Tesina Com. Giornalistica

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 Ilaria Fioravanti 0000188483 Comunicazione giornalistica 09/07/2007 Il fotogiornalismo di Capa e Cartier-Bresson Indice - Cenni storici sul fotogiornalismo - L’importanza di Magnum - Il reportage - Robert Capa: un avventuriero con un’etica - Henri Cartier-Bresson: un avventuriero con un’esteti ca - Per concludere Se sapessi raccontare una storia con le  parole, non avrei bisogno di trascinarmi dietro una macchina fotografica. Lewis Hine Cenni storici sul fotogiorna lismo Il fotogiornalismo condensa quel modo di fare giornalism o che si può riassumere nelle parole d’ordine “andare, vedere, raccontare”: il fotogiornalista è là dove i fatti accadono, è nell’avvenimento, testimone privilegiato che riesce a raccontare gli eventi con una forza e un’immediatezza che raramente le parole possiedono. Grazie a questa carica emozionale intrinseca nelle grandi fotografie di reportage, il lettore s’identifica, è in qualche modo compartecipe delle vicende fotografate. Il fotoreporter dunque ricopre una doppia funzione rispetto al pubblico. Innanzitutto costituisce una proiezione dello sguardo del lettore. La rivista  Life, infatti, ha fatto molto più che portare la guerra nelle case di tutti gli americani: ha portato gli americani nei luoghi della guerra. In secondo luogo, il fotoreporter realizza un bisogno di partecipazione che si esprime nell’idea di essere visti: il meccanismo di autoidentificazione innescato da una fotografia coinvolge, oltre al suo autore, lo stesso soggetto. La nascita del fotogiornalismo è in forte misura subordinata alla messa a punto di tecniche che  permettono la riproducibilità delle immagini, e la possibilità di trasporle sulle pagine dei giornali. A fine Ottocento, in coincidenza con l’invenzione della lastra a mezzatinta e la creazione di una box camera, primo apparecchio portatile, la fotografia approda stabilmente sulle pagine dei grandi

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Ilaria Fioravanti 0000188483

Comunicazione giornalistica 09/07/2007

Il fotogiornalismo di Capa e Cartier-Bresson

Indice

- Cenni storici sul fotogiornalismo

- L’importanza di Magnum

- Il reportage

- Robert Capa: un avventuriero con un’etica

- Henri Cartier-Bresson: un avventuriero con un’estetica- Per concludere

Se sapessi raccontare una storia con le

 parole, non avrei bisogno di trascinarmi

dietro una macchina fotografica.

Lewis Hine

Cenni storici sul fotogiornalismo

Il fotogiornalismo condensa quel modo di fare giornalismo che si può riassumere nelle parole

d’ordine “andare, vedere, raccontare”: il fotogiornalista è là dove i fatti accadono, è

nell’avvenimento, testimone privilegiato che riesce a raccontare gli eventi con una forza e

un’immediatezza che raramente le parole possiedono. Grazie a questa carica emozionale intrinseca

nelle grandi fotografie di reportage, il lettore s’identifica, è in qualche modo compartecipe delle

vicende fotografate. Il fotoreporter dunque ricopre una doppia funzione rispetto al pubblico.

Innanzitutto costituisce una proiezione dello sguardo del lettore. La rivista Life, infatti, ha fatto

molto più che portare la guerra nelle case di tutti gli americani: ha portato gli americani nei luoghi

della guerra. In secondo luogo, il fotoreporter realizza un bisogno di partecipazione che si esprime

nell’idea di essere visti: il meccanismo di autoidentificazione innescato da una fotografia coinvolge,

oltre al suo autore, lo stesso soggetto.

La nascita del fotogiornalismo è in forte misura subordinata alla messa a punto di tecniche che

 permettono la riproducibilità delle immagini, e la possibilità di trasporle sulle pagine dei giornali. A

fine Ottocento, in coincidenza con l’invenzione della lastra a mezzatinta e la creazione di una box

camera, primo apparecchio portatile, la fotografia approda stabilmente sulle pagine dei grandi

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quotidiani, soprattutto americani. Con la fine della prima guerra mondiale si conclude anche la fase

 pionieristica del fotogiornalismo e ha inizio quella che sarà la sua epoca d’oro.

