TESI La Mediazione Culturale Nel Settore Socio-sanitario
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1
ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITA’ DI BOLOGNA
FACOLTA’ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE
Corso di laurea magistrale in Lingua, Società e Comunicazione
TITOLO DELLA TESI:
L'INTERPRETE PER I SERVIZI PUBBLICI
- La mediazione culturale nel settore socio-sanitario dell'Emilia-
Romagna -
Tesi di laurea in Mediazione Inglese
Relatore: Presentato da: Prof.ssa Mette Rudvin Giulia Cremonini Correlatore: Prof.ssa Maxine Lipson
Sessione III
Anno Accademico 2009/2010
2
INDICE
1 Introduzione......................................................................................................................pag. 3
1.1 L'interprete nella storia.................................................................................................5
1.2 Definire il concetto di interpretazione..........................................................................7
1.3 I partecipanti................................................................................................................11
1.4 Le relazioni fra i partecipanti.......................................................................................20
2 Il ruolo dell'interprete ...............................................................................................................25
2.1 L'interprete nella metafora...........................................................................................27
2.2 Invisibilità vs Visibilità.................................................................................................30
2.3 La cortesia linguistica nell'interpretazione...................................................................37
2.4 Decidere cosa e come interpretare................................................................................43
3 L'interprete e la gestione dello scambio interazionale...........................................................49
3.1 La natura dialogica dell'interpretazione di comunità...................................................50
3.2 L'analisi della conversazione: il metodo......................................................................54
3.3 L'interprete e l'avvicendamento dei turni di parola......................................................57
3.4 Le interruzioni...............................................................................................................64
3.5 I segnali discorsivi........................................................................................................75
4 L'interprete in ambito medico..................................................................................................82
4.1 Il briefing.......................................................................................................................91
4.2 La mediazione interculturale in ambito socio-sanitario e la situazione italiana...........96
3
5 La ricerca sul campo: un'indagine nel settore sanitario emiliano.......................................100
Le interviste alle mediatrici culturali:
5.1 Ospedale SS. Annunziata, Cento (Ferrara)
Mediatrici pakistane……………………....................................................................102
5.2 Istituto Ortopedico Rizzoli (Bologna).........................................................................107
5.3 Ospedale S. Anna di Ferrara
Mediatrice di lingua araba…………...........................................................................109
5.4 Ospedale di Bentivoglio (Bologna)
Mediatrice di lingua araba………...............................................................................114
5.5 Policlinico di Modena
Mediatrice di lingua araba...........................................................................................120
5.6 Poliambulatorio di Reggio Emilia Viale Monte S. Michele
Mediatrice cinese.........................................................................................................127
5.7 “Spazio Salute Immigrati”, Ausl di Parma
Mediatrice di rumeno e moldavo…….........................................................................136
6 La Regione Emilia-Romagna...................................................................................................142
6.1 L'immigrazione straniera in Emilia-Romagna.............................................................142
6.2 La mediazione culturale in Emilia-Romagna: la legislazione italiana e regionale......148
6.3 Alcuni dati sui mediatori culturali della Regione........................................................156
7 Conclusioni................................................................................................................................159
- Bibliografia
- Appendice
4
CAPITOLO 1
INTRODUZIONE
Il presente lavoro intende analizzare il ruolo dell'interprete che opera nell'ambito dei
servizi pubblici e sociali: il cosiddetto interprete di comunità descritto dal modello
anglosassone. Come si dirà ampiamente nello svolgimento dell'analisi che segue, si
tratta di una figura professionale non ancora uniformemente definita e riconosciuta, sia
da un punto di vista normativo-istituzionale e terminologico, sia per ciò che concerne
l'immagine sociale e professionale che comunemente viene associata a tale profilo.
Antiche costruzioni metaforiche e stereotipiche continuano ad imbrigliare il ruolo
dell'interprete per i servizi pubblici in una serie di luoghi comuni che ne pregiudicano la
vera essenza. La prima parte di questo lavoro sarà dedicata all'impianto teorico e
letterario nel quale si inserisce il soggetto dell'indagine: partiremo dal ruolo prescritto
dagli studiosi della comunicazione interculturale, soffermandoci su ciò che l'interprete
“dovrebbe” essere in un'ideale situazione di scambio interlinguistico fra locutori di
diversa appartenenza culturale. Saranno quindi presentati i vari partecipanti coinvolti
nell'interazione mediata, le relazioni che questi intrattengono reciprocamente, il loro
ruolo conversazionale e la funzione stessa della mediazione linguistico-culturale.
L'annoso dibattito sulla dicotomia che riguarda la visibilità o invisibilità dell'interprete, i
concetti di fedeltà, imparzialità e neutralità saranno discussi e confrontati con i risultati
emersi dagli studi empirici di alcuni fra i maggiori studiosi della materia. L'obiettivo è
quello di mettere in luce la vastità e la complessità del campo di indagine e della figura
dell'interprete, vero perno della comunicazione mediata.
Rifiutando l'immagine dell'interprete come mero mezzo di decodificazione e
codificazione linguistica, cercheremo di definire la moltitudine di competenze e
funzioni comunicative che questo ruolo implica. Osserveremo cioè l'interprete come
gate-keeper dello scambio internazionale, considerando la comunicazione mediata non
solo come produzione testuale, ma anche come attività e interazione sociale che
sottende ad un complesso sistema di relazioni e azioni in gioco.
Nella seconda parte del lavoro, invece, restringeremo il campo d'indagine all'interprete
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che opera in ambito socio-sanitario; il settore medico impone un'attenzione particolare
dovuta all'estrema serietà delle conseguenze legate alla mediazione linguistico-culturale
in questo contesto. Il mediatore culturale rappresenta qui l'interfaccia fra le istituzioni e
le comunità immigrate, l'anello di congiunzione fra il sistema sanitario nazionale e il
cittadino straniero. Il diritto fondamentale all'assistenza e alle cure sanitarie deve quindi
passare attraverso il dialogo mediato che solo una figura professionale e competente può
gestire doverosamente. L'interprete-mediatore porta con sé il proprio io e la propria
identità culturale durante lo scambio interazionale, divenendo una figura attivamente
partecipe e coinvolta in ciò che viene metaforicamente descritto come un “passo a tre”
della comunicazione.
La situazione italiana, nel quadro dell'odierna società multietnica, ha registrato negli
ultimi anni alcuni importanti progressi per ciò che riguarda la mediazione culturale nelle
strutture socio-sanitarie del Paese e la definizione del profilo professionale deputato;
nonostante i lenti miglioramenti, però, permangono numerose criticità e ambiguità di
fondo che continuano a rendere questa figura professionale ancora troppo vulnerabile e
sottostimata.
In questa sezione presenteremo una ricerca sul campo effettuata intervistando le
mediatrici culturali di alcune strutture socio-sanitarie dell'Emilia-Romagna; la
testimonianza diretta delle mediatrici ci ha così permesso di confrontare l'impianto
teorico inizialmente descritto con la realtà pratica di questa professione. Le interviste
raccolte presentano una situazione molto più sfaccettata e complessa di quella postulata
dai testi letterari; in alcuni casi, i precetti della deontologia professionale e dei codici di
condotta vengono scardinati (e quasi offuscati) dall'urgenza psicologica ed emotiva del
contesto situazionale. Due facce della stessa medaglia: ciò che l'interprete-mediatore
dovrebbe essere e ciò che l'interprete-mediatore effettivamente è.
Infine, dopo aver esposto i risultati delle interviste realizzate, analizzeremo brevemente
l'attuale situazione della Regione Emilia-Romagna; prima forniremo alcuni dati
sull'immigrazione straniera che interessa il territorio di riferimento, poi ci occuperemo
della legislazione nazionale e regionale che regola la mediazione culturale e i servizi
correlati; poi concluderemo con una breve panoramica dei mediatori culturali
attualmente occupati nei servizi pubblici rivolti alla cittadinanza straniera a livello
regionale.
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1.1 L'interprete nella storia
L'interpretazione, qui intesa come forma di “traduzione”, è un'antica attività umana che
naturalmente precede l'invenzione della scrittura e della traduzione scritta. In molte
lingue indoeuropee, il concetto di interpretazione è espresso da parole etimologicamente
indipendenti rispetto a quelle utilizzate per la traduzione scritta. Come ricorda il docente
e interprete austriaco Franz Pöchhacker (2004), locuzioni di lingue germaniche,
scandinave e slave utilizzate per denotare la figura dell'interprete erano già presenti
nell'accado, l'antica lingua semitica di Assiria e Babilonia intorno al 1900 a.C. La radice
accadica targumanu diede infatti origine al termine “dragomanno” utilizzato per
indicare l'interprete. La parola “interprete”, invece, deriva dal latino interpres (“persona
che spiega ciò che è oscuro”) ma le radici semantiche non sono chiare; alcuni studiosi
ritengono che la seconda parte del termine derivi da partes o pretium adattandosi così al
significato di “intermediario” o “uomo fra le parti”; mentre altri studiosi sostengono che
la parola provenga dal sanscrito. In ogni caso, il termine latino interpres, cioè “colui
che spiega ciò che altri hanno difficoltà a comprendere”, è particolarmente rivelatore
dalla natura di questa professione. Nel corso della storia, gli interpreti sono sempre stati
necessari, non solo per consentire la comunicazione fra individui appartenenti a civiltà
plurilingui, ma anche per sopperire a diversità socio-culturali. Come ricorda Hermann
(in Pöchhacker e Shlesinger 2002:15), nell'antico Egitto il titolo di “essere umano” era
prerogativa degli egiziani, mentre gli stranieri erano considerati “barbari meschini” e
l'interprete era colui che parlava le sconosciute lingue dei barbari. Nell'antica Grecia,
invece, l'interprete non era semplicemente il mediatore linguistico impiegato nelle
abituali transazioni economiche, era anche una figura semi-divina in grado di svolgere
svariate funzioni e che risultava imprescindibile nelle comunicazioni con i senatori
romani d'alto rango e i rappresentanti dei popoli celtici ed egizi. L'Impero Romano, poi,
rappresentava un caso unico in quanto al valore attribuito a lingue diverse dalla propria:
l'Impero era sostanzialmente bilingue, latino e greco, infatti, erano posti sullo stesso
piano nell'insegnamento scolastico e gli interpreti godevano di grande prestigio sociale
come attestò lo stesso Cicerone descrivendo il ruolo degli interpreti che gli prestavano
servizio (Ibid.). In epoca moderna, emblematica è la figura dell'interprete ai tempi della
conquista dell'America da parte della Corona Spagnola (Angelelli 2004:9). Quando
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Colombo pianificò il suo viaggio, ben consapevole dell'importanza dell'interprete nella
comunicazione con i popoli autoctoni, decise di portare con sé due interpreti. il primo
era stato a lungo in Guinea, il secondo conosceva l'arabo, l'ebraico e l'aramaico. Al suo
arrivo nelle Americhe, Colombo si trovò di fronte a 133 gruppi tribali che parlavano più
di mille lingue diverse su un territorio che andava dall'Argentina al Messico; data
l'impossibilità comunicativa fra indigeni e autorità spagnole, l'intervento degli interpreti
divenne fondamentale ma gli interpreti portati in viaggio si rivelarono inutili. Colombo
decise quindi di portare alcuni indigeni in Spagna per far loro apprendere la lingue e la
cultura della madre patria e di riportarli poi nelle Americhe in qualità di interpreti. Fra il
1495 e il 1518, una nuova generazione di interpreti nativi rese possibile la
comunicazione fra spagnoli e autoctoni. Dopo circa cinque secoli, in occasione del
processo di Norimberga (1945-1946), il tema dell'interpretazione tornò ad occupare una
posizione di primo piano. Le università di tutto il mondo iniziarono ad offrire corsi di
laurea e programmi didattici in mediazione culturale, era necessario disporre di
interpreti qualificati per assicurare la comunicazione fra i capi di stato dei tanti paesi
coinvolti; la priorità non era data alla comunicazione interlinguistica e interculturale
come oggetto di studio in sé, ma alle delicate questioni politiche sfociate in seguito al
secondo conflitto mondiale. Come ricorda Claudia Angelelli (2004:11), l'importanza
degli interpreti è stata evidenziata durante recenti periodi di crisi, come le guerre in
Kosovo e Macedonia, l'attacco terroristico dell'11 settembre e la guerra in Irak. Ognuna
di queste tragedie rappresenta un momento di contatto fra popoli diversi nel quale la
figura dell'interprete emerge prepotentemente; l'attacco dell'11 settembre, in particolare,
ha sottolineato l'esigenza di rivolgersi ad interpreti professionisti per le lingue meno
diffuse come il persiano e l'arabo e a tal proposito il governo degli Stati Uniti ha
risposto fondando un centro di ricerca presso l'Università del Maryland, il CASL, con
l'obiettivo di formare interpreti e traduttori specializzati. Come nota Angelelli (Ibid.),
l'introduzione della mediazione linguistica nel mondo accademico ha risposto in primo
luogo ad una necessità di natura pragmatica ma, come si dirà in seguito, il pieno
riconoscimento formale di questa disciplina non è ancora stato raggiunto.
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1.2 Definire il concetto di interpretazione
Per definire cosa si intende con il termine interpretazione e per distinguere quest'ultima
da altre tipologie di attività traduttive, è fondamentale il concetto di “immediatezza”:
l'interpretazione si svolge infatti nel qui ed ora dell'evento comunicativo a beneficio di
uno scambio interlinguistico e interculturale fra i partecipanti presenti. Per superare la
dicotomia scrittura/oralità spesso utilizzata come criterio discriminante nella definizione
di traduzione ed interpretazione, Otto Kade (1968), studioso dell'Università di Leipzig,
propose di descrivere l'interpretazione come una forma di traduzione nella quale:
− il testo nella lingua d'origine è presentato solo una volta e non può quindi essere
rivisto o ripetuto;
− il testo nella lingua di arrivo viene prodotto sotto la pressione del tempo, con
limitate possibilità di revisione e correzione.
Come riassume Pöchhacker (2004:11):
interpreting is a form of translation in which a first and final rendition in another language is produced on
the basis of a one-time presentation of an utterance in a source language.
Questa prima e generica definizione ci permette di includere fra le varie tipologie di
interpretazione anche l'interpretazione in lingua dei segni per non udenti, altrimenti
esclusa dall'opposizione traduzione scritta vs traduzione orale. La letteratura ha
tradizionalmente classificato gli eventi comunicativi mediati dalla figura dell'interprete
attraverso singoli parametri; fra questi, il contesto (o situazione comunicativa) ha dato
origine alla distinzione fra: interpretazione di conferenza, interpretazione legale,
interpretazione di comunità, interpretazione medica e interpretazione “televisiva”. Come
descrive Alexieva (2002:219), altre tassonomie che ricorrono a parametri individuali si
basano, per esempio, sulla natura del testo d'origine (source text) classificandolo in base
a: 1) la sua “sostanza” (fonica nel caso di enunciati orali; fonica e grafica nel caso in cui
l'interprete abbia accesso ad una versione scritta della comunicazione orale; e solo
grafica nel caso della traduzione a vista); 2) la posizione che occupa lungo il continuum
oralità vs scrittura e 3) il rapporto di intertestualità che si ottiene dal contributo
dell'enunciatore (il micro-testo in lingua originale) e l'intero insieme di testi prodotti
all'interno dell'evento comunicativo (macro-testo). Secondo Alexieva, tali categorie
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mono-parametro non sarebbero sufficienti a fornire un quadro tassonomico completo
dei vari tipi di interpretazione e propone quindi una prospettiva multi-parametro che si
fonda sul concetto di prototipo come definito da Lakoff (1987); l'evento mediato,
quindi, non è inserito in categorie rigide ma descritto secondo la sua posizione lungo un
continuum che vede agli estremi i membri periferici e i membri centrali (prototipi) di
una stessa “famiglia” di eventi. La tassonomia proposta dall'autrice incorpora i diversi
parametri di ricerca in due macrocategorie:
− modalità di produzione: ci permette di distinguere fra 1) la produzione
ininterrotta del testo originale e la simultanea produzione del testo di arrivo e 2)
la produzione consecutiva del testo d'origine in segmenti testuali più o meno
lunghi.
− elementi della situazione comunicativa: partecipanti primari (parlante e
destinatario), partecipanti secondari (interprete, organizzatore, moderatore),
tema discusso e relativo contesto di enunciazione, tipi testuali utilizzati,
caratteristiche spaziali e temporali dell'evento comunicativo, obiettivo della
comunicazione e obiettivi perseguiti dai partecipanti stessi.
Nel prosieguo della nostra indagine utilizzeremo tale griglia di parametri per definire le
caratteristiche salienti di un particolare tipo di interpretazione, obiettivo centrale del
presente lavoro è appunto lo studio dell'interpretazione di comunità (community
interpreting o liaison interpreting) ossia, l'interpretazione o mediazione culturale nei
servizi sociali, ad esempio nell'ambito di scuole, ospedali, stazioni di polizia, centri per
l'immigrazione, consultori, questure ecc. Secondo la definizione proposta da Cecilia
Wadensjö (1998:49):
Interpreting carried out in face-to-face encounters between officials and laypeople, meeting for a
particular purpose at a public institution is (in English-speaking countries) often termed community
interpreting.
Mentre paesi come la Svezia e l'Australia già dai primi anni Sessanta hanno risposto con
mirate azioni governative al bisogno di servizi di interpretariato che aiutassero gli
immigrati nelle attività sociali quotidiane, altri paesi si sono dimostrati più lenti nel far
fronte a queste esigenze comunicative intra-sociali. Solo negli anni Ottanta e Novanta,
davanti alla crescente difficoltà di comunicazione nell'ambito delle istituzioni del
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settore pubblico (servizi sociali e sanitari), l'importanza dell'interpretazione di comunità
ha iniziato a guadagnare una maggiore visibilità. Come spiega Rudvin (2003), in Italia
non è ancora stato raggiunto un consenso unanime in quanto alla terminologia più
idonea in riferimento a questa purtroppo non ancora consolidata figura professionale, a
volte indicata anche con l'espressione “interprete sociale” o “interprete dei servizi
sociali”. I fattori che differenziano questa tipologia di interpretazione
dall'interpretazione di conferenza, alla quale da sempre sono stati concessi maggior
attenzione e prestigio, sono:
− la vicinanza fisica fra interprete e clienti,
− un divario informativo fra i clienti,
− una probabile differenza di status fra i clienti,
− la necessità di interpretare da e in entrambe le lingue,
− il lavoro individuale e non come membro di un gruppo (Gentile et alii 1996:18).
Come riassume anche Hale (2007:32), l'interpretazione di comunità presenta le
seguenti caratteristiche distintive rispetto alla più studiata interpretazione di conferenza:
una scala di registri che va dal molto formale al molto informale, bidirezionalità
linguistica, un alto livello di prossimità fra i partecipanti che permette un maggior
coinvolgimento nell'interazione, modalità consecutiva (short consecutive e long
consecutive) ma anche simultanea (chouchotage o whispering) e traduzione a vista;
potenziali gravi conseguenze di una resa inappropriata; partecipanti con status diverso
nella maggior parte dei casi, e la presenza di un solo interprete che lavoro da solo.
Negli ultimi due decenni del ventesimo secolo, si è registrato un importante
cambiamento nella percezione del ruolo dell'interprete, da mero “condotto” a partner
essenziale e partecipante attivo nella costruzione congiunta della comunicazione fra
parlanti di lingue e culture diverse; Wadensjö (1998:112), analizzando l'interpretazione di
comunità, afferma che la responsabilità della progressione e del contenuto dell'interazione
è distribuita nella e attraverso la comunicazione stessa e il ruolo dell'interprete va ben oltre
quello di semplice canale deputato alla commutazione linguistica (code-switching);
interlocutori primari e interprete sono infatti coinvolti in un “passo a tre comunicativo”
(communicative pas-de-trois) (Ibid.). Adottare una prospettiva interdisciplinare, che
comprenda materie come l'antropologia linguistica, la sociologia, la sociolinguistica, la
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traduttologia, solo per nominarne alcune, significa riconoscere la complessità e la vastità del
campo di ricerca nel quale si inserisce lo studio dell'interpretazione di comunità, per
decenni relegata ai margini della ricerca accademica che ne ha sottostimato l'importanza
all'interno di una società sempre più multiculturale.
Obiettivo del presente lavoro è considerare i diversi interlocutori per i quali lavora
l'interprete, l'influenza esercitata dai vari contesti comunicativi nei quali si svolge
l'interpretazione e la varietà di limitazioni e condizionamenti che i diversi contesti
impongono ai rapporti interpersonali fra l'interprete e i cosiddetti partecipanti primari.
Circoscrivere lo scopo dell'incontro mediato all'accuratezza linguistica dell'interprete
consentirebbe di individuare con una certa sicurezza regole di condotta che prescrivano
cosa fare e cosa non fare, si creerebbe, inoltre, l'illusione di poter comunicare fra lingue
e culture diverse preoccupandosi esclusivamente della fedele resa linguistica del testo
originale nella lingua di arrivo, indipendentemente dal contesto e dai partecipanti
coinvolti. Al contrario, come si dirà più dettagliatamente in seguito, fattori sociali e
contestuali sono imprescindibili nell'analisi della complessità dell'evento mediato
nell'ambito dei servizi sociali. Nessuna interazione si svolge in un vuoto sociale e
nessuna delle parti coinvolte può essere considerata “invisibile” o imparziale. Ciascun
partecipante all'interazione porta con sè il proprio “io”, i propri valori, i propri
pregiudizi e la propria cultura. Credere che l'interprete sia immune a questo intreccio di
fattori sociali sarebbe poco saggio. Come argomenta Angelelli (2004:29):
When two or more interlocutors interact, they bring to the interaction the self. Many times the interaction
occurs within an institution, which constrains it, and often times, the institution is a reflection of the
society in which it is embedded. In other words, the interaction does not happen in a social vacuum,
several forces affect it. These forces can be found at the level of the interaction itself, the institution in
which it takes place, the society at large, or the interplay of all three levels at the same time.
Dopo una prima presentazione dell'interpretazione di comunità, iniziamo ad analizzare
il ruolo dei partecipanti all'evento mediato nel contesto dei servizi sociali e le relazioni
che questi intrattengono fra di essi.
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1.3 I partecipanti
Fra i partecipanti all'evento mediato nell'ambito dell'interpretazione di comunità si
possono distinguere generalmente quattro tipi di partecipanti: i partecipanti primari;
l'interprete; l'istituzione e, in gran parte dei casi, l'agenzia.
I partecipanti primari sono generalmente due: il primo è il rappresentante dell'istituzione
(struttura socio-sanitaria, questura, scuola, centro di assistenza per immigrati ecc.), il
secondo è il cittadino straniero che si rivolge all'istituzione per ricevere un servizio.
Questi due interlocutori parlano lingue diverse e appartengono a culture diverse; come
spiega Belpiede (in Luatti 2006), gli usi e le consuetudini degli immigrati nel rapporto
con i servizi possono essere molto diversi e di barriera al reciproco rapporto. Basti
pensare alle modalità di relazioni, al concetto di tempo, agli usi alimentari, ai costumi
religiosi, al seguire prescrizioni mediche per persone abituate alla medicina tradizionale
o al rapporto con lo stato. Oltre a tale diversità linguistico-culturale, però, gli
interlocutori primari si differenziano anche da un punto di vista discorsivo: detengono
infatti ruoli conversazionali asimmetrici e complementari allo stesso tempo (Zorzi
1990:7). I ruoli medico-paziente, ufficiale di polizia-cittadino, e in generale la coppia:
impiegato di un servizio statale-utente, sono tutti esempi di coppie complementari e
asimmetriche per quanto attiene il potere interazionale che esercitano durante lo
scambio comunicativo. I diritti interazionali degli interlocutori (ad esempio la
possibilità di fare domande o chiedere spiegazioni) sono stabiliti a priori e sono
socialmente e culturalmente radicati, fanno cioè parte di quelle aspettative e
convenzioni sociali che sono sottintese in ogni intercambio e che sono culturalmente
determinate. Riguardo alle relazioni di potere in gioco durante ogni interazione, Brown
e Levinson (1987:77) offrono la seguente definizione di potere:
Power is an asymmetric social dimension of relative power, roughly in Weber's sense. That is, Power is
the degree to which Hearer can impose his own plans and his own self-evaluation (face) at the expense of
Speaker's plans of self-evaluation.
Qui il concetto di potere si basa sulla teoria weberiana secondo la quale il potere
influenza negativamente il comportamento degli altri o li porta a compiere azioni che
altrimenti questi non avrebbero scelto di compiere. Come argomentano Bowe e Martin
(2007:84), le relazioni di potere esistono come parte del tessuto sociale della
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comunicazione e non dovrebbero essere considerate esclusivamente come derivanti da
negative forze di dominazione esercitate da chi detiene una posizione di potere (es. lo
stato, la polizia ecc.). Il potere, cioè, non è imposto dall'alto, ma è creato dall'interazione
fra i partecipanti in determinati contesti sociali; in altre parole, il potere si configura
all'interno del tessuto linguistico ed è una componente discorsiva, un elemento del
processo interazionale. Gli autori (ibid.) proseguono affermando che le relazioni di
potere fra i partecipanti sono direttamente influenzate dall'accesso alle informazioni e
alle risorse; chi ha la possibilità di accedere alle informazioni godrà quindi di una
posizione di maggior potere durante l'interazione. Per analizzare la relazione fra i
partecipanti, è necessario considerare anche i fattori culturali che sono inevitabilmente
proiettati sull'interazione stessa; secondo Gentile et alii.(1996:19) tali fattori culturali
operano su tre livelli: l'eredità culturale, l'esperienza di vita, e lo status relativo. Gli
interlocutori primari di eventi mediati necessitano della presenza di un interprete per
poter comunicare in quanto parlanti lingue diverse e appartenenti a diversi contesti
culturali; come detto in precedenza, ogni partecipante porta con sé il proprio modo di
vedere il mondo e, più o meno consapevolmente, si comporta secondo norme sociali
proprie della cultura di appartenenza. Nell'ambito dell'interpretazione di comunità, la
differenza di status degli interlocutori è in alcuni casi marcata, le esperienze condivise
sono minime e i fattori esterni condizionano notevolmente l'intercambio comunicativo.
Ciò che determina la differenza di status fra i partecipanti primari non è data soltanto
dall'asimmetria dei ruoli conversazionali loro attribuiti, ma anche dalla differenza
linguistico-culturale; la persona immigrata vive in una “situazione di non contrattualità
sociale elevata” (Luatti 2006:252), ossia, vive in una situazione di disparità di potere,
che aggrava la sua collocazione sociale nel momento del bisogno, ma anche nel
quotidiano rapporto con la realtà sociale. La lingua, inoltre, assume una particolare
rilevanza in questa asimmetria di potere; una delle due lingue rappresenta il potere e
l'autorità nel paese ospitante ed è generalmente la lingua dell'interlocutore
rappresentante dell'istituzione (medico, operatore sociale, poliziotto ecc.), la seconda
lingua è quella del gruppo minoritario che solitamente ha una diffusione limitata nel
paese in questione. Altri fattori sociali e contestuali che influenzano la relazione fra i
due interlocutori sono fattori come: l'età, il sesso, il livello d'istruzione, la classe (sociale
ed economica), il gruppo etnico di appartenenza, la varietà linguistica (standard,
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colloquiale o dialettale) utilizzata. Come spiega Rudvin (2003:178) a proposito
dell'asimmetria di potere fra le parti:
it is generally the host institution who sets the norms and the standards for communication and the
migrant who must abide by and adapt to those norms (…) The client will be expected to adapt to the
institutional norms of the host country, and the client will be judged according to those norms, not
according to the norms of his/her own culture.
L'istituzione, pur non essendo un partecipante fisicamente tangibile dell'interazione, è in
ogni caso parte dello scambio comunicativo come norm-setter o rule-setter,
responsabile cioè della definizione delle norme sociali e comportamentali da seguire e
che divengono criterio di giudizio del comportamento altrui. Fra le dimensioni culturali
individuate da Hofstede (1980) come parametri di misurazione delle differenze culturali
fra le varie nazioni del mondo, la prima dimensione riguarda la “distanza di potere”
(power distance) in riferimento al grado di accettazione delle gerarchie e al livello al
quale i membri di una cultura accettano le istituzioni e le organizzazioni che detengono
potere. I paesi “latini”, asiatici e africani, per esempio, presentano un elevato indice di
distanza del potere, ciò rifletterebbe secondo Hofstede un certo grado di accettazione
dell'ineguaglianza e delle relazioni asimmetriche durante l'interazione. Il ruolo e
l'impatto dell'istituzione sulla comunicazione interlinguistica e interculturale deve
quindi essere analizzando considerando eventuali differenze nel modo stesso di
rivolgersi alle istituzioni, una prospettiva etnocentrica rischierebbe di ignorare, se non
mistificare, le ragioni di determinati comportamenti che sono culturalmente fondati.
Oltre ai partecipanti primari, il terzo partecipante presente all'evento mediato è
ovviamente l'interprete. Tradizionalmente, la figura dell'interprete è stata descritta quasi
esclusivamente dal punto di vista della sua competenza linguistica e la tendenza
principale è stata per decenni espressa dell'equazione: interprete = individuo bilingue
che converte il messaggio dalla lingua1 alla lingua2 e viceversa. Come affermato in
precedenza, la conoscenza linguistica è solo la prima facoltà richiesta all'interprete ma
non è certamente l'unica; il quadro è notevolmente più complesso di quanto possa far
credere un'analisi superficiale del ruolo dell'interprete; come scrivono Gentile et alii
(1996: 65-68) le competenze di un interprete sono molteplici e si possono riassumere
in:
− competenze linguistiche,
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− competenze culturali,
− competenze tecniche,
− capacità mnemoniche,
− competenza professionale.
L'interprete di comunità, a differenza dell'interprete di conferenza, è chiamato a tradurre
da e ad entrambe le lingue interessate; la bidirezionalità linguistica, come abbiamo detto
in precedenza, è una delle peculiarità di questa tipologia di interpretazione. La
competenza richiesta nella seconda lingua deve quindi essere molto elevata, requisito,
come vedremo, affatto scontato anche nel caso dei cosiddetti bilingui naturali. Per
quanto riguarda il concetto di bilinguismo, la letteratura, in particolare con gli studi di
Lambert1 a metà degli anni Cinquanta, ha sostenuto che il comportamento linguistico
dei bilingui è condizionato dall'ordine nel quale vengono apprese le lingue, dal livello di
dominanza relativa fra le lingue conosciute e dal grado di fusione/sovrapposizione fra i
sistemi linguistici interessati. Secondo Lambert, le caratteristiche individuali di ogni
bilingue corrispondenti ad ognuna delle dimensioni precedenti, sembrerebbero avere
ripercussioni sul ruolo stesso dell'interprete. Generalmente, la maggior parte dei bilingui
impara per prima una lingua (madrelingua), sebbene l'apprendimento della seconda
lingua possa avvenire presto durante l'infanzia; questo porterebbe l'interprete ad
identificarsi con maggiori probabilità con i parlanti monolingui della sua lingua madre
piuttosto che con i parlanti monolingui delle altre lingue conosciute, a parità di tutte le
altre circostanze. Naturalmente, ci sono anche altri fattori da considerare; uno di questi è
il diverso grado di padronanza linguistica fra le lingue conosciute che porterebbe a due
importanti conseguenze: in primo luogo, solitamente è più semplice comprendere una
lingua (conoscenza passiva) che parlarla con facilità (conoscenza attiva), di
conseguenza, è più probabile che l'interprete bilingue traduca con maggior successo alla
sua lingua dominante piuttosto che dalla sua lingua dominante alla seconda. La seconda
conseguenza della dominanza linguistica si riferisce alla probabilità che l'interprete si
identifichi con uno dei suoi clienti. In generale, maggiore è la dominanza di una lingua,
più elevata sarà la probabilità che l'interprete si identifichi con i parlanti della lingua
dominante.
1 Lambert, W. (1995), Measurement of Linguistic Dominance of Bilinguals, Journal of Abnormal and Social Psichology 50: 197-200. In Anderson, B. (1976)
16
La competenza linguistica comprende inoltre la “competenza di trasferimento” descritta
da Wills (1982)2 che è data dalle seguenti capacità:
− ability to produce a variety of synonymous or analogous expressions in both languages,
− ability to capture and reproduce register variations,
− ability to recognize and reproduce domain-specific expressions in a form which will be regarded
as “natural” by the respective users,
− ability to combine verbal and non-verbal communication cues from the source language and
reproduce them in appropriate combinations in the target language,
− ability to identify and exploit rhythm and tone patterns of the languages in order to determine
and utilize the “chunks” of speech so as to maximize the efficiency of the interpreting,
− ability to speedily analyze the utterance in the context of the communication in order to
anticipate the direction in which the argument is proceeding and the strategy being used in
developing the argument.
In quanto alla competenza culturale, l'interprete, per far sì che la comunicazione fra i
partecipanti primari abbia successo, deve tener conto delle loro differenze culturali e dei
comportamenti verbali e non verbali culturalmente definiti; la consapevolezza e la
responsabilità di gestire tali differenze sono dovere dell'interprete, da questo punto di
vista operante come mediatore culturale fra le parti coinvolte. Le competenze culturali
di un interprete sono fondamentali per garantire la mutua comprensione di quei
comportamenti divergenti fra le varie culture e che, senza la professionalità
dell'interprete, rischierebbero di dar luogo a malintesi se non a vere e proprie situazioni
di conflitto. Secondo Richard Brislin et alii (1986:41), alla base delle differenze
culturali si trovano differenze nel modo di: 1) categorizzare, culture diverse pongono gli
stessi elementi in categorie differenti (per esempio il concetto di buon amico o di bravo
lavoratore); 2) differenziare, ovvero, trattare l'informazione nuova ed inserirla nelle
categorie conosciute; alcune culture possono dare più o meno rilevanza a certi aspetti o
elementi (per esempio gli obblighi nelle relazioni di parentela); 3) distinguere i membri
del gruppo da quelli fuori dal gruppo (chi non appartiene al gruppo, outgroup member, è
trattato con maggior distanza); 4) stili di apprendimento (il cambiamento, la crescita
personale, il miglioramento ecc. comportano l'apprendimento di nuove informazioni
secondo modalità e stili diversi fra le culture); 5) attribuzione, gli individui osservano il
comportamento di altri individui e a loro volta riflettono sul proprio; i giudizi sulle
2 Wills, W. (1982) The Science of Translation, Tubingen, Gunter Narr Verlag In Gentile et alii (1996) p.66.
17
cause di tali comportamenti sono detti “attribuzioni” e lo stesso comportamento, per
esempio una energica stretta di mano, può essere attribuito a cause diverse in culture
diverse.
Un atteggiamento etnocentrista e pregiudiziale da parte dei partecipanti, e in particolare
dell'interprete data la sua posizione di perno, può inficiare la reciproca comprensione e
l'intero andamento interazionale; il giudizio aprioristico e una visione del mondo
etnicamente centrata costituiscono un'attitudine naturale dell'uomo che risponderebbe ad
almeno quattro funzioni (Ibid.). La prima è detta “funzione utilitaristica o di
adattamento”; gli uomini devono adattarsi ad una realtà complessa e, se avere
atteggiamenti pregiudiziali li aiuta ad adattarsi, allora tali pregiudizi saranno mantenuti
(per esempio, credere che i membri di minoranze etniche non siano in grado di svolgere
certe professioni significa che ci sarà meno competizione per certi incarichi lavorativi).
La seconda funzione è detta “ego-difensiva” in quanto il pregiudizio serve per
proteggere l'immagine che i membri di un gruppo hanno di loro stessi, rafforzando così
il loro senso di identità; questa funzione si lega alla terza che è la “funzione di
espressione dei valori”, mentre la quarta si riferisce alla “funzione conoscitiva”, ossia, al
modo in cui l'informazione viene acquisita ed organizzata. Il pregiudizio verso coloro
che non posseggono lo stesso bagaglio conoscitivo fa sì che questi ultimi siano
considerati ignoranti o sotto-istruiti. La sensibilità interculturale richiesta all'interprete
di comunità è parte integrante delle sue doti professionali; il modo di concepire lo
spazio e il tempo, la famiglia, le differenze di genere uomo-donna e le relazioni fra i due
sessi, il modo di concepire lo Stato e le burocrazie, così come l'uso idiomatico della
lingua sono profondamente radicati nella cultura; così, quando l'interprete non è in
grado di gestire tali divergenze, o non ne è a conoscenza, si rischia di incappare in un
cosiddetto “culture bump” (Rudvin 2003:67), un “urto” fra culture che si produce
quando le aspettative dei partecipanti vengono contraddette da comportamenti
inaspettati.
L'interprete deve possedere inoltre alcune competenze tecniche che riguardano aspetti
come: la disposizione spaziale dei partecipanti, tecniche di controllo della situazione
comunicativa (es. tecniche di interruzione e di allocazione dei turni conversazionali);
tecniche che utilizzano la conoscenza delle dinamiche di gruppo per identificare i vari
ruoli interazionali; tecniche specificamente dirette al turno prodotto dall'interprete (note-
18
taking); tecniche per ordinare l'informazione data dagli interlocutori primari in modo da
ridurre al minimo le omissioni; tecniche volte alla produzione vocale per rendere
l'interpretazione intelligibile e chiara; tecniche finalizzate alla riduzione delle differenze
fra incontri mediati e incontri non mediati dalla presenza di un interprete (es. controllo
del ritmo, delle ripetizioni e delle ridondanze ecc.) (Gentile et alii,1996:67). Agli aspetti
tecnici dell'interpretazione si aggiunge la capacità mnemonica richiesta all'interprete;
nel caso dell'interpretazione di comunità, la modalità consecutiva è quella utilizzata più
di frequente, il che significa generalmente che l'interprete è chiamato a tradurre il
messaggio dopo un minuto, o qualche minuto, che il parlante originario lo ha enunciato.
In questi casi, il ruolo della memoria riguarda in particolare la capacità di fare
collegamenti fra ciò che è stato detto e ciò che un individuo già conosce a proposito del
tema o argomento in oggetto. Di certo, l'interprete può avvalersi di un aiuto prezioso per
facilitare il processo mnemonico e prendere appunti, soprattutto in caso di elenchi,
termini tecnici, nomi propri ecc. L'interprete che prende appunti non è meno
professionale o meno competente dell'interprete che si affida esclusivamente alle
proprie facoltà mnemoniche, anzi, in alcuni casi, gli appunti sono fondamentali per
garantire l'accuratezza dell'interpretazione e per minimizzare il rischio di omissioni o
distorsioni del messaggio originale. Gentile et alii (1996:28) puntualizzano che:
while in some circumstances note-taking will be essential, in others is completely out of place and indeed
detrimental (…) The technique must be unobtrusive and the emphasis must remain on the face-to-face
communication which is the hallmark of liaison interpreting.
Le competenze professionali, infine, riguardano la deontologia dell'interprete come
professionista e si configurano come un corpus di regole di autodisciplina
predeterminate dalla professione; si tratta, cioè, di un insieme di norme di condotta
raccolte in un codice etico (quando presente) che prescrivono i comportamenti e i valori
che l'interprete è tenuto a rispettare, con particolare riferimento al concetto di
imparzialità nei confronti degli enunciatori primari, punto di estrema rilevanza e
delicatezza che affronteremo più accuratamente nel prosieguo della nostra indagine.
Dopo aver passato in rassegna la moltitudine di requisiti che l'interprete di comunità
deve presentare per svolgere con competenza e professionalità il proprio lavoro, siamo
ancor più consapevoli dell'insufficienza e dell'inadeguatezza dei cosiddetti “interpreti
naturali” o “interpreti ad hoc” che, privi di ogni forma di preparazione tecnica e
19
professionale, sono reclutati fra l'equipe medica degli ospedali, fra gli amici e parenti
dell'interessato, fra gli inservienti che operano nella struttura in questione, o più
semplicemente fra coloro che parlano una determinata lingua straniera. Come vedremo
in seguito, a proposito dell'interpretazione di comunità in ambito medico, le
conseguenze di errori di traduzione dovuti all'inesperienza e spesso all'incoscienza di
questi interpreti improvvisati possono essere estremamente serie.
Il quarto partecipante all'evento mediato, nonostante spesso non venga preso in
considerazione, è l'agenzia di interpretariato che rappresenta il terzo cliente cui
l'interprete deve rendere conto. Questo tema è stato trattato, fra gli altri, anche in
occasione della quarta conferenza internazionale sull'interpretazione di comunità, “The
Critical Link 4”, in particolare se ne è occupato Uldis Ozolins (2007:121):
Interpreting agencies are crucial in determining outcomes in community interpreting, but have been little
studied. (…) We identify problematic issues for both parties in agencies' relations with interpreters:
agencies vary in their expectations of interpreters, their own work practices, and engagement in
professional issues; interpreters vary in their own required business practices and professionalism, and the
ability to see the agency as their client. Agencies also crucially set expectations of end-user clients who
purchase language services.
Mentre alcuni interpreti di comunità sono impiegati a tempo pieno e altri lavorano come
volontari, la tendenza che sta emergendo in questi anni è quella dell'interprete freelance,
cioè, un libero professionista che presta servizio in diverse istituzioni e che spesso viene
reclutato tramite agenzie di interpretariato. In paesi come la Svezia e l'Australia,
precursori di politiche regolatrici di questo ambito, tale tendenza è sempre più forte e le
istituzioni governative che inizialmente si occupavano di offrire servizi di interpretariato
sono state ormai sostituite da agenzie private, associazioni locali no profit, e agenzie
statali. Le agenzie di interpreti sono determinanti nel definire l'ambiente lavorativo,
etico e professionale nel quale operano gli interpreti. Per quanto riguarda la relazione
che questi ultimi hanno con le agenzie, bisogna riconoscere l'anomalia di questo settore
data dalla frequente mancanza di standard e codici deontologici e dalla conseguente
eterogeneità di questa categoria professionale; tutto ciò fa sì che le agenzie debbano
spesso confrontarsi con una grande varietà di comportamenti e di attitudini da parte
degli interpreti contraenti. Come spiega Ozolins (2007), dal punto di vista delle agenzie,
la varietà di qualità, professionalità e competenze pratiche che si riscontra fra gli
20
interpreti rende difficile l'instaurarsi di un rapporto professionale con essi.
Comportamenti riguardanti la puntualità (tanto l'arrivare in ritardo quanto il congedarsi
troppo frettolosamente), un atteggiamento del tipo “sì Signore” nei confronti della
direzione dell'agenzia o il perseguimento di codici etici e pratici fra loro idiosincratici,
rappresentano punti molto controversi che rischiano di mettere a repentaglio il rapporto
fra l'agenzia e l'istituzione committente nel caso in cui quest'ultima tragga giudizi
negativi da servizi di interpretariato “poco professionali”. Questo rischio è dovuto anche
all'impossibilità di monitorare la prestazione degli interpreti, esclusi contesti
d'interpretazione pubblici come i tribunali, le agenzie devono quindi contare
esclusivamente sulla fiducia accordata ai loro contraenti. Dal punto di vista degli
interpreti, invece, sembrano esserci poche indicazioni in merito al tipo di rapporto che
devono intrattenere con le agenzie. Nei codici etici, per esempio, non si riscontra
nessuna menzione delle agenzie:
the absence in these codes of any reference to agencies leaves a dangerous “black hole”: all interpreters
have (at least) two clients – the two parties they are interpreting for, but not all interpreters understand
they also often have a third client - the agency through which they obtain work. (Ozolins 2007:124)
Uno dei motivi della carenza di professionalità fra gli interpreti si ricollega proprio alla
loro incapacità di considerare l'agenzia come un terzo cliente: un cliente, cioè, che
seleziona l'interprete per svolgere una prestazione retribuita e che rappresenta quindi,
non solo una fonte di reddito, ma anche il referente al quale rivolgersi per delucidazioni
e commenti prima e dopo la sessione di lavoro svolta presso l'istituzione. Un altro punto
rilevante per comprendere la cornice contestuale entro la quale lavorano gli interpreti,
riguarda poi il rapporto fra le agenzie e il mercato di riferimento composto da coloro
che commissionano i servizi di interpretariato; spesso il mercato nutre false aspettative
nei confronti degli interpreti o addirittura non ha aspettative, molto frequente, infatti, è
la tendenza a vedere l'interprete come un “male necessario” da sopportare per poter
riuscire a comunicare con interlocutori stranieri, ignorando il tipo di ruolo, di
competenze e di impegno effettivamente richiesti.
La centralità delle agenzie in merito alla professionalizzazione degli interpreti è dovuta
alla loro posizione intermedia fra acquirenti (del servizio/prestazione) e interpreti.
Come abbiamo già detto, molto dipende dall'etica dell'agenzia e dall'attitudine che
questa mostra verso il lavoro dell'interprete, Ozolins (2007) sostiene che l'agenzia possa
21
realmente ricoprire un ruolo cruciale a patto che non si accontenti semplicemente che
l'interprete arrivi puntuale e che non sia fonte di lamentele, ma che sia interessata a
sviluppare un rapporto di lavoro professionale e che osservi con occhio critico e
consapevole il ruolo dell'interprete. Per trasformare questo cerchio di relazioni vizioso
in un cerchio virtuoso, è fondamentale che ogni anello sia collegato all'altro, in questo
senso, sarebbe importante che le istituzioni per le quali l'interprete presta servizio
fornissero un feedback, un commento a posteriori, circa il suo operato e che questo fosse
comunicato non solo all'agenzia (referente dell'istituzione) ma anche all'interprete (che
di solito ha come unica referente l'agenzia). Un ulteriore punto di esclusione
dell'interprete da questo “cerchio” di relazioni riguarda la stipula dei termini
contrattuali:
contracts or service agreements between agencies and purchaser, where they exist, are in most cases
negotiated and finalised without reference to the people who will be carrying them out – the contract
interpreters. This leaves the interpreters in the position of being very much price-takers, and in only rare
instances can they be price makers. (Ozolins 2007:128)
Non ci soffermeremo qui sul problema dei bassi livelli remunerativi che gli interpreti di
comunità, in particolare, sono costretti ad accettare, ma l'obiettivo di questo primo
capitolo introduttivo è la presentazione dei partecipanti all'evento mediato, siano essi
fisicamente presenti nel contesto d'enunciazione, siano essi partecipanti del più ampio
sistema di relazioni come forze condizionanti il sistema stesso.
1.4 Le relazioni fra i partecipanti
Per comprendere in che modo le relazioni di potere stabilite dal e nel contesto socio-
culturale di riferimento influiscono sul ruolo dell'interprete, utilizzeremo il concetto di
participation framework elaborato da Goffman (1981) nel descrivere l'interazione
sociale dal punto di vista del coinvolgimento individuale dei co-partecipanti. Il principio
base della teoria di Goffman è che l'organizzazione dell'interazione è il risultato di un
continuo processo di valutazione e rivalutazione dei ruoli (participation status) da parte
degli individui coinvolti, il quale si ripete ad ogni turno di parola. Il contenuto e la
progressione dell'interazione, così come la posizione interazionale dei partecipanti,
22
dipendono dalle relazioni e dalle posizioni reciproche che si instaurano fra gli individui
ad ogni enunciato attraverso potenziali cambiamenti nel loro allineamento
conversazionale (footing). Secondo Goffman, la tradizionale dicotomia parlante-
ascoltatore che propone due ruoli interazionali opposti e reciprocamente escludenti, si
rivela insufficiente e non permette di scomporre queste macro-categorie in elementi
analitici più piccoli e coerenti. Nell'introduzione al suo libro, “Forms of talk”, l'autore
definisce il concetto di participation framework come segue:
When a word is spoken, all those who happen to be in perceptual range of the event will have some sort
of participation status relative to it. (…) If one starts with a particular individual in the act of speaking,
one can describe the role or function of all the several members of the encompassing social gathering
from this point of reference (...) The relation of any one such member to this utterance can be called his
“participation status” relative to it, and that of all the persons in the gathering the “participation
framework” for that moment of speech.(1981:3-137)
Ogni partecipante adeguerà il proprio modo di interagire, parlare ed ascoltare a partire
da come concepisce il proprio coinvolgimento e quello degli altri in un dato evento
comunicativo. In particolare, il concetto di footing, o allineamento conversazionale, è
molto utile per capire la relazione fra interprete e partecipanti primari. Per footing si
intende l'allineamento di un individuo ad un particolare enunciato, sia quando riguarda
un “format di produzione”, come nel caso del parlante, sia quanto riguarda solamente un
“format di partecipazione”, come nel caso dell'ascoltatore. Il principio cardine della
teoria di Goffman è che in ogni momento i partecipanti si trovano in una situazione
scambievole di emissione e di ricezione in una rete di mutue influenze e mutue
determinazioni che accompagnano e caratterizzano l'interazione comunicativa. Durante
il flusso interazionale, infatti, i partecipanti cambiano continuamente il proprio
“allineamento” e tali cambiamenti costituiscono una caratteristica inerente alla
conversazione spontanea. L'etichetta di “parlante” utilizzata nel classico modello
bipolare parlante-ascoltatore, nasconde, secondo l'autore, la complessa differenziazione
del “format di produzione” (production format) che si articola in:
− animatore (animator), ossia, il parlante inteso come “scatola sonora” (sounding
box), mero emettitore di suoni, privo di connotazioni sociali;
− autore (author) che seleziona i sentimenti che vuole esprimere e le parole con le
quali intende codificarli;
23
− principale (principal), che stabilisce la propria posizione attraverso le parole
pronunciate, che esprime i propri pensieri e che si assume la responsabilità di
ciò che dice.
In corrispondenza a questi ruoli di produzione si trovano altrettanti ruoli di ricezione, i
quali si configurano come una serie di attitudini dei partecipanti verso gli enunciati
prodotti dagli altri interlocutori; Wadensjö (1998-92) ha distinto questi ruolo di
ricezione in:
− reporter, che ascolta per ripetere le parole che sente senza assumersene alcuna
responsabilità;
− responder, colui che ascolta per poi parlare come partecipante primario, o
“principale”;
− recapitulator, che ascolta con l'obiettivo di ripetere o riportare ciò che è stato
detto in qualità di “autore”.
