti, Camporo-tondo e Cessapalombo. Il curioso nome che latradizione locale hadato a questa va-rietà sarebbe da at-tribuire a due fat-tori: la forma delfrutto (la piccolasporgenza che ilfrutto presentanella saldatura deidue carpelli è moltosimile ad una co-rona) e il ramo frut-tifero (il modo difruttificare diquesta varietà lungo il ramo lo rende simile adun rosario che, nelle nostre campagne, viene perl’appunto chiamato “corona”). La resa in olio èmedio-bassa e l’inolizione tardiva tanto che laCoroncina si raccoglie mediamente 20-30 giornidopo rispetto alle altre varietà.L’olio è di colore verde tendente al giallo graziead un buon contenuto di clorofilla. All’olfatto sipercepisce un fruttato medio, di tipo verde, consentori di erba e di carciofo.Sempre nel maceratese tro-viamo il Piantone di Mo-gliano, una cultivar chetrova la sua maggiorediffusione in una zonaintermedia tra quelladella Coroncina e la col-lina litoranea. Tuttavia, èpresente anche nelle zonepiù interne della provinciaanche ad altitudini superiori a

600 metri sul livello del mare. L’olio, di coloregiallo oro, ha un fruttato leggero tendenzialmentedolce con caratteristiche di amaro e piccante checompaiono in caso di raccolta precoce. Il Piantone di Falerone è invece diffuso in pro-vincia di Fermo, in una zona compresa tra Mon-tegiorgio e Falerone, oltre che nelle zone più in-terne del maceratese e anch’esso si spinge fino

ad elevate altitu-dini. Caratterizzatoda un fruttatom e d i o - l e g g e r o ,l’olio monovarietaledi Piantone di Fale-rone presenta ungusto inizialmentedolce, leggermentepiccante, con un re-trogusto piacevol-mente amaro. Meglio adattatonella zona litoranea

è invece il Sargano di Fermo che dal fermano sispinge fino alla provincia di Ancona. Cultivarmolto produttiva, dà un olio di colore giallo, dalbuon fruttato equilibrato, prevalentementedolce, leggermente piccante e amaro al retro-gusto. Sulla strada tracciata da questi oli, si sta speri-mentando, con esiti più che incoraggianti, anchel’estrazione di altri oli monovarietali nella cer-

tezza che, visti i numeri dell’olivicol-tura marchigiana (appena 7.000 ettariinvestiti sull’intero territorio regio-

nale), se si vuole restare competi-tivi in questo settore occorrepuntare ad ogni costo sulla ca-ratterizzazione, oltre che natu-

ralmente sul livello qualita-tivo, degli oli locali.

a ciascunoil suo pecorinoA pagina 7855 del Bollettino ufficiale della Re-gione Marche n. 63 del 20 maggio 2002, è ripor-tata la scheda descrittiva di un prodotto denomi-nato “Pecorino”. Questa notizia non mancherà disuscitare le ire dei produttori ma anche dei con-sumatori di questo arcinoto formaggio. Tuttisanno infatti che nelle Marche non esiste uno madieci, forse cento tipi di pecorino, ciascuno unicoe ogni produttore vi convincerà che il suo è mi-gliore di tutti gli altri. È evidente come la deci-sione di approntare un’unica scheda vada consi-derata come il tentativo di identificare una cate-goria di prodotti, per alcuni aspetti omogenei,senza alcuna pretesa di sintetizzare in pocherighe un universo di formaggi che racchiudetutta la diversità dei popoli che hanno abitato interra marchigiana nel corso di svariati millenni. Ciò che accomuna tutti i pecorini tradizionali èl’uso del latte ovino crudo che va lavorato appenamunto. Un tempo, nel territorio comunale diVisso e nelle zone limitrofe, veniva utilizzato illatte della pecora sopravvissana, ora a rischio diestinzione ma un tempo molto diffusa. Il for-maggio che se ne traeva era conosciuto anchecome pecorino Vissano. Ora si utilizza latte dialtre razze adattate all’ambiente locale ma Visso,insieme ad altri comuni del comprensorio dei Si-billini, rimane uno dei centri dove si producono imigliori formaggi pecorini delle Marche. Altro fattore comune dei pecorini marchigiani èl’estrema importanza attribuita al caglio. Deveessere naturale (di agnello o di capretto) e di pro-venienza locale. In alcune zone, soprattutto neiSibillini ma anche nel Comune di Monte Rinaldo,in provincia di Ascoli Piceno, si usa aromatizzareil caglio con erbe locali e altri ingredienti. In par-ticolare, si utilizzano serpillo, basilico e maggio-rana ma anche fichi verdi, germogli di rovo e dibuglossa, chiodi di garofano, noce moscata, pepe

formaggiodi fossa

caciotta

pecorinoin botte

pecorino

37nero, rosso d’uovo e un cucchiaino di miele. Iltutto si riduce in una pasta da sciogliere nellatte e conferisce al pecorino un aroma partico-lare e una maggiore digeribilità. La tradizionevuole che la preparazione del ca-glio sia opera di mani femminilie che avvenga in una giornataserena e senza vento e con laluna in fase calante.Aggiunto il caglio, il latte coagulain 20-30 minuti. La rottura dellacagliata si effettua delicatamentecon le mani oppure con un appo-sito attrezzo in legno detto “spino”.Le particelle avranno la dimensionedi una nocciola per il pecorino desti-nato al consumo fresco e di un chiccodi riso per il prodotto destinato alla stagiona-tura. Dopo averla fatta riposare per qualche mi-nuto, la massa viene messa nelle fascere e pres-sata con il palmo delle mani per favorire lospurgo del siero. Per il prodotto stagionato, si ef-fettua generalmente anche una semicotturadella cagliata ad una temperatura compresa trai 45° e i 48°. A questo punto, si passa alla sala-tura a secco che consiste nel tenere le formesotto sale per uno o due giorni. Il pecorino vienequindi fatto maturare in un ambiente fresco peralmeno venti giorni durante i quali le forme ven-gono rigirate giornalmente e lavate,a giorni alterni, con acquae siero. Dopo questeoperazioni il for-maggio è pronto peressere consumato. Le forme hannoun’altezza media va-riabile da 6 a 10centimetri e un dia-metro di 14-20mentre il pesomedio varia da unchilo fino a due chili

e mezzo. La crosta esterna è giallastra mente lapasta è bianca, scarsamente occhiata e dal sa-pore sapido e pastoso, delicatamente aromatico. Esiste anche, nell’entroterra maceratese, fer-

mano ed ascolano, una tipologia dipecorino con un’occhiaturamolto accentuata, da sembrare

quasi lievitato, tanto che è cono-sciuto con il nome di “cascio lie-vito”. Si tratta di un formaggio da

consumare abbastanza fresco,dopo una stagionatura di 20-30giorni.Ma i veri intenditori sanno aspet-tare e lasceranno stagionare il peco-

rino fino a quando la crosta non avràassunto riflessi rossastri e la pasta non

sarà divenuta compatta e di colore giallo paglie-rino. Non è raro assaggiare formaggi pecorini sta-gionati anche per più di un anno ottimi sia grat-tugiati, per insaporire i piatti più svariati, che dagustare a fine pasto con un buon bicchiere dirosso conero o di rosso piceno superiore..Una curiosità legata all’utilizzo delle forme dipecorino più stagionate è il gioco della ruzzolache si svolge lungo le strade più impervie, rigo-rosamente non asfaltate, delle nostre colline. Èun gioco che richiede, oltre a una certa forza fi-sica, anche molta abilità in quanto consiste neltirare le forme di pecorino lungo la strada cer-cando di farle arrivare più lontano possibile. Il

lancio avviene per mezzo diuno spago che viene av-

volto lungo il peri-metro della formamentre un’estre-mità si lega alpolso del gioca-tore. Ogni concor-rente effettua piùtiri (in genere

cinque) e ognivolta bisogna tirare

38 dal punto esatto in cui la ruzzola si è fermata altiro precedente (un po’ come succede nel golf).Sfida dopo sfida si arriva alla sera per celebrarela premiazione. E i premi? Manco a dirlo leforme di pecorino vinte agli avversari.Il gioco della ruzzola era un tempo molto diffusoed era, insieme alle bocce, il passatempo prefe-rito delle domeniche pomeriggio di mezza sta-gione. Oggi sono rimasti pochi anziani a prati-carlo e ogni partita ha il sapore di una magicarievocazione.

pecorino in botteSenza tema di smentite, si può tranquillamenteaffermare che nelle Marche vengono utilizzati i“locali di stagionatura” più impensati. Basti pen-sare che in alcune zone, principalmente in pro-vincia di Pesaro e Urbino, ma anche in provincia diAncona, troviamo dell’ottimo formaggio pecorinoche viene fatto stagionare in botti di rovere, barilio tini. E le curiosità non finiscono qui in quantodel Pecorino in botte, già di per sé prodotto al-quanto singolare, esistono diverse versioni. La prima viene ottenuta partendo da un pecorinogià stagionato per un periodo di 40-60 giorni. Leforme vengono avvolte in foglie di noce o ca-stagno e quindi vengono riposte nelle botti dovevengono lasciate stagionare ulteriormente per un

periodo che va da un

minimo di venti giorni ad un massimo di tre mesi.In tal modo, il formaggio acquisisce un caratteri-stico sapore deciso e leggermente amarognoloche, insieme alla pasta bianco-dorata, con unagrana estremamente fine, quasi impercettibile, lorendono immediatamente riconoscibile. Ancorapiù facile sarà il riconoscimento se vi trovate difronte ad una forma intera, in quanto la presenzadi muffe e le impronte delle foglie, ancora ben evi-denti, fugheranno qualsiasi dubbio sulla vera na-tura del prodotto.Una seconda variante del pecorino in botte nonprevede l’avvolgimento in foglie bensì una dispo-sizione delle forme a strati alterni con foglie ederbe aromatiche (generalmente santoreggia, ne-petella, alloro e timo). In tal modo, il formaggioacquisisce un sapore più dolce e delicato rispettoal precedente. In una terza versione, ancora, si utilizzano, alposto delle erbe, le vinacce che conferiscono unaroma inconfondibile al formaggio. Non propria-mente un addetto ai lavori l’inventore di questoprodotto, il cui copyright appartiene infatti allafamigerata banda del brigante Terenzio Grossi che,intorno alla metà del 1800, nascose un carico dipecorini rubati in mezzo alle vinacce.E giungiamo quindi all’ultima variante, a questopunto d’obbligo parlando di botti, barili e tini: ilformaggio immerso nel vino. Verdicchio nellazona dei Castelli di Jesi e vini rossi locali nelle altrezone del pesarese e dell’anconetano. Per questaparticolare preparazione, la pre-stagionatura delformaggio deve essere più lunga: circa tre mesi. Ilprodotto necessita poi, una volta estratto dallebotti, di un periodo di ossigenazione di almeno

10 giorni durante i quali viene la-sciato “riposare” su delle assi dilegno. Stando alla tradizione orale, la pa-ternità del pecorino in botte spette-rebbe ad alcuni pastori di originesarda che furono i primi a conser-vare il formaggio in botti di rovere.

39La tecnica utilizzata era quella di alternare unostrato di foglie di noce e uno di cenere al pecorino.La botte veniva quindi sigillata dopo la notte diSan Giovanni Battista (il 24 giugno), non prima diaver recitato una preghiera in suo onore di frontea un cero acceso. Il formaggio rimaneva quindinelle botti per tutto il periodo estivo e vi restavafino a quando le botti non venivano riutilizzate perla vinificazione successiva.Il pecorino in botte si utilizza come ingredienteper nobilitare paste ripiene come tortellini e cap-pelletti oppure, grattugiato, come condimento perprimi e secondi piatti. I veri intenditori preferi-scono però gustarne appieno le potenzialità as-saggiandolo da solo o abbinandolo con miele mil-lefiori o con marmellate particolari dal gusto unpo’ acidulo come quella di bacche di rosa canina odi pomodori verdi. Quanto al vino, si consiglia unpassito oppure un vino rosso di corpo, legger-mente invecchiato.Assai raro, questo formaggio sopravvive grazie al-l’impegno e alla laboriosità di poche aziende checontinuano a tramandarsi di generazione in gene-razione tanti segreti e “trucchi del mestiere” chevanno ben al di là della descrizione sommaria fattain questo capitolo. Tuttavia, il favore che incontrapresso i consumatori, che sempre più si lascianotentare dalla scoperta di sapori unici come questo,lascia ben sperare per il futuro del pecorino in botte.

dalla botte...alla fossaNel mese dei morti, in un piccolo paese del Mon-tefeltro, si aprono le fosse. Non è un passo trattodalla sceneggiatura di un film dell’orrore, bensìuno degli appuntamenti annuali più attesi delmangiare tipico italiano. Ciò che emerge dalleviscere della terra non sono infatti degli zombi,bensì formaggi tra i più straordinari che si sianomai visti e assaggiati. Colpiscono innanzituttoper l’aspetto esteriore. Una volta ripulite leforme, ci accorgiamo che non hanno più la

forma di… forme ma sono, allungate, appiattite,deformate come in un quadro di Salvador Dalì. El’odore, poi, di un’intensità terrificante e allostesso tempo avvolgente che si sparge per tuttoil paese. E il gusto, infine, decisamente piccante,persistente, moderatamente salato…un’espe-rienza esaltante e indimenticabile, insomma. Ma forse è il caso di andare per ordine e di par-tire dall’inizio. C’era un tempo in cui le terre aconfine tra Marche ed Emilia Romagna subivanoogni sorta di scorribande da parte di soldati infuga, briganti e affini, tutti per semplicità acco-munati sotto l’etichetta di “barbari”. Manco adirlo, la maggior preoccupazione dei contadiniera, allorché giungevano questi drappelli, dimettere in salvo, oltre che loro stessi, la maggiorquantità possibile di generi commestibili. Equale rifugio migliore della terra? Ecco alloranascere l’abitudine di utilizzare grandi buche(fosse per l’appunto) scavate nella roccia perconservarvi granaglie ed altri generi commesti-bili tra i quali i formaggi. Esistono testimonianze scritte, in prevalenza attinotarili, che documentano l’adozione di questa“pratica conservativa”già a partire dalla finedel 1400. Poi, coltempo, gli abitanti delluogo si accorsero chei formaggi che veni-vano infossati a Tala-mello acquisivano unaroma e un sapore piùgradevoli rispetto aquelli che uscivanodalle fosse dei paesivicini; iniziò così latradizione di andaread infossare i for-maggi nella grandefossa di Talamello, chefu attiva fino agli annidell’unità d’Italia,

40 anche dai paesi vicini. C’erano poi molte altrefosse, più piccole, in cui la pratica dell’infossaturaè proseguita fino ai giorni nostri quando il pro-dotto ha conosciuto una grandissima e crescentenotorietà. La tecnica è rimasta inalteratanei secoli: i formaggi vengonoinfossati chiusi in sacchi di telabianca e ogni sacco è contras-segnato in modo che ciascunopossa riconoscere le proprieforme alla riapertura dellefosse. Fosse che, per essere giu-dicate idonee alla stagionaturadel formaggio, devono averecaratteristiche ben precise: es-sere scavate nella roccia delluogo (principalmente are-naria), avere un diametro va-riabile da 70 centimetri a duemetri e una profondità mas-sima di quattro metri, disporre di un pavimentosopraelevato fatto con tavole di legno, che favo-risca il deflusso dei liquidi grassi prodotti dallafermentazione del formaggio durante la stagio-natura e un rivestimento alle pareti formato dauno strato di 10-15 cm di paglia. Ogni fossa chevoglia essere utilizzata per la produzione di for-maggio deve inoltre superare un severo esame inquanto deve essere sottoposta ad un periodo diprova di tre anni prima di entrare nel ristretto“club” delle fosse riconosciute. La stagionaturadeve durare almeno tre mesi e inizia nel periodoche va dal 20 luglio al 30 agosto per terminarecon l’apertura delle fosse che avviene dal 10 dinovembre fino al giorno di Santa Cate-rina: il 25 novembre. Il formaggiopuò essere consumato finoalla produzionedell’anno suc-cessivo anchese sono statia s s a g g i a t i ,

con esiti sorprendentemente positivi, anche for-maggi di due o tre anni. A questo punto, si potrebbe pensare che nellafossa avvengano delle magie tali da renderestraordinario qualsiasi tipo di formaggio; ma la

realtà è ben diversa. Ciò cheavviene, infatti, oltre alla fer-mentazione del formaggio èuna concentrazione del pro-dotto, causata da una consi-stente perdita di liquidi, per cuile caratteristiche del formaggiovengono esaltate, amplificate.Pertanto, infossando un buonformaggio si avrà un formaggiodi fossa ottimo, infossandoneuno mediocre, si avrà un pro-dotto scadente. Quindi è im-portante, oltre che seguire allalettera tutte le metodiche chesono state tramandate di gene-

razione in generazione, avere altrettanta curanella preparazione del formaggio da infossare. Apartire dalla scelta del latte, e, ancora prima,dall’allevamento degli animali e dalla loro ali-mentazione. Gli animali sono, chiaramente, le vacche e le pe-core che forniscono il latte; soprattutto queste ul-time in quanto, nel tempo, la percentuale di latteovino nel formaggio di base è andata aumentandorispetto al latte vaccino e si attesta attualmente aldi sopra del 70%. L’alimentazione deve essere as-sicurata prevalentemente da foraggi verdi o affie-nati provenienti dagli abbondanti pascoli dellazona o da coltivazioni naturali, limitando il più

possibile il ricorso a mangimi concentrati. Illatte va poi lavorato prima possibile e coa-

gulato a 35°-38° con caglio ani-male. È eventualmente pos-

sibile aggiungere fer-menti lattici per guidarela fermentazionepurché non si alterino,