La ricchezza della ricerca teorica e artistica nella Germania di Weimar, la scoperta della

fotografia come mezzo della denuncia sociale e di identificazione del proletariato nel mondo

comunista, il sostegno dato alla professione fotografica da organismi governativi, la grande vitalità

e il potere commerciale della fotografia e della stampa negli Stati Uniti, e infine quella rivoluzione

tecnologica che è stata la pellicola da trentacinque millimetri. Tutti questi fattori portano ad una

vera e propria invasione di riviste illustrate, soprattutto in Germania e negli Stati Uniti. Il

giornalismo dei settimanali illustrati, nel periodo che va dagli anni ’30 ai ’60, è lo strumento

attraverso il quale i lettori occidentali imparano cosa avviene negli altri continenti. Farlo vedere con

immagini è di gran lunga più efficace che non descriverlo a parole. Come afferma Archibald

MacLeish in un telegramma a Henry Luce, fondatore di Life nel 1936: “La macchina fotografica

non illustra, dice… È destinata a diventare il più grande e più convincente reporter della vita

contemporanea”.

Ma se in Germania il fotogiornalismo subirà una brusca battuta d’arresto a causa dell’avvento del

regime nazista, saranno gli USA a produrre, appunto, quel giornale che sarà il simbolo e il

capostipite del fotogiornalismo moderno: Life. Il compito, anzi, il dovere che la pubblicazione si

 prefigge, come dichiarato dallo stesso Luce, è quello di “insegnare alla gente a prendere sul serio le

fotografie, a rispettarle come attualmente non avviene… La gente ama le fotografie, ma non le

rispetta”. Il valore di una fotografia non risiede soltanto nel renderci in grado di “vedere la vita,

vedere il mondo; essere testimoni oculari di grandi eventi”; piuttosto “experienced è la parola

cruciale. Una grande foto non consiste solo nel vedere; richiede una risposta emotiva”.

Gli anni del secondo dopoguerra vedono la costituzione di agenzie fondate da fotoreporter, che

modificano profondamente la struttura organizzativa stessa del fotogiornalismo.

L’importanza di Magnum

La Magnum Photos, storica realtà fondata a Parigi nel 1947 da Robert Capa, Henri Cartier-

Bresson, David “Chim” Seymour e George Rodger, è la prima agenzia fotografica organizzata

come una cooperativa. In dichiarata opposizione alle riviste come Life e al sistema di potere che in

un modo o nell'altro ne controlla l'attività, Magnum prevede che i diritti delle immagini restino di

 proprietà degli autori e non delle riviste; rimanere titolari dei diritti significa aumentare il proprio

 potere contrattuale e vendere i servizi a testate di paesi diversi, moltiplicando le possibilità di

guadagno. Alla base di questa agenzia vi è la fede in un tipo di fotografia che abbia la possibilità di penetrare nella coscienza dell’osservatore ed influire su di essa. Il fotografo non vuole più essere

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succube dell’editore, bensì un operatore culturale alla pari del giornalista, a cui semmai vengono

riconosciute meno possibilità di oggettività. Anche se, come osserva Papuzzi, “la notizia fotografica

si carica di una soggettività più estesa e più profonda rispetto a quanto prevede in generale la teoria

della notizia”. In quest’ottica, quindi, la macchina fotografica, il medium in apparenza più obiettivo,

determinerebbe il massimo di soggettività della notizia.

Oltre a ciò, Magnum è stata la fucina di alcuni tra i più grandi fotografi del Novecento e di oggi,

un modello e una scuola di fotogiornalismo, di come si può raccontare una storia attraverso le

immagini, cogliere i pensieri, i sentimenti e l'essenza delle persone attraverso uno scatto. Ispirata

alle esperienze del fotogiornalismo affermatosi in Germania a partire dal 1928, diventa, inoltre, una

scuola, un punto di riferimento, uno stile, un'inclinazione, un atteggiamento con cui guardare al

mondo e ai più deboli, per denunciare le ingiustizie sociali, le violenze e le prevaricazioni.