Come spiega Mason (1999:8), durante lo scambio comunicativo, l'interprete può
assumere tutti e tre questi ruoli di ricezione:
as responder: (to a courtroom witness who has addressed the interpreter directly) “Please address your
remarks to the attorney, not to me”;
as recapitulator: (relaying the request: “Ask him to spell his name, please) “Please spell your name”;
as reporter: (following a primary party's injunction: “Spell your name, please”) “Spell your name,
please”.
L'esempio precedente è estremamente utile per avere consapevolezza della complessità
e delle sfumature che sottendono ogni scambio interazionale; è importante inoltre
sottolineare che questi ruoli posizionali non sono solo il risultato del libero arbitrio da
parte dell'interprete, ma derivano anche dalle aspettative degli altri partecipanti e dalla
loro idea di interprete. Una chiara dimostrazione di ciò è data dal modo in cui i
partecipanti primari si rivolgono gli uni agli altri: attraverso la terza persona (lui,lei),
tramite il “noi inclusivo”, tramite la seconda persona (tu) o il pronome di cortesia (“Lei”
in italiano) oppure evitando l'utilizzo di forme pronominali. Come commenta Mason
(1999), questa scelta non è necessariamente consapevole e molti esempi autentici tratti
dalla letteratura mostrano come un cambiamento di footing si rifletta in un cambiamento
del pronome utilizzato nel rivolgersi all'interlocutore in questo tipo di eventi mediati.
L'allineamento di ogni partecipante è quindi soggetto ad un costante processo di
24
rinegoziazione e la posizione degli interlocutori primari spesso condiziona lo stile
adottato dall'interprete. Esplorando le dinamiche degli incontri mediati dalla figura di un
interprete, Wadensjö (1998) descrive la posizione di quest'ultimo secondo la teoria del
format di produzione e di ricezione elaborati da Goffman e spiega come l'interprete che
ricopre il ruolo di reporter rispetto ad un enunciato, sarà di conseguenza mero
“animatore” delle parole dell'interlocutore originario. Questa visione rispecchia l'antico
stereotipo dell'interprete come semplice animatore degli enunciati altrui, ma Wadensjö
afferma che per l'interprete è sempre, e per necessità, anche “autore”:
Having the mandate and the responsibility to compose new versions of utterances, interpreters
systematically take the role of “recapitulator”, which means that they relate to their following utterance as
“author” and “animator”, but not as “principal”, a role which is normally occupied by the immediately
preceding speaker. (1998:93)
L'”autore” seleziona le parole con le quali codificare il messaggio originale, in questo
modo l'interprete-autore è agente primario dell'interazione a tre; mentre dal punto di
vista della ricezione detiene il ruolo di “responder” ed è quindi il secondo destinatario
dell'enunciato, dopo l'interlocutore primario.
Ogni partecipante è titolare di diritti e doveri conversazionali e le aspettative dell'uno
corrispondono agli obblighi (interazionali) dell'altro; questi ruoli divengono quindi
interdipendenti laddove aspettative ed obblighi sono le faccia della stessa medaglia:
complementari e al servizio le une degli altri. Come spiegano Erickson e Shultz
(1982:18): “speaking and listening role and role behaviour are thus simultaneously
complementary as well as sequentially reciprocal”; ciò significa che il completamento
dell'azione comunicativa di un individuo da parte di un altro non avviene solo durante
momenti successivi in una sorta di “ping-pong” comunicativo, ma avviene anche
simultaneamente alla produzione dell'enunciato, per esempio l'interlocutore può
dimostrare la propria attenzione e la propria posizione di ricezione attraverso il
comportamento non verbale, detto listening behaviour. L'evento mediato, rifacendoci
ancora una volta agli studi di Goffman, rappresenta un cosiddetto “situated activity
system”: “a face-to-face interaction with others for the performance of a single joint
activity, a somewhat closed, self-compensating, self-terminating circuit of
interdependent actions” (1981:96). Lo studio di un determinato ruolo può essere limitato
ad una particolare situazione (es. il ruolo di un interprete durante un consulto medico
25
mediato) e in tal caso, un “sistema di attività in situazione” coinvolge solo una parte
dell'individuo, ciò che quest'ultimo è in altri contesti e in altri momenti non è rilevante;
ciò che interessa sono le rispettive azioni dei partecipanti, diverse ma interrelate, e il
modo in cui tali azioni rispondono a schemi che definiscono un “sistema di attività in
situazione”.
La chiave di Volta che ci permette di apprezzare la complessità dell'evento mediato sta
nell'adottare una prospettiva dialogica ed abbandonare la visione monologica che la
letteratura ha tradizionalmente utilizzato per osservare la funzione dell'interprete.
L'approccio monologico descrive l'uso linguistico dal punto di vista del “parlante”: il
significato delle parole e degli enunciati è considerato come derivante esclusivamente
dalle intenzioni e dalle strategie comunicative del parlante, mentre i co-partecipanti
sono visti come ricettori delle informazioni codificate dal parlante. I co-partecipanti si
troverebbero così in una sorta di “vuoto sociale” (Wadensjö 1998:8). Il modello
dialogico, al contrario, implica la costruzione e l'elaborazione congiunta del significato
da parte dei co-partecipanti. Il significato è creato nella e dalla attività comunicativa. La
responsabilità del flusso comunicativo e di eventuali incomprensioni è distribuita fra le
parti. Secondo Wadensjö (Ibid.), il primo approccio corrisponderebbe al “discorso come
testo” (Talk as text), mentre il secondo risponderebbe al discorso come attività (Talk as
activity) Considerare la comunicazione mediata non solo come produzione testuale ma
anche come attività e interazione sociale consente di analizzare più a fondo il complesso
sistema di relazioni e azioni in gioco. Da un punto di vista sociolinguistico, i fattori
contestuali assumono grande rilievo nell'analisi del discorso come interazione e il
modello mnemonico di Hymes3 costituisce una griglia schematica di partenza:
SPEAKING (Situation – Participants – Ends – Act sequences – Key – Instrumentalities
– Norms – Genres); utilizzando una prospettiva dialogica possiamo osservare la
produzione discorsiva come un' “inter-attività” che coinvolge tutti i partecipanti e, come
vedremo in seguito, il sistema turnazionale evidenzia con grande chiarezza l'aspetto
corale e partecipativo dell'evento mediato.
3Hymes, D., (1974) Foundations in sociolinguistics: an ethnographic approach, London : Tavistock.
26
CAPITOLO 2
IL RUOLO DELL'INTERPRETE
Definire il ruolo dell'interprete richiede uno sforzo analitico multidimensionale e, come
si dirà in questo capitolo, si tratta di una questione controversa e molto dibattuta sia
dagli studiosi che dagli interpreti stessi. Bisogna innanzitutto fare una distinzione fra
l'attitudine che l'interprete ha verso il proprio ruolo, la “dimensione ideografica”
descritta da Getzels (1958)4, e l'insieme di aspettative che il sistema sociale di
riferimento (sia esso l'ospedale, il tribunale ecc.) ripone nei confronti di questa figura
professionale, corrispondente alla “dimensione nomotetica” (Ibid.). Il ruolo
dell'interprete e il contesto in cui è chiamato a fornire la propria prestazione
rappresentano, come vedremo, due sfere inevitabilmente interrelate. Un'altra importante
distinzione che è opportuno presentare in via preliminare riguarda la nozione di “ruolo”
secondo la prospettiva della psicologia sociale di Goffman (1961), l'autore distingue fra:
“ruolo normativo”, “ruolo tipico” e “performance del ruolo”. Il “ruolo normativo”
corrisponde all'insieme di idee e opinioni condivise circa una determinata attività, ciò
che si dovrebbe fare. Il “ruolo tipico” considera la mutevolezza delle condizioni di
tempo e spazio nelle quali si svolge la prestazione; infine, la “performance del ruolo” è
determinata dall'individualità e dallo stile personale del soggetto che svolge l'attività.
Come vedremo nell'analizzare il ruolo dell'interprete, questi tre aspetti del ruolo sono
spesso divergenti e il ruolo normativo prescritto da eventuali codici deontologici si
discosta frequentemente dall'effettiva performance dell'interpretazione in contesto. Tale
sfasamento risale alla tendenza, superata a partire dagli anni Ottanta, di considerare
l'interpretazione come branca della traduzione, analizzata quindi attingendo dal quadro
teorico della traduttologia, che a sua volta si basa sullo studio di testi scritti. In senso
lato, il compito dell'interprete è stato descritto per decenni come mero trasferimento di
idee e pensieri da un a lingua1 a una lingua2 e, attraverso il linguaggio metaforico, gli
studiosi e gli stessi interpreti hanno definito in vari modi questo ruolo di “persona nel
mezzo” paragonandola a un canale o ponte attraverso il quale comunicano due persone.
Il compito di questo “condotto” comunicativo, però, è assai complesso, in quanto si 4 Getzels, J., W. (1958) Administration as a social process , Chicago: University of Chicago In Gentile et alii.(1996:31)
27
richiede la produzione “fedele” e “accurata” del messaggio da un individuo all'altro
senza che ciò comporti un coinvolgimento personale ed emotivo. Secondo quest'ottica,
il messaggio dovrebbe quindi essere reso con accuratezza, imparzialità e neutralità allo
stesso tempo; un compito tutt'altro che semplice e meccanico la cui complessità risulta
pressochè annullata dalle varie metafore che equiparano l'interprete ad una macchina,
una finestra, un ponte o una linea telefonica. Come argomenta Roy (in Pöchhacker
2004:347):
On the one end, these descriptions attempt to convey the difficulty of the simultaneous tasks in
interpreting while reminding everyone that the interpreter is uninvolved on any other level, at the same
time, the same descriptions encourage interpreters to be flexible, which usually means be involved.
A questa contraddizione di fondo si aggiunge un'altra presupposizione che sembra
essere favorita anche da codici e standard esistenti, secondo la quale per ogni enunciato
esiste un solo significato che, di conseguenza, non è passibile di un processo di
costruzione congiunta da parte dei co-interlocutori. La presupposizione implicita è che il
significato esista indipendentemente dai partecipanti. Così, affermando che il compito
dell'interprete è quello di conferire il significato del messaggio originale in un'altra
lingua, si afferma contemporaneamente la natura monolitica del significato, come un
unico blocco semantico impermeabile al contesto e all'uso contestuale. A questo
proposito, la teoria di Bakhtin (1979)5 sull'interdipendenza fra mente e linguaggio,
analizza la parola come elemento scomponibile in tre aspetti, nella pratica equamente e
simultaneamente rilevanti, ma che da un punto di vista teorico, possono essere
considerati separatamente. Il primo aspetto è quello della parola come entrata
lessicografica con una serie di accezioni potenziali; il secondo è collegato all'uso che gli
altri parlanti ne fanno (quando un individuo scrive o pronuncia una parola, in un certo
senso riproduce ed include valori, emozioni e connotazioni contestuali che altri
individui hanno associato a quella stessa parola in altri momenti enunciativi); il terzo
aspetto della parola si riferisce ad un enunciato specifico in un momento dato (il senso
di una parola deriva anche dall'uso contestuale e soggettivo che ne fa un individuo in
una certa situazione comunicativa e con determinati obiettivi interazionali). In questo
modo, la parola è allo stesso tempo espressione individuale del parlante e elemento di 5Bakhtin, M., M., (1979) Estetika Slovesnogo Tvorchestva. Moscow:Isskusstvo. In Wadensjö (1998: 38-39)
28
collegamento fra gli individui e la situazione d'uso. Come denuncia Angelelli (2004),
molte scuole che offrono corsi di interpretariato condividono questa idea monolitica del
linguaggio e durante le lezioni non è raro che gli studenti si sentano dire dai loro
insegnanti: “il tuo compito è catturare il significato e trasmetterlo in un'altra lingua,
senza contribuire a ciò che si dice”, oppure, “il tuo unico compito è conferire il
significato espresso da un parlante alla lingua dell'altro parlante”. In questo modo, il
ruolo dell'interprete è ridotto a quello di mero codificatore-decodificatore linguistico e
la complessità dell'interazione mediata viene del tutto sminuita; anche da un punto di
vista prettamente linguistico, però, le due lingue interessate durante l'evento mediato
possono presentare differenze lessicali, grammaticali e prosodiche, così come possono
differire in quanto a costruzioni sintattiche, usi idiomatici ecc. Sistemi linguistici diversi
non sono, cioè, sovrapponibili e il messaggio originale spesso può essere reso tramite
più versioni, in questo modo i concetti di adeguatezza, fedeltà e accuratezza risultano
sempre più ambigui.
2.1 L'interprete nella metafora
Reddy (1979:165) spiega il potere che la metafora e l'uso metaforico del linguaggio
possono avere nell'influenzare il nostro modo di pensare e concepire il mondo:
I am going to present evidence that the stories English speakers tell about communication are largely
determined by semantic structures of the language itself. This evidence suggests that English has a
preferred framework for conceptualizing communication, and can bias thought process toward this
framework.
Secondo la metafora del “condotto” (conduit metaphor) di Reddy (1979), le espressioni
linguistiche utilizzate dai parlanti in interazione sono veicoli all'interno dei quali idee e
significati possono essere versati ed estratti, rimanendo immutati nel passaggio; quello
che accade nella comunicazione altro non sarebbe quindi che un mero scambio di
informazioni tra due persone. Per rendere più evidente il modo in cui la metafora del
condotto permea la lingua dei parlanti, Reddy (1979:166) propone alcune frasi che
ricorrono tipicamente in caso di fallimento comunicativo nella lingua inglese:
29
1) Try to get your thoughts across better;
2) None of Mary's feelings came through to me with any clarity;
3) You still haven't given me any idea of what you mean.
Espressioni simili si possono riscontrare anche in italiano (es. “non ho colto l'idea”,
“non ho afferrato il significato delle sue parole”), possiamo notare come le parole e le
idee siano concepite come “pacchetti” di informazioni che si trasmettono da un parlante
all'altro ma, come obietta lo stesso Reddy, se ricevere e scartare questi “pacchetti” di
informazioni è un'azione così semplice e passiva, perchè in alcuni casi si verificano
intoppi, incomprensioni, se non veri e propri fallimenti comunicativi? Per spiegare
quanto la metafora del condotto sia pervasiva nel nostro modo di concepire e descrivere
il linguaggio, Reddy elabora una “contro-metafora” che chiama “the toolmakers
paradigm”; in base a questo paradigma, il messaggio comunicativo, più che veicolo di
“pacchetti” informativi, è presentato come un “progetto” la cui interpretazione da parte
dei co-interlocutori non garantisce una corrispondenza esatta tra i significati elaborati da
chi realizza il progetto e i significati elaborati dal destinatario. Il paradigma del
“progetto” indica inoltre che la comunicazione implica intenzionalità, pianificazione e
considerazione del destinatario al quale rivolgiamo il nostro messaggio. Tornando al
ruolo dell'interprete, possiamo ora affermare che la concezione del linguaggio che è
insita nella nostra cultura e quindi nella nostra forma mentis è una convenzione culturale
radicata che, ad un'analisi più profonda, risulta eccessivamente semplicistica e
fuorviante.
Un'interessante panoramica della varietà di metafore riguardanti la figura dell'interprete
è stata proposta da Roy (in Pöchhacker 2002:345-353) che, in particolare, si è occupata
dell'interpretazione della lingua dei segni per non udenti negli Stati Uniti ed ha
individuato quattro descrizioni che esemplificano il ruolo dell'interprete. Queste quattro
descrizioni vanno da un estremo coinvolgimento personale all'assenza di
coinvolgimento personale dell'interprete:
1) gli interpreti come aiutanti: per molto tempo gli interpreti di persone non udenti
sono stati gli stessi familiari ed amici; fino agli anni Sessanta, infatti, non vi era
distinzione fra interprete e aiutante e l'intervento di quest'ultimo spesso sconfinava
dall'interpretazione vera e propria e comprendeva la possibilità di dare consigli e
addirittura prendere decisioni al posto del parente o amico non udente;
30
2) gli interpreti come condotti o canali: questa descrizione che gli interpreti stessi
iniziarono a promuovere servì loro per allontanarsi dallo stereotipo dell'aiutante ed
acquisire contemporaneamente uno status maggiormente professionale e distante dalle
responsabilità che gravavano sull'interprete-aiutante. Questo rovesciamento di
prospettiva, dal massimo coinvolgimento personale al minimo coinvolgimento
dell'interprete-macchina, sollevò molte contestazioni in quanto gli interpreti iniziarono a
rifiutare ogni responsabilità di eventuali conseguenze della loro prestazione e questa
presa di posizione finì con l'influenzare negativamente la percezione dei consumatori.
Gli interpreti cominciarono così a cercare una descrizione del loro ruolo che fosse meno
radicale;
3) gli interpreti come facilitatori della comunicazione: non appena la metafora del
condotto iniziò a decadere, gli interpreti ricorsero ad una nuova descrizione che
attingeva dalla teoria della comunicazione, secondo la quale, l'evento comunicativo è
costituito da tre elementi base: mittente, messaggio e destinatario. Questa base teorica
presentava l'interprete come canale interposto fra mittente e destinatario deputato a
facilitate la trasmissione del messaggio fra due parlanti di lingue diverse. La descrizione
dell'interprete come facilitatore della comunicazione fu sostenuta anche dal Code of
Ethics della lingua dei segni americana (ASL) che, fra i principi costituenti, stabiliva:
“The interpreter's only function is to facilitate communication. He/she shall not become
personally involved because in doing so he/she accepts some responsibility for the
outcome, which does not rightly belong to the interpreter” (Ibid.)
4) gli interpreti come specialisti bilingui bi-culturali: fra la fine degli anni Settanta
e l'inizio degli anni Ottanta, si cominciò a riconoscere l'importanza della competenza
interculturale oltre che linguistica dell'interprete, così come si sviluppò una nuova
consapevolezza della prospettiva multidisciplinare necessaria per analizzare l'evento
mediato.
31
2.2 Invisibilità vs Visibilità
Il ruolo dell'interprete, o meglio, la percezione che ne hanno gli interpreti, gli studiosi e
i clienti stessi, ha subito varie trasformazioni nel corso degli anni ma la descrizione
meccanicistica è ancora radicata nell'immaginario collettivo e spesso anche nella
valutazione dei diretti interessati. Angelelli (2004) parla del “mito dell'invisibilità
dell'interprete”, una sorta di “fantasma” fra i partecipanti che, come fosse un canale, si
lascia attraversare dal flusso comunicativo convertendolo da una lingua ad un'altra.
Questa prospettiva presuppone l'assenza di interazione fra interprete e partecipanti
primari, l'assenza di interazione fra i partecipanti stessi e, in definitiva, presuppone
l'assenza di fattori culturali e contestuali, come se la comunicazione avvenisse in un
luogo totalmente asettico fra partecipanti privi di ogni connotazione sociale. In questo
non-luogo comunicativo l'interprete fungerebbe da modem-linguistico, un modulatore e
demodulatore della lingua.
In questo modello teorico, l'interprete è una “non-persona” e pertanto non è. Il ruolo
della “non-persona” è uno dei ruoli discrepanti definiti da Goffman (1981) e che
Wadensjö (1998:66) definisce come “persona presente ma trattata come assente”; La
“non-persona” è fisicamente presente all'evento comunicativo ma non detiene né il
ruolo di partecipante attivo né quello di ascoltatore o partecipante passivo. Fra gli
esempi forniti da Goffman (Ibid.), un esempio classico di non-persona è il servitore, un
individuo la cui presenza deve risultare come una non presenza. Altri esempi si
riferiscono ai molto giovani, ai molto anziani, ai malati e a volte agli stranieri che si
presuppone non capiscano, totalmente o in parte, ciò che si dicono i parlanti coinvolti in
una interazione comunicativa. Per molti versi, il concetto di “non-persona” può essere
equiparato a quello dell'interprete invisibile, entrambi propongono infatti un ruolo
meramente tecnico secondo il quale l'interprete non apporta nulla alla sostanza e al
contenuto della comunicazione in atto. Questo ruolo, che spesso coincide con il ruolo
normativo dell'interprete (ossia ciò che l'interprete dovrebbe fare ed essere), si discosta
dalla realtà pratica di questa professione, dalla effettiva performance del ruolo. Una
concezione alternativa del ruolo dell'interprete è quella che considera quest'ultimo come
co-costruttore dell'interazione, ciò che Angelelli (2004) chiama il “modello della
visibilità”. Questo modello presenta l'interprete come individuo visibile, non solo dal
32
punto di vista linguistico, ma visibile anche dal punto di vista delle sue caratteristiche
sociali e culturali attraverso le quali costruisce l'interazione insieme agli altri co-
partecipanti. Secondo Angelelli (2004:11), la visibilità si manifesta quando l'interprete
fa un'azione, o più, delle seguenti:
1) introduce o posiziona il proprio “io” come parte dell'evento comunicativo,
divenendo quindi co-partecipante e co-costruttore;
2) stabilisce norme comunicative, (per esempio rispetto al sistema dei turni di
parola) e controlla il traffico delle informazioni;
3) parafrasa o spiega termini o concetti;
4) sposta il messaggio su e giù lungo la scala dei registri linguistici;
5) filtra le informazioni;
6) si schiera con uno dei partecipanti;
7) sostituisce uno dei partecipanti all'evento comunicativo.
Nel pas-de-trois dell'evento mediato, l'intervento dell'interprete è presente a tre livelli:
interpersonale, istituzionale e sociale; di conseguenza, siccome l'accesso ai servizi e
all'informazione degli individui stranieri dipende interamente dall'interprete,
quest'ultimo detiene un ruolo di potere fondamentale nel permettere ai parlanti di lingue
diverse di soddisfare i propri obiettivi comunicativi. Come afferma Anderson
(1976:218) “interpreters enjoy the advantage of power inherent in all positions which
control scarce resources”.
L'interprete esercita la propria “visibilità” e il proprio potere interazionale in molti
modi. La maniera in cui interagisce con l'interlocutore appartenente ad una minoranza
linguistico-culturale, per esempio, rappresenta un tema d'analisi interessante. A tal
proposito, bisogna ricordare che fin dalle sue origini, l'interpretazione è avvenuta non
solo fra due lingue e due culture diverse ma anche fra due potenze politico-economiche
diverse. Angelelli (2004) propone il classico esempio della Malinche: figlia di una
nobile famiglia azteca, fu data in dono come schiava dal Cacique di Tabasco al
conquistatore spagnolo Hernán Cortés nel 1519. La giovane donna interpretava dal
nahuatl allo yucateco, un'antica lingua maya, mentre Jerònimo de Aguilar, un prete
spagnolo, interpretava poi dalla lingua maya allo spagnolo per Cortés. Durante una delle
comunicazioni mediate fra il conquistatore e le popolazioni indigene, un giovane
messicano (che conosceva lo spagnolo) di nome Orteguita, ascoltò l'interpretazione
33
della Malinche verificando che ciò che stava dicendo corrispondesse alle parole
originarie di Cortés. Questo episodio dimostra quanto la compagine dominante si
preoccupasse dell'accuratezza dell'interpretazione e, allo stesso tempo, non si fidasse
dell'interprete. Data la posizione di potere di Cortés, Orteguita rispondeva unicamente a
quest'ultimo, il quale aveva il privilegio di esigere accuratezza e verificare la plausibilità
dell'interpretazione. Quando la Malinche mediava gli scambi comunicativi fra Cortés e i
nativi vi era una netta disparità fra lo status di potere dei partecipanti coinvolti. La
giovane schiava, attraverso la propria interpretazione, permetteva alle voci e alle
esigenze dei nativi di essere ascoltate ma faceva sì che il messaggio degli oppressori
prevalesse su quello di primi. Il suo ruolo, insomma, non era affatto neutrale e tanto
meno invisibile. Al contrario, la giovane interprete rappresentava un fattore
determinante nell'alterare o nel perpetuare relazioni di potere e solidarietà durante la
mediazione della comunicazione. La visibilità della Malinche come interprete non è un
caso isolato e, come ha testimoniato la storia, gli interpreti hanno continuato nel tempo a
mediare la comunicazione fra la grandi potenze economiche e culturali. Se riteniamo
che gli interpreti e l'interpretazione siano elementi cruciali nella comunicazione fra
parlanti più dominanti e meno dominanti, allora è necessario analizzare l'evento mediato
nella sua complessità; bisogna cioè valutare i diversi interlocutori per i quali lavora
l'interprete, i diversi contesti interazionali e le limitazioni imposte sul ruolo
interpersonale dell'interprete da tali differenze contestuali. Limitare lo scopo dell'evento
mediato all'accuratezza del contenuto o alla competenza linguistica dell'interprete
permette l'identificazione di regole precise riguardo a ciò che l'interprete dovrebbe o
non dovrebbe fare ma, d'altro canto, crea l'illusione che una volta garantita la
trasmissione dell'informazione sia possibile garantire anche la comunicazione
interculturale, a prescindere dalla situazione e dai partecipanti coinvolti. Ma qual è
allora il vero obiettivo che sostiene “il mito dell'invisibilità”? Gli interpreti accettano
veramente la condizione di essere invisibili e privi di potere? E se così fosse, perchè,
invece di valorizzare il potere che hanno come unici professionisti dell'interazione
interculturale, si dipingono o permettono di essere dipinti come semplici codificatori-
decodificatori linguistici? Ed infine, perchè permettono di essere privati del loro ruolo
di centralità nella comunicazione interlinguistica e interculturale? A questi quesiti si
possono dare varie risposte; secondo Angelelli (2004:22) una possibile spiegazione, che
34
potremmo ricollegare alla metafora meccanicistica di Roy precedentemente descritta,
riguarda la possibilità di prendere le distanze dalle responsabilità derivanti
dall'interpretazione; l'essere invisibili e neutrali consente all'interprete di dissociarsi da
eventuali responsabilità e di appellarsi alla natura prettamente tecnica e meccanica,
perciò imparziale, della loro prestazione. Una seconda spiegazione si riferisce al fatto
che l'invisibilità assicura una certa fiducia nei confronti dell'interprete; la fiducia è un
fattore essenziale per un rapporto così breve come quello che si instaura per esempio fra
un interprete di conferenza e il politico, scienziato, diplomatico o studioso per il quale è
chiamato ad interpretare. La fiducia è determinante anche quando l'interprete si trova a
lavorare in situazioni a forte impatto psicologico ed emozionale (in ambito medico o
giuridico per esempio), nelle quali il cliente si trova a dover accordare fiducia ad un
perfetto sconosciuto: l'interprete. Wadensjö (1998:285-286) fornisce una terza
motivazione al “mito dell'invisibilità” sostenendo che questo consentirebbe agli
interpreti di mostrare una finta devozione nei confronti dei codici di condotta che in tal
modo sarebbero sostenuti solo a parole (“paying lip service to official Codes of
Conduct”) ma smentiti, almeno in parte, dalla reale performance pratica.
The uncompromising defence of the ”just translating” model should perhaps be understood as the
interpreters voicing the credo of an occupational group. As is the case with other so-called liberal
professions, the individual practitioner is responsible before her or his colleagues. The single member
either belongs to the association of professionals and accepts his norms, or is excluded and will be
grouped among the non-serious performers or amateurs. Yet, when experienced interpreters account for
concrete instances of interpreting, it is obvious that they are well aware of the fact that interpreting
involves a complexity of activity. (Ibid.)
Secondo l'autrice, il “mito dell'invisibilità” servirebbe all'interprete come giustificazione
per agire da “non-persona”; l'interprete, quando è chiamato a descrivere il proprio ruolo,
preferisce dichiararsi in linea con l'eventuale codice deontologico esistente, cosciente
dell'importanza e dell'autorevolezza dell'impianto normativo, anche se rischia poi di
cadere in contraddizione una volta che, con registrazioni autentiche alla mano, si
analizza l'effettivo svolgimento della sua professione. Il paradosso che ne emerge è che
gli interpreti professionisti dichiarano di agire da non professionisti (asserendo di
limitare il proprio compito alla mera traduzione linguistica) per essere giudicati
professionisti; una bugia detta sapendo di mentire che, paradossalmente, accrediterebbe
la professionalità dell'interprete. Angelelli nel suo libro “Revisiting the interpreter's
35
role” (2004) elabora un inventario del ruolo interpersonale dell'interprete (IPRI è
l'acronimo di Interpreter's Interpersonal Role Inventory) con l'obiettivo di esplorare le
percezioni che gli interpreti stessi hanno del proprio ruolo. L'IPRI è stato formulato per
misurare la collocazione del ruolo dell'interprete lungo la scala avente per estremi i
concetti di invisibilità vs visibilità. Le cinque componenti della visibilità considerate
dall'autrice (2004:50) sono:
1) alignment with the parties;
2) establishing trust with/ facilitating mutual respect between the parties;
3) communicating affect as well as message;
4) explaining cultural gaps/ interpret culture as well as language;
5) establishing communication rules during the conversation.
L'IPRI è il risultato di un'indagine svolta fra 293 interpreti di U.S.A., Canada e Messico
considerando tutti i contesti e le combinazioni linguistiche disponibili nell'ambito
dell'interpretazione di conferenza, dell'interpretazione di comunità (ambito legale e
medico) e dell'interpretazione telefonica. La ricerca è stata improntata a partire da tre
quesiti principali: 1) se esiste una relazione fra il contesto sociale d'appartenenza
dell'interprete e la sua percezione di visibilità a partire dalle variabili di: età, sesso,
livello d'istruzione, reddito e identificazione col gruppo dominante o col gruppo
subordinato; 2) la collocazione di interpreti operanti in diversi contesti lavorativi
(medico, legale, conferenza) lungo il continuum della visibilità/invisibilità del loro
ruolo; 3) se interpreti operanti in ambiti differenti concepiscono il proprio ruolo in
maniera diversa. I risultati di questo studio hanno evidenziato che gli interpreti
considerano il proprio ruolo visibile in ognuno dei contesti lavorativi analizzati; tale
responso si è rivelato particolarmente importante rispetto a quei gruppi per i quali
inizialmente si ipotizzava una natura invisibile e monologica (l'ambito legale e di
conferenza), anche se gli interpreti del settore medico-sanitario percepiscono il proprio
ruolo come più visibile rispetto agli altri. L'indagine ha poi dimostrato che gli interpreti
ritengono di avere un ruolo visibile sia in interazioni faccia a faccia che non, come nel
caso della comunicazione telefonica. Infine, è emerso che esiste una correlazione fra il
contesto di appartenenza sociale dell'interprete e la sua percezione del ruolo, ma
quest'ultima è determinata dal contesto lavorativo più che dai fattori sociali individuali.
A tal proposito, riportiamo alcune delle risposte collezionate da Angelelli (2004:79)
36
all'interno dei questionari sottoposti agli interpreti selezionati nel campione: “many of
the questions are not applicable to my experience as conference interpreter. I can see my
self giving very different answers with respect to a community interpreting situation. I
am not sure that the two are really comparable communication situations”. Questa
risposta è emblematica dell'importanza del contesto situazionale a conferma che gli
eventi mediati non sono tutti uguali (come affermerebbe la metafora del condotto) e che
gli interpreti stessi riconoscono che le loro opinioni potrebbero differire a seconda di
quale dei loro cappelli stanno indossando nel momento in cui rispondono al
questionario. Lo studio ha inoltre dimostrato quanto il “mito dell'invisibilità” sia
saldamente radicato nell'ideologia professionale, nonostante la dichiarata visibilità del
ruolo confermata dagli intervistati. Molti di loro danno per scontato il concetto di
neutralità-invisibilità come capo saldo del quadro normativo della loro professione ed
alcuni hanno espresso anche un certo fastidio di fronte alle domande che indagavano il
loro posizionamento lungo il continuum invisibilità-visibilità, quasi percependo il
proprio mestiere come trascendente rispetto ad ogni parametro umano: “our work is
serious, and we must be respectful no matter what. Of course we can have feelings – we
are human – but we keep them to ourselves. We are not participants; we are channelling
other people's words and feelings and give our all to do so”. Come mostra questa
risposta, la tensione continua fra il “ruolo normativo” e la “performance del ruolo” è un
elemento ricorrente; gli interpreti vivono cioè una condizione di dualità etica-
professionale; aderire al ruolo prescritto ma anche rendere la comunicazione da un
punto di vista pragmatico e quindi andare oltre la prescrizione del Codice. Come risulta
da altre risposte, la neutralità dell'interprete è plausibile ma non necessariamente
naturale e spontanea, anzi, è qualcosa che l'interprete professionista raggiunge
faticosamente: “A consecutive interpreter, doing political work, has to be very careful to
be neutral” (Ibid.). Anderson (1976:213) afferma, a questo proposito, che dietro la
facciata dell'interprete neutrale, (“the nonpartisan interpreter” che agisce come una
“fedele eco” dei partecipanti primari), si nasconde in realtà una considerevole
manipolazione del contenuto comunicativo a favore della moderazione e della
razionalità; in questo modo, l'interprete neutrale rischia di mistificare il messaggio
originale e di violarne la fedeltà attraverso la mitigazione delle parole più forti e
potenzialmente conflittuali. Inoltre, mentre da una parte, gli interlocutori primari si
37
aspettano di vedere massimizzati i propri status interazionali grazie all'azione
dell'interprete, dall'altra, l'eccessivo distacco dell'interprete neutrale è orientato al solo
risultato dell'interazione, non al raggiungimento degli obiettivi comunicativi delle parti:
“rather than being equally pulled in both directions, he might be pulled in neither (…)
and any outcome would be acceptable to him” (Ibid.). Un'ulteriore considerazione
meritano, poi, i cosiddetti interpreti ad hoc, bilingui privi di competenza e preparazione
professionale, che sono ancor più esposti al rischio di allinearsi con una delle parti e
creare legami che possano compromettere l'imparzialità pretesa dai codici di condotta;
Rudvin (2003:147) descrive questa identificazione fra interprete e cliente col termine
“bonding”:
Bonding, i.e. sympathy, empathy and/or identification, between parties (both service provider-interpreter
and client-interpreter) is a natural process, especially when the client and interpreter come from the same
ethnic group, if that group is a small minority, and especially if it is a persecuted minority.
Mason (1999) e Berk-Seligson (in Pöchhacker and Shlesinger 2002) parlano di “in-
group loyalties”, ossia, di lealtà nei confronti dei membri di uno stesso gruppo etnico-
culturale o “solidarietà culturale” (Garzone 2003), mentre Anderson (1976) parla di
“role overload” e “role conflict”. D'altro canto, però è auspicabile la creazione di un
sano rapporto lavorativo fra i tre partecipanti, “positive bonding” (Rudvin 2003:147),
che consentirebbe di instaurare un'atmosfera di generale fiducia e agio per facilitare lo
svolgersi dell'interazione mediata. Come avverte Rudvin (Ibid.) però, un eccessivo
legame fra i partecipanti rischierebbe di inficiare l'imparzialità dell'interprete e di
aumentare la pressione psicologica che grava su quest'ultimo. Nell'ambito medico e
legale per esempio, l'interprete, anche inconsapevolmente, può compromettere o
danneggiare la comunicazione fra i partecipanti; un legame eccessivamente stretto con
una delle due parti (creare un rapporto d'amicizia, ma anche dispensare consigli o
informazioni di propria iniziativa) potrebbe creare delle aspettative nei confronti
dell'interprete che quest'ultimo non sarebbe poi in grado di soddisfare, se non
commettendo illeciti deontologici. Come argomenta Anderson (1976: 212-213),
l'interprete, per qualsiasi motivo, può scegliere di allearsi con uno dei partecipanti e
divenire il cosiddetto Tertium Gaudens (Simmel 1964)6 della triade interazionale; il
proverbiale “terzo” che gode fra i due litiganti, nel caso in cui l'interprete come uomo 6 Simmel, G. (1964) The Triad in Wolf, K. trans. and ed.The Sociology of Georg Simmel, New York: The Free Press. Citato in Anderson (1976:213-214)
38
nel mezzo tragga un vantaggio personale nello schierarsi con l'uno o l'altro
interlocutore.
L'interprete, come detto finora, ha un potere interazionale notevole e persino maggiore
rispetto a quello dei partecipanti primari; in seguito descriveremo in che modo
l'interprete esercita concretamente questo potere all'interno della comunicazione
partendo dalle strategie della cortesia linguistica, la cosiddetta politeness (Brown and
Levinson 1987), attraverso le quali protegge la propria faccia o quella del proprio
interlocutore, influenzando, come vedremo, la percezione dei co-partecipanti.
2.3 La cortesia linguistica e l'interpretazione
Il comportamento linguistico socialmente appropriato a una data situazione
comunicativa è stato definito da Brown e Levinson (1987) con il termine politeness, il
quale non coincide necessariamente con la scelta del registro formale, ma riguarda più
in generale l'appropriatezza della comunicazione relativamente al livello di familiarità-
conoscenza fra i partecipanti, al livello di formalità, al tipo di situazione, alla relativa età
degli interlocutori e al loro sesso. Le realizzazioni linguistiche della cortesia nelle varie
culture richiamano come regole generali di base il principio di cooperazione di Grice
(1975) e il concetto di “faccia” elaborato da Goffman (1967)7. Il primo, formulato da
Grice (1975) nel quadro di una logica filosofica della conversazione, fu presentato per la
prima volta durante una lezione alla Harvard University nel 1967. Grice (1975: 59)
afferma che gli eventi comunicativi sono “tipici esempi di un comportamento, almeno
in una certa misura, cooperativo; ciascun parlante vi riconosce un intento o una serie di
intenti più o meno comuni o almeno una direzione accettata di comune accordo”.
Postula, pertanto, un principio generale, definito appunto “principio di cooperazione”,
che comprende quattro categorie, quantità, qualità, relazione e modo, ognuna articolata
in un certo numero di massime (Dai un contributo né più né meno informativo di quanto
richiesto, Non dire ciò che ritieni falso, Sii pertinente, Evita oscurità di espressione). Il
secondo concetto cui si ricollega la teoria della cortesia è quello di “faccia”, formulato
da Goffman (1967: 5) e definito dall'autore come:“the positive social value a person
7 Goffman, E. (1967) Interaction ritual: essays on face to face behavior, New York: Doubleday.
39
effectively claims for himself by the line others assume he has taken during a particular
contact”. Per non danneggiare questa immagine pubblica, i parlanti adottano strategie
interazionali che evitano il crearsi di situazioni potenzialmente minacciose per la faccia
(avoidant face-work): ad esempio, le formule di cortesia che accompagnano ordini e
richieste o gli espedienti utilizzati per gestire argomenti delicati o imbarazzanti. Brown
e Levinson (1978) fanno una distinzione fra la cosiddetta “faccia positiva” e la “faccia
negativa”; la prima è l'immagine di sé che ogni individuo reclama e proietta
nell'interazione e che desidera che gli altri apprezzino; la “faccia negativa” riguarda
invece la rivendicazione del proprio territorio e della propria libertà d'azione rispetto
alle imposizioni altrui. Come scrivono Bowe e Martin (2007:27): “The notion of
avoiding conflict or confrontation is an integral element of appropriate language usage,
finding its way into the language of almost all social groups – and it is this that is
generally recognised as “politeness”. Al contrario, nel caso in cui uno dei partecipanti
commetta un atto di minaccia, seppur involontariamente, come nelle gaffes,
“participants try to give accredited status as an incident – to ratify it as a threat that
deserves direct official attention – and to proceed to try to correct for its effects”
(Goffman 1967:19). Nel contesto dell'evento mediato, le strategie di cortesia cui i
parlanti primari ricorrono devono essere decodificate e ricodificate opportunamente
dall'interprete, il quale, oltre a barcamenarsi nella corretta resa di atti potenzialmente
minacciosi o difensivi della faccia dei partecipanti, è anch'egli coinvolto con la propria
“faccia” in qualità di terzo co-parteciapante, visibilmente e attivamente presente. Il
modo in cui gli interpreti non professionisti affrontano la gestione della politeness è
molto significativo delle insidie e della complessità dell'evento mediato. Lo studio sugli
“interpreti naturali” di Harris e Sherwood (in Mason 1999:18) racconta il caso di una
trattativa commerciale fra un immigrato italiano in Canada e un canadese anglofono che
comunicano tramite l'interpretazione della figlia bilingue del primo. I partecipanti
primari si comportano seguendo le proprie norme culturali e quando in un momento
cruciale del negoziato, l'italiano – nel quadro delle proprie aspettative culturali- si
rivolge all'interlocutore dandogli dell'imbecille, la giovane interprete ad hoc, mostra
contemporaneamente una consapevolezza bi-culturale ed un'istintiva mossa di
autodifesa della faccia:
Padre: Digli che è un imbecille!
Figlia (al terzo partecipante): My father won't accept your offer.
40
Ciò che l'interprete non professionista può in questo caso non aver considerato è che
una mossa simile può rivelarsi controproducente. Nel caso specifico infatti, il padre, che
conosce l'inglese abbastanza bene da monitorare almeno in parte la performance della
figlia, obietta immediatamente: “perchè non gli hai detto quello ti ho detto?”,
smascherando così il face-saving act della figlia. Anche Knapp-Patthoff e Knapp
(1987:181-201) si sono occupati approfonditamente della prestazione di interpreti ad
hoc, in particolare riportiamo il caso di una conversazione fra un interlocutore tedesco e
uno coreano mediati da una studentessa coreana di venticinque anni, quest'ultima ha
vissuto in Germania per tre anni ed ha appreso la lingua anche nell'ambito scolastico e
universitario. Come notano gli autori, la mediatrice (termine qui utilizzato per denotare
l'interprete non professionista) in alcune circostanze prende iniziative di proprio conto,
per esempio ricorrendo a strategie volte ad evitare conflitti ed incomprensioni. In
particolare, in merito all'uso delle strategie di cortesia (politeness strategies), si descrive
il comportamento del parlante tedesco che, nel formulare una richiesta all'interlocutore
coreano, mette in atto due tipi di strategie di cortesia per mitigare il potenziale face-
threatening act. Il primo tipo di strategia viene denominata “claiming common ground”,
ossia, l'affermazione di un terreno comune che secondo Brown e Levinson (1978:108):
“occurs by indicating that S and H both belong to the same set of persons who share
specific wants, including goals and values”. Tale strategia consente al parlante di
instaurare un'atmosfera amichevole facendo sembrare l'imposizione meno pesante; il
parlante tedesco, infatti, riconosce gli sforzi dell'interlocutore, afferma di comprendere
la posizione dell'altro e mostra solidarietà nel raccontare che lui stesso si era trovato in
precedenza nella medesima situazione. La rivendicazione di un terreno comune viene
ugualmente espressa in risposta al rifiuto o all'accettazione tramite frasi del tipo: “ah sì,
capisco”, “certo, posso comprendere”, “oh sì, è evidente”. Ciò che emerge con chiarezza
da questo studio, è che la mediatrice sceglie in ogni occasione di non tradurre
linguisticamente la strategia di cortesia adottata dal parlante tedesco. Gli autori
escludono la possibilità che l'interprete non abbia capito o che abbia deciso di non
tradurre per motivi di sensibilità culturale nei confronti del partecipante coreano; anche
in coreano, infatti, la strategia dell'affermazione del terreno comune risulta appropriata.
La seconda strategia utilizzata dal parlante tedesco si configura, poi, come atto di
41
cortesia per mitigare l'impatto conflittuale della sua imposizione sull'interlocutore e
riguarda l'utilizzo di verbi, avverbi ed espressioni modali che attenuano la potenziale
minaccia della faccia; (vielleicht, shon, mal che in italiano corrispondo a “forse”,
“anche”, “solo”). Anche in quest'occasione, la mediatrice non traduce le particelle
modali dal tedesco al coreano, nonostante la lingua coreana presenti opzioni linguistiche
equivalenti. La strategia di cortesia del parlante tedesco viene quindi vanificata dalla
mancata traduzione (zero rendition di Wadensjö 1998) da parte dell'interprete. Knapp-
Patthoff e Knapp (1987) analizzando poi le strategie utilizzate dalla mediatrice,
osservano che quest'ultima è molto più preoccupata di salvare la propria faccia piuttosto
che proteggere quella del partecipante tedesco; emblematiche di questo atteggiamento
sono le frasi: “ciò che gli interessa” o “ciò che vuole sapere” in relazione al parlante
tedesco, che denotano una chiara volontà da parte della ragazza di dissociarsi dalle
parole del parlante primario. Da notare, inoltre, il ricorso alla terza persona singolare
(mentre la norma prescrive l'utilizzo della prima persona) e il conseguente cambio di
footing da recapitulator a mero reporter che scarica la responsabilità dell'enunciato sul
parlante primario, optando deliberatamente per lo stile indiretto. L'allineamento, come
detto in precedenza, è soggetto ad una ri-negoziazione costante da parte dei co-
interlocutori e anche l'interprete, come soggetto partecipante, oscilla fra i vari ruoli di
ricezione a disposizione. In conclusione alla loro analisi sulla performance
dell'interprete non professionista, gli autori affermano: “This strongly suggests that she
regards her role as that of an independent, active party in the interaction, who too, has a
face to lose”. (1987:199)
Anche nell'ambito dell'interpretazione legale, è stato dimostrato che a volte l'interprete
utilizza strategicamente gli strumenti linguistici della cortesia per salvaguardare la
propria “faccia”; Berk-Seligson (in Pöchhacker and Shlesinger 2002:281) sostiene che il
caso più frequente di ricorso deliberato alla politeness da parte dell'interprete si registra
nella fase in cui i deputati sono chiamati a rispondere alle domande del giudice;
trattandosi prevalentemente di domande del tipo sì/no, quando l'imputato risponde con
un semplice “Yes” o “No”, spesso l'interprete risponde “Yes, sir” o “No, sir” rendendo
la risposta più cortese. Come si chiede l'autrice:
The question is whether the politeness she is striving for is for the defendant's sake or for her own. Court
interpreters, particularly those employed fulltime in a courthouse, are highly sensitive to the fact that they
42
are employees of the court, and that they are expected to act just as obsequiously before the judge as any
lawyer, defendant, or clerk. (Ibid.)
In questo caso, l'interprete difende la propria faccia e mostra anche un certo grado di
parzialità in quanto maggiormente schierato con l'istituzione che rappresenta, piuttosto
che impegnato a mantenere una posizione equidistante fra le parti. Mason (1999)
concorda nel riconoscere che anche la faccia dell'interprete è coinvolta nell'evento
mediato:
Interpreters are keenly aware of threats to face and adopt politeness strategies aimed at protecting their
own or their addressee's face: downtoning or hedging; introducing conventional apologies. (Mason
1999:13)
Susan Berk-Seligson (Ibid.), inoltre, ha condotto uno studio empirico che evidenzia
quanto gli interpreti in sede processuale possano influenzare la percezione dei giurati
riguardo alle dichiarazioni dei testimoni. L'uso del linguaggio durante il processo, e in
particolare il ricorso alle strategie di cortesia, è un'arma di notevole importanza. Come
emerge dall'analisi sociolinguistica dell'autrice, in questo contesto il modo col quale si
formula un enunciato può essere tanto significativo quanto il suo contenuto
proposizionale. L'indagine parte dalla consapevolezza che la reazione di un individuo
alle parole del suo interlocutore può variare a seconda di alcune caratteristiche
sociolinguistiche quali l'impiego di un varietà dialettale, il tono della voce, l'età, il sesso
ecc. Il metodo selezionato per condurre l'esperimento è quello della cosiddetta “matched
guise technique”, l'indagine sperimentale utilizza, infatti, due registrazioni audio (in cui
un testimone spagnolo viene tradotto all'inglese da un interprete) che sono identiche tra
loro in ogni dettaglio salvo una sola eccezione: nella prima versione l'interprete traduce
dallo spagnolo all'inglese ogni istanza del vocativo di cortesia señor-sir che ricorre negli
enunciati prodotti dal testimone; nella seconda versione, invece, l'interprete omette di
tradurre il vocativo di cortesia. I giurati fittizi chiamati a giudicare il testimone sono
stati selezionati per formare un campione rappresentativo dal punto di vista
sociolinguistico8 ed è stato chiesto loro di fingersi membri della giuria e fornire le loro
8 Il campione che ha partecipato all'esperimento è costituito da 551 persone, in maggioranza provenienti dall'area di Chicago e Pittsburg; il 55% è rappresentato da donne e il restante 44% da uomini; l'età media si aggira intorno ai 27,3 anni; dal punto di vista del livello d'istruzione, il 55% del campione è formato da individui in età scolastica e il restante 45% da persone già inserite nel mondo del lavoro, il 29% degli intervistati non ha più di 12 anni di istruzione scolastica alle spalle (cioè ha frequentato solo la scuola superiore); in merito, poi, all'identità etnica, il campione è così composto: 52,3% anglo-americani,
43
impressioni sul testimone. Ad ogni partecipante è stato sottoposto un questionario con
quattro aggettivi ognuno dei quali misurabile attraverso una scala di sette punti (da 1 a
7): convincente, competente, intelligente e attendibile. L'ipotesi di partenza, era che la
manifestazione della cortesia linguistica nella dichiarazione del testimone potesse avere
qualche impatto sulle impressioni dei giurati e i risultati emersi hanno ampiamente
confermato la tesi iniziale. La differenza fra i valori medi dei 4 attributi relativi alla
prima versione (polite version) rispetto ai valori medi della seconda (non-polite version)
si è rivelata statisticamente significativa per ognuno dei quattro aggettivi. Come
conclude Berk-Seligson (Ibid.), si possono trarre due riflessioni finali da questo
esperimento:
First, even though politeness has been considered to be one of the characteristics of powerless testimony
style, and hence should have a negative impact on jurors, this study finds that just the opposite is true:
politeness gives a witness an enhanced image. Second, what has made the difference between one version
and another is the role played by the interpreter.
Dal momento che il testimone spagnolo risponde esattamente nella stessa maniera in
entrambe le versioni, lo studio di Berk-Seligson dimostra che è solo ed esclusivamente
l'interprete a determinare la differenza nella valutazione dei giurati. Ancora una volta,
l'interprete non solo è attivamente coinvolto e visibile all'interno dell'interazione
mediata, ma è anche una figura determinante dell'andamento della comunicazione
interlinguistica e interculturale. Come ha evidenziato il caso presentato, la sola assenza
del vocativo “signore” (sir) in risposta alle domande dell'avvocato è sufficiente per
suscitare una valutazione più negativa da parte della giuria. Un'omissione
apparentemente irrilevante, che l'interprete ha il potere di gestire sapientemente, ma che
può modificare la reazione dell'interlocutore. Da notare poi, che questa manipolazione
della reazione, se in ambito processuale, ha certamente conseguenze assai più
consistenti che nel contesto di una informale conversazione faccia a faccia.
