TESI La Mediazione Culturale Nel Settore Socio-sanitario

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1 ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITA’ DI BOLOGNA FACOLTA’ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE Corso di laurea magistrale in Lingua, Società e Comunicazione TITOLO DELLA TESI: L'INTERPRETE PER I SERVIZI PUBBLICI - La mediazione culturale nel settore socio-sanitario dell'Emilia- Romagna - Tesi di laurea in Mediazione Inglese Relatore: Presentato da: Prof.ssa Mette Rudvin Giulia Cremonini Correlatore: Prof.ssa Maxine Lipson Sessione III Anno Accademico 2009/2010

Transcript of TESI La Mediazione Culturale Nel Settore Socio-sanitario

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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITA’ DI BOLOGNA

FACOLTA’ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE

Corso di laurea magistrale in Lingua, Società e Comunicazione

TITOLO DELLA TESI:

L'INTERPRETE PER I SERVIZI PUBBLICI

- La mediazione culturale nel settore socio-sanitario dell'Emilia-

Romagna -

Tesi di laurea in Mediazione Inglese

Relatore: Presentato da: Prof.ssa Mette Rudvin Giulia Cremonini Correlatore: Prof.ssa Maxine Lipson

Sessione III

Anno Accademico 2009/2010

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INDICE

1 Introduzione......................................................................................................................pag. 3

1.1 L'interprete nella storia.................................................................................................5

1.2 Definire il concetto di interpretazione..........................................................................7

1.3 I partecipanti................................................................................................................11

1.4 Le relazioni fra i partecipanti.......................................................................................20

2 Il ruolo dell'interprete ...............................................................................................................25

2.1 L'interprete nella metafora...........................................................................................27

2.2 Invisibilità vs Visibilità.................................................................................................30

2.3 La cortesia linguistica nell'interpretazione...................................................................37

2.4 Decidere cosa e come interpretare................................................................................43

3 L'interprete e la gestione dello scambio interazionale...........................................................49

3.1 La natura dialogica dell'interpretazione di comunità...................................................50

3.2 L'analisi della conversazione: il metodo......................................................................54

3.3 L'interprete e l'avvicendamento dei turni di parola......................................................57

3.4 Le interruzioni...............................................................................................................64

3.5 I segnali discorsivi........................................................................................................75

4 L'interprete in ambito medico..................................................................................................82

4.1 Il briefing.......................................................................................................................91

4.2 La mediazione interculturale in ambito socio-sanitario e la situazione italiana...........96

3

5 La ricerca sul campo: un'indagine nel settore sanitario emiliano.......................................100

Le interviste alle mediatrici culturali:

5.1 Ospedale SS. Annunziata, Cento (Ferrara)

Mediatrici pakistane……………………....................................................................102

5.2 Istituto Ortopedico Rizzoli (Bologna).........................................................................107

5.3 Ospedale S. Anna di Ferrara

Mediatrice di lingua araba…………...........................................................................109

5.4 Ospedale di Bentivoglio (Bologna)

Mediatrice di lingua araba………...............................................................................114

5.5 Policlinico di Modena

Mediatrice di lingua araba...........................................................................................120

5.6 Poliambulatorio di Reggio Emilia Viale Monte S. Michele

Mediatrice cinese.........................................................................................................127

5.7 “Spazio Salute Immigrati”, Ausl di Parma

Mediatrice di rumeno e moldavo…….........................................................................136

6 La Regione Emilia-Romagna...................................................................................................142

6.1 L'immigrazione straniera in Emilia-Romagna.............................................................142

6.2 La mediazione culturale in Emilia-Romagna: la legislazione italiana e regionale......148

6.3 Alcuni dati sui mediatori culturali della Regione........................................................156

7 Conclusioni................................................................................................................................159

- Bibliografia

- Appendice

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CAPITOLO 1

INTRODUZIONE

Il presente lavoro intende analizzare il ruolo dell'interprete che opera nell'ambito dei

servizi pubblici e sociali: il cosiddetto interprete di comunità descritto dal modello

anglosassone. Come si dirà ampiamente nello svolgimento dell'analisi che segue, si

tratta di una figura professionale non ancora uniformemente definita e riconosciuta, sia

da un punto di vista normativo-istituzionale e terminologico, sia per ciò che concerne

l'immagine sociale e professionale che comunemente viene associata a tale profilo.

Antiche costruzioni metaforiche e stereotipiche continuano ad imbrigliare il ruolo

dell'interprete per i servizi pubblici in una serie di luoghi comuni che ne pregiudicano la

vera essenza. La prima parte di questo lavoro sarà dedicata all'impianto teorico e

letterario nel quale si inserisce il soggetto dell'indagine: partiremo dal ruolo prescritto

dagli studiosi della comunicazione interculturale, soffermandoci su ciò che l'interprete

“dovrebbe” essere in un'ideale situazione di scambio interlinguistico fra locutori di

diversa appartenenza culturale. Saranno quindi presentati i vari partecipanti coinvolti

nell'interazione mediata, le relazioni che questi intrattengono reciprocamente, il loro

ruolo conversazionale e la funzione stessa della mediazione linguistico-culturale.

L'annoso dibattito sulla dicotomia che riguarda la visibilità o invisibilità dell'interprete, i

concetti di fedeltà, imparzialità e neutralità saranno discussi e confrontati con i risultati

emersi dagli studi empirici di alcuni fra i maggiori studiosi della materia. L'obiettivo è

quello di mettere in luce la vastità e la complessità del campo di indagine e della figura

dell'interprete, vero perno della comunicazione mediata.

Rifiutando l'immagine dell'interprete come mero mezzo di decodificazione e

codificazione linguistica, cercheremo di definire la moltitudine di competenze e

funzioni comunicative che questo ruolo implica. Osserveremo cioè l'interprete come

gate-keeper dello scambio internazionale, considerando la comunicazione mediata non

solo come produzione testuale, ma anche come attività e interazione sociale che

sottende ad un complesso sistema di relazioni e azioni in gioco.

Nella seconda parte del lavoro, invece, restringeremo il campo d'indagine all'interprete

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che opera in ambito socio-sanitario; il settore medico impone un'attenzione particolare

dovuta all'estrema serietà delle conseguenze legate alla mediazione linguistico-culturale

in questo contesto. Il mediatore culturale rappresenta qui l'interfaccia fra le istituzioni e

le comunità immigrate, l'anello di congiunzione fra il sistema sanitario nazionale e il

cittadino straniero. Il diritto fondamentale all'assistenza e alle cure sanitarie deve quindi

passare attraverso il dialogo mediato che solo una figura professionale e competente può

gestire doverosamente. L'interprete-mediatore porta con sé il proprio io e la propria

identità culturale durante lo scambio interazionale, divenendo una figura attivamente

partecipe e coinvolta in ciò che viene metaforicamente descritto come un “passo a tre”

della comunicazione.

La situazione italiana, nel quadro dell'odierna società multietnica, ha registrato negli

ultimi anni alcuni importanti progressi per ciò che riguarda la mediazione culturale nelle

strutture socio-sanitarie del Paese e la definizione del profilo professionale deputato;

nonostante i lenti miglioramenti, però, permangono numerose criticità e ambiguità di

fondo che continuano a rendere questa figura professionale ancora troppo vulnerabile e

sottostimata.

In questa sezione presenteremo una ricerca sul campo effettuata intervistando le

mediatrici culturali di alcune strutture socio-sanitarie dell'Emilia-Romagna; la

testimonianza diretta delle mediatrici ci ha così permesso di confrontare l'impianto

teorico inizialmente descritto con la realtà pratica di questa professione. Le interviste

raccolte presentano una situazione molto più sfaccettata e complessa di quella postulata

dai testi letterari; in alcuni casi, i precetti della deontologia professionale e dei codici di

condotta vengono scardinati (e quasi offuscati) dall'urgenza psicologica ed emotiva del

contesto situazionale. Due facce della stessa medaglia: ciò che l'interprete-mediatore

dovrebbe essere e ciò che l'interprete-mediatore effettivamente è.

Infine, dopo aver esposto i risultati delle interviste realizzate, analizzeremo brevemente

l'attuale situazione della Regione Emilia-Romagna; prima forniremo alcuni dati

sull'immigrazione straniera che interessa il territorio di riferimento, poi ci occuperemo

della legislazione nazionale e regionale che regola la mediazione culturale e i servizi

correlati; poi concluderemo con una breve panoramica dei mediatori culturali

attualmente occupati nei servizi pubblici rivolti alla cittadinanza straniera a livello

regionale.

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1.1 L'interprete nella storia

L'interpretazione, qui intesa come forma di “traduzione”, è un'antica attività umana che

naturalmente precede l'invenzione della scrittura e della traduzione scritta. In molte

lingue indoeuropee, il concetto di interpretazione è espresso da parole etimologicamente

indipendenti rispetto a quelle utilizzate per la traduzione scritta. Come ricorda il docente

e interprete austriaco Franz Pöchhacker (2004), locuzioni di lingue germaniche,

scandinave e slave utilizzate per denotare la figura dell'interprete erano già presenti

nell'accado, l'antica lingua semitica di Assiria e Babilonia intorno al 1900 a.C. La radice

accadica targumanu diede infatti origine al termine “dragomanno” utilizzato per

indicare l'interprete. La parola “interprete”, invece, deriva dal latino interpres (“persona

che spiega ciò che è oscuro”) ma le radici semantiche non sono chiare; alcuni studiosi

ritengono che la seconda parte del termine derivi da partes o pretium adattandosi così al

significato di “intermediario” o “uomo fra le parti”; mentre altri studiosi sostengono che

la parola provenga dal sanscrito. In ogni caso, il termine latino interpres, cioè “colui

che spiega ciò che altri hanno difficoltà a comprendere”, è particolarmente rivelatore

dalla natura di questa professione. Nel corso della storia, gli interpreti sono sempre stati

necessari, non solo per consentire la comunicazione fra individui appartenenti a civiltà

plurilingui, ma anche per sopperire a diversità socio-culturali. Come ricorda Hermann