Le guerre e le loro conseguenze sulle popolazioni sono, infatti, da sempre tra i motivi

fondamentali che hanno ispirato il lavoro dei fotografi Magnum. Anzi, si può dire che l'esperienza

stessa della guerra, vissuta in prima linea da fotoreporter, è stata, soprattutto per Capa e Seymour,

un elemento chiave nella fondazione dell'agenzia. Tutti sono passati attraverso il conflitto

rimanendone profondamente segnati: il loro lavoro sarà sempre stato caratterizzato dall’impegno.

Il reportage

In aggiunta a tutto questo, i fotografi di questa agenzia daranno anche un’impronta decisiva alla

diffusione del reportage. Alfredo De Paz, nel suo Fotografia e società, afferma che “se ogni

fotografia in generale - in quanto riporta immagine del (dal) mondo – può essere detta di reportage,

il reportage vero e proprio si riferisce a quelle immagini riprese da un fotografo in tempo reale sul

luogo stesso di un determinato evento. La fotografia di reportage viene vista, quindi, come la

registrazione meccanica dello stato vivente del mondo. Individua, inoltre una sottile differenza tra il

fotogiornalismo e la fotografia di reportage: nel primo caso, infatti, emerge maggiormente il

desiderio di raccontare attraverso le immagini, una storia avente valenze semantiche

 prevalentemente storiche, sociali e politiche. Nel secondo caso, invece, il fotografo si limiterebbe a

riprendere determinati frammenti di realtà aventi precisi significati.

Per la fotografia di reportage, in condizioni tecniche a volte molto precarie, l’interesse giornalistico

risiede più nella qualità dell’informazione apportata che nella perfezione tecnica della sua

calligrafia. La necessità di ritrarre la realtà in condizioni difficili porta ad adoperare una determinata

calligrafia (grana grossa per l’ingrandimento di dettagli significativi, profili mossi…) che educa il

gusto del lettore ed apprezzare questo materiale, considerato per i suoi valori di autenticità e di

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opportunità dello scatto, cioè per la sua alta informazione. La calligrafia difettosa diventa così un

linguaggio e acquista un valore estetico positivo.

La definitiva maturazione del reportage si ha durante la guerra civile spagnola, con l’esperienza di

Robert Capa. De Paz definisce “eroico” il reportage di quei fotografi la cui “pratica professionale ha

dato prova, secondo maniere diverse e in situazioni differenti, di straordinario coraggio e

abnegazione nel testimoniare eventi, fatti di sensibile rilievo per una comunità o una società

determinata”. E l’opera di Capa rientra a pieno titolo in questa definizione.

Robert Capa: un avventuriero con un’etica

Nato a Budapest nel 1913, con il nome di Endre Friedmann, esiliato politico già all’età di

diciassette anni, si rifugia prima a Berlino e poi nel 1933 a Parigi, dove conosce i suoi futuri

«compagni di strada», Henri Cartier-Bresson e David Seymour. Parte con la compagna Gerda Taro

 per la Spagna dove scatta la foto che lo renderà famoso e che viene considerata da molti la più bella

fotografia di guerra mai scattata: “Il momento della morte”, che immortala appunto il momento in

cui un miliziano repubblicano viene colpito da un proiettile. Quando vengono pubblicate per la

 prima volta, su riviste a grande tiratura come Vu e Life, le foto di Capa suscitano grande clamore:

sono di una potenza e un’immediatezza mai viste.