Nell'esperimento considerato, le strategie della cortesia linguistica hanno consentito di
modificare la valutazione del testimone accrescendo o diminuendo il suo grado di
persuasione, competenza, intelligenza e attendibilità agli occhi della giuria. Come
abbiamo detto in precedenza, la politeness o cortesia linguistica si può esprimere
39,4% ispanici, 6,75 afro-americani, 7% orientali, 0.4% nativi indiano-americani (ecc). (Berk-Seligson 2002:283)
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attraverso vari strumenti linguistici e paralinguistici; nel caso sopra citato, la cortesia è
resa esplicita dal vocativo “sir”, ma ci sono molti altri modi di esprimere la cosiddetta
negative politeness nei confronti della “faccia negativa” dell'interlocutore (espressioni
che esprimono deferenza, formalità, scuse convenzionali ecc.). La complessità delle
relazioni soggiacenti l'interazione mediata è molto più grande di quanto si possa credere
a primo acchito e dagli esempi riportati finora si è dimostrato quanto il ruolo
dell'interprete sia centrale e condizionante. La tradizionale visione meccanicistica
dell'interprete come convertitore automatico della lingua è poco a poco smentita e
smontata dagli esempi offerti dai vari studiosi che si sono interessati a questo tema; a
proposito dell'azione visibile dell'interprete nell'interscambio comunicativo, possiamo
osservare la visibilità dell'interprete proprio a partire dalla sua produzione testuale.
2.4 Decidere cosa e come interpretare
Se adottiamo la prospettiva del “ruolo normativo”, dobbiamo, o dovremmo aspettarci
che l'interprete traduca fedelmente ed integralmente l'enunciato originale dalla lingua1
alla lingua2, conditio sine qua non della professione stessa come prescrivono i codici e
la letteratura. Se invece partiamo dalla “performance del ruolo”, cioè adottiamo una
prospettiva pragmatica e osserviamo l'effettiva prestazione dell'interprete sul campo, ci
renderemo conto, ancora una volta, della discordanza fra ciò che è e ciò che si pensa
dovrebbe essere. A questo proposito, Wadensjö (1998:106-108) propone una tassonomia
dei tipi di interpretazione (types of renditions):
1) close renditions, “interpretazioni strette”: il contenuto proposizionale
dell'interpretazione è uguale a quello dell'enunciato originale e lo stile dei due enunciati
coincide;
2) expanded renditions, “interpretazioni ampliate”: l'informazione è espressa più
esplicitamente rispetto all'originale;
3) reduced renditions, “interpretazioni ridotte”: l'informazione è espressa meno
esplicitamente rispetto all'originale;
4) substituted renditions, “interpretazioni sostituite”: consistono nella
combinazione di un'interpretazione ampliata e una ridotta;
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5) summarized renditions, “interpretazioni riassunte”: il testo corrisponde a due o
più enunciati originali, in alcuni casi possono comprendere parti di due o più enunciati
originali appartenenti ad uno stesso interlocutore; in altri casi, corrispondono a due o più
enunciati proferiti da individui diversi; a volte, l'enunciato prodotto dall'interprete e un
enunciato originale possono fornire insieme il contenuto proposizionale di una
successiva “interpretazione riassunta”;
6) two part or multi-part renditions, “interpretazioni di due o più parti”: sono
definite da due enunciati prodotti dall'interprete corrispondenti ad un enunciato
originale, quest'ultimo viene separato in due parti da un altro enunciato originale
frapposto di cui però non viene tradotto il contenuto nell'interpretazione;
7) non-renditions, “non interpretazioni”: il testo si può considerare iniziativa o
reazione dell'interprete senza una corrispondenza (in termini di traduzione) ad un
enunciato originale precedente;
8) zero renditions, “interpretazioni nulle”: quando gli enunciati originali non
vengono tradotti
Contrariamente a quanto prescriva la norma, la produzione testuale dell'interprete può
presentare varie forme a dimostrazione della complessità del sistema turnazionale
dell'evento mediato e della strategia interpretativa selezionata dall'interprete di turno in
turno. Stando alla prescrizione di codici e studiosi, l'interprete dovrebbe produrre il
proprio turno dopo ogni enunciato di un partecipante primario e questo dovrebbe
configurarsi come “copia” del messaggio in lingua1 ricodificato nella lingua2 secondo il
seguente schema (dove DI sta per dialogue interpreter, P per professionista e S per
straniero che si rivolge all'istituzione o struttura del paese ospitante):
P: Enunciato 1 (nella lingua maggioritaria – di P )
DI: Enunciato 1' (= interpretazione di E1 nella lingua straniera)
S: Enunciato 2 (nella lingua straniera di S)
DI: Enunciato 2' (= interpretazione di E2 nella lingua di P)
P: Enunciato 3 (nella lingua di P)
DI: Enunciato 3' (=interpretazione di E3 nella lingua di S)
ecc.
La tassonomia proposta da Wadensjö (1998) risulta dall'analisi di un corpus di dati
autentici che l'autrice ha registrato nel reparto immigrazione di una stazione di polizia
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svedese, tale classificazione smentisce la regolarità del precedente schema di
riferimento e mostra la varietà di interpretazioni che possono essere prodotte di volta in
volta nella pratica dell'interpretazione. Le “interpretazioni ampliate” aggiungono
esplicitamente informazione a ciò che è espresso nell'enunciato originale; queste
solitamente servono per specificare e disambiguare il significato referenziale e
interazionale di un determinato enunciato originale ma, come asserisce Wadensjö
(1998), aggiungere elementi informativi all'originale può significare esporre la
comprensione del messaggio iniziale ad una più ampia serie di opzioni interpretative
che possono rendere più complessa la ricezione dell'enunciato originale. Altre volte, le
“interpretazioni ridotte” rischiano invece di togliere chiarezza, almeno in parte, al
significato referenziale ed interazionale dell'originale; nemmeno le cosiddette
“interpretazioni strette” o fedeli, però, sono avulse da problematiche interpretative e, in
alcune occasioni, la traduzione letterale del messaggio originale può essere causa di
discrepanze di significato dovute alle differenti convenzioni culturali degli interlocutori
primari.
Procedendo con la classificazione di Wadensjö, troviamo poi le “interpretazioni
sostituite”, ovvero, interpretazioni più complesse nelle quali l'informazione è resa più
esplicita rispetto all'enunciato iniziale comprendendo a volte ampliamenti e riduzioni
allo stesso tempo; una tendenza abbastanza frequente in questo tipo di interpretazioni è
l'aprire il turno con l'informazione data per ultima nell'enunciato originale, in questi casi
l'interprete memorizza e ripristina l'informazione con ordine inverso provocando così
uno spostamento di enfasi da un punto all'altro del messaggio. Nel caso poi delle
“interpretazioni riassunte”, l'interprete produce una versione compendiata di più
enunciati originali emessi da uno o più individui. A questo proposito, l'autrice distingue
fra off-the-record e on-the-record talk, ossia, fra conversazioni ufficiose e conversazioni
ufficiali; nel contesto dell'evento mediato, anche l'interprete è un potenziale
interlocutore di conversazioni ufficiose che può cominciare di propria iniziativa (ad
esempio per chiedere chiarimenti ad uno dei clienti) o nelle quali può trovarsi coinvolto
per volere di una delle due parti (quando uno dei partecipanti si rivolge direttamente
all'interprete dando origine ad uno scambio fra i due che non verrà tradotto all'altro
partecipante primario).
Un'altra dimensione di analisi del comportamento dell'interprete riguarda la dicotomia
47
contributo esplicito vs. contributo implicito. Normalmente l'interprete controlla
implicitamente lo scambio comunicativo attraverso la propria produzione testuale e
attraverso il tipo di interpretazione che produce, così, implicitamente anche la traiettoria
tematica dello scambio risulta condizionata dell'intervento dell'interprete. Esempi di
contributi espliciti da parte dell'interprete si hanno, invece, in caso di richieste di
chiarimenti e commenti riguardanti l'enunciato del parlante precedente; in questi casi
viene prodotta una sequenza monolingue fra l'interprete e uno dei partecipanti primari
escludendo temporaneamente l'altro partecipante primario dalla conversazione.
L'interprete può infatti sollecitare uno dei co-interlocutori a fornire “meta-commenti” in
merito al significato di ciò che quest'ultimo vuole esprimere, a ciò che non ha capito o
alle sue intenzioni comunicative. Roy (2000) definisce l'interprete di comunità come un
“poliziotto della comunicazione” (communication cop), in quanto unico individuo
bilingue nel contesto enunciativo, l'interprete è l'unico partecipante che conosce il ritmo,
il tempo e le pause fra le sequenze comunicative delle lingue in oggetto e in definitiva,
detiene il ruolo di responsabile della gestione del “traffico comunicativo”. Anche
Wadensjö (In Pöchhacker e Shlesinger 2002:367-368), riguardo alla complessità del
ruolo svolto dall'interprete, conclude:
On a macro-sociological level, there is a duality inherent in the function of a dialogue interpreter already
in that she, in a sense, exhibit both service and control. (…) The Dialogue Interpreter on duty in
conversation is constantly confronted with assessing how, and by whom, interlocutors intend their
utterances to be understood. In the course of interaction, the Dialogue Interpreter at work, more or less
consciously, evaluates interlocutors' speakership and listenership.
Tornando alla teoria di Goffman (1981), possiamo affermare che l'interprete è co-
fautore e co-costruttore del “quadro partecipativo” dell'evento mediato in quanto
condiziona e controlla lo status partecipativo degli interlocutori principali; in altre
parole, l'interprete si occupa contemporaneamente di mediare e coordinare la
comunicazione fra i parlanti coinvolti.
Oltre ai tipi di interpretazione che l'interprete può deliberatamente scegliere di produrre,
un'ulteriore prova della sua visibilità e della sua azione è data dal modo col quale i
partecipanti primari si rivolgono a quest'ultimo nell'interscambio mediato. Un aspetto
rivelatore delle dinamiche interazionali che si sviluppano durante l'evento mediato è
costituito, infatti, dal modo in cui i partecipanti primari comunicano fra di essi, se cioè
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parlano direttamente l'uno all'altro come se non fossero presenti barriere linguistiche fra
di loro, oppure se si rivolgono all'interprete sia da un punto di vista paralinguistico
(indirizzando lo sguardo e il linguaggio corporale nella sua direzione) che propriamente
linguistico (in particolare considerando la deissi personale: pronomi di persona,
appellativi, forme verbali). L'analisi della deissi personale è fondamentale per
comprendere il ruolo dei partecipanti all'evento comunicativo e la loro relativa
posizione all'interno dell'interazione. Da una parte il partecipante primario potrebbe dire
“penso che...” oppure, rivolgendosi direttamente all'interprete: “Gli riferisca che penso
che...”; analogamente, l'interprete può utilizzare la prima persona, fingendo di parlare al
posto del parlante primario, oppure rendere il messaggio originale in terza persona, es.
“ha detto che...”. Come afferma Garzone (2003.103), generalmente si può dire che
“citare”, presentare cioè l'enunciato nella stessa forma grammaticale nella quale è stato
formulato (attraverso il discorso diretto), è preferibile rispetto al “riportare” in quanto
permette di prevenire tutte quelle distorsioni che derivano dal trasformare il discorso
diretto in discorso indiretto. La letteratura e i codici di condotta professionale esistenti
prescrivono l'utilizzo della prima persona singolare nell'interpretazione ma, ancora una
volta, la pratica spesso contraddice tale prescrizione, soprattutto nel caso di interpreti
che si improvvisano tali, ma anche nel caso di interpreti professionisti quando, per
esempio, l'interprete decide di proteggere la propria faccia e distanziarsi da un enunciato
potenzialmente conflittuale. Dallo studio che Berk-Seligson (in Pöchhacker 2002) ha
condotto sull'interpretazione legale (detta anche interpretazione giudiziaria o di
tribunale) è emerso che la maggior parte dei testimoni che durante il processo depone
tramite un interprete, poco dopo l'inizio dello scambio mediato, inizia a rispondere
direttamente all'interprete, come se fosse quest'ultimo a porre le domande, piuttosto che
rispondere all'avvocato che effettivamente le ha formulate. Questo comportamento si
riflette a sua volta in due atteggiamenti frequenti: il primo è legato allo sguardo. Nel
rispondere alla domanda, infatti, l'interrogato mantiene il contatto visivo non con
l'avvocato ma con l'interprete; il secondo riguarda le forme di cortesia linguistica che
spesso corrispondono al sesso dell'interprete piuttosto che a quello dell'avvocato.
Quest'ultimo caso è evidente quando l'interprete è donna e l'avvocato uomo, o viceversa.
Come puntualizza la studiosa (Ibid.), negli eventi mediati in ambito legale, è necessario
che l'imputato si rivolga direttamente all'avvocato o al giudice e bisogna evitare che si
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rivolga all'interprete come persona. In ogni caso, di frequente accade l'esatto contrario e
nell'eventualità di una discordanza fra il genere utilizzato dall'imputato e quello
dell'avvocato che lo interroga, l'interprete ha la possibilità di scegliere fra le seguenti
alternative: 1) interpretare letteralmente la forma allocutiva con il rischio di creare
qualche imbarazzo; 2) tradurre la forma allocutiva non correttamente ma in modo tale
che il genere dell'espressione linguistica corrisponda al sesso dell'avvocato; 3) eliminare
la forma allocutiva dall'interpretazione (esempio di zero-rendition); 4) sollevare il
problema davanti al giudice o avvocato. Secondo l'analisi di Berk-Seligson
(Ibid.2002:281), la seconda e la terza opzione sono le più frequenti e la discordanza
delle forme allocutive nel contesto dell'interazione mediata porterebbe ad alcune
conclusioni significative:
even though ideally the interpreter is supposed not to have her own persona in the proceeding, in fact she
is spoken to directly by the witnesses (…) and she often is addressed by lawyers and judges, even though
she is there merely to be a medium through which court officials can communicate with the non-English
speaking and hearing impaired.
In questo capitolo, abbiamo raccolto gli aspetti salienti della partecipazione attiva
dell'interprete all'evento mediato. Partendo dalla metafora meccanicistica dell'interprete
come canale comunicativo strumentale alla comunicazione interlinguistica ma invisibile
dal punto di vista interazionale, abbiamo poi raccolto i risultati emersi dalle analisi di
alcuni fra i maggiori studiosi di questo campo evidenziando quanto il ruolo
dell'interprete sia visibile, presente, condizionante, attivo e decisivo nel contesto
interazionale. L'interprete presente come persona, come partecipante a tutti gli effetti,
nella pratica gode di uno status interazionale estremamente potente, seppur in modo
implicito e a volte inconsapevole. L'interpretazione di comunità sulla quale si focalizza
il presente lavoro, si svolge in un contesto comunicativo molto interessante dal punto di
vista del ruolo detenuto dall'interprete; il contesto istituzionale di riferimento (il
tribunale, l'ospedale, l'ufficio immigrazione ecc.) presenta infatti alcune peculiarità
rispetto all'asimmetria dei ruoli conversazionali e allo “schema” interazionale che viene
a crearsi. Barlett (1982)9 propone il termine schemata per descrivere l'insieme di
conoscenze ed esperienze che l'individuo immagazzina all'interno di strutture mentali le
quali determinano le sue aspettative, il suo modo di concepire i ruoli, le responsabilità e
9 Barlett, F. C. (1982) Remembering. Cambridge: CUP citato in Knapp et alii. (1987:115)
50
le relazioni e attraverso le quali definisce ciò che ritiene importante e tipico. Nella
comunicazione interlinguistica e interculturale, il rappresentante dell'istituzione e il
cliente hanno generalmente schemi di riferimento divergenti e l'interprete assume il
ruolo di mediatore o gate-keeper (Erickson and Shultz 1982; Wadensjö 1998). Il quadro
istituzionale stabilisce a priori cosa ci si attende dall'interazione e cosa è o non è
opportuno fare durante la stessa; in questo contesto, il risultato dell'incontro dipende dal
modo in cui la parte di status inferiore (il cliente, paziente, l'immigrato ecc.)
padroneggia la forma di comunicazione propria dei contesti istituzionali-burocratici del
paese ospitante, ma dipende anche dall'abilità mediatrice dell'interprete e dalla sua
capacità e volontà di considerare la prospettiva dell'altro. Nel prossimo capitolo,
analizzeremo più dettagliatamente le caratteristiche della conversazione mediata e in
particolare della gestione (gate-keeping) conversazionale da parte dell'interprete.
CAPITOLO 3
L'INTERPRETE E LA GESTIONE DELLO SCAMBIO INTERAZION ALE
Come anticipato precedentemente, un aspetto costitutivo dell'evento mediato nell'ambito
dei servizi sociali è la sua natura dialogica e in questa sezione ci soffermeremo sulle
caratteristiche di ciò che Mason (1999:147) definisce: “interpreter-mediated
communication in spontaneous face-to-face interaction”.
Innanzitutto, è opportuno fornire una breve descrizione di ciò che si intende per parlato
dialogico per poi confrontarlo con un particolare tipo di parlato dialogico che è,
appunto, quello mediato dall'interpretazione nel contesto dei servizi sociali.
51
3.1 La natura dialogica dell'interpretazione di comunità
In primo luogo, il parlato è una delle due “strategie d’uso della lingua” (Bernardelli /
Pellerey 1999:54) insieme alla modalità scritta. Poiché la lingua scritta e la lingua
parlata vengono impiegate in contesti comunicativi diversi, queste due modalità
presentano differenze notevoli. Da una parte, il testo scritto che si fonda su un progetto
e su una elaborazione più accurati, dall’altra, il testo parlato che viene pianificato nel
momento stesso dell’enunciazione e che, di conseguenza, è ricco di pause, segnali
discorsivi, riformulazioni, esitazioni e ripetizioni. Carla Bazzanella (1994:14) individua
tre macro-tratti situazionali che caratterizzano il parlato canonico:
1. il mezzo fonico-acustico;
2. un contesto extralinguistico comune;
3. la compresenza di parlante e interlocutore/i (ibid.)
Strettamente collegati al tipo di mezzo sono l’immediatezza e l’irreversibilità del testo
parlato; l’elaborazione di quest’ultimo avviene in tempo reale e, data la minima
possibilità di pianificazione, il discorso viene continuamente modificato rispetto al
progetto iniziale, il parlante cioè svolge un continuo lavoro di aggiustamento del proprio
intervento nel corso del turno. Il testo parlato è inoltre irreversibile, non è possibile
cancellare ciò che è già stato pronunciato e l’unico escamotage di cui il parlante dispone
è la “ritrattazione” (Bernardelli / Pellerey 1999:56). L’evento comunicativo, in quanto
unico e irripetibile data la sua evanescenza, fa sì che l’ascoltatore non solo non possa
valutare con calma e a propria discrezione ciò che già è stato detto, ma costringe anche
l’ascoltatore a seguire il ritmo d’enunciazione selezionato da chi detiene il turno di
parola. Il secondo macro-tratto situazionale riguarda la presenza degli interlocutori nel
medesimo contesto comunicativo e determina la coincidenza fra tempo di codifica e
tempo di ricezione10; la compresenza degli interlocutori (terzo macro-tratto) determina,
infine, la possibilità di feed-back, ossia la possibilità del parlante di verificare durante lo
svolgersi del proprio turno, la reazione dell’interlocutore “che può dimostrare in vari
modi il suo accordo o disaccordo” (Bazzanella 1994:20); privilegio questo di cui
l’autore di un testo scritto non gode, almeno non nelle immediate circostanze dalla
produzione testuale. L'evento mediato, nonostante mantenga la struttura dialogica della 10 Nel caso dell'evento mediato, la coincidenza fra tempo di codifica e tempo di ricezione sarà valida per gli scambi monolingui fra partecipante primario e interprete.
52
conversazione, presenta alcune caratteristiche divergenti rispetto al parlato dialogico
canonico proprio per la presenza dell'interprete che, in linea di principio, occupa ogni
turno dopo l'enunciato di uno dei parlanti primari. I partecipanti primari, non parlano
direttamente l'uno all'altro ma comunicano tramite l'interprete; questa comunicazione a
tre si sviluppa su due livelli e il flusso comunicativo mediato dall'interprete si biforca:
da una parte, lo scambio comunicativo professionista-interprete, dall'altra lo scambio
cliente-interprete:
although the content of the turn originates from each primary participant, the turns acually takes place
between each speaker and the interpreter. The interpreter participates by managing simultaneous talk,
pauses and lags, and turn-taking for other turns. (Roy 2000:7)
Come vedremo, l'intervento frapposto dell'interprete si ripercuote sull'immediatezza del
parlato dialogico, influenzando il sistema dei turni e la funzione di segnali discorsivi,
back-channels ed altri elementi interazionali. Generalmente, l'interprete di comunità
produce il proprio turno di interpretazione appena il cliente ha terminato di parlare, poi
ascolta l'intervento del secondo cliente e lo traduce al primo. La lunghezza del turno
detenuto dal partecipante primario può variare e non esiste una misura precisa, in ogni
caso, il criterio fondamentale è quello di consentire ai parlanti di esprimersi liberamente
secondo il proprio ritmo e la propria velocità. Nella maggior parte dei casi, ciò significa
lasciare che i partecipanti completino il proprio commento o la propria domanda senza
interruzione e poi interpretare l'enunciato originale con un ritmo solitamente più veloce
rispetto al primo. Come spiega Rudvin (2003:175) a proposito dell'interpretazione fra
medico e paziente, la lunghezza dell'enunciato può essere fortemente condizionata dalla
situazione comunicativa stessa:
the length of speech sequence varied greatly, also because the interpreter was sensitive to the patient's
reactions/state of mind -i.e. when the patient was crying the interpreter would not interrupt but allow her
to finish speaking before translating, so the length of turns was directed by the patient's emotional state,
without necessarily being conscious of what she was doing.
In questo caso, Ahlberg11 parla di “comunicazione personale” , nella quale la gestione
del sistema turnazionale dipende ampiamente dalla sensibilità dell'interprete coinvolto.
La frammentazione del flusso comunicativo, spezzato più o meno regolarmente dal
11 Ahlberg, N., (2000) “No five fingers are alike.” What exiled Kordish women in therapy told me, Oslo, Solum. Citato in Garzone/Rudvin 2003:175.
53
turno di interpretazione, fa sì che i partecipanti primari abbiano più tempo a
disposizione per elaborare il proprio intervento; in questo modo viene alterato uno dei
tratti tipici del parlato dialogico individuati da Bazzanella (1994), ossia, la mancanza di
pianificazione dovuta allo svolgersi della comunicazione in tempo reale. Da un punto di
vista temporale, l'immediatezza dello scambio viene meno, si parla appunto di
comunicazione “mediata” dalla presenza dell'interprete e, come scrive Wadensjö
(1998:235): “primary interlocutors may sometimes utlize the “pauses”- when the
interlocutor talks in the unknown language- to reflect upon how to act next”. Gli
interlocutori primari, a differenza di quanto accade nella conversazione canonica, non
sono costretti a seguire il ritmo d'enunciazione l'uno dell'altro, ma devono adeguarsi al
ritmo d'enunciazione del loro interlocutore diretto che è l'interprete; come si dirà in
seguito, anche la possibilità di feedback è modificata, e a volte, compromessa, dalla
partecipazione dell'interprete. Proseguendo con l'analisi del parlato dialogico;
Bazzanella (1994:21-7) associa ai macro-tratti situazionali i corrispettivi linguistici, qui
di seguito riassunti. Al mezzo fonico-acustico corrispondono: frammentarietà della
costruzione del discorso; stile nominale; dislocazioni e topicalizzazioni, frasi scisse;
ellissi e brachilogie; prevalenza di paratassi sull’ipotassi12; cambiamenti di
pianificazione autoindotti, anacoluti; bassa coesione testuale; esitazioni, pause; uso di
connettivi semantici polivalenti; lessico generico; ripetizioni; segnali discorsivi. Al
contesto extra-linguistico comune corrispondono: autocorrezioni; parafrasi; particelle
modali o hedges; tendenza alla ridondanza e ampio uso di deittici. Infine, i corrispettivi
linguistici del terzo macro-tratto situazionale (compresenza di parlante e interlocutore/i)
sono: la deissi (in genere), uso frequente di fatismi; ampio uso di strategie di cortesia;
forte presenza di pronomi di prima persona; cambiamenti di pianificazione indotti
dall’esterno; discorsi simultanei ed interruzioni; segnali discorsivi di conferma o di
disconferma; maggior livello di implicitezza. Nel caso della comunicazione dialogica
mediata, sono soprattutto i corrispettivi linguistici associati al primo macro-tratto (il
mezzo fonico-acustico) a presentare delle discordanze: il turno prodotto dall'interprete
risulta essere infatti più “pulito” rispetto all'originale, proprio perchè ne costituisce una
12 La prevalenza, nel parlato dialogico, di paratassi sull’ipotassi è un aspetto molto dibattuto; in particolar modo, Miriam Voghera ha dimostrato più volte che il parlato conversazionale manifesta un grado abbastanza alto di ipotassi e le sue più recenti conclusioni sono che l’opposizione paratassi/ipotassi non è un tratto che globalmente differenzia scritto e parlato. Per un approfondimento si rimanda a Voghera (1992).
54
riproduzione nella lingua2:
a mediator has to process the turn of a speaker before he or she mediates it. This processing among other
psycholinguistic processes may include a reordering of content elements, deletions of elements that are
irrelevant for rendering a speaker's communicative intention, e.g. repetitive paraphrases within a turn.
(Knapp-Patthoff and Kanpp 1987:195)
Gli aspetti pragmatici, poi, detengono un’importanza particolare nella conversazione,
basti pensare agli elementi della deissi e alle “presupposizioni” e “implicature”13
(Levinson 1985:289) che derivano dal contesto enunciativo stesso: “questo tipo di
interazione, che è stato definito “parlato-parlato”, contiene la massima verbalità
implicita, vale a dire, gran parte del significato dipende dalla situazione”. (Dardano:
1996:203)14 In quanto alla situazione discorsiva, ci sono differenti tassonomie circa le
possibili classificazioni delle modalità conversazionali15, Zorzi propone la seguente:
Nell’ambito della conversazione si possono grossolanamente individuare tre larghe sezioni. Innanzi tutto
gli incontri in cui i diritti dei partecipanti sono dati a priori e, in gran parte dipendono dall’asimmetria dei
ruoli posizionali […]. Una seconda sezione riguarda incontri in cui i partecipanti hanno ruoli
complementari, ad esempio gli incontri di servizio o le interviste. In questi scambi verbali certi compiti
sono determinati a priori […]. Questa divisione è costitutiva dell’incontro stesso, consentendo di
identificarlo come tale. Una terza sezione riguarda la conversazione nella sua accezione comune: le
quattro chiacchiere informali senza una previa pianificazione degli argomenti da trattare e con pari diritto
di intervento dei partecipanti. (Zorzi 1990:7)
13 “La presupposizione è un tipo di inferenza pragmatica che, rispetto all’implicatura, sembra dipendere più strettamente dall’effettiva struttura linguistica delle frasi”. (Levinson 1985:175) Secondo la definizione proposta da Givón (1979:50 cit. in Brown / Yule 2001:29): “[presupposition is] defined in terms of assumptions the speaker makes about what the hearer is likely to accept without challenge”. [T. Givón (1979). On understanding grammar. New York, Academic Press.] La nozione di implicatura , invece, spiega come sia possibile intendere (in senso generale) più di quanto si dice effettivamente; ad esempio: A: sai che ore sono? B: mah, è già passato il lattaio… (Levinson 1985:109) Per un approfondimento si veda H. P., Grice (1975). Logic and conversation. In P. Cole / Morgan, J.L. (1975). Syntax and Semantics 3: Speech Acts. New York, Academic Press, pp. 41-58. 14 M., Dardano (1996). Manualetto di linguistica italiana. Bologna, Zanichelli. 15 De Mauro et alii, come cita Bazzanella (1994:81), individuano cinque gradi di naturalezza:
1) scambio bidirezionale faccia a faccia con presa di parola libera (conversazione in tutte le sue possibili forme);
2) scambio bidirezionale non faccia a faccia con presa di parola libera (conversazioni telefoniche); 3) scambio bidirezionale faccia a faccia con presa di parola non libera (dibattiti, interviste,
interrogazioni ecc.); 4) scambio unidirezionale in presenza di destinatario/i (lezioni, conferenze, omelie, comizi ecc.); 5) scambio unidirezionale o bidirezionale a distanza (trasmissioni radiofoniche e televisive). [Tullio De Mauro / Federico Mancini / Massimo Vedovelli / Miriam Voghera (1993). Lessico di frequenza dell’italiano parlato. Milano, Etaslibri]
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Nel prosieguo di questo lavoro osserveremo che il tipo di conversazione ha importanti
ripercussioni sul sistema turnazionale e in particolar modo sul sistema di allocazione dei
turni di parola; come si può facilmente intuire l’asimmetria dei ruoli posizionali, tipica
degli eventi mediati nell'ambito dei servizi sociali, influisce sulla possibilità e sulle
modalità di presa del turno, è infatti il partecipante che rappresenta l'istituzione la figura
che detiene il maggior potere interazionale e, come vedremo, l'interprete gioca un ruolo
fondamentale nella regolazione del meccanismo di turnazione. Dalla natura dei ruoli
posizionali dipendono i diritti dei partecipanti, vale a dire la possibilità per i partecipanti
di prendere iniziative paritarie (il diritto, ad esempio, di fare domande, di scherzare, di
interrompere, di cambiare argomento ecc.); si vedrà quindi come in una situazione di
asimmetria dei ruoli l’avvicendamento dei turni segua regole diverse e imponga ai
parlanti diritti d’intervento non paritari mente l'interprete svolge il ruolo di gate-keeper
del flusso comunicativo.
3.2 L’analisi della conversazione: il metodo
Esistono diversi modelli teorici per affrontare lo studio della conversazione, questi si
possono distinguere in due tipi principali: l’analisi del discorso e l’analisi della
conversazione. L’approccio cui si farà riferimento in questo lavoro è il secondo.
Entrambe le analisi mirano a fornire una spiegazione del modo in cui avviene la
produzione e la comprensione del discorso, tuttavia differiscono nei metodi adottati che,
in gran parte, secondo alcuni autori, risulterebbero incompatibili. Come scrive infatti
Levinson, le procedure utilizzate dall’analisi del discorso (AD) sarebbero:
a) l’individuazione di un insieme di categorie di base o unità del discorso;
b) la formulazione di un insieme di regole di concatenazione che individuano le
sequenze ben formate (discorsi coerenti) escludendo quelle male strutturate
(discorsi incoerenti). (Levinson 1985:291)
È doveroso, però, precisare che la descrizione che Levinson dà dell’AD non è condivisa
unanimemente, anzi, si tratta di una posizione alquanto controversa; Brown e Yule,
analisti del discorso, si dissociano, infatti, da un metodo analitico che escluda
aprioristicamente frasi “male strutturate” e attribuiscono questo modo di procedere alla
56
grammatica testuale. I due autori affermano, al contrario:
the analysis of discourse is, necessarily, the analysis of language in use. As such, it cannot be restricted to
the description of linguistic forms independent of the purposes of functions which those forms are
designed to serve in human affairs. While some linguists may concentrate on determining the formal
properties of a language, the discourse analyst is committed to an investigation of what the language is
used for. [...] [AD] may be regarded as a set of techniques, rather than a theoretically predetermined
system for the writing of linguistic ‘rules’. (Brown &Yule 2001:1-23)
L’aspetto discriminante tra i due modelli di analisi teorica riguarderebbe, secondo
Levinson, l’importanza attribuita all’intuizione. Mentre l’analisi del discorso (AD)
utilizzerebbe la facoltà introspettiva come strumento chiave nella valutazione dei
fenomeni linguistici, l’analisi della conversazione la eviterebbe scrupolosamente
ritenendola in certi casi fuorviante. L’analisi della conversazione trae origine
dall’etnometodologia, una scuola sociologica fondata da Harold Garfinkel, autore
dell’opera “Studi etnometodologici” (1967) che viene considerata come l’atto fondante
di questa scuola.
L'etnometodologia si fonda sulla nozione che le attività quotidiane sono rese possibili dall’uso di una
serie di assunti e convenzioni, assimilabili a dei metodi, che vengono appunto definite etnometodi. Il suo
obiettivo fondamentale è lo studio del modo in cui i membri della società attribuiscono un senso a quelle
che gli etnometodologi chiamano espressioni indicali, ovvero quelle espressioni il cui significato non è
universale ma dipende dal contesto in cui vengono usate. Ad esempio nella conversazione quotidiana
molti concetti sono sottintesi, come esistesse un tacito accordo, le parole assumono un significato
differente a seconda di come sono dette e del contesto in cui sono dette. L'etnometodologia riconosce il
fatto che la gente comune cerca di fornire spiegazioni ai fatti sociali proprio come fanno gli scienziati,
ovviamente servendosi di un apparato concettuale del tutto diverso. (Grimaldi 2000)
Gli studi di etnometodologia comprendono:
• analisi della conversazione
• studio dell'interazione non verbale
• osservazione partecipante e non partecipante. (Ibid.)
L’approccio conversazionalista, adottato da Sacks, Schegloff, Jefferson, Pomerantz ed
altri, costituisce un modello rigorosamente empirico nello studio dei dati, questo modo
di procedere non ammette dati elicitati o ricostruiti ma considera esclusivamente dati
57
autentici16. I metodi utilizzati sono essenzialmente di tipo induttivo, l’obiettivo è la
ricerca di modelli ricorrenti in un corpus sufficientemente ampio e rappresentativo del
genere conversazionale. È bene precisare, però, che svolgere un’analisi su un corpus che
sia il più ampio possibile non significa avere velleità di completezza ed esaustività, ma
significa, piuttosto, disporre di una raccolta-dati abbastanza ampia da permettere di
identificare le proprietà sistematiche dell’oggetto di studio. Non si parte, cioè, da una
teoria iniziale costruita secondo uno studio di tipo introspettivo-intuitivo, per i
conversazionalisti, infatti, la competence chomskiana17, ossia la competenza innata del
parlante, non costituisce uno strumento analitico valido e scientificamente attendibile;
anzi, spesso l’“impressione” che i parlanti hanno della propria lingua differisce dal
modo in cui effettivamente tale lingua si concretizza negli enunciati prodotti dagli stessi
parlanti. L’analisi della conversazione, come già detto, verte primariamente su dati
realmente prodotti, osservabili e non manipolati dal linguista nel tentativo di farli
rientrare in determinate tassonomie; una teorizzazione prematura e categorie ad hoc
pregiudicano la veridicità degli studi svolti ed è questa la ragione per la quale i teorici
dell’AC evitano teorie che non siano supportate da dati reali. L’obiettivo centrale delle
ricerche che utilizzano l’approccio conversazionalista è la descrizione e la spiegazione
delle competenze che i partecipanti alla conversazione utilizzano durante lo svolgersi
dell’evento comunicativo. Un altro concetto portante dell’analisi della conversazione è,
a questo proposito, l’adozione della cosiddetta prospettiva del partecipante, ossia:
Da un lato il valore di un enunciato è ratificato dalla reazione del co-partecipante, che ne seleziona uno
dei significati possibili e a questo - e solo a questo- reagisce, dimostrando così la sua comprensione e,
insieme, rassicurando il primo parlante dell’efficacia del suo contributo; dall’altro chi parla disegna il suo
discorso tenendo conto del ricevente. (Zorzi 1990:7)
16 Levinson, in merito al modello conversazionalista, scrive: “si presta poca attenzione alla natura del contesto così come potrebbe essere concepito teoricamente in sociolinguistica o nella psicologia sociale (ad esempio, se i partecipanti siano amici o lontani conoscenti, se appartengano ad un certo gruppo sociale, se il contesto sia formale o informale, ecc.) […] l’importanza di questi fattori non è negata a priori: semplicemente, non è presunta. Se è possibile dimostrare in modo rigoroso che i partecipanti utilizzano queste categorie nella produzione di una conversazione, allora possiamo sostenere che rivestano un interesse per l’AC”. (Levinson 1985:299) 17 Per competence Chomsky intende la consapevolezza interiorizzata che ogni parlante ha della propria lingua. “Actual speech behaviour, speech performance, for him (Chomsky) is only the top of a large iceberg of linguistic competence distorted in its shape by many factors irrelevant to linguistics”. La citazione è tratta da: J. R. Searle (1972). “Chomsky’s revolution in linguistics”. The New York Review of Books. June, 29 (1972), pp. 60-1.
58
I primi analisti della conversazione sono quindi i partecipanti stessi che, una volta
identificata la strategia dell’interlocutore, sono in grado di coordinarsi a questa e di
continuare congiuntamente lo sviluppo dell’interazione. Le conversazioni, anche quelle
più informali, sono altamente strutturate e in modo niente affatto casuale: le regole di
interazione (es. distanza fisica tra i soggetti, volume di voce, turni di parola, frasi
standard che aprono e chiudono la conversazione) sono numerose e le persone vi
aderiscono senza accorgersene. Gli etnometodologi osservano e classificano il
comportamento esterno (cioè che può essere osservato direttamente) e inferiscono
l’esistenza delle regole che causano le regolarità comportamentali, nel contesto di
ciascuna situazione specifica. La scelta del metodo da adottare rappresenta un tema
alquanto dibattuto, gli analisti del discorso possono accusare i teorici dell’AC di essere
poco chiari nell’uso delle categorie concettuali e di non prestare la necessaria attenzione
ai fattori contestuali dell'interazione; d’altra parte, questi ultimi possono opporre ai
teorici dell’AD (così come connotati da Levinson) il pericolo che un’eccessiva
preoccupazione per la costruzione di teorie aprioristiche porti a sottostimare i dati
empirici; il dibattito rimane aperto. Cynthia Roy nel suo libro “Interpreting as discourse
process” (2000:9-10) afferma:
discourse is language as it is actually uttered by people engaged in social interaction to accomplish a goal.
My use of the concept is that developed in linguistics where a central goal of most discourse approches is
to discover and demonstrate how participants in a conversation make sense of what is going on within the
social and cultural context of face-to-face interaction.
3.3 L'interprete e l'avvicendamento dei turni di parola
In questa sezione intendo riassumere in termini generali come avviene l’organizzazione
sequenziale della conversazione e, l’alternanza dei turni costituisce, in merito, uno degli
aspetti più interessanti, soprattutto se si vuole indagare il ruolo dell'interprete nel
dialogo fra i partecipanti primari. Come descrive Roy (2000:36): “turn-taking in
interpreting has unique and complex features that actively involve the interpreter in
organizing, managing, constraining and directing the flow of talk”. Innanzitutto è
necessario entrare nella prospettiva della co-produzione dell’evento interazionale:
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parlante e interlocutore/i, cioè, collaborano attivamente alla produzione congiunta della
conversazione. Il prodotto dell’interazione è frutto non solo della collaborazione ma
anche della negoziazione del messaggio linguistico fra i partecipanti; il sistema di
turnazione rappresenta, come vedremo, un elemento importante per comprendere la
costruzione dell’evento stesso. Ad una prima riflessione si può ritenere che durante
l’interazione fra due interlocutori un partecipante A parla, poi si ferma; un altro, B,
comincia, parla, si ferma; in questo modo la distribuzione del discorso fra i due
interlocutori sarà del tipo: A-B-A-B-A-B. Nel caso della comunicazione mediata lo
schema sarà del tipo: A-C-B-C-A-C-B-C. Ad un’analisi più approfondita di tale
meccanismo di alternanza ci si rende conto, tuttavia, che il fenomeno è tutt’altro che
banale. Come afferma Sacks (2007:63) ci sono due regole di base nel processo
conversazionale:
6) in una singola conversazione vi è almeno uno e non più di un partecipante che
parla per volta;
7) in una singola conversazione il parlante cambia.
Ora, com’è possibile che al verificarsi della seconda caratteristica venga mantenuta la
prima?
The question is, then, how does it happen that when somebody stops - though the notion “stop” is clearly
a very problematic kind of notion- somebody starts up. And only one starts up. That is to say, on the one
hand, people don’t start up talking just anywhere in that talk of others. And on the other, if conversations
take place with more than two people present, then there’s a question as to how it could happen that at
each given point somebody stops and somebody starts up, only one starts up. (Sacks 1992:32)
Ovviamente esistono situazioni in cui accade che più di un parlante prenda la parola
nello stesso momento e che ci sia quindi più di un parlante per volta, così come si
possono verificare situazioni di silenzio; un altro fattore determinante è quello culturale,
in alcune culture l'ordinata alternanza dei turni è la regola, come nel caso delle culture
anglo-americane di cui Wierzbicka (1991:80)18 descrive il modello turnazionale nel
seguente modo:
SOMEONE IS SAYING SOMETHING NOW
18 Wierzbicka, A. (1991) Cross-cultural pragmatics. The semantics of human interaction, Berlin: Mouton. Citato in Garzone 2003:71-72.
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I CAN'T SAY SOMETHING AT THE SAME TIME
I CAN SAY SOMETHING AFTER THIS
In altre culture, invece, il sistema dei turni è maggiormente soggetto a comportamenti di
tipo competitivo e vi è una più alta frequenza di interruzioni e sovrapposizioni secondo
lo schema (Ibid.):
YOU SAID SOMETHING NOW
I WANT TO SAY WHAT I THINK ABOUT THIS
I WANT TO SAY IT NOW
Garzone (2003:72) osserva che, durante l'interazione mediata, tali divergenze culturali
possono emergere in maniera problematica, in questo caso, è compito dell'interprete
professionista riuscire a supplire a queste differenze attraverso la gestione del sistema
turnazionale.
Nella conversazione si può individuare una classe di “luoghi” nei quali le due
caratteristiche di fondo descritte da Sacks (1992) risultano particolarmente
problematiche. Questi “luoghi” sono detti punti di transizione o punti di rilevanza
transizionale (PRT), definiti in termini sintattici e intonativi19. Nel PRT intervengono le
regole per il passaggio del turno da un parlante all’altro, questo non significa però che in
quel punto il parlante debba necessariamente cambiare, ma solo che tale passaggio può
verificarsi. Il cambio ordinato del turno è visto come gestito attivamente dai partecipanti
che collaborano a costruire unità di discorso al termine delle quali è appropriato il
cambio. Sacks et alii20 (cit. in Zorzi 1990:15) distinguono due parti: la componente
costitutiva del turno e la componente allocativa. Le unità sulle quali opera il sistema
turnazionale sono determinate da vari tratti della struttura linguistica superficiale: “sono
unità sintattiche (frasi, proposizioni, sintagmi nominali, ecc.) parzialmente identificate
come unità di turno da strumenti prosodici e, soprattutto, intonazionali” (Levinson
1985:301). Una volta che il parlante di turno inizia il proprio intervento dovrebbe essere
possibile per l’ascoltatore prevedere quali unità il parlante ha intenzione di utilizzare 19 “All’interno di un discorso più largo, che comprende tutto il comportamento del parlante (e non solo quello verbale), Duncan (1973:37) ha identificato sei elementi che funzionano come segnali indicanti la fine del turno in atto : intonazione discendente; allungamento della sillaba finale; termine dei gesti delle mani; sequenze sociocentriche, tipo but uh, or something, you know; diminuzione del volume della voce in concomitanza delle sequenze sociocentriche; completamento dell’unità sintattica”. (Zorzi 1990:56) [S. Duncan (1973). Some signals and rules for taking speaker turns in conversations, in non-verbal communication. New York, Oxford University Press.] 20 Herbert Sacks / Emanuel A. Schegloff / Gail Jefferson (1974). “A simplest systematics for the organization of turn-taking in conversation”. Language, 50, 4, pp. 696-735.
61
così da capire quando l’espressione è completa. In altre parole, sembra che il parlante,
fin dalle prime parole, possa far comprendere all’ascoltatore con quale unità sintattica
si accinge a formare il proprio turno. Al punto di completamento, PRT, è possibile il
passaggio della parola secondo le seguenti regole (Sacks et alii 1974 cit. in Levinson
1985:302) in cui P è la persona che detiene il turno e S è il parlante successivo:
Regola 1: si applica inizialmente al primo PRT di ogni turno
a) Se P seleziona S nel corso del suo turno, deve smettere di parlare e far proseguire S; il passaggio
avviene al primo PRT dopo la selezione di S;
b) Se P non seleziona S, un altro partecipante qualsiasi può auto-selezionarsi; il primo che parla
conquista il diritto al turno successivo;
c) Se P non ha selezionato S e nessun altro si auto-seleziona, P può (ma non è necessario che lo
faccia) continuare a parlare (può, cioè, reclamare il diritto ad un’ulteriore unità di turno).21
Regola 2: si applica a tutti i PRT successivi:
Quando P ha applicato la regola (1c) si possono applicare le regole (1a-c) ai PTR successivi in modo
ricorsivo, finchè non si effettua il cambio di parola.
In merito all'interazione mediata, balza immediatamente all'occhio che tali regole per il
passaggio del turno risultano in parte sospese; data la barriera linguistica che divide i
partecipanti primari; questi ultimi per comunicare devono ricorrere all'interprete, quindi,
nonostante l'enunciato originale sia rivolto al co-interlocutore primario selezionato, sarà
in ogni caso l'interprete a detenere il turno di parola successivo per rendere il messaggio
dalla lingua1 alla lingua2; in altre parole, è l'interprete che si occupa della gestione e
della allocazione dei turni conversazionali. Inoltre, si può affermare che, almeno in linea
teorica, l'individuazione del PRT è palesata dal fatto che i partecipanti primari
segmentano il proprio intervento per consentirne l'interpretazione. Questa
frammentazione del flusso comunicativo introduce un certo grado di artificialità nella
conversazione fra i partecipanti primari che comunicano indirettamente fra di loro,
infatti, come spiegano Gentile et alii. (1996:42):
Ideally, the parties should speak in as natural a way as possible, as if they are communicating with each
other in the same language. In reality people sometimes find that the very presence of an interpreter
creates stress, which affect the way they speak or address each other.
21 “Data la flessibilità delle unità sintattiche costitutive dei turni e i modi di proseguire consentiti dalla regola (1c), non ci sono limiti rigidi per l’estensione temporale del turno”. (Levinson 1985:303)
62
La comunicazione interpretata introduce un certo grado di artificialità nell'interazione
fra i parlanti primari; come spiega Roy (2000:67), molti dibattiti accademici, libri, saggi
e pamphlet scritti sul tema dell'interpretazione presuppongono implicitamente che, se i
partecipanti primari parlano e rispondono reciprocamente, allora gli interpreti
dovrebbero dar loro l'illusione di comunicare direttamente l'uno con l'altro; sebbene, a
volte è possibile che i partecipanti abbiano l'impressione di parlarsi direttamente, la
realtà non è questa. I partecipanti primari comunicano sempre ed inevitabilmente con
l'interprete. Nonostante la comunicazione sia rivolta all'altro interlocutore principale,
spesso accadere infatti, come descritto nello studio di Berk-Seligson riportato
precedentemente, che i partecipanti primari parlino e mantengano il contatto visivo con
l'interprete piuttosto che con l'altro interlocutore principale; di conseguenza anche le
forme pronominali della deissi personale risultano sfasate e l'altro partecipante primario
non è più il “tu” rispetto a chi parla ma diventa “lui/lei” mentre l'interprete stesso viene
promosso al ruolo di interlocutore diretto.
Secondo l'analisi di Wadensjö (1998:234), le caratteristiche inerenti all'evento mediato
che divergono dalla tradizionale conversazione monolingue e che costituiscono
potenziali fonti di problemi sono:
• the non-standard turn-taking and the fragmentation of discourse;
• the non-standard back-channeling;
• the non-standard dependence on a mediator's understanding, or, seen from the point of view of
the person in the middle;
• the non-standard position of understanding on other's behalf and of understanding other'
(mis)understandings
Il fatto che ogni turno, almeno in linea di principio, sia seguito dal turno di
interpretazione, pone l'interprete al centro dell'intero sistema di alternanza dei turni e
limita lo spazio interazionale di ogni partecipante; chi parla, infatti, non può occupare
uno spazio interazionale a propria discrezione, ma deve tener conto della capacità
mnemonica dell'interprete che, ovviamente, non è illimitata. Come nota Wadensjö
(Ibid.), a volte può accadere che la segmentazione del messaggio in più parti
inframezzate dai turni di interpretazione possa compromettere la coesione del
messaggio; inoltre, al termine del turno prodotto dall'interprete, l'altro partecipante
primario potrebbe auto-selezionarsi e assumere il controllo dell'interazione anche se il
63
parlante iniziale non intendeva cedere il turno. La necessità di interrompere l'enunciato
dopo periodi più o meno lunghi per consentirne la traduzione, implica infatti la
possibilità di perdere il turno di parola proprio perchè al termine del turno di
interpretazione si viene a creare un PRT. Ciò che risulta da quanto detto finora è che
l’avvicendamento dei turni richiede un complesso meccanismo di coordinazione fra i
partecipanti i quali, lo ribadiamo, cooperano attivamente allo sviluppo dell’interazione e
richiede inoltre un notevole sforzo di coordinazione da parte dell'interprete.
Nei casi in cui il numero dei partecipanti alla conversazione aumenta (almeno quattro
parlanti), lo sforzo di coordinazione richiesto per un avvicendamento ordinato è
maggiore, la regola base del “si parla uno alla volta”, infatti, rimane invariata; ciò che
potremmo avere è semmai che “si producano più conversazioni parallele” (Sacks
2007:66). Infine bisogna tener presente che il meccanismo che regola l’avvicendamento
dei turni è un insieme di regole con opzioni prevedibili che, come abbiamo visto,
operano turno per turno, si può quindi parlare di sistema a gestione locale. Nessuno dei
partecipanti è escluso a priori dalla conversazione e, d’altra parte, non si ha un elenco
preordinato dei turni che si susseguiranno durante la scambio interazionale. Il passaggio
della parola opera turno per turno e questo fa sì che ogni partecipante sia tenuto a
seguire la conversazione in quanto potenzialmente selezionabile per il turno successivo.