(in Pöchhacker e Shlesinger 2002:15), nell'antico Egitto il titolo di “essere umano” era

prerogativa degli egiziani, mentre gli stranieri erano considerati “barbari meschini” e

l'interprete era colui che parlava le sconosciute lingue dei barbari. Nell'antica Grecia,

invece, l'interprete non era semplicemente il mediatore linguistico impiegato nelle

abituali transazioni economiche, era anche una figura semi-divina in grado di svolgere

svariate funzioni e che risultava imprescindibile nelle comunicazioni con i senatori

romani d'alto rango e i rappresentanti dei popoli celtici ed egizi. L'Impero Romano, poi,

rappresentava un caso unico in quanto al valore attribuito a lingue diverse dalla propria:

l'Impero era sostanzialmente bilingue, latino e greco, infatti, erano posti sullo stesso

piano nell'insegnamento scolastico e gli interpreti godevano di grande prestigio sociale

come attestò lo stesso Cicerone descrivendo il ruolo degli interpreti che gli prestavano

servizio (Ibid.). In epoca moderna, emblematica è la figura dell'interprete ai tempi della

conquista dell'America da parte della Corona Spagnola (Angelelli 2004:9). Quando

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Colombo pianificò il suo viaggio, ben consapevole dell'importanza dell'interprete nella

comunicazione con i popoli autoctoni, decise di portare con sé due interpreti. il primo

era stato a lungo in Guinea, il secondo conosceva l'arabo, l'ebraico e l'aramaico. Al suo

arrivo nelle Americhe, Colombo si trovò di fronte a 133 gruppi tribali che parlavano più

di mille lingue diverse su un territorio che andava dall'Argentina al Messico; data

l'impossibilità comunicativa fra indigeni e autorità spagnole, l'intervento degli interpreti

divenne fondamentale ma gli interpreti portati in viaggio si rivelarono inutili. Colombo

decise quindi di portare alcuni indigeni in Spagna per far loro apprendere la lingue e la

cultura della madre patria e di riportarli poi nelle Americhe in qualità di interpreti. Fra il

1495 e il 1518, una nuova generazione di interpreti nativi rese possibile la

comunicazione fra spagnoli e autoctoni. Dopo circa cinque secoli, in occasione del

processo di Norimberga (1945-1946), il tema dell'interpretazione tornò ad occupare una

posizione di primo piano. Le università di tutto il mondo iniziarono ad offrire corsi di

laurea e programmi didattici in mediazione culturale, era necessario disporre di

interpreti qualificati per assicurare la comunicazione fra i capi di stato dei tanti paesi

coinvolti; la priorità non era data alla comunicazione interlinguistica e interculturale

come oggetto di studio in sé, ma alle delicate questioni politiche sfociate in seguito al

secondo conflitto mondiale. Come ricorda Claudia Angelelli (2004:11), l'importanza

degli interpreti è stata evidenziata durante recenti periodi di crisi, come le guerre in

Kosovo e Macedonia, l'attacco terroristico dell'11 settembre e la guerra in Irak. Ognuna

di queste tragedie rappresenta un momento di contatto fra popoli diversi nel quale la

figura dell'interprete emerge prepotentemente; l'attacco dell'11 settembre, in particolare,

ha sottolineato l'esigenza di rivolgersi ad interpreti professionisti per le lingue meno

diffuse come il persiano e l'arabo e a tal proposito il governo degli Stati Uniti ha

risposto fondando un centro di ricerca presso l'Università del Maryland, il CASL, con

l'obiettivo di formare interpreti e traduttori specializzati. Come nota Angelelli (Ibid.),

l'introduzione della mediazione linguistica nel mondo accademico ha risposto in primo

luogo ad una necessità di natura pragmatica ma, come si dirà in seguito, il pieno

riconoscimento formale di questa disciplina non è ancora stato raggiunto.

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1.2 Definire il concetto di interpretazione

Per definire cosa si intende con il termine interpretazione e per distinguere quest'ultima

da altre tipologie di attività traduttive, è fondamentale il concetto di “immediatezza”:

l'interpretazione si svolge infatti nel qui ed ora dell'evento comunicativo a beneficio di

uno scambio interlinguistico e interculturale fra i partecipanti presenti. Per superare la

dicotomia scrittura/oralità spesso utilizzata come criterio discriminante nella definizione

di traduzione ed interpretazione, Otto Kade (1968), studioso dell'Università di Leipzig,

propose di descrivere l'interpretazione come una forma di traduzione nella quale:

− il testo nella lingua d'origine è presentato solo una volta e non può quindi essere

rivisto o ripetuto;

− il testo nella lingua di arrivo viene prodotto sotto la pressione del tempo, con

limitate possibilità di revisione e correzione.

Come riassume Pöchhacker (2004:11):

interpreting is a form of translation in which a first and final rendition in another language is produced on

the basis of a one-time presentation of an utterance in a source language.

Questa prima e generica definizione ci permette di includere fra le varie tipologie di

interpretazione anche l'interpretazione in lingua dei segni per non udenti, altrimenti

esclusa dall'opposizione traduzione scritta vs traduzione orale. La letteratura ha

tradizionalmente classificato gli eventi comunicativi mediati dalla figura dell'interprete

attraverso singoli parametri; fra questi, il contesto (o situazione comunicativa) ha dato

origine alla distinzione fra: interpretazione di conferenza, interpretazione legale,

interpretazione di comunità, interpretazione medica e interpretazione “televisiva”. Come

descrive Alexieva (2002:219), altre tassonomie che ricorrono a parametri individuali si

basano, per esempio, sulla natura del testo d'origine (source text) classificandolo in base

a: 1) la sua “sostanza” (fonica nel caso di enunciati orali; fonica e grafica nel caso in cui

l'interprete abbia accesso ad una versione scritta della comunicazione orale; e solo

grafica nel caso della traduzione a vista); 2) la posizione che occupa lungo il continuum

oralità vs scrittura e 3) il rapporto di intertestualità che si ottiene dal contributo

dell'enunciatore (il micro-testo in lingua originale) e l'intero insieme di testi prodotti

all'interno dell'evento comunicativo (macro-testo). Secondo Alexieva, tali categorie

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mono-parametro non sarebbero sufficienti a fornire un quadro tassonomico completo

dei vari tipi di interpretazione e propone quindi una prospettiva multi-parametro che si

fonda sul concetto di prototipo come definito da Lakoff (1987); l'evento mediato,

quindi, non è inserito in categorie rigide ma descritto secondo la sua posizione lungo un

continuum che vede agli estremi i membri periferici e i membri centrali (prototipi) di

una stessa “famiglia” di eventi. La tassonomia proposta dall'autrice incorpora i diversi

parametri di ricerca in due macrocategorie:

− modalità di produzione: ci permette di distinguere fra 1) la produzione

ininterrotta del testo originale e la simultanea produzione del testo di arrivo e 2)

la produzione consecutiva del testo d'origine in segmenti testuali più o meno

lunghi.

− elementi della situazione comunicativa: partecipanti primari (parlante e

destinatario), partecipanti secondari (interprete, organizzatore, moderatore),

tema discusso e relativo contesto di enunciazione, tipi testuali utilizzati,

caratteristiche spaziali e temporali dell'evento comunicativo, obiettivo della

comunicazione e obiettivi perseguiti dai partecipanti stessi.

Nel prosieguo della nostra indagine utilizzeremo tale griglia di parametri per definire le

caratteristiche salienti di un particolare tipo di interpretazione, obiettivo centrale del

presente lavoro è appunto lo studio dell'interpretazione di comunità (community

interpreting o liaison interpreting) ossia, l'interpretazione o mediazione culturale nei

servizi sociali, ad esempio nell'ambito di scuole, ospedali, stazioni di polizia, centri per

l'immigrazione, consultori, questure ecc. Secondo la definizione proposta da Cecilia

Wadensjö (1998:49):

Interpreting carried out in face-to-face encounters between officials and laypeople, meeting for a

particular purpose at a public institution is (in English-speaking countries) often termed community

interpreting.

Mentre paesi come la Svezia e l'Australia già dai primi anni Sessanta hanno risposto con

mirate azioni governative al bisogno di servizi di interpretariato che aiutassero gli

immigrati nelle attività sociali quotidiane, altri paesi si sono dimostrati più lenti nel far

fronte a queste esigenze comunicative intra-sociali. Solo negli anni Ottanta e Novanta,

davanti alla crescente difficoltà di comunicazione nell'ambito delle istituzioni del

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settore pubblico (servizi sociali e sanitari), l'importanza dell'interpretazione di comunità

ha iniziato a guadagnare una maggiore visibilità. Come spiega Rudvin (2003), in Italia

non è ancora stato raggiunto un consenso unanime in quanto alla terminologia più

idonea in riferimento a questa purtroppo non ancora consolidata figura professionale, a

volte indicata anche con l'espressione “interprete sociale” o “interprete dei servizi

sociali”. I fattori che differenziano questa tipologia di interpretazione

dall'interpretazione di conferenza, alla quale da sempre sono stati concessi maggior

attenzione e prestigio, sono:

− la vicinanza fisica fra interprete e clienti,

− un divario informativo fra i clienti,

− una probabile differenza di status fra i clienti,

− la necessità di interpretare da e in entrambe le lingue,

− il lavoro individuale e non come membro di un gruppo (Gentile et alii 1996:18).

Come riassume anche Hale (2007:32), l'interpretazione di comunità presenta le

seguenti caratteristiche distintive rispetto alla più studiata interpretazione di conferenza:

una scala di registri che va dal molto formale al molto informale, bidirezionalità

linguistica, un alto livello di prossimità fra i partecipanti che permette un maggior

coinvolgimento nell'interazione, modalità consecutiva (short consecutive e long

consecutive) ma anche simultanea (chouchotage o whispering) e traduzione a vista;

potenziali gravi conseguenze di una resa inappropriata; partecipanti con status diverso

nella maggior parte dei casi, e la presenza di un solo interprete che lavoro da solo.