41in tal modo, le caratteri-stiche tipiche del pro-dotto. Il formaggiodeve inoltre matu-rare per almeno duemesi in caseificio aduna temperatura in-feriore a 15° e conun’umidità dell’80-90%. Abbiamo vistoquindi come questostraordinario prodotto, che un ispirato ToninoGuerra ha voluto ribattezzare “Ambra di Tala-mello”, non nasca a caso ma sia il frutto di unacombinazione di fattori unici e non riproducibilialtrove, tanto che ne è stata richiesta la registra-zione come denominazione di origine protetta aisensi del Regolamento CEE n. 2081/92. Auspichia-moci che la DOP arrivi prima possibile in quantoquesto prodotto va difeso da imitazioni e contraf-fazioni che possono danneggiarne in modo irrime-diabile l’immagine e la reputazione.

formaggi al fico,al carciofo, al limoneAnche il lettore più frettoloso, che si trovasse ascorrere l’elenco dei prodotti tradizionali dellaRegione Marche, difficilmente potrebbe fare ameno di soffermarsi su alcuni prodotti più uniciche rari come appunto il caprino al lattice difico, la caciotta vaccina al caglio vegetale o ilcacio in forma di limone.Il primo è diffuso nel Montefeltro e, per quantoriguarda le materie prime utilizzate, sono quelleche danno il nome al prodotto stesso: latte ca-prino e lattice di fico. La particolarità di questoformaggio, che lo distingue dal caprino che siproduce normalmente in questa zona (oltre chenell’alto maceratese) è data dal fatto che, percagliare il latte, si utilizza semplicemente un

ramo di albero difico inciso che

viene fattoruotare nellatte fino a

c o a g u l a -zione av-venuta. Èun’opera-

zione sem-plicissima che

però richiede una grande esperienza in quanto èsufficiente che il ramo resti immerso perqualche istante in più del necessario perché ilformaggio assuma un fastidioso sapore amaro-gnolo. Per il resto, la lavorazione è la stessa diformaggi analoghi e il prodotto, dal gusto sapidoe leggermente piccante, può essere consumatodopo una breve stagionatura (uno o due mesi) oanche lasciato stagionare fino ad un anno. La caciotta vaccina al caglio vegetale è an-ch’essa originaria del Montefeltro. Esterior-mente si presenta come una qualsiasi altra ca-ciotta e, anche all’assaggio, non presenta parti-colari caratteri distintivi. Rispetto alle caciotteottenute con caglio animale, risulta, però, piùdigeribile e recenti studi hanno messo in rela-zione questo fatto con una più spinta azioneproteolitica ad opera degli enzimi vegetali du-rante la fase della stagionatura. La peculiaritàsta tutta nel caglio che si ricava dai fiori del car-ciofo e del cardo. Sono gli stimmi, in particolare,che vengono strofinati in un po’ di acqua tiepidae lasciati in ammollo, gli artefici della coagula-zione del latte. È una pratica antica, tramandatagrazie alla tradizione orale, un tempo larga-mente diffusa tra i pastori del Montefeltro cheerano soliti indicare la pianta da cui si ricavavail caglio con il nome di “erba cacia”. Due formaggi, quindi, che fanno a meno delclassico caglio ricavato dagli stomaci di giovaniagnelli e capretti. Ciò li rende appetibili a parti-colari categorie di consumatori come, ad

42 esempio, la maggior parte dei vegetariani, cheammette i prodotti di origine animale solo se ot-tenuti senza il sacrificio degli stessi. Oppure gliebrei secondo cui l’unico formaggio “kosher” èquello al caglio vegetale in quanto le loro regoleimpediscono di unire nello stesso piatto latticini eparti di animali. Oltre a queste “nicchie” di mer-cato, i formaggi al caglio vegetale sono general-mente apprezzati dai consumatori per la loromaggiore delicatezza e digeribilità. Si tratta co-munque, allo stato attuale, di produzioni molto li-mitate nelle quali non si può certo confidare per ilrilancio della produzione lorda vendibile del set-tore. Sono tuttavia due prodotti da salvaguardaree diffondere.Il terzo prodotto, il cacio in forma di limone, è in-vece un vero e proprio dessert “monoporzione”(pesa sui 100-150 grammi), una sorta di sorbetto

medievale. Il prodotto è presente nella lista dellevivande di Bartolomeo Scapi, che nel secolo XVIera il cuoco del Papa. La materia prima di base è illatte ovino crudo che va lavorato appena munto.In questo caso si utilizza, per la coagulazione, iltradizionale caglio animale. Dopo la rottura dellacagliata, che si effettua, delicatamente, con lemani, si lascia riposare la massa per alcuni minutiper poi riporla in stampi di terracotta forati aforma di limone. La salatura viene effettuata asecco con sale misto a buccia di limone grattu-giata e dura un paio di giorni. Al termine, si eli-mina il sale in eccesso e si lava. Quindi, le formevengono spennellate con acqua e farina per farviaderire le scorze di limone. Dopo una maturazionedi qualche giorno in locali freschi e umidi, il cacioin forma di limone è pronto per essere servito.

43dal Montefeltroun poker di bontàDal Nord delle Marche, dalla terra dei Montefeltro,ci giungono altri quattro formaggi che meritano,per la loro specificità, una menzione a parte.Il primo è la caciotta, un formaggio prodottoanche in altre zone della Regione ma che quirappresenta il prodotto principe del settore lat-tiero-caseario. Basti pensare che, nella zona,viene prodotto anche l’unico formaggio DOPdelle Marche: la “Casciotta d’Urbino”. Come peril pecorino, possiamo tranquillamente affermareche non esiste un solo tipo di caciotta in quantovariano i tipi di latte utilizzato (è costante lapresenza del latte vaccino mentre quello ovino eil caprino possono essere aggiunti in proporzionivariabili), la durata della stagionatura (varia ingenere da due a sei mesi ma le eccezionisono molto frequenti), nonché i “locali”utilizzati (anche per la caciotta la fan-tasia non manca in quanto si passacon disinvoltura dalle botti, alle bi-gonce, ai cassettoni di legno, per arri-vare fino ai mastelli ed alle anfore diterracotta). Come per il pecorino,inoltre, è diffusa l’usanza di avvolgere leforme in foglie di noce.Gli altri tre formaggi sono, invece, dal punto divista meramente economico, residuali rispettoalla caciotta e anche la zona di produzione èmolto più circoscritta. Si tratta dello slattato,del raviggiolo e del casecc.Lo slattato è un formaggio freschissimo, fattoesclusivamente con latte vaccino che viene la-vorato appena munto, aspettando giusto iltempo di farlo raffreddare di qualche grado. Ag-giunto il caglio, la coagulazione avviene in 30-40 minuti. Si rompe quindi la cagliata in grumifinissimi e si lascia addensare la massa con il ca-lore delle mani per poi metterla nelle forme,

dove sarà pressata per circa 10 minuti. Dopo unpaio di giorni di salatura a secco, si toglie il salein eccesso e si passano le forme nel siero a 95gradi lisciando bene la superficie. Lo slattatomatura in soli sette giorni e non subisce alcunastagionatura. Si presenta in forme tondeggiantie afflosciate di peso variabile da meno di mezzochilo fino a quasi due chili. La crosta è morbida,color panna, la pasta omogenea e molle di co-lore bianco, il sapore dolce e un po’ acidulo.Come molti altri prodotti tradizionali, è legatoalla stagionalità e pertanto si produce nel pe-riodo che va da ottobre a marzo. La classica pre-sentazione dello slattato vuole che le formevengano avvolte in foglie di fico o di cavolo. Un altro formaggio che si consuma fresco è ilraviggiolo che si produce in una zona molto cir-cosc r i t ta ,

c o m p r e n -dente i comuni di Casteldelci, Sant’Agata Feltriae San Leo, nel periodo che va da ottobre adaprile. Questo formaggio, che si produce indiffe-rentemente con latte vaccino o ovicaprino, sipresenta di forma variabile, vagamente rotonda.La crosta è assente mentre la pasta, morbida etenerissima, di colore bianco latte, ha un saporegradevolmente dolce e delicato. La lavorazione èrapidissima. Il latte appena munto si lascia ap-pena raffreddare di qualche grado, dopodichè sifa cagliare. Caratteristica del raviggiolo è che la

44 cagliata non si rompe ma si preleva, in piccolequantità, con un mestolo e si fa scolare su ap-posite stuoie o, più semplicemente, su foglie difelce, di fico o di cavolo. Non si effettua nessunastagionatura e anche la salatura può esseromessa a seconda del grado di dolcezza che sipreferisce. Riccardo Di Corato afferma chequesto formaggio, nei secoli scorsi, era conside-rato una prelibatezza, specialmente quello fattocon il latte di capra. Esso non mancava mai nelletavole imbandite e nei banchetti. La testimo-nianza della sua notorietà ci è data anche dalproverbio “Chi non è Marzolino sarà Raviggiolo”che indica la fatalità del destino. Il casecc, infine, tipico di San Leo e delle zonecircostanti. Prodotto anch’esso nel periodo au-tunnale e invernale, si ottiene dalla lavorazione

del latte vaccino oovino o anche

misto. Perpreparare

il ca-secc,

la cagliata viene ridotta in grumi della dimen-sione di un chicco di riso. Posta la massa nellefascere, si effettua la salatura a secco, che puòdurare fino a due giorni, per passare, poi, allafase di maturazione che dura per altri diecigiorni circa. Ma ciò che rende unico questo for-maggio è ciò che avviene dopo. Le forme ven-gono infatti prima messe per otto giorni sopradelle foglie di noce, poi conservate in caratteri-stici orci di terracotta che nella zona vengonochiamati “avthèin”. Solo al termine della stagio-natura, che può durare anche un anno, il for-maggio potrà finalmente chiamarsi casecc.È un formaggio che può avere diversi formati inquanto le forme hanno un’altezza variabile tra 4e 8 centimetri, diametro di 14-22 e un peso cheva da 7 etti fino a 2 chili. La crosta esterna ègiallo paglierina, liscia e traslucida, mentre lapasta è compatta e priva di occhiature. Il sapore,deciso e pastoso con gradevoli note aromatiche,lo rende particolarmente apprezzato nella pre-parazione dell’impasto dei cappelletti natalizi.Altrimenti, si usa grattugiato per insaporire

primi piatti a base di pasta fatta in casa.

il mieleUno dei prodotti più diffusi e radicati nella no-stra regione è senza dubbio il miele. Le Marchesono sempre state una regione all’avanguardianell’apicoltura tanto che già alla fine dell’otto-cento, il professor Alessandro Chiappetti realiz-zava l’arnia di “tipo marchigiano” che consen-tiva, con le misure standard di nido e melario, dieseguire interventi di manutenzione e di alleva-mento con maggiore facilità rispetto al passato.Nel 1903, nasceva ad Osimo, in provincia di An-cona, la FAI (Federazione Apistica Italiana). Nu-merose anche le pubblicazioni in materia realiz-zate nelle Marche a cavallo tra l’Ottocento e ilNovecento. Tra queste possiamo segnalare “Leapi e i fiori” del 1888, “Il risveglio apistico” del1900 e “L’apicoltura italiana” del 1905.Il miele più diffuso è il millefiori ma sono pro-dotti anche ottimi mieli uniflorali che riscon-trano un notevole apprezzamento sul mercatotra cui vanno senz’altro menzionati il miele diacacia, di castagno, di girasole, di lupinella e dimelata. Il miele millefiori marchigiano si pre-senta di colore variabile tra l’extra bianco el’ambra chiaro, secondo la classificazione im-piegata nel commercio internazionale.

ricotta

miele

ricotta

ricotta

ricottasalata

miele

L’odore è di debole o media intensità, vegetale,con sentori variabili a seconda della composi-zione che possono andare dal fruttato, al flo-reale, al vinoso, fino all’odore di leguminose odi girasole. Anche il sapore è variabile da deli-cato a mediamente intenso. Lo spettro pollinicoè caratterizzato dall’associazione, in propor-zioni variabili, di girasole, rovo, leguminosequali capraggine, medica, trifoglio, ginestrino elupinella, crucifere, erba strega. È talvolta rile-vante la presenza delle Umbrellifere. Nella fa-scia alto collinare e nei suoli marnoso-arenaceinon meno importante è la presenza di castagnodi “non ti scordar di me” (Myosotis) e di timo,associati alle leguminose.La stagione produttiva è compresa nel periodoprimaverile-estivo, indicativamente, da aprilead agosto.Gli alveari destinati alla produzione sono for-mati da colonie ben sviluppate ed in buonecondizioni sanitarie e da arnie razionali benmantenute. Il miele è estratto, lavorato e con-servato secondo le seguenti modalità.La smielatura viene svolta subito dopo la rac-colta dei melari e ha inizio con la disopercola-

tura dei favi dei melari, manuale o a macchina.Si estrae quindi il miele dal favo utilizzandosmielatori centrifughi. Il miele così estrattoviene purificato mediante filtrazione, utiliz-zando filtri di vario tipo, preferibilmente dis-posti in successione con misura delle magliedecrescente fino ad un minimo di 0,1-0,2 mil-limetri. Per la salvaguardia delle caratteristichetradizionali del miele non vanno utilizzate tec-niche di filtrazione più spinte come ad esempiol’ultrafiltrazione. Segue poi un periodo di al-meno dieci giorni in cui avviene la decanta-zione in appositi contenitori di acciaio inoxdetti maturatori. Il miele così ottenuto vieneinvasettato in recipienti di vetro ed è prontoper essere commercializzato.

ricotta ericotta salataLa ricotta è diffusa su tutto il territorio regio-nale, prevalentemente nelle zone interne. Nonè un vero e proprio formaggio ma un prodottoche si ottiene dal siero derivante dalla lavora-zione degli altri formaggi. Si ottiene pertantoindifferentemente a partire dal latte vaccino oovino. Il siero derivante dalla lavorazione deipecorini, delle caciotte e di eventuali altri for-maggi, viene raccolto e trasferito in caldaiadove viene riscaldato fino ad una temperaturadi 80-90 gradi. Si estrae la ricotta, per sempliceaffioramento, con una “schiumarola”. La simette poi in appositi stampi per la formatura.La ricotta ha un gusto fresco e gradevole, conun retrogusto leggermente piccante se derivadal siero di latte ovino e si fa apprezzare ancheper la sua digeribilità. È ottima sia al naturaleche come ingrediente nella preparazione dipaste ripiene e dolci. L’importante è che la ri-cotta sia sempre freschissima in quanto è unprodotto facilmente deteriorabile. Per ovviare a questo inconveniente, si è diffusain alcune zone a confine con l’Umbria, in parti-colare a Pieve Torina (MC), la pratica della sa-latura. Si effettua in appositi stampi dove la ri-cotta viene rigirata quotidianamente. Dopo unasettimana, la ricotta avrà raggiunto una consi-stenza tale da poter essere estratta dai conte-nitori e posta su una mensola dove verrà la-sciata a stagionare per circa due mesi. Il pro-dotto finito si presenterà di forma tronco-conica con la crosta di colore grigiomentre, all’interno la pasta saràbianca e piuttosto compatta.Apprezzata per il gusto sapidoe l’aroma delicato, si utilizzasia grattugiata sulla pasta che talquale a fine pasto.

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il pane e la pasta:ovvero i frutti delgranoDa sempre, le Marche sono una regione prevalen-temente cerealicola, il cui ambiente pedoclima-tico è particolarmente vocato alla produzione diun frumento di ottima qualità. Già alla fine del1500, il Botero, nelle sue “Relazioni Universali”,individuava il grano tra i prodotti di maggiorespicco delle Marche attestandone l’esportazionedi grandi quantitativi nelle altre regioni. In ef-fetti, il frumento, insieme alla vite e all’olivo (nona caso vino e olio sono gli altri due prodotti se-gnalati dal Botero), è la coltura che meglio rap-presenta la cultura contadina marchigiana.