Nello studio condotto da Roy (2000) sull'incontro mediato fra una professoressa
universitaria e uno studente non udente, l'autrice individua quattro categorie di turni che
sono estendibili agli eventi mediati in generale: turni regolari, turni che nascono da
pause o ritardi, turni iniziati dall'interprete e turni sovrapposti. I turni regolari, detti
anche “passaggi dolci” (smooth transitions), assomigliano ai turni regolari nella
normale conversazione faccia a faccia:
it is accomplished in the same language at a typical turn transition, a failing intonation indicating a stop. It
is accomplished quickly with relative smoothness and without hesitations, lenghty pauses, or outward
indications of a kink in the interactional rhythm. This is a regular turn. (Roy 2000:70)
Il turno regolare è così chiamato proprio perchè costituisce un passaggio che avviene
con facilità e naturalezza; diverso è il caso dei turni che nascono intorno a pause, ritardi
o silenzi. Un particolare tipo di silenzio, tipico della conversazione mediata, è il silenzio
che si produce mentre i partecipanti ascoltano (o guardano nel caso della lingua dei
segni) il turno di interpretazione. Il grado di tolleranza rispetto alla lunghezza di una
64
sequenza silenziosa dipende dallo stile conversazionale di un individuo; il silenzio,
comunque, crea un'opportunità per i partecipanti di appropriarsi del turno ed iniziare a
parlare. Roy (Ibid.) distingue fra ritardi regolari (regular lags) e ritardi lunghi (lengthy
lags); i ritardi regolari si possono trovare in due punti:
one instance occurs at the beginning of a speaker's talk whereby an interpreter does not begin to interpret
immediately but starts a few moments later. Another instance occurs when one speaker's stream of talk
ends, the interpretation continues, and then stops (Roy 2000:76)
Il ritardo regolare corrisponde alla percezione di ritardo accettabile dei partecipanti
nell'attesa di ricevere il messaggio interpretato; il ritardo, invece, può essere percepito
come troppo lungo quando uno dei partecipanti ritiene che il tempo di verbalizzazione
del messaggio in lingua2, o il tempo di silenzio, sia eccessivo e quindi reagisce e
verbalmente e/o non verbalmente. Questo tipo di ritardo produce generalmente due
effetti: o il partecipante a disagio riprende la parola, oppure manifesta il proprio disagio
attraverso il linguaggio del corpo mentre resta in attesa. Come argomentano Gentile et
alii. (1996:36): these “pauses”, while inevitable, work against a constant and focused
flow of communication”. Il tempo necessario all'interpretazione può quindi produrre un
effetto di distorsione, il cliente può pensare che la risposta non sia connessa alla sua
domanda e può chiedersi se tale discrepanza nasca dal prestazione dell'interprete o si
debba attribuire all'altro partecipante. Nonostante questi potenziali fattori di minaccia
della comunicazione, un punto importante evidenziato da Roy è che, durante
l'interazione interpretata, i partecipanti imparano a gestire e ad interagire nel quadro
dell'evento mediato:
primary speakers who lack experience with interpreters seem to learn about interpreted interaction as they
progress through a meeting. (...) In this meeting, the Professor “learns” how interpreted conversations
proceed so that her tolerance for lag and her wait for a response grow, gradually increasing in length.
(Roy 2000:80)
Un altro tipo di turno, poi, è quello iniziato dall'interprete. Nella gestione del sistema
turnazionale l'interprete si occupa dell'allocazione del turno di parola ai partecipanti
primari e questo costituisce l'intervento principale dell'interprete nel sistema di
alternanza dei turni. Ci sono però altri esempi in cui il turno nasce dall'iniziativa
dell'interprete: il primo è il turno offerto dall'interprete ad un partecipante che ha
segnalato il proprio desiderio di dire qualcosa, un particolare interessante è che per
65
offrire un turno l'interprete deve a sua volta occuparne uno, segno della complessità del
sistema interazionale. L'interprete, inoltre, può anche prendere il turno per sollecitare o
favorire l'intervento di uno dei partecipanti; Roy (2000) esaminando la registrazione
dell'evento mediato, osserva che ad un certo momento la comunicazione arriva ad un
punto di stallo e l'interprete esorta lo studente a dire qualcosa attraverso un semplice
gesto (l'interprete apre la mano e si sporge lievemente in avanti guardando il ragazzo).
Con questo gesto, cioè attraverso il comportamento non verbale, l'interprete influenza
sia la direzione che il risultato dell'evento comunicativo; d'altra parte, lo studente
riconosce l'indizio paralinguistico dell'interprete ed inizia a parlare. In questo caso: “the
interpreter takes a self-motivated turn and influences the outcome of the interaction (…)
he has assisted the student in behaving appropriately during this interaction” (Roy
2000:98). Ancora una volta, l'interprete emerge come figura di primo piano, non solo
come “tecnico della lingua”, ma anche come gestore/direttore della comunicazione
stessa. Infine, un ulteriore tipo di turno ricorrente durante lo scambio conversazionale è
il turno sovrapposto. A questo proposito, è bene fare una distinzione preliminare fra
sovrapposizione ed interruzione: la prima descrive un momento nel quale due o più
partecipanti parlano contemporaneamente; la seconda riguarda invece la percezione dei
partecipanti rispetto ai diritti e doveri conversazionali di ogni individuo (determinata
dalla lunghezza, dall'effetto e dal punto in cui si interrompe), la sovrapposizione, quindi,
non è necessariamente considerata interruzione. A quest'ultimo tipo di turno, data la sua
frequenza e ricchezza di sfumature, nonché risvolti interazionali, dedicheremo la
prossima sezione.
3.4 Le interruzioni
Un altro meccanismo cui i parlanti ricorrono più o meno inconsapevolmente, ma che in
realtà è regolato da un insieme di norme riconosciute, è quello delle interruzioni.
A prescindere dal disordine apparente che interruzioni e sovrapposizioni fra i parlanti
possono portare nel sistema di turnazione, contravvenendo alla regola basilare del “si
parla uno alla volta”, vedremo invece come esse contribuiscono a confermare la validità
di certe norme conversazionali. Tali disfluenze dell’evento interazionale sono spesso
66
ritenute devianti dal normale andamento della conversazione, sono cioè considerate
eccezioni, eventi unitari, errori casuali dei parlanti; al contrario, la regolarità con la
quale tali “deviazioni” si manifestano permette di riconoscerle come strategie
conversazionali che i parlanti utilizzano per il conseguimento di determinati effetti
comunicativi. Questi “intoppi” della comunicazione costituiscono una fonte di verifica
delle strategie seguite, cioè implicitamente riconosciute dai parlanti, perché si
presentano quando l’organizzazione ipotizzata non opera nel modo previsto. Si crea
quindi un “problema” che i partecipanti devono risolvere o ponendovi un rimedio o
traendo forti inferenze dall’assenza del comportamento atteso. In questo modo le regole
della conversazione vengono ribadite e rafforzate, in alcuni casi l’infrazione di una
regola viene marcata con un intervento del tipo: “Sto parlando io! Lasciami finire!” che
ne palesa l’esistenza.
Definire cosa intendiamo con il termine interruzione non è affatto semplice
contrariamente alla familiarità che il parlante comune percepisce nel suo utilizzo.
Studiosi di diverse aree hanno tentato in vari modi di precisare la natura concettuale di
questa parola; Zorzi raggruppa i molteplici punti di vista in due macro-categorie: gli
approcci psicologici e gli approcci descrittivi. I primi provengono dall’ambito della
psicologia sociale e, per quanto eterogenei, possono essere accomunati per due aspetti:
non affrontano il problema definitorio delle interruzioni, usando perlopiù il termine nell’accezione
comune, con il rischio - ovvio- di mescolare fenomeni diversi; collegano le interruzioni a un certo numero
di variabili sociali e individuali (sesso, ruolo sociale, intelligenza, caratteristiche della personalità, ecc.)
con particolare attenzione al rapporto interruzioni/potere. […] Un limite dell’approccio, per quanto
interessante, è l’indefinitezza di categorie concettuali quali intelligenza, loquacità, aggressività, fiducia in
se stessi, ecc., inoltre questo approccio non aiuta a distinguere né i vari tipi di parlato simultaneo, né tanto
meno, a collegarli ad altri aspetti dello scambio verbale22. (Zorzi 1990:85)
Gli approcci descrittivi si differenziano da quelli psicologici perchè partono da criteri
oggettivi per distinguere fra interruzioni e sovrapposizioni, mirano cioè a rintracciare
delle regolarità, dei meccanismi ricorrenti che possano fungere da discriminanti
nell’analisi dei vari fenomeni. Si individuano così tre diversi parametri:
a) il tempo; 22 Zorzi (1990:85) riporta alcuni risultati: gli uomini interrompono più delle donne; le donne più sicure di sé interrompono quelle meno sicure; la frequenza delle interruzioni è inversamente proporzionale all’ansietà sociale e direttamente proporzionale alla disponibilità e alla loquacità dell’interlocutore.
67
b) l’effetto che ha la sovrapposizione sul turno del primo parlante;
c) la posizione dell’interruzione all’interno dell’intera sequenza.
Il criterio preso in considerazione per quanto riguarda il tempo è la lunghezza della
sovrapposizione; in seguito alla misurazione acustica di questi fenomeni si definisce
sovrapposizione involontaria ogni parlato simultaneo che dura una parola mentre
stringhe più lunghe di parlato sovrapposto si classificano come interruzioni.23
Riguardo all’effetto che l’interruzione produce sul turno del primo parlante, si fa una
distinzione fra le interruzioni che hanno successo, ossia quelle in cui chi interrompe
impedisce al primo parlante di completare il proprio turno, e quelle che non hanno
successo, cioè quelle in cui chi interrompe non riesce a portare avanti il suo discorso
prima che l’altro abbia terminato.
Il terzo parametro riguarda la posizione dell’interruzione, ciò che interessa non è tanto
l’effetto della sovrapposizione/interruzione sul primo turno quanto il “luogo” in cui
inizia la sovrapposizione.
By overlap we tend to mean talk by more than a speaker at a time which has involved a second one to
speak given that a first was already speaking, the second one has projected his talk to begin at a possible
completion point of the prior speaker’s talk. If that’s apparently the case, if for example, his start is in the
environment of what could have been a completion point of the prior speaker’s turn, then we speak of it
as an overlap. If it’s projected to begin in the middle of a point that is in no way a possible completion
point for the turn, then we speak of it as an interruption. (Schegloff 1978, cit. In Zorzi 1990:87)24
La distinzione fra sovrapposizione ed interruzione è quindi data dal “quando” il turno
del secondo parlante inizia rispetto al turno del primo, in questo modo il punto di
rilevanza transizionale diventa determinante per il riconoscimento dell’una o dell’altra.
Ricapitolando, il secondo parametro definisce il termine sovrapposizione in rapporto
all’effetto che il turno interrompente ha sul turno del primo parlante, mentre il terzo
parametro lo definisce in base al momento in cui interviene il secondo parlante. Il
discorso simultaneo (DS) si produce quando due o più interlocutori parlano
23 Questo studio è stato condotto da Zimmerman e West nel 1975 (cit. in Zorzi 1990:85). Per un approfondimento si veda: D. Zimmerman / C. West (1975). Sex role, interruptions and silence in conversation. In B. Thorne / N. Henley (eds.). Language and sex. Rowley MA, Newbury House, pp. 29-105. 24 E. Schegloff (1978). On some questions and ambiguities in conversation. In W. U. Dressler (ed.). Current trend in textlinguistics. Berlino, De Gruyter, pp. 81-102.
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contemporaneamente; la lunghezza del discorso simultaneo varia da una sola parola ad
un enunciato intero. Spesso il DS riguarda semplicemente una interiezione, come nel
caso dei back-channels (ad esempio: “mmh”, “sì sì”, “esatto”, “è vero”).
Nel contesto dell'evento mediato, le interruzioni si inseriscono in un quadro
interazionale reso ancor più complesso dalla la natura mediata della comunicazione.
Innanzitutto, avendo ribadito lo status partecipativo dell'interprete, è ragionevole
aspettarsi che anche quest'ultimo produca dei turni interrompenti e la realtà
dell'interpretazione lo dimostra con una certa frequenza. I motivi più ricorrenti di
interruzione da parte dell'interprete sono perlopiù due: la richiesta di spiegazioni e
chiarimenti ai partecipanti primari, e la necessità di reclamare il proprio spazio per
l'interpretazione del messaggio. Una delle caratteristiche che Wadensjö (1998:234) ha
descritto come potenziale “trouble source”, già citata in precedenza, è: “the non-
standard dependence on mediator's understanding”. La comprensione del messaggio
originale non è solo il primo passo nel processo interpretativo ma ne costituisce anche
un momento cruciale; ovviamente, prima di interpretare è fondamentale che l'interprete
abbia capito l'enunciato del partecipante primario. Come avvertono Gentile et alii.
(1996:45): “it is far worse to misinterpret or distort the meaning because a necessary
clarification or explanation was not sought than to interrupt the flow of the interview in
order to seek such clarification/explanation”. Gli stessi autori spiegano che, in genere, le
persone che sono solite lavorare con l'affiancamento di un interprete, considerano
interruzioni di questo tipo da parte dell'interprete come indice di professionalità e
preoccupazione per il successo della comunicazione, non attribuiscono cioè tali richieste
di spiegazioni all'incompetenza di quest'ultimo. Una variabile che influisce sul grado di
flessibilità e accettazione di un'interruzione di chiarimento è il tipo di contesto nel quale
si svolge l'interpretazione; Hale (2007) fa notare che l'atmosfera privata, informale e
rilassata del consulto medico, per esempio, favorisce la richiesta di ripetizione o di
chiarimento da parte dell'interprete in caso di fraintendimenti o ambiguità,
permettendogli, ciò nonostante, di mantenere un certo distacco professionale e fornendo
un'interpretazione accurata. Mentre in ambito processuale o investigativo si utilizzano
strategie inquisitorie che rendono l'interrogatorio volutamente insidioso, l'obiettivo del
medico è quello di essere il più chiaro possibile e preciso con il paziente; in questo caso
l'interprete può quindi trarre vantaggio dallo scopo dell'interazione e, se necessario,
69
richiedere le dovute delucidazioni. La seconda situazione principale di interruzione
opportuna da parte dell'interprete si ha, invece, quando uno dei partecipanti parla per un
lasso di tempo troppo esteso (relativamente alla capacità mnemonica dell'interprete). In
questo caso l'interruzione è appropriata; ricordiamo, infatti, che l'interprete deve gestire
sequenze logiche e sintattiche spesso complesse, oltre a padroneggiare due sistemi
linguistici e culturali diversi. Così, quando l'interprete si trova a dover immagazzinare
tutta in una volta una quantità eccessiva di informazione, è bene che interrompa il
parlante di turno per segnalare l'esigenza di frammentare l'enunciato e permetterne
l'interpretazione. L'interruzione, in ogni modo, non deve essere né troppo brusca né
troppo timida:
The interpreter does not abruptly stop a speaker mid-sentence because he/she thinks that's enough. On the
other hand, if out of excessive politeness or timidity the interpreter allows any speaker to go and on, there
are two possible outcomes, both negative in terms of the objectives of the interview. Either the segment
will be abbreviated or summarised, or the interpreter will ask the speaker to repeat the whole thing.
(Gentile et alii. 1996:46)
Per quanto concerne, poi, le interruzioni prodotte dai partecipanti primari nel corso dello
scambio interazionale, utilizziamo la classificazione proposta da Bazzanella (1994:175-
181) la quale prende in considerazione tre variabili:
- il discorso simultaneo (DS);
- il completamento dell’enunciato da parte del primo parlante (CE);
- l’ottenimento del cambio di turno da parte di chi interrompe (CT).
Dall’incrocio di queste variabili Bazzanella (1994) individua così vari tipi di
interruzione:
− Interruzione semplice (I), caratterizzata dalla presenza di DS, dall’ottenimento
del cambio di turno da parte di B, e dal non completamento dell’enunciato di A.
− Back-channel (BC) e Interruzione vana (IV), entrambi caratterizzati dalla
presenza di DS, dall’assenza di cambio di turno da parte di B, e dal non completamento
dell’enunciato di A. Mentre però i back-channels sono prodotti senza l’intenzione di
prendere il turno, e quindi l’assenza di cambio di turno da parte di B è del tutto
prevedibile, nel caso dell’interruzione vana l’assenza di cambio di turno da parte di B è
un insuccesso, in quanto il cambio era stato tentato intenzionalmente.
− Interruzione silenziosa (IS), caratterizzata da assenza di DS, l’interlocutore
70
prende il turno senza che il parlante di turno abbia terminato il suo enunciato (perché si
trova in un momento di difficoltà, o nella pianificazione del discorso, o nella ricerca di
un termine che gli sfugge), approfittando così del silenzio altrui (sovente anche per
supportarlo).
− Suggerimenti lessicali (SL), come l’interruzione silenziosa, si trovano nel caso
di assenza di DS e di assenza di completamento dell’enunciato, ma non ricercano (e
conseguentemente non ottengono) il cambio di turno.
Anche in quest'occasione, dobbiamo ricordare che mentre nella conversazione canonica
A e B sono i due co-interlocutori che parlano direttamente l'uno all'altro, nella
comunicazione mediata avremo A, B e C e con maggiori probabilità l’interruzione
evverrà nello scambio monolingue fra uno dei parteciapnti principali e l'interprete;
raramente infatti si darà il caso che un partecipante interrompa l'altro partecipante
primario, proprio per la mancanza di comprensione o inintelligibilità del messaggio fra
due parlanti di lingue diverse. I tipi di interruzione così classificati da Bazzanella,
trasposti all'ambito dell'interpretazione, riguarderanno soprattutto lo scambio fra
interprete e partecipante primario e, in maniera abbastanza prevedibile, il soggetto che
più di ogni altro sarà sottoposto ad interruzioni e sovrapposizioni nel corso dell'evento
mediato sarà l'interprete. Garzone (2003:102) sostiene che i motivi alla base di questa
frequenza di interruzioni rivolte al turno dell'interprete si possono spiegare sotto vari
punti di vista: il primo riguarda il supposto status inferiore dell'interprete all'interno
dell'interazione; il secondo riguarda la sua non autonomia come interlocutore, avendo la
funzione di rendere comprensibile il messaggio fra i due (o più) interlocutori principali.
In questo modo, non appena il partecipante ritiene di aver capito il contenuto
dell'interpretazione, è abbastanza naturale che questo voglia rispondere
immediatamente, anche se il turno dell'interprete non è ancora stato completato.
Come emerge dall'analisi di Roy (2000), è invece abbastanza frequente che si
sovrappongano più parlanti contemporaneamente; come abbiamo detto la
sovrapposizione ha un impatto diverso rispetto all'interruzione vera e propria riguardo ai
parametri di tempo, effetto sul turno del primo parlante e posizione all'interno della
sequenza enunciativa. Se due parlanti iniziano un turno nello stesso momento e si
sovrappongo al turno di interpretazione che l'interprete sta ancora elaborando (quindi ci
sono tre parlanti sovrapposti), quali sono le alternative a disposizione dell'interprete per
71
poter gestire la comunicazione? Roy (2000:85) individua quattro opzioni principali:
1) l'interprete può fermare uno dei parlanti (o entrambi) e permettere all'altro di
continuare. Se l'interprete blocca entrambi, o l'interprete indica chi dei due può prendere
la parola, oppure uno dei due seleziona il parlante successivo.
2) L'interprete può momentaneamente ignorare il turno sovrapposto di un
partecipante, memorizzare il segmento, continuare il turno di interpretazione rivolto
all'altro partecipante e poi produrre la sequenza “conservata in memoria” subito dopo la
fine del turno. Questa possibilità dipende dall'abilità mnemonica dell'interprete e dal
giudizio dell'interprete riguardo all'importanza o all'impatto del segmento enunciativo
lasciato in sospeso.
3) L'interprete può ignorare totalmente l'enunciato sovrapposto
4) l'interprete può momentaneamente ignorare l'enunciato sovrapposto e dopo aver
terminato l'interpretazione per un partecipante può “offrire il turno successivo” all'altro
o può indicare in qualche modo che il turno è stato violato.
Riguardo alla prima alternativa, l'interprete non solo è chiamato ad agire nell'arco di
qualche frazione di secondo, ma deve anche considerare una molteplicità di fattori:
l'importanza del messaggio, le relazioni fra i parlanti e lo status relativo. Roy (Ibid.)
indica inoltre l'importanza dei cosiddetti “segnali di contestualizzazione”
(contestualization cues) sottolineati soprattutto da elementi prosodici, che possono
indicare l'importanza del frammento sovrapposto e indirizzare l'interprete verso
l'opzione più adeguata. Nel caso in cui l'interprete decida di ignorare momentaneamente
l'enunciato sovrapposto e trattenerlo nella memoria possiamo identificare tre situazioni:
l'interprete ritiene che quel segmento non sia cruciale al momento; il segmento
sovrapposto è breve, semplice e facile da ricordare; oppure, l'interprete prevede che uno
dei parlanti sta terminando o è in procinto di terminare il proprio turno. L'autrice
individua inoltre due tipi di enunciati sovrapposti che possono essere ignorati
dall'interprete senza influenzare il risultato comunicativo in maniera rilevante. Il primo
è dato dai cosiddetti back-channels o fatismi che servono per confermare l'attenzione o
esprimere accordo ( “mm-hmm”, ah ah”, “certo” ecc.) Il secondo tipo è altrettanto breve
ma possiede un maggior contenuto semantico, per esempio: “sì, posso farlo”, “no, ne
dubito”. Come spiega Roy (2000:90), in questi casi è preferibile che l'interprete ignori
72
tali enunciati prodotti in sovrapposizione per due ragioni fondamentali: innanzitutto
perchè non è fisicamente possibile ascoltare due persone contemporaneamente e parlare
allo stesso tempo, soprattutto dal momento che il compito dell'interprete presenta una
complessità tale da richiedere la piena attenzione di quest'ultimo. In secondo luogo,
l'inserimento dell'enunciato sovrapposto potrebbe sorprendere il parlante che detiene la
parola e portarlo a sospendere il turno perchè è stato interrotto nel suo ragionamento.
Come conclude Roy (2000:92):
Overlapping talk is a difficult dilemma for interpreters. Whether the talk is simply of a back-channel
nature or will become an attempt to take a turn does not deny its potential meaningfulness in
conversational activity. As overlapping talk begins, any prediction as to its eventual length is a fifty-fifty
probability. (…) Acting on these communicative “problems”, and acting on them quickly, is what
interpreters do.
Rispetto alla conversazione spontanea che prevede parità di diritti d’intervento per i
partecipanti, l'evento mediato nell'ambito dei servizi pubblici presenta l'asimmetria dei
ruoli posizionali e la presenza dell'interprete come terzo partecipante il cui status
interazionale può essere giudicato inferiore agli occhi dei co-interlocutori ma, alla luce
di quanto detto finora, si può affermare che è certamente diverso rispetto a quello dei
partecipanti primari e, per molti versi, superiore in quanto alla gestione dell'evento
stesso. In particolare, si è visto come il sistema turnazionale della comunicazione
mediata presenti delle peculiarità in merito all'allocazione e all'alternanza dei turni di
parola. Nella conversazione quotidiana, la presa del turno è un’attività competitiva nella
quale ogni partecipante è potenzialmente coinvolto:
a) il parlante del momento seleziona quello successivo
b) il parlante successivo si auto-seleziona
c) se né a) né b) sono validi, il parlante di turno può mantenere la parola e
continuare a parlare.
Comunemente, quando si affronta il fenomeno delle interruzioni, si suole ricorrere alla
distinzione polare fra interruzioni supportive e interruzioni competitive; si tratta di una
dicotomia di tipo funzionale, perché fondata sui motivi che si trovano alla base delle
interruzioni stesse. Alla prima categoria appartengono le interruzioni volte a sostenere il
parlante di turno, mentre la seconda comprende quelle finalizzate ad ottenere il turno di
parola. In base alla classificazione di Bazzanella (1994:189), fra le interruzioni
supportive rientrano i back-channels e i suggerimenti lessicali, mentre esempi di
73
interruzioni competitive sono: l’interruzione semplice, la sovrapposizione,
l’interruzione silenziosa, e l’interruzione vana.
I limiti che questa dicotomia comporta stanno nella difficoltà di individuare l’intenzione
soggiacente ad ogni interruzione; Bazzanella evidenzia, in particolare, due punti deboli
della distinzione fra supportive e competitive:
1. tipi di interruzione classificati sotto una categoria possono assumere il valore funzionale
opposto in determinate situazioni;
2. l’effettiva “portata” supportiva o competitiva deve essere calcolata in base ad un numero
maggiore di parametri, che non il semplice cambio di turno25. (Bazzanella 1994:190)
Una volta superata questa dicotomia, Bazzanella suggerisce che i vari tipi di
interruzione possano essere identificati attraverso la co-occorrenza di parametri
acontestuali od oggettivi, e di variabili contestuali; i primi sono indipendenti dal
contesto situazionale, mentre i secondi sono strettamente collegati al contesto
particolare:
riassuntivamente consideriamo parametri oggettivi i seguenti: tono alto e/o volume alto, durata della
sovrapposizione, insistenza e persistenza, vicinanza di PRT, presenza o assenza di modalizzatori, accordo
o disaccordo preposizionale, cambio di topic, passaggio del turno ad un terzo partecipante
conversazionale. Consideriamo parametri contestuali: i rapporti di status, gli stili individuali e le abitudini
culturali, lo scopo socialmente costituito e riconosciuto, l’“urgenza psicologica”, la “causa di forza
maggiore”. (Bazzanella 1994:193)
Fra i parametri contestuali rientrano, oltre ai rapporti di status di cui abbiamo già fatto
menzione, gli stili individuali e le abitudini culturali; lo studio degli stili individuali
appartiene alla macro-categoria degli approcci psicologici in quanto si concentra su
aspetti soggettivi, quali sono le caratteristiche della personalità, difficilmente
inquadrabili in analisi sistematiche; è tuttavia innegabile che a livello individuale ci
possa essere una corrispondenza fra il tipo di personalità e la maggiore o minore
tendenza ad interrompere. Anche per quanto concerne le abitudini culturali si individua
una certa correlazione fra stereotipi comportamentali di una popolazione rispetto al
modo e alla frequenza con le quali gli individui della stessa trattano le interruzioni; il
25 L’ottenimento del turno da parte di chi interrompe è, infatti, il vero elemento discriminante in questo tipo di classificazione polare.
74
brano che segue pone a confronto la cultura italiana e quella anglosassone dal punto di
vista del comportamento interazionale:
First impressions suggested a sharp contrast between the quieter (surface) manners of English meetings
and the Italian meetings. In all of the recorded Italian interactions the tone of the voice was often loud, the
pace faster, and the apparent lack of concern for turn-taking practices was sometimes disconcerting,
particularly to Anglo-Saxon ear. [...] Non-native observers may be baffled by the frequency of what we
have defined previously as overlaps. Recent work on intercultural negotiation seems to confirm that the
Italians take the floor through “successful interruptions” at least twice as frequently as their Dutch
counterparts. (Bargiela Chiappini / Harris 1997:69-224)
Gli stereotipi su anglosassoni e italiani sono molteplici: i primi interrompono poco e
parlano più lentamente, mentre i secondi parlano ad alta voce, tutti insieme,
interrompendosi di frequente, tanto che a volte può risultare sconcertante la mancanza
di preoccupazione per il rispetto dei turni.26
Susan Ervin-Tripp affronta tali differenze da una diversa prospettiva:
Groups which emphasize autonomy and value what Brown & Levinson (1978) call “negative politeness”
can be expected to leave the floor to one speaker and to risk gaps of inattention more readily than
interruption. Groups which emphasize solidarity and “positive politeness” are likely to look for evidence
of closeness through the production of joint texts, proxy completion and simultaneity. (Ervin-Tripp
1987:5027 cit. in Zorzi 1990:84)
La percezione dell’interruzione è quindi culturalmente determinata, ma il modo di
interrompere dipende in primo luogo “dall’organizzazione conversazionale cui i parlanti
si orientano” (Zorzi 1990:83). Zorzi ha analizzato un corpus di registrazioni di incontri
di servizio in libreria sia in italiano che in inglese, e dal suo studio sono emersi i
seguenti dati:
In italiano l’unico modo per sospendere la produzione di una seconda parte dispreferita, dato che
normalmente viene data consecutivamente alla prima parte, è l’interruzione (e in questo senso è un
rimedio “preparatorio”). Del tutto diversamente in inglese, si ha interruzione solo se non si è negoziata
l’accettabilità della richiesta e della risposta nella frase strutturalmente designata a ciò (vale a dire fra la
26 Le variabili culturali che possono contribuire a differenziare l’atteggiamento dei partecipanti alla conversazione sono numerose; la dicotomia: “Deal-focus vs. Relationship-focus” è una di queste; ci sono cioè culture che attribuiscono maggior importanza all’instaurarsi di buone relazioni sociali fra i partecipanti, mentre per altre culture è più rilevante la conclusione degli affari anche a scapito dei rapporti interpersonali. 27 S. Ervin-Tripp (1987). “Cross cultural and developmental sources of pragmatic generalization”. In J. Verschueren / M. Bertucelli Papi. (eds.). The pragmatic perspective. Amsterdam, Benjamins, pp. 47-60.
75
richiesta e la risposta stessa), ciò spiega perché le interruzioni sono più numerose in italiano28. (Zorzi
1990:105)
La breve rassegna dei parametri oggettivi e contestuali appena presentata ha voluto
esporre la molteplicità degli aspetti operanti nel momento in cui un partecipante effettua
un turno interrompente. Alcune di queste sovrapposizioni riguardano turni nei quali chi
interviene manifesta tramite back-channels (MM; sì; ah; è vero; infatti; etc.) la propria
attenzione e il proprio coinvolgimento rispetto alla conversazione; come sarà spiegato
oltre, in generale il partecipante che si sovrappone al parlante di turno tramite pause
piene e segnali discorsivi di conferma e/o accordo non intende chiedere la parola ma
segnalare l’attenzione in corso e la propria disponibilità al proseguimento
dell’interazione. Altre sovrapposizioni ricorrenti nel parlato spontaneo riguardano casi
nei quali chi interrompe è ansioso di esprimere la propria posizione sul tema trattato,
quindi, salvo rare eccezioni (peraltro in situazioni comunicative “affollate” e mai in
conversazioni “a due”), non si tratta di sovrapposizioni con cambio di topic, così come
sono più rari esempi di interruzioni attuate per passare il turno ad un terzo partecipante.
In altre parole, nella tipica conversazione spontanea le interruzioni con valore
conflittuale sono meno numerose mentre si ha abbondanza di sovrapposizioni e
interruzioni che esprimono partecipazione da parte di chi le produce. Tali caratteristiche,
secondo la definizione di Deborah Tannen (1984), rientrano nel cosiddetto parlato
conviviale:
[…] in cui interrompersi e parlare insieme sembrano segni di coinvolgimento emotivo, di viva
partecipazione e interesse per la conversazione e di sintonia fra gli interlocutori. […] Il parlato
sovrapposto e interrompente è una delle manifestazioni più significative di uno stile conversazionale ad
28 Di seguito riportiamo due esempi di incontri di servizio, rispettivamente in italiano e in inglese, tratti dallo studio di Zorzi (1990:96-103). 1) A: Signorina / signorina scusi manuali per dipingere dove si trovano?
B: Erm_ +dipingere…* A: +dipinti* / +su pittura su ceramica* B: +Mm sì (qualcos-)* (Mi dovrebbe tornare) qualcosa penso però solo sulla pittura ad olio
2) A: Erm_ I suppose that would make sense / yes / well we haven’t got it / I’m ++sure we could get it*
B: you HAVEN’T got it* A: for you / oh unless they’ve got it in HIstory of course/ I mean_ which is possible / ‘cos they’ve got erm ANcient history! B: Uhuh! +well I’ll have a look* A: +in the history department* B: I’ll have a look!
76
“alto coinvolgimento”. Per i partecipanti che adottano questo stile, la sovrapposizione non solo è ben
vista, ma anche cercata (al contrario del silenzio o delle pause fra i turni che sono accuratamente evitate
come “antisociali”). (Tannen 1984:3029 cit. in Zorzi 1990:91)
3.5 I segnali discorsivi
Come abbiamo sinora osservato, i corrispettivi linguistici che Bazzanella associa al
macro-tratto situazionale della compresenza degli interlocutori sono:
1) uso frequente di fatismi; 2) ampio uso di strategie di cortesia; 3) forte presenza di pronomi di prima
persona; 4) cambiamenti di pianificazione indotti dall’esterno; 5) discorsi simultanei ed interruzioni; 6)
segnali discorsivi di conferma o di disconferma; 7) maggior livello di implicitezza. (Bazzanella 1994:27)
Ai fini della nostra analisi, vogliamo comprendere in che misura l'evento mediato, e
quindi l'azione dell'interprete, comporti delle differenze rispetto alla comune
conversazione spontanea; i segnali discorsivi costituiscono un’importante risorsa
interazionale a disposizione dei partecipanti, in quanto indicano l’intenzione di chi parla
rispetto al turno di parola. Attraverso l’uso di certi segnali discorsivi, infatti, il parlante
può manifestare l’intenzione di prendere, mantenere oppure cedere il turno, cosicché gli
altri partecipanti sappiano quando è possibile intervenire nel rispetto delle regole
conversazionali. Secondo la definizione proposta da Bazzanella (2001):
I segnali discorsivi sono quegli elementi che, svuotandosi in parte del loro significato originario,
assumono dei valori aggiuntivi che servono a sottolineare la strutturazione del discorso, a connettere
elementi frasali, interfrasali, extrafrasali e a esplicitare la collocazione dell’enunciato in una dimensione
interpersonale, sottolineando la struttura interattiva della conversazione. (Bazzanella 2001:225)
Deborah Schiffrin ha approfondito il tema dei discourse markers partendo dall’analisi di
un corpus di interviste di gruppo da lei raccolto, ed ha poi elaborato i risultati ottenuti
nell’opera omonima dalla quale citiamo la seguente definizione:
I operationally define markers as sequentially dependent elements which bracket units of talk. [...]
Sometimes those units are sentences, but sometimes they are propositions, speech acts, tone units. In sum,
I am being deliberately vague by defining markers in relation to units of talk because this is where they
occur – at the boundaries of units as different as tone groups, sentences, actions, verses, and so on. [...] I
define markers at a more theoretical level as members of a functional class of verbal (and non-verbal) 29 Tannen, D. (1984) Conversational style: analyzing talk among friends, Norwood (N. J.) : Ablex
77
devices which provide contextual coordinates for ongoing talk. (Schiffrin 1987:31-41)
L’insieme dei segnali discorsivi forma appunto una classe funzionale, cioè raggruppa
elementi alquanto eterogenei dal punto di vista delle classi grammaticali di
appartenenza, accomunati però dalla funzione che svolgono:
Possono fungere da segnali discorsivi: operatori di coordinazione (es. e, ma), operatori di coordinazione
avverbiale (es. cioè), avverbi frasali (es. praticamente), interiezioni (es. eh?), sintagmi verbali (es.
guarda), sintagmi preposizionali (es. in qualche modo), ed espressioni frasali (es. come dire). (Bazzanella
2001:225)
Secondo la tassonomia indicata da Bazzanella (2001:232) le funzioni dei segnali
discorsivi si possono distinguere in due categorie: le funzioni interattive, che riguardano
“l’atteggiamento del parlante verso l’interazione in corso”; e le funzioni metatestuali30
volte a segnalare “l’articolazione delle varie parti del testo […] ed il rapporto tra gli
argomenti e i temi trattati nel dialogo” (Ibid.). Lo scarso contenuto semantico dei
segnali discorsivi è dimostrato dal fatto che la loro assenza non incide sul significato
dell’enunciato, ciò che cambia riguarda invece il piano pragmatico, la dimensione
interazionale dell’enunciato in questione. A dimostrazione di quanto appena detto è
l’eliminazione dei segnali discorsivi nel discorso indiretto (DI): il carattere mediato di
questo cancella, infatti, la dimensione emotiva-interazionale che è alla base della
funzione pragmatica dei segnali discorsivi presenti nel discorso originale. Per quanto
riguarda il discorso diretto (DD), invece, si riscontra la presenza dei segnali discorsivi
in questa forma di reported speech, ma, come è emerso dal lavoro di Emilia Calaresu
(2004:20-1)31 che ha svolto un’analisi comparativa fra discorsi originali e rispettivi
discorsi riportati, tali segnali discorsivi appartengono al reporter e non all’enunciatore
originale: “l’impiego di segnali discorsivi in apertura di discorso diretto corrisponde
semplicemente a strategie di ricreazione di situazioni discorsive altre da parte del
30 Le funzioni metatestuali, così come descritte da Bazzanella (2001:246-9), sono le funzioni svolte da:
- demarcativi: (ma) insomma, a proposito, senti, comunque - focalizzatori: se (nell’uso correlativo), ma, sì, proprio, appunto, ecco, ti dico, ti voglio dire
- indicatori di riformulazione: -indicatori di parafrasi: diciamo, voglio dire, in altre parole -indicatori di correzione: diciamo, anzi, insomma, cioè, non so, no -indicatori di esemplificazione: mettiamo, diciamo, prendiamo, ecco, per/ad esempio.
31 E. Calaresu (2004). Testuali parole: la dimensione pragmatica e testuale del discorso riportato. Milano, Franco Angeli.
78
reporter”. (Ibid.)
Oltre a produrre un effetto di maggior espressività e aderenza al parlato, i markers che
troviamo in apertura di DD sono uno dei segnali tangibili che si sta introducendo un
discorso diretto e, solitamente, si giustappongono alle cosiddette “cornici”, che sono:“le
parti introduttive con verbo di dire (o equivalenti contestuali come fare)” (Calaresu
2004:18). La presenza o assenza dei segnali discorsivi all’interno dell’enunciato non ha
alcuna ripercussione sul contenuto semantico di quest’ultimo; la non incidenza di questi
elementi linguistici sul contenuto proposizionale è data da proprietà sintattiche quali:
l’interrogabilità, la sostituzione tramite pro-forme, l’eliminabilità e la negazione. La
prima e la seconda proprietà riguardano rispettivamente l’impossibilità di formulare
domande che abbiano come risposta segnali discorsivi e l’impossibilità di sostituzione
tramite pro-forme; la terza proprietà si riferisce alla possibilità di cancellazione dei
segnali discorsivi senza che ciò alteri il contenuto semantico del discorso; la quarta
proprietà, infine, indica l’impossibilità di negazione dei segnali discorsivi, grazie anche
alla loro “frequente parenteticità che li mantiene esterni al contenuto proposizionale”
(Bazzanella 2001:230). Queste caratteristiche costituiscono il motivo principale della
frequente omissione di tali particelle all'interno del turno formulato dall'interprete;
nonostante l'interprete sia tenuto a riportare l'enunciato originale nella sua totalità e
completezza parlando in prima persona come a simulare una conversazione
monolingue, generalmente i segnali discorsivi vengono eliminati nella versione
interpretata. Se i segnali discorsivi sono così ricorrenti negli enunciati dei parlanti
primari è perchè assolvono ad una molteplicità di funzioni interazionali, anche se i
parlanti ne sono inconsapevoli, che permettono loro di gestire il sistema turnazionale ed
esprimere la propria posizione in merito allo scambio comunicativo.
I segnali discorsivi con funzione interattiva utilizzati dal parlante di turno possono
essere finalizzati a:
- prendere il turno, il partecipante manifesta la propria intenzione di prendere la parola;
- mantenere il turno: questa funzione è svolta dai cosiddetti riempitivi, ossia da segnali
discorsivi (diciamo, praticamente, come posso dire, non so, per così dire) utilizzati per
riempire spazi che, data la difficoltà di pianificazione da parte del parlante, rimarrebbero
vuoti e potrebbero essere interpretati dall’interlocutore come PRT, inducendolo quindi a
prendere la parola. Spesso questi segnali discorsivi sono accompagnati da pause piene
79
(e_, ehm, mm), da pause vuote (silenzi), dall’allungamento della vocale precedente e da
indicatori di correzione (cioè)
- richiedere l’attenzione: delle forme imperative alla II pers. sing. o pl. (o alla III sing. o
pl., o alla II pl. come forme di distanza) vengono usate per richiamare e mantenere
l’attenzione. […] È il caso di: senti/a; senti un po’, mi segui/e?, di’ /dimmi/dica, ehi,
guarda/guardi/guardate, vedi/vede/veda. (Bazzanella 2001:235) In inglese troviamo due
segnali discorsivi ricorrenti nel richiamare/mantenere l’attenzione dell’interlocutore,
y’know e I mean: “y’know gains attention from the hearer to open an interactive focus
on speaker-provided information and I mean mantains attention on the speaker. […] I
mean displays speaker orientation, and as a byproduct it invites hearer’s attention;
y’know invites hearer attention and thus directly invites hearer assessment; as a
byproduct, y’know displays speaker orientation” (Schiffrin 1987:267-310).
- controllare la ricezione. I segnali discorsivi di controllo della ricezione sono utilizzati
dal parlante per accertarsi della corretta ricezione dell’enunciato da parte
dell’interlocutore. I segnali più comuni sono: eh?, capisci?, capito?Uno dei segnali
discorsivi deputati , in inglese, al controllo della ricezione da parte di chi parla è, ancora
una volta, y’know, come spiega Schiffrin, infatti: “ Y’know allows a speaker to check on
how the discourse is creating an interactional progression away from an initially
asymmetric distribution: is knowledge now more equitably devided? Is opinion now
shared?” (Schiffrin 1987:279).
- richiedere accordo e/o conferma. Qui troviamo segnali discorsivi come: no?, vero?,
non è vero?, eh?, non è così?, giusto?. Tali elementi discorsivi si trovano in posizione
finale ed hanno intonazione interrogativa. Questi segnali discorsivi di richiesta
d’accordo e/o conferma possono allo stesso tempo svolgere un’altra funzione
interazionale, ossia, cedere il turno. In questi casi, data la presenza di un segnale
apposito, il passaggio del turno è rimarcato e i partecipanti sono così “avvisati”
dell’imminente transizione del turno di parola. In inglese, il segnale discorsivo
maggiormente utilizzato per indicare la disponibilità del parlante a cedere il turno è
“so”. Come osserva Schiffrin (1987:218): “in contrast to and –which marks a speaker’s
continued turn – so is a turn-transition device which marks a speaker’s readiness to
relinquish a turn. Since so is a turn-transition device, it should not be surprising to find
it followed by explicit turn-transition phrases if a next speaker does not avail
80
him/herself of the opened turn space. Such phrases explicitely open a participation slot
to a hearer. i.e. Jack: We’re considering the...more or less: the oppressors. So eh...take it
from there”.
Il fatto che durante l'evento mediato questi segnali discorsivi siano spesso omessi nella
versione interpretata si deve proprio alla natura mediata dell'evento; i vari riempitivi
legati alla pianificazione in tempo reale, per esempio, perdono la loro valenza nel turno
di ricodificazione dell'interprete (che costituisce una seconda versione dell'originale); gli
eventuali riempitivi, false, partenze o esitazioni, quando presenti nel turno di
interpretazione, sono da attribuire all'interprete stesso e non al parlante primario. Così
anche i segnali discorsivi finalizzati a verificare l'attenzione e la comprensione
dell'interlocutore vedono in parte alterata la propria funzione dalla mediazione
dell'interprete il quale, come abbiamo detto, è il principale regolatore
dell'avvicendamento dei turni.
Oltre ad assolvere a numerose esigenze comunicative del parlante, i segnali discorsivi
sono ampiamente utilizzati anche dall'interlocutore, incluso quando quest'ultimo
intende mantenersi in posizione di ricezione. Come abbiamo visto, la conversazione è il
prodotto del lavoro congiunto di parlante e interlocutore; pur senza prendere il turno di
parola, infatti, l’interlocutore può contribuire attivamente all’evento interazionale
tramite segnali discorsivi (perlopiù fatismi e back-channels) che spesso si
sovrappongono al turno del parlante. Come abbiamo detto in precedenza, la maggior
parte delle sovrapposizioni individuate nel parlato spontaneo sono costituite appunto da
segnali discorsivi prodotti dall’interlocutore per:
− mostrare attenzione in corso (sì, mm, ah)
− esprimere accordo e/o conferma (sì, esatto, certo, è vero, infatti, assolutamente,
benissimo) o accordo parziale, se non perplessità (beh/be', mah, insomma)
− segnalare ricezione e acquisizione di conoscenza (ho capito, ah, a_h!, no_!,
ecco)
− richiedere spiegazioni (cioè?, in che senso?, eh?, cosa?)
− interrompere il parlante (ma, allora, scusa/ scusami/ scusate; un attimo, un
momento; insomma)
Ricapitolando, all'interno dello scambio comunicativo, i segnali discorsivi svolgono
81
un'importante funzione ausiliaria in quanto aiutano i co-interlocutori ad organizzare e a
gestire il sistema dei turni oltre a favorire la comprensione reciproca attraverso
meccanismi di feedback. Nella triade interazionale dell'evento mediato, i segnali
discorsivi rappresentano un caso interessante; dato il loro scarso contenuto semantico,
spesso l'interprete omette tali elementi all'interno del turno di interpretazione e numerosi
studi che hanno confrontato gli enunciati originali con quelli prodotti dall'interprete
hanno mostrato che i vari meccanismi di feedback e back-channellig tendono ad essere
ridotti, se non addirittura eliminati:
Interlocutors' small words of back-channelling are rarely translated. It is as if the relative “transparency”
of this communicative activity reduces the relevance of translating (…) However “closely” the interpreter
strives to translate, the interpreter-mediated conversation in itself transforms the interactional significance
of back-channelling (Wadensjö 1998:121)
Secondo Wadensjö (1998), cioè, offrire una traduzione letterale dei back-channels
prodotti dai parlanti, da una parte permetterebbe all'interprete di aderire ai precetti dei
codici di deontologia professionale per i quali si deve tradurre tutto ciò che viene
proferito dai partecipanti primari; d'altra parte, però, una traduzione letterale
sminuirebbe l'unicità dell'interprete all'interno dell'interazione dal momento che
interpretare questi elementi discorsivi rischierebbe di far risultare superflua
l'interpretazione stessa:
In interpreter-mediated encounters, a kind of joyful relief can sometimes be observed when primary
parties suddenly find themselves understanding one onother directly, and they can laugh at the interpreter
being excessively helpful. (Wadensjö 1998:122)
I partecipanti primari possono ovviamente identificare un certo comportamento come
espressione di attenzione, conferma o disaccordo, ma meno la comunicazione è
trasparente e mutuamente accessibile per gli interlocutori principali (per esempio grazie
ad una certa affinità culturale o perchè hanno una conoscenza basilare del rispettive
lingue), più questi dipendono dall'interprete che deve essere in grado di capire quando
l'interpretazione è o non è necessaria.
In merito all'evento mediato, Knapp e Knapp-Patthoff (1987:194) affermano che per
alcuni tipi di enunciati, in particolare espressioni enfatiche, una traduzione letterale non
rappresenterebbe un 'interpretazione adeguata, il loro significato, piuttosto, dovrebbe
essere reso tramite una descrizione delle intenzioni del parlante (es. “he's delighted”,
82
“she agrees” al posto di enunciati del tipo: “oh yes”, “that' nice”, “clear” etc.) (Ibid.).
Dato che l'elaborazione di tali enunciati rende ancora più complesso il compito
dell'interprete, è ragionevole presupporre che nella maggior parte dei casi quest'ultimo
si astenga in partenza dal fornire una traduzione e che tali porzioni di enunciato siano
rese attraverso una “zero rendition” (Wadensjö 1998), ovvero, non siano tradotte affatto:
“thus, these utterances pose a problem of mediatibilty for M (mediator), which does not
arise from the structures of the languages involved, but from the very structure of
mediator discourse” (Knapp et alii.1987:194). Come spiegano gli autori (Ibid.),
generalmente questi tipi di enunciato si collocano all'inizio del turno e sono
immediatamente seguiti da una domanda o richiesta, oppure indicano l'intenzione di
mantenere il turno di parola (es. “ehm”) seguiti da un'eventuale pausa e da una
successiva richiesta, domanda ecc. Nella versione ri-codificata tali elementi verrebbero
quindi rimossi a favore di un contenuto proposizionale più conciso, come scrivono
Gentile et alii. (1996) è anche per questa ragione che solitamente i turni dell'interprete,
e quindi le versioni tradotte, sono più brevi rispetto agli enunciati originali. Grazie a
questa breve indagine sul tema dell'avvicendamento dei turni di parola, abbiamo potuto
considerare la complessità inerente all'interpretazione al di là dell'apparente semplicità
del ruolo dell'interprete; abbiamo visto come anche meccanismi automatici che
utilizziamo inconsciamente mentre parliamo sono la prova di regole conversazionali
sottostanti tutt'altro che banali. L'evento mediato chiama in gioco le relazioni, le
intenzioni, le aspettative comunicative e le competenze conversazionali di tutti i
partecipanti coinvolti, primo fra tutti (data la sua centralità all'interno dell'interazione)
l'interprete, il quale, man mano che procediamo nella nostra analisi si spoglia dei luoghi
comuni e dei pregiudizi che lo relegano al ruolo di automa della comunicazione ed
emerge sempre più come figura protagonista responsabile del successo comunicativo fra
gli interlocutori primari.
83
CAPITOLO 4
L'interprete in ambito medico
In questo capitolo concentreremo la nostra attenzione su un ambito professionale
specifico circoscrivendo la nostra analisi alla figura dell'interprete che opera nel
contesto dei servizi socio-sanitari. In questo ambito, la complessità insita nel ruolo
dell'interprete risulta ulteriormente ampliata dalla delicatezza e dalla responsabilità che
il tipo di contesto comporta. Nella prima parte ci occuperemo di delineare le
caratteristiche salienti e le peculiarità dell'interpretazione medica, come viene
denominata in territorio anglosassone (medical interpreting), per passare poi alla
presentazione dell'attuale situazione italiana che, come vedremo, mostra alcune
specificità locali, e a volte contraddizioni, degne di una riflessione più profonda.