Negli ultimi due decenni del ventesimo secolo, si è registrato un importante

cambiamento nella percezione del ruolo dell'interprete, da mero “condotto” a partner

essenziale e partecipante attivo nella costruzione congiunta della comunicazione fra

parlanti di lingue e culture diverse; Wadensjö (1998:112), analizzando l'interpretazione di

comunità, afferma che la responsabilità della progressione e del contenuto dell'interazione

è distribuita nella e attraverso la comunicazione stessa e il ruolo dell'interprete va ben oltre

quello di semplice canale deputato alla commutazione linguistica (code-switching);

interlocutori primari e interprete sono infatti coinvolti in un “passo a tre comunicativo”

(communicative pas-de-trois) (Ibid.). Adottare una prospettiva interdisciplinare, che

comprenda materie come l'antropologia linguistica, la sociologia, la sociolinguistica, la

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traduttologia, solo per nominarne alcune, significa riconoscere la complessità e la vastità del

campo di ricerca nel quale si inserisce lo studio dell'interpretazione di comunità, per

decenni relegata ai margini della ricerca accademica che ne ha sottostimato l'importanza

all'interno di una società sempre più multiculturale.

Obiettivo del presente lavoro è considerare i diversi interlocutori per i quali lavora

l'interprete, l'influenza esercitata dai vari contesti comunicativi nei quali si svolge

l'interpretazione e la varietà di limitazioni e condizionamenti che i diversi contesti

impongono ai rapporti interpersonali fra l'interprete e i cosiddetti partecipanti primari.

Circoscrivere lo scopo dell'incontro mediato all'accuratezza linguistica dell'interprete

consentirebbe di individuare con una certa sicurezza regole di condotta che prescrivano

cosa fare e cosa non fare, si creerebbe, inoltre, l'illusione di poter comunicare fra lingue

e culture diverse preoccupandosi esclusivamente della fedele resa linguistica del testo

originale nella lingua di arrivo, indipendentemente dal contesto e dai partecipanti

coinvolti. Al contrario, come si dirà più dettagliatamente in seguito, fattori sociali e

contestuali sono imprescindibili nell'analisi della complessità dell'evento mediato

nell'ambito dei servizi sociali. Nessuna interazione si svolge in un vuoto sociale e

nessuna delle parti coinvolte può essere considerata “invisibile” o imparziale. Ciascun

partecipante all'interazione porta con sè il proprio “io”, i propri valori, i propri

pregiudizi e la propria cultura. Credere che l'interprete sia immune a questo intreccio di

fattori sociali sarebbe poco saggio. Come argomenta Angelelli (2004:29):

When two or more interlocutors interact, they bring to the interaction the self. Many times the interaction

occurs within an institution, which constrains it, and often times, the institution is a reflection of the

society in which it is embedded. In other words, the interaction does not happen in a social vacuum,

several forces affect it. These forces can be found at the level of the interaction itself, the institution in

which it takes place, the society at large, or the interplay of all three levels at the same time.

Dopo una prima presentazione dell'interpretazione di comunità, iniziamo ad analizzare

il ruolo dei partecipanti all'evento mediato nel contesto dei servizi sociali e le relazioni

che questi intrattengono fra di essi.

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1.3 I partecipanti

Fra i partecipanti all'evento mediato nell'ambito dell'interpretazione di comunità si

possono distinguere generalmente quattro tipi di partecipanti: i partecipanti primari;

l'interprete; l'istituzione e, in gran parte dei casi, l'agenzia.

I partecipanti primari sono generalmente due: il primo è il rappresentante dell'istituzione

(struttura socio-sanitaria, questura, scuola, centro di assistenza per immigrati ecc.), il

secondo è il cittadino straniero che si rivolge all'istituzione per ricevere un servizio.

Questi due interlocutori parlano lingue diverse e appartengono a culture diverse; come

spiega Belpiede (in Luatti 2006), gli usi e le consuetudini degli immigrati nel rapporto

con i servizi possono essere molto diversi e di barriera al reciproco rapporto. Basti

pensare alle modalità di relazioni, al concetto di tempo, agli usi alimentari, ai costumi

religiosi, al seguire prescrizioni mediche per persone abituate alla medicina tradizionale

o al rapporto con lo stato. Oltre a tale diversità linguistico-culturale, però, gli

interlocutori primari si differenziano anche da un punto di vista discorsivo: detengono

infatti ruoli conversazionali asimmetrici e complementari allo stesso tempo (Zorzi

1990:7). I ruoli medico-paziente, ufficiale di polizia-cittadino, e in generale la coppia:

impiegato di un servizio statale-utente, sono tutti esempi di coppie complementari e

asimmetriche per quanto attiene il potere interazionale che esercitano durante lo

scambio comunicativo. I diritti interazionali degli interlocutori (ad esempio la

possibilità di fare domande o chiedere spiegazioni) sono stabiliti a priori e sono

socialmente e culturalmente radicati, fanno cioè parte di quelle aspettative e

convenzioni sociali che sono sottintese in ogni intercambio e che sono culturalmente

determinate. Riguardo alle relazioni di potere in gioco durante ogni interazione, Brown

e Levinson (1987:77) offrono la seguente definizione di potere:

Power is an asymmetric social dimension of relative power, roughly in Weber's sense. That is, Power is

the degree to which Hearer can impose his own plans and his own self-evaluation (face) at the expense of

Speaker's plans of self-evaluation.

Qui il concetto di potere si basa sulla teoria weberiana secondo la quale il potere

influenza negativamente il comportamento degli altri o li porta a compiere azioni che

altrimenti questi non avrebbero scelto di compiere. Come argomentano Bowe e Martin

(2007:84), le relazioni di potere esistono come parte del tessuto sociale della

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comunicazione e non dovrebbero essere considerate esclusivamente come derivanti da

negative forze di dominazione esercitate da chi detiene una posizione di potere (es. lo

stato, la polizia ecc.). Il potere, cioè, non è imposto dall'alto, ma è creato dall'interazione

fra i partecipanti in determinati contesti sociali; in altre parole, il potere si configura

all'interno del tessuto linguistico ed è una componente discorsiva, un elemento del

processo interazionale. Gli autori (ibid.) proseguono affermando che le relazioni di

potere fra i partecipanti sono direttamente influenzate dall'accesso alle informazioni e

alle risorse; chi ha la possibilità di accedere alle informazioni godrà quindi di una

posizione di maggior potere durante l'interazione. Per analizzare la relazione fra i

partecipanti, è necessario considerare anche i fattori culturali che sono inevitabilmente

proiettati sull'interazione stessa; secondo Gentile et alii.(1996:19) tali fattori culturali

operano su tre livelli: l'eredità culturale, l'esperienza di vita, e lo status relativo. Gli

interlocutori primari di eventi mediati necessitano della presenza di un interprete per

poter comunicare in quanto parlanti lingue diverse e appartenenti a diversi contesti

culturali; come detto in precedenza, ogni partecipante porta con sé il proprio modo di

vedere il mondo e, più o meno consapevolmente, si comporta secondo norme sociali

proprie della cultura di appartenenza. Nell'ambito dell'interpretazione di comunità, la

differenza di status degli interlocutori è in alcuni casi marcata, le esperienze condivise

sono minime e i fattori esterni condizionano notevolmente l'intercambio comunicativo.

Ciò che determina la differenza di status fra i partecipanti primari non è data soltanto

dall'asimmetria dei ruoli conversazionali loro attribuiti, ma anche dalla differenza

linguistico-culturale; la persona immigrata vive in una “situazione di non contrattualità

sociale elevata” (Luatti 2006:252), ossia, vive in una situazione di disparità di potere,

che aggrava la sua collocazione sociale nel momento del bisogno, ma anche nel

quotidiano rapporto con la realtà sociale. La lingua, inoltre, assume una particolare

rilevanza in questa asimmetria di potere; una delle due lingue rappresenta il potere e

l'autorità nel paese ospitante ed è generalmente la lingua dell'interlocutore

rappresentante dell'istituzione (medico, operatore sociale, poliziotto ecc.), la seconda

lingua è quella del gruppo minoritario che solitamente ha una diffusione limitata nel

paese in questione. Altri fattori sociali e contestuali che influenzano la relazione fra i

due interlocutori sono fattori come: l'età, il sesso, il livello d'istruzione, la classe (sociale

ed economica), il gruppo etnico di appartenenza, la varietà linguistica (standard,

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colloquiale o dialettale) utilizzata. Come spiega Rudvin (2003:178) a proposito

dell'asimmetria di potere fra le parti:

it is generally the host institution who sets the norms and the standards for communication and the

migrant who must abide by and adapt to those norms (…) The client will be expected to adapt to the

institutional norms of the host country, and the client will be judged according to those norms, not

according to the norms of his/her own culture.

L'istituzione, pur non essendo un partecipante fisicamente tangibile dell'interazione, è in

ogni caso parte dello scambio comunicativo come norm-setter o rule-setter,

responsabile cioè della definizione delle norme sociali e comportamentali da seguire e

che divengono criterio di giudizio del comportamento altrui. Fra le dimensioni culturali

individuate da Hofstede (1980) come parametri di misurazione delle differenze culturali

fra le varie nazioni del mondo, la prima dimensione riguarda la “distanza di potere”

(power distance) in riferimento al grado di accettazione delle gerarchie e al livello al

quale i membri di una cultura accettano le istituzioni e le organizzazioni che detengono

potere. I paesi “latini”, asiatici e africani, per esempio, presentano un elevato indice di

distanza del potere, ciò rifletterebbe secondo Hofstede un certo grado di accettazione

dell'ineguaglianza e delle relazioni asimmetriche durante l'interazione. Il ruolo e

l'impatto dell'istituzione sulla comunicazione interlinguistica e interculturale deve

quindi essere analizzando considerando eventuali differenze nel modo stesso di

rivolgersi alle istituzioni, una prospettiva etnocentrica rischierebbe di ignorare, se non

mistificare, le ragioni di determinati comportamenti che sono culturalmente fondati.

Oltre ai partecipanti primari, il terzo partecipante presente all'evento mediato è

ovviamente l'interprete. Tradizionalmente, la figura dell'interprete è stata descritta quasi

esclusivamente dal punto di vista della sua competenza linguistica e la tendenza

principale è stata per decenni espressa dell'equazione: interprete = individuo bilingue

che converte il messaggio dalla lingua1 alla lingua2 e viceversa. Come affermato in

precedenza, la conoscenza linguistica è solo la prima facoltà richiesta all'interprete ma

non è certamente l'unica; il quadro è notevolmente più complesso di quanto possa far

credere un'analisi superficiale del ruolo dell'interprete; come scrivono Gentile et alii

(1996: 65-68) le competenze di un interprete sono molteplici e si possono riassumere

in:

− competenze linguistiche,

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− competenze culturali,

− competenze tecniche,

− capacità mnemoniche,

− competenza professionale.