Poco dopo essersi trasferito negli Stati Uniti, la sincera voglia di conoscere da vicino i drammi

della gente e di riuscire a raccontarli, lo riporta in Europa e lui che odiava le guerre e che sognava di

 poter essere un giorno “fotografo di guerra disoccupato”, si trova sugli scenari della seconda guerra

mondiale. Partecipa in prima linea allo sbarco in Normandia e le foto che scatterà in quell’occasione

rappresentano il documento per antonomasia di cosa significhi per un fotografo essere vicino alla

scena da riprendere, al cuore della storia da raccontare.

Capa, morto a causa di una mina in Indovina nel 1954, affermava infatti che il valore di una foto è

tanto maggiore quanto più grande è il grado di partecipazione e di coinvolgimento del fotografo

stesso nei confronti dell’evento rappresentato. Era necessario per lui essere dentro l’azione, il più

vicino possibile al soggetto ripreso, senza timore per l’eventuale carattere crudo ed improvviso

dell’immagine che ne sarebbe risultata; solo in questo modo la fotografia si sarebbe liberata di

quella sua dimensione artificiale, di quel suo schermo inopportuno tra occhio e azione.

“Se le vostre foto non sono abbastanza buone è perché non siete abbastanza vicino al soggetto.

Amate la gente e fateglielo capire”. Si immerge così negli eventi cogliendo il proprio soggetto a

distanza a volte così ravvicinata che esso appare sfocato o impreciso: “non vuole tanto essere una

sorta di voyeur dell’orrore, bensì un «compagno del destino» di coloro che lottano per la libertà e la

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democrazia e le cui lacrime e sospiri paiono lasciare, per così dire, sensibili «tracce di vapore» sul

suo obiettivo” (De Paz).

Il suo proposito è stato quello di trasformare la fotografia intesa come pura registrazione di eventi

in fotografia concepita come consapevolezza storica, ovvero come foto-storia, rifiutando qualsiasi

effetto puramente tecnico dell’immagine. Affidare al fotogiornalismo il compito di testimonianza

storica come lotta contro l’oblio, in modo da preservarlo anche dai rischi che sarebbero sopraggiunti

con lo sviluppo della televisione.

A proposito del suo amico, John Steinbeck ha scritto: “Capa sapeva che cosa cercare e che cosa

farne dopo averlo trovato. Sapeva, ad esempio, che non si può fotografare la guerra perché la guerra

è soprattutto un’emozione. Ma lui ha fotografato quell’emozione scattando accanto a lei. La sua

macchina fotografica coglieva l’emozione e la tratteneva. Le sue foto non sono incidenti.

L’emozione che contengono non arriva per caso. Capa era in grado di fotografare il movimento,

l’allegria e lo sconforto. Era in grado di fotografare il pensiero. L’opera di Capa è in se stessa la

fotografia di un grande cuore e di un’empatia irresistibile”.

Henri Cartier-Bresson: un avventuriero con un’estetica

Gli anni di pittura formano il suo sguardo, pronto a cogliere come nessun altro gli equilibri visivi

e formali sistemati in una serie di istanti irripetibili e preziosi; ma sono proprio Capa, prima di tutto,

e il lavoro di agenzia a contatto con gli altri fotoreporter che consacrano Henri Cartier-Bresson quel

che è: “non certo l’ultimo epigono di un surrealismo fotografico, ma il primo interprete di una realtà

che vuole essere racconto del mondo, cronaca di un avvenimento senza diventare bozzetto, ritratto

di un personaggio senza diventarne caricatura” (Mauro).

Henri Cartier-Bresson nasce in Francia nel 1908, da una famiglia agiata di industriali tessili.

Insofferente all’autorità e alle costrizioni, rifiuta un destino già scritto nella ditta paterna e si

appassiona alla pittura all’età di quindici anni. Dopo l’apprendistato da pittore, i lunghi viaggi di

formazione e avventura, scopre la nuovissima Leica e il suo incredibile virtuosismo, che gli

 permette di cogliere la realtà in momenti geometricamente perfetti.