Il tema della comunicazione interlinguistica in ambito medico o socio-sanitario è
particolarmente delicato in corrispondenza della gravità delle conseguenze di eventuali
“errori” comunicativi, imputati in questo caso all'interprete o mediatore linguistico-
culturale responsabile dell'interazione fra i parlanti monolingui. Come scrive Rudvin
(2003:159):
According to the law, all individuals have equal right to access legal, social and health services. However,
frequently language is a serious obstacle to equal access, even when language-mediaton services are
provided for, if the quality of the interpreting is not adequate, then the clients are clearly not enjoying the
rights to which they are entitled.
La formazione dell'interprete occupa quindi un ruolo fondamentale, ma in questo settore
più di ogni altro è frequente il ricorso a interpreti improvvisati (ad hoc) che,
sovraccaricati di un compito che non sono preparati a svolgere, si ritrovano a dover
sostenere situazioni psicologicamente ed emotivamente provanti, dense di divergenze
culturali di cui spesso non sono consapevoli, oltre alle difficoltà tecniche e
terminologiche legate all'interpretazione.
Angelelli ha studiato approfonditamente il ruolo dell'interprete in ambito medico
utilizzando un corpus di dati raccolto durante oltre 300 incontri nel contesto ospedaliero
ed intervistando gli stessi interpreti in merito alle opinioni che nutrono riguardo al loro
ruolo professionale. Lo studio è stato svolto presso un ospedale della California per un
periodo di ventidue mesi. L'autrice ha cominciato la propria riflessione a partire dal
84
censimento del 2000 dal quale risulta che negli Stati Uniti circa 21 milioni di persone
hanno una limitata padronanza della lingua inglese; tale risultato equivale ad una
notevole varietà etnica e linguistica che rende certamente impegnativo il compito di
fornire un'adeguata assistenza socio-sanitaria ai pazienti che possiedono una conoscenza
limitata dell'inglese.
Come scrive Angelelli (2004:19),
the most important communication skills for an HCP (healthcare provider) in cross-cultural setting are
those that assist in patient assessment and elicitation skills to understand the patient's perspective of
symptoms and explanatory health-beliefs models.
Per esempio, pazienti che provengono da ambienti culturali diversi mostrano diverse
attitudini circa il modo di ascoltare le notizie, soprattutto le brutte notizie; per alcune
culture il semplice proferimento di cattive notizie può venire associato a conseguenze
infauste. La maggior parte dei pazienti preferisce ricevere tutte le informazioni
disponibili sul proprio stato di salute e sulle possibili opzioni terapeutiche. Per i medici,
d'altro canto, può rivelarsi estremamente importante la consapevolezza che pazienti di
culture diverse possono differire nelle preferenze che riguardano il modo di ricevere
l'annuncio di un referto negativo. Anche i pazienti che sono interessati ad una
informazione specifica, per esempio nel caso di una prognosi, potrebbero astenersi dal
fare qualsiasi domanda ai medici; questi ultimi, secondo un'ottica multi-culturale, non
dovrebbero interpretare il silenzio del paziente al quale è stato chiesto di esporre
eventuali dubbi come equivalente all'assenza di dubbi o domande da rivolgere loro;
spesso, infatti, la non verbalizzazione di una domanda nasconde al contrario l'interesse
verso la risposta. Alcuni temi particolarmente delicati e sensibili, inoltre, possono
divenire veri e propri tabù per alcune culture; in Italia, per esempio, è tipico soprattutto
fra i più anziani evitare la parola “tumore” e sostituirla con locuzioni più vaghe che ne
possano mitigare l'impatto, l'espressione più ricorrente in questo caso è “brutto male”.
Gli interpreti specializzati ad operare in ambito socio-sanitario e chiamati ad assistere i
pazienti delle minoranze etno-linguistiche più deboli, non solo dovrebbero essere
consapevoli di atteggiamenti determinati culturalmente, ma dovrebbero anche essere
mediatori competenti nel gestire eventuali divari interculturali. Dallo studio di Angelelli
è emerso che i pazienti delle culture minoritarie, specialmente quando non
padroneggiano l'inglese, più raramente ricevono risposte empatiche dai medici,
85
instaurano relazioni interpersonali con loro, ricevono informazioni sufficienti e sono
incoraggiati a partecipare alle decisioni terapeutiche che li riguardano. Come mostra
l'analisi, inoltre, negli Stati Uniti ai pazienti stranieri che non parlano inglese
corrisponde un numero inferiore di visite per le cure primarie ed un ricorso meno
frequente ai servizi volti alla prevenzione; nonostante ciò, non è chiaro quali siano i
fattori (se il paziente o l'operatore sanitario) che spiegano tale inferiorità di status da un
punto di vista sanitario-assistenziale. Un'altra tendenza che riguarda i pazienti stranieri è
quella di ricorrere a visite emergenziali piuttosto che a regolari appuntamenti
d'ambulatorio. A complicare ulteriormente la situazione, poi, vi è il fatto che la maggior
parte delle istituzioni si affida sempre più spesso ad interpreti improvvisati ed inesperti;
negli Stati Uniti, meno di un quarto degli ospedali offre corsi di formazione per il
proprio staff. Angelelli ha rilevato che solo nove ospedali (sui 300 analizzati) si
preoccupavano di dare una preparazione ai loro interpreti volontari; questo significa che
la maggior parte delle prestazioni di interpretariato/mediazione linguistica negli
ospedali è svolta da pazienti, familiari, amici, membri dell'equipe medica e addetti alle
pulizie, cioè da “interpreti” privi di formazione. Questa pratica, che abbiamo presentato
sotto l'etichetta di “ad hoc interpreting”, spesso sfocia in errori d'interpretazione
(omissioni, aggiunte, sostituzioni ecc,) e versioni condensate o riassunte degli enunciati
prodotti da medico e paziente. Spesso i pazienti sono accompagnati dai familiari durante
le visite mediche, in particolare quando si tratta di pazienti anziani. I pazienti
accompagnati da un familiare tendono a comportarsi diversamente rispetto ai pazienti
non accompagnati, in particolare per quanto riguarda le problematiche mediche, le
relazioni familiari e l'inclinazione verso il coinvolgimento della famiglia in merito alle
cure. I familiari, inoltre, spesso si comportano da interpreti rispondendo alle domande al
posto del paziente e non permettendo a quest'ultimo di parlare liberamente; di frequente
offrono consigli e informazioni di propria iniziativa e non traducono i commenti
espressi dal diretto interessato, così come le domande del medico sono spesso riportate
in modo non corretto e a volte non vengono tradotte affatto. Anche la mancanza di
contatto visivo fra medico e paziente può sottrarre al medico alcuni preziosi indizi non
verbali che riguardano i pensieri e lo stato d'animo del paziente, con il rischio quindi di
compromettere, o almeno ostacolare, la definizione di un quadro clinico più preciso. La
presenza dell'interprete, infatti, può ridurre la comunicazione verbale diretta e la
86
reciprocità non verbale fra i due partecipanti primari, rendendo così l'incontro meno
personale e diminuendo il senso di legame fra i due; questo accade soprattutto quando
gli operatori della struttura ospedaliera o socio-sanitaria non sanno come comportarsi
durante l'evento mediato e non sanno come “utilizzare” l'interprete. Secondo Angelelli,
la presenza di una terza persona può influenzare negativamente la relazione che si
instaura fra medico e paziente a causa di un ridotto senso di privacy e intimità fra i due,
anche nel caso in cui l'interprete e il medico abbiano ricevuto un'ottima formazione
preventiva in merito alle dinamiche dell'evento mediato. Alcune ricerche condotte in
questo ambito nell'arco degli ultimi vent'anni mostrano che i pazienti che comunicano
attraverso un interprete hanno più difficoltà a conoscere la propria diagnosi e con una
frequenza significativa esprimono una certa insoddisfazione verso l'esito dell'incontro
ritenendo che il medico avrebbe potuto spiegarsi meglio; d'altra parte, i pazienti che
comunicano direttamente con gli operatori esprimono un maggior grado di
soddisfazione così che, in definitiva, possiamo considerare la comunicazione mediata
come “un'arma a doppio taglio”:
When used improperly, it can pose a barrier to establishing a therapeutic patient-provider relationship.
However, adequate communication brokered through an interpreter can facilitate the exchange of
information between HCP (healthcare provider) and patient, and have a profoundly positive impact on the
wellbeing of the patient (Angelelli 2004:25).
Di conseguenza, possiamo affermare che l'interprete dovrebbe occupare un ruolo
mediano di interfaccia culturale, andando quindi a scardinare il vecchio mito
dell'invisibilità. Quando si analizza l'evento mediato in ambito socio-sanitario è
importante non confondere i termini interazione e relazione interpersonale, questi due
termini infatti non sono intercambiabili: “an interaction between patient and HCP is
characterized by an observable exchange of behaviours, whereas a relationship involves
qualities that are more subjective (caring, concern, respect, and compassion)”. (Ibid.
2004:15) Un rapporto di collaborazione fra medico e paziente è un'alleanza terapeutica
nella quale i due soggetti coinvolti divengono complici nella comune lotta contro la
malattia e quando i pazienti sono trattati come partner durante l'incontro, o consulto
medico, esprimono una maggiore tendenza a porre domande, chiedere chiarimenti e
mostrano, in definitiva, una maggiore soddisfazione e una ridotta preoccupazione verso
la malattia grazie all'aderenza alle cure prescritte. In questo modo viene a stabilirsi un
87
legame di tipo emotivo fra i due partecipanti primari; sostegno, empatia, interesse e
legittimazione da parte del medico, così come domande mirate e puntuali, sono tutti
elementi importanti nella costruzione del rapporto interpersonale col paziente che, in tal
modo, si sente ascoltato e capito.
A questo punto, è interessante indagare gli effetti che la presenza dell'interprete
provoca sulle dinamiche di questo rapporto triadico. Gli eventi mediati al California
Hope (pseudonimo che Angelelli utilizza per riferirsi all'ospedale nel quale ha svolto la
sua ricerca) coprono una serie di attività: concordare o cancellare un appuntamento;
dare notizie o consegnare referti; condurre un una visita orale (per le patologie del
linguaggio); condurre una visita medica di controllo; condurre una procedura (es. TAC);
e telefonare per ricordare un appuntamento. In queste attività, può presentarsi ognuna
delle seguenti funzioni: lamentarsi, rimproverare, spiegare, manifestare sostegno,
giustificare/si, domandare e rispondere, esprimere solidarietà, dare istruzioni, informare
e ricordare.
Siccome solo una piccola percentuale pari al 4% dei casi studiati dall'autrice ha
confermato la teoria dell'invisibilità dell'interprete, la conclusione che ne deriva è che la
visibilità dell'interprete può essere più legata e dipendente dal contesto situazionale che
al tipo di interazione. La presenza di altri ascoltatori ha un impatto significativo
sull'interazione; a differenza dell'interpretazione di tribunale e di conferenza che sono
pubbliche di natura, l'interpretazione in contesto medico si svolge generalmente in un
luogo privato (ad eccezione dello staff medico presente); questo contesto “intimo”,
tuttavia, può offrire all'interprete più occasioni di visibilità. Come ogni altro evento
comunicativo, anche l'evento mediato è caratterizzato dalla struttura tripartita: apertura,
corpo centrale e chiusura. Come ogni consulto medico monolingue, anche l'evento
mediato può essere suddiviso in sei fasi che Byrne e Long (1976)32 hanno identificato
nel loro studio; queste fasi comprendono:
1) rapportarsi col paziente;
2) scoprire il motivo della visita;
3) condurre una visita di tipo verbale o fisico, o entrambe;
4) esaminare le condizioni di salute del paziente;
32 Byrne, P. S., Long, B., E., I. (1976) Doctors talking to patients: a study of the verbal behaviours of doctors in consultation. London: HMSO.
88
5) prescrivere la cura o ulteriori esami;
6) concludere.
La presenza di un interprete durante l'evento comunicativo ha un impatto su ognuna di
queste sei fasi. Il concetto di visibilità sembra essere un concetto fluido che presenta una
serie di variabili. La visibilità varia a seconda delle fasi del consulto medico, la visibilità
che si riscontra durante le fasi di apertura e chiusura, per esempio, è estremamente
ritualizzata. Le strategie linguistiche e comunicative utilizzate dall'interprete per rendere
gli enunciati che produce sono varie; in alcuni casi, l'interprete risulta lievemente
coinvolto nella produzione testuale a causa del ricorso al pronome singolare (includendo
se stesso nell'interazione); in altri casi, l'interprete produce messaggi che aggiungono
informazione in maniera significativa rispetto agli originali, percorrendo così livelli di
maggiore o minore visibilità:
For example, if a doctor uses a technical term, such as clear liquid diet, the interpreter takes ownership by
expanding, explaining, or changing the register for the patient, in order to ensure that the patient
understand. Clear liquids then become water, broth, and apple juice. (Angelelli 2004:77)
A livello di scelte lessicali durante la comunicazione interculturale l'interprete svolge
quindi un compito delicato, Ian Mason (1999:12) propone un esempio interessante:
A hospital doctor addressing a patient may well refer to a “problem with the waterworks” rather than a
“genito-urinary tract” problem; the discourse adopted is one which acts as an appropriate sign
(informality, friendly bedside manner) within its culture; if used cross-culturally without interpreter
mediation, it may meet whit a look of blank incomprehension or, worse, result in offence being taken.
Un interprete competente e doverosamente formato costituisce, quindi, una figura
cruciale nel compensare differenze interculturali e nel rendere l'enunciato d'arrivo
semanticamente e pragmaticamente appropriato; in questi casi l'azione dell'interprete è
chiaramente più visibile. Solitamente, il maggiore grado di visibilità (e il conseguente
impatto sulle informazioni mediche e personali trasmesse) non riguarda le fasi di
apertura e chiusura dell'incontro; al contrario, interessa le fasi intermedie (dalla seconda
alla quinta – es. durante la visita o le fasi di disamina delle condizioni di salute o di
prescrizione della terapia o di successivi esami). Gli obiettivi dei partecipanti coinvolti
durante l'evento mediato non sono gli unici elementi che divergono; come abbiamo
89
detto in precedenza, ogni partecipante porte con sé le proprie aspettative personali. I
pazienti si aspettano di essere ascoltati, i medici si aspettano di ottenere le informazioni
necessarie per definire la diagnosi e presentare possibilità terapeutiche, gli interpreti, dal
canto loro, si aspettano di aiutate i partecipanti monolingui nel comunicare l'uno con
l'altro. A volte i pazienti stranieri arrivano all'appuntamento avvertendo una sensazione
di forte impotenza e frustrazione, sapendo di non possedere il repertorio linguistico
(gergo tecnico, “medicalese”) necessario per interagire con il dottore o infermiere ma
cercando disperatamente una soluzione per il loro stato di salute. A volte i medici si
trovano a lavorare sotto forti pressioni di tempo, a volte non dispongono del repertorio
linguistico idoneo alla comunicazione con un interlocutore profano oppure non
conoscono la cultura di appartenenza del paziente. Sta all'interprete il compito di
organizzare e coordinare questo insieme di risorse, obiettivi, ed aspettative interazionali.
Nel seguente dialogo, l'interprete si presenta al paziente (Ibid. 2004:80):
(HI: hospital interpreter; N: nurse; P: patient) HI: María Gómez? N: Gómez. Thank you. Here he is. HI: Señora. Buenos días. (Ma'am, good morning.) P: Sí. Buenos días. (Yes. Good morning.) HI: Soy un intérprete, ma llamo Joaquín y le voy a ayudar a practicar con la enfermera. (I am an interpreter. My name is Joaquín, and I am going to help you talk with the nurse.) P: okay.
Joaquín descrive il proprio ruolo al paziente come interprete ed aiutante al contempo.
Questo turno di parola non gli è formalmente attribuito ma è lui stesso a posizionarsi
all'interno dell'interazione come partecipante attivo. Il seguente esempio (Ibid.) dimostra
un più alto livello di visibilità rispetto alle fasi di apertura e chiusura, soprattutto in
termini di enunciati originati per iniziativa dell'interprete e in riferimento alla gestione
del dialogo:
D: let's see...no heart disease runs in the family, right? HI: Y no hay enfermedades del corazón que andan en la familia de Used, verdad? (no heart disease in your family, right?) P: No D: Has she ever been checked for the skin test for tuberculosis? HI: Le han hecho alguna vez el estudio de piel para tuberculosis? (Have you ever been tested with the skin test for tuberculosis?) P: Pues, allá me hicieron estudios pero no sé si es para eso... (Well, I had some tests done there, but I don't know if they were to check that...) HI: es una aguja que se le meta, le inyecta un poco de liquído bajo la piel y tiene que regresar dentro de
dos o tres días para que le vean si ha cambiado la piel.
90
(It is a needle thet is inserted, it injects a little liquid under the skin and you have to go back in two or three days so that they can see if you have changed your skin.)
P: No HI: No, she hasn't had that. I just described for her what it was as she said she's had different tests but she
wasn't sure if she has had tuberculosis; so I explained to her how PPD works.
In questo dialogo, l'interprete, di propria iniziativa, spiega al paziente in cosa consiste
un test per la tubercolosi ritenendo, così facendo, di non interferire nella costruzione del
rapporto di fiducia con il medico. L'interprete, in questo modo, media e dirige la
comprensione dell'enunciato originale e incide sulla relazione fra il medico e il paziente
nel momento in cui subentra come autore dell'informazione.
Come dimostrano anche gli esempi riportati, gli interpreti spesso sono partecipanti attivi
e visibili durante l'evento comunicativo. Le fasi di apertura e chiusura (di natura
formulaica e ritualizzata) mostrano un minor tasso di visibilità che si presenta perlopiù
quando si registra un coinvolgimento dell'interprete come autore del testo. Si
riscontrano poi esempi di notevole visibilità nei casi in cui l'interprete, sotto l'influenza
dei fattori sociali in gioco, sostituisce progressivamente l'interlocutore monolingue
divenendo egli stesso autore primario del testo. Attraverso il suo studio, Angelelli ha
osservato in prima persona che gli interpreti dirigono le mosse interazionali e
coordinano gli scambi di informazione fra i parlanti; i risultati così emersi hanno
avvalorato la tassonomia proposta da Baker33 secondo la quale l'interprete partecipa a:
• Relazioni strutturali, perchè collega parte del testo in questione all'evento
comunicativo nella sua complessità; l'interprete ricollega costantemente una
risposta o un commento alla globalità del tema trattato.
• Relazioni generiche, in quanto collega il testo ai testi precedenti.
• Relazioni relative al mezzo, in quanto collega il testo al mezzo col quale è
prodotto; se gli interlocutori basano il testo su una radiografia o un referto, per
esempio, l'interprete fa riferimento a questi mezzi, diversi dal mezzo testuale.
• Relazioni interpersonali, in quanto collega il testo ai partecipanti coinvolti.
• Relazioni referenziali, in quanto rapporta il testo al mondo o contesto
ambientale proprio di una lingua.
• Relazioni del silenzio, in quanto ciò che non viene detto o non può essere
espresso verbalmente ha comunque un impatto sul testo; l'interprete svolge il
33 Baker, A. (1995) Beyond translation: essays towarda a modern philology. Michigan: University of Michigan Press.
91
proprio compito durante i silenzi (le pause dei parlanti primari), interpreta il
silenzio, provoca o richiede il silenzio e riempie il silenzio altrui.
L'interprete, come abbiamo visto, detiene una moltitudine di ruoli e il termine utilizzato
dagli interpreti per definire il proprio ruolo evidenzia, ancora una volta, la tensione fra il
ruolo prescritto (invisibile) e il ruolo effettivo (visibile). In ogni caso, questa tensione
sembra esistere solo a livello percettivo, astratto; nella pratica, infatti, gli interpreti
diventano partecipanti visibili e attivi nel corso dell'interazione mediata. Molti di loro
hanno descritto il loro ruolo attraverso varie metafore:
Gli interpreti come detective; i pazienti non sempre danno risposte precise alle domande
formulate loro dai medici o dagli altri operatori sanitari; a volte, addirittura, i medici
chiedono agli interpreti di ottenere le informazioni necessarie senza definire una
domanda precisa; “Interpreters then take the lead in a line of questioning, in order to get
the answer. In other words, they become detectives, questioning the patient carefully,
hoping to discover the answer” (Angelelli 2004:131)
Gli interpreti come ponti multiuso; grazie alla loro capacità di adottare la prospettiva
culturale di entrambi i partecipanti primari, medico e paziente, gli interpreti colmano
questo divario culturale; “They provide a service to both patients and HCPs, sometimes
by educating the parties on cultural differences and other times by simply smoothing the
differences without making either party aware of the process”. (Ibid.)
Gli interpreti come intenditori di diamanti; i racconti dei pazienti sono molto diversi fra
loro in termini di contenuto e generalmente presentano un misto di informazioni
rilevanti, meno rilevanti, oppure del tutto irrilevanti; “In the telling of a story, the patient
opens up a bag full of rocks, diamonds, and dirt; it is important that interpreters be
capable of distinguishing diamonds from ordinary rocks” (Ibid.)
Gli interpreti come minatori; mentre ad alcuni pazienti piace raccontare la propria
storia, altri sono più restii a fornire le informazioni necessarie all'interprete o al medico.
“In these cases, interpreters have to find a way to extract information excavating until
they get to the gold (the necessary information), as miners do (Ibid.)
92
4.1 Il briefing
L'interazione fra medico e paziente, nonostante le barriere linguistico-culturali, è un
elemento fondamentale che può ripercuotersi sull'esito stesso della terapia prescritta. In
altre parole, non è sufficiente comunicare solo le informazioni di carattere prettamente
medico, è importante anche che i due partecipanti primari instaurino e costruiscano un
rapporto interpersonale grazie alla partecipazione dell'inteprete/mediatore. Per poter
interagire al meglio sia con l'interlocutore primario che con l'interprete è necessario
sapere cos'è un evento mediato e in cosa consiste la figura dell'interprete o mediatore
linguistico-culturale. A questo proposito sarebbe ideale organizzare una sessione
informativa preliminare, detta briefing, con entrambe le parti (fra interprete e medico, e
fra interprete e paziente) durante la quale spiegare il ruolo detenuto
dall'interprete/mediatore, fornire alcune regole base in termini di gestione dei turni di
parola, di aspettative interazionali (cosa ci si deve aspettare dall'evento mediato e dalla
performance dell'interprete) e in termini di etica professionale. Come avvisano Gentile
et alii.(1996:21) è importante che la sessione di briefing sia condotta con cautela e
professionalità:
The briefing from both clients about the subject matter of the interview needs to be handled extremely
carefully to avoid eiher client assuming, during the interview, that the interpretation will be supplemented
with what was discussed at the briefing. (Ibid.)
Secondo gli autori, è necessario chiarire che le informazioni fornite durante la fase di
briefing non verranno utilizzate dall'interprete per integrare ciò che verrà detto durante
la successiva interazione a tre; questo comportamento vizierebbe la vera essenza della
figura professionale dell'interprete alterandone il ruolo. Inoltre, se l'interprete utilizzasse
l'informazione ricevuta durante la sessione preliminare per aggiungere e completare
l'enunciato del paziente in sede di consulto medico, potrebbe dare adito a conseguenze
sfavorevoli di cui sarebbe ritenuto responsabile. Per evitare tutto ciò, l'interprete
dovrebbe organizzare la sessione informativa preliminare nel miglior modo possibile
senza entrare troppo nel dettaglio con i partecipanti: “this may be to obtain as much
information as possible when the booking is made and to avoid waiting in the company
of one client before the assignment” (Ibid 1996:22).
Piccinini (in Luatti 2006) parla di stipula preventiva di un “contratto” di mediazione,
93
una sorta di patto dove l'operatore prima dell'intervento di mediazione, definisce
insieme con il mediatore, le modalità d'intervento: posizione dei soggetti, collocazione
dei tempi per la traduzione, scambio di informazioni sul caso, gestione delle
informazioni ecc. Per mantenere la fiducia del medico (o operatore sanitario) è
necessario che il mediatore mantenga il flusso della comunicazione ma non produca
direttamente comunicazione (come vedremo la pratica spesso smentisce tali precetti); è
fondamentale cioè che l'interprete/mediatore si tenga alla “giusta distanza”:
Spesso il mediatore viene vissuto dall'utente come un confidente, egli incarna un modello di una
integrazione avvenuta, una storia di immigrazione conclusa positivamente, ma a lungo termine, per il
mediatore, il fatto di rappresentare un punto di riferimento costante, il fatto di dover essere disponibile in
ogni momento, rischia di diventare controproducente e di portare ad uno sconfinamento della dimensione
professionale in quella personale. (Ibid. 2006:99)
La formazione professionale dell'interprete che opera in questo ambito è quindi cruciale,
una professione nella quale è previsto l'instaurarsi di una relazione d'aiuto necessita di
strumenti professionali per poter stabilire con chiarezza alcune regole cardine che
proteggano l'interprete dal rischio di essere troppo coinvolto, complice e solidale con
uno dei partecipanti; il paziente col quale condivide l'appartenenza linguistico-culturale,
o l'operatore dell'istituzione che incarna l'autorità e che a volte ha un rapporto di
collaborazione continuativa con l'interprete:
Si tratta quindi di una posizione di equilibrio, il mediatore deve essere, da un lato, credibile e meritevole
di fiducia rispetto alla comunità di appartenenza, d'altro canto però, deve essere abile a non lasciarsi
coinvolgere troppo dalle problematiche legate ai singoli e alla comunità (Ibid.).
Come detto in precedenza, l'interprete può lavorare come freelance, oppure può operare
tramite un'agenzia o cooperativa o un'associazione no profit; il tipo di contratto può
essere di collaborazione o prestazione occasionale, a chiamata, oppure può lavorare
all'interno di un team stabile presso una struttura ospedaliera o socio-sanitaria. Come
suggeriscono Gentile et alii. (1996), l'importanza del briefing è necessaria anche e
soprattutto nel caso di prestazioni isolate quando cioè è prevista una singola esperienza
di comunicazione mediata. Durante il briefing, o “accordo di traduzione”, fra il
mediatore linguistico-culturale e l'operatore, è importante stabilire che tipo di
traduzione operare, come spiega Marta Castiglioni (in Luatti 2006), fornire una
traduzione “fedele e completa” può significare cose molto diverse a seconda dei casi e
94
dei contesti situazionali. Durante la compilazione di una cartella clinica o la
realizzazione di un'anamnesi, per esempio, il mediatore linguistico-culturale procederà
alla traduzione del contenuto che risponda alla domanda formulata dall'operatore,
tralasciando eventuali commenti dai pazienti e tutto ciò che non sia funzionale alla
raccolta dei dati necessari alla visita. In altre circostanze, “una traduzione fedele”
richiede che alle parole del paziente si aggiungano ulteriori spiegazioni di tipo culturale.
Diversa ancora la mediazione linguistico-culturale nell'ambito della salute mentale che,
proprio per la sua specificità, richiederebbe un approfondimento appositamente
dedicato. Secondo Castiglioni, inoltre, è importante che il mediatore linguistico-
culturale ricordi all'operatore che esiste sempre un certo livello di “intraducibilità” e che
tradurre è “dire quasi la stessa cosa” (Eco 2001)34 in un'altra lingua. Un altro tema
controverso e degno della massima attenzione è se e come interpretare e decodificare la
comunicazione non verbale, il paralinguaggio (il tono della voce, il timbro, i silenzi, le
pause ecc.) e il linguaggio del corpo (postura, sguardo, gesti ecc.) che non di rado sono
fonte di malintesi, ambiguità comunicative e fraintendimenti che possono provocare
anche pericolosi errori diagnostici o di valutazione di una data situazione:
Un esempio rappresentativo, accaduto all'inizio del nostro lavoro, è stato quello dell'assistente sociale che
di fronte al silenzio della donna cinese riguardo al nome da dare al bambino e al ritardo nell'iscrizione
nell'anagrafe, interpreta in modo sbagliato che la donna vuole dare il neonato in adozione. Il silenzio della
donna era invece motivato dalla necessità di consultare l'oroscopo cinese per la scelta del nome.
(Castiglioni in Luatti 2006:150)
Come spiega la stessa autrice, il caso sopracitato è dovuto ad un malinteso
culturalmente determinato; nelle culture occidentali il silenzio spesso significa assenso,
al contrario per gli asiatici significa dissenso. Le persone occidentali esprimono la
rabbia o il disaccordo considerando queste manifestazioni come segni d'apertura e
sincerità, nella cultura araba-mediorientale, per esempio, le persone tendono ad
interiorizzare la rabbia e il disaccordo e considerano la loro manifestazione come
inconveniente o presuntuosa. Richard Gesteland (1997), a proposito della
comunicazione interculturale, parla del cosiddetto “mito dell'orientale imperscrutabile”
(the myth of the “inscrutable oriental”), i parlanti asiatici, soprattutto cinesi,
giapponesi e abitanti dell'area meridionale del continente asiatico, presentano un
34 Eco, U. (2001) Dire quasi la stessa cosa, Bompiani, Milano. Citato in Luatti 2006:149.
95
linguaggio più indiretto, preferiscono nascondere le proprie emozioni, in particolare
quelle negative, “they seem to treat no as a four-letter-word. To avoid insulting you they
may instead murmur that will be difficult” (Ibid.). Gesteland, poi, classifica le differenze
culturali principali secondo i seguenti parametri dicotomici:
• Deal-Focus vs Relationship-Focus Cultures (Clarity vs Harmony)
• Informal vs Formal Cultures
• Rigid- Time vs Fluid- Time Cultures
• Expressive vs Reserved Cultures
• 'Low-Context' and 'High- Context' Communication (Direct Language vs Indirect
Language)
Affinchè la comunicazione interculturale abbia successo, è fondamentale tener conto di
tali differenze radicate nella cultura dei parlanti che, nella maggior parte dei casi, sono
implicite e sconosciute all'interlocutore di diversa appartenenza linguistico-culturale;
un'altra interessante distinzione individuata da Gesteland (1997) riguarda il diverso
livello di espressività dei parlanti:
- Very expressive cultures: the Mediterranean Region, Latin Europe, Latin America;
- Moderately expressive: USA and Canada, Australia and New Zealand, Eastern Europe, South Asia;
- Reserved cultures: East and Southeast Asia, Nordic and Germanic Europe.
La sessione informativa preliminare all'evento mediato vero e proprio può essere quindi
utilizzata anche per far luce su alcune divergenze culturali rilevanti delle quali è bene
informare i partecipanti primari allo scopo di evitare, o per lo meno attenuare, eventuali
malintesi basati su pregiudizi di tipo etnocentrico, se non addirittura conflitti
comunicativi scaturiti da misunderstanding di carattere interculturale. In fase di
briefing, inoltre, è opportuno definire il setting nel quale avverrà la mediazione così da
stabilire alcune regole di comportamento che possano arginare il rischio di possibili
malintesi, Castiglione (2006) propone di fissare tali regole:
− la presentazione del mediatore all'inizio dell'intervento: il mediatore linguistico-
culturale spiega all'utente il motivo della sua presenza per ottenere il consenso a
partecipare alla visita o al colloquio, oltre a ricordare la regola del segreto professionale;
− la collocazione spaziale del mediatore linguistico-culturale: come già detto
citando Gentile et alii. (1996), la disposizione delle sedie durante l'evento mediato
96
dovrebbe permettere di riprodurre il triangolo e, nel caso non sia possibile rispettare una
posizione triangolare, il mediatore dovrebbe collocarsi accanto all'utente per bilanciare
la situazione di disparità di potere e a volte d'ineguaglianza in cui ogni utente si viene a
trovare (disuguaglianza d'accesso alle risorse d'informazione e asimmetria di status
posizionale) Ancora una volta, il colloquio etnopsichiatrico costituisce un ambito di
ricerca a parte, in quest'ultimo infatti è preferibile una disposizione circolare dei
partecipanti per favorire e facilitare il flusso comunicativo;
− il turno di parola: il mediatore linguistico-culturale deve rispettare e fare
rispettare il turno di parola per consentire di ascoltare e trasmettere in modo corretto ciò
che viene detto e per permettere di evitare il crearsi di situazioni di disagio e stress.
In seguito all'evento mediato, può essere molto utile un'ulteriore sessione informativa
che prende il nome di de-briefing, ossia un incontro a posteriori fra interprete o
mediatore culturale e operatore sanitario; come afferma Rudvin (2003:152):
De-briefing can be very useful to discuss any problem that have arisen during the session that are still
unclear or may have led to a misunderstanding. It is also an opportunity for the interpreter to discuss
difficult ethical issues or dilemmas with a doctor , psychiatrist or judge if s/he needs support, advice or
simply empathy.(...) Ultimately, decisions about whether to brief/de-brief, whether or not one can offer
practical advice to the client etc. are, of course, not the responsibility of the interpreter alone but the legal
institutions themselves.
In questa sezione, abbiamo voluto riassumere i motivi principali che stanno alla base di
un'ideale sessione di briefing in vista dell'evento mediato fra paziente ed operatore
sanitario, come verrà detto nel prosieguo di questo lavoro utilizzando le testimonianze
dirette di alcune mediatrici culturali, spesso la sessione informativa preliminare (così
come quella conclusiva) non rientra però nella prassi del servizio di mediazione
culturale offerto dalle aziende socio-sanitarie, o meglio, nella pratica si riscontra (se
prevista) una forma di briefing molto più breve e concisa di quella postulata in via
teorica; spesso infatti, la sessione di briefing col paziente, è inglobata nello stesso
scambio mediato medico-paziente e si riduce ad una brevissima presentazione del
mediatore prima di iniziare la visita o consulto medico.
97
4.2 La mediazione interculturale in ambito socio-sanitario e la situazione italiana
Come scrive Rudvin (2005:331), ricollegandosi alla teoria antropologica di Kleinman35,
“le strutture sanitarie ed assistenziali sono “solo” dei sistemi come altri, non universali
nella loro struttura, e profondamente limitati dalla propria cultura di riferimento
(culture-bound)”. Il sistema sanitario è quindi un “modello concettuale” culturalmente
definito, non un modello universale stabilito a prescindere dal contesto socio-culturale
nel quale è inserito, a tal proposito scrive Baraldi (2003:110):
Queste identità culturali non sono caratteristiche predefinite di gruppi sociali, di minoranze, di nazioni o
di altri segmenti. La trasformabilità le distingue, essendo esse sistematicamente contaminate da forme
culturali diverse con cui entrano in contatto: l'identità culturale (e quindi la diversità culturale) è una
produzione, non un antecedente alla comunicazione. (…) L'informazione prodotta nella comunicazione è
una costruzione sociale, dunque non è mai oggettiva.
Il sistema sanitario pertanto, è radicato e modellato da e nella cultura di riferimento, così
come lo scopo stesso delle terapie mediche e l'impianto teorico e metodologico sul
quale il sistema pone le proprie fondamenta. Il ruolo dell'interprete-mediatore
rappresenta l'anello di congiunzione fra il linguaggio e le istituzioni, entrambi
culturalmente costituiti. Nella maggior parte dei casi le istituzioni si rivolgono ad
agenzie, cooperative o associazioni attraverso appalti o convenzioni per la gestione dei
servizi di mediazione. Come si è già detto, la mediazione può richiedere interventi
molto differenziati e può esigere varie modalità di coinvolgimento: ascolto,
accompagnamento, sostegno, orientamento, testimonianza, informazione, traduzione
linguistica e consulenza su aspetti legati all'appartenenza culturale. Da una parte dunque
la complessità del ruolo che l'interprete-mediatore è chiamato a svolgere, dall'altra
l'emergenza del fenomeno immigratorio italiano che ha comportato in concreto
l'impossibilità di elaborare e strutturare con la dovuta attenzione un modello di
mediazione efficiente ad efficace, un modello nel quale i miglioramenti sono stati
apportanti solo a posteriori, in seguito ai risultati emersi dall'esperienza diretta. La
situazione italiana si presenta ancora piuttosto eterogenea e carente di un impianto
istituzionale e normativo in grado di delineare uniformemente questo profilo
35 Kleinman, A. (1980) Patients and healers in the context of culture : an exploration of the borderland between anthropology, medicine, and psychiatry. Berkeley: University of California press.
98
professionale tuttora confuso, basti pensare alla stessa terminologia che ad oggi manca
di una definizione standardizzata ed ufficialmente riconosciuta. Tale mancanza di
strutturazione, sia a livello professionale che disciplinare, rende ancora più complessa e
problematica la definizione del ruolo dell'interprete-mediatore in ambito socio-sanitario,
così come si ripercuote sul servizio sociale offerto agli utenti stranieri. Rudvin
(2005:336) parla di “trasversalità del problema nei diversi ambiti sociali (sanitario,
giuridico, amministrativo)”, aggravata da un reclutamento spesso casuale e
improvvisato che minaccia la credibilità e l'immagine stessa di una professione che
richiede notevoli competenze tecniche e personali. Il reclutamento di interpreti
qualificati per le cosiddette “lingue a diffusione limitata”, poi, rappresenta un' ulteriore
criticità del sistema italiano: “hospitals and immigration services tend to use a collegue-
friends-yellow pages network” (Ibid.), più raro è invece il caso di team stabili di
mediatori linguistico-culturali all'interno delle strutture socio-sanitarie del Paese.
L'Italia di oggi attraversa un momento storico di transizione, nel quale proliferano e
spesso si sovrappongono profili professionali, percorsi formativi (offerti dalle università
o quelli di carattere pubblico offerti dalle ONG) e denominazioni sempre più ambigue
ed incerte; Belpiede (in Luatti 2006:246) propone un riassunto della caotica
terminologia italiana rispetto alla figura dell'interprete-mediatore:
Mediatore “interculturale”, mediatore “culturale”, mediatore “linguistico-culturale”, “operatore sociale”,
“operatore sociale e culturale”, “agevolatore/facilitatore”, “tecnico esperto in mediazione”, “tecnico
qualificato in mediazione”,...: la varietà delle definizioni evidenzia come il nome, e di conseguenza il
profilo del mediatore, siano oggetto di discussione nella maggior parte delle Regioni italiane. C'è da
chiedersi se tali opzioni definitorie siano l'esito di riflessioni o piuttosto di scelte che non riflettono una
disamina precisa, ma semplicemente espressione del contesto territoriale e del suo linguaggio.
Come sostiene la stessa autrice, tale situazione è imputabile in particolare a due processi
istituzionali: “le autonomie regionali e universitarie” (Ibid.) In assenza di una
regolamentazione a livello nazionale, ogni regione, e ciascuna università, ha creato ex
novo una moltitudine di profili formativi e di corsi di laurea che si differenziano solo
per minime variabili dei rispettivi piani didattici non facendo altro che aumentare la
frammentazione delle professioni cosiddette “sociali”. Rudvin (2006:59) descrivendo il
quadro italiano, individua una sostanziale, seppur non precisa, differenziazione: “In
Italy a distinction – albeit not yet standardized – is made between language mediator
99
(cummunity interpreter/public service interpreter) and cultural mediator (culture-
broker)”. Come spiega Rudvin, per motivi di ordine geo-politico, il ruolo del mediatore
culturale in Italia è stato nettamente predominante rispetto a quello dell'interprete e
l'interpretariato è semplicemente considerato come una delle tante attività svolte dal
mediatore culturale: “The main task of a language mediator is to translate. The assumed,
and mistaken, simplicity of this task leads to the frequent recruitment of ad-hoc
interpreters”. (Rudvin 2006:60)
In Italia, la distinzione fra interprete e mediatore linguistico-culturale risulta spesso
confusa, farraginosa, se non addirittura deviante rispetto alla reale definizione di tali
figure professionali:
Entrambe le figure condividono gli stessi obiettivi di base dell'operatore sanitario, ovvero capirsi, aiutarsi
vicendevolmente per arrivare a un'intesa, giungere a una diagnosi ed una terapia. Tradizionalmente, il
ruolo del mediatore in questo processo è più pro-attivo che non quello dell'interprete. (Rudvin 2005:338)
Rudvin propone una descrizione delle qualifiche professionali del mediatore culturale
(Ibid.):
- deve essere (preferibilmente) straniero;
- deve avere un vissuto migratorio (per stabilire l'empatia emotiva e culturale);
- attitudine all'ascolto e capacità di immedesimazione;
- livello di istruzione elevato;
- alte competenze linguistiche nella propria lingua madre sia scritta sia orale;
- buon livello culturale;
- conoscenza della realtà italiana.
L'interprete, d'altro canto, traduce ed interpreta in maniera più distaccata durante la
relazione interculturale, utilizza un “approccio dissociativo” nei confronti
dell'interlocutore, traduce con più precisione possibile quanto viene detto e deve
possedere un'attitudine all'imparzialità. Mediatore linguistico-culturale ed interprete,
inoltre, condividono la consapevolezza delle differenze interculturali e della mancanza
di corrispondenza terminologica e/o comunicativa fra lingue diverse. Rudvin (Ibid.
2005:342) afferma che nella formazione dell'interprete mancano spesso elementi quali:
− il diverso modo di descrivere i sintomi;
− i tabù culturali;
− la descrizione e la percezione del dolore;
100
− i diversi approcci alla gerarchia professionale (come comportarsi: Lei/tu,
contatto visivo, tono di voce, poter contraddire);
− le differenze nel rapporto medico-paziente;
− le differenze nel rapporto uomo-donna;
− le percezioni legate all'età;
− il ruolo della famiglia;
− il consenso informato;
− la riservatezza.
Detto questo, sarebbe incauto asserire che la figura del mediatore linguistico-culturale e
quella dell'interprete sono figure antitetiche; queste due figure professionali
rappresentano piuttosto ruolo diversi ma appartenenti ad uno stesso continuum, o spettro
professionale nel quale si ha, da una parte, una figura più pro-attiva e partecipante, e
dall'altra, una figura più distaccata ed imparziale che svolge un compito di
traduzione/interpretazione più automatico (ma non per questo più facile!).
Come conclude Rudvin (Ibid.)
si potrebbe ipotizzare una distinzione di ruoli che vede il mediatore culturale chiamato nei casi di
necessità di “mediazione” (dove si sono già verificati problemi di comprensione o di altra natura che
necessitano di un intervento più attivo e per pazienti con difficoltà psicologiche o sociali). Dato che la
formazione del mediatore culturale richiede tempi più lunghi e un pool di mediatori più ristretto, si
potrebbe ricorrere ad interpreti per compiti più mirati, brevi e circoscritti e per casi “standard”.
101
CAPITOLO 5
La ricerca sul campo: un'indagine nel settore sanitario emiliano
Dopo aver presentato l'impianto teorico sul quale poggia il presente lavoro, in questa
sezione verrà proposta una breve ricerca sul campo; l'ambito di studio è circoscritto alle
strutture ospedaliere emiliane e la selezione degli ospedali è stata in parte guidata dalla
possibilità di reperimento dei dati d'interesse, e in parte basata su un criterio di tipo
demografico, legato sia al numero di abitanti dell'area di riferimento, sia alla
proporzionale presenza di stranieri sul territorio.
Il metodo utilizzato è stato quello dell'intervista, tale strumento metodologico è stato
selezionato fra le altre opzioni possibili (questionario, conversazione registrata, video
ecc.) per la relativa facilità d'impiego nel contesto in questione avendo scelto di
strutturare l'intervista in maniera da non risultare invadente o impositiva rispetto ai
soggetti intervistati, ossia le mediatrici culturali. In altre parole, la struttura, seppur
conservando una griglia di base che è stata mantenuta uniforme per tutte le interviste
svolte, non presenta una scaletta di domande rigidamente definita; ciò che costituisce la
struttura fissa dell'intervista sono piuttosto gli spunti tematici proposti a ciascuna delle
mediatrici culturali intervistate. L'organizzazione strutturale dell'intervista utilizzata
nella nostra ricerca può essere descritta come segue:
1) Presentazione della mediatrice, provenienza geografica-culturale, periodo di
permanenza nel nostro paese, tipo di figura professionale ricoperta nella struttura
socio-sanitaria;
2) Formazione professionale, livello di istruzione, tipo di contratto di lavoro;
3) Descrizione del ruolo che ricopre e dell'organizzazione del servizio di mediazione
culturale nella struttura socio-sanitaria di riferimento;
4) Discussione di alcuni elementi specifici: briefing, segreto professionale,
terminologia tecnica, problematiche linguistiche e traduttive, gestione dei turni di
parola e utilizzo della 1^ o 3^ persona durante la mediazione;
5) Gestione delle differenze culturali: quali sono le maggiori differenze incontrate;
racconto di aneddoti legati alla comunicazione interculturale.
Le interviste sono state previamente concordate, o con la coordinatrice del servizio di
102
mediazione contattata telefonicamente o via e-mail, oppure con la mediatrice stessa (con
la quale ho potuto parlare telefonicamente, utilizzando i recapiti telefonici pubblicati sul
sito Internet dell'azienda socio-sanitaria relativa). Le strutture sanitarie presso le quali si
sono svolte le interviste sono:
− l'Ospedale SS. Annunziata di Cento (Ferrara);
− l'Ospedale S. Anna di Ferrara;
− l'Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna;
− l'Ospedale di Bentivoglio (Bologna);
− il Policlinico di Modena;
− il Poliambulatorio di Reggio Emilia Viale Monte S. Michele
− Lo “Spazio Salute Immigrati”, Ausl di Parma
Da un punto di vista pratico, durante l'intervista mi sono servita di un semplice
quaderno per gli appunti sul quale ho annotato sinteticamente le risposte delle
mediatrici, trascrivendo (quando possibile in termini mnemonici) alcuni frammenti di
discorso diretto che ho successivamente riportato in questo lavoro per rendere la
testimonianza diretta dell'intervistata e per sottolineare alcune scelte lessicali
significative che, come vedremo, risultano particolarmente interessanti ai fini della
nostra indagine.
La raccolta delle interviste alle mediatrici culturali si è svolta nell'arco di circa un mese
(fra dicembre 2010 e gennaio 2011) e, compatibilmente con la disponibilità accordatami
dalle operatrici, è stata elaborata per costituire la controparte empirica della sezione
teorica con la quale abbiamo aperto il presente lavoro. Le interviste si sono svolte in co-
presenza, delineandosi cioè come conversazioni a due semi-strutturate e faccia a faccia,
fra intervistatore (chi scrive) e intervistato (la mediatrice culturale). Solo in due casi,
come si dirà, l'intervista è stata condotta in presenza di altri soggetti che hanno
mantenuto il ruolo di partecipanti passivi, ascoltatori, forse influenzando in parte la
libertà di risposta dell'intervistata. La possibilità di parlare direttamente con il soggetto
centrale sul quale verte questo studio è stata estremamente produttiva ed illuminante;
da una parte, mi ha permesso di confermare o confutare certi aspetti teorici prescritti
dalla letteratura e dalla saggistica che si è occupata di questo tema; dall'altra, mi ha
permesso di conoscere l'aspetto più umano di questa figura professionale tanto
103
controversa quanto affascinante; le mediatrici con le quali ho potuto parlare si sono
dimostrate estremamente disponibili, alcune di loro mi hanno persino ringraziata per
l'attenzione dedicata loro, e gli aneddoti che mi hanno raccontato sono stati
preziosissimi per conoscere un po' più da vicino la loro realtà professionale e quella
delle strutture socio-sanitarie della Regione Emilia-Romagna. Come scrive Rudvin
(2006:63):
On principle, the hospitals (often in conjunction with local authorities) employ migrant staff (trained or
untrained), mainly female, who do an excellent job, but are badly underpaid and have little long-term job
security. Many have families and small children to care for and rely on their husbands as the principal
breadwinners.
Questo è in sintesi il quadro che mi si è prospettato dinnanzi una volta entrata nel vivo
della ricerca sul campo: un mondo quasi esclusivamente femminile, composto da donne
in gamba che svolgono la loro professione con grande impegno e dedizione ma anche
con grande sacrificio.
Le interviste alle mediatrici culturali:
5.1 Ospedale SS. Annunziata, Cento (Ferrara)
Mediatrici pakistane
Il primo dicembre 2010 mi reco all'ospedale SS. Annunziata di Cento in provincia di
Ferrara, essendo il mio comune di residenza ho pensato di iniziare la mia indagine sul
campo proprio a cominciare dalla mia città (o meglio cittadina, l'ultimo documento dell'
“Ufficio Statistiche e Censimenti” del 31 dicembre 2009 dichiara un totale di 35.150
abitanti in tutta l'area comunale). Mi rivolgo alle infermiere del reparto ginecologia-
ostetricia chiedendo se è possibile fare una breve intervista a uno dei mediatori culturali
in servizio, la capo-sala mi dice che al mercoledì c'è la mediatrice pakistana e al venerdì
quella marocchina, così riesco ad avere un colloquio con Sadia, una giovane pakistana,
studentessa di lingue (inglese e spagnolo) presso l'Università di Ferrara, che lavora
saltuariamente come mediatrice linguistica da circa un anno e mezzo. Ha 22 anni e da
cinque anni vive in Italia, parla molto bene l'italiano, quattro anni fa ha frequentato un
104
corso semestrale di mediazione culturale organizzato gratuitamente dal Comune di
Cento dove ha seguito lezioni di lingua italiana e un breve corso intensivo incentrato
sulla terminologia medica e sull'organizzazione ospedaliera; ha trovato il corso molto
utile e l'attestato finale che le hanno rilasciato le ha permesso di registrarsi fra i
mediatori culturali della Cooperativa Camelot36 con sede a Ferrara.
Contratto e remunerazione
Ora ha un contratto a chiamata con questa cooperativa e occasionalmente, per lo più
quando c'è bisogno di sostituire un'altra mediatrice, la chiamano uno o due giorni prima
per sapere se è disponibile. Mi dice che è molto felice di fare questo mestiere, certo
lavora poco (a volte passano settimane intere senza ricevere nessuna telefonata dalla
cooperativa) e quando le chiedo se è soddisfatta della remunerazione che percepisce mi
risponde: “prendo 11€ l'ora, però non me lo sono mai chiesto se lo stipendio è poco. A
me piace questo lavoro”.