L'interprete di comunità, a differenza dell'interprete di conferenza, è chiamato a tradurre

da e ad entrambe le lingue interessate; la bidirezionalità linguistica, come abbiamo detto

in precedenza, è una delle peculiarità di questa tipologia di interpretazione. La

competenza richiesta nella seconda lingua deve quindi essere molto elevata, requisito,

come vedremo, affatto scontato anche nel caso dei cosiddetti bilingui naturali. Per

quanto riguarda il concetto di bilinguismo, la letteratura, in particolare con gli studi di

Lambert1 a metà degli anni Cinquanta, ha sostenuto che il comportamento linguistico

dei bilingui è condizionato dall'ordine nel quale vengono apprese le lingue, dal livello di

dominanza relativa fra le lingue conosciute e dal grado di fusione/sovrapposizione fra i

sistemi linguistici interessati. Secondo Lambert, le caratteristiche individuali di ogni

bilingue corrispondenti ad ognuna delle dimensioni precedenti, sembrerebbero avere

ripercussioni sul ruolo stesso dell'interprete. Generalmente, la maggior parte dei bilingui

impara per prima una lingua (madrelingua), sebbene l'apprendimento della seconda

lingua possa avvenire presto durante l'infanzia; questo porterebbe l'interprete ad

identificarsi con maggiori probabilità con i parlanti monolingui della sua lingua madre

piuttosto che con i parlanti monolingui delle altre lingue conosciute, a parità di tutte le

altre circostanze. Naturalmente, ci sono anche altri fattori da considerare; uno di questi è

il diverso grado di padronanza linguistica fra le lingue conosciute che porterebbe a due

importanti conseguenze: in primo luogo, solitamente è più semplice comprendere una

lingua (conoscenza passiva) che parlarla con facilità (conoscenza attiva), di

conseguenza, è più probabile che l'interprete bilingue traduca con maggior successo alla

sua lingua dominante piuttosto che dalla sua lingua dominante alla seconda. La seconda

conseguenza della dominanza linguistica si riferisce alla probabilità che l'interprete si

identifichi con uno dei suoi clienti. In generale, maggiore è la dominanza di una lingua,

più elevata sarà la probabilità che l'interprete si identifichi con i parlanti della lingua

dominante.

1 Lambert, W. (1995), Measurement of Linguistic Dominance of Bilinguals, Journal of Abnormal and Social Psichology 50: 197-200. In Anderson, B. (1976)

16

La competenza linguistica comprende inoltre la “competenza di trasferimento” descritta

da Wills (1982)2 che è data dalle seguenti capacità:

− ability to produce a variety of synonymous or analogous expressions in both languages,

− ability to capture and reproduce register variations,

− ability to recognize and reproduce domain-specific expressions in a form which will be regarded

as “natural” by the respective users,

− ability to combine verbal and non-verbal communication cues from the source language and

reproduce them in appropriate combinations in the target language,

− ability to identify and exploit rhythm and tone patterns of the languages in order to determine

and utilize the “chunks” of speech so as to maximize the efficiency of the interpreting,

− ability to speedily analyze the utterance in the context of the communication in order to

anticipate the direction in which the argument is proceeding and the strategy being used in

developing the argument.

In quanto alla competenza culturale, l'interprete, per far sì che la comunicazione fra i

partecipanti primari abbia successo, deve tener conto delle loro differenze culturali e dei

comportamenti verbali e non verbali culturalmente definiti; la consapevolezza e la

responsabilità di gestire tali differenze sono dovere dell'interprete, da questo punto di

vista operante come mediatore culturale fra le parti coinvolte. Le competenze culturali

di un interprete sono fondamentali per garantire la mutua comprensione di quei

comportamenti divergenti fra le varie culture e che, senza la professionalità

dell'interprete, rischierebbero di dar luogo a malintesi se non a vere e proprie situazioni

di conflitto. Secondo Richard Brislin et alii (1986:41), alla base delle differenze

culturali si trovano differenze nel modo di: 1) categorizzare, culture diverse pongono gli

stessi elementi in categorie differenti (per esempio il concetto di buon amico o di bravo

lavoratore); 2) differenziare, ovvero, trattare l'informazione nuova ed inserirla nelle

categorie conosciute; alcune culture possono dare più o meno rilevanza a certi aspetti o

elementi (per esempio gli obblighi nelle relazioni di parentela); 3) distinguere i membri

del gruppo da quelli fuori dal gruppo (chi non appartiene al gruppo, outgroup member, è

trattato con maggior distanza); 4) stili di apprendimento (il cambiamento, la crescita

personale, il miglioramento ecc. comportano l'apprendimento di nuove informazioni

secondo modalità e stili diversi fra le culture); 5) attribuzione, gli individui osservano il

comportamento di altri individui e a loro volta riflettono sul proprio; i giudizi sulle

2 Wills, W. (1982) The Science of Translation, Tubingen, Gunter Narr Verlag In Gentile et alii (1996) p.66.

17

cause di tali comportamenti sono detti “attribuzioni” e lo stesso comportamento, per

esempio una energica stretta di mano, può essere attribuito a cause diverse in culture

diverse.

Un atteggiamento etnocentrista e pregiudiziale da parte dei partecipanti, e in particolare

dell'interprete data la sua posizione di perno, può inficiare la reciproca comprensione e

l'intero andamento interazionale; il giudizio aprioristico e una visione del mondo

etnicamente centrata costituiscono un'attitudine naturale dell'uomo che risponderebbe ad

almeno quattro funzioni (Ibid.). La prima è detta “funzione utilitaristica o di

adattamento”; gli uomini devono adattarsi ad una realtà complessa e, se avere

atteggiamenti pregiudiziali li aiuta ad adattarsi, allora tali pregiudizi saranno mantenuti

(per esempio, credere che i membri di minoranze etniche non siano in grado di svolgere

certe professioni significa che ci sarà meno competizione per certi incarichi lavorativi).

La seconda funzione è detta “ego-difensiva” in quanto il pregiudizio serve per

proteggere l'immagine che i membri di un gruppo hanno di loro stessi, rafforzando così

il loro senso di identità; questa funzione si lega alla terza che è la “funzione di

espressione dei valori”, mentre la quarta si riferisce alla “funzione conoscitiva”, ossia, al

modo in cui l'informazione viene acquisita ed organizzata. Il pregiudizio verso coloro

che non posseggono lo stesso bagaglio conoscitivo fa sì che questi ultimi siano

considerati ignoranti o sotto-istruiti. La sensibilità interculturale richiesta all'interprete

di comunità è parte integrante delle sue doti professionali; il modo di concepire lo

spazio e il tempo, la famiglia, le differenze di genere uomo-donna e le relazioni fra i due

sessi, il modo di concepire lo Stato e le burocrazie, così come l'uso idiomatico della

lingua sono profondamente radicati nella cultura; così, quando l'interprete non è in

grado di gestire tali divergenze, o non ne è a conoscenza, si rischia di incappare in un

cosiddetto “culture bump” (Rudvin 2003:67), un “urto” fra culture che si produce

quando le aspettative dei partecipanti vengono contraddette da comportamenti

inaspettati.

L'interprete deve possedere inoltre alcune competenze tecniche che riguardano aspetti

come: la disposizione spaziale dei partecipanti, tecniche di controllo della situazione

comunicativa (es. tecniche di interruzione e di allocazione dei turni conversazionali);

tecniche che utilizzano la conoscenza delle dinamiche di gruppo per identificare i vari

ruoli interazionali; tecniche specificamente dirette al turno prodotto dall'interprete (note-

18

taking); tecniche per ordinare l'informazione data dagli interlocutori primari in modo da

ridurre al minimo le omissioni; tecniche volte alla produzione vocale per rendere

l'interpretazione intelligibile e chiara; tecniche finalizzate alla riduzione delle differenze

fra incontri mediati e incontri non mediati dalla presenza di un interprete (es. controllo

del ritmo, delle ripetizioni e delle ridondanze ecc.) (Gentile et alii,1996:67). Agli aspetti

tecnici dell'interpretazione si aggiunge la capacità mnemonica richiesta all'interprete;

nel caso dell'interpretazione di comunità, la modalità consecutiva è quella utilizzata più

di frequente, il che significa generalmente che l'interprete è chiamato a tradurre il

messaggio dopo un minuto, o qualche minuto, che il parlante originario lo ha enunciato.

In questi casi, il ruolo della memoria riguarda in particolare la capacità di fare

collegamenti fra ciò che è stato detto e ciò che un individuo già conosce a proposito del

tema o argomento in oggetto. Di certo, l'interprete può avvalersi di un aiuto prezioso per

facilitare il processo mnemonico e prendere appunti, soprattutto in caso di elenchi,

termini tecnici, nomi propri ecc. L'interprete che prende appunti non è meno

professionale o meno competente dell'interprete che si affida esclusivamente alle

proprie facoltà mnemoniche, anzi, in alcuni casi, gli appunti sono fondamentali per

garantire l'accuratezza dell'interpretazione e per minimizzare il rischio di omissioni o

distorsioni del messaggio originale. Gentile et alii (1996:28) puntualizzano che:

while in some circumstances note-taking will be essential, in others is completely out of place and indeed

detrimental (…) The technique must be unobtrusive and the emphasis must remain on the face-to-face

communication which is the hallmark of liaison interpreting.

Le competenze professionali, infine, riguardano la deontologia dell'interprete come

professionista e si configurano come un corpus di regole di autodisciplina

predeterminate dalla professione; si tratta, cioè, di un insieme di norme di condotta

raccolte in un codice etico (quando presente) che prescrivono i comportamenti e i valori

che l'interprete è tenuto a rispettare, con particolare riferimento al concetto di

imparzialità nei confronti degli enunciatori primari, punto di estrema rilevanza e

delicatezza che affronteremo più accuratamente nel prosieguo della nostra indagine.