Ancora oggi, nonostante si tratti di un settore re-lativamente povero, i cui margini di profitto per iproduttori sono continuamente minacciati dal-l’imperante globalizzazione da un lato e dal pro-gressivo ridimensionamento della politica comu-nitaria di sostegno dall’altro, la cerealicolturacontinua a ricoprire un ruolo di primo piano nel-l’agricoltura regionale. Basta dare un’occhiata ainumeri per rendersi conto della grande rilevanzadella coltivazione dei cereali nelle Marche. La su-perficie investita a cereali è stabilmente al disopra dei 200.000 ettari e rappresenta oltre il

biscott’

bostrengo

tacconi

panedi Chiaserna

calcione

lonzadi fico

cresciafogliata

maccheroncinidi Campofilone

frustingo

4940% dell’intera superficie agricola utilizzata(SAU) della regione. La parte del leone la fa ilfrumento, sia duro che tenero, che da solo oc-cupa circa un terzo della SAU. E nel panoramanazionale, scopriamo che nel settore cerealicolole Marche non sono affatto una piccola regione,ma occupano anzi i primissimi posti sia in ter-mini quantitativi che qualitativi. Per la produ-zione di frumento duro e di orzo, le Marche sonoaddirittura tra le prime tre regioni d’Italia. Per secoli le nostre farine sono state utilizzateper la produzione di pane e pasta fatti in casa.Ogni famiglia provvedeva in proprio alla panifi-cazione che si effettuava in genere una voltaalla settimana o anche ogni quindici giorni. Giàquesto particolare deve farci riflettere sulla qua-lità che doveva avere un prodotto che poteva es-sere consumato in un lasso di tempo così lungo.Oggi, con la maggior parte dei prodotti in com-mercio, è già impensabile mangiare il pane “vec-chio” di tre giorni; figuriamoci che cosa po-trebbe avvenire dopo due settimane. Ma ancora oggi è possibile, nelle Marche, gu-stare il buon pane di una volta; tant’è che nel-l’elenco regionale dei prodotti tradizionalihanno trovato posto due tipi di pane: il primo, ilPane di Chiaserna ha una diffusione molto cir-coscritta, l’altro, invece, il Pane a lievitazionenaturale, è prodotto su tutto il territorio regio-nale. Ciò che accomuna entrambe le tipologie dipane è la lunghezza e la laboriosità della prepa-razione, in particolare della lievitazione che deveessere lenta e avvenire in più fasi successive.

IL PANE DI CHIASERNAQuesto prodotto è originario di Chiaserna diCantiano, in provincia di Pesaro e Urbino ma èdiffuso anche nelle zone circostanti. Viene com-mercializzato sia in file da mezzo chilo che daun chilo e si presenta a forma di filone, legger-mente schiacciato, con la crosta dal caratteri-stico colore dorato.La preparazione della massa avviene in tre fasi:

la prima prevede l’impiego di una parte di farinanella quale viene aggiunto il lievito naturalesciolto in acqua tiepida salata. Si impasta benee si lascia fermentare per almeno 4 ore; dopo-diché si riprende l’impasto, si aggiungono altrafarina e acqua, si lavora e si lascia riposare peraltre 4 ore. A questo punto, si aggiunge l’ultimaparte di farina, si unisce il lievito di birra scioltoin acqua e si impasta il tutto molto accurata-mente for-mando i clas-sici filoni aforma allun-gata che sisegnano nellaparte superiore, silasciano fermentaree si mettono, infine, acuocere nel forno a legna.Un altro segreto di questo panesta nell’acqua utilizzata: un’acqualeggera, di sorgente, quasi un’acqua mineraleche rende questo pane ancora più unico.

IL PANE A LIEVITAZIONE NATURALE È il classico pane marchigiano che ripercorre latradizione familiare del pane fatto in casa.Anche questo pane viene proposto nelle pezza-ture classiche da un chilo e mezzo chilo. Diforma ovale allungata, con crosta di colore daldorato al marrone scuro e mollica porosa, diconsistenza elastica nel pane fresco e man manosempre più compatta nei giorni successivi. È unpane che rimane ottimo anche dopo diversigiorni dalla cottura.Per ottenere i lieviti di fermentazione, la farinadi frumento tenero viene impastata con acqua elasciata a riposo per alcuni giorni. La massaacida ottenuta (madre) si conserva a tempera-tura intorno ai 4° per circa 6 giorni. A talemassa, si aggiunge la farina fino ad ottenere unapasta spessa e consistente che viene lasciata lie-vitare al caldo, al riparo dalle correnti, per una

50 notte intera. Quando il pane si faceva in casa, illuogo deputato alla lievitazione era la madia, indialetto chiamata “mattera” ovvero un mobile dilegno rettangolare, munito nella parte superioredi un coperchio sollevabile a cerniera. Il giorno successivo, alla massa lievitata si ag-giunge altra farina e poi ancora acqua tiepidaleggermente salata. Si impasta quindi il tuttofino ad ottenere un’amalgama morbida e com-patta. Dopo averla lasciata riposare per un po’, sicominciano a staccare dei pezzi di pasta di gran-dezza variabile a seconda della pezzatura dipane che si vuole ottenere, si modellano a formadi filone e si incidono con un coltello nella partesuperiore. Le forme così ottenute vengono alli-neate su una tavola di legno, ricoperte con untelo e lasciate lievitare per altre due ore prima diinfornarle nel forno a legna. Questo metodo dilievitazione può essere utilizzato anche per laproduzione di pane biologico, pane integrale epane con farina macinata a pietra.

LE PASTEL’altro frutto del grano è rappresentato dallapasta, alimento ormai insostituibile nella nostraalimentazione quotidiana. La categoria dellepaste alimentari annovera tre prodotti nell’e-lenco regionale: si tratta dei Maccheroncini diCampofilone, dei Tacconi e dei Quadrelli pelusi.Sicuramente non sono questi i prodotti più dif-fusi tra le paste alimentari, considerando chenon mancano, nei menù dei ristoranti marchi-giani, ottime tagliatelle fatte in casa o gustositortellini e ravioli anch’essi “casarecci”. Si è sem-plicemente voluto inserire nell’elenco quei pro-dotti che più si distinguono dalla tradizione cu-linaria delle regioni vicine e che, in un certo qualmodo, caratterizzano determinate realtà ruraliproprie della nostra regione.

I MACCHERONCINI DI CAMPOFILONE Detti anche capellini di Campofilone, questi sottilifili dorati sono una specialità ormai apprezzata intutto il mondo. Numerose le testimonianze sto-riche che ci parlano di questo prodotto anche inepoche assai remote. Già nel ‘400, in una corri-spondenza dell’Abbazia di Campofilone, troviamouna citazione che descrive una delle caratteri-stiche peculiari di questi “maccheroncini fini fini”dei quali si dice che erano “tanto delicati da scio-gliersi in bocca”. Nel 1560, eccoli ricomparirenientemeno che in mezzo ai documenti del Con-cilio di Trento. E poi ancora nelle ricette del 1700e del 1800 tratte dai quaderni di cucina di alcunecasate nobili come i conti Stelluti Scala e i contiVinci. Attesissimo appuntamento annuale, la sagrache si tiene a Campofilone dal 1964.

Ma cerchiamo di capire perché questo prodotto ècosì apprezzato. Intanto occorre precisare che imaccheroncini si distinguono dalle altre paste ali-mentari per essere impastati solo con uova di gal-lina nella proporzione di ben 10 uova per ognichilo di farina. Si usa generalmente la farina difrumento duro anche se, a livello familiare, è fre-quente anche l’utilizzo di frumento tenero purchéabbia glutine forte con notevole capacità di assor-bimento. Le uova e la farina vengono innanzituttoimpastate senza aggiunta di acqua; si passa quindialla lavorazione dell’impasto che deve essere duroed elastico e deve rimanere molto poroso. Con ilmattarello, se ne ricava una sfoglia sottilissima,

51che deve risultare morbida come fosse di seta, laquale viene tagliata con un coltello affilatissimofino ad ottenere i fili che devono essere sottiliquanto più possibile. Con l’aiuto del coltello, imaccheroncini vengono quindi separati e dispostia treccia su un foglio di carta per alimenti dovedevono restare per un periodo variabile tra le 24e le 36 ore in modo da consentire l’essiccazioneche porterà il prodotto a perdere oltre il 20% delproprio peso. Superfluo precisare che tutte leoperazioni appena descritte vanno effettuate ri-gorosamente a mano. I possibili abbinamenti dei maccheroncini sonodiversi. Qualcuno preferisce condirli con un riccoragù preparato come una volta con abbondantirigaglie di pollo o d’anatra e pecorino grattu-giato a volontà. Altri, soprattutto lungo la costa,li trovano irresistibili con il sugo alla marinarasia con che senza pomodoro. Solo una cosa oc-correrà tenere ben presente per non incappare inbrutte sorprese al momento di servire in tavola:i maccheroncini, rispetto ad una pari quantità ditagliatelle, assorbono molto più condimento epertanto vanno conditi con estrema generosità.

I QUADRELLI PELUSIDa un estremo all’altro, potremmo dire. Pas-siamo infatti da un prodotto che si distingue peressere impastato con sole uova ad un altro la cuicaratteristica è quella di essere impastato senzauova. Un prodotto quindi assai rustico e il ter-mine “pelusi” sta proprio ad indicare questa ru-sticità. I Quadrelli pelusi si presentano come deipiccoli quadratini di colore chiaro e sono utiliz-zati per la preparazione di minestre in brodo.Minestre un po’ particolari in quanto nell’acquadove vengono fatti cuocere i quadrelli si versaun soffritto di aglio e lardo. Per completare ilpiatto si spolvera abbondantemente di pecorinoben stagionato e pepe nero. Un piatto povero, indefinitiva, che però vi farà apprezzare il gustodelle cose semplici.

I TACCONIDal pesarese, in particolare dal comune di FratteRosa e dai vicini Barchi e Orciano di Pesaro, giungeil terzo prodotto della categoria delle paste ali-mentari. Si tratta di un altro piatto povero, unclassico esempio di come si possa fare di necessitàvirtù. Un tempo, infatti, quando anche la farina digrano era considerata un lusso, si usava mesco-larla con altri tipi di farina più economici, tra cuiquella ottenuta dalle fave. Da questa usanza, sononati i tacconi , detti anche “tacòn”. Si preparanoimpastando farina di grano tenero, farina di favesecche, uova e acqua. Ottenuto un impasto com-patto ed elastico si inizia la preparazione dellasfoglia con il mattarello o, come si usa chiamarloda queste parti, il “rasagnòl”. La sfoglia deve rima-nere piuttosto spessa e va tagliata a strisce a mo’di tagliatelle. Sapidi, pastosi e delicatamente dol-ciastri, i tacconi si sposano magnificamente con ilsugo ai funghi di bosco ed è proprio così che sipreferisce condirli a Fratte Rosa.

la crescia e la tortaSe un giorno vi dovesse capitare di trovarvi nell’en-troterra pesarese e vi venisse offerta della torta, nonaspettatevi montagne di crema e panna montatané, tantomeno, ciliegine. Da queste parti, infatti, latorta si preferisce decorarla con del buon salame oprosciutto locale o, meglio ancora, con delle erbe dicampo “strascinate” in padella. E se non avrete giàstappato lo spumante, vi potrete abbinare un buonbicchiere di Sangiovese o di vino novello. Perché latorta in questione non è un millefoglie o un SaintHonoré bensì una sorta di pizzettina, alta un paio dicentimetri e composta da: farina di mais, farina digrano, acqua e sale. Stiamo parlando della torta digranoturco in graticola. Una ricetta semplicissima,nata dall’esigenza di riutilizzare la polenta avan-zata, ma allo stesso tempo estremamente gustosaper il sapore tipico dato dalla farina di mais. Moltissimi i prodotti simili; tutti poverissimi, ma

52 ricchi del gusto delle cose semplici e genuine. Lacrescia, innanzitutto, cioè la pasta del pane model-lata a mo’ di disco e cotta al forno. Con nomi econdimenti diversi da zona a zona, la crescia è pre-sente in tutto il territorio regionale. Nell’ascolano,ad esempio, prende il nome di cacciannanziperché originariamente veniva usata per valutarela temperatura del forno cuocendola subito primadi infornare il pane. Nel pesarese viene invecechiamata crescia brusca. Il condimento classicodella crescia è quello con olio, sale, cipolla e ro-smarino. Nel periodo invernale, si usa anche con-dirla con lo strutto e i cicoli, ottenendo così la co-siddetta “pizza con i grasselli”. Nella zona del Montefeltro, la crescia è notaanche con il nome di spianata e viene condita conuova e ricotta. Nella stessa zona, la crescia vienearricchita con uova, strutto, e a volte anche for-maggio, e viene cotta in due fasi: prima in un pa-naro di coccio, poi direttamente nel camino, rico-perta di cenere e brace non troppo ardente. Il pro-dotto così ottenuto viene chiamato crescia sottola cenere o anche torta coi ovi. Un’ulteriore va-

riante è rappresentata dai crostoli del Montefeltro,simili a delle piadine ma più saporiti e facilmentericonoscibili dalla caratteristica pasta sfogliata euntuosa. Preparati con un impasto di: farina, uova,sale, pepe, strutto, acqua, latte e bicarbonato, siaccompagnano splendidamente, in alternativa alpane, con salumi, formaggi, carni e verdure gri-gliate di ogni tipo. Altra crescia molto apprezzata, che con le prece-denti ha però in comune solo il nome, è la cresciao pizza di Pasqua al formaggio. Diffusa su tutto ilterritorio regionale, era la base della prima cola-zione del giorno di Pasqua insieme al salame lar-dellato. Ancora oggi il suo consumo è estrema-mente diffuso; è stato solamente dilazionato diqualche ora in quanto questo prodotto è divenutoun componente essenziale del pranzo di Pasqua eviene generalmente servito tra gli antipasti anchese non manca chi preferisce gustarlo a fine pasto,prima del dolce. Gli ingredienti tradizionali sono:uova, strutto (da molti ormai sostituito con ilburro), olio extravergine di oliva, parmigiano grat-tugiato, pecorino a pezzi e grattugiato, lievito di

53birra, farina, pepe macinato e sale. Dicevamo chequesta crescia ha poco a che vedere con le altre,oltre che per gli ingredienti che ne fanno un pro-dotto decisamente più ricco che non a caso venivainfatti preparato in occasione delle festività pas-quali, anche per l’aspetto visivo che ricorda deci-samente più un panettone che una pizza. Nel Comune di Borgo Pace, in provincia di Pesaroe Urbino, e in altri comuni limitrofi, esiste unprodotto per alcuni versi simile, perlomeno perl’uso che se ne fa (non a caso si chiama pane diPasqua di Borgo Pace) ma che potremmo defi-nire più rustico. È a tutti gli effetti un pane inquanto si presenta sotto forma di pagnottelle,con una tipica incisione a forma di croce sullaparte superiore, del tutto simili a quelle di usoquotidiano se non fosse per il caratteristico co-lore giallo dato dalla presenza dello zafferano.Assai più deciso è invece il sapore in quanto lafarina di grano tenero viene opportuna-mente “addizionata” con pepe elardo macinato.Ma esistono anche cresce dolci e,parlando del menù di Pasqua, nonpossiamo che iniziare dalla cresciadi Pasqua, detta anche pizza diPasqua. Gli ingredienti essenziali sono: lafarina, lo zucchero, le uova, l’olio (o il burro),l’uva sultanina, il lievito e il limone grattugiato.Si possono aggiungere dei canditi e anche, inpiccole dosi, vin santo, come si usa fare in al-cune zone del pesarese; o liquori (abitudine piùdiffusa nell’ascolano). Il segreto di questo dolcesta, oltre che nell’accurata selezione delle ma-terie prime, nella lievitazione che deve esserelentissima tant’è che per ottenere il prodotto fi-nito occorrono due giorni. A causa della laborio-sità della preparazione, le pizze di Pasqua veni-vano tradizionalmente fatte una volta l’anno,nei giorni immediatamente precedenti la Pasquastessa. Si usava prepararne in grandi quantità inmodo da poterle conservare e consumare ancheper diverse settimane.

Assai più semplice è la cresciolina che consiste,in pratica, nella pasta del pane leggermente sa-lata che viene prima spianata col mattarello,quindi fritta nello strutto bollente e infine co-sparsa di zucchero. Il contrasto tra dolce e salatoe la sua croccantezza fanno di questo prodottoche “più semplice non si può” una sorprendenteprelibatezza.L’ultimo prodotto della serie ci porta a scoprireun paesino in provincia di Macerata, nell’altavalle del Potenza. Stiamo parlando di Fiuminatae della crescia fogliata detta anche crescia fo-jata o lu rocciu. La preparazione inizia dallasfoglia che viene ottenuta mescolando farina,zucchero e olio extravergine di oliva con l’ag-giunta di acqua bollente. La sfoglia viene poistesa ad asciugare e al centro della stessa sidispone il ripieno formato da: ricotta, uvetta,noci o nocciole, zucchero, cacao, vaniglia, can-

nella, buccia di limone grattugiata,liquore all’anice o rum e al-

chermes. Si arrotola quindi lasfoglia fino ad ottenere la ca-

ratteristica forma semicircolare.La crescia fogliata viene pro-

dotta anche nei comuni circo-stanti con alcune varianti, come ad

esempio a Matelica dove si usa aggiungerele uova nella sfoglia.

c’era una voltala colazioneNon è l’inizio di una fiaba ma potrebbe ancheesserlo per come siamo ormai abituati a saltarequesto antico rito sostituendolo con un fretto-loso caffè al bar, magari accompagnato da unbel cornetto industriale (identico da Aosta aCaltanissetta) soddisfatti di poter accumularecol minimo sforzo la “giusta” quantità di ca-lorie per arrivare ben sazi fino all’ora di pranzo.