Segreto professionale e alleanze
La cooperativa per la quale lavora le ha fatto firmare un contratto che prevede, fra le
altre cose, la sottoscrizione di regole di deontologia professionale; alcune di queste si
riferiscono al rapporto col paziente e riguardano il segreto professionale che il
mediatore linguistico-culturale è tenuto a coprire, così come si riferiscono alla necessità
di mantenere un rapporto professionale col paziente. Sadia mi dice che a volte, anche se
non dovrebbe, lascia il proprio numero di telefono ai pazienti: “se è un pakistano che
non parla una parola di italiano e mi chiede un aiuto io lo lascio [il numero] perchè se
hanno bisogno mi dispiace..”.
Briefing, 1^ o 3^ e registro linguistico
Le chiedo poi se è prevista una sezione preliminare (briefing) durante la quale il
mediatore possa spiegare al paziente in cosa consiste il suo ruolo e come comportarsi
36 Gli operatori della Cooperativa coprono oggi una ventina di gruppi linguistici tra cui: arabo, russo, albanese, rumeno, urdu, ucraino, indi, cinese, oltre naturalmente a inglese, francese, tedesco e spagnolo. Grazie alle loro competenze si sono attivati progetti e servizi di mediazione linguistico-culturale in: ambito scolastico, ambito sanitario, ambito penitenziario, ambito sociale, ambito informativo. (v. sito ufficiale: http://www.coopcamelot.org )
105
durante la comunicazione mediata (per esempio in merito alla gestione e allocazione dei
turni di parola, alla disposizione logistica dei partecipanti, ai problemi di carattere
interculturale e, soprattutto, in merito alla figura del mediatore stesso), la ragazza mi
risponde sommariamente di sì, che si presenta al paziente e gli dice che è una
mediatrice. Le chiedo poi se durante l'evento mediato parla in prima o in terza persona e
mi risponde che loro, i mediatori, parlano sempre in terza persona; la comunicazione,
non solo linguistica ma anche paralinguistica dei parlanti monolingui, sarebbe quindi
sempre rivolta al mediatore. Sadia porta il velo, è musulmana e parla cinque lingue:
l'urdu, il punjabi, l'inglese, l'italiano e, a livello ancora scolastico, lo spagnolo; quando
lavora come mediatrice culturale negli ospedali di Ferrara e provincia, le capita
prevalentemente di mediare per pazienti pakistani, indiani e bangladeshi. Da un punto di
vista terminologico-lessicale, mi spiega che durante la mediazione cerca di tradurre ciò
che dice il medico nella maniera più semplice possibile (abbassamento del registro
linguistico) e, siccome il medico italiano utilizza spesso vocaboli tecnici che non
possiedono un equivalente lessicale in lingua urdu, la giovane mediatrice ricorre
frequentemente alla parafrasi e nel caso in cui si trovi di fronte ad un nome proprio (di
un medicinale o di una procedura medica per esempio) che non esiste o non è
conosciuto in Pakistan, allora prima spiega di cosa si tratta, e poi fornisce direttamente il
termine italiano. Sadia dice che a volte potrebbe fornire il termine corrispondente in
inglese, lingua co-ufficiale del Pakistan utilizzata negli affari e nella redazione di atti
governativi oltre che dall'élite urbana, ma generalmente gli immigrati pakistani che
giungono in Italia non hanno una conoscenza sufficiente dell'inglese per poterlo
utilizzare come lingua veicolare.
Differenze interculturali
Mi racconta poi che l'aspetto più complicato del suo lavoro riguarda le differenze
culturali, riferendosi in particolare al rapporto uomo-donna e al modo di trattare la
malattia e di relazionarsi col paziente. Quando le capita di rapportarsi con un paziente
pakistano di sesso maschile, spesso si trova in imbarazzo, arrossisce e vede che anche
l'uomo, almeno inizialmente, è in una situazione di disagio quando si ritrova a parlare
direttamente con la giovane ragazza di questioni piuttosto intime, se non veri e propri
tabù. Poi continua: “qui il dottore dice tutto subito! In Pakistan non è così, non dici
106
subito al paziente che ha qualcosa di brutto”, mi spiega che la cosa più difficile per lei è
quella di dover comunicare direttamente al paziente una notizia o un referto negativo;
nella sua cultura le cattive notizie si comunicano ai familiari, non al paziente, e in
maniera più indiretta, lasciando ad intendere, ed utilizzando un linguaggio più “criptico”
nel contesto di una comunicazione meno esplicita. “Noi siamo molto più chiusi” dice
Sadia, “se il dottore dice una frase, poi io ne devo dire cinque di frasi per spiegare”;
allora le chiedo: “quindi non traduci solo quello che dice il medico ma puoi parlare di
più?” e mi risponde: “Sì aggiungo molto, perchè devo spiegare piano piano che cosa
succede”. In questo caso la mediatrice non ha il ruolo di semplice “animatore”
(Goffman 1981) dell'enunciato originale ma agisce in qualità di vero e proprio “autore”
(Ibid.), assumendosi la responsabilità di ciò che dice e di ciò che aggiunge di propria
iniziativa in caso di “non-renditions” (Wadensjö 1998).
Gestire l’emotività e i temi tabù
Mi racconta che una volta, davanti ad una coppia di pakistani in attesa del primo figlio
(la donna era ormai al termine della gravidanza), il medico sentendo che il battito
cardiaco del feto era molto debole, disse a Sadia che il bimbo sarebbe potuto morire alla
nascita. Sadia allora, in grande difficoltà, cercò lentamente, e con un dispendio di tempo
certamente superiore a quello impiegato dal medico, di dare ai genitori la cattiva notizia,
ma solo al termine di un lungo e faticoso discorso disse che “forse poteva esserci la
possibilità che morisse”, a quel punto la donna iniziò a piangere e Sadia mi dice che
quando un paziente piange, lei cerca di consolarlo, di rassicurarlo, gli dice che non deve
preoccuparsi e che qui in Italia i dottori sono molto bravi. Il mio tempo a disposizione
con Sadia è terminato, la ringrazio e lei gentilmente decide di lasciarmi il suo numero
di telefono per ulteriori informazioni sulla sua professione.
Intervista alla seconda mediatrice pakistana
Come detto in precedenza, presso l'ospedale SS. Annunziata di Cento il mercoledì è il
giorno in cui è presente la mediatrice pakistana, forse a causa di più appuntamenti
concordati per la stessa giornata, riesco ad incontrare una seconda mediatrice pakistana;
ha appena terminato la mediazione durante l'ora di fisioterapia di un giovane pakistano
107
presso la palestra del reparto di ortopedia, così mi presento e le chiedo di poterle fare
qualche domanda in merito al suo ruolo professionale. Da subito si mostra molto
disponibile, si chiama Aziz, ha una cinquantina d'anni, ha il capo coperto dal velo e
lavora come mediatrice da circa dieci anni.
Contratto e formazione
Anche lei lavora all'interno della Cooperativa Camelot e oltre a collaborare con
l'ospedale di Cento, due giorni a settimana per sei ore complessive presta servizio
presso lo sportello dell'Azienda USL di Ferrara in via Boschetto dove si trovano
consultori familiari e ambulatori ginecologici. Le chiedo che tipo di formazione ha
avuto e mi risponde che, quando ha iniziato lei, non era ancora previsto nessun tipo di
tirocinio, così ha maturato l'esperienza direttamente sul campo.
Registro linguistico, 1^ o 3^ persona e briefing
Mi spiega che durante la mediazione utilizza un linguaggio semplice, comune, evitando
i tecnicismi utilizzati dal medico e semplificando ciò che viene detto il più possibile, la
mediazione avviene sempre in terza persona. Il suo ruolo, oltre alla mediazione
linguistico-culturale, comprende anche l'aiuto alla comprensione dei documenti
necessari ai pazienti immigrati e il servizio di accoglienza indirizzato a questi ultimi
(quando lavora allo sportello della USL). Aziz mi dice che quando incontra un nuovo
paziente, presenta brevemente il proprio ruolo: “dico che sono lì per aiutare a parlare col
dottore”.
Aspetti interculturali e temi tabù
Le chiedo poi se si è mai trovata di fronte a difficoltà comunicative legate alla diversità
culturale, mi risponde che durante gli appuntamenti ginecologici, per esempio, le donne
pakistane sono un po' a disagio nello scoprire il proprio corpo, così utilizzano un
lenzuolo per lasciare scoperta solo la zona interessata.
Rapporto coi pazienti e alleanze
Mi racconta inoltre, che a volte le pazienti cercano un aiuto che vada oltre l'incontro di
mediazione in ospedale, spesso chiedono ad Aziz di poter avere il suo numero di
telefono o di poterla incontrare al di fuori, “ma io dico di no, non si può” dice Aziz, e
108
spiega loro che se vogliono possono tornare in ospedale per parlare di nuovo con lei. In
questo modo rispetta la deontologia professionale e “sfugge” al rischio di creare
aspettative che non dovrebbe e non sarebbe in grado di soddisfare.
5.2 Istituto Ortopedico Rizzoli (Bologna)
Il 6 dicembre mi reco all'Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna ed ho un colloquio con
la caposala della “Clinica Ortopedica e Traumatologica IV a prevalente indirizzo
Oncologico (ex-V Divisione)”, qui vengono trattati, prevalentemente, pazienti affetti da
tumori dell'apparato muscolo-scheletrico, sia dell'osso sia delle parti molli37; l'istituto è
rinomato a livello internazionale e i pazienti che ricorrono alla competenza dello staff
medico di questa struttura provengono da tutto il mondo, anche se per ragioni di
distanza geografica i pazienti europei costituiscono la maggior parte. La caposala mi fa
subito presente che in ospedale non è previsto uno staff di mediatori culturali stabile;
per le necessità di interpretariato per pazienti IOR è possibile usufruire del servizio
offerto dalla ONLUS denominata AMISS, organizzazione già fornitrice di tale servizio
per le aziende ospedaliere dell'area metropolitana. Il servizio di mediazione può essere
richiesto:
• in urgenza: l'intervento della mediazione deve essere eseguito entro le 24h
successive alla richiesta;
• programmato: l'intervento della mediazione verrà eseguito dopo le 24h dalla
richiesta.
Il coordinamento del Servizio di mediazione Interculturale Socio-Sanitario AMISS è
attivo dalle ore 8.00 alle ore 17.00 dal lunedì al venerdì per le richieste di mediazione
programmata, e dalla ore 8.00 alle ore 21.00 tutti i giorni per le mediazioni urgenti.
A.M.I.S.S. (Associazione Mediatrici Interculturali in ambito Sociale e Sanitario) si è
costituita in seguito al Corso di Formazione per Mediatrici Interculturali in ambito
Socio-Sanitario (h.700), coordinato dall'ISI (Informazione Salute Immigrati). La
formazione è stata realizzata con la collaborazione dei servizi territoriali competenti ed
37 http://www.ior.it/curarsi-al-rizzoli/clinica-ortopedica-e-traumatologica-iv-prevalente-indirizzo-oncologico
109
offre i seguenti servizi: interpretariato sociale, mediazione interculturale, indicazioni
operative per aree d'intervento specifiche, strategie di lettura delle culture e dei diversi
codici comunicativi. L'associazione è costituita da un gruppo di donne provenienti da
diversi paesi: Albania, Algeria, Cina, Ex Jugoslavia, Filippine, Romania, Marocco,
Nigeria, Perù, Pakistan, Venezuela; che sono formate specificamente per operare nei
servizi sociali e sanitari che dispongono di strumenti linguistici e culturali adeguati per
interventi di mediazione. L'URP (Ufficio Relazioni con il Pubblico) del Rizzoli, in caso
di richiesta contatta l'associazione AMISS per concordare il servizio di mediazione in
base alle esigenze del richiedente. La caposala mi spiega che per i malati immigrati, la
legge italiana prevede la concessione di un permesso di soggiorno temporaneo per cura;
i cittadini stranieri possono chiedere di entrare in Italia per cure mediche, a condizione
che vengano loro concessi il visto d'ingresso da parte dell'Ambasciata italiana o
Consolato competente nel paese di provenienza e il permesso di soggiorno per cure
mediche da parte della Questura. Le Regioni, poi, forniscono aiuti umanitari volti
all'assistenza sanitaria provvisoria degli immigrati e all'eventuale ricongiungimento dei
familiari38; mi spiega inoltre che per i pazienti oncologici (che costituiscono la
maggioranza nella Clinica IV del Rizzoli) il trattamento completo dura in genere un
anno: un periodo iniziale di cure chemioterapiche, l'eventuale intervento chirurgico e
successivamente un ulteriore ciclo chemioterapico. Durante questo anno di cure
mediche e chirurgiche, il cittadino extracomunitario è sostenuto economicamente dallo
Stato Italiano. Nel caso, poi, di clandestini che giungono direttamente al Pronto
Soccorso, la caposala mi dice che per etica professionale gli operatori sanitari sono
tenuti ad accoglierli e sarà poi compito della direzione sanitaria rivolgersi alla Regione
per regolarizzare l'assistenza del paziente. Ci sono poi associazioni di volontariato che
offrono il loro supporto ai pazienti stranieri anche per ciò che concerne la presa in
carico delle loro famiglie; all'interno dell'Istituto Rizzoli, inoltre, si trova la Casa delle
Suore che fornisce alloggi ai degenti immigrati e l' “Associazione per lo studio e la cura
dei tumori delle ossa e dei tessuti molli” mette a disposizione case ed appartamenti
durante il periodo di permanenza del malato grazie alle donazioni di coloro che la
sostengono. La caposala mi informa che prima di iniziare i trattamenti terapici,
l'immigrato deve essere preso in cura da un pediatra (nel caso di bambini) o da un
38 http://poliziadistato.it/articolo/219-Ricongiungimento_familiare
110
medico di base e mi spiega che la chemioterapia è regolata da protocolli internazionali
tali da permettere al paziente di poter proseguire la cura anche una volta fatto ritorno al
proprio Paese. Per quanto riguarda l'aspetto linguistico del rapporto col paziente
straniero, mi informa che il documento relativo al consenso che ogni paziente deve
firmare è disponibile in varie lingue (quelle a maggior diffusione mondiale) e, al
bisogno, la direzione può stilarne una copia nella lingua richiesta dal malato in cura. La
caposala mi racconta che lo staff infermieristico del Rizzoli è composto da operatori
provenienti da varie nazioni: rumeni, polacchi, paraguayani, ucraini ecc. e qualche
tempo fa poteva capitare che facessero loro stessi da interpreti-mediatori ai pazienti
stranieri che condividevano la loro lingua; mi spiega però che lei è sempre stata
contraria (salvo casi di emergenza) a queste mediazioni improvvisate: “tradurre non è
facile e in ogni caso non sono pagati per fare questo..poi impiegherebbero tempo che
dovrebbero utilizzare per fare altro!”. Il tema della mediazione linguistico-culturale sta
guadagnando un riconoscimento crescente e, nonostante ci siano ancora molti punti
controversi e molti aspetti sottovalutati, si sta acquisendo progressivamente la
consapevolezza necessaria per dedicare la giusta attenzione all'identità linguistica e
culturale del cittadino straniero, con l'obiettivo di garantire il rispetto del diritto alla
salute di ogni individuo.
5.3 Ospedale S. Anna di Ferrara
Mediatrice di lingua araba
Il 7 dicembre alle ore 8.30 ho un appuntamento con Dhouha presso l'Arcispedale S.
Anna di Ferrara. Dhouha è la mediatrice culturale di lingua araba che tre giorni a
settimana (per un totale di 8 ore settimanali) presta servizio di mediazione linguistico-
culturale nell'Azienda Ospedaliero-Universitaria di Ferrara. L'appuntamento con la
mediatrice è stato concordato precedentemente con la coordinatrice dell'Ufficio
Accoglienza e Mediazione, Cinzia Gallerani, alla quale mi sono rivolta su invito della
responsabile interaziendale Sandra Bombardi, contattata all'indirizzo mail pubblicato sul
sito Internet dell'ospedale. Sulla facciata del depliant relativo al servizio di mediazione
dell'Ausl di Ferrara (v. Appendice) compare il titolo: “accoglienza è mediazione,
111
mediazione è accoglienza” e vengono poi forniti tutti i contatti necessari (mail, indirizzi,
numeri di telefono e fax), oltre ad una breve descrizione dei servizi di mediazione
offerti e alle tabelle relative agli orari durante i quali si svolge il servizio nelle varie
lingue. Durante l'intervista a Dhouha, tenutasi nell'Ufficio Accoglienza e Mediazione, è
presente, qualche scrivania più distante, anche la coordinatrice C. Gallerani e, di tanto in
tanto, entra qualcuna delle altre mediatrici in servizio (questo forse ha in parte
condizionato la libertà di risposta di Dhouha in conseguenza al “monitoraggio”, seppur
indiretto e discreto, esercitato dalla semplice compresenza della coordinatrice e delle
colleghe di passaggio). La mediatrice di lingua araba ha un'agenda colma di
appuntamenti dovuta alla forte presenza di arabofoni nella zona, Dhouha è tunisina e
vive in Italia da nove anni, lavora per la Cooperativa Camelot (come Sadia e Aziz) e dal
2007 si occupa di mediazione in ambito socio-sanitario, mentre prima lavorava come
mediatrice per le scuole.
Confronto fra la mediazione in ambito scolastico e in ambito sanitario
Di sua iniziativa mi racconta che quando lavorava nelle scuole spesso si trovava di
fronte a ragazzi che vivevano situazioni difficili e ai quali, dopo essersene guadagnata la
fiducia, era chiamata a dare un sostegno psicologico-assistenziale; nel mondo arabo, mi
racconta, l'istruzione utilizza metodi didattici più formali così, dopo un primo periodo di
sostanziale ottimismo di fronte alla “informalità” del sistema italiano, spesso gli studenti
immigrati si ritrovano disorientati, hanno difficoltà durante il loro percorso scolastico e
soffrono l'emarginazione sociale da parte dei loro coetanei. In ospedale, continua
Dhouha, è molto diverso, la frustrazione per la non-accettazione è un tema a parte e il
mediatore ha il compito di aiutare il paziente a comunicare col medico e viceversa.
Formazione
Le chiedo poi che tipo di formazione è richiesta per ricoprire il suo ruolo e, davanti alla
sua titubanza, le chiedo se ha dovuto frequentare un corso o un tirocinio per poter
praticare, Dhohua mi risponde vagamente dicendomi che l'anno scorso hanno
partecipato ad un corso nazionale sulla mediazione.
Dialetti e registro linguistico
Per quanto riguarda la terminologia tecnica e le eventuali difficoltà di traduzione, mi
112
racconta che deve cercare di spiegare ciò che dice il medico nella maniera più semplice
e chiara per il paziente (abbassamento di registro); quando si tratta di vocaboli di
difficile traduzione o impossibili da tradurre con un corrispettivo termine in lingua
araba, a volte ricorre al francese (data la francofonia di una parte della comunità araba
che ha studiato il francese a scuola; Dhouha mi spiega però che le giovani generazioni
parlano sempre meno il francese in seguito ad un processo di arabizzazione iniziato
negli anni '90). Un altro punto rilevante per quanto riguarda l'aspetto linguistico, ha a
che fare con la frammentazione del mondo arabo in una moltitudine di varietà39
regionali o locali che sono solo in parte mutuamente intelligibili per i rispettivi locutori;
solo l'arabo classico dei testi scritti è condiviso da tutti, mentre l'arabo parlato presenta
un quadro piuttosto eterogeneo. A volte Dohuha è chiamata a mediare per un paziente
arabofono che parla una varietà di arabo diversa dalla sua, in questi casi, mi racconta,
cerca di fare il possibile per farsi capire, anche aiutandosi con disegni attraverso i quali
spiega il problema medico rilevato ed illustra le azioni e le cure (terapeutiche) che il
medico prescrive. A questo proposito, Rudvin scrive:
Interpreters for clients from the large international language groups such as English, Spanish, French and
Arabic will often not be from the client's own country; apart from the fact that the vast variety of
“englishes”, “frenches”, “spanishes”, etc., have different semantic and grammatical features from the
“standard models” of the world languages, they clearly do not share their culture referents – so not only
do the communication models differ (directness, distance, politeness, semantic overlap, etc.) - even if they
are speaking the same language (indeed many interpreters find it difficult to even understand varieties of a
particular language), but their real-world referents do not overlap. Varieties of standard languages
(especially colonial languages) are sometimes described as “cross-cultural”, or “nativized” - that is, the
language has been adapted -semantically, grammatically- to its new terrain and culture (for example,
English in the Indian subcontinent or East or Central Africa), and reflects that reality and world-vision,
rather than, say, the UK or the US. (Rudvin 2006:67)
1^ o 3^ persona
In seguito alla domanda circa l'utilizzo della prima o della terza persona durante la
mediazione, risponde: “so che bisognerebbe usare la prima persona, però il paziente se
parlo dicendo io al posto di lui può non capire...molti di quelli che arrivano sono
39 La lingua araba è parlata in: Algeria, Arabia Saudita, Bahrain, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iraq, Giordania, Kuwait, Libano, Libia, Mauritania, Marocco, Oman, Qatar, Sudan, Siria, Tunisia, Autorità Nazionale Palestinese (Cisgiordania e Gaza), Sahara Occidentale, Yemen (parlato dalla maggioranza dei cittadini) e in molti altri paesi, fra i quali Israele, come lingua di minoranza.
113
analfabeti...”; il ricorso alla prima persona, mi dice, rischierebbe di confondere il
paziente e di complicare ulteriormente la comunicazione.
Aspetti interculturali, rapporto uomo-donna e temi tabù
L'intervista procede poi sull'aspetto interculturale della mediazione e chiedo quali siano
le difficoltà maggiori che ha dovuto affrontare, Dohuha è un po' perplessa, le chiedo se
per esempio il rapporto uomo-donna fra mediatrice e paziente è problematico e subito
mi risponde che questo non è vero e che le donne arabe, soprattutto quelle istruite, sono
molto rispettate; a questo punto mi rendo conto che Dhouha ha interpretato la mia
domanda come insinuante e puntualizzo che non mi stavo riferendo al rispetto, quanto
ad un eventuale imbarazzo nella mediazione uomo-donna quando si affrontano temi
intimi e possibili tabù. Dhouha allora sorride e (parlando a bassa voce) dice: “a volte sì,
soprattutto per le malattie sessualmente trasmissibili” e mi racconta di una coppia con
problemi di infertilità, l'uomo aveva un' infezione genitale che aveva tenuto nascosta
alla moglie; i medici, grazie all'aiuto di Dhouha, si resero conto nel corso delle varie
visite succedutesi che la moglie ignorava la situazione del marito e un giorno, in
occasione di un appuntamento individuale al quale si era presentata solo la donna
insieme al figlio piccolo, decisero di comunicare alla giovane madre la realtà dei fatti
tramite la mediazione di Dhouha.
Il distacco
Le chiedo allora se si siano mai verificati casi in cui diventa difficile mantenere una
posizione di distacco e imparzialità e mi risponde che con i pazienti precisa sempre i
limiti del suo ruolo e che, in caso di bisogno, dice loro di utilizzare il servizio
dell'ospedale per avere un supporto di mediazione. La mediatrice tunisina si mostra
molto disponibile di fronte alle mie domande e mi racconta qualche aneddoto del suo
lavoro; mi racconta che le è successo in due occasioni di assistere il paziente anche in
sala operatoria durante l'intervento, la prima volta si trattava di una turista siriana che, a
seguito di un incidente, dovette subire un intervento d'emergenza al S. Anna e, non
conoscendo l'italiano, si avvalse dell'aiuto di Dhouha la cui presenza fu richiesta anche
durante l'operazione chirurgica. Il secondo caso riguarda un uomo che dovette subire un
intervento al cervello, Dhouha mi spiega che si trattò di un episodio molto delicato, il
114
paziente parlava una varietà dialettale di arabo che Dhouha conosceva solo in parte,
quindi, a seguito di una decisione presa dallo staff medico, si pensò di preparare una
serie di disegni per spiegare al paziente il tipo di intervento che avrebbe subito; la
presenza di Dhouha in sala operatoria le fu richiesta perchè l'uomo sarebbe rimasto
cosciente durante l'operazione ed era necessaria la presenza di una persona che potesse
capire la sua lingua. Dhouha mi racconta che fu una giornata piuttosto stressante ma che
decise di accettare quell'impegno per sostenere il paziente, poi mostrandomi il dito, mi
racconta che l'uomo le strinse la mano con forza durante tutta l'operazione e una volta
uscita dalla sala operatoria si ritrovò con le mani tutte indolenzite.
Quando le chiedo degli aspetti più difficili del suo mestiere a livello interculturale,
risponde che in Tunisia si ha un rapporto meno diretto col paziente, così, quando è al
corrente che la situazione clinica di un paziente è molto grave, cerca di dare coraggio e
di infondere fiducia nel paziente, lo invita a pregare, a rivolgersi alla religione (“in
Tunisia si prega Allāh per avere conforto”); anche con lo staff medico del S. Anna,
continua, c'è un grande lavoro di squadra, quando la situazione è un po' delicata i medici
hanno prima un incontro con la mediatrice (briefing) per spiegarle il problema medico
in questione, cosa intendono fare e come affrontare il paziente.
Compiti aggiuntivi
Mi racconta inoltre che nel caso delle gestanti di lingua araba, Dhouha le segue durante
tutto il percorso della gravidanza e, una volta giunte alla 38^ settimana, è la mediatrice
stessa che si preoccupa di controllare che la cartella clinica sia completa di tutti i
documenti necessari affinchè non manchi nulla; la mediatrice diviene così una figura di
supporto sia in termini linguistico-assistenziali che operativi, (per esempio quando
controlla i documenti della partoriente).
Rapporti con la comunità e fiducia
Quando le domando poi se non ha mai avvertito il rischio di prendere troppo a cuore il
caso di un malato, suo connazionale, o col quale condivide la lingua e in parte la
cultura, mi risponde che ciò che le ha permesso di mantenere il giusto distacco è il fatto
di non frequentare la comunità arabofona locale; questo le ha garantito, fra l'altro, una
certa credibilità come professionista “neutrale”: “loro sanno che non vado a dire tua
moglie ha questo o tuo fratello ha questo, così capiscono che possono fidarsi di me...se
115
li incontro al supermercato però li saluto..come stai e poi basta..”; Dhouha sottolinea
così, che è riuscita a guadagnarsi la fiducia dei pazienti grazie alla non frequentazione
della comunità di immigrati di lingua araba, se così fosse stato, i pazienti avrebbero
avuto diffidenza nei suoi confronti per paura che il segreto professionale non venisse
mantenuto. Mi racconta poi, che quando il servizio di mediazione in ospedale non era
ancora strutturato su basi continuative, capitava che i pazienti portassero con loro
qualche parente o conoscente che potesse parlare italiano e fungere quindi da interprete,
così Dhouha, sorridendo, mi riporta un caso in cui il parente aveva tenuto nascosta la
complicata situazione medica del malato, i medici avevano sospettato qualcosa, e alla
fine si scoprì che al paziente era stato detto che l'intervento chirurgico serviva per
“togliere un microbo”!
5.4 Ospedale di Bentivoglio (Bologna)
Mediatrice di lingua araba
Mercoledì 15 dicembre, previo accordo telefonico, arrivo all'ospedale di Bentivoglio
(Bo), e nello studio dedicato al servizio di mediazione culturale incontro Nadia,
mediatrice di lingua araba. Nadia, quasi giustificandosi, mi dice subito: “forse non sono
la persona più indicata per risponderti..”; le spiego brevemente il mio progetto di tesi
dicendole che si tratta di una semplice chiacchierata e che il suo aiuto potrebbe
comunque essere molto prezioso, allora mi sorride facendo sì con la testa. Nadia è
italiana, è nata nel nostro Paese ma parla perfettamente arabo perchè è nata da un
“matrimonio misto”, il padre è libico e la madre italiana: “hanno scelto di darmi questo
nome perchè è sia arabo che italiano”, durante l'infanzia ha vissuto per qualche anno in
Libia dove ha conosciuto la cultura che le è stata trasmessa dal padre e, dopo essersi
laureata in lingue straniere nel nostro Paese, ha iniziato a lavorare come mediatrice
culturale. Per questo, mi spiega, si considera una “mediatrice atipica”: “molti pensano
che per essere mediatori culturali si debba per forza essere immigrati, ma io credo anche
che per essere mediatori culturali in ogni caso non basti essere immigrati”.
116
Formazione
In quanto al suo percorso formativo come mediatrice, Nadia ha frequentato un corso per
la mediazione culturale predisposto dalla provincia di Bologna e strutturato in 100 ore
di insegnamento teorico e 200 ore di tirocinio pratico per 300 ore complessive; mi dice
però che il corso non prevedeva una sessione curriculare di specializzazione nell'ambito
socio-sanitario ma una preparazione più generale sulla mediazione interculturale.
Organizzazione del servizio
Le chiedo poi che tipo di servizio offre l'ospedale di Bentivoglio e come si svolge la sua
giornata lavorativa; tre giorni a settimana (lunedì, mercoledì e venerdì) è presente una
mediatrice di lingua araba che può variare a seconda dei periodi o degli impegni, l'arabo
è l'unica lingua disponibile nel servizio di mediazione dell'ospedale. Nadia pensa che la
situazione sia peggiorata negli ultimi anni: “servirebbe almeno un mediatrice di urdu-
punjabi e una di lingua cinese ma qui c'è solo l'arabo”. Le chiedo allora se si tratta di un
problema di fondi dell'Ausl e mi risponde che secondo lei si tratta piuttosto di
disinteresse verso le esigenze concrete della popolazione straniera. Il suo servizio presso
la struttura ospedaliera non copre l'intera giornata, ma solitamente due ore, dalle 8:30
alle 10:30; quando arriva si infila il camice bianco “per essere riconoscibile” e poi inizia
il suo giro nei reparti di pediatria e ostetricia-ginecologia, comincia con il controllo
della tabella dove sono registrati i vari pazienti e se vede che c'è qualche paziente di
lingua araba va a fargli visita per sapere se ha bisogno di qualcosa.
Briefing, dialetti e registro linguistico
Mi spiega che di norma si presenta al paziente prima della visita con il medico, durante
un breve colloquio a tu per tu con il paziente straniero spiega chi è, che ruolo ha e qual è
la sua origine geografico-culturale; mi racconta che è meglio dire subito al paziente che
è di origine libica così da evitare malintesi in seguito, sia da un punto di vista linguistico
che per quanto riguarda eventuali differenze culturali. Le chiedo (memore dell'intervista
fatta a Dhouha) se abbia mai incontrato difficoltà di comunicazione dovute alle varietà
di arabo esistenti; mi risponde affermativamente: “soprattutto col marocchino, perchè è
un arabo molto diverso da quello ufficiale”, in questi, casi mi dice: “si cerca di capirsi
117
comunque” nonostante la difficoltà; spesso il termine tecnico che usa il medico italiano
manca di un corrispondente in lingua araba così si cerca di parafrasare il concetto e
trasmetterlo al paziente nel modo più chiaro possibile.
Rapporto col paziente
Alla mia domanda su eventuali problemi relazionali e interculturali con i pazienti, Nadia
mi risponde che in alcuni casi le capita di incontrare una certa diffidenza e resistenza
iniziale, un atteggiamento a volte restio, che riconduce al fatto di essere identificata
come rappresentante dell'istituzione (la struttura ospedaliera italiana), il paziente
immigrato a volte mostra una certa cautela davanti alla figura della mediatrice e Nadia
afferma che è importante fare il proprio lavoro senza risultare invadenti o impositivi; se
il paziente manifesta timore o diffidenza, allora tenta di spiegare con parole semplici e
chiare che tipo di compito svolge cercando di mettere a proprio agio il paziente
straniero.
Criticità del sistema italiano, remunerazione e pregiudizi
La conversazione si sposta poi sulla situazione attuale dei servizi di mediazione
culturale della zona; Nadia manifesta una certa sfiducia, ammette di essere scoraggiata,
(mentre le parlo vedo il suo pancione sotto il camice bianco, aspetta il secondo figlio,
ormai mancano pochi mesi al termine della gravidanza) dice che con questo tipo di
lavoro è praticamente impossibile riuscire ad avere uno stipendio che le permetta di
vivere autonomamente, in più, con l'arrivo del secondo figlio, sa che non potrà più
“permettersi” di fare questa professione, già ora le è impossibile mantenersi solamente
con le poche ore di mediazione all'ospedale, “devi avere anche un secondo lavoro,
altrimenti non puoi”. E' evidente il senso di amarezza delle sue parole, “questo è un
ambiente molto chiuso..” dice, e mi spiega che non è facile accedere a questi posti di
lavoro, innanzitutto per la scarsità delle posizioni disponibili, ma si riferisce soprattutto
alla sua “ibridità” culturale e si ricollega a quanto detto all'inizio del nostro colloquio: il
fatto di non essere una parlante nativa di lingua araba, il fatto di non essere stata lei
stessa immigrata le ha reso ancora più difficile l'inserimento in questo ambito
professionale. Poi, ribadendo la sua opinione, dice che il mediatore linguistico non è
anche, o per forza, un mediatore culturale, che il semplice fatto di essere cittadino
118
straniero non abilita automaticamente l'individuo alla professione di mediatore
culturale, e ripete: “è un ambiente chiuso...perchè forse hanno paura che gli venga tolto
anche questo..”. Nadia, come mi spiega, pensa che esigere un passato di immigrazione e
la cittadinanza straniera come requisiti base per poter accedere a questa professione,
dipende in parte dalla volontà di “proteggere” un lavoro, almeno uno, che finora è stato
prerogativa degli stranieri.
Per qualche anno, prima di sottoscrivere il suo contratto di prestazione occasionale con
l'ospedale di Bentivoglio, Nadia ha prestato servizio come volontaria (quindi
gratuitamente) presso l'Ambulatorio Sokos di Bologna, Sokos è un'associazione di
medici e operatori sanitari volontari nata nel 1993 per l'assistenza a emarginati e
immigrati40. Tramite il Tesserino STP (Straniero Temporaneamente Presente) gli
immigrati senza permesso di soggiorno vengono introdotti in una sorta di anello di
congiunzione tra una situazione di clandestinità – e quindi di assenza di tutela sanitaria -
e una condizione di accesso al SSN (Servizio Sanitario Nazionale) attraverso il
tesserino, che permette di fare esami, acquistare farmaci, eccetera. Questa è l’attività
principale svolta da Sokos che funge da interfaccia con associazioni e istituzioni
bolognesi41.
Genere e mediazione
A questo punto chiedo a Nadia come mai il servizio di mediazione culturale in ambito
socio-sanitario (come ho potuto constatare anche grazie alle interviste svolte) sia una
prerogativa prevalentemente femminile, mi risponde che negli ospedali lavorano solo
mediatrici donne perchè, soprattutto nei reparti di ginecologia e maternità, si richiede
una presenza femminile per consentire alla donna straniera di sentirsi a proprio agio (in
alcuni casi la presenza di una mediatrice e non di un mediatore è la sola via di
comunicazione interculturale, tanto più durante una visita ginecologica); Nadia mi
40 Dal 1993 l’associazione di medici e operatori sanitari volontari Sokos fornisce assistenza medica gratuita ai migranti, anche senza permesso di soggiorno, e alle persone emarginate. Nata dapprima come unità mobile di intervento nei campi dei rifugiati bosniaci e kosovari allestiti lungo le rive del Reno e a Borgo Panigale, dal '98 Sokos ha anche un ambulatorio a Bologna, dove i volontari promuovono e tutelano il diritto alla salute delle persone che non sono raggiunte dal servizio sanitario avendone comunque pieno titolo. (v. http://www.meltingpot.org/articolo857.html ) 41 (v. http://www.meltingpot.org/articolo857.html )
119
spiega però che esistono ovviamente anche mediatori culturali di sesso maschile, si
tratta più che altro di una differenza di carattere contestuale: si può dire che
generalmente le donne sono impiegate nei servizi di mediazione culturale nelle strutture
ospedaliere e socio-sanitarie, mentre si riscontra una netta presenza maschile nella
mediazione culturale che ha luogo nei penitenziari o presso i centri di tossicodipendenza
per esempio. Alla base di tale differenziazione di genere si trova l'esigenza di
comunicare col cittadino straniero, l'obiettivo primario è la comunicazione, il cittadino
straniero deve essere posto in una condizione di scambio interazionale che gli sia il più
favorevole possibile; la scelta del sesso del mediatore non costituisce certo un esempio
di discriminazione sessuale, quanto la necessità di andare incontro alle esigenze del
paziente-utente straniero e della comunicazione interculturale in sé. Un mediatore uomo
in sala parto o in ambulatorio ginecologico, oppure una mediatrice donna in un carcere
maschile, risulterebbero inadeguati non dal punto di vista della loro competenza
professionale ma unicamente per la loro identità sessuale che, in questi casi, potrebbe
mettere a repentaglio se non rendere del tutto impossibile lo scambio comunicativo con
l'utente straniero di sesso opposto. In tali contesti, non tanto la differenza di cultura,
quanto soprattutto la condizione psicologica-emotiva del cittadino straniero e la
delicatezza della situazione contestuale rappresentano elementi di primaria importanza;
la credibilità, la fiducia che il mediatore deve infondere nel cittadino straniero sono
presupposti irrinunciabili per permettere la comunicazione interlinguistica e
interculturale. Nadia mi racconta che saltuariamente ha lavorato anche presso la “Casa
delle donne per non subire violenza” di Bologna, qui le mediatrici sono tutte donne,
Nadia mi dice che questa è stata per lei l'esperienza più dura da un punto di vista
emotivo e personale, “una volta ho pianto davanti ad una ragazza marocchina che era
stata stuprata..secondo me in questi casi non ci si deve nascondere, se mi scendeva una
lacrima davanti a lei non la nascondevo..”. A questo punto dell'intervista con Nadia mi
rendo conto di quanto possa essere complesso e difficile il suo mestiere, mi rendo conto
che i codici di deontologia professionale sono tanto necessari quanto (forse) difficili da
applicare in situazioni di estrema delicatezza e sensibilità nelle quali l'interprete-
mediatore deve cercare di controllare la propria emotività e mantenere quel “giusto
distacco” che gli si chiede.
120
Mediazione integrata
L'ospedale di Bentivoglio fa parte di quelle strutture socio-sanitarie della Regione che
offrono un servizio di mediazione integrata; l'Italia negli ultimi quindici anni è stato uno
dei paesi più soggetto al dinamismo dei nuovi ingressi di cittadini stranieri e la
situazione dell'area bolognese è caratterizzata dall'alta percentuale di cittadini stranieri
presenti, più alta quasi del doppio della media nazionale.
Dall'elaborazione dei dati delle Anagrafi condotta dall'Ufficio di Statistica della
Provincia di Bologna relativa al 31/12/200642, si osserva che sulla popolazione totale
residente a Bologna pari a 373.026 abitanti, la popolazione straniera era costituita da
30.319 individui; mentre per quanto riguarda il resto della provincia, la popolazione
totale residente ammontava a 581.656 abitanti dei quali 35.471 stranieri. Data la
consistente presenza di cittadini stranieri sul territorio bolognese, le strutture socio-
sanitarie hanno dovuto adottare strumenti e metodi di mediazione linguistico-culturali
volti a consentire l'erogazione dei servizi assistenziali e sanitari di cui ogni cittadino ha
diritto. Come si legge sul sito dell’azienda Usl regionale (v. nota precedente), le
maggiori criticità della comunicazione interculturale sono dovute alla diversità
linguistica, alla diversità culturale (prevenzione, profilassi, modalità di accesso,
trattamenti medici, visite periodiche, calendario di vaccinazione ecc.), alla diversa
percezione della salute e al luogo in cui il paziente straniero si trova (ambulatorio,
Pronto Soccorso o reparto, che prevedono modalità di mediazione differenti:
mediazione programmata vs. mediazione urgente). Fra gli strumenti di cui si avvale
l'Ausl di Bologna per erogare un servizio di mediazione culturale integrata troviamo:
• il “Triage Multilingue Telefonico”: servizio specializzato di mediazione
linguistica e culturale che tramite un call center nel quale operano mediatori di
madrelingua, fornisce assistenza informativa attiva in 24h;
• il servizio di mediazione culturale a chiamata programmata;
• la presenza quotidiana nei maggiori ospedali di mediatrici culturali in loco,
sportello centralizzato di mediazione.
42 V. www.ausl.re.it/HPH/FRONTEND/Home/DocumentViewer.aspx?document_id=799
121
Come si legge sul sito dell'Ausl regionale43, la mediazione cosiddetta integrata
comprende il triage telefonico multilingue, la modalità “plug and play” e il servizio di
mediazione su prenotazione; in altre parole, grazie a speciali apparecchi telefonici è
possibile selezionare la lingua necessaria alla conversazione mediante pulsantiera (nella
quale sono raffigurate le bandierine corrispondenti alle lingue disponibili) o rubrica
inserita nel telefono stesso; l'operatore sanitario viene così messo in collegamento con
un operatore madrelingua di un call center che tradurrà in simultanea ciò che dirà
l'assistito: si attiva così una conversazione a tre (operatore sanitario-mediatore-paziente)
che permette, in ogni momento della giornata, uno scambio informativo corretto ed
esauriente per l'iter clinico diagnostico del paziente. Negli stessi apparecchi è inoltre
possibile attivare il servizio di mediazione programmata che consente un intervento di
mediazione personalizzato. Le lingue disponibili nel servizio di Triage Multilingue
Telefonico sono: cinese, russo, spagnolo, arabo, portoghese, punjabi, tedesco, inglese,
bengalese, srilankese, albanese, francese, ucraino, filippino, croato, serbo e rumeno. Gli
utenti stranieri sono informati della presenza del servizio di Triage Multilingue
Telefonico con vetrofanie contenenti il messaggio scritto nelle varie lingue. Finora sono
state installate quattro postazioni attive sulle 24 ore nei quattro Pronto Soccorsi con più
accessi presso l'ospedale Maggiore, l'ospedale di Bentivoglio, l'ospedale di Bazzano e
l'ospedale di S. Giovanni in Persiceto, oltre ad altre dieci postazioni attive delle 8:00
alle 17:00 presso altri ospedali della provincia dove si registra un notevole afflusso di
utenti stranieri.
5.5 Policlinico di Modena
Mediatrice di lingua araba
Giovedì 30 dicembre alle 13.30 incontro Khira al Policlinico di Modena, ho fissato
l'appuntamento il giorno prima telefonando al numero presente sul sito dell'ospedale
sotto la voce “servizio di mediazione culturale”. Al telefono ho parlato con la Dott.ssa
Amanda Zanni, coordinatrice della Cooperativa Sociale Integra che si occupa del
43 Vedi bibliografia.
122
servizio di mediazione in tutta la provincia di Modena, in questo modo ho potuto
concordare un appuntamento con una delle mediatrici che fanno parte della cooperativa.
Come si legge su sito Internet dedicato a Integra: “la cooperativa sociale Integra nasce
nel 2001, quando un gruppo di mediatori interculturali decide di tentare di rispondere al
sempre più stabile fenomeno migratorio, non soltanto con interventi assistenziali, ma
anche e soprattutto con azioni a garanzia del rispetto dei diritti di cittadinanza e di una
effettiva inclusione sociale delle persone immigrate. Oggi Integra dispone di numerose e
diverse figure professionali specializzate in ambito interculturale, provenienti dalla
maggior parte delle aree geografiche esistenti ed opera in tutte le dimensioni che
attraversano la vita sociale: socio-sanitaria, educativa, giuridica, lavorativa, culturale e
ricreativa” (www.coopintegra.it). Quando arrivo all'ingresso 1 del Policlinico, mi
aspetta Khira, mediatrice di lingua araba; dopo una prima presentazione, ci rechiamo
nell'ufficio di mediazione culturale al primo piano dove è presente anche la responsabile
del servizio. L'atmosfera è molto cordiale e amichevole, dopo esserci accomodate alla
scrivania, chiedo a Khira di parlarmi un po' della sua storia. E' tunisina, ha 39 anni ed è
arrivata in Italia a 18 anni subito dopo essersi sposata con un uomo del suo paese. Parla
perfettamente italiano e la cadenza è tipicamente modenese. Mi racconta che lavora con
la cooperativa dal 2002 ma ha iniziato a svolgere questa professione come volontaria
già dal '97, “sono uno dei soci fondatori”, dice ridendo, fa parte cioè di quel gruppo di
mediatori culturali che nel 2001 decise di fondare la Cooperativa dopo un'esperienza di
volontariato presso le varie strutture socio-assistenziali del territorio. Dopo pochi minuti
di conversazione, Khira si toglie il velo rimanendo solo con il copricapo aderente che le
fascia i capelli, poi, rivolgendosi alla collega seduta dall'altra parte della stanza dice:
“tengo le orecchie scoperte perchè ho caldo!” e scoppiano a ridere.
Formazione e organizzazione del servizio
La nostra chiacchierata prosegue, riguardo alla formazione professionale, mi spiega che
lei non ha frequentato il tirocinio di formazione (attualmente previsto) perchè otto anni
fa non era ancora stato introdotto; Khira è dipendente fissa al Policlinico (lavora dal
lunedì al venerdì e a turno il sabato mattina) insieme ad altre due mediatrici fisse, una
anglofona e l'altra di lingua araba come lei; quando si presenta la necessità di
mediazione in una lingua diversa dall'arabo e dall'inglese, la cooperativa contatta la
123
mediatrice della lingua richiesta a chiamata.
Briefing e alleanze
Le chiedo come avviene la presentazione della mediatrice al paziente straniero, mi
risponde che ormai non c'è bisogno di nessuna presentazione (briefing) perchè il
servizio di mediazione è conosciuto dalla comunità immigrata, quindi non vi è la
necessità di spiegare la funzione e la figura della mediatrice. Le chiedo poi se abbia mai
incontrato resistenza da parte del paziente straniero nei suoi confronti e mi dice che, al
contrario, i pazienti sono generalmente molto contenti di essere affiancati da una
persona che parli la loro lingua, si sentono più “protetti” e più sereni nel dialogo col
medico.
Dialetti e registro linguistico
A questo punto le mie domande sono focalizzate sulla dimensione linguistica della
mediazione, anche Khira (come già avevano fatto Dhouha e Nadia) mi spiega che
l'arabo parlato comprende una vasta serie di dialetti che variano da regione a regione o
da stato a stato, abbracciando un territorio che va dal Nord- Africa al Medio Oriente.
“Così noi dobbiamo sapere tutti i dialetti”, mi dice, “l'arabo classico è uguale per tutti,
ma si usa per la lingua scritta, il problema però è che alcune persone non sono nemmeno
istruite...”; ancora una volta, “si cerca di capirsi”, attraverso il frequente ricorso alla
parafrasi e tramite l’impiego di un lessico comune. Il giordano e il libanese, continua,
sono varietà di arabo similari, l'egiziano presenta caratteristiche linguistiche (lessicali e
fonetiche) diverse e il marocchino è fra tutte la varietà più diversa e a sé stante. Khira
parla anche francese ma durante la mediazione ricorre solo raramente all'utilizzo di
termini francesi (anche perchè a volte il paziente non lo comprende se possiede un basso
livello di istruzione). “Quando parliamo con le gravide, le parole più frequenti sono
'pressione alta', 'diabete' eccetera..allora come fai a dirlo se non esiste una parola uguale
in arabo? Io dico per esempio tensión [francese], oppure dico, qual è il contrario di
zucchero? Così capiscono che è il sale che non fa bene per la pressione...”.
124
1^ o 3^ persona
Le domando poi se utilizzi la prima o la terza persona durante la mediazione e, con un
giro di parole, mi fa capire che utilizza la prima persona perchè il paziente è in grado di
riconoscere che l'autore delle parole è il medico e viceversa il medico comprende che le
parole proferite dalla mediatrice appartengono al paziente. Khira si toglie anche il
copricapo, nell'ufficio siamo solo donne e l'atmosfera è rilassata ed informale, ha i
capelli tinti di un rosso ramato raccolti in una coda.
Segreto professionale e fiducia
Le chiedo allora che tipo di rapporto abbia con la comunità araba locale e Khira mi
racconta che quando le capita di incontrare un/una paziente al di fuori dell'ospedale
aspetta che sia lui/lei a salutarla e finge di non ricordare l'episodio di mediazione e la
relativa problematica medica. Anche se ricorda perfettamente, preferisce adottare questo
escamotage e fingere di non ricordare (a meno che l'episodio non sia troppo recente)
giustificandosi col fatto di parlare ogni giorno con tanti pazienti diversi. In questo
modo, mi spiega, il paziente si sente più “protetto” e “rassicurato” dalla professionalità
della mediatrice.
Il distacco
Per quanto riguarda eventuali difficoltà di comunicazione interculturale, Khira mi
racconta che dopo tanti anni di esperienza si sente più forte, ora sa come gestire
situazioni difficili o imbarazzanti in maniera più matura, a volte un po' più “distaccata”
di quanto non avrebbe saputo fare all'inizio della sua carriera. Mi racconta che poco
prima di incontrare me, ha mediato per una bambina araba di 12 anni arrivata in Italia
con i genitori da due giorni, dopo 48 ore non è ancora possibile attribuire al paziente un
medico di base per ragioni burocratiche; la bambina ha bisogno di una “vaccinazione
particolare...sta molto male..c'è già tutto il pus che le scende dal naso...”, ma al
Policlinico c'è una lista di attesa di tre mesi, così l'hanno indirizzata verso un'altra
struttura. Khira mi dice che in casi come questo è molto difficile riuscire a mantenersi
distaccati e a controllare la propria parte emotiva, che fa rabbia il fatto di non poter fare
niente per motivi di burocrazia e mi dice che, una volta fuori dall'ambulatorio, ha
125
spiegato meglio ai genitori come raggiungere l'altra struttura medica e ha detto loro che
avrebbe chiesto nuovamente ai medici circa la possibilità di curare la bambina. “Se sei
sensibile, facendo questo lavoro lo diventi ancora di più..però capisci anche quanto sei
fortunato..”.