Dopo aver passato in rassegna la moltitudine di requisiti che l'interprete di comunità

deve presentare per svolgere con competenza e professionalità il proprio lavoro, siamo

ancor più consapevoli dell'insufficienza e dell'inadeguatezza dei cosiddetti “interpreti

naturali” o “interpreti ad hoc” che, privi di ogni forma di preparazione tecnica e

19

professionale, sono reclutati fra l'equipe medica degli ospedali, fra gli amici e parenti

dell'interessato, fra gli inservienti che operano nella struttura in questione, o più

semplicemente fra coloro che parlano una determinata lingua straniera. Come vedremo

in seguito, a proposito dell'interpretazione di comunità in ambito medico, le

conseguenze di errori di traduzione dovuti all'inesperienza e spesso all'incoscienza di

questi interpreti improvvisati possono essere estremamente serie.

Il quarto partecipante all'evento mediato, nonostante spesso non venga preso in

considerazione, è l'agenzia di interpretariato che rappresenta il terzo cliente cui

l'interprete deve rendere conto. Questo tema è stato trattato, fra gli altri, anche in

occasione della quarta conferenza internazionale sull'interpretazione di comunità, “The

Critical Link 4”, in particolare se ne è occupato Uldis Ozolins (2007:121):

Interpreting agencies are crucial in determining outcomes in community interpreting, but have been little

studied. (…) We identify problematic issues for both parties in agencies' relations with interpreters:

agencies vary in their expectations of interpreters, their own work practices, and engagement in

professional issues; interpreters vary in their own required business practices and professionalism, and the

ability to see the agency as their client. Agencies also crucially set expectations of end-user clients who

purchase language services.

Mentre alcuni interpreti di comunità sono impiegati a tempo pieno e altri lavorano come

volontari, la tendenza che sta emergendo in questi anni è quella dell'interprete freelance,

cioè, un libero professionista che presta servizio in diverse istituzioni e che spesso viene

reclutato tramite agenzie di interpretariato. In paesi come la Svezia e l'Australia,

precursori di politiche regolatrici di questo ambito, tale tendenza è sempre più forte e le

istituzioni governative che inizialmente si occupavano di offrire servizi di interpretariato

sono state ormai sostituite da agenzie private, associazioni locali no profit, e agenzie

statali. Le agenzie di interpreti sono determinanti nel definire l'ambiente lavorativo,

etico e professionale nel quale operano gli interpreti. Per quanto riguarda la relazione

che questi ultimi hanno con le agenzie, bisogna riconoscere l'anomalia di questo settore

data dalla frequente mancanza di standard e codici deontologici e dalla conseguente

eterogeneità di questa categoria professionale; tutto ciò fa sì che le agenzie debbano

spesso confrontarsi con una grande varietà di comportamenti e di attitudini da parte

degli interpreti contraenti. Come spiega Ozolins (2007), dal punto di vista delle agenzie,

la varietà di qualità, professionalità e competenze pratiche che si riscontra fra gli

20

interpreti rende difficile l'instaurarsi di un rapporto professionale con essi.

Comportamenti riguardanti la puntualità (tanto l'arrivare in ritardo quanto il congedarsi

troppo frettolosamente), un atteggiamento del tipo “sì Signore” nei confronti della

direzione dell'agenzia o il perseguimento di codici etici e pratici fra loro idiosincratici,

rappresentano punti molto controversi che rischiano di mettere a repentaglio il rapporto

fra l'agenzia e l'istituzione committente nel caso in cui quest'ultima tragga giudizi

negativi da servizi di interpretariato “poco professionali”. Questo rischio è dovuto anche

all'impossibilità di monitorare la prestazione degli interpreti, esclusi contesti

d'interpretazione pubblici come i tribunali, le agenzie devono quindi contare

esclusivamente sulla fiducia accordata ai loro contraenti. Dal punto di vista degli

interpreti, invece, sembrano esserci poche indicazioni in merito al tipo di rapporto che

devono intrattenere con le agenzie. Nei codici etici, per esempio, non si riscontra

nessuna menzione delle agenzie:

the absence in these codes of any reference to agencies leaves a dangerous “black hole”: all interpreters

have (at least) two clients – the two parties they are interpreting for, but not all interpreters understand

they also often have a third client - the agency through which they obtain work. (Ozolins 2007:124)

Uno dei motivi della carenza di professionalità fra gli interpreti si ricollega proprio alla

loro incapacità di considerare l'agenzia come un terzo cliente: un cliente, cioè, che

seleziona l'interprete per svolgere una prestazione retribuita e che rappresenta quindi,

non solo una fonte di reddito, ma anche il referente al quale rivolgersi per delucidazioni

e commenti prima e dopo la sessione di lavoro svolta presso l'istituzione. Un altro punto

rilevante per comprendere la cornice contestuale entro la quale lavorano gli interpreti,

riguarda poi il rapporto fra le agenzie e il mercato di riferimento composto da coloro

che commissionano i servizi di interpretariato; spesso il mercato nutre false aspettative

nei confronti degli interpreti o addirittura non ha aspettative, molto frequente, infatti, è

la tendenza a vedere l'interprete come un “male necessario” da sopportare per poter

riuscire a comunicare con interlocutori stranieri, ignorando il tipo di ruolo, di

competenze e di impegno effettivamente richiesti.

La centralità delle agenzie in merito alla professionalizzazione degli interpreti è dovuta

alla loro posizione intermedia fra acquirenti (del servizio/prestazione) e interpreti.

Come abbiamo già detto, molto dipende dall'etica dell'agenzia e dall'attitudine che

questa mostra verso il lavoro dell'interprete, Ozolins (2007) sostiene che l'agenzia possa

21

realmente ricoprire un ruolo cruciale a patto che non si accontenti semplicemente che

l'interprete arrivi puntuale e che non sia fonte di lamentele, ma che sia interessata a

sviluppare un rapporto di lavoro professionale e che osservi con occhio critico e

consapevole il ruolo dell'interprete. Per trasformare questo cerchio di relazioni vizioso

in un cerchio virtuoso, è fondamentale che ogni anello sia collegato all'altro, in questo

senso, sarebbe importante che le istituzioni per le quali l'interprete presta servizio

fornissero un feedback, un commento a posteriori, circa il suo operato e che questo fosse

comunicato non solo all'agenzia (referente dell'istituzione) ma anche all'interprete (che

di solito ha come unica referente l'agenzia). Un ulteriore punto di esclusione

dell'interprete da questo “cerchio” di relazioni riguarda la stipula dei termini

contrattuali:

contracts or service agreements between agencies and purchaser, where they exist, are in most cases

negotiated and finalised without reference to the people who will be carrying them out – the contract

interpreters. This leaves the interpreters in the position of being very much price-takers, and in only rare

instances can they be price makers. (Ozolins 2007:128)

Non ci soffermeremo qui sul problema dei bassi livelli remunerativi che gli interpreti di

comunità, in particolare, sono costretti ad accettare, ma l'obiettivo di questo primo

capitolo introduttivo è la presentazione dei partecipanti all'evento mediato, siano essi

fisicamente presenti nel contesto d'enunciazione, siano essi partecipanti del più ampio

sistema di relazioni come forze condizionanti il sistema stesso.

1.4 Le relazioni fra i partecipanti

Per comprendere in che modo le relazioni di potere stabilite dal e nel contesto socio-

culturale di riferimento influiscono sul ruolo dell'interprete, utilizzeremo il concetto di

participation framework elaborato da Goffman (1981) nel descrivere l'interazione

sociale dal punto di vista del coinvolgimento individuale dei co-partecipanti. Il principio

base della teoria di Goffman è che l'organizzazione dell'interazione è il risultato di un

continuo processo di valutazione e rivalutazione dei ruoli (participation status) da parte

degli individui coinvolti, il quale si ripete ad ogni turno di parola. Il contenuto e la

progressione dell'interazione, così come la posizione interazionale dei partecipanti,

22

dipendono dalle relazioni e dalle posizioni reciproche che si instaurano fra gli individui

ad ogni enunciato attraverso potenziali cambiamenti nel loro allineamento

conversazionale (footing). Secondo Goffman, la tradizionale dicotomia parlante-

ascoltatore che propone due ruoli interazionali opposti e reciprocamente escludenti, si

rivela insufficiente e non permette di scomporre queste macro-categorie in elementi

analitici più piccoli e coerenti. Nell'introduzione al suo libro, “Forms of talk”, l'autore

definisce il concetto di participation framework come segue:

When a word is spoken, all those who happen to be in perceptual range of the event will have some sort

of participation status relative to it. (…) If one starts with a particular individual in the act of speaking,

one can describe the role or function of all the several members of the encompassing social gathering

from this point of reference (...) The relation of any one such member to this utterance can be called his

“participation status” relative to it, and that of all the persons in the gathering the “participation

framework” for that moment of speech.(1981:3-137)

Ogni partecipante adeguerà il proprio modo di interagire, parlare ed ascoltare a partire

da come concepisce il proprio coinvolgimento e quello degli altri in un dato evento

comunicativo. In particolare, il concetto di footing, o allineamento conversazionale, è

molto utile per capire la relazione fra interprete e partecipanti primari. Per footing si

intende l'allineamento di un individuo ad un particolare enunciato, sia quando riguarda

un “format di produzione”, come nel caso del parlante, sia quanto riguarda solamente un

“format di partecipazione”, come nel caso dell'ascoltatore. Il principio cardine della

teoria di Goffman è che in ogni momento i partecipanti si trovano in una situazione

scambievole di emissione e di ricezione in una rete di mutue influenze e mutue

determinazioni che accompagnano e caratterizzano l'interazione comunicativa. Durante

il flusso interazionale, infatti, i partecipanti cambiano continuamente il proprio

“allineamento” e tali cambiamenti costituiscono una caratteristica inerente alla

conversazione spontanea. L'etichetta di “parlante” utilizzata nel classico modello

bipolare parlante-ascoltatore, nasconde, secondo l'autore, la complessa differenziazione

del “format di produzione” (production format) che si articola in:

− animatore (animator), ossia, il parlante inteso come “scatola sonora” (sounding

box), mero emettitore di suoni, privo di connotazioni sociali;

− autore (author) che seleziona i sentimenti che vuole esprimere e le parole con le

quali intende codificarli;

23

− principale (principal), che stabilisce la propria posizione attraverso le parole

pronunciate, che esprime i propri pensieri e che si assume la responsabilità di

ciò che dice.