Inizialmente, quindi, interpretando la fotografia come una forma di pittura, è soprattutto alla

ricerca dell’immagine che abbia il valore di un quadro, a prescindere da qualsiasi informazione

 possa contenere. È appunto con la nascita di Magnum che germina in lui la necessità di raccontare

delle storie. Ma il suo ideale di reportage resta la «photo unique»: “Per me il reportage è la foto

unica, la scorciatoia che è riuscita a esprimere una situazione”. E ancora: “Il reportage è

un’operazione progressiva della mente, dell’occhio e del cuore per esprimere un problema, fissareun avvenimento o delle impressioni”.

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“Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso

assetto delle forme percepite con lo sguardo, che esprimono e significano tale evento. È porre sulla

stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere”. Cartier-Bresson esprime in

questa affermazione la necessità di non utilizzare nessuna ricetta precostituita, di essere sempre

 pronti a tagliare per semplificare la realtà, di seguire tutte le fasi dell’azione, di non perdere i

momenti irripetibili. “ Di tutti i mezzi di espressione la fotografia è il solo che fissa un istante

 preciso”. Con la sua teoria del «momento decisivo» si rafforza dunque il legame tra tecnica e

tempo, tra scatto e memoria. La sua idea è che sia possibile seguire il movimento, espressione dello

svolgersi della vita, fino all’attimo in cui gli elementi si equilibrano. Questo momento magico e

irripetibile è l’unico che valga la pena di fermare e che allo stesso tempo garantisce la riuscita della

foto. Per questo l’istante è intrinsecamente legato con la forma, anzi è da questa determinato. La

forma diventa così significante non dell’intenzione dell’autore, ma della stessa realtà rappresentata.

Per concludere

Il giornalista Capa passa la vita in mezzo ai grandi eventi del Novecento, per lo più conflitti; li

descrive in modo diretto, in primo piano, con immagini non sempre perfette (del resto “La storia

non è costruita perfettamente”). L’artista Bresson è interessato alla vita, di ogni situazione vuole

cogliere l’aspetto estetico più che quello di cronaca. Ogni scena si risolve per lui nell’istante in cui

il movimento, dando alle cose la forma perfetta, la innalza oltre il piano della normalità. Quella è

l’immagine; l’abilità del fotografo consiste nel saperla cogliere.

Su un punto, invece, le loro idee coincidono perfettamente: il racconto fotografico non deve mai

essere arido e banale. Il compito di un cronista è quello di evocare l’evento, cercando di trasmettere

al lettore l’atmosfera e l’emozione del momento. Per loro un fotoreporter deve essere un giornalista,

un commentatore, a volte un poeta. È questa la filosofia di Magnum, anche se l’interesse dei

fondatori è sicuramente rivolto più alla vita e alla realtà in sé che non alla storia o all’arte. Anni

dopo Bresson definirà Capa un avventuriero con un’etica e se stesso un avventuriero con

un’estetica.

“Estendere la visione umana per renderci partecipi di cose che non possiamo vedere di persona (o

che potremmo perdere pur essendo presenti) e farlo in una forma che procuri un duraturo piacere

estetico, non è risultato da poco, ed è il dono che ci ha fatto il migliore fotogiornalismo di tutti i

tempi e paesi” (Goldsmith).

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Bibliografia

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contemporaneo, Liguori Editori, Napoli, 2001

- De Paz A., L’immagine fotografica. Storia, estetica, ideologia, Liguori Editori, Napoli, 1999

- Fadigati N., Il mestiere di vedere. Introduzione al fotogiornalismo, Plus, 2005

- Goldberg V., Margaret Bourke-White, Serra e Riva, Milano, 1988

- Goldsmith A., “Parole e immagini”, in Il fotogiornalismo, Gruppo editoriale Fabbri, Milano,

1983

- Koch R. (a cura di) , I grandi fotografi. Robert Capa, il Corriere della Sera, 2006

- Mauro A., I grandi fotografi. Henri Cartier-Bresson, il Corriere della Sera, 2006

- Papuzzi A., Professione Giornalista, Donzelli, 2003

- Whelan R., Robert Capa. La collezione completa, Phaidon, 2001