54 Non staremo qui a ripetere quanto sia impor-tante fare la prima colazione in casa, sia dalpunto di vista nutrizionale che della socializza-zione familiare e quanto sia importante sce-gliere oculatamente le varie tipologie di ali-menti e dosarle con equilibrio.Andremo invece a conoscere alcuni alimenti chepossono aiutarci a riscoprire il gusto di fare unavera prima colazione accontentando, in un solcolpo, nutrizionisti, sociologi e soprattutto ... ilnostro palato. Una volta i bambini avevano a disposizione inqualsiasi momento latte “alla spina”. Sicura-mente c’era una poesia unica nel bere il latteappena munto (i bambini più grandicelli, poi, selo mungevano da soli) ma quanto all’igiene… qualcosa da obiettare cisarebbe stato. Oggi co-munque, con le mo-derni reti distributive,nelle Marche si di-spone, a poche ore dallamungitura, di un ottimo lattefresco con garanzie igieniche infinitamente su-periori a quelle di un tempo. Ciò che è cambiato,semmai, sono le tecniche di alimentazione e diallevamento degli animali; ma questo è un pro-blema che non riguarda solo il latte e possiamoaffermare tranquillamente che anche da questopunto di vista le Marche se la passano relativa-mente bene rispetto ad altre regioni. Latte quindi come materia prima essenziale perla colazione di una volta sia dei bambini che deigrandi (eventualmente colorato con un po’ di“caffè d’orzo”). La parte solida della colazioneera costituita dal pane fatto in casa; anzi la co-lazione era il momento ideale per lo “smalti-mento” del pane raffermo che veniva ammorbi-dito nel latte o abbrustolito sulla brace. Unaghiottoneria consisteva nello spalmare sul panela panna che affiorava dal latte quando venivabollito (la bollitura era l’unica pratica igienicaeffettuata sul latte).

Ma oltre al pane, non era raro che sulle tavoleapparecchiate del mattino comparissero bi-scotti, ciambelle e ciambelloni. Facciamodunque un rapido excursus tra i prodotti tradi-zionali che rallegravano la colazione dei nostrinonni e che oggi possono rappresentare una va-lida alternativa a merendine e affini.Il più conosciuto è senza dubbio il ciambellone;un dolce dall’aspetto di una torta ben lievitata abase di: farina, uova, zucchero, latte, strutto oburro, buccia di limone, lievito e bicarbonato. Ce n’è anche una versione più rustica, diffusanel Montefeltro, che si caratterizza per l’assenzadi grassi e che viene chiamata biscott. Esistono poi svariati tipi di ciambelle tra cui

sono caratteristiche quelle all’anice detteanche anicini o quelle frastagliate,

chiamate anche “strozzose”per la loro asciuttezzatanto da richiederel’aiuto di una tazza di

latte caldo o, se servite afine pasto, di un buon bic-

chiere di vino cotto. Passando ai biscotti, troviamo quindi i gustosis-simi anicetti a base di farina, strutto, semi dianice, zucchero, latte e uova da non confondersicon gli anicini che, abbiamo visto, sono delleciambelle.Assai apprezzati sono anche i biscotti di mosto,che vengono prodotti nella maggior parte delterritorio regionale. Si utilizza mosto di giornatache viene mescolato con farina di grano tenero,olio d’oliva, zucchero, anice e lievito. Dopo al-cune ore di fermentazione, si formano dei pa-netti di colore bruno che vengono cotti al forno.A questo punto, il pane così ottenuto può essereconsumato tal quale, una volta raffreddato, op-pure lo si può tagliare a fette e biscottarlo. Per concludere, infine, parleremo di un prodottoche ai più anziani farà tornare alla memoriatempi bui e mai abbastanza dimenticati. Sitratta dei biscottini sciroppati, detti anche bi-

55scutin’. I tristi ricordi derivano dal fatto chequesti biscotti, essendo sciroppati e pertanto ingrado di conservarsi a lungo in barattoli di vetro,facevano parte dei pacchi inviati dai familiari aisoldati al fronte durante la guerra. I biscutin’ sipresentano di aspetto cilindrico, schiacciati aipoli, con un diametro di 4-5 centimetri e unpeso di 20-25 grammi. All’esterno sono ricopertida una glassa di acqua, zucchero, buccia di li-mone grattugiata, farina, uovo e olio d’oliva.Questi biscotti racchiudono una serie di con-trasti che li rende particolarmente appetibili. Ladolcezza della glassa è mitigata dalla freschezzadel limone, mentre la fragranza del biscotto an-nega nella densità dello sciroppo di acqua, zuc-chero e limone. La zona di produzione di questoprodotto è circoscritta ad alcuni comuni del pe-sarese, in particolare a quello di Fratte Rosa.Vista la particolarità del prodotto, vale senz’altrola pena andarne alla ricerca e scoprire, con l’oc-casione, delle zone ancora troppo poco cono-sciute della nostra regione.

i dolci di CarnevaleDa sempre il Carnevale è stato considerato unmomento di trasgressione e, in quest’occasione,anche chi non era in una condizione agiata si per-metteva qualcosa in più. Almeno a livello culi-nario. Per questo motivo, non c’è paese delleMarche che non annoveri tra i propri prodottitipici le sfrappe, le castagnole, gli scroccafusi ola cicerchiata. D’altronde, se andiamo a scor-rere la lista degli ingredienti, ci accorgiamocome questo concedersi qualcosa in più sia dariferirsi soprattutto al gusto in quanto le materieprime che compongono i dolci del carnevale sonoestremamente semplici ed erano facilmente repe-ribili in campagna e quindi alla portata anchedelle famiglie meno agiate. Si parla essenzial-mente di farina, uova e latte. Unico “lusso” lo zuc-chero. Anche la scelta dei grassi ci riporta all’an-

tica tradizione contadina. Se infatti il gusto at-tuale fa propendere per l’olio d’oliva, sia come in-grediente che per friggere, i cultori delle ricette “diuna volta” non vogliono sentir parlare d’altrofuorché di strutto. Le sfrappe, localmente conosciute anche comefiocchetti, sono delle semplicissime frittelle for-mate da farina, uova, acqua, zucchero e olio d’o-liva (allineamoci anche noi al gusto corrente). NelPiceno, si usa anche aggiungere anice in polvere,oppure vino bianco o, ancora, vino cotto. Con l’im-pasto, si forma una sfoglia di 2-3 millimetri dispessore che viene poi tagliata nelle forme piùsvariate: strisce, nastrini, fiocchetti ecc… e fritta.Le sfrappe si servono cosparse di zucchero e al-chermes. Anche le castagnole si presentano di forme di-verse: a filoncino nel pesarese, tondeggianti conun diametro di 8-10 centimetri nell’ascolano,sempre tondeggianti ma di dimensioni ridotte nel-l’anconetano e nel maceratese. Gli ingredientifondamentali sono gli stessi delle sfrappe, conl’aggiunta del latte, della buccia di limone grattu-giata e del lievito, oltre che di un pizzico di sale.Particolarmente golose sono le castagnole riem-pite con la crema pasticcera e cosparse di zuc-chero. Come la maggior parte dei dolci di Carne-vale, anche lecasta-

g n o l evengono fritte (in olio o strutto). Ne esistono tut-tavia altre versioni come ad esempio quella diffusanel pesarese in cui vengono prima lessate in acquabollente, lasciate gonfiare, quindi incise nel sensodella lunghezza e infine cotte al forno.

56 Simili alle castagnole sono gli scroccafusi, an-ch’essi esistenti in diverse versioni tanto da essere,talvolta, confusi con le castagnole e viceversa. Trale molte varianti, possiamo ricordare quella tipicadi Camerano, in provincia di Ancona, dove gliscroccafusi si sono mantenuti immuni da “conta-minazioni” (alchermes, rum e zucchero a velo),mantenendo inalterata la loro semplicità. Sonochiamati scroccafusi lessi in quanto, prima di es-sere cotti al forno, vengono bolliti in acqua e siproducono lungo tutto l’arco dell’anno. L’ultimo prodotto che prendiamo in esame è la ci-cerchiata, senz’altro quello che richiede più tempoper la realizzazione. Diffusa su tutto il territorio re-gionale, con prevalenza nell’anconetano è diven-tata da un dolce tipico del periodo di Carnevale,uno dei dolci più apprezzati del panorama marchi-giano ed è possibile trovarla quasi tutto l’anno. Puòassumere diverse forme; le più frequenti sonoquelle a filoncino, a cupola o a ciambella.

LA CICERCHIATA: COME SI PREPARAIngredienti: farina, uova, burro (o olio d’oliva),mistrà (utilizzato prevalentemente in provinciadi Macerata e Ascoli Piceno) o cognac, zucchero,buccia di limone grattugiata, miele e, a piacere,buccia grattugiata di arancia, canditi, pinoli,mandorle tritate e abbrustolite.Si impasta la farina con le uova, il burro (o l’olio),lo zucchero, la buccia di limone e il liquore. L’im-pasto viene lavorato fino ad ottenere una pastamorbida ed omogenea che, stesa con il mattarello

fino ad uno spessore dic i r c a

mezzo centimetro, viene arrotolata. Si formanocosì dei bastoncini (detti “bigoli”) che vanno poitagliati in piccole palline della dimensione di unseme di cicerchia. In una padella, dove intanto sisarà fatto scaldare lo strutto, si versano le pallinefacendo attenzione ad agitare spesso la padella inmodo da non farle attaccare tra loro. Appena lepalline assumono una colorazione dorata, si tiranosu e si posano a scolare sulla carta assorbente. Inun’altra pentola, nel frattempo, si scioglie a caloremoderato del miele finché non sarà liquefatto,evitando di farlo bollire. Si versano quindi nelmiele le palline fritte (a piacere si possono ag-giungere mandorle tritate e abbrustolite, pinolioppure buccia grattugiata di arance e canditi ta-gliati a dadini) rimestandole fino a quando il com-posto non sarà perfettamente “legato”. A questopunto, si versa il tutto in un piatto e si modella conle mani fino all’ottenimento della forma deside-rata; poi si lascia raffreddare e consolidare. Servitafredda a fette o a spicchi, la cicerchiata si con-serva fragrante per diversi giorni.

fristinghi, frustenghee bostrenghiSembra un gioco di parole, mentre in realtà sitratta di tre dolci caratteristici della nostra tra-dizione. Se non si rischiasse di confondere an-cora di più le idee si potrebbe aggiungere che ilfristingo è conosciuto, in alcune zone, con inomi di frustingo, frustingu, fristingu, frestinghee altri sinonimi dialettali la cui trascrizione èpossibile solo ricorrendo all’alfabeto fonetico,

ma è meglio soprassedere. Cambiano i nomi,cambia qualche ingrediente e questo suc-cede non solo passando di provincia in pro-vincia ma già di paese in paese e di casa in

casa. Quello che non cambia è che ogni va-riante di questi prodotti racchiude tanta storia

e altrettanto gusto.

57Il fristingo, per cominciare, è un dolce tipico dellatradizione natalizia delle province di Macerata,Fermo ed Ascoli Piceno. Si presenta di colorebruno e di aspetto compatto; ricorda vagamente ilpanforte. È un dolce ricchissimo: scorrendo lalunga lista degli ingredienti, troviamo: fichi secchi,uva sultanina, canditi, mandorle tostate, noci,noce moscata, cannella, caffè, liquore all’anice, li-mone, miele, pane grattugiato, farina di grano te-nero e olio extravergine di oliva. Non lo si può si-curamente definire un dolce dietetico, mala presenza dell’olio extravergine dioliva quale unico grasso lo rendeassai più digeribile di quelloche si potrebbe pensare. Mavediamo come si prepara. Bi-sogna, prima di tutto, ba-gnare e bollire i fichi secchiprima di unirli all’insieme deglialtri ingredienti. Quindi, si me-scola accuratamente l’impasto cosìottenuto con la farina di frumento ed ilpane grattugiato. Quando si sarà ottenuta unacerta consistenza, si porrà il tutto in un tegame daforno precedentemente unto con olio d’oliva. Lacottura, da effettuare ad una temperatura di 150°,si considera ultimata quando il fristingo assume,esternamente, una colorazione bruno-dorata. Siserve una volta che si è ben raffreddato e si prestaanche ad essere conservato per lunghi periodi. La frustenga è per alcuni aspetti simile al fri-stingo, avendo in comune con esso alcuni ingre-dienti (fichi secchi, uva sultanina, noci, olio e panegrattugiato). Se ne differenzia, tuttavia, per alcunecaratteristiche che lo rendono veramente partico-lare. La farina utilizzata non è infatti quella digrano tenero, generalmente utilizzata per i dolci,bensì quella di mais tant’è che per questo dolce sipuò azzardare la definizione di “polenta farcita”.Altri caratteri distintivi della frustenga, rispetto alfristingo, sono la presenza delle mele e la possibi-lità di gustare questo dolce anche caldo, diretta-mente servito sul tagliere della polenta. Anche la

diffusione geografica del prodotto è leggermentediversa in quanto la frustenga è tradizionale di unazona più settentrionale che arriva fino alla provinciadi Ancona mentre non è diffusa nell’Ascolano. Salendo ancora a nord di qualche decina di chilo-metri, si arriva nella provincia di Pesaro e Urbinodove, soprattutto nelle zone montane, troviamoun dolce ancora tanto simile e allo stesso tempotanto diverso dai due che abbiamo descritto po-c’anzi: il bostrengo. Anch’esso tipico del periodo

invernale, come ci dice anche un anticoproverbio del luogo: "Piov e neng,

tutt l vecchie fann el bostreng"(Piove e nevica, tutte le vec-chie fanno il bostrengo). Èlegato, in particolar modo,alla festività della Ma-donna di Loreto, che cade il

10 dicembre. Cambia ancorala farina utilizzata: in questo

caso si usa la farina di castagne,che viene abbinata, nell’impasto, al riso.

Gli altri ingredienti sono in parte comuni al fri-stingo ed alla frustenga (la cannella, la fruttasecca, l’uva sultanina, il miele), in parte nuovicome il cioccolato e le bucce di agrumi grattu-giate o sminuzzate. Infine, va osservata la pre-senza di tre ingredienti di origine animale: illatte, il burro e lo strutto che contribuiscono adifferenziare ulteriormente questo prodotto. Èevidente come gli ingredienti siano diversi dazona a zona un po’ per un fatto squisitamenteattinente al gusto ma, soprattutto, in base alladisponibilità delle materie prime in ciascunluogo di produzione. Fristinghi, frustenghe ebostrenghi, quindi. Difficile dire quale sia il pro-dotto migliore, ciascuno valuterà in base al pro-prio gusto sapendo che il risultato finale saràsempre diverso in base alla mano del cuoco, delpasticcere, del fornaio o della massaia e all’at-tenzione che sarà stata prestata nella sceltadelle materie prime.

58 dai fichi, lonzee torroniPer quanta cura si possa avere nell’allevare ilmaiale, nel procurargli la ghianda migliore, nellavorarne sapientemente le carni, non si potràmai ottenere una lonza paragonabile allalonza di fico. È proprio questa, in-fatti, la lonza marchigianapiù conosciuta ed ap-prezzata al di fuoridei confini re-gionali. La pro-duzione è con-centrata essen-

zialmente in pro-vincia di Ancona ma esiste, in piccole quantità,anche in alcuni comuni del maceratese.È un dolce dalla caratteristica forma cilindrica,di 15-20 centimetri di lunghezza e circa 6 didiametro che si presenta avvolto da foglie difico legate con fili proprio come una lonza.L’ingrediente principale è costituito dai fichiessiccati che vengonoaromatizzati con mi-strà, rum, o con latradizionale sapa, cheogni tanto vediamo ri-spuntare negli abbina-menti più vari. Il tuttoviene poi macinato ag-giungendo noci e man-dorle triturate a parte.L’impasto così ottenutoviene modellato finché nonassume la forma di una lonza e viene poi av-volto nelle foglie. La lonza di fico si prepara adottobre e si mantiene fragrante fino a marzo-aprile. Un prodotto straordinario, talmente interes-sante che nel 1999 Slow food ha deciso di co-

stituire un presidio per salvaguardarlo e rilan-ciarlo. E i risultati non sono mancati visto chenei primi tre anni di operatività del presidio laproduzione è aumentata di oltre il 230% ed ilprezzo di vendita ha fatto registrare un incre-mento del 63%. E ben il 25% della produzioneviene esportata in Francia, Inghilterra e ultima-

mente anche in Giappone;dato assai sorprendenteper un prodotto la cuiproduzione è ancora li-mitatissima, nell’ordine

di poche migliaia di unitàall’anno.