In corrispondenza a questi ruoli di produzione si trovano altrettanti ruoli di ricezione, i

quali si configurano come una serie di attitudini dei partecipanti verso gli enunciati

prodotti dagli altri interlocutori; Wadensjö (1998-92) ha distinto questi ruolo di

ricezione in:

− reporter, che ascolta per ripetere le parole che sente senza assumersene alcuna

responsabilità;

− responder, colui che ascolta per poi parlare come partecipante primario, o

“principale”;

− recapitulator, che ascolta con l'obiettivo di ripetere o riportare ciò che è stato

detto in qualità di “autore”.

Come spiega Mason (1999:8), durante lo scambio comunicativo, l'interprete può

assumere tutti e tre questi ruoli di ricezione:

as responder: (to a courtroom witness who has addressed the interpreter directly) “Please address your

remarks to the attorney, not to me”;

as recapitulator: (relaying the request: “Ask him to spell his name, please) “Please spell your name”;

as reporter: (following a primary party's injunction: “Spell your name, please”) “Spell your name,

please”.

L'esempio precedente è estremamente utile per avere consapevolezza della complessità

e delle sfumature che sottendono ogni scambio interazionale; è importante inoltre

sottolineare che questi ruoli posizionali non sono solo il risultato del libero arbitrio da

parte dell'interprete, ma derivano anche dalle aspettative degli altri partecipanti e dalla

loro idea di interprete. Una chiara dimostrazione di ciò è data dal modo in cui i

partecipanti primari si rivolgono gli uni agli altri: attraverso la terza persona (lui,lei),

tramite il “noi inclusivo”, tramite la seconda persona (tu) o il pronome di cortesia (“Lei”

in italiano) oppure evitando l'utilizzo di forme pronominali. Come commenta Mason

(1999), questa scelta non è necessariamente consapevole e molti esempi autentici tratti

dalla letteratura mostrano come un cambiamento di footing si rifletta in un cambiamento

del pronome utilizzato nel rivolgersi all'interlocutore in questo tipo di eventi mediati.

L'allineamento di ogni partecipante è quindi soggetto ad un costante processo di

24

rinegoziazione e la posizione degli interlocutori primari spesso condiziona lo stile

adottato dall'interprete. Esplorando le dinamiche degli incontri mediati dalla figura di un

interprete, Wadensjö (1998) descrive la posizione di quest'ultimo secondo la teoria del

format di produzione e di ricezione elaborati da Goffman e spiega come l'interprete che

ricopre il ruolo di reporter rispetto ad un enunciato, sarà di conseguenza mero

“animatore” delle parole dell'interlocutore originario. Questa visione rispecchia l'antico

stereotipo dell'interprete come semplice animatore degli enunciati altrui, ma Wadensjö

afferma che per l'interprete è sempre, e per necessità, anche “autore”:

Having the mandate and the responsibility to compose new versions of utterances, interpreters

systematically take the role of “recapitulator”, which means that they relate to their following utterance as

“author” and “animator”, but not as “principal”, a role which is normally occupied by the immediately

preceding speaker. (1998:93)

L'”autore” seleziona le parole con le quali codificare il messaggio originale, in questo

modo l'interprete-autore è agente primario dell'interazione a tre; mentre dal punto di

vista della ricezione detiene il ruolo di “responder” ed è quindi il secondo destinatario

dell'enunciato, dopo l'interlocutore primario.

Ogni partecipante è titolare di diritti e doveri conversazionali e le aspettative dell'uno

corrispondono agli obblighi (interazionali) dell'altro; questi ruoli divengono quindi

interdipendenti laddove aspettative ed obblighi sono le faccia della stessa medaglia:

complementari e al servizio le une degli altri. Come spiegano Erickson e Shultz

(1982:18): “speaking and listening role and role behaviour are thus simultaneously

complementary as well as sequentially reciprocal”; ciò significa che il completamento

dell'azione comunicativa di un individuo da parte di un altro non avviene solo durante

momenti successivi in una sorta di “ping-pong” comunicativo, ma avviene anche

simultaneamente alla produzione dell'enunciato, per esempio l'interlocutore può

dimostrare la propria attenzione e la propria posizione di ricezione attraverso il

comportamento non verbale, detto listening behaviour. L'evento mediato, rifacendoci

ancora una volta agli studi di Goffman, rappresenta un cosiddetto “situated activity

system”: “a face-to-face interaction with others for the performance of a single joint

activity, a somewhat closed, self-compensating, self-terminating circuit of

interdependent actions” (1981:96). Lo studio di un determinato ruolo può essere limitato

ad una particolare situazione (es. il ruolo di un interprete durante un consulto medico

25

mediato) e in tal caso, un “sistema di attività in situazione” coinvolge solo una parte

dell'individuo, ciò che quest'ultimo è in altri contesti e in altri momenti non è rilevante;

ciò che interessa sono le rispettive azioni dei partecipanti, diverse ma interrelate, e il

modo in cui tali azioni rispondono a schemi che definiscono un “sistema di attività in

situazione”.

La chiave di Volta che ci permette di apprezzare la complessità dell'evento mediato sta

nell'adottare una prospettiva dialogica ed abbandonare la visione monologica che la

letteratura ha tradizionalmente utilizzato per osservare la funzione dell'interprete.

L'approccio monologico descrive l'uso linguistico dal punto di vista del “parlante”: il

significato delle parole e degli enunciati è considerato come derivante esclusivamente

dalle intenzioni e dalle strategie comunicative del parlante, mentre i co-partecipanti

sono visti come ricettori delle informazioni codificate dal parlante. I co-partecipanti si

troverebbero così in una sorta di “vuoto sociale” (Wadensjö 1998:8). Il modello

dialogico, al contrario, implica la costruzione e l'elaborazione congiunta del significato

da parte dei co-partecipanti. Il significato è creato nella e dalla attività comunicativa. La

responsabilità del flusso comunicativo e di eventuali incomprensioni è distribuita fra le

parti. Secondo Wadensjö (Ibid.), il primo approccio corrisponderebbe al “discorso come

testo” (Talk as text), mentre il secondo risponderebbe al discorso come attività (Talk as

activity) Considerare la comunicazione mediata non solo come produzione testuale ma

anche come attività e interazione sociale consente di analizzare più a fondo il complesso

sistema di relazioni e azioni in gioco. Da un punto di vista sociolinguistico, i fattori

contestuali assumono grande rilievo nell'analisi del discorso come interazione e il

modello mnemonico di Hymes3 costituisce una griglia schematica di partenza:

SPEAKING (Situation – Participants – Ends – Act sequences – Key – Instrumentalities

– Norms – Genres); utilizzando una prospettiva dialogica possiamo osservare la

produzione discorsiva come un' “inter-attività” che coinvolge tutti i partecipanti e, come

vedremo in seguito, il sistema turnazionale evidenzia con grande chiarezza l'aspetto

corale e partecipativo dell'evento mediato.

3Hymes, D., (1974) Foundations in sociolinguistics: an ethnographic approach, London : Tavistock.

26

CAPITOLO 2

IL RUOLO DELL'INTERPRETE

Definire il ruolo dell'interprete richiede uno sforzo analitico multidimensionale e, come

si dirà in questo capitolo, si tratta di una questione controversa e molto dibattuta sia

dagli studiosi che dagli interpreti stessi. Bisogna innanzitutto fare una distinzione fra

l'attitudine che l'interprete ha verso il proprio ruolo, la “dimensione ideografica”

descritta da Getzels (1958)4, e l'insieme di aspettative che il sistema sociale di

riferimento (sia esso l'ospedale, il tribunale ecc.) ripone nei confronti di questa figura

professionale, corrispondente alla “dimensione nomotetica” (Ibid.). Il ruolo

dell'interprete e il contesto in cui è chiamato a fornire la propria prestazione

rappresentano, come vedremo, due sfere inevitabilmente interrelate. Un'altra importante

distinzione che è opportuno presentare in via preliminare riguarda la nozione di “ruolo”

secondo la prospettiva della psicologia sociale di Goffman (1961), l'autore distingue fra:

“ruolo normativo”, “ruolo tipico” e “performance del ruolo”. Il “ruolo normativo”

corrisponde all'insieme di idee e opinioni condivise circa una determinata attività, ciò

che si dovrebbe fare. Il “ruolo tipico” considera la mutevolezza delle condizioni di

tempo e spazio nelle quali si svolge la prestazione; infine, la “performance del ruolo” è

determinata dall'individualità e dallo stile personale del soggetto che svolge l'attività.

Come vedremo nell'analizzare il ruolo dell'interprete, questi tre aspetti del ruolo sono

spesso divergenti e il ruolo normativo prescritto da eventuali codici deontologici si

discosta frequentemente dall'effettiva performance dell'interpretazione in contesto. Tale

sfasamento risale alla tendenza, superata a partire dagli anni Ottanta, di considerare

l'interpretazione come branca della traduzione, analizzata quindi attingendo dal quadro

teorico della traduttologia, che a sua volta si basa sullo studio di testi scritti. In senso

lato, il compito dell'interprete è stato descritto per decenni come mero trasferimento di

idee e pensieri da un a lingua1 a una lingua2 e, attraverso il linguaggio metaforico, gli

studiosi e gli stessi interpreti hanno definito in vari modi questo ruolo di “persona nel

mezzo” paragonandola a un canale o ponte attraverso il quale comunicano due persone.

Il compito di questo “condotto” comunicativo, però, è assai complesso, in quanto si 4 Getzels, J., W. (1958) Administration as a social process , Chicago: University of Chicago In Gentile et alii.(1996:31)

27

richiede la produzione “fedele” e “accurata” del messaggio da un individuo all'altro

senza che ciò comporti un coinvolgimento personale ed emotivo. Secondo quest'ottica,

il messaggio dovrebbe quindi essere reso con accuratezza, imparzialità e neutralità allo

stesso tempo; un compito tutt'altro che semplice e meccanico la cui complessità risulta

pressochè annullata dalle varie metafore che equiparano l'interprete ad una macchina,

una finestra, un ponte o una linea telefonica. Come argomenta Roy (in Pöchhacker

2004:347):

On the one end, these descriptions attempt to convey the difficulty of the simultaneous tasks in

interpreting while reminding everyone that the interpreter is uninvolved on any other level, at the same

time, the same descriptions encourage interpreters to be flexible, which usually means be involved.