Mediazione e genere
Le chiedo se anche la Cooperativa Integra impiega soltanto mediatrici donne oppure se
ci sono anche mediatori, mi risponde che per la mediazione negli ospedali e agli
sportelli delle strutture socio-sanitarie lavorano quasi sempre donne (nel team di
mediatori di Integra lavorano attualmente solo tre uomini), “Se vai al SER.T [Servizio
Tossicodipendenze dell'Ausl di Modena], invece, lì trovi dei mediatori uomini perchè in
quei casi c'è bisogno di una figura più autoritaria e la tua parola [cioè quella di una
donna] è meno forte”. Come scrivono Shlesinger e Voinova (2010:1)44 a proposito del
concetto di genere:
Gender as a social (rather than biological) construct is one of the features that organizes our view of the
world and remains an over-arching analytical category. It results in explicit and implicit forms of
difference (leading, in many cases, to explicit and implicit forms of inequality), whether embedded in
social policy and social institutions or internalized by the individual men and women themselves.
Il genere come costrutto sociale, dunque, modella e guida il nostro modo di concepire la
realtà e le relazioni con gli altri; quando Khira afferma che la parola della donna è meno
forte rispetto a quella dell’uomo sta appunto esprimendo una visione del genere
culturalmente determinata:
A central theme running through the discussions of the role of gender in shaping professional identity
relates to the premise that contemporary societies assign decision-making qualities, a public voice and
political power primarily to men (Von Flotow 1997: 100, citato in Shlesinger e Voinova 2010:3)
Le domando poi come sia il rapporto uomo-donna nella sua professione. “Nessun
problema”, dice, anche in Tunisia ci sono dottori uomini che curano pazienti di sesso
femminile e medici di sesso femminile che curano uomini. Al Policlinico, “quando ci
sono pazienti molto religiose che chiedono solo donne, si cerca di trovare una
dottoressa.”; a Khira è capitato varie volte di essere presente durante una visita
44 Shlesinger, M. and Voinova, T. (2010) Self-perception of female translators and interpreters in Israel.
126
andrologica quando il paziente arabo necessitava della sua mediazione. Mi racconta
anche che lei stessa, qualche tempo fa, ha dovuto subire una colposcopia e l'unico
medico che effettua questo tipo di esame al Policlinico è uomo; in quella situazione,
Khira, donna araba musulmana, dopo un primo momento di imbarazzo, ha effettuato
l'esame con tranquillità. “Si tratta di professionisti, non importa se sono uomini o
donne” conclude. Ci sono stati però anche episodi più complicati nell'esperienza della
mediatrice; una volta, un uomo arabo la cui moglie doveva subire un raschiamento
uterino, disse a Khira che la moglie doveva essere operata soltanto da una donna
altrimenti non avrebbe effettuato l'operazione. Davanti a quelle parole, Khira disse che
avrebbero chiesto se fosse stato possibile far eseguire l'intervento da una dottoressa ma,
in caso contrario, l'uomo doveva assumersi la responsabilità della sua decisione (quella
non era la volontà della moglie) nell'eventualità di una emorragia o altra complicanza,
“se voleva decidere di non fare il raschiamento allora lui doveva firmare un foglio dove
dichiarava di essere responsabile..dopo l'ho detto anche al dottore e mi ha detto che
avevo fatto bene”. Fortunatamente poi si trovò una dottoressa che potè eseguire
l'intervento, ma ciò che balza all'occhio è il ruolo assolutamente attivo della mediatrice;
nel caso sopracitato, è lei che intima all'uomo di firmare un foglio nel quale dichiara di
non voler permettere alla moglie di essere operata, non è il medico che lo dice (anche se
in un secondo momento confermerà) ma si tratta di un'iniziativa di Khira. Anche lei, lo
ribadisce, è musulmana e praticante ma rimane disarmata di fronte a questi esempi di
fondamentalismo perchè, mi racconta “tutti sanno che il nostro profeta, Maometto, dice
che ai tempi delle guerre le donne facevano le medicazioni agli uomini feriti in
guerra...dunque questo si fa da sempre! Fin dalla storia antica!”, mi spiega quindi che,
contrariamente a quanto si dica sul mondo arabo, la sua è una cultura che rispetta tanto
l'uomo quanto la donna e i casi di fondamentalismo più marcato non rispecchiano
l'essenza della sua cultura d'appartenenza.
Temi tabù
La difficoltà maggiore da un punto di vista psicologico, poi, riguarda i casi di malattie
sessualmente trasmissibili, veri e propri “tabù” (termine utilizzato dalla mediatrice in
più occasioni), soprattutto l'AIDS, “anche l'epatite può essere trasmessa sessualmente,
però è diverso, suscita meno vergogna e imbarazzo perchè si può contrarre in altri modi,
127
ha un impatto meno violento”, quando pronuncia la parola “AIDS” Khira abbassa il
volume della voce, quasi sussurrando, e mi spiega quanto sia difficile comunicarlo al
paziente o dare informazioni su questa malattia, spiegare cosa comporta e come si
contrae: “devi dirgli che si prende anche quando si va con le prostitute”. Mi racconta
che recentemente ha mediato per una ragazza di 22 anni che ha contratto l'AIDS dal
marito, in questi casi mi dice, “sto con il magone per una settimana, poi capisci che devi
andare avanti”.
Aspetti culturali e integrazione
A questo punto, dopo circa quaranta minuti di conversazione, ringrazio Khira per il
tempo dedicatomi e la disponibilità con la quale ha risposto alle mie domande, poi,
quando sto per uscire dall'ufficio, mi invita a bere un caffè giù al bar. Me lo vuole
offrire, dice sorridendo, perchè in Tunisia si usa così verso l'”ospite”. Al bar
continuiamo a chiacchierare, parliamo un po' di tutto, mi racconta delle sue tre figlie e
dei suoi desideri per il loro futuro; mi racconta che ha anche un secondo lavoro, ogni
venerdì pomeriggio per due ore lavora in un piccolo centro ricreativo per donne
immigrate dove parlano di tutto, preparano il caffè, si truccano, si tingono i capelli e
trascorrono in compagnia due ore piacevolissime. Khira ci tiene a sottolineare che i
luoghi comuni sulla cultura araba sono in parte infondati, “a casa nostra le donne
possono fare tutto! E' quando arrivano qui in Italia che cambiano le cose, e a volte anche
perchè i mariti hanno paura che possano diventare troppo indipendenti”; mi racconta
che l'importante è capire e spiegare che non si fa nulla di male. Lei, per esempio, ogni
mattina va a fare colazione al bar da sola e rimane a leggere il giornale per una decina di
minuti prima di iniziare a lavorare. Questa banale abitudine è stata per lei una piccola
conquista; poco dopo essersi trasferita a Modena, infatti, una donna della comunità
araba sua conoscente le disse che le avevano detto di averla vista sola al bar e che
iniziavano a circolare voci sul suo conto; nel suo paese d'origine, la Tunisia, le donne
vanno al bar regolarmente senza alcun problema, ma in Italia questo non è visto di buon
occhio perchè qui si vendono anche gli alcolici, mentre nei paesi arabi i “coffee shop”
vendono solo bevande analcoliche. La mattina seguente, Khira si presentò nello stesso
bar in compagnia del marito: “Così mi hanno vista e hanno capito che mio marito
sapeva e che era tutto tranquillo, non c'è niente di male!”. Mi dice che spesso spiega alle
128
pazienti come raggiungere gli ambulatori o gli sportelli socio-sanitari utilizzando le
linee dell'autobus, offrendosi anche di incontrarsi alla fermata del bus per poi fare un
tragitto insieme e mostrare la strada alla donna. Mi dice che le donne arabe qui in Italia
spesso maturano un complesso di inferiorità, alcune di loro hanno conseguito lauree nel
loro paese ma qui faticano ad imparare l'italiano e ciò che facevano abitualmente nel
loro paese di provenienza diventa quasi impossibile una volta giunte in Italia. Mi dice
che il marito può accompagnare la moglie dal medico se si tratta di qualche visita
sporadica, per farlo però deve chiedere un permesso al lavoro. Secondo Khira è anche
per questo che sorgono i problemi e le discussioni all'interno della coppia. I motivi
sarebbero anche di carattere pratico quindi. “Basta prendere l'autobus! Così il marito
può andare al lavoro..però poi ci sono alcuni uomini che hanno paura che la donna inizi
a fare le cose da sola...hanno paura che dopo possa scappare di casa!” dice ridendo.
Parlando del rapporto coi pazienti dice: “la cosa che odio di più è essere presa per i
fondelli” aggiunge, e mi spiega che a volte durante la visita medica, ci sono pazienti che
dicono di non poter sostenere le cure per motivi economici o per altre difficoltà
familiari; Khira dice che, quando capisce che il o la paziente sta mentendo
(drammatizzando la propria situazione in modo da ottenere aiuti per le spese mediche),
una volta finita la visita prende da parte il paziente e gli spiega che non c'è bisogno di
raccontare bugie, che è meglio essere sinceri, perchè possono ricevere comunque
qualche aiuto per coprire le cure mediche necessarie. Il ruolo svolto dalla mediatrice
sembra andare ben al di là del ruolo normativo imparziale e distaccato descritto dalla
letteratura.
Quando stiamo per salutarci, infine, Khira mi dice che il suo lavoro le piace moltissimo,
è una professione molto impegnativa ma che le permette di aiutare le persone e di far
valere le sue qualità, sia professionali che personali.
5.6 Poliambulatorio di Reggio Emilia Viale Monte s. Michele
Mediatrice cinese
Lunedì 3 gennaio mi reco al Poliambulatorio di Viale S. Michele a Reggio Emilia, ho un
appuntamento con la mediatrice culturale cinese Sun Shuyan, con la quale ha parlato al
129
telefono qualche giorno prima per fissare l'incontro. Arrivo allo sportello dell'URP dove
è di servizio il lunedì pomeriggio e dopo esserci salutate ci appartiamo in uno degli
studi adiacenti per iniziare l'intervista.
Formazione e organizzazione del servizio
Sun lavora come mediatrice culturale da 15 anni, ha iniziato questa professione prima in
ambito scolastico, e poi in quello socio-sanitario. Ha conseguito un attestato
riconosciuto a livello regionale dopo aver frequentato un corso per mediatori culturali di
300 ore complessive nell'anno 2005 (v. Cap. 6.2). Oltre a prestare servizio presso lo
sportello dell'Ufficio Relazioni con il Pubblico del Poliambulatorio, si occupa anche
della mediazione interculturale che si svolge durante le visite ambulatoriali della stessa
struttura. Presso l’Azienda USL di Reggio Emilia, inoltre, è aperto dall’ottobre 1998
uno spazio denominato “Centro per la Salute della Famiglia Straniera”, in convenzione
con la Caritas, che si occupa di dare assistenza agli stranieri sprovvisti di permesso di
soggiorno e quindi non iscrivibili al Sistema Sanitario Nazionale (in base alla Legge 40
“Turco-Napolitano” del marzo 1998 e il Testo Unico delle Leggi sull’Immigrazione 286
del ’98). Gli utenti e gli accessi sono cresciuti negli anni stabilizzandosi a circa 2000
utenti l'anno e 7000 accessi l'anno. L’etnia maggiormente rappresentata è l’etnia cinese.
La presenza fissa della mediatrice, Sun, ha fatto sì che l’utenza cinese abbia avuto un
peso molto importante e abbia nel tempo fatto assumere al centro una funzione di
riferimento per la comunità di immigrati cinesi presente in città. Presso il centro sono
sempre presenti i mediatori culturali, ogni 15 giorni una assistente sociale e una volta al
mese un medico di igiene pubblica per l'ambulatorio TBC.
Differenze nei sistemi sanitari
Sun mi spiega che il sistema sanitario italiano è abbastanza lontano da quello cinese, le
differenze più importanti riguardano la necessità di stabilire degli appuntamenti presso
le strutture sanitarie italiane a fronte dell'accesso diretto che caratterizza il sistema
sanitario cinese. “E' abbastanza duro spiegare queste differenze”, aggiunge, qui in Italia
ci possono essere liste d'attesa molto lunghe, di alcuni mesi a volte, e le cure (sia a
livello terapeutico che chirurgico) possono a volte differire fra i due Paesi; anche la
prassi degli accertamenti, poi, non trova un corrispettivo nel sistema cinese, dove invece
130
la consuetudine vede una diagnosi più immediata e diretta della problematica medica.
Da un punto di vista economico, continua Sun, negli ultimi trenta anni il sistema
sanitario cinese ha percorso un processo di americanizzazione e sono quindi aumentate
le strutture sanitarie private a pagamento, non accessibili da parte degli strati sociali più
indigenti.
1^ o 3^ persona e briefing
Riguardo allo svolgimento della mediazione in ambulatorio, Sun mi dice che può
avvenire sia in prima persona che in terza persona, “dipende dai casi”; anche la pratica
del briefing, o sessione informativa preliminare, può essere previsto o meno a seconda
dei casi; generalmente è richiesto quando si rende necessario l'intervento di un
assistente sociale per esempio, allora Sun “prepara il paziente e i familiari” ad affrontare
la situazione, spiegando loro l'iter quale si dovrà seguire e la funzione della figura
professionale chiamata ad intervenire.
Dialetti e registro linguistico
Per quanto riguarda la lingua, durante la mediazione Sun utilizza il “cinese ufficiale”,
ossia il mandarino standard45. Quando però il paziente cinese non è scolarizzato e non è
in grado di parlare il mandarino standard, si rende necessaria “una doppia traduzione”;
Sun mi spiega che in questi casi il paziente, solitamente anziano, si fa accompagnare
alla visita medica da un parente (un figlio o un nipote che abbia un livello di istruzione
più elevato) e che possa fare da interprete fra paziente e mediatrice culturale: il parente
cioè traduce dalla varietà dialettale cinese al cinese standard (e viceversa) e la
mediatrice tradurrà poi dal cinese standard all'italiano per il medico (e viceversa). Certo
la mediazione in queste situazioni diventa più lunga a livello temporale e più “faticosa”
per il numero di partecipanti coinvolti e per il maggior numero dei passaggi di
interpretazione necessari.
45 La lingua cinese, parlata sotto forma di mandarino standard, è la lingua ufficiale della
Repubblica Popolare Cinese e della Repubblica della Cina sotto Taiwan, nonché una delle quattro lingue
ufficiali di Singapore ed una delle sei lingue ufficiali delle Nazioni Unite.
131
Rapporti con la comunità, aspetti interculturali e segreto professionale
Da un punto di vista interculturale poi, Sun conferma la “chiusura” della comunità
cinese immigrata verso il mondo esterno; lei stessa è riuscita a guadagnarsi la fiducia
dei pazienti connazionali dopo un lento “monitoraggio” da parte di questi ultimi. Mi
racconta che inizialmente, per vagliare la sua credibilità e professionalità, “può
succedere che il paziente dica in un primo momento di avere un problema alla spalla,
poi alla seconda visita dice di avere male alla schiena e alla fine [quando ha valutato la
riservatezza e la discrezione degli operatori sanitari e della mediatrice] rivela di avere
un problema agli organi genitali”. Questa cautela e diffidenza fa parte della cultura
cinese verso tutto ciò che appartiene ad un universo culturale differente. Quando chiedo
a Sun se lei frequenta la comunità cinese di Reggio Emilia, risponde sorridendo: “qui ho
molti più amici italiani che cinesi! Quando lavoro parlo quotidianamente con cinesi ma
al di fuori è raro”. Mi racconta poi che le è capitato di mediare per due donne cinesi fra
loro amiche le quali hanno avuto prova della discrezione di Sun, che (sotto segreto
professionale) ha taciuto sia all'una che all'altra di aver mediato per entrambe così da
poter risultare affidabile e professionale; poi aggiunge: “i cinesi sono molto pettegoli!”,
e questo rende ancora più importante l'assoluta riservatezza del colloquio medico cui la
mediatrice prende parte per svolgere la mediazione. Un altro punto di particolare
rilevanza e delicatezza legato alla cultura cinese riguarda la “sorveglianza” esercitata
dai familiari del paziente, ma anche da parte dei datori di lavoro. Non di rado, dopo aver
mediato per un paziente cinese, accade che un parente chiami Sun al numero telefonico
dell'URP per ricevere notizie sulla visita medica e sullo stato di salute del parente; altre
volte, invece, capita che lo stesso datore di lavoro del paziente chiami il Poliambulatorio
per chiedere a Sun quale sia la situazione medica del dipendente per il quale Sun ha
mediato, “così vogliono sapere quando potrà tornare a lavorare”. La mediatrice, con
risolutezza, risponde loro che non è possibile rilasciare informazioni private del paziente
e che l'unico modo per ottenere informazioni è parlare col diretto interessato o con la
sua famiglia.
132
Corsi interculturali per la gravidanza
Sun mi racconta in seguito di aver partecipato attivamente al progetto “Il Drago e la
Fenice”46 che si occupa dell'organizzazione di corsi di preparazione alla nascita per
donne cinesi; il progetto si inserisce in un discorso più ampio del Servizio di Pediatria e
Salute Donna del distretto di Reggio Emilia in collaborazione con l'Unità Operativa di
Psicologia Clinica del Dipartimento di Salute Mentale, rivolto ai pazienti, in particolare
alle donne straniere, che cerca di attrezzare i servizi di cornici metodologiche sempre
più specifiche e mirate a rispondere a pazienti di diverse culture. Il nome di questa
iniziativa fa riferimento alla simbologia cinese sul tema della nascita: il Drago,
raffigurato in giallo, è associato all’Imperatore, alla sua potenza e quindi al figlio
maschio, la Fenice, multicolore, tenace e immortale, simboleggia l’Imperatrice e quindi
la figlia femmina.
Il corso è condotto da un’ostetrica del Consultorio, dalle psicologhe e dalla mediatrice
culturale cinese (Sun). Il primo corso ha preso l’avvio a settembre 2004 e proprio la
stabilità e la fiducia nella mediatrice hanno funzionato da catalizzatore e da richiamo
per le donne. In particolar modo le gravidanze seguite dal Centro nell’anno 2002 sono
state 175 di cui 138 cinesi, nel 2004 sono state 227, di cui 145 di donne cinesi e nel
2005 un totale di 200 di cui 130 cinesi. Gli operatori si sono “guadagnati” la fiducia
necessaria ad entrare nell’intimità e nel privato di una comunità così attenta a mantenere
i confini del proprio specifico culturale originario, così “impermeabile” al contesto
occidentale. Le donne invitate a prendere parte a questo corso, sono state contattate per
telefono, una per una, partendo dagli elenchi in possesso del Centro per la Famiglia
Straniera. Questo tipo di contatto è stato un lavoro impegnativo ma necessario dal
momento che in città non esiste una rappresentanza organizzata della comunità cinese.
Solitamente la comunità cinese non è contemplata in questo tipo di iniziative sul
territorio perché è vista come un gruppo chiuso e riservato.
Aspetti culturali della comunità cinese
Sun mi conferma la chiusura insita nella cultura cinese, la tendenza all'isolamento e alla
46 I risultati di questo progetto sono stati raccolti e pubblicati nel libro omonimo a cura del Servizio Sanitario Regionale Emilia-Romagna, AUSL di Reggio Emilia. In seguito riporteremo alcuni dati tratti da tale fonte, v. http://www.lacosapsy.com/DRAGOEFENICE.pdf
133
auto-ghettizzazione è parte di una mentalità ed un atteggiamento culturalmente definiti;
anche il fatto di lavorare e sposarsi all'interno della comunità di appartenenza (almeno
nella maggioranza dei casi) fa sì che gli immigrati cinesi in Italia vivano in un piccolo
microcosmo che intrattiene legami col mondo esterno solo sporadicamente; ciò, fra
l'altro, impedisce o quantomeno rallenta notevolmente l'apprendimento della lingua
italiana. Il ruolo della mediatrice cinese è fondamentale per dialogare con i servizi
socio-sanitari del territorio, forse più che per altre culture da un punto di vista statistico.
Il progetto “il Drago e la Fenice” propone tre corsi all'anno. Ogni corso è articolato in
una media di 8 incontri durante la gravidanza, con la possibilità di aggiungerne altri
tematici, a seconda della necessità e delle loro richieste, ed un incontro successivo alla
nascita dei bambini.
Come si è potuto constatare durante i corsi, le donne straniere vivono una solitudine
linguistica, relazionale e familiare che, a volte, impedisce loro di utilizzare pienamente i
corsi per le donne italiane. Come registra il dossier del progetto47, le persone che, dalla
Cina, si trasferiscono nella zona (provincia di RE) per lavorare provengono
prevalentemente da una stessa zona geografica, vicino a Shangai, la regione dello
Zhejiang, un territorio molto povero, prevalentemente rurale, grande come l’Italia.
Recentemente però il flusso migratorio ha interessato anche le province del nord della
Cina. I lavoratori cinesi (a Reggio Emilia in particolar modo ma anche nel resto
dell’Italia) sono occupati prevalentemente nel settore della ristorazione, nel settore
tessile e nelle attività commerciali quali bar e locali d’intrattenimento. Solo il 20% dei
lavoratori cinesi lavora alle dipendenze di datori di lavoro italiani. In Italia gli immigrati
cinesi trovano collocazione in piccoli laboratori tessili artigianali, prevalentemente
gestiti da connazionali, che funzionano in collegamento con le fabbriche locali di
maglieria. Il loro arrivo è spesso clandestino.
La subordinazione ai datori di lavoro è molto alta; il datore di lavoro filtra i contatti con
l’esterno e gestisce anche gli avvenimenti privati dei suoi dipendenti: i problemi di
salute, le nascite, i ricongiungimenti familiari. Le telefonate all'URP per poter carpire
qualche informazione dalla mediatrice che ha assistito alla visita medica di un
dipendente rientrano appunto in tale ottica di subordinazione. Esiste una dimensione
47 V. www.lacosapsy.com/DRAGOEFENICE.pdf
134
comunitaria molto forte, di coesione e di solidarietà, ma anche di vincolo e di
costrizione. In questo contesto, la decisione di avere un figlio, la gravidanza e la nascita
di un bambino rappresentano eventi particolari e complessi, che vengono gestiti in modi
contraddittori.
La mancata conoscenza della lingua ed il progetto di emigrazione, apparentemente poco
incline all’integrazione, di questo gruppo etnico ha fatto sì che finora i servizi abbiano
svolto un ruolo marginale nell’accompagnamento al parto ed alla nascita dei bambini
cinesi e dei loro genitori. La realtà del flusso migratorio dalla Cina è spesso sconosciuta,
in quanto i servizi offerti dal territorio non vengono utilizzati dai cinesi. Il momento
della nascita di un bambino è quindi una delle poche tappe della loro vita in cui donne
cinesi e servizi vengono in contatto.
Spesso le donne cinesi che giungono al centro non conosco affatto la lingua italiana ad
eccezione di una manciata di parole, così, le coordinatrici del progetto insieme alla
mediatrice hanno deciso di dedicare una parte del tempo all’apprendimento della lingua
e delle parole italiane attinenti alla nascita. E’ stato previsto, nello spazio degli incontri,
un piccolo corso di italiano. Come è risultato dal dossier le donne colgono l’importanza
delle parole spingi e non spingere perché l’ostetrica che le seguirà durante il parto le
pronuncerà spesso. Sun racconta che spesso riceve telefonate dalla sala parto perché
dica alla partoriente di spingere.
Credenze cinesi sul tema della nascita
Un aspetto molto importante nella cultura cinese, con particolare riferimento al tema
della nascita, è occupato dalla simbologia e dalle tradizioni legate alla superstizione. Il
dossier del progetto ha raccolto alcune credenze e abitudini alimentari che possono
stupire o far sorridere l'uomo occidentale ma che diventano punti di grande importanza
nel quadro di una comunicazione interculturale che abbandoni la prospettiva
etnocentrica a favore di un confronto più aperto alla diversità culturale.
Riportiamo di seguito alcune credenze cinesi in merito alle abitudini alimentari durante
la gravidanza tratte dal dossier: “Più frutti di mare si mangiano più il bambino diventa
intelligente. CLM è preoccupata perché mangia troppe arance e la madre le ha detto che
faranno diventare il bambino arancione. Le loro tradizioni dicono che nell’ultimo mese
di gravidanza non si può guardare qualcuno che taglia, per esempio, la carne o il pesce
135
in cucina. Una donna al settimo mese di gravidanza ha fatto i ravioli cinesi e suo figlio è
nato con un orecchio a forma di raviolo”.
Oltre alle credenze e alle superstizioni, la cucina cinese e il tipo di alimentazione
tradizionale è molto diverso da quello italiano, Sun mi dice però che oggi le donne
cinesi in Italia modificano mano a mano le loro abitudini e “mangiano un po' di tutto”.
Come avverte il dossier, le donne cinesi per la maggior parte sono recettive all’infezione
da toxoplasma e conservare le abitudini alimentari cinesi (che prevedono uno scarso
consumo di carne e un abbondante consumo di riso e vegetali) le protegge fino alla
prima visita ginecologica in cui viene spiegato loro quali precauzioni igienico-
alimentari attuare durante il corso della gravidanza. La toxoplasmosi può essere
contratta mangiando carni crude o poco cotte (specie di agnello), di insaccati, di verdure
lavate male o di latticini non pastorizzati. Semplici avvertenze sul consumo di alcuni
cibi possono quindi permettere alle donne cinesi di seguire, se lo vogliono, una dieta
alimentare diversa rispetto a quella d'origine.
Alcune importanti differenze interculturali riguardano poi il momento stesso del parto:
negli ospedali cinesi il marito non può entrare in sala parto ed assistere alla nascita del
figlio, ma di solito le donne sono accompagnate dalle proprie mamme e anche i medici
sono tutte donne. Qui in Italia le donne cinesi si fanno però accompagnare dal marito e
i mariti sono contenti di poter assistere al parto anche se mostrano a volte un po' di
timore. La situazione in Cina sta lentamente cambiando, oggi gli uomini non possono
ancora entrare in tutti gli ospedali. Forse in quelli delle grandi città è più facile ma
sicuramente negli ospedali più piccoli è ancora vietato l’ingresso agli uomini, è proprio
scritto sulla porta. La credenza cinese è che abbiano un'influenza negativa sulla donna e
sul parto.
Un' usanza importante da un punto di vista interculturale (che un occidentale
difficilmente potrebbe comprendere senza essere messo al corrente della tradizione
cinese) riguarda il divieto per le mamme di toccare l'acqua per un certo periodo dopo il
parto. Le testimonianze raccolte da Sun e dall'equipe medica che ha realizzato il
progetto “il Drago e la Fenice” riportano che:
“a XF, alla nascita del primo figlio, hanno proposto di fare la doccia, lei sapeva di non
poterla fare ma non ha avuto il coraggio di dire di no. Per il secondo figlio vorrebbe
seguire la tradizione. Anche i denti non si potrebbero lavare, perchè se no si crede che
136
da vecchi cadranno prima; un'altra neo-mamma si è trovata a disagio al Nido
dell’ospedale nel momento in cui le infermiere le hanno chiesto di lavare il bambino nel
lavandino, senza usare le salviettine umidificate come avrebbe voluto fare lei. Il
bambino era troppo sporco. Sapeva di non dover toccare l’acqua e non riusciva a
spiegare questo alle infermiere. Alla fine ha lavato il bambino”.
Il problema dovuto a tale differenza interculturale si può risolvere utilizzando salviettine
umidificate (o guanti), basterebbe che il personale socio-sanitario fosse informato di tale
esigenza per far sì che le mamme cinesi che partoriscono in Italia possano vivere i
momenti successivi al parto con serenità, risparmiandosi il trauma di contravvenire ad
una credenza popolare per loro importante.
Altri aspetti simbolici o culturalmente definiti riguardano: il trattamento della placenta
(in Cina la placenta è usata per produrre medicinali, aumenta gli anticorpi, per cui si
deve stare attenti che la placenta una volta espulsa non sia presa da qualcuno che
potrebbe usarla per produrre medicinali); i temi della sessualità e della contraccezione,
inoltre, sono considerati tabù e la pianificazione familiare iniziata negli anni '80 per
regolare il numero delle nascite ha intrecciato la sessualità e la procreazione ad aspetti
sociali e normativi molto forti. Anche l'allattamento è in alcuni casi un momento
difficile per la donna cinese: alcune donne preferiscono non allattare il figlio perchè
hanno paura di creare un legame troppo forte prima di distaccarsene, spesso infatti la
crescita dei figli deve essere delegata ai nonni e/o ai parenti rimasti in Cina. I bambini
dopo i primi due o tre mesi dalla nascita vengono spesso riportati in Cina e ritornano in
Italia dai genitori in età scolare.
L'intervista a Sun e l'esperienza raccolta del progetto “il Drago e la Fenice” ci ha
permesso di aprire una finestra su una cultura lontana dalla nostra, ricca di tradizioni e
aspetti simbolici di cui spesso non siamo a conoscenza; grazie al sostegno delle
mediatrici culturali è però possibile costruire un ponte fra le due culture che si
incontrano. In momenti delicati e carichi da un punto di vista psicologico-emotivo come
quelli del parto o della diagnosi di una malattia, la mediazione culturale diventa
fondamentale per garantire non solo il successo della comunicazione, ma anche il
rispetto e la comprensione dei partecipanti e delle rispettive culture.
137
5.7 “Spazio Salute Immigrati”, Ausl di Parma
Mediatrice di rumeno e moldavo
Martedì 4 gennaio incontro Cecilia allo “Spazio Salute Immigrati” nel centro di Parma,
ho concordato l'appuntamento telefonicamente con la mediatrice stessa una settimana
prima; quando mi accoglie ci accomodiamo nello studio ed inizia a raccontarmi della
sua esperienza. Cecilia è la mediatrice di rumeno e moldavo, è arrivata in Italia dalla
Romania nel '99, ha più o meno cinquanta anni ed è sposata con un italiano, di Napoli,
conosciuto due anni dopo il suo arrivo.
Contratto e remunerazione
Lavora come mediatrice dal 2003, ha un contratto di collaborazione coordinata e
continuativa (co.co.co.) che prevede 7 ore settimanali distribuite su due giorni (martedì
e venerdì); Cecilia mi dice che il suo stipendio attuale è di 524 euro; quando ha iniziato
questa professione le mediatrici percepivano dai 1000 ai 1200 euro mensili a fronte del
doppio (o più) di ore lavorative settimanali.
Organizzazione del servizio
All'apertura dello “Spazio Salute Immigrati” (S.S.I.) le mediatrici che prestavano
servizio erano cinque e coprivano cinque lingue e culture diverse, ora sono solo due:
Cecilia per il rumeno e il moldavo, e Ming per il cinese. Dagli ultimi due anni a questa
parte, l'Ausl di Parma, della quale lo S.S.I. fa parte, ha optato (forse per motivi di fondi)
per una riduzione delle mediatrici all'attivo e quando è necessaria una mediazione in
un'altra lingua si ricorre ai servizi di mediazione a chiamata. Quando Cecilia ha iniziato
a svolgere questa professione, nel 2003, lo S.S.I. non era conosciuto come oggi presso
le comunità di immigrati del parmense; mi racconta che le mediatrici distribuivano
volantini e depliants informativi in vari punti di aggregazione della città: parchi,
stazioni, supermercati, piazze ecc. In questo modo potevano “spargere la voce” e far
conoscere ad un numero sempre maggiore di potenziali utenti l'esistenza di uno spazio
appositamente dedicato agli stranieri con o senza permesso di soggiorno.
Al Servizio possono rivolgersi gli immigrati (direttamente o con prenotazione
telefonica) che non conoscono l'organizzazione dei servizi sanitari o le opportunità di
138
assistenza garantite dalla legislazione, non hanno il permesso di soggiorno o, pur
avendolo, non sono iscritti al Servizio Sanitario Nazionale. I servizi offerti al pubblico
(per utenza maschile e femminile) sono: assistenza sociale, medicina di base
(infettivologia), mediazione culturale e pediatria. Il lavoro di Cecilia presso lo S.S.I.
comprende sia il servizio di mediazione telefonica sia quello di mediazione in co-
presenza con medico e paziente durante la visita ambulatoriale. In questo spazio, oltre
alle due mediatrici, esercitano un pediatra, uno psicologo, un medico di base e un
assistente sociale. Cecilia svolge anche mediazioni a chiamata presso il Pronto Soccorso
e il consultorio del Programma Salute Donna di via Pintor a Parma, oltre a coprire
mediazioni “extra”, che non rientrano nel contratto sopracitato, presso altre strutture
socio-sanitarie della provincia; mi racconta, per esempio, che il giorno dopo ha un
appuntamento a Fidenza (PR), dovrà mediare per una bambina rumena che sarà presa in
carico da un assistente sociale.
Formazione
Riguardo alla formazione di Cecilia, avendo intrapreso la professione prima
dell'approvazione della Legge Regionale n.5 del 24 marzo 2004 (v. Cap. 6.2), la
mediatrice non ha compiuto il tirocinio formativo attualmente previsto ma, agli inizi
della sua professione, insieme alle altre mediatrici dell'Ausl di Parma, ha seguito un
corso di formazione (che non prevedeva il rilascio di un attestato ma solo la frequenza)
tenuto da vari operatori socio-sanitari, in particolare dalla Dott.ssa Adele Tonini,
ginecologa e responsabile dello Spazio Immigrati dell'Azianda Usl di Parma; e al quale
hanno contribuito attivamente i mediatori dell'Ausl di Torino, portando la loro
esperienza come testimonianza diretta, furono infatti i primi in Italia ad intraprendere un
progetto di mediazione culturale rivolto agli immigrati nel nostro Paese; il corso fu
organizzato dalla Direzione Uffici Comunali di Parma (D.U.C).
Compiti aggiuntivi
Parlando della sua routine lavorativa, Cecilia mi racconta che solitamente compila
insieme al paziente la sua “biografia” raccogliendo i dati anagrafici ed altre
informazioni relative al suo trascorso e alla sua permanenza in Italia; in questo modo,
139
prima della visita con il medico, Cecilia e il paziente hanno modo di parlare a tu per tu
(secondo Gentile et alii. 1996, v. Cap. 4, il mediatore-interprete dovrebbe evitare di
trascorrere del tempo da solo con il paziente; ancora una volta, le opinioni sono
divergenti e la teoria sembra essere smentita dalla pratica).
Fiducia
Cecilia mi spiega l'importanza di conquistare la fiducia del paziente, “devi puntare al
cuore”, dice, “devi fargli capire che sei lì per aiutarlo”; molti immigrati, specie se
clandestini, hanno paura di rivolgersi alle strutture sanitarie pubbliche perchè temono di
essere consegnati alla Questura. Grazie alla mediatrice, vengono informati dei servizi
offerti e vengono assistiti anche per ciò che riguarda le eventuali pratiche burocratiche.
1^ o 3^ persona, aspetti linguistici e interculturali
La mediazione, mi dice, avviene in prima persona e il briefing spesso non è necessario
perchè ormai il servizio è diffusamente conosciuto sul territorio. Da una prospettiva
interculturale, Cecilia pensa che la cultura italiana e quella rumena siano simili, anche
da un punto di vista linguistico ci sono somiglianze dovute al comune ceppo
linguistico48 e durante l'intervista Cecilia mi fa alcuni esempi di parole somiglianti:
carta = hârtie; calendario = calendar ; acqua = apă ecc. ; la mediatrice vuole
sottolineare la comune discendenza delle due culture e aggiunge che gli immigrati
rumeni e moldavi imparano l'italiano molto velocemente, soprattutto se arrivano in
Italia da giovani. “Dopo non hanno più bisogno di me!”, dice ridendo, “non come i
cinesi che hanno bisogno della mediatrice anche per andare in bagno!”, Cecilia fa un
paragone con la collega cinese, (sono rimaste solo loro due come mediatrici fisse allo
S.S.I.) e mi fa notare che gli immigrati cinesi imparano la lingua più lentamente, a volte
non vogliono o non hanno bisogno di impararla perchè vivono prevalentemente
all'interno della comunità cinese, mentre rumeni e moldavi imparano velocemente per
motivi di sopravvivenza.
48 La lingua rumena (o dacorumeno) è una lingua romanza o neo-latina appartenente al gruppo indoeuropeo. La lingua rumena è una delle lingue romanze balcaniche e viene parlata come madrelingua da più di 26 milioni di persone in Romania, Moldavia, ed in diverse parti della Serbia, Bulgaria, Macedonia, Albania, Grecia, Ucraina ed Ungheria.
140
Rapporti con la comunità
Le chiedo se lei frequenti la comunità rumena e moldava di Parma e mi risponde
scuotendo la testa, le chiedo allora se ha qualche amica sua connazionale e mi dice di
no, “perchè dopo si crea invidia...ho provato, ho avuto amiche ma poi..non ho tempo
adesso..”. La mediatrice qui in Italia si è ricreata una vita, è sposata con un italiano e
qualche anno dopo essere arrivata nel nostro Paese, anche i due figli che allora avevano
sei e sette anni l'hanno raggiunta; ora sono adulti e vivono a Parma. Mi dice di non
avere tempo per le amicizie, durante la settimana lavora e nel weekend deve occuparsi
delle faccende domestiche e cucinare per il marito che, da buon napoletano, ama
mangiare e le ha insegnato a cucinare piatti tradizionali della sua terra. Anni fa aveva
conosciuto delle donne rumene con le quali aveva stretto amicizia ma poi i rapporti si
sono deteriorati per fraintendimenti ed invidie, “ognuno deve pensare a se stesso”, dice,
“se io sono stata più fortunata, l'amica non dovrebbe essere invidiosa..”.
Temi tabù
A questo punto riporto il discorso sul tema della mediazione culturale e le domando se
ha mai riscontrato difficoltà o se si sia mai trovata in situazioni di mediazione
complesse, la risposta è stata: “i rumeni non sono tutti balordi... i balordi ci sono
dappertutto”. Allora la interrompo e le dico che ovviamente io non credo questo e le
spiego che mi riferivo a situazioni di particolare delicatezza o stress; Cecilia mi
risponde che ci sono parecchi casi di infezioni e malattie sessuali ma è sempre un po'
sulla difensiva, quasi a voler giustificare i pazienti e la loro disperazione. Mi fa capire
che alla sua età certe cose passano in secondo piano ma quando un uomo e una donna
sono giovani, allora è più facile lasciarsi trasportare. Le chiedo se per lei è imbarazzante
parlare di malattie sessualmente trasmissibili con pazienti uomini e mi risponde di no,
ormai ha superato il disagio che provava all'inizio e comunque durante la visita
andrologica, la mediatrice si volta prima che il paziente si svesta e continua a mediare
rimanendo voltata. A volte, quando capisce che la situazione è piuttosto delicata o
quando il medico stesso glielo fa presente, esce dall'ambulatorio e rimane dietro la porta
per essere a disposizione nel caso sia necessario tradurre una parola o una frase; poi,
terminata la visita, se c'è bisogno di spiegare qualcosa al paziente, o se il paziente
necessita di chiarimenti, Cecilia fornisce tutte le spiegazioni dovute.
141
Salute mentale
Altri casi particolarmente toccanti riguardano poi le badanti rumene e moldave che
giungono allo “Spazio Salute Immigrati” per avere un supporto psicologico; Cecilia è
estremamente sensibile all'argomento, anche lei durante il primo anno di permanenza in
Italia ha lavorato come badante per un'anziana della città. Dice che è una vita durissima,
“un inferno”, “la mia vecchia mi svegliava alle due di notte e poi passava il dito sopra
un mobile o un quadro e mi diceva c'è polvere e io pulivo..se non metti i tappi nelle
orecchie non ce la fai”; la mediatrice mi dice che se una donna è troppo sensibile rischia
di sprofondare in una forte depressione, dice che ci si sente umiliate e la giornata di 24
ore sembra interminabile. Non so cosa intendesse esattamente, ma mi ha detto che a fare
questo lavoro ci si può “ammalare molto” (credo si riferisse a stress ed esaurimento
nervoso). Mi racconta di sentirsi molto fortunata, “io sono arrivata in Italia con invito”,
aveva il biglietto aereo pagato ma la maggior parte delle donne rumene che arrivano nel
nostro Paese vive esperienze molto dure. Per pagarsi il viaggio hanno bisogno di cinque
o sei mila euro (inclusi gli interessi degli usurai) perchè spesso sono costrette a
rivolgersi a degli “sfruttatori” per ottenere prestiti di denaro; una volta arrivate in Italia,
continua Cecilia, il primo anno si ritrovano a mangiare alla Caritas e vivono col
pensiero fisso di saldare il loro debito e di trovare il modo per sopravvivere; in più,
spesso hanno lasciato la famiglia in Romania, a volte dei figli, e quindi vivono nella
costante preoccupazione di racimolare un po' di soldi da mandare a casa. La situazione
in questi casi è comprensibilmente durissima, disperata. Nel '99, aggiunge, la situazione
era notevolmente più difficile rispetto ad oggi “Parma era chiusa. Non c'erano stranieri e
se arrivavi ti portavano alla Polizia”. Le parole di Cecilia sono enfatiche, ma
sicuramente dieci anni fa la vita degli immigrati era più dura rispetto ad ora.
La chiacchierata con Cecilia volge al termine, la mediatrice conclude ripetendomi di
sentirsi fortunata a fare questo lavoro, lei ha vissuto in prima persona le sofferenze e le
difficoltà delle sue connazionali che arrivano in ambulatorio con storie tragiche.
Durante l'intervista, inoltre, ha ribadito più volte che i rumeni non sono tutti delinquenti
e che la vita degli immigrati che arrivano in Italia può essere davvero difficilissima. La
sua voglia di raccontare e raccontarsi mi ha colpita. Quando ci salutiamo le porgo la
mano, lei me la stringe e mi chiede se può baciarmi. Poi aggiunge che posso passare a
trovarla quando voglio.
142
Al termine di questo capitolo di ricerca sul campo, la figura della mediatrice
culturale appare decisamente più concreta ed umana. Le sette mediatrici che mi hanno
gentilmente dedicato parte del loro tempo per descrivere in cosa consiste la loro
presenza presso le strutture socio-sanitarie della regione non corrispondono ad una
figura professionale univoca ed omogenea; le caratteristiche ricorrenti e condivise
riguardano più che altro l'aspetto partecipante, attivo, coinvolgente ed umano di questa
professione. Tutte le mediatrici che hanno risposto all'intervista, anche se con modalità
differenti, sono partecipanti attive, che agiscono anche di propria iniziativa, prendendo a
volte decisioni autonome verso il paziente e svolgendo una vasta gamma di mansioni
che vanno dalla mediazione linguistico-culturale in co-presenza, al supporto psicologico
verso l'utente straniero, all'assistenza nell'adempimento di procedure burocratiche (come
la compilazione di cartelle cliniche, modulistica ecc.), all'offerta di informazioni
ulteriori al paziente, all'azione quasi “educativa” dell'utente straniero per ciò che
concerne il sistema normativo, sanitario e culturale del nostro Paese. Oltre a queste
caratteristiche comuni, ogni mediatrice ha presentato un modus operandi diverso; per
quanto riguarda l'utilizzo della prima o della terza persona durante la mediazione, per
esempio, due mediatrici hanno risposto di usare sempre la terza persona, due la prima
persona, e le altre tre utilizzano entrambe a seconda a seconda dei casi. Anche la pratica
del briefing, come è emerso dalle interviste, è molto meno accurata di quanto prescriva
la letteratura, anzi, a volte non è nemmeno previsto. La cosiddetta “fedeltà”
all'enunciato originale del locutore è un altro punto critico, di rottura rispetto alla teoria:
in primo luogo, le mediatrici utilizzano un linguaggio più semplice di quello originale
(del medico) determinando così un abbassamento del registro linguistico a favore della
comprensibilità dell'enunciato da parte dell'utente-paziente, spesso scarsamente istruito;
in secondo luogo, il testo mediato è generalmente più esteso dell'originale per il
frequente ricorso alla parafrasi e per la necessità (culturale) di mitigare il carattere
diretto del messaggio del medico italiano, indirectness e hedging caratterizzano spesso
il comportamento linguistico delle mediatrici; in terzo luogo poi, rifacendoci alla teoria
di Goffman (1981) le mediatrici non sono semplici “animators” ma, in alcuni casi, sono
veri e propri “authors”, cioè autrici dell'enunciato, responsabili di ciò che dicono di
propria iniziativa. Per quanto riguarda la formazione professionale, tre mediatrici su
sette hanno svolto il tirocinio formativo previsto dalla nuova Legge Regionale del 2004
143
(v. Cap. 6.2), mentre le altre quattro hanno “imparato sul campo” e hanno frequentato al
più qualche conferenza o breve corso sulla mediazione culturale disposti dall'Ausl di
competenza.
L'aspetto certamente più forte che risulta dalle interviste è quello che riguarda il
rapporto umano con il paziente straniero e il grande dispendio di energie, da un punto di
vista psicologico ed emotivo, richiesto alle mediatrici che, pur sottopagate e in
situazioni di forte stress, sono impegnate in prima linea a svolgere un compito tutt'altro
che semplice.
CAPITOLO 6
La regione Emilia-Romagna
6.1 L'immigrazione straniera in Emilia-Romagna
In questa sezione ci occuperemo di fornire una breve sintesi sull'attuale situazione della
Regione in quanto a flussi migratori e presenza di cittadini stranieri sul territorio
regionale e presenteremo in questa sede alcuni dei dati pubblicati nel decimo rapporto
sull'immigrazione straniera nella Regione49.
Il rapporto reca l'introduzione di Anna Maria Dapporto, Assessore alla Promozione delle
politiche sociali e di quelle educative per l’infanzia e l’adolescenza, Politiche per
l’immigrazione, Sviluppo del volontariato, dell’associazionismo e del terzo settore della
Regione Emilia-Romagna, ed è stato pubblicato nel 2010 facendo riferimento ai dati
dell'anno 2008. Come scrive l'Assessore A. M. Dapporto:
“Negli ultimi anni, le politiche regionali in materia di immigrazione hanno mirato alla
realizzazione di azioni organiche, multisettoriali, al fine di trovare risposte adeguate a
un fenomeno divenuto strutturale per la nostra società. (…) Nel corso del 2008 gli
immigrati stranieri in regione hanno oltrepassato le 421.000 unità e il 9,7% della
popolazione residente, allineandosi a quanto avviene nel resto del continente: la media
europea è, infatti, superiore al 9% e nei paesi dell’Europa centrosettentrionale essa
49 Vedi Bibliografia
144
supera già il 10%. Questo rapporto dimostra come il motore dell’immigrazione sia
costituito dal mercato del lavoro che, in Emilia-Romagna (almeno fino all’estate 2008),
agli effetti della sostanziale piena occupazione che vi si è registrata, somma gli effetti
del calo demografico degli ultimi decenni. La Regione Emilia-Romagna sta
proseguendo nel suo impianto di programmazione delle politiche di integrazione sociale
iniziato già nel 2000. La legge regionale n. 5 del 24 marzo 2004 è stata la prima in Italia
dopo la riforma del Titolo V della Costituzione.
In seguito all’approvazione della legge regionale sono state attuate azioni su più fronti:
dagli sportelli informativi alle attività di informazione culturale e interculturale, dalle
reti regionali per i richiedenti asilo, per la lotta alla tratta e contro le discriminazioni su
base etnica, dalla promozione di forme di rappresentanza dei cittadini stranieri
all’attività di mediazione interculturale.
A queste azioni occorre aggiungere due strumenti fondamentali previsti dalla legge
regionale per l’immigrazione: la Consulta regionale per l’integrazione sociale e il
Programma triennale 2006/2008 per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri. La
Consulta (della quale si è definito anche un comitato esecutivo) risponde alla necessità
di avere una programmazione condivisa delle politiche per l’immigrazione tra
Istituzioni, rappresentanti degli immigrati (due per provincia), associazioni di categoria,
sindacati e Terzo settore. Il Programma triennale detta le linee d’azione per il triennio,
puntando ad una convergenza tra politiche di diversi settori (casa, istruzione, sanità,
sociale, lavoro, trasporti, cultura). L’integrazione si realizza a partire dalle scelte prese
in sede istituzionale, affrontando le questioni in modo complessivo e non singolarmente,
proprio perché il fenomeno migratorio coinvolge tutti i settori della società. Alla fine del
2008 l’Assemblea Legislativa regionale ha approvato il secondo programma triennale
che avrà valenza dal 2009 al 2011, individuando tre grandi priorità: l’alfabetizzazione,
la mediazione interculturale (ma anche dei conflitti) ed il contrasto alla discriminazione
su base etnica. Quindi per la prima volta in questa legislatura, l’immigrazione è entrata
stabilmente e in modo strutturale nelle politiche di programmazione della Regione.
La ricaduta di queste politiche sul territorio è stata analizzata attraverso la realizzazione
del quarto rapporto di monitoraggio dei 38 Piani di zona sociali per l’immigrazione
(giugno 2009), in cui è stato possibile valutare quanto i territori hanno recepito della
programmazione regionale e quanto si sono impegnati in termini di risorse. Purtroppo
145
nel 2009, è continuata una decurtazione del Fondo Nazionale per le Politiche Sociali
dopo quella avvenuta nel 2005; questi tagli mettono in difficoltà le politiche della
Regione e degli enti locali sull’integrazione, mancando anche un quadro di riferimento
di programmazione nazionale.
Gli immigrati sono sempre più, ed in maniera crescente, utenti dei servizi di welfare
della regione: non soltanto nel campo delle politiche sociali, ma anche di quelle
sanitarie, scolastiche, lavorative, abitative, ecc… Per la prima volta nel corso del 2009,
il lavoro dell’Osservatorio regionale sul fenomeno migratorio si è arricchito di un
importante elemento: uno studio sul gettito contributivo e fiscale dei lavoratori
immigrati. È anche per questo motivo che l’immigrazione rappresenta una risorsa per la
nostra comunità, una possibilità di crescita e di arricchimento per tutti, nell’ambito di un
quadro di regole condivise”.
Passiamo ora ai dati relativi all'immigrazione straniera nella Regione comparandoli al
quadro dell'immigrazione nazionale ed europea.
Secondo le Nazioni Unite sono più di 200 milioni i migranti nel mondo ovvero, circa il
3% della popolazione mondiale dimora abitualmente in un paese diverso da quello in
cui è nato. Si tratta di un fenomeno difficile da “misurare” poiché caratterizzato da una
grande rapidità di evoluzione, da una grande mobilità anche all’interno del territorio
italiano, da una componente di lavoro sommerso e più in generale dalla clandestinità;
tanto difficile da misurare quanto necessario da capire, anche attraverso i numeri,
delineandone i tratti caratterizzanti.