Ma spostiamoci ora nell’ascolano, dove siottiene un prodotto per alcuni aspetti simile, iltorrone di fichi, detto anche panetto di fichi.Esso si presenta di diverse forme: a torrone, asalame e persino a cuore. Va detto che il tor-rone di fichi, come d’altronde la lonza, nasce daun’esigenza assai pragmatica, quella cioè diutilizzare al meglio tutta la produzione di fichiche, come noto, si concentra nell’arco di pochigiorni. Questo fatto, insieme alla scarsa serbe-volezza del frutto, ha fatto sì che venissero

sperimentate diverse forme di conser-vazione fra cui la lonza e iltorrone sono senz’altro traquelle meglio riuscite.

Il torrone, o panetto, siprepara partendo dai fichiche vengono aperti efarciti internamente conmandorle tostate ecedro candito. Si usa poi

aggiungere altri ingre-dienti variabili da zona a

zona e da ricetta a ricetta. I piùusati sono: cacao, menta, cannella, vaniglia earancio candito. Una volta tagliati e allargati aforma di otto, i fichi vengono sistemati uno afianco all’altro in una piccola forma rettango-lare in legno detta “coscena”. Si passa quindi

59alla farcitura interna a base di mandorle ecedro candito con l’aggiunta di qualcuno deglialtri ingredienti “facoltativi”. La forma viene in-fine completata con un altro strato di fichi. Ilcoperchio della “coscena” viene a questo puntoutilizzato per effettuare una prima pressaturadolce alla quale, dopo aver fatto asciugare ilprodotto per qualche giorno, ne segue un’altraeseguita con un piccolo torchietto a mano. Iltorrone, a questo punto, è pronto per il confe-zionamento. Entrambi i prodotti vantano una tradizione anticae prestigiosa testimoniata da numerosi riferi-menti bibliografici. Si potrebbe iniziare citando lalettera di Giacomo Leopardi del 20 febbraio 1826nella quale il poeta recanatese ringrazia il padreper avergli inviato dei fichi “di un sapore eccel-lente”. Considerando che la lettera è del 20 feb-braio, tutto lascia pensare che non si trattasse difichi “settembrini” ma di fichi sotto forma dilonza che, in questo modo, si potevano conser-vare fino all’inizio della primavera. Ma esistonoanche, sempre nell’ottocento, riferimenti assai piùespliciti come ad esempio un articolo apparsosull’Eco del Tronto del 2 dicembre 1877 che elogiauna fabbrica di Monsampolo che produceva lo“squisito Torrone di Fichi”. Il prodotto è citatoanche nel libro “Ascoli Piceno 1882 – Guida dellacittà e dintorni” (G. Gabrielli) ne “La Guida dellaProvincia di Ascoli Piceno” (C.A.I. 1889) e in “Lapatria – Geografia dell’Italia” (G. Strafforello1898). Ma il primo riferimento storico risale addi-rittura al 1571 ed è quello riportato in un docu-mento dell’Archivio Storico del Comune di Mon-sampolo del Tronto dal quale risulta che un “ca-merario” comunale ha pagato due bolognini d’ar-gento per l’acquisto di un “pezzo di fichi”. Unpezzo di storia verrebbe da dire, ma auspichiamoche questi due prodotti possano avere anche unfuturo all’altezza della loro tradizione.

serpi, cavalluccied altre creaturePuò essere divertente andare a curiosare tra lemigliaia di nomi che vengono utilizzati per de-signare le produzioni tipiche marchigiane.Spesso lo stesso prodotto viene chiamato connomi diversi da una zona all’altra della regionema, a volte, anche famiglie dello stesso paeseamano disquisire su quale denominazione siapiù appropriata a evocare le caratteristiche (in-trinseche od estrinseche) di un tipo di pasta, diuna pizza o di un dolce. Cosicché non mancanoi rimandi al regno animale che non lesina certospunti in grado di stimolare la fantasia dei no-stri pasticceri o delle nostre massaie. Non ab-biate quindi timore di immergere un caval-luccio in un buon bicchiere di vino cotto op-pure di addentare una serpe. E se vi dicono chea Pasqua la serpe diventa agnello, mantenete ilvostro self control perché non state per assi-stere ad alcun evento soprannaturale. Né do-vete paventare l’arrivo degli ungaracci perchénon di nuovi barbari si tratta o sentirvi minac-ciati se vi promettono un bel calcione. E se do-vesse arrivare il chichiripieno? Meglio ancora!Direbbe uno che sapeva apprezzare le cosebuone della vita. Ma andiamo a conoscere me-glio queste misteriose creature. La serpe, per cominciare, è un dolce diffusonelle province di Ancona e Macerata e nellaparte settentrionale della provincia di AscoliPiceno. Arricchisce la tavola nel periodo inver-nale, in particolare in occasione delle due festi-vità religiose che segnano l’inizio e la fine dellabrutta stagione: il Natale e la Pasqua. In effetti,la forma di questo dolce ricorda quella di unserpente ed è consuetudine nel periodo pa-squale, soprattutto nel maceratese, confezio-narlo a forma di agnello e chiamarlo, appunto,con questo nome.

60 L’impasto è formato da mandorle tritate fine-mente, zucchero e albume d’uovo ai quali si ag-giungono liquore e cannella. Il tipo di liquoreutilizzato può variare da ricetta a ricetta cosìcome non è costante l’uso della cannella chepuò essere omessa o sostituita con altri aromi.Una volta modellato secondo la forma deside-rata, l’impasto viene guarnito con confettini ecotto al forno per pochi minuti. Dopo la cottura,è frequente l’abitudine di guarnire il prodottocon una glassa composta da albumi montati aneve e zucchero e di farlo asciugare alforno a bassa temperatura. Inalternativa, si usa spolve-rarlo con zucchero avelo a cottura ulti-mata. La serpe sipuò consumarefresca ma sipresta ottima-mente allaconservazione.Basti pensare che un tempole famiglie di Filottrano (un paesedell'anconetano) preparavano grandi quantitàdi questi dolci a Natale e ne conservavano alcuniper consumarli in occasione della festa del pa-trono che cade nel mese di maggio. Grosso modo la stessa, anche se un po’ più ri-stretta verso sud, è la zona di produzione dei ca-vallucci, dei biscotti a forma di cavalluccio ma-rino, anch’essi tipici del periodo invernale. Laloro preparazione è più complessa rispetto allaserpe richiedendo più tempo e una maggior va-rietà di ingredienti. Occorre infatti da una latoimpastare farina, uova zucchero, olio e vinobianco fino ad ottenere una sfoglia spessa, dal-l’altro preparare il “ripieno” a base di: sapa, rumo marsala, caffè, noci, mandorle tritate, ciocco-lato fondente, canditi, uvetta, fichi secchi, cacaoamaro e pane grattugiato. I biscotti vengonoquindi farciti, modellati e cotti al forno. Variesono anche in questo caso le possibili guarniture

che vanno dalla semplice spruzzatina di al-chermes con aggiunta di zucchero fino alla glas-satura e successiva rifinitura con i confettini co-lorati. Abbandoniamo ora ogni velleità sistematica elasciamoci guidare dalla logica della curiosità. Spostiamoci quindi in provincia di Pesaro e Ur-bino e incontriamo gli ungaracci o ungarucci sevogliamo utilizzare il nome più rassicurante concui li chiamano a Cantiano. Si tratta di gustosifiloncini lunghi circa 20-30 centimetri costituiti

da farina di mais, uvetta, semi dianice, zucchero, acqua, lievito e sale.

E passiamo ora ai cal-cioni. Ce ne sono

per tutti i gusti: alforno, fritti, ri-pieni di pecorino,ma anche di fave

o di ceci e, per ipiù esigenti, anche

aromatizzati conl’alloro. Il più famoso

di tutti è il calcione diTreia: un disco di pasta

sfoglia, spesso un centi-metro e dal diametro di

circa dieci, con un ripieno di uova, farina, peco-rino, zucchero e olio. Si cuoce al forno e si servesia come dolce che come spuntino, accompa-gnato da un vino bianco secco o dalla Vernacciadi Serrapetrona che ben si legano al suo saporedolce e leggermente piccante. Da circa 40 anni,la Sagra del Calcione di Treia è l’appuntamentoimmancabile della terza domenica di maggio. Di questo prodotto, abbiamo detto, esistonomolte varianti sia nella stessa provincia di Mace-rata, sia in quelle confinanti di Ancona ed AscoliPiceno. Una di queste è talmente particolare dameritare una menzione a parte: si tratta del cal-cione di fava fritto. In pratica, un grosso raviolocomposto da una sfoglia di farina e uova ripienadi purea di fave opportunamente dolcificata e

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aromatizzata. Prima di essere schiacciate, le favevengono lasciate in ammollo per una notte in-tera. Dopodiché vengono lessate e … non dimen-ticate mai una foglia di alloro. Il calcione vienequindi fritto in olio o strutto bollente. È cono-sciuta un’ulteriore variante di questo prodotto,diffusa nel territorio di Civitanova Marche doveviene chiamata “lu cicerù”, in cui si utilizzano iceci anziché le fave.Concludiamo questa carrellata con il chichiri-pieno, detto anche chichì. È un prodotto tipicodell’ascolano, in particolare di Offida e delle areeimmediatamente circostanti. Consiste in una fo-caccia ripiena di peperoni gialli e rossi, carciofinisott’olio, olive verdi, tonno, alici sott’olio, prezze-molo ed eventualmente anche capperi. E se visembra poco, considerate che nella focaccia, perrenderla più elastica, si aggiunge anche dellostrutto. Il tutto viene poi cotto ad alta tempera-tura, preferibilmente nel forno a legna. Una spe-cialità gustosissima che vi spingerà ad assaggiareuno degli ottimi vini che vengono prodotti inquesta zona particolarmente vocata alla vitivini-coltura.

e non è finitaCe n’è proprio per tutti i gusti nelle Marche. Nonpaghi di aver conosciuto frustenghi, serpi, chichi-ripieni, ungaracci e cacciannanzi, accingiamoci afare un’ultima escursione nell’affascinante mondodei prodotti da forno e affini. Per cominciare, incontriamo un prodotto presentein tutto il territorio regionale: le fave dei morti.Sono dei dolcetti di forma circolare, leggermenteappiattiti, dal colore dorato e dalla consistenzadura e compatta, il cui nome ci ricorda tradizioniche, solo qualche decina di anni fa, erano ancorapiuttosto diffuse. Ai funerali, si usava infatti offrireagli ospiti la colazione, che non avevano fattoprima per poter ricevere la comunione durante ilservizio funebre. E, in quell’occasione, si offrivanoappunto, insieme a dei maritozzi appena sfornatie ad un bicchierino di vermuth, le fave dei morti. Ingrediente essenziale per la loro preparazione èrappresentato dalle mandorle che, una volta ab-brustolite, vengono tritate e amalgamate con zuc-chero, farina, uova, cannella in polvere, struttofuso e acqua calda. Nell’ascolano è frequenteanche l’aggiunta di buccia di limone grattugiata,mentre nell’entroterra anconetano si usa aggiun-gere del rum. Una volta preparato l’impasto, ven-gono modellate le fave che poi vanno cotte inforno per circa mezz’ora ad una temperatura in-torno ai 150 gradi. Passando a un altro prodotto molto diffuso sututto il territorio regionale, troviamo i sughetti. Sitratta di un dolce freddo ottenuto dal mosto bol-lito con l’aggiunta di farina di granoturco, noci e,a piacere, mandorle, pinoli e semi di zucca tritatigrossolanamente. La preparazione è simile aquella della polenta con la differenza che, anzichél’acqua, si usa il mosto non fermentato. Anche lapresentazione finale è la stessa: in piatti o vassoidei quali i sughetti, una volta raffreddati e solidi-ficati, assumono la forma.

62 Di consistenza morbida, al palato rimangonoleggermente dolci con un piacevole contrastotra il sapore un po’ acidulo del mosto e quellosalato delle noci, delle mandorle, dei pinoli o deisemi di zucca che vengono uniti all’impasto. Ilcolore dei sughetti è generalmente sul marronema può avere riflessi variabili tra il verde scuro eil violetto a seconda del tipo di mosto utilizzato.Abbiamo detto che i sughetti sono diffusi sututto il territorio regionale anche se va precisatoche nel nord delle Marche la loro presenza èmeno radicata e si usa anche prepararli con lafarina di grano anziché quella di granoturco. Tra i termini dialettali più frequentemente uti-lizzati possiamo ricordare l’anconetano “sciu-gheti”, il maceratese “sughitti” o, infine, l’asco-lano “sapetti” (dall’altro prodotto a base dimosto, la sapa). Tipico del pesarese, con una relativa diffusioneanche nelle province di Ancona e Macerata, è ilpan nociato. È una pagnottina dorata, dal pesodi circa 50 grammi, composta da farina di granotenero, latte, strutto, olio, noci, fichi secchi apezzetti, pecorino, lievito, sale e pepe.Grosso modo nella stessa zona si producono lefrittelle di polenta: gustose pizzettine dolcifritte ricavate impastando la polenta raffreddatacon la farina di grano.Nelle due province meridionali delle Marche siprepara invece, nel periodo natalizio, la pizzacon le noci. Di aspetto simile ad un ciambellonenon molto lievitato, hauna consi-s t e n z aestre-

mamente compatta, ed è composta da: pasta delpane, noci, fichi secchi, nocciole, uva passita,buccia di arancio e di li-mone e lievito. Ri-chiede un periodo dilievitazione di 6-8 ore e vacotta, preferi-bilmente, nelforno al legna. Ma ci sono ancora altriprodotti da scoprire; da scoprire nelvero senso della parola perché hannouna diffusione estremamente limitata e bisognaproprio… andarseli a cercare.Procedendo da nord a sud, lasciamo la A14 a Se-nigallia e ci dirigiamo verso l’interno fino ad ar-rivare, a 250 metri sul livello del mare, a OstraVetere, immersi in un paesaggio di rilassanti col-line. Qui si produce il maiorchino (o maroc-chino), un dolce di forma allungata e schiacciatadal colore ambrato all’esternoe giallo chiarissimo interna-mente e dal sapore moltodelicato. È formato da fa-rina, uova, zucchero e man-dorle e può essere consu-mato sia fresco, se lo preferitepiù morbido, oppure secco. Inquesto caso sarà d’obbligoinzupparlo in un buon bic-chiere di vino locale.

Per trovare il prossimo prodotto, occorre rag-giungere Serravalle del Chienti. Se avete

fretta potete riprendere la A14 e se-guirla fino a Civitanova Marche e poiprendere la superstrada in direzione

Foligno. Chi va in cerca di prodottitipici sa, tuttavia, che è

molto meglio prenderselacomoda perché si possonoincontrare piacevoli sor-prese proprio lungo i tra-

63gitti più impensati. Perdetevi quindi tra le colline,ricoperte dai vigneti del Verdicchio dei Castelli diJesi e, se siete appassionati di vini, non avete cheda scegliere se andarvene per Matelica alla ricercadell’altro Verdicchio oppure se fare una puntata aSerrapetrona e ritemprarvi con un buon bicchieredi Vernaccia. Ciò che troverete, una volta arrivati a Serravalleè la rocciata, una torta salata costituita da unasfoglia farcita con la Silena vulgaris, una piantalocalmente chiamata “sfrizzoli”. La rocciata,detta anche erbata proprio per la presenza diquesta erba, rappresentava tradizionalmente lamerenda tipica del giorno dell’Ascensione. Siprepara comunque anche in altri periodi del-l’anno e la farcitura varia a seconda della sta-gione. Ad esempio, nel periodo natalizio, la roc-ciata viene farcita con i cavoli e, appena sfor-nata, prima di essere tagliata, si usa cospargerladi miele e pepe ottenendo un caratteristico sa-pore agrodolce. Da Serravalle, attraversando ilParco dei Sibillini, tra paesaggi mozzafiato e pro-dotti anch’essi mozzafiato (fermarsi a bere unbicchierino di mistrà a Pievebovigliana per cre-dere), raggiungiamo Sarnano dove ci aspetta lacrostata al torrone. Lavorata esclusivamente amano, questa specialità si compone di un im-pasto formato da: mandorle, nocciole tostate,zucchero, farina, uova, olio e spezie. Si prediligecuocerla nel forno a legna dove acquisisce la ti-pica croccantezza. La fragranza e il sapore dellacrostata al torrone rimangono pressoché inalte-rati anche per 15-20 giorni.