A questa contraddizione di fondo si aggiunge un'altra presupposizione che sembra

essere favorita anche da codici e standard esistenti, secondo la quale per ogni enunciato

esiste un solo significato che, di conseguenza, non è passibile di un processo di

costruzione congiunta da parte dei co-interlocutori. La presupposizione implicita è che il

significato esista indipendentemente dai partecipanti. Così, affermando che il compito

dell'interprete è quello di conferire il significato del messaggio originale in un'altra

lingua, si afferma contemporaneamente la natura monolitica del significato, come un

unico blocco semantico impermeabile al contesto e all'uso contestuale. A questo

proposito, la teoria di Bakhtin (1979)5 sull'interdipendenza fra mente e linguaggio,

analizza la parola come elemento scomponibile in tre aspetti, nella pratica equamente e

simultaneamente rilevanti, ma che da un punto di vista teorico, possono essere

considerati separatamente. Il primo aspetto è quello della parola come entrata

lessicografica con una serie di accezioni potenziali; il secondo è collegato all'uso che gli

altri parlanti ne fanno (quando un individuo scrive o pronuncia una parola, in un certo

senso riproduce ed include valori, emozioni e connotazioni contestuali che altri

individui hanno associato a quella stessa parola in altri momenti enunciativi); il terzo

aspetto della parola si riferisce ad un enunciato specifico in un momento dato (il senso

di una parola deriva anche dall'uso contestuale e soggettivo che ne fa un individuo in

una certa situazione comunicativa e con determinati obiettivi interazionali). In questo

modo, la parola è allo stesso tempo espressione individuale del parlante e elemento di 5Bakhtin, M., M., (1979) Estetika Slovesnogo Tvorchestva. Moscow:Isskusstvo. In Wadensjö (1998: 38-39)

28

collegamento fra gli individui e la situazione d'uso. Come denuncia Angelelli (2004),

molte scuole che offrono corsi di interpretariato condividono questa idea monolitica del

linguaggio e durante le lezioni non è raro che gli studenti si sentano dire dai loro

insegnanti: “il tuo compito è catturare il significato e trasmetterlo in un'altra lingua,

senza contribuire a ciò che si dice”, oppure, “il tuo unico compito è conferire il

significato espresso da un parlante alla lingua dell'altro parlante”. In questo modo, il

ruolo dell'interprete è ridotto a quello di mero codificatore-decodificatore linguistico e

la complessità dell'interazione mediata viene del tutto sminuita; anche da un punto di

vista prettamente linguistico, però, le due lingue interessate durante l'evento mediato

possono presentare differenze lessicali, grammaticali e prosodiche, così come possono

differire in quanto a costruzioni sintattiche, usi idiomatici ecc. Sistemi linguistici diversi

non sono, cioè, sovrapponibili e il messaggio originale spesso può essere reso tramite

più versioni, in questo modo i concetti di adeguatezza, fedeltà e accuratezza risultano

sempre più ambigui.

2.1 L'interprete nella metafora

Reddy (1979:165) spiega il potere che la metafora e l'uso metaforico del linguaggio

possono avere nell'influenzare il nostro modo di pensare e concepire il mondo:

I am going to present evidence that the stories English speakers tell about communication are largely

determined by semantic structures of the language itself. This evidence suggests that English has a

preferred framework for conceptualizing communication, and can bias thought process toward this

framework.

Secondo la metafora del “condotto” (conduit metaphor) di Reddy (1979), le espressioni

linguistiche utilizzate dai parlanti in interazione sono veicoli all'interno dei quali idee e

significati possono essere versati ed estratti, rimanendo immutati nel passaggio; quello

che accade nella comunicazione altro non sarebbe quindi che un mero scambio di

informazioni tra due persone. Per rendere più evidente il modo in cui la metafora del

condotto permea la lingua dei parlanti, Reddy (1979:166) propone alcune frasi che

ricorrono tipicamente in caso di fallimento comunicativo nella lingua inglese:

29

1) Try to get your thoughts across better;

2) None of Mary's feelings came through to me with any clarity;

3) You still haven't given me any idea of what you mean.

Espressioni simili si possono riscontrare anche in italiano (es. “non ho colto l'idea”,

“non ho afferrato il significato delle sue parole”), possiamo notare come le parole e le

idee siano concepite come “pacchetti” di informazioni che si trasmettono da un parlante

all'altro ma, come obietta lo stesso Reddy, se ricevere e scartare questi “pacchetti” di

informazioni è un'azione così semplice e passiva, perchè in alcuni casi si verificano

intoppi, incomprensioni, se non veri e propri fallimenti comunicativi? Per spiegare

quanto la metafora del condotto sia pervasiva nel nostro modo di concepire e descrivere

il linguaggio, Reddy elabora una “contro-metafora” che chiama “the toolmakers

paradigm”; in base a questo paradigma, il messaggio comunicativo, più che veicolo di

“pacchetti” informativi, è presentato come un “progetto” la cui interpretazione da parte

dei co-interlocutori non garantisce una corrispondenza esatta tra i significati elaborati da

chi realizza il progetto e i significati elaborati dal destinatario. Il paradigma del

“progetto” indica inoltre che la comunicazione implica intenzionalità, pianificazione e

considerazione del destinatario al quale rivolgiamo il nostro messaggio. Tornando al

ruolo dell'interprete, possiamo ora affermare che la concezione del linguaggio che è

insita nella nostra cultura e quindi nella nostra forma mentis è una convenzione culturale

radicata che, ad un'analisi più profonda, risulta eccessivamente semplicistica e

fuorviante.

Un'interessante panoramica della varietà di metafore riguardanti la figura dell'interprete

è stata proposta da Roy (in Pöchhacker 2002:345-353) che, in particolare, si è occupata

dell'interpretazione della lingua dei segni per non udenti negli Stati Uniti ed ha

individuato quattro descrizioni che esemplificano il ruolo dell'interprete. Queste quattro

descrizioni vanno da un estremo coinvolgimento personale all'assenza di

coinvolgimento personale dell'interprete:

1) gli interpreti come aiutanti: per molto tempo gli interpreti di persone non udenti

sono stati gli stessi familiari ed amici; fino agli anni Sessanta, infatti, non vi era

distinzione fra interprete e aiutante e l'intervento di quest'ultimo spesso sconfinava

dall'interpretazione vera e propria e comprendeva la possibilità di dare consigli e

addirittura prendere decisioni al posto del parente o amico non udente;

30

2) gli interpreti come condotti o canali: questa descrizione che gli interpreti stessi

iniziarono a promuovere servì loro per allontanarsi dallo stereotipo dell'aiutante ed

acquisire contemporaneamente uno status maggiormente professionale e distante dalle

responsabilità che gravavano sull'interprete-aiutante. Questo rovesciamento di

prospettiva, dal massimo coinvolgimento personale al minimo coinvolgimento

dell'interprete-macchina, sollevò molte contestazioni in quanto gli interpreti iniziarono a

rifiutare ogni responsabilità di eventuali conseguenze della loro prestazione e questa

presa di posizione finì con l'influenzare negativamente la percezione dei consumatori.

Gli interpreti cominciarono così a cercare una descrizione del loro ruolo che fosse meno

radicale;

3) gli interpreti come facilitatori della comunicazione: non appena la metafora del

condotto iniziò a decadere, gli interpreti ricorsero ad una nuova descrizione che

attingeva dalla teoria della comunicazione, secondo la quale, l'evento comunicativo è

costituito da tre elementi base: mittente, messaggio e destinatario. Questa base teorica

presentava l'interprete come canale interposto fra mittente e destinatario deputato a

facilitate la trasmissione del messaggio fra due parlanti di lingue diverse. La descrizione

dell'interprete come facilitatore della comunicazione fu sostenuta anche dal Code of

Ethics della lingua dei segni americana (ASL) che, fra i principi costituenti, stabiliva:

“The interpreter's only function is to facilitate communication. He/she shall not become

personally involved because in doing so he/she accepts some responsibility for the

outcome, which does not rightly belong to the interpreter” (Ibid.)

4) gli interpreti come specialisti bilingui bi-culturali: fra la fine degli anni Settanta

e l'inizio degli anni Ottanta, si cominciò a riconoscere l'importanza della competenza

interculturale oltre che linguistica dell'interprete, così come si sviluppò una nuova

consapevolezza della prospettiva multidisciplinare necessaria per analizzare l'evento

mediato.

31

2.2 Invisibilità vs Visibilità

Il ruolo dell'interprete, o meglio, la percezione che ne hanno gli interpreti, gli studiosi e

i clienti stessi, ha subito varie trasformazioni nel corso degli anni ma la descrizione

meccanicistica è ancora radicata nell'immaginario collettivo e spesso anche nella

valutazione dei diretti interessati. Angelelli (2004) parla del “mito dell'invisibilità

dell'interprete”, una sorta di “fantasma” fra i partecipanti che, come fosse un canale, si

lascia attraversare dal flusso comunicativo convertendolo da una lingua ad un'altra.

Questa prospettiva presuppone l'assenza di interazione fra interprete e partecipanti

primari, l'assenza di interazione fra i partecipanti stessi e, in definitiva, presuppone

l'assenza di fattori culturali e contestuali, come se la comunicazione avvenisse in un

luogo totalmente asettico fra partecipanti privi di ogni connotazione sociale. In questo

non-luogo comunicativo l'interprete fungerebbe da modem-linguistico, un modulatore e

demodulatore della lingua.