Una stima della popolazione straniera regolarmente presente sul territorio è possibile
integrando le informazioni contenute nell’archivio dei permessi di soggiorno in corso di
validità gestito dal Ministero dell’Interno e nell’archivio dei residenti con cittadinanza
straniera gestito dall’Istat in collaborazione con le anagrafi comunali.
Anche nello scenario di crisi economica e occupazionale delineatosi nel corso del 2008
l’immigrazione in Italia non ha arrestato al sua crescita. Secondo la Caritas/Migrantes50
in Italia i soggiornanti stranieri sono passati dai 500.000 di fine anni ottanta ai circa
4.330.000 della fine del 2008 di cui 3.891.295 iscritti in anagrafe.
La Caritas/Migrantes aggiunge che se si tiene conto del fatto che la regolarizzazione di
settembre 2009, pur in tempo di crisi, ha coinvolto quasi 300mila persone nel solo
50 Dossier Statistico Immigrazione Caritas-Migrantes 2009; v. http://www.caritasitaliana.it
146
settore della collaborazione famigliare, delle quali circa 30.000 in Emilia-Romagna,
l’Italia supera abbondantemente i 4,5 milioni di presenze straniere. La stima di circa
461.800 soggiornanti pone l’Emilia-Romagna al quarto posto tra le regioni italiane in
quanto a consistenza preceduta da Lombardia (997.800), Lazio (499.200) e Veneto
(502.200). Se si considera la presenza straniera in termini di incidenza dei residenti
stranieri sulla popolazione residente complessiva ecco che l’Emilia-Romagna balza al
primo posto con circa 9,7 stranieri residenti ogni 100 residenti in complesso, seguita
dall’Umbria con 9,6 stranieri residenti per 100 abitanti e da Lombardia e Veneto con
9,3. I ritmi di crescita della popolazione straniera in Emilia-Romagna hanno raggiunto
il massimo tra la fine degli anni novanta e la metà degli anni 2000 quando, anche a
seguito dei numerosi procedimenti di regolarizzazione, si avevano incrementi medi
annui attorno al 20%. Dopo l’ultima ondata di regolarizzazione del 2004 i ritmi di
crescita si sono dimezzati anche se l’ingresso nella Comunità europea di Romania e
Bulgaria ha determinato un incremento del 15% nel corso del 2007. Anche il 2008 si è
distinto per un aumento di poco superiore al 15% degli stranieri residenti in Emilia-
Romagna e questo sia per il continuo aumento della popolazione straniera proveniente
dai nuovi Paesi Membri sia per i consistenti flussi da paesi non comunitari.
In termini assoluti le più alte presenze di cittadini stranieri residenti si trovano in
Germania (7,255 milioni), Spagna (5,262 milioni), Gran Bretagna (4,021 milioni),
Francia (3,674 milioni) e Italia (3,433 milioni): gli stranieri residenti in questi cinque
Stati rappresentano più del 75% degli stranieri residenti nell’Unione europea. In tutti gli
Stati membri, ad eccezione di Lussemburgo, Irlanda, Belgio, Cipro, Slovacchia,
Ungheria e Malta, la maggior parte degli stranieri residenti proviene da paesi esterni alla
UE. In termini di paese di provenienza si riscontra in Italia, e in Emilia-Romagna, una
maggiore frammentazione rispetto agli altri grandi paesi, da ricondurre in parte
all’assenza di legami storici, linguistici o di prossimità geografica che influenza le
provenienze dell’immigrazione in altri paesi, come, ad esempio, per gli indiani in Gran
Bretagna o gli algerini in Francia.
L’alta frammentazione tra i paesi d’origine viene vista come una condizione che
potrebbe, a priori, ridurre il rischio di ghettizzazione in quanto favorisce assai meno
l’eventuale formazione e l’affermarsi di forti minoranze compatte, prevalenti rispetto
alle altre.
147
Come viene sottolineato nell’Eurostat Regional Yearbook 200951 in molte regioni
europee, dove la crescita naturale è nulla o negativa, l’immigrazione internazionale
assume ancor più importanza in quanto collegata alla possibilità di mantenere una certa
dimensione demografica; in particolare in Emilia-Romagna e nelle altre regioni del
Centro-Nord Italia l’immigrazione è in grado di contrastare la crescita negativa dovuta
alla sola componente naturale.
In una situazione di invecchiamento della popolazione e di limitato ricambio
generazionale delle classi di età lavorative si creano maggiori spazi di inserimento per
gli immigrati e lo dimostra il fatto che non solo l’Emilia-Romagna attrae sempre più
stranieri ma continua ad attrarre anche una parte consistente delle migrazioni interne al
paese. Nel 2008 il saldo migratorio interno dell’Emilia-Romagna, pari a 4,6 per mille,
risulta ancora una volta il più elevato tra le regioni italiane e, unito al saldo migratorio
con l’estero, avrebbe portato ad un incremento della popolazione ad opera delle sole
migrazioni pari al 15,8 per mille. La crescita complessiva è stata però di circa 14
persone ogni 1.000 presenti nella popolazione in quanto il tasso di crescita naturale,
tuttora negativo, è pari a circa -1,3 per mille.
La popolazione straniera è presente oramai su tutto il territorio regionale anche se vi
sono delle zone in cui vi è una maggiore incidenza in funzione delle diverse
specializzazioni economiche, delle vie di comunicazioni presenti e del mercato abitativo
più o meno favorevole; in particolare è evidente come le province di Piacenza, Parma,
Reggio Emilia e Modena abbiano un numero di stranieri ogni 100 residenti superiore
alla media regionale pari a 9,7%. Queste province emiliane hanno circa l’11% di
stranieri residenti al contrario di Ferrara che continua a mostrare la presenza più bassa
(6,1%) seppure con notevoli incrementi nel corso degli ultimi anni. I dati raccolti
identificano una vasta area tra le province di Reggio Emilia e Modena con valori
superiori all’11% e che raggiungono, in molti comuni, anche il 20% nonché una fascia
di comuni al confine tra la provincia di Piacenza e la Lombardia e zone collinari della
provincia di Modena, Bologna e di Forlì-Cesena.
Il peso della componente femminile è più elevato della media regionale nelle province
di Ferrara (54,1%), Rimini (52,5%), Bologna (51,3%) e Parma (50,5%). Questa
distribuzione è influenzata in parte dalla distribuzione per cittadinanza degli stranieri 51 http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/product_details/publication?p_product_code=KS-HA-09-001
148
residenti poiché vi sono delle nazionalità in cui la componente femminile è decisamente
prevalente: tra le prime troviamo Ucraina (16.407 donne pari al 81,2%del totale degli
ucraini residenti), Polonia (8.349, 73,8%) e Moldavia (12.306, 68,5%). Tra le prime
venti cittadinanze presenti, quote di donne superiori al 50% si riscontrano anche per gli
immigrati residenti provenienti da Nigeria, Filippine e Romania e Bulgaria.
Il costante e rapido aumento della popolazione straniera incide in maniera notevole sulle
caratteristiche strutturali della popolazione sia perché ne modifica la consistenza sia
perché contribuisce in larga misura al suo ringiovanimento in termini di rapporto tra
popolazione anziana e giovanile: va infatti ricordato che circa il 78% degli stranieri
residenti in Emilia-Romagna si colloca nelle classi di età tra i 15 e i 64 anni, attive sia
dal punto di vista lavorativo sia demografico e contribuendo quindi alla ripresa della
natalità.
Nell’analisi della distribuzione degli stranieri residenti per cittadinanza (v. tabella in
Appendice) è evidente come i gruppi di più antica immigrazione siano ancora molto
rappresentati, in particolare i cittadini marocchini (62.680 residenti), gli albanesi
(54.336), i rumeni (54.205) e i tunisini (20.343): a partire dal 2006 la consistenza dei
cittadini rumeni ha superato quella dei cittadini tunisini che fino ad allora avevano
rappresentato la terza cittadinanza in quanto a consistenza.
Tra le prime venti cittadinanze per consistenza l’incremento più elevato nel corso del
2008 è quello dei cittadini moldavi (17.970 residenti, +40,1% rispetto al 1.1.2008)
seguiti dai rumeni (54.205, +30,1%); con variazioni superiori al 15,2% medio regionale
si trovano anche le provenienze da Bangladesh, Sri Lanka, Bulgaria, Ucraina, India e
Polonia.
Seppure i cittadini stranieri si collocano abbastanza omogeneamente sul territorio e
quindi nelle graduatorie delle residenze a livello provinciale ritroviamo sostanzialmente
le cittadinanze già citate, si possono riconoscere rispetto ad esse alcune particolarità.
Nelle graduatorie delle prime venti cittadinanze presenti a livello provinciale notiamo
che i cittadini albanesi, marocchini e rumeni si collocano tra le prime tre cittadinanze
tranne a Parma dove in seconda posizione troviamo i moldavi (4.668 residenti pari a
circa il 26% del totale regionale), a Reggio Emilia dove la seconda posizione è occupata
dagli indiani (5.351 poco più del 41% del totale regionale) e nella provincia di Rimini
dove in terza posizione troviamo gli ucraini (2.421 circa il 12% del totale regionale). Da
149
notare anche il quarto posto occupato dalla comunità cinese nelle province di Rimini,
Forlì-Cesena e Reggio Emilia, dai senegalesi nella provincia di Ravenna, dagli ucraini
in quella di Ferrara, dai filippini a Bologna e dai macedoni a Piacenza.
Questa breve panoramica sul quadro dell'immigrazione straniera in Emilia-Romagna è
estremamente utile per comprendere più a fondo il contesto nel quale si situano i servizi
di mediazione culturale predisposti dalla Regione. Come è emerso dalle testimonianze
delle mediatrici intervistate, spesso le lingue di mediazione presso le strutture socio-
sanitarie regionali rappresentano solo le lingue maggiormente diffuse; a fronte della
grande varietà dei flussi di immigrazione che caratterizzano il territorio della Regione,
in alcuni casi il servizio di mediazione culturale risulta pertanto insufficiente rispetto
alle lingue cosiddette minoritarie e ai rispettivi parlanti che, come tutti i cittadini
stranieri, dovrebbero poter usufruire di tale servizio.
6.2 La mediazione culturale in Emilia-Romagna: la legislazione italiana e regionale
In questa sezione cercheremo di delineare l'attuale situazione della regione Emilia-
Romagna rispetto alla figura del mediatore linguistico-culturale e alle politiche regionali
che regolano tale profilo professionale, in particolare facendo riferimento al processo di
definizione di questo ruolo avvenuto fra il 2004 e il 2005. Prima però, è opportuno
fornire una breve descrizione del quadro normativo italiano in merito al tema
dell'immigrazione per poi focalizzare l'attenzione sulla legislazione regionale.
Da un punto di vista normativo, così come descritto da Camilotti e Sebastianis (in Luatti
2006), il termine mediatore è stato utilizzato per la prima volta dal Ministero della
Pubblica Istruzione nella circolare n. 205 del 26 luglio 1990 “Accoglienza ed
organizzazione scolastica degli alunni stranieri”, in cui si parla dell' “impiego di
mediatori di madre lingua per agevolare la comunicazione nell'ambito scolastico e nella
comunicazione scuola-famiglia, nonché [dell'] utilizzo di esperti di madre lingua per
attuare le iniziative per la valorizzazione della lingua e cultura d'origine”, senza però
definirne il ruolo, le competenze e i requisiti. Fino a venti anni fa, dunque, la
mediazione culturale è stata relegata ad una posizione marginale ed accessoria, priva di
150
un assetto strutturato che ne stabilisse i caratteri sotto il profilo normativo. Ma solo nella
legge 40/98 (Legge Turco-Napolitano), in seguito confluita nel Decreto legislativo
286/9852, si fa riferimento per la prima volta al mediatore come figura “qualificata”.
L'ambiguità della terminologia utilizzata, tuttavia, rende la definizione del “mediatore
qualificato” ancora piuttosto farraginosa, poiché si parla di mediatori culturali
qualificati e di mediatori interculturali, senza esplicitarne le eventuali differenze
(Ibid.)53
Secondo quanto scrive Fiorucci (in Luatti 2006) utilizzando toni piuttosto forti per
esprimere il proprio disappunto, la legge sull'immigrazione attualmente in vigore, Legge
Bossi-Fini del 30 luglio 2002, n.189, sembra caratterizzarsi per almeno due aspetti
principali:
− “ l'istituzionalizzazione della precarietà: i rischi di diventare clandestini e
irregolari presenti in questa legge sono elevatissimi (…) L'economia sommersa che si
fonda sul lavoro nero, accumula ricchezza “utilizzando” persone che non possono
rivendicare diritti e non possono ribellarsi a condizioni di lavoro dure, nocive e
insopportabili in una moderna società democratica”;
− “ la riduzione della persona umana al suo essere prestatore d'opera: collegare il
permesso di soggiorno al contratto di lavoro (“contratto di soggiorno”) costituisce una
negazione della persona umana nel suo complesso”.
Il dibattito a livello politico-normativo, come appare anche dal brano sopracitato,
rimane acceso; Fiorucci (Ibid.) pone a confronto la Legge Bossi-Fini con la precedente 52 “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”. 53 L. 40/98, art. 36, c. 6b: [...sono dettate le disposizioni dei] criteri per il riconoscimento dei titoli di studio e degli studi effettuati nei Paesi di provenienza ai fini dell'inserimento scolastico, nonché dei criteri e delle modalità di comunicazione con le famiglie degli alunni stranieri, anche con l'ausilio di mediatori culturali qualificati ”; art. 40, c. 1: “Lo Stato, le Regioni, le Province e i Comuni (…) favoriscono: (…) la realizzazione di convenzioni con associazioni (…) per l'impiego all'interno delle proprie strutture di stranieri, titolari di carta di soggiorno o permesso di soggiorno di durata non inferiore a due anni, in qualità di mediatori interculturali al fine di agevolare i rapporti tra le singole amministrazioni e gli stranieri appartenenti ai diversi gruppi etnici, nazionali, linguistici e religiosi”. Anche il DPR 394/99 (“Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”) adotta la denominazione mediatore culturale qualificato e ne indica come compiti l'accoglienza, la comunicazione con le famiglie e le azioni a tutela dalla lingua di origine: art. 45 c. 5 e 6: “Il collegio docenti formula proposte in ordine ai criteri e alle modalità per la comunicazione tra scuola e famiglia degli alunni stranieri. Ove necessario, anche attraverso intese con l'ente locale, l'istituzione scolastica si avvale dell'opera di mediatori culturali qualificati ”. Ricordiamo che la Legge 189/02 (“Bossi-Fini”) ha lasciato inalterate le disposizioni relative all'istruzione per gli immigrati ed i loro figli. (Camilotti e Sebastianis 2006:213)
151
legge quadro sull'immigrazione, la Legge n. 40 del 6 marzo 1998 (Legge Turco-
Napolitano), la quale, nonostante i limiti e gli elementi controversi54 che mostrava,
presentava alcuni aspetti innovativi già nel titolo “Disciplina dell'immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero”:
- non parlava più di norme “urgenti” in materia di immigrazione, quasi a voler prendere atto del
carattere non più transitorio dell'immigrazione nel nostro paese;
− non faceva riferimento esclusivamente alla dimensione lavorativa dell'immigrato, parlando per la
prima volta di “condizione dello straniero”e prendendo in considerazione una vasta gamma di
aspetti tra loro interrelati per giungere all'acquisizione del pieno diritto di cittadinanza (casa,
lavoro, assistenza sanitaria, istruzione, formazione e riqualificazione professionale, possibilità di
accesso ai servizi)
− presentava un articolo, art. 36 “Istruzione degli stranieri. Educazione interculturale”, che per la
prima volta in una legge italiana introduceva il concetto di educazione interculturale, con
riferimento alla figura dei mediatori culturali (senza però regolamentarne la qualifica e la
formazione).
La Legge Turco-Napolitano del 1998, primo testo unico sull'immigrazione, nell'art. 42
nomina i mediatori linguistico-culturali, affermando il loro impiego nei servizi “al fine
di agevolare i rapporti tra le singole amministrazioni e gli stranieri appartenenti ai
diversi gruppi etnici, nazionali, linguistici e religiosi”. La legge, inoltre, stabilisce la
creazione di un Albo nazionale dell'associazione e delle cooperative che svolgono azioni
di mediazione a favore della popolazione immigrata. Come detto in precedenza, la
Turco-Napolitano non fissa esplicitamente la natura delle attività di mediazione
linguistico-culturale. Casrtiglioni (in Luatti 2006:146) aggiunge:
Gli sforzi inoltre per arrivare alla definizione del ruolo e del profilo professionale del mediatore
linguistico-culturale da parte del CNEL [Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro] attraverso
l'istituzione di un'apposita commissione, nei due anni successivi alla promulgazione del testo Unico, sono
riamasti sulla carta.
Oltre alla mancanza di omogeneità e chiarezza terminologica già menzionata, risulta
evidente la mancanza di corrispondenza fra il testo normativo e la realtà della
mediazione culturale effettivamente svolta sul campo; nonostante i piccoli progressi
54 Fiorucci si riferisce qui alla questione delle impronte digitali e alla situazione dei Centri di permanenza temporanea (CPT) italiani: “ ICPT , istituiti con la legge Turco-Napolitano e mantenuti in vita e rinforzati nella loro funzione repressiva dalla Legge Bossi-Fini, rappresentano dei veri e proprio “lager” dove vengono sospesi tutti i diritti” (Fiorucci in Luatti 2006: 107)
152
registrati in questa breve panoramica della normativa nazionale sul tema
dell'immigrazione e della mediazione interculturale, permangono infatti criticità e punti
oscuri ancora da risolvere.
In quanto alla legislazione regionale dell'Emilia-Romagna, il processo di cambiamenti
qualitativi e quantitativi iniziato nella seconda metà degli anni '90 si è sviluppato di pari
passo con la crescente presenza di cittadini stranieri nel nostro Paese, la quale ha
contribuito a diffondere la consapevolezza dell'importanza di servizi assistenziali e di
mediazione culturale che potessero permettere agli immigrati di dialogare con il sistema
italiano ed accedere alle infrastrutture del Paese. Come spiegano esaustivamente
Facchini e Martelli (in Luatti 2006), nel dicembre 2001, la Regione Emilia-Romagna ha
sottoscritto con enti locali, parti sociali (Associazioni datoriali e Sindacati) e forum
regionale del terzo settore un “Protocollo d'intesa in materia di immigrazione straniera”
nel quale si sono definiti cinque assi strategici di intervento regionale per l'integrazione
dei migranti: governo dei flussi migratori, lavoro e formazione professionale, politiche
abitative, integrazione sociale e nuova legislazione regionale.
A proposito della mediazione culturale, il protocollo regionale 2001 affermava come:
la relazione tra culture differenti richiede che sia dedicata particolare attenzione alle azioni e ai progetti di
mediazione culturale volti al superamento delle incomprensioni, diffidenze e conflitti che inevitabilmente
si creano. La realizzazione efficace di interventi di mediazione culturale necessita però dell'attivazione di
percorsi volti alla definizione del profilo professionale, all'individuazione di percorsi formativi specifici,
alla differenziazione fra ambiti e modalità d'intervento, alle modalità organizzative per la gestione di
progetti e servizi, alla destinazione di risorse economiche specifiche. La progettazione di iniziative in tal
senso non possono e non devono non disporre della ricca esperienza realizzata in questa regione
dall'associazionismo, dal volontariato e dalla cooperazione sociale.
La nuova legge regionale si configura quindi come strettamente collegata al tema della
mediazione interculturale e la Regione Emilia-Romagna è stata la prima regione italiana
a legiferare in materia di politiche per l'integrazione dei cittadini immigrati dopo la
riforma del Titolo V della Costituzione55 e dopo la modifica della normativa nazionale
55Con la legge Costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 viene riformata la parte della Costituzione riguardante il sistema delle Autonomie Locali e dei rapporti con lo Stato. La riforma comporta la revisione degli articoli 114-133 della Carta Costituzionale. Attraverso la conferma di alcuni articoli, l’abrogazione di altri e la modifica di altri ancora, viene cambiato in profondità l’ordinamento istituzionale della Repubblica. Quanto alla organizzazione istituzionale, il nuovo testo dell’articolo 114 (il primo del Titolo V), secondo una logica di equiordinazione, indica che la Repubblica (intesa come Stato-ordinamento) è costituita da
153
(approvazione del D.Lgs. 286/98) e delle sue successive modifiche previste dalla L.
189/2002.
Come argomentano Facchini e Martelli (2006), l'approvazione di una nuova normativa
regionale si rendeva necessaria per almeno tre ragioni:
• la evidente vetustà della precedente legge regionale in vigore (LR 21 febbraio
1990, n. 14), che sostanzialmente nasceva nel solco della impostazione
emergenziale causata dai primi consistenti flussi migratori nel nostro paese;
• le modifiche sostanziali rispetto alle caratteristiche del fenomeno migratorio
(stabilizzazione e femminilizzazione in primis)
• un forte processo di innovazione e modificazione legislativa avviato a livello
nazionale a partire dalla emanazione del D.Lgs. 286/1998 e successive
modificazioni.
La nuova legge regionale per l'integrazione sociale dei cittadini stranieri, LR n. 5 del 24
marzo 2004, “Norme per l'integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati.
Modifiche alle leggi regionali 21 febbraio 1990, n. 14 e 12 marzo 2003, n. 2” (v.
Appendice), è nata dunque per promuovere e garantire una maggiore coesione sociale
tra nuovi e vecchi cittadini residenti sul suolo italiano e prevede attività di mediazione
culturale al fine di:
garantire per i cittadini stranieri immigrati pari opportunità di accesso all'abitazione, al lavoro,
all'istruzione ed alla formazione professionale, alla conoscenza delle opportunità connesse connesse
strutture paritetiche, senza distinzione tra livelli gerarchici: Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato (inteso come Stato-persona) L’articolo 114 prevede, inoltre, il riconoscimento costituzionale della funzione di capitale della Repubblica per la città di Roma. In considerazione della nuova forma di Stato decentrato, i nuovi importanti compiti costituzionali della capitale saranno disciplinati con legge dello Stato. La rilevanza del nuovo orientamento federalista si manifesta, in particolare, nella inversione, disposta con il nuovo testo dell’articolo 117, della enunciazione delle materie di competenza esclusiva, che pone implicitamente come più rilevante la competenza regionale rispetto a quella statale. Il secondo comma di tale articolo, infatti, definisce l’ambito di materie in cui deve essere esercitata la potestà legislativa esclusiva da parte dello Stato; nel vecchio testo erano, invece, stabilite in modo esplicito le materie di competenza regionale. Il comma successivo indica le materie “concorrenti”, sulle quali, tuttavia, l’iniziativa legislativa spetta alle Regioni, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla normativa dello Stato. Il comma 4, infine, attribuisce alle Regioni la potestà legislativa residuale, cioè relativamente a ogni materia non espressamente riservata allo Stato. (…) Secondo il principio di sussidiarietà, che attribuisce le funzioni al livello “più basso“ di governo, l’ambito regionale, con la riforma, è divenuto quello legislativamente più rilevante, mentre ai Comuni (articolo 118) spettano le funzioni amministrative. (Espa e Felici 2003:29:30, v. http://www.isae.it/ra_fed_cap3_2003.pdf )
154
all'avvio di attività autonome ed imprenditoriali, alle prestazioni sanitarie ed assistenziali [e, rispetto
all'assistenza sanitaria afferma che] “la Regione promuove, anche attraverso la Aziende sanitarie, lo
sviluppo di interventi formativi destinati ai cittadini stranieri immigrati ed attività di mediazione
interculturale in campo socio-sanitario, finalizzati ad assicurare gli elementi conoscitivi idonei per
facilitare l'accesso ai servizi sanitari e socio-sanitari. (artt. 1 e 13)
La Regione Emilia-Romagna, ispirandosi al principio di pari opportunità e con
l'obiettivo di assicurare il pieno inserimento sociale, culturale e politico per i cittadini
stranieri, ha introdotto uno specifico articolo, art. 17, “Interventi di integrazione e
comunicazione interculturale”, che prevede al punto e) come la Regione e gli Enti locali
promuovano:
il consolidamento di competenze attinenti alla mediazione socio-culturale, secondo la normativa regionale
in materia di formazione professionale, finalizzate alla individuazione ed alla valorizzazione di una
specifica professionalità volta a garantire sia la ricognizione dei bisogni degli utenti, sia l'ottenimento di
adeguate prestazioni da parte dei servizi. (citato in Luatti 2006:237)
Con la delibera n.1576 del 30 luglio 2004 “Prime disposizioni inerenti la figura
professionale del mediatore interculturale” la Regione Emilia-Romagna ha definito gli
standard formativi essenziali per il riconoscimento della qualifica di mediatore
interculturale e ha fissato tale figura professionale con la delibera n. 2212 del 10
novembre 2004, “Approvazione repertorio delle qualifiche professionali regionali”56. In
queste delibere vengono individuate le competenze del mediatore e i contenuti del
percorso formativo, ma non vengono indicati i requisiti d'accesso alla professione.
Come scrivono Camilotti e Sebastianis (in Luatti 2006), tra le competenze rientrano la
diagnosi dei bisogni e delle risorse degli immigrati, il loro orientamento ai servizi, la
capacità di intermediazione linguistica e le tecniche di mediazione interculturale. I
contenuti della formazione, poi, prevedono nozioni generali su: fenomeni e dinamiche
dei processi migratori, organizzazione e funzionamento dei servizi socio-sanitari,
educativi, scolastici e lavorativi in Italia e nel paese d'origine, normativa
sull'immigrazione, tecniche di base della comunicazione, di interpretariato, elementi di
base di sociologia ed antropologia culturale, pedagogia interculturale e psicologia
dell'immigrazione. Da notare che anche tra i contenuti didattici e non solo fra le
56 V. http://bur.regione.emilia-romagna.it/bur/area-bollettini/n.-132-del-07.10.2010/adeguamento-ed-integrazione-degli-standard-professionali-del-repertorio-regionale-delle-qualifiche/allegato-1_schede-monografiche
155
competenze richieste si specifica la lingua di provenienza parlata e scritta.
Secondo Belpiede (2006:254) gli strumenti principali del mediatore interculturale
professionista sono: “il decentramento emozionale e culturale e il ruolo di terzo,
l'ascolto e la relazione empatica”. Facchini e Martelli (2006), riflettendo sul profilo
professionale del mediatore interculturale e il suo ruolo, affermano che gli operatori, per
non essere ridotti a meri traduttori linguistici della comunicazione, dovrebbero
possedere competenze trasversali in ambito comunicativo e relazionale e competenze
specifiche; in secondo luogo, dovrebbero rielaborare in termini professionali la propria
esperienza migratoria. In altre parole quindi, il mediatore culturale dovrebbe diventare
un esperto della comunicazione interculturale in un settore di attività specifico: l'ambito
giudiziario, la sanità , la scuola, ecc. L'obiettivo, dunque, è la formazione di una figura
professionale competente e specializzata, riconosciuta e tutelata attraverso la definizione
di standard nazionali.
In quanto alle qualifiche del mediatore culturale, con la delibera n. 265 “Approvazione
standard dell'offerta formativa a qualifica e revisione di alcune tipologie di azione di cui
alla delibera di GR n. 177/2003” del 14 febbraio 2005, la Giunta regionale stabilisce gli
standard formativi del Sistema regionale delle qualifiche. La scheda monografica con
gli standard relativi ai corsi per la qualifica di mediatore interculturale si colloca
nell'area professionale “Assistenza sociale, sanitaria, socio-sanitaria”. Il percorso
formativo prevede:
• corsi di 500 ore, con una quota di ore di stage pari almeno al 35-45% del monte
ore complessivo, rivolti a giovani non occupati, che hanno concluso un percorso
di istruzione e formazione con il conseguimento del relativo titolo finale;
• corsi di 300 ore per giovani-adulti occupati o disoccupati (con un periodo di
stage pari al 20-40% del monte ore totale) la cui durata può essere ridotta fino ad
un minimo di 200 ore, in funzione delle caratteristiche dei partecipanti. Anche in
questo caso non vengono date disposizioni precise sui requisiti relativi all'età, ai
titolo di studio e alla nazionalità dei corsisti.
Il 7 febbraio 2006, la Giunta regionale ha approvato il Programma Triennale 2006-2008
per l'integrazione sociale dei cittadini stranieri sulla base dell'art. 3 della Legge
regionale, in cui, al punto 14 “Comunicazione e mediazione interculturale”, si intende
156
favorire:
la promozione all'approccio interculturale attraverso una serie di possibilità operative con lo scopo di
conoscere e valorizzare gli apporti culturali diversi al fine di costruire assieme nuove solidarietà, nuove
comunità socialmente coese in una logica di pari opportunità di diritti e di rispetto dei doveri socialmente
definiti. (citato da Camilotti e Sebastianis in Luatti 2006:218)
Due anni dopo, in data 16 dicembre 2008, la Giunta Regionale ha decretato
l'approvazione del Programma Triennale 2009-2011 per l'integrazione sociale dei
cittadini stranieri. Gli obiettivi strategici del programma sono tre:
- Primo, la promozione dell’apprendimento e dell’alfabetizzazione della lingua italiana per favorire i
processi di integrazione e consentire ai cittadini una piena cittadinanza.
- Secondo obiettivo, la promozione di una piena coesione sociale attraverso processi di conoscenza,
formazione e mediazione da parte dei cittadini stranieri immigrati e italiani.
- Terzo, la promozione di attività di contrasto al razzismo e alle discriminazioni, lavorando su più aspetti:
prevenzione ed educazione, sostegno a progetti e azioni per eliminare alla base le situazioni di
svantaggio, opportunità di orientamento, assistenza e consulenza legale, e un lavoro costante di
osservazione del fenomeno nel territorio regionale, con particolare attenzione al ruolo dei mezzi di
informazione57.
In conclusione, nonostante i progressi gradualmente registrati che abbiamo sin qui
ricordato, dobbiamo però sottolineare il rischio che le autonomie regionali riguardanti la
regolamentazione della mediazione interculturale possano creare ulteriori ambiguità a
livello nazionale. In ogni regione si sono stabiliti, infatti, profili e standard differenti ed
in alcune la figura professionale del mediatore interculturale non esiste neppure. Il
rischio, pertanto, è quello di “formare un mediatore con un corso di 300 ore in Emilia-
Romagna che poi si trasferisce in un'altra regione dove il suo certificato non ha alcun
valore o perchè in quella regione non esiste affatto il profilo o perchè è stato individuato
un profilo per la professionalizzazione del quale sono richieste più ore” (Piccinini in
Luatti 2006:103).
Come già detto, ciò che sarebbe auspicabile è la definizione a livello nazionale di uno
standard comune di questa figura professionale che sia unanimemente ed
uniformemente riconosciuta su tutto il territorio del Paese; un altro punto di criticità
della situazione attuale riguarda inoltre la mancanza di coordinamento fra il mondo del
57http://www.emiliaromagnasociale.it/wcm/emiliaromagnasociale/news/2008/dicembre/17_immigrazionepp.htm
157
lavoro e il sistema formativo per cui, ad oggi, le cooperative o associazioni che erogano
servizi di mediazione linguistico-culturale non hanno alcun vincolo che le porti ad
impiegare mediatori qualificati, come succede invece per le professioni sociali
ufficialmente regolamentate. Un altro punto di divaricazione, infine, è dato dai corsi
universitari da una parte, e dai corsi di formazione professionale dall'altra. Come spiega
Piccinini (in Luatti 2006:104):
Da un lato abbiamo giovani interessati a lavorare nel settore del management interculturale con nozioni
raffinate di sociologia, antropologia, psicologia, dall'altro abbiamo adulti stranieri, principalmente donne,
che hanno vissuto a loro volta un'esperienza di migrazione, sono portatori del loro patrimonio linguistico
e culturale d'origine e sanno dialogare con la società italiana e i servizi diversi. (...) Rischiamo di trovarci
in una situazione dove ci sono “mediatori culturali” italiani, laureati, che lavorano per le pubbliche
amministrazioni e gestiscono il lavoro della manovalanza composta da mediatori interculturali stranieri.
In questo senso, uno sforzo di coordinamento a livello sistemico nazionale costituirebbe
la premessa necessaria per garantire credibilità alla figura del mediatore culturale e per
definirne formalmente il profilo professionale dal punto di vista giuridico, in modo da
eliminare l'ambiguità e la vulnerabilità che fino ad oggi hanno caratterizzato questo
ruolo tanto complesso quanto fondamentale nell'odierna società multietnica.
6.3 Alcuni dati sui mediatori culturali della Regione
A maggio 2010, la Regione Emilia-Romagna ha pubblicato un report di ricerca
intitolato “La mediazione interculturale nei servizi alla persona della Regione Emilia-
Romagna. Lingua, mediazione e culture”58. Come recita l'introduzione a tale rapporto,
vengono illustrati: “gli esiti della prima ricerca di carattere regionale realizzata sui
mediatori interculturali operanti nel territorio dell’Emilia-Romagna. L’indagine,
sicuramente inedita per ampiezza e caratteristiche in ambito nazionale, si inserisce in
una pratica già sperimentata di follow up professionale con cui il Servizio Politiche per
l’accoglienza e l’integrazione sociale della Regione Emilia-Romagna intende conoscere
meglio coloro che, nel suo territorio, lavorano in ambito migratorio. Nel 2009,
58v. http://ermes.regione.emilia-romagna.it/ermes/notizie/copy_of_attualita/luglio/pronto-il-primo-censimento-sui-mediatori-interculturali/Ricerca_Mediatori_in_E-R_-web.pdf
158
l’interesse viene posto più specificatamente su quanti, a vario titolo, operano come
mediatori/mediatrici interculturali (ma anche linguistici e culturali) nei diversi servizi
alla persona dell’intera Emilia-Romagna (sportelli e centri informativi per stranieri,
Aziende USL, Ospedali, consultori, scuole, centri per l’impiego, servizi per migranti,
ecc) e che si dedicano ad un’utenza prevalentemente straniera.
[Questo rapporto risponde fra l'altro] ad una necessità strategica propria della Regione
Emilia-Romagna che, nel suo ultimo “programma triennale per l’integrazione sociale
dei cittadini stranieri 2009-2011” pone proprio le attività di mediazione interculturale
e/o linguistico-culturale tra le azioni prioritarie di intervento regionale nell’ambito delle
politiche di accoglienza e inclusione degli stranieri”.
Di seguito proponiamo una sintesi dei risultati emersi da questa ricerca (v. nota 54), in
particolare concentrando la nostra attenzione su come e dove vengono oggi svolte le
attività mediatorie e chi ne sono i protagonisti. Secondo i dati del rapporto, in Emilia-
Romagna operano complessivamente circa 300 mediatori e mediatrici interculturali, a
cui si affianca poi un numero quasi doppio di persone che svolgono quest’attività in
modo più occasionale, non continuativo e strutturato. In totale, si tratta di 849 mediatori
impiegati nei servizi socio-sanitari e assistenziali della Regione.
Un dato significativo, cui abbiamo fatto cenno più volte nel corso del nostro lavoro
riguarda la netta presenza femminile nell'ambito della mediazione culturale: le 685
donne censite dal rapporto rappresentano oltre l’80% dei mediatori della Regione e
operano prevalentemente nell'ambito dei servizi sanitari.
Come si dice in questo studio, “Il settimo Rapporto Cnel sugli indici di integrazione
degli immigrati in Italia, recentemente diffuso, riconosce all’Emilia-Romagna il primo
posto nel Paese”.
Per quanto riguarda le attività di mediazione, emerge che la quasi totalità degli enti
pubblici – con l’eccezione di alcune realtà sanitarie – si avvale di fornitori esterni, in
maggioranza cooperative o associazioni (34 per l’Emilia-Romagna). Sul totale dei
mediatori e delle mediatrici a disposizione in regione, 849 unità, le presenze più
numerose riguardano Modena (226 mediatori), Bologna (188), Parma (136) e Ferrara
(106).
Degno di nota è fra tutti il settore sanitario, i mediatori strutturati o occasionali che
svolgono, in tutto o in parte, le loro attività nelle strutture sanitarie regionali
159
costituiscono infatti il 50% dell'intero gruppo di mediatori all'attivo. In realtà, come
abbiamo già detto, in questo specifico settore si dovrebbe parlare di mediatrici. Qui la
componente femminile rappresenta infatti oltre il 90% delle figure deputate alla
mediazione interculturale, e in alcune aziende sanitarie è pressoché esclusiva. Secondo i
dati del rapporto: a Bologna (Ausl e Azienda ospedaliera) operano 95 mediatrici, tutte
donne; a Ferrara su 87 operatori nel campo della mediazione 74 sono donne, e a
Modena (sempre Ausl e Azienda ospedaliera) sono attive 86 donne e un solo uomo.
Come hanno confermato le stesse mediatrici intervistate nella nostra indagine, la
presenza femminile nei servizi sanitari non deve stupire in quanto si ha a che fare con
ambiti di specificità (come i reparti di ginecologia e i consultori) dove non solo è
importante conoscere lingue e culture ma anche saper approcciare esperienze,
confidenze e ambiti d’intimità. Oltre al sanitario, gli altri settori prevalenti d’attività per
i mediatori sono lo scolastico-educativo e l’informativo (sportelli, servizi di accoglienza
e orientamento).
La ricerca ha registrato che fra le culture e le lingue di competenza più diffuse troviamo:
l’arabo (166 mediatori, di cui 122 donne), seguito dal rumeno/moldavo (72), dal cinese
(67) e dall’albanese (64). I curricula scolastici dei mediatori, poi, sono mediamente alti:
se meno del 3% ha terminato la scuola dell’obbligo, oltre il 12% possiede un diploma
universitario triennale, e più del 55% ha una laurea: tra questi ultimi, il 10% ha un titolo
post laurea di specializzazione o il dottorato. Sul totale dei mediatori, il 60,8% si è
formato per operare nel campo della mediazione culturale seguendo corsi appositi.
Questo in sintesi, è il quadro tracciato dal rapporto del 2010 sulla mediazione
interculturale nei servizi alla persona. Il primato della Regione Emilia-Romagna a
livello nazionale è certamente un buon risultato, rimane tuttavia ancora molta strada da
percorrere per la piena integrazione sociale dei cittadini immigrati nel nostro Paese e per
la definizione professionale dei mediatori culturali che rappresentano un importante
anello di congiunzione nella catena della coesione sociale italiana.
160
CAPITOLO 7
Conclusioni
Al termine del lavoro di indagine sin qui presentato si propongono ora alcune note di
sintesi e considerazioni conclusive.
Abbiamo iniziato la nostra analisi partendo dal ruolo normativo attribuito all’interprete
per i servizi pubblici, o community interpreter, e abbiamo quindi presentato il profilo
teorico che la letteratura e gli studiosi della materia conferiscono a questa figura
professionale. Una volta prese le distanze dalla concezione meccanicistica
dell’interpretazione, spesso sminuita da antichi luoghi comuni che la equiparano alla
mera decodificazione e codificazione linguistica, ci siamo soffermati sulla natura
dialogica, sociale e contestuale dell’evento mediato. Considerare la lingua come un
sistema di relazioni complesso che rispecchia il modello cognitivo della cultura nella
quale è immerso costituisce un presupposto fondamentale per comprendere la
comunicazione interlinguistica e interculturale. L’interpretazione non consiste dunque
nell’associazione automatica di termini corrispondenti fra lingue diverse, ma significa
piuttosto rielaborare il messaggio originale in un’altra lingua e cultura cercando di
conservarne il più possibile la natura semantica e pragmatica. Le leggi della matematica
non appartengono quindi all’universo della mediazione linguistica e l’interprete-
mediatore, ben lontano dall’immagine di “scatola parlante” o “condotto” fra i locutori
primari, è chiamato a svolgere un compito che richiede grandi capacità comunicative,
oltre che propriamente tecniche, e una grande preparazione professionale. Competenze
linguistiche, culturali, tecniche, mnemoniche e professionali costituiscono così il
bagaglio necessario all’interprete o mediatore linguistico-culturale nell’ambito dei
servizi pubblici.
Proseguendo nella nostra analisi, abbiamo poi osservato il ruolo attivo e partecipante di
questa figura durante lo svolgersi della comunicazione mediata; il “pas-de-trois” nel
quale gli interlocutori primari e l’interprete sono coinvolti rappresenta un lavoro di
concertazione e co-partecipazione di cui l’interprete è il vero perno centrale. Stabilire
cosa e come tradurre, regolare e condurre l’interazione fra parlanti di lingue diverse,
rapportarsi al contesto situazionale e allo status relativo dei partecipanti, considerare le
161
implicazioni culturali della comunicazione e saper gestire la propria identità personale e
culturale che inevitabilmente l’interprete porta con sé: queste, come abbiamo visto, sono
alcune delle più importanti sfide che si presentano all’interprete-mediatore durante la
fase di mediazione in co-presenza.
Nella seconda parte del presente lavoro, abbiamo invece spostato la nostra attenzione
sul ruolo effettivo dell’interprete-mediatore in un ambito circoscritto, quello socio-
sanitario della Regione Emilia-Romagna. Il quadro emerso è caratterizzato da una
ricchezza di esperienze diverse, fra loro eterogenee per molti aspetti, che si allontana dal
rigore e dalla linearità dei precetti teorici iniziali. La delicatezza connaturata al settore
socio-sanitario rende il compito del mediatore interculturale (questa è l’espressione più
opportuna in tale contesto) ulteriormente complesso e impegnativo. Lo stress, la
pressione psicologica e il forte impatto emotivo del contesto situazionale sono elementi
intrinseci nella mediazione di questo ambito e sono fattori che aumentano il carico di
difficoltà e responsabilità che incombe sul ruolo del mediatore, o meglio, della
mediatrice.
Come abbiamo osservato, infatti, si tratta di un ambiente prevalentemente femminile in
cui operano donne che tendenzialmente hanno maturato una lunga esperienza nel campo
e presentano, oltre a grandi capacità linguistiche, anche una notevole attitudine
comunicativa e abilità a porsi in contatto con utenti e pazienti che spesso versano in
situazioni di forte disagio. Gli utenti stranieri, inizialmente, possono manifestare timore
e diffidenza nei confronti della mediatrice che, pur essendo loro connazionale,
rappresenta anche l’istituzione del Paese ospitante; in tale situazione la capacità di
costruire un ponte comunicativo col cittadino straniero è fondamentale ed è sostenuta in
parte dal vissuto migratorio che la mediatrice condivide col paziente, e in parte è
rafforzata dal suo trascorso professionale e formativo: spesso infatti le mediatrici hanno
conseguito lauree nel loro Paese di origine e hanno operato in vari settori (soprattutto
socio-educativi) oltre a quello sanitario, sviluppando così una sensibilità e un’esperienza
che corroborano e consolidano le loro competenze professionali. Un dato interessante
che emerge di frequente riguarda la differenza di status socio-economico e il livello di
istruzione fra la mediatrice e il paziente immigrato; tale differenza si ripercuote spesso
sulla comunicazione dando luogo ad una semplificazione del linguaggio e ad un
162
abbassamento del registro linguistico selezionato, oltre ad influenzare aspetti culturali
(in particolare legati a temi tabù).
Un aspetto che è importante sottolineare in questa fase conclusiva, riguarda la
connotazione più espressiva che strumentale delle mediatrici interculturali che operano
nel settore socio-sanitario; a dispetto del supposto distacco prescritto dai manuali
teorici, l’attitudine empatica ed espressiva delle mediatrici è un elemento che emerge
con assoluta chiarezza dalle interviste realizzate: comunicare e ascoltare il paziente (non
solo occuparsi di tradurre il messaggio da una lingua all’altra), accompagnare il
paziente in una tappa del suo percorso di integrazione, conquistare la sua fiducia, farlo
sentire “protetto” e mettere a sua disposizione la propria professionalità (non solo da un
punto di vista linguistico) per garantire il diritto fondamentale alla cura di ogni cittadino
e per favorirne l’integrazione nella nostra società.
Come abbiamo constatato, inoltre, dietro alle mediatrici si trovano spesso delle
associazioni di mediatori o cooperative che collaborano con le Aziende Usl regionali e
forniscono un servizio di mediazione linguistico-culturale sempre più strutturato che va
ad inserirsi nel quadro di una riorganizzazione dell’intero sistema, un lento processo, in
alcuni casi ancora insoddisfacente, ma che sta registrando anche risultati degni di nota.
Queste cooperative, alcune delle quali nate da un progetto degli stessi mediatori
culturali (come nel caso di Integra nella provincia di Modena), rappresentano il ponte
fra la domanda e l’offerta e detengono un ruolo fondamentale nel fornire alle istituzioni
pubbliche e private operatori professionali, competenti e affidabili contribuendo, fra
l’altro, a semplificare l’iter per il reperimento e la certificazione dei singoli mediatori
culturali da parte dei committenti. Ciò che sino ad oggi ha alimentato la condizione di
vulnerabilità e mancanza di istituzionalizzazione di questa figura professionale nel
nostro Paese è in parte riconducibile all’assenza di riconoscimento formale di tale
profilo a livello normativo e all’assenza di un’organizzazione integrata che coinvolga le
strutture pubbliche/private, le agenzie o cooperative di interpretariato e mediazione, e i
mediatori stessi. Il ricorso a bilingui improvvisatisi mediatori, la banalizzazione del
ruolo che il mediatore ricopre, e la sua conseguente sottovalutazione, sono tutte
concause dell’attuale situazione della mediazione interculturale italiana; la crescente
portata dei flussi migratori, nonostante ciò, ha portato ad un lento ma graduale
miglioramento dei servizi dedicati alla mediazione linguistico-culturale del Paese dando
163
una spinta propulsiva all’evoluzione dei servizi già esistenti e alla nascita di nuovi.
Come spiega Rudvin (2005), infatti, anche la storia dell’immigrazione nel nostro Paese,
fra i vari fattori, ha contribuito a plasmare la situazione odierna e le sue peculiarità
rispetto a paesi di più lunga tradizione migratoria quali U.S.A., Regno Unito, Canada e
Australia; in Italia il coinvolgimento delle associazioni di volontariato e della Chiesa (in
particolare attraverso la Caritas) è molto più forte che in altre realtà nazionali, mentre a
livello governativo si registra un intervento meno incisivo sulle politiche che riguardano
l’integrazione della popolazione immigrata. Questo ha dato origine ad una tendenza
all’”assistenzialismo” nei confronti dell’immigrato che ha portato poi a preferire il
concetto di mediatore rispetto a quello di interprete.
Tornando alla nostra analisi, comparando la griglia teorica delineata nella prima sezione
del lavoro con l’indagine e la presentazione di dati empirici della seconda, si riscontra
una relazione dicotomica fra la figura normativa dell’interprete-mediatore e quella
concretamente osservata nella pratica. Da una parte si prescrive un ruolo fin troppo
asettico e distaccato dalla realtà interazionale dell’evento mediato, dall’altra si rileva un
grado di partecipazione del mediatore interculturale che rischia di sfociare nella
prevaricazione dei partecipanti primari.
Forse dosare e miscelare le caratteristiche dell’uno dell’altro potrebbe essere una giusta
soluzione, ossia, modulare la razionalità e il rigore scientifico del ruolo normativo con
la partecipazione empatica e spesso “auto-gestita” del ruolo effettivo. Di certo, questo
sarebbe possibile soltanto raggiungendo un livello di standardizzazione e
istituzionalizzazione che possa tracciare con chiarezza il profilo professionale del
mediatore interculturale su base nazionale. Anche il ruolo dell'istituzione e dei suoi
operatori nella relazione di mediazione è altrettanto ambiguo e necessita di essere
formalizzato a livello legislativo.
Tutto il peso della conduzione del rapporto con lo straniero, infatti, è scaricato sul
mediatore: da una parte quindi è evidente la difficoltà dell’istituzione a confrontarsi con
tutti i soggetti presenti sul suo territorio di competenza (e potenziali utenti delle proprie
prestazioni) con la conseguente centralità del mediatore come figura fondamentale fra
l’istituzione e gli utenti stranieri; dall'altra, l’eventuale fallimento della mediazione è
imputato completamente al mediatore e al cittadino immigrato. In altre parole, il rischio
è che, nonostante lo sforzo di comprensione e di avvicinamento alla struttura regolativa
164
dell’istituzione, la responsabilità di un ipotetico fallimento del servizio di mediazione
venga fatto ricadere sul mediatore stesso e sul cittadino della cultura minoritaria, senza
che l’istituzione si adoperi per mettere in atto una riorganizzazione del proprio sistema.
La soluzione auspicabile, ancora una volta, è data dall’integrazione di tutti i soggetti
coinvolti; non soltanto i partecipanti fisicamente presenti all’evento mediato, ma anche i
soggetti esterni che determinano o quantomeno incidono sul servizio di mediazione
interculturale offerto alla popolazione immigrata. Il raggiungimento di questo obiettivo
costituirebbe un enorme traguardo da un punto di vista sociale e assegnerebbe il giusto
riconoscimento ad una professione tanto complessa quanto appassionante che i
mediatori interculturali di oggi, nonostante le criticità del sistema attuale, svolgono con
estrema dedizione.
165
Ringraziamenti...
Un ringraziamento speciale alla Prof.ssa Rudvin per aver nutrito il mio interesse verso
la mediazione linguistico-culturale e per aver stimolato una curiosità che mi ha portata a
conoscere realtà nuove e affascinanti. Grazie a Sadia, Aziz, Dhouha, Nadia, Khira, Sun
e Cecilia, le mediatrici culturali che hanno accettato di rispondere alle mie domande
raccontandosi con grande generosità e dedicandomi tempo preziosissimo.
Grazie ai miei genitori che mi hanno sostenuta durante tutto il percorso di studi e grazie
a mio fratello Giacomo che mi ha pazientemente accompagnata durante le trasferte per
realizzare le interviste. Infine, grazie a Giulio che in questi mesi mi ha incoraggiata e
consigliata nella progettazione del mio lavoro.
166
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