Superato il confine della provincia di Macerata,attraversiamo per qualche chilometro la “gio-vane” provincia di Fermo per ritornare quindinell’ascolano dove, tra paesaggi affascinanti easpre colline, entriamo in una della aree più vo-cate alla vitivinicoltura: la zona di produzionedel Rosso Piceno Superiore. Raggiungiamo Of-fida, dove si conclude il nostro itinerario conl’assaggio del “funghetto di Offida”, così chia-mato in quanto ricorda, effettivamente, un pic-colo fungo, è un dolcetto molto croccante a basedi farina, zucchero, acqua e anice.Si mescolano accuratamente gli ingredienti finoad ottenere un impasto omogeneo e consistente.Si formano quindi delle palline del diametro di2-3 centimetri che vengono adagiate sopra unaspianatoia infarinata dove devono rimanere peralmeno un paio di giorni ad essiccare. Una voltaasciutte, le palline vengono disposte in piccolicerchi di legno o di metallo che vengono, a lorovolta, sistemati, l’uno accanto all’altro su larghitesti da introdurre nel forno ben caldo per circamezz’ora. Ciò che avviene nel forno è moltospettacolare: le superfici delle palline rimangonobianchissime e dure, ma l’interno, essendo mor-bido, si espande con la cottura e fuoriesce,unendo così l’una all’altra le palline e assu-mendo un colore bruno. L’effetto che ne risultaè sorprendente: sembra di vedere una distesa difunghetti bianchi sulla terra scura.

le delizie dell’ortoGià nel 1440, a Montelupone, in provincia diMacerata, si svolgeva una festa del carciofo, omeglio dello “scarciofeno" come dicono daqueste parti. Si tratta del carciofo montelupo-nese, che viene raccolto tra aprile e maggio edè molto apprezzato sia per il consumo frescoche per la preparazione di conserve sott’olio se-condo le tradizionali ricette casalinghe. Più pre-coce il carciofo violetto di Jesi, diffuso oltreche nel comune da cui prende il nome, anche aMonsano, San Marcello, BelvedereOstrense, Morro d’Alba, San Paolo diJesi e Monte San Vito. Pure il car-ciofo violetto vanta una tradizioneplurisecolare, come attestano alcunidocumenti risalenti alla fine del ‘700. Sempre da Jesi e dintorni ci arrivaun'altra primizia: il cavolfiore precoce diJesi. Questo prodotto, che vanta una considere-vole presenza anche nella fascia costiera dellaprovincia di Ascoli Piceno (in particolare nellazona di San Benedetto del Tronto dove si coltivadalla fine dell’Ottocento) è stato oggetto, neglianni, di ripetute selezioni finalizzate al migliora-mento delle caratteristiche commerciali del pro-dotto. All’origine, infatti, l’infiorescenza presen-tava le classiche lumachelle: delle protuberanzeconiche a spirale che, se da un lato sono da con-siderare un mirabile esempio di architettura ve-getale, dall’altro creavano non pochi problemi infase di trasporto, poiché si rompevano facil-mente. Il miglioramento genetico ha influitoanche sul colore del corimbo che da giallognolo èdivenuto via via sempre più bianco. Si trattaquindi di un prodotto che col passare del tempoha mutato alcune delle sue caratteristiche mor-fologiche, per andare incontro alle esigenze delmercato, che ha però mantenuto invariate le ca-ratteristiche di precocità e rusticità che lo distin-guono dagli altri.

carciofovioletto di Jesi

marrone delMontefeltro

tartufobianco

granturcoquarantino

rovejataccole

marronedi Acquasanta

olive ascolanedel Piceno

carciofomonteluponese

65E, tra questi altri, è d’obbligo citare il cavolfioretardivo di Fano che compare già in alcune na-ture morte della fine del 1700 del pittore faneseCarlo Magini. Diffuso oltre che a Fano anchenelle zone costiere limitrofe, fino a Senigallia,presenta un’infiorescenza compatta, di pezza-tura media o medio-piccola, di grana grossa e dicolore bianco o bianco avorio. Rustico e resi-stente al freddo, il cavolfiore fanese ha un ciclobiologico piuttosto lungo. Infatti, il trapianto sieffettua dalla fine di agosto ai primi di set-tembre e la maturazione inizia a fine febbraioper protrarsi fino a metà maggio. Sempre al confine tra le province di Ancona e Pe-saro-Urbino, si produce la cipolla di Suasa. È dif-fusa particolarmente nel Comune di Castelleone diSuasa tanto da prenderne il nome. Ma, in questocaso, la relazione tra pro-dotto e territorio è talmentestretta che gli abitanti di Ca-stelleone sono detti “cipol-lari”. Coltivata da almeno unsecolo con la stessa cura ededizione, la cipolla di Suasaviene prima seminata in vi-vaio per essere, poi, trapian-tata in file semplici. Unavolta che la cipolla è giunta amaturazione, si pratica il piegamento delle fogliee il loro schiacciamento sul terreno. Tale tecnicaha il compito di bloccare lo sviluppo vegetativo edi permettere alle foglie di asciugarsi ed acquisirela consistenza che renderà poi possibile intrec-ciarle tra loro a formare la caratteristica “treccia”di 30-40 bulbi utilizzata sia per la conservazioneche per la vendita di questo prodotto. Sempre per rimanere in tema di ortaggi, andiamoa conoscere le taccole, una particolare varietà dipisello, detta anche “pisello mangiatutto” poichési mangia con l’intero baccello. Un baccello lungocirca 10-15 centimetri, di forma larga e appiattitae di colore verde chiaro, caratterizzato dal fattoche la membrana posta al suo interno è sottilis-

sima o completamente assente. Apprezzate per illoro sapore dolce e delicato, le taccole si raccol-gono nel periodo compreso tra aprile e giugno evengono cucinate in modo molto semplice (al for-maggio, al lardo, in umido o al forno). Il prodottoè diffuso su tutto il territorio regionale ma trova lasua terra di elezione nelle pianure del fermano edell’ascolano. Già all’inizio del Novecento le tac-cole facevano registrare consistenti produzioninella Valdaso da cui venivano esportate anche nelNord Europa. L’ultima delizia degli orti marchigiani è il gobbo diTrodica: il gigante degli ortaggi visto che la piantapuò pesare tranquillamente 8-10 chili. Oltre che aTrodica di Morrovalle, questo stretto parente delcarciofo (appartiene alla varietà botanica “attilisD.C.” della stessa specie del carciofo, la “Cynara

cardunculus L.”) è diffuso nelcomune di Macerata e nellezone circostanti tanto da es-sere identificato anche comecardo di Macerata. Rispettoagli altri cardi, il gobbo diTrodica presenta alcune ca-ratteristiche distintive: lamaturazione è meno precoce,le spine sono totalmente as-senti, le foglie sono piene con

liste meno frastagliate. Si differenzia ancora perdoti di gentilezza più evidenti della costola me-diana fogliare che si presenta molto ampia, spessa,priva di pellicola feltrosa, di colore bianco-avorio,carnosa, succosa, di aroma franco e sapore armo-nico molto delicato. La costola si distingue infineper la scarsa presenza di filamenti che, a volte,mancano completamente. Una volta liberato daifilamenti, il gobbo viene tagliato a pezzi e lavatoaccuratamente. Quindi, una volta lessato, è prontoper essere impiegato in diverse ricette: tutte tradi-zionalmente semplici: in padella con la salsiccia,oppure in umido o, ancora, fritto con lo strutto.Non stupisca l’abbinamento del gobbo con sal-siccia e strutto in quanto il periodo ideale per gu-

stare questo ortaggio va da dicembre a febbraio ecoincide perfettamente con l’epoca “della pista”. Esiccome coincide anche con il massimo del rigoreinvernale, è lecito concedersi qualche caloria in più.

tanti modidi gustare l’olivaIn precedenza abbiamo visto quanto prezioso siasempre stato considerato l’olio d’oliva. Ma unagrandissima reputazione ha sempre avuto anchel’oliva da mensa. E quando si parla di oliva da mensanelle Marche, e non solo nelle Marche, è sottintesoche si sta parlando dell’oliva tenera ascolana.Buona, succosa e di facile digestione, quest’oliva,oggi conosciuta a apprezzata ben al di fuori deiconfini nazionali, era chiamata, dai classici latini,“picena”. Illustri estimatori ne decantavano la pocapresenza di olio ed acidi, la bontà in salamoia(Plinio) o come inizio e fine pasto (Marziale). I Picenierano soliti inviarle, entro barilotti di legno o in vasidi terracotta, come omaggio ai protettori romaniche ne erano ghiottissimi. Non erano da meno iCartaginesi, che, al tempo di Annibale, ne fecerovere e proprie razzie. Citazioni più recenti sono le-gate a Papa Sisto V, Garibaldi, Rossini e Puccini. Il suo habitat ideale, originato dal disfacimento dirocce calcaree su travertini, dal confluire di acque eda un freddo ideale per le piante, è vicino ad AscoliPiceno, anche se la zona produttiva è più vasta esconfina anche nella parte settentrionale della pro-vincia di Teramo. Il limite dell’oliva ascolana è l’e-strema delicatezza dei frutti che, per essere idoneialla lavorazione, devono essere perfettamente in-tegri. Quindi si può immaginare quanta maestria equanta pazienza si richieda alle laboriose donneascolane che si dedicano ancora alla raccolta diquesto autentico tesoro. Finché non si arrende-ranno alla fatica della raccolta, sarà ancora possi-bile gustare questo prodotto, la cui produzione at-tuale è nell’ordine di 4-5 migliaia di quintali.

La ricetta classica in salamoia prevede le seguentifasi: una prima deamarizzazione, alcuni lavaggi perla riduzione dell’alcale residuo, la successiva fer-mentazione e conservazione in salamoia. Chimica-mente, la deamarizzazione è l’idrolisi dell’oleuro-peina, un principio attivo naturalmente presentenelle olive. Anticamente, si effettuava con il“ranno”, un liquido alcalino ottenuto omogeneiz-zando una parte di calce viva e 4-5 parti di cenere.Oggi si usa la soda in percentuale variabile tral’1,5% e il 3%. Questa fase deve durare fino aquando il principio alcalino non ha raggiunto i 2/3della polpa. I successivi lavaggi con acqua si pro-traggono per 24-36 ore. Si aggiunge quindi la sa-lamoia all’8-10% di cloruro di sodio. Esiste ancheuna produzione definita “al naturale” che viene ot-tenuta con una semplice deamarizzazione in sala-moia. L’altra preparazione che ha reso celebrequesto prodotto nel mondo è la versione farcita efritta “all’ascolana”. La preparazione non è delle piùsemplici ma il risultato finale è qualcosa di vera-mente straordinario. Bisogna innanzitutto prepa-rare il ripieno delle olive. Si fanno soffriggere, inolio o strutto: sedano, carota, cipolla e pezzi dicarne di bovino adulto e, in quantità minore, carnesuina. È possibile anche l’aggiunta di piccole quan-tità di carni bianche

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di pollo o di tacchino. Al soffritto, che va preparatoa fuoco lento, si aggiungono sale e vino bianco e,eventualmente, salsa di pomodoro. A cottura ulti-mata, la carne e gli altri ingredienti aggiuntivi ven-gono triturati e l’impasto così ottenuto viene le-gato con uova, formaggio grattugiato e spezie. Aquesto punto le olive, che nel frattempo sarannostate snocciolate, vengono riempite con la farci-tura e passate nell’uovo e nel pangrattato. Quindiil tocco finale: la frittura in olio extravergine dioliva: una frittura breve che deve durare appena iltempo necessario perché si formi una leggera ecroccante crosticina dorata. È un prodotto chevanta non pochi tentativi di imitazione ma la croc-cantezza e la delicatezza delle olive all’ascolanaprodotte sul luogo, con la varietà ascolana teneralocale, non sono assolutamente eguagliabili. Comunque, proprio per distinguere il prodotto au-tentico dai prodotti simili, è stata chiesta per l’O-liva Ascolana del Piceno la protezione comunitariacome DOP, registrata proprio in questi ultimigiorni dalla Commissione Europea. Ma anche le olive da olio vengono utilizzate peralcune preparazioni molto interessanti. È ilcaso, ad esempio, delle olive nere marinate chesi ottengono, nelle varie zone della regione apartire dal Leccino o dalla Raggiola (nel pesa-rese) ma anche dalla Raggia (in provincia di An-cona) o dal Piantone di Falerone (nel fermano).Le olive raccolte vengono lavate in acqua cor-rente e quindi, una volta fatte asciugare, postein vasi di vetro insieme a sale grosso, aglio, pezzidi finocchio selvatico essiccato e scorze di li-mone o di arancio essiccate. I recipienti vannochiusi non ermeticamente e agitati quotidiana-mente per consentire un’uniforme distribuzionedegli ingredienti. Dopo circa 40 giorni, il pro-dotto è pronto per essere consumato. Un’alternativa consiste nel mettere le olive in unsacco di juta insieme al sale grosso. Il sacco va ap-peso nel luogo più freddo della casa e, per evitarel’insorgere di muffe, le olive vanno rimescolate duevolte al giorno. Successivamente, le olive passano

nei contenitori di vetro dove si aggiungono glistessi ingredienti utilizzati per le olive marinate. Lebasse temperature invernali favoriscono la perditadel sapore amaro delle olive e ne determinano ladisidratazione facendo assumere ad esse unaspetto raggrinzito. Nel maceratese, questa prepa-razione è nota col nome di olive strinate.

i prodotti del bosco,del sottoboscoe...del sottosuoloTipico prodotto delle zone interne, il marronetrova il suo habitat tra i 300 e 950 metri sul li-vello del mare. Tra i vari tipi di marroni esistenti,tre sono inseriti nell’elenco dei prodotti tradizio-nali: il marrone di Acquasanta Terme, il mar-rone di Roccafluvione e il marrone del Monte-feltro. I primi due sono caratteristici dell’asco-lano, con maggiore diffusione nei due comuniche danno loro il nome: Acquasanta Terme eRoccafluvione. Quello di Acquasanta è piùgrande e si presenta bruno scuro con sfumaturerossastre, mentre quello di Roccafluvione è mar-

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68 rone avana, con sfumature giallastre. Il marroneacquasantano è inoltre più dolce e si sbuccia piùfacilmente. Ultima differenza, infine, che di-stingue il clone di Acquasanta dagli altri dellezone circostanti, è l’altezza decisamente mag-giore degli alberi. Il marrone del Montefeltro, invece, si ottienedalla varietà locale detta “Gentile”, particolar-mente diffusa nell’alta Valmarecchia. In partico-lare sono presenti due cloni (Botticella e MonteSan Benedetto) che presentano le seguenti ca-ratteristiche: pianta di media grandezza e vi-gore, rami espansi e chioma a globo. Il tronco èdi colore grigiastro con numerose lenticellegrandi, rilevate biancastre o grigiastre. Il riccio sipresenta grande, con tre frutti di pezzaturamedio-grande con pericarpo marrone e striaturescure rilevate. La presenza di castagneti ultrasecolari attesta la presenza di questo prodottogià in epoca piuttosto remota. Si fa infatti risa-lire l’introduzione di questa coltura all’attività dialcuni ordini monastici in epoca medievale.Sempre nel Montefeltro, troviamo altri prodottimolto singolari: si tratta dei germogli di pungi-topo, di tamaro e di vitalba conservati sot-t’olio. Tutti e tre sono preparati in primavera peressere poi consumati durante il resto dell’anno. Igermogli di pungitopo, raccolti nei boschi e nellemacchie, si scottano in acqua e aceto legger-mente salata. Fatti asciugare per qualche ora,vengono speziati e messi sott’olio in barattolichiusi ermeticamente. Hanno un gusto grade-volmente amaro che li rende estremamente ap-petitosi. Nei germogli primaverili del tamaro ilsapore amaro è ben più marcato, tanto da nonrenderli graditi a tutti i palati. Per attenuarequesta caratteristica, vengono associati conaltre erbe aromatiche dal gusto più mite. La pre-parazione è simile a quella dei germogli di pun-gitopo con la differenza che la scottatura av-viene in aceto diluito con vino. Inoltre, nella pre-parazione, è sempre previsto l’uso dell’aglio. Lapreparazione dei germogli di vitalba sott’olio è

invece la seguente. Si tagliano i germogli inpezzi di due o tre centimetri che vengono messia bagno con acqua e succo di limone. Si fannopoi cuocere nell’olio con sale, pepe, aglio e prez-zemolo e, a cottura ultimata, si mettono in ba-rattolo. Ma i veri gioielli dell’entroterra marchigianosono ben nascosti e solo pochi esperti sono ingrado di scovarli. E bisogna rivolgersi ad espertia quattro zampe: i cani da tartufo; solo loro cipermettono di deliziarci di queste autentici te-sori che già i Babilonesi conoscevano bene 5.000anni fa o giù di lì. Scientificamente, questi oggetti misteriosi sonodefiniti come i corpi fruttiferi di funghi ipogeiche vivono e si sviluppano sottoterra in simbiosimutualistica con l’apparato radicale di alcunepiante arboree. Prodotto spontaneo per eccel-lenza, il tartufo, a causa del suo elevatissimovalore di mercato, è stato oggetto, nel secoloscorso, di approfonditi studi e ricerche mirati al-l’individuazione di tecniche che ne rendesseropossibile la coltivazione. In effetti, non si trattadi una coltivazione come siamo abituati ad in-tenderla tradizionalmente in quanto la tartufi-coltura consiste nel creare le migliori condizionipossibili per consentire lo sviluppo dei tartufi at-traverso la messa a dimora di piante “tartufi-gene”, ovvero micorrizate in laboratorio. Sindalla nascita della tartuficoltura, di cui nelleMarche si parlava già nel lontano 1932, la no-stra è sempre stata una regione leader nel set-tore. Come non ricordare, ad esempio, le nume-rose tartufaie coltivate e realizzate da LorenzoMannozzi-Torini, il precursore della modernatartuficoltura. Molte di esse sono ancora pro-duttive, soprattutto nelle zone marginali dell’en-troterra (Acqualagna, Cagli, Fabriano, Arcevia,Sassoferrato, Visso …). Dal 1980, è inoltre infunzione il Centro sperimentale per la tartuficol-tura di Sant’Angelo in Vado. Tutto questo inte-resse verso il tartufo si spiega con il fatto che leMarche sono una delle poche regioni italiane a

69poter vantare una buona produzione di tutte lespecie di tartufo più significative. Innanzitutto, il re dei tartufi, il tartufo biancopregiato, il cui nome scientifico “Tuber ma-gnatum Pico” (dei magnati) indica tutta la no-biltà di questo prodotto. È diffuso principal-mente in provincia di Pesaro-Urbino (con i centripiù rappresentativi ad Acqualagna, Sant’Angeloin Vado e Sant’Agata Feltria) ma fa registrarepresenze significative anche nelle altre province(Amandola e Montefortino nel fermano e Vena-rotta nell’ascolano, Arcevia e Fabriano nell’an-conetano, Sarnano in provincia di Macerata).