In questo modello teorico, l'interprete è una “non-persona” e pertanto non è. Il ruolo

della “non-persona” è uno dei ruoli discrepanti definiti da Goffman (1981) e che

Wadensjö (1998:66) definisce come “persona presente ma trattata come assente”; La

“non-persona” è fisicamente presente all'evento comunicativo ma non detiene né il

ruolo di partecipante attivo né quello di ascoltatore o partecipante passivo. Fra gli

esempi forniti da Goffman (Ibid.), un esempio classico di non-persona è il servitore, un

individuo la cui presenza deve risultare come una non presenza. Altri esempi si

riferiscono ai molto giovani, ai molto anziani, ai malati e a volte agli stranieri che si

presuppone non capiscano, totalmente o in parte, ciò che si dicono i parlanti coinvolti in

una interazione comunicativa. Per molti versi, il concetto di “non-persona” può essere

equiparato a quello dell'interprete invisibile, entrambi propongono infatti un ruolo

meramente tecnico secondo il quale l'interprete non apporta nulla alla sostanza e al

contenuto della comunicazione in atto. Questo ruolo, che spesso coincide con il ruolo

normativo dell'interprete (ossia ciò che l'interprete dovrebbe fare ed essere), si discosta

dalla realtà pratica di questa professione, dalla effettiva performance del ruolo. Una

concezione alternativa del ruolo dell'interprete è quella che considera quest'ultimo come

co-costruttore dell'interazione, ciò che Angelelli (2004) chiama il “modello della

visibilità”. Questo modello presenta l'interprete come individuo visibile, non solo dal

32

punto di vista linguistico, ma visibile anche dal punto di vista delle sue caratteristiche

sociali e culturali attraverso le quali costruisce l'interazione insieme agli altri co-

partecipanti. Secondo Angelelli (2004:11), la visibilità si manifesta quando l'interprete

fa un'azione, o più, delle seguenti:

1) introduce o posiziona il proprio “io” come parte dell'evento comunicativo,

divenendo quindi co-partecipante e co-costruttore;

2) stabilisce norme comunicative, (per esempio rispetto al sistema dei turni di

parola) e controlla il traffico delle informazioni;

3) parafrasa o spiega termini o concetti;

4) sposta il messaggio su e giù lungo la scala dei registri linguistici;

5) filtra le informazioni;

6) si schiera con uno dei partecipanti;

7) sostituisce uno dei partecipanti all'evento comunicativo.

Nel pas-de-trois dell'evento mediato, l'intervento dell'interprete è presente a tre livelli:

interpersonale, istituzionale e sociale; di conseguenza, siccome l'accesso ai servizi e

all'informazione degli individui stranieri dipende interamente dall'interprete,

quest'ultimo detiene un ruolo di potere fondamentale nel permettere ai parlanti di lingue

diverse di soddisfare i propri obiettivi comunicativi. Come afferma Anderson

(1976:218) “interpreters enjoy the advantage of power inherent in all positions which

control scarce resources”.

L'interprete esercita la propria “visibilità” e il proprio potere interazionale in molti

modi. La maniera in cui interagisce con l'interlocutore appartenente ad una minoranza

linguistico-culturale, per esempio, rappresenta un tema d'analisi interessante. A tal

proposito, bisogna ricordare che fin dalle sue origini, l'interpretazione è avvenuta non

solo fra due lingue e due culture diverse ma anche fra due potenze politico-economiche

diverse. Angelelli (2004) propone il classico esempio della Malinche: figlia di una

nobile famiglia azteca, fu data in dono come schiava dal Cacique di Tabasco al

conquistatore spagnolo Hernán Cortés nel 1519. La giovane donna interpretava dal

nahuatl allo yucateco, un'antica lingua maya, mentre Jerònimo de Aguilar, un prete

spagnolo, interpretava poi dalla lingua maya allo spagnolo per Cortés. Durante una delle

comunicazioni mediate fra il conquistatore e le popolazioni indigene, un giovane

messicano (che conosceva lo spagnolo) di nome Orteguita, ascoltò l'interpretazione

33

della Malinche verificando che ciò che stava dicendo corrispondesse alle parole

originarie di Cortés. Questo episodio dimostra quanto la compagine dominante si

preoccupasse dell'accuratezza dell'interpretazione e, allo stesso tempo, non si fidasse

dell'interprete. Data la posizione di potere di Cortés, Orteguita rispondeva unicamente a

quest'ultimo, il quale aveva il privilegio di esigere accuratezza e verificare la plausibilità

dell'interpretazione. Quando la Malinche mediava gli scambi comunicativi fra Cortés e i

nativi vi era una netta disparità fra lo status di potere dei partecipanti coinvolti. La

giovane schiava, attraverso la propria interpretazione, permetteva alle voci e alle

esigenze dei nativi di essere ascoltate ma faceva sì che il messaggio degli oppressori

prevalesse su quello di primi. Il suo ruolo, insomma, non era affatto neutrale e tanto

meno invisibile. Al contrario, la giovane interprete rappresentava un fattore

determinante nell'alterare o nel perpetuare relazioni di potere e solidarietà durante la

mediazione della comunicazione. La visibilità della Malinche come interprete non è un

caso isolato e, come ha testimoniato la storia, gli interpreti hanno continuato nel tempo a

mediare la comunicazione fra la grandi potenze economiche e culturali. Se riteniamo

che gli interpreti e l'interpretazione siano elementi cruciali nella comunicazione fra

parlanti più dominanti e meno dominanti, allora è necessario analizzare l'evento mediato

nella sua complessità; bisogna cioè valutare i diversi interlocutori per i quali lavora

l'interprete, i diversi contesti interazionali e le limitazioni imposte sul ruolo

interpersonale dell'interprete da tali differenze contestuali. Limitare lo scopo dell'evento

mediato all'accuratezza del contenuto o alla competenza linguistica dell'interprete

permette l'identificazione di regole precise riguardo a ciò che l'interprete dovrebbe o

non dovrebbe fare ma, d'altro canto, crea l'illusione che una volta garantita la

trasmissione dell'informazione sia possibile garantire anche la comunicazione

interculturale, a prescindere dalla situazione e dai partecipanti coinvolti. Ma qual è

allora il vero obiettivo che sostiene “il mito dell'invisibilità”? Gli interpreti accettano

veramente la condizione di essere invisibili e privi di potere? E se così fosse, perchè,

invece di valorizzare il potere che hanno come unici professionisti dell'interazione

interculturale, si dipingono o permettono di essere dipinti come semplici codificatori-

decodificatori linguistici? Ed infine, perchè permettono di essere privati del loro ruolo

di centralità nella comunicazione interlinguistica e interculturale? A questi quesiti si

possono dare varie risposte; secondo Angelelli (2004:22) una possibile spiegazione, che

34

potremmo ricollegare alla metafora meccanicistica di Roy precedentemente descritta,

riguarda la possibilità di prendere le distanze dalle responsabilità derivanti

dall'interpretazione; l'essere invisibili e neutrali consente all'interprete di dissociarsi da

eventuali responsabilità e di appellarsi alla natura prettamente tecnica e meccanica,

perciò imparziale, della loro prestazione. Una seconda spiegazione si riferisce al fatto

che l'invisibilità assicura una certa fiducia nei confronti dell'interprete; la fiducia è un

fattore essenziale per un rapporto così breve come quello che si instaura per esempio fra

un interprete di conferenza e il politico, scienziato, diplomatico o studioso per il quale è

chiamato ad interpretare. La fiducia è determinante anche quando l'interprete si trova a

lavorare in situazioni a forte impatto psicologico ed emozionale (in ambito medico o

giuridico per esempio), nelle quali il cliente si trova a dover accordare fiducia ad un

perfetto sconosciuto: l'interprete. Wadensjö (1998:285-286) fornisce una terza

motivazione al “mito dell'invisibilità” sostenendo che questo consentirebbe agli

interpreti di mostrare una finta devozione nei confronti dei codici di condotta che in tal

modo sarebbero sostenuti solo a parole (“paying lip service to official Codes of

Conduct”) ma smentiti, almeno in parte, dalla reale performance pratica.

The uncompromising defence of the ”just translating” model should perhaps be understood as the

interpreters voicing the credo of an occupational group. As is the case with other so-called liberal

professions, the individual practitioner is responsible before her or his colleagues. The single member

either belongs to the association of professionals and accepts his norms, or is excluded and will be

grouped among the non-serious performers or amateurs. Yet, when experienced interpreters account for

concrete instances of interpreting, it is obvious that they are well aware of the fact that interpreting

involves a complexity of activity. (Ibid.)

Secondo l'autrice, il “mito dell'invisibilità” servirebbe all'interprete come giustificazione

per agire da “non-persona”; l'interprete, quando è chiamato a descrivere il proprio ruolo,

preferisce dichiararsi in linea con l'eventuale codice deontologico esistente, cosciente

dell'importanza e dell'autorevolezza dell'impianto normativo, anche se rischia poi di

cadere in contraddizione una volta che, con registrazioni autentiche alla mano, si

analizza l'effettivo svolgimento della sua professione. Il paradosso che ne emerge è che

gli interpreti professionisti dichiarano di agire da non professionisti (asserendo di

limitare il proprio compito alla mera traduzione linguistica) per essere giudicati

professionisti; una bugia detta sapendo di mentire che, paradossalmente, accrediterebbe

la professionalità dell'interprete. Angelelli nel suo libro “Revisiting the interpreter's

35

role” (2004) elabora un inventario del ruolo interpersonale dell'interprete (IPRI è

l'acronimo di Interpreter's Interpersonal Role Inventory) con l'obiettivo di esplorare le

percezioni che gli interpreti stessi hanno del proprio ruolo. L'IPRI è stato formulato per

misurare la collocazione del ruolo dell'interprete lungo la scala avente per estremi i

concetti di invisibilità vs visibilità. Le cinque componenti della visibilità considerate

dall'autrice (2004:50) sono:

1) alignment with the parties;

2) establishing trust with/ facilitating mutual respect between the parties;

3) communicating affect as well as message;

4) explaining cultural gaps/ interpret culture as well as language;

5) establishing communication rules during the conversation.

L'IPRI è il risultato di un'indagine svolta fra 293 interpreti di U.S.A., Canada e Messico

considerando tutti i contesti e le combinazioni linguistiche disponibili nell'ambito

dell'interpretazione di conferenza, dell'interpretazione di comunità (ambito legale e

medico) e dell'interpretazione telefonica. La ricerca è stata improntata a partire da tre

quesiti principali: 1) se esiste una relazione fra il contesto sociale d'appartenenza

dell'interprete e la sua percezione di visibilità a partire dalle variabili di: età, sesso,

livello d'istruzione, reddito e identificazione col gruppo dominante o col gruppo

subordinato; 2) la collocazione di interpreti operanti in diversi contesti lavorativi

(medico, legale, conferenza) lungo il continuum della visibilità/invisibilità del loro

ruolo; 3) se interpreti operanti in ambiti differenti concepiscono il proprio ruolo in

maniera diversa. I risultati di questo studio hanno evidenziato che gli interpreti

considerano il proprio ruolo visibile in ognuno