Tra le specie simbionti, predilige la roverella, masono utilizzate anche altre piante come il cerro, iltiglio, la farnia, il salice ed il pioppo. E pensare chea vederlo … è proprio vero che l’apparenza in-ganna. Con il suo aspetto irregolare, la pezzaturaassai variabile, il colore giallo ocra, a volte con ri-flessi olivastri fino ad arrivare al grigio verdastro,deve aver insinuato più di un dubbio in chi perprimo ha osato verificarne l’edibilità. Non che l’a-spetto sia molto diverso quando parliamo di tar-tufo nero. Generalmente più piccolo del bianco, iltartufo nero pregiato (Tuber melanosporum Vitt.), èdiffuso soprattutto nelle province di Pesaro-Urbino(Acqualagna e Cagli) e Macerata (Camerino, Mon-tecavallo, Fiordimonte e Visso). Non trascurabile la sua presenza anche a Rocca-fluvione (AP), Comunanza (AP) e Sassoferrato (AN).Il tartufo nero estivo o scorzone (Tuber aestivumVitt.) può raggiungere, invece, pezzature molto si-gnificative (anche fino a mezzo chilo). I suoi mag-

giori centri di diffusione sono in provincia di AscoliPiceno (Colle San Marco), Macerata (Pievebovi-gliana e Muccia) e Pesaro-Urbino (Mercatello sulMetauro e Carpegna). Oltre alla roverella, per il tar-tufo nero si utilizzano con buoni risultati il noc-ciolo, il carpino ed il leccio.

Sia il tartufo bianco che il nero caratterizzano dasempre la cucina marchigiana. Tra i maggiori esti-matori dei tartufi di casa nostra troviamo GioacchinoRossini che, tra una Semiramide ed un GuglielmoTell, si dilettava tra i fornelli con risultati, a detta deisuoi fortunati ospiti, davvero eccellenti. Egli confessòdi aver pianto tre volte nella sua vita: quando vennefischiata la sua prima opera, quando sentì suonarePaganini e quando gli cadde in acqua un tacchinofarcito ai tartufi durante una gita in barca.

mele e pere:la frutta classica...ma non troppoFatta non di grandi numeri, la frutticoltura mar-chigiana può contare su alcuni prodotti di nicchiaveramente interessanti. Anche tra le mele e lepere, la frutta per antonomasia, si possono con-tare tre veri e propri assi nella manica. Il primo di questi è la pera angelica che può esseregustata nel periodo che va dalla fine di agosto al-l’inizio di settembre. Già la sua presenza in un ne-gozio di frutta e verdura è di per sé una garanziache non vi trovate da un fruttivendolo qualsiasi. Sepoi volete andare a colpo sicuro, non avete che da

70 andare alla festa della pera angelica che si tiene afine agosto a Serrungarina, in provincia di Pesaroe Urbino. Avrete modo allora di gustarla in un’at-mosfera suggestiva in cui perdersi tra i vicoli e lepiazzette di questo tranquillo borgo medievale. Lapera angelica si presenta esternamente di coloreverde-giallo con una grande macchia rosata nellaparte rimasta più esposta al sole. Ha sapore deli-cato, con note di moscato, leggermente speziata.La polpa è butirrosa e presenta piccole granula-zioni intorno al cuore. Oltre ad essere consumatacome frutta fresca, può essere utilizzata a finepasto nella preparazione di piatti locali o anche,come confettura, in diversi dolci. Spostandoci nei Sibillini, incontriamo la melarosa, anche se sarebbe più adatto dire le melerosa. Si tratta infatti di una varietà-popolazione ilcui biotipo marchigiano si individua perlopiù nel-l’area pre-appeninica dei Monti Sibillini ed èquello che viene denominato “mela rosa marchi-giana”. Uno studio effettuato qualche anno fa dal-l’allora Ente di sviluppo agricolo nelle Marche sulgermoplasma del melo nelle Marche censì qual-cosa come 51 varietà e biotipi di provenienza lo-cale e si trattava quasi esclusivamente di melerosa. Il frutto è medio-piccolo, irregolare, di formaappiattita e asimmetrica. La buccia è liscia e di co-lore rosso-vinoso, comunemente detto rosa. Unaspetto quindi che si discosta considerevolmentedagli standard della grande distribuzione che ven-gono graditi dalla maggior parte dei consumatori.Ma, all’assaggio, scoprirete qualcosa di straordi-nario. Piacevolmente acidula eprofumatissima,la mela rosasaprà con-q u i -

starvi in pochi istanti. Anche le caratteristicheagronomiche della pianta non sono trascurabilitrattandosi di un albero molto resistente al freddo.Il frutto presenta, pure, una buona resistenza allaticchiolatura e alle principali avversità biotiche. Lamela rosa si presta quindi perfettamente alla col-tivazione con metodi biologici o a basso impattoambientale. Oltre ad essere consumate fresche, lemele rosa sono ottime anche cotte sotto la braceo al forno. Vengono anche utilizzate nella prepa-razione di vari tipi di dolci. Particolare è la prepa-razione di una marmellata di mele rosa e mentariscontrata in provincia di Macerata.Estremamente limitata anche la diffusione dellamela rozza della quale sono stati riscontrati sola-mente due biotipi: uno a Santa Vittoria in Mate-nano, in provincia di Fermo, l’altro a Recanati, inprovincia di Macerata. La mela rozza presenta unfrutto di dimensioni contenute che non supera ilpeso di 40 grammi, di calibro abbastanza uni-forme, di forma appiattita più o meno fortemente,con profili irregolari. La cavità peduncolare èstretta e poco profonda ed il peduncolo è moltocorto. La buccia è di colore verde, rugginosa sututta la superficie, di consistenza ruvida, cosparsadi poche lenticelle piccole e rugginose. Un altrocaso quindi di aspetto esteriore poco accattivanteche penalizza l’apprezzamento del frutto da partedei consumatori. Ma, la mela rozza viene consu-mata solo da chi sa apprezzarla veramente. D’al-tronde, la scarsissima diffusione di questo fruttofa sì che non potrebbe essere diversamente. Ciò

che colpisce sono Il profumo e il sa-pore un po’ aspro che la ren-

dono facil-mente rico-

noscibiledalle

71altre mele. Con la conservazione, poi, acquisisceun gusto spiccatamente zuccherino, asciutto earomatico, mai stucchevole. In passato, si usavaanche tagliare le mele rozze in fette che, essiccatesu grate metalliche al calore della stufa a legna,venivano poi conservate in barattoli di latta peressere consumate durante l’inverno tal quali op-pure fatte bollire nell’acqua mielata o nella sapa.

visciole e dintorniSe veniamo da sud, per arrivare a Cantiano siamocostretti a sconfinare in terra umbra fino ad arri-vare, lungo la Flaminia, ad una decina di chilo-metri da Gubbio. Poi, una volta lasciatici alle spalleScheggia, la strada diventa tortuosa e scende ra-pidamente di qualche centinaio di metri per ripor-tarci in terra marchigiana dove il paesaggio si ad-dolcisce inaspettatamente e intanto siamo arrivatia Cantiano. Siamo a 360 metri sul livello del maree qui, un tempo, crescevano gli alberidelle visciole.Più precisamente sitratta del ciliegioacido (Prunus ce-rasus L.), una specieparticolarmente ru-stica che ben siadatta anche a condi-zioni pedoclimatichenon propriamente ideali per lafrutticoltura. Purtroppo, alcune carat-teristiche quali i costi troppo elevati per la rac-colta, che deve essere effettuata rigorosamentea mano, e l’eccessiva durata della fase impro-duttiva, hanno, col tempo, ridotto considerevol-mente la diffusione di questa pianta e anche ledue industrie di trasformazione un tempo pre-senti hanno cessato l’attività. Nonostante l’impegno profuso negli ultimi annidall’amministrazione comunale di Cantiano e dauna cooperativa locale, con il finanziamento

della Regione Marche e della Comunità Europea,il tentativo di reintrodurre questa coltivazionenon ha dato esiti soddisfacenti. Sono stati rea-lizzati alcuni interventi significativi come adesempio la messa a dimora di un campo dimo-strativo, la ricerca di sbocchi di mercato appro-priati, l’incentivazione di nuovi impianti, unostudio finalizzato alla registrazione della DOPper l’Amarena di Cantiano … ma la produzionecontinua a rimanere a carattere poco più che fa-miliare. E pensare che nel 1928 le amarene diCantiano erano apprezzate persino dalla fami-glia reale come dimostra un documento con cuiSua Altezza Reale il Principe di Piemonte ne or-dina urgentemente un quantitativo ad una notaindustria del luogo. Ancora prima esistono testi-monianze di riconoscimenti e onorificenze qualila Medaglia d’oro all’Esposizione internazionale

di Parigi e la Croce al Meritoall’Esposizione internazionale

di Milano. Oggi, invece, chivuole gustare delle

amarene locali, eper locali inten-diamo locali al100% (ma-teria primac o m p r e s a ) ,

deve tentare lafortuna presso

qualche agriturismo o ristorantino della zona.Ma come abbiamo già detto, uno degli scopidi questa pubblicazione è proprio quello di

suscitare interesse verso quei prodotti a rischiodi estinzione e qui siamo proprio di fronte aduna “specie da salvare”. Altri due prodotti tradizionali ottenuti dalla la-vorazione delle visciole sono le visciole essic-cate e le visciole sciolte al sole; due prodottimolto semplici, per alcuni versi simili, con undenominatore comune: entrambi necessitano,per un’ottimale preparazione, di una materiaprima di grande qualità.

72 Le visciole essiccate sono un prodotto caratte-ristico delle zone montane della provincia diPesaro e Urbino. Le materie prime utilizzatesono quanto di più semplice si possa immagi-nare: visciole di provenienza locale e sole deimesi estivi. Dopo la raccolta, levisciole vengono poste sugrandi setacci al soleper 10-15 giorni, rigi-randole quotidiana-mente, fino a che, perla perdita di granparte dell’acqua con-tenuta nelle drupe, as-sumono un aspettoraggrinzito. Vengonoquindi conservate in ba-rattolo o in un sacco di tela.Le visciole essiccate possono essereconsumate tali e quali, a fine pasto, o possonocostituire la materia prima per un altro pro-dotto della zona: la visciolata. Per preparare lavisciolata, una volta essiccate le visciole, siprocede alla loro bollitura nel vino, insieme azucchero, cannella e chiodi di garofano. Si la-scia quindi raffreddare il tutto prima di versarloin barattoli di vetro che, chiusi ermeticamente,vengono riposti in locali idonei dove vengonolasciati per due o tre mesi; il tempo necessarioaffinché questo prodotto possa raggiungere ilgiusto equilibrio tra il gusto inconfondibiledelle visciole e gli aromi della cannella, deichiodi di garofano e del vino. Un mix vera-mente unico: provare per credere. Un quartoprodotto a base di visciole ci porta a Maceratadove troviamo le visciole sciolte al sole o, comedicono da queste parti, “li visciuli a lu sole”.Come per le visciole essiccate, le materie primesono molto semplici in quanto alla base di vi-sciole e sole si aggiunge solamente dello zuc-chero. Le visciole coperte di zucchero vengonomesse in barattoli di vetro che vengono lasciatial sole, per almeno 40 giorni, fino a che lo zuc-

chero non sarà sciolto completamente. Per fa-cilitare lo scioglimento dello zucchero, i barat-toli vengono mossi o rigirati quotidianamente.Al termine di questa fase, i barattoli vengonoritirati e conservati in luoghi freschi e asciutti

per altri 30-40 giorni senzapiù muoverli. Il prodotto

così ottenuto può con-servarsi anche per al-cuni anni. L’ultimoprodotto a base di vi-sciole, forse il più fa-moso, è il visner, ilcosiddetto “vino divisciole”, che abbiamotrattato nella specifica

sezione relativa a be-vande, distillati e liquori.

L’AMARENA DI CANTIANO: COME SI PREPARASi prendono le visciole che, a maturazione, sipresentano di colore rosso scuro, ricche di polpae di sugo e si puliscono dai gambi. Vengonoquindi calibrate tramite un setaccio e denoccio-late. È importante che tra la raccolta e la lavo-razione trascorra al massimo qualche giorno inquanto la serbevolezza di questo frutto è piut-tosto limitata. Le visciole si fanno quindi cuo-cere nel loro liquido di governo aggiungendo lozucchero necessario. A cottura ultimata, lafrutta viene posta in contenitori di vetro, prece-dentemente sterilizzati ad alta temperatura. Intal modo, questo prodotto, tipico dei mesi digiugno, luglio e agosto, può conservarsi a lungoin ambienti freschi e al riparo dalla luce diretta.L’amarena di Cantiano così preparata è un ot-timo dessert da gustare “al naturale” ma è anchesquisita sul gelato o per guarnire torte e dolcifatti in casa. A chi poi la frutta piace gustarla“come natura crea”, ricordiamo che le visciolesono particolarmente apprezzate anche comefrutta fresca per il loro sapore dolce e allo stessotempo leggermente acidulo.

73frutta con fantasiaAbbiamo visto che, in termini meramente quan-titativi, le Marche non possono vantare grandiproduzioni frutticole; tuttavia, almeno per l’au-toconsumo, gli alberi da frutto non scarseggia-vano di sicuro nelle nostre campagne, sia tra i fi-lari delle viti, sia come piante sparse. Questo, al-meno, prima che la meccanizzazione del lavoroagricolo avesse trasformato gli alberi da fruttoin ostacoli da abbattere. Oggi abbiamo pertantoqualche frutteto specializzato in più ma ab-biamo perso e stiamo ri-schiando di perdere an-cora un patrimoniodi biodiversità, diecotipi e varietà lo-cali davvero straor-dinario.Le pesche nella Val-daso, le mele rosa nei Sibillini,la pera angelica a Serrungarina, le vi-sciole a Cantiano sono solo alcuni esempi difrutti di altissimo pregio che hanno finito per di-ventare un tutt’uno con il territorio da cui pro-vengono. Oltre che al consumo fresco, la fruttaè stata da sempre destinata anche alla prepara-zione di marmellate, composte, frutta sciroppatae via dicendo. Ciò, oltre che per la squisitezza diqueste preparazioni, per ovviare al fatto che lamaturazione avveniva in un periodo piuttosto ri-stretto dell’anno e che pertanto, non potendoutilizzare tutta la frutta in eccedenza per l’ali-mentazione degli animali, occorreva salvaguar-dare questi preziosi doni della terra.Pane e marmellata hanno costituito per genera-zioni la merenda classica deibambini prima che lagrande industriainiziasse a pro-porre le “famige-rate” merendine.

Oltre alle marmellate più comuni, ottenute dallesusine, dalle pesche e dalle albicocche, nelleMarche troviamo delle preparazioni estrema-mente particolari. La prima è la marmellata dipomodori verdi. Questa marmellata viene pro-dotta prevalentemente nelle zone dell’ascolanoe del maceratese, nei mesi di settembre e ot-tobre. I pomodori preferibilmente della varietàSan Marzano, raccolti quando sono ancora verdi,vengono puliti dai semi e liberati dall’acqua divegetazione, tagliati a pezzi, messi a macerareper 24 ore nello zucchero e un pizzico di sale.

Vengono fatti bollire in acqua dopoavere aggiunto un limone ta-

gliato sottilmente, fino a cheraggiungono la giusta

consistenza. Si mette laconfettura nei vasiquando è ancora bol-lente, si chiude erme-ticamente il barattolo

riponendolo in luogo buioe fresco. Il prodotto è di colore

verde scuro, molto denso e com-patto. Il sapore è caratteristico in

quanto, rispetto alle altre marmellate,ha un retrogusto piacevolmente aspro. Se vogliamo continuare a parlare di tradizione,gli anziani ci rammentano che una tipica mar-mellata “di casa”, utilizzata tutto l’anno, eraquella di “mosto e mele“ detta anche ”mo-starda”, utilizzata tutto l’anno poiché era moltoeconomica in quanto veniva realizzata con in-gredienti semplici, presenti in tutte le case dicampagna; si faceva durante la vendemmia e siportava con il pane nei campi durante la seminae la raccolta delle olive. La marmellata ha un co-

lore bruno intenso, dall’aspettolucido, dall’odore

fruttato ten-dente al cara-mello, dal saporeclassico di

74 frutta cotta, leggermente amarognolo. Per pre-pararla occorrono 3 chili di mele scelte per ognilitro di mosto, (particolarmente apprezzato è l’u-tilizzo delle mele cotogne). Si aggiunge unabuccia grattugiata del limone (solo la partegialla) a fine cottura. Si sbucciano e si tagliano lemele in fettine sottili, aggiungendo un po’ di li-mone per evitare che si scuri-scano, si versano nella pen-tola con il mosto e si fannobollire a fuoco basso, girandoil composto lentamente con ilmestolo da quando cominciala bollitura fino a quando ilcomposto non si addensa. Perverificare che la marmellataabbia raggiunto la giustadensità, se ne versa un cuc-chiaio in un piatto e si accerta che scenda lenta-mente senza lasciare gocce.Una marmellata più classica che soddisfa ilgusto di tutti i palati è quella di “more”. La mar-mellata è a base di more di rovo, zucchero e li-mone. E’ particolare l’utilizzo delle more digelso, in sostituzione di quelle di rovo, riscon-trato nel Comune di Macerata.Dell’alta reputazione di cui gode-vano i fichi abbiamo già par-lato a proposito delle lonzee dei torroni. Ma, fra tutti ifichi coltivati nella Marche,i più pregiati erano conside-rati quelli appartenenti allavarietà “Dottato”, tanto pre-giati da essere riservati alla “signora” cioèalla moglie del padrone che ai tempi della mez-zadria era considerata tra le massime Autoritàdello Stato. Pertanto questi fichi erano chiamati“fichi della signora” e la marmellata da essi rica-vata non poteva che chiamarsi marmellata difichi della signora. Ma vediamo come ancoraoggi, a Macerata, si prepara questa particolaremarmellata. I fichi dopo essere stati sminuzzati

vengono messi in una casseruola con pochissimaacqua fino a quando il prodotto, parzialmenteconcentrato, conserva ancora una certa fluidità.Il tutto viene poi chiuso ermeticamente in ba-rattoli di vetro che vengono poi sterilizzati abagno maria. Il fico è un frutto a bassa aciditàpertanto durante la preparazione della marmel-

lata sarà utile unirlo a del li-mone il quale darà un saporemeno dolce. Dal Montefeltro ci giunge in-vece un prodotto ancora piùparticolare: la marmellata dibacche di rosa canina. Questamarmellata si presenta comeuna purea dal colore rosso-vinaccia con riflessi giallo-dorati. La rosa canina è un ar-

busto spontaneo, selvatico, vigoroso, eretto e ra-moso, alto mediamente da un metro a due metrie mezzo, appartenente alla famiglia delle Ro-sacee. Le bacche sono globose, di colore rossovivo, con piccoli peli irritanti. Ricche di vitaminaC, pectine e zuccheri, sono acidule e asprigne seacerbe ma, dopo le prime gelate del tardo au-tunno, assumono un sapore più dolciastro e gra-

devole. Oltre che per pro-durre l’omonima marmel-lata, le bacche di rosa ca-nina finiscono in gelatine,

sciroppi e tè, oltre che comearomatizzanti in aceto, vino einfusi vari.

Per preparare la marmellata, siraccolgono le bacche dopo la prima

gelata, si nettano con cura e si svuotano dellapeluria interna e dei semi. Si aggiunge miele ozucchero e qualche goccia di limone, lasciandoriposare tutta la notte. Il giorno successivo ilcomposto deve essere bollito fino alla completaperdita dell’acqua. Si mette quindi in barattoli divetro chiusi ermeticamente da conservare al ri-paro dalla luce.

75Ancora più rara è la marmellata di cotogne eradici di cicoria, un prodotto originario dellazona di Ussita e ormai quasi scomparso, di cui sista cercando di rilanciare la produzione in unaltro comune del maceratese, precisamente aMontecosaro. È una marmellata di colore scurocon riflessi dorati e dal gusto amarognolo. Lemele cotogne e le radici di cicoria vengono pu-lite, lavate, tagliate a pezzi e mescolate insieme.Dopo aver aggiunto succo di limone e una partedi zucchero, si lascia riposare il tutto perqualche ora e si fa bollire a fuoco lento. Si passaquindi la purea in un setaccio e si procede quindia completare la cottura. Ancora bollente, simette nei vasi di vetro, aggiungendo un po’ dimistrà o di grappa che si fa ardere. Una voltaevaporato l’alcol, si richiude ermeticamente ilvaso che va conservato al riparo dalla luce. Lepersone anziane ricordano che si usava consu-mare questa marmellata a fine pasto per favo-rire la digestione. Sempre per restare in tema di marmellate e af-fini, troviamo la composta di castagne, prodottaprincipalmente nelle zone montane della pro-vincia di Pesaro e Urbino. Si presenta come unapurea dal sapore molto dolce in cui il gusto dellacastagna si lega alla perfezione con gli aromidella vaniglia, dell’alloro e dei semi di finocchio. Dallo stesso territorio ci giunge poi la cotognata.Essa si prepara tagliando in quattro le mele co-togne precedentemente lavate e sbucciate. Iquarti così ottenuti vengonoposti in un recipientecon acqua e limone perevitare l’ossidazione. Sicuoce quindi la fruttain acqua alla quale siaggiunge della bucciadi limone grattugiata.Una volta cotta, la fruttaviene passata al setaccio, dopodiché si aggiungeuna quantità di zucchero pari al peso del com-posto ottenuto. Viene quindi ultimata la cottura

mescolando spesso per favorire l’evaporazionedell’acqua. Terminata la cottura, si ottiene unapurea densa che va versata in forme ed asciu-gata al sole o, comunque, in un ambiente caldo.La si può anche stendere su un piano di marmoo di acciaio, a formare uno strato di un centi-metro di spessore, ricoperta di zucchero. Quandola composta è ben asciutta, la si taglia in por-zioni generalmente rettangolari o a losanga e sipuò conservare per diverso tempo in scatole dilatta o in barattoli di vetro al riparo dall’umidità. A fine stagione, rimaneva comunque della fruttache non era stata utilizzata; prevalentementemele e pere, ma anche fichi secchi, uva e quan-t’altro rimaneva in dispensa. Sempre con l’in-tento di utilizzare tutto ciò che la terra era ingrado di produrre, i nostri antenati si erano in-gegnati e avevano ideato questo prodotto cheancora oggi è possibile trovare nel maceratese:il misto di fine stagione che si prepara nel pe-riodo invernale. Si tratta di una composta otte-nuta aggiungendo alle mele, alle pere, ai fichisecchi, all’uva e agli altri frutti disponibili,arance e limoni tritati finemente. L’aggiuntadegli agrumi, che tra l’altro rappresentano l’u-nica frutta di stagione nel misto di fine stagione,conferisce un aroma caratteristico e un retro-gusto leggermente amaro che rendono partico-larmente stuzzicante questa composta. Un’altra preparazione piuttosto diffusa che per-mette di conservare la frutta anche per molti

mesi è rappresentata dall’ag-giunta dello sciroppo dizucchero. La frutta vienemessa in barattoli divetro insieme allo sci-roppo di acqua e zuccheropreparato in precedenza.Una volta chiusi ermeti-

camente, i barattoli ven-gono fatti cuocere a bagno maria per un tempovariabile a seconda del tipo di frutta e della suapezzatura. Questo procedimento viene utilizzato

76 per la maggior parte delle tipologie di fruttapresenti sul nostro territorio. Due di questi pro-dotti sono talmente particolari che sono entratia far parte dell’elenco dei prodotti tradizionali. Ilprimo è rappresentato dalle bacche di bianco-spino in sciroppo, preparate in autunno nell’en-troterra della provincia di Pesaro e Urbino e aro-matizzate con cannella e chiodi di garofano. Ci sono poi i lamponi sciroppati: una vera de-lizia caratteristica di Matelica ma diffusa anchein altre zone montane. Si possono gustare in di-versi modi: qualcuno li preferisce “al naturale”, altrili trovano deliziosi sul gelato, altri ancora li utiliz-zano per preparare crostate e torte fatte in casa. Dai monti al litorale pesarese per concludere la no-stra carrellata sui prodotti a base di frutta con unagrattamarianna: una rinfrescante granita prodottacon le gustosissime pesche di Montelabbate allequali di aggiungono zucchero e acqua. A differenzadelle altre granite, pertanto, non vi è aggiunta dighiaccio, per cui la grattamarianna risulta estre-mamente cremosa. Curiosa anche la vendita diquesto prodotto che avviene ancora nel tradizio-nale carrettino a pedali tipo “vecchio gelataio”.

la ricchezzadella povertàCi sono alcuni prodotti di questa sezione per iquali calza alla perfezione l’esclamazione am-mirata che Faust pronuncia di fronte alla di-mora casta e pura dell’amata “Quanta ric-chezza in questa povertà”. Cosa c’è infatti dipiù povero della cicerchia, o del farro, o ancoradella roveja? E allo stesso tempo, quanta ric-chezza come patrimonio genetico, storico, cul-turale è racchiusa in questi prodotti? Leguminosa da granella rustica, adattabileanche a terreni poveri e alle condizioni clima-tiche più sfavorevoli, resistente alla siccità maanche alle basse temperature, la cicerchia è

stata oggetto nelle Marche di una vera e pro-pria riscoperta. Già piuttosto diffusa nel ‘600come risulta da testimonianze rinvenute negliarchivi storici di Belvedere Ostrense e Serra de’Conti, la cicerchia aveva progressivamente la-sciato il campo, nel vero senso della parola, adaltre colture più “nobili”. Ma da diversi anni,vuoi per il gusto semplice e antico, vuoi per lericonosciute qualità nutrizionali dovute all’ele-vato apporto proteico e al basso contenuto digrassi o, ancora, per l’adattabilità ai metodidell’agricoltura biologica, la coltivazione dellacicerchia è in forte aumento. Non è stato, tuttavia, un semplice ritorno alpassato perché nella reintroduzione della cicer-chia si è tenuto conto anche dei progressi fattiregistrare nel campo della selezione varietale.Un inconveniente non trascurabile era infattirappresentato dalla latirina, un principioamaro, contenuto in questo legume, che co-stringeva, prima della cottura, ad effettuarelunghe macerazioni in acqua salata e ripetute

77bolliture con frequenti cambi d’acqua. Coltempo sono state selezionate varietà più dolci,prive di questo principio amaro, che hanno no-tevolmente semplificato il modo di cucinare lacicerchia. Per cui oggi è sempre più frequentetrovare, sia negli agriturismi che nei ristorantidelle aree rurali, gustose zuppe a base di cicer-chia, sia da sola che abbinata a ceci, farro, fa-gioli borlotti e cannellini. Chi poi volesse cono-scere piatti più fantasiosi sempre preparati conquesto straordinario legume, può recarsi aSerra de’ Conti dove, tra le mura medievali, sisvolge annualmente, alla fine di novembre, laFesta della cicerchia. Molte delle considera-zioni fatte per la cicer-chia valgono anche peril farro. Anch’esso og-getto di unarecente ri-scoperta, èanch’esso ru-stico e adattabile epertanto ideale per lacoltivazione con il me-todo biologico. Anche iltarget dei consumatori è lostesso: gente che oltre a ricercarei sapori semplici “di una volta” è allo stessotempo attenta alla salubrità degli alimenti cheacquista. Più ampia è invece la gamma degliutilizzi in quanto questo cereale è utilizzatoanche per la produzione di farina, per cui sitrovano con una certa facilità, nei negozi spe-cializzati, pane, pasta e biscotti contenenti fa-rina di farro. Tale è l’interesse suscitato dalfarro che a San Lorenzo in Campo, un piccolocomune situato lungo la Valle del fiume Ce-sano, grosso modo a metà strada tra Marotta eCagli, è stata inaugurata la prima farroteca d’I-talia, dove è possibile degustare, dall’antipastoal dolce, una serie di squisitezze tutte rigorosa-mente a base di farro.

Passando ad un altro cereale, troviamo l’orzomondo. È un orzo “nudo”, una varietà pregiatacaratterizzata dal fatto che i rivestimenti glu-meali (lemma e palea) si separano completa-mente a maturità. Il pericarpo, non avendo pro-tezione, risulta così meno compresso e più ro-busto. Eseguite le operazioni di svecciatura eventilazione, l’orzo mondo viene torrefatto emacinato. È così pronta la materia prima per lapreparazione di una bella tazza di “caffèd’orzo”. Questo succedaneo del caffè, adattoanche ai bambini, era una volta largamenteconsumato, preferibilmente la sera prima di

andare a letto, ma anche la mattina a cola-zione, mescolato con il latte. Dopo qualche

anno in cui era ca-duto un po’ indisuso, l’orzo haconosciuto unavera e propria ri-

scoperta, tantoche ora è in grado di

sfidare il caffè anchesul suo campo. Non c’è

ormai bar o ristorante,infatti, dove non si possa

ordinare un orzo “espresso”. Èmolto apprezzato anche nella

versione aromatizzata con semi dianice. Restando in tema di cereali e di prodottipoveri, troviamo la farina con cui si prepara lapolenta. In particolare vale la pena soffermarsisulla farina di granturco quarantino del mace-ratese. Questo mais appartiene ad una varietàlocale a impollinazione libera tradizionale. Ilmais “nostrano”, così viene definito comune-mente il granturco quarantino, era già cono-sciuto nel maceratese già nei secoli XVI e XVIIcome testimoniato da documentazione dell’e-poca sugli scambi commerciali conservatapresso l’Accademia Georgica di Treia. In quelperiodo non erano ancora comparsi terminicome “ibrido” e “geneticamente modificato”.

78 Una coltivazione antica, quindi, legata alle an-tiche tradizioni popolari contadine come, adesempio, “lo scartoccià”. Questa operazione,consistente nella pulizia delle cosiddette pan-nocchie dalle brattee, si effettuava un tempomanualmente e rappresentava un momento diincontro e di socializzazione tra gli abitantidella campagna. Si “scartocciava” nell’aia e, alsuono dell’organetto, si ballava il saltarellomarchigiano. Oggi abbiamo bisogno di tenereben distinto il lavoro dal tempo libero e ab-biamo perso questa capacità di coniugare la-voro e divertimento. Ma ciò che abbiamo persoveramente è la filosofia dei nostri antenati, chesapevano godere della semplicità e delle pic-cole cose della vita di ogni giorno. Ma la po-lenta non si fa solo con la farina di mais. Nel

comprensorio dei Monti Sibillini, si coltivanoinfatti piccoli appezzamenti di roveja, un pi-sello selvatico dal seme di color marroncino,tendente al giallo, da cui si ricava una farinache viene appunto utilizzata per la prepara-zione di una particolare polenta, detta “farroc-chiata” o “farecchiata”. È un piatto dal gustointenso, lievemente amarognolo, che si con-disce tradizionalmente con un battuto di alici,aglio e olio extravergine di oliva. Ottima ancheil giorno dopo, affettata e abbrustolita in pa-della.

Termina così, all’insegna della semplicità, questo viaggio alla riscoperta dei prodotti tradizionalimarchigiani. Termina con un auspicio: che nella nostra regione l’obiettivo dello sviluppo econo-mico e della competitività delle imprese non prescinda mai dal perseguimento di un altro obiettivonon meno importante: il mantenimento della nostra identità territoriale. Quindi, dobbiamo sentirela responsabilità di non poter dilapidare quell’immenso patrimonio che le generazioni precedentici hanno affidato sotto forma di un paesaggio rurale tra i più apprezzati d’Europa, di tradizioni, diculture, di opere d’arte e, ovviamente, di prodotti tradizionali.

Finito di stampare nel mese di gennaio 2006presso Errebi Grafiche Ripesi

Falconara Marittima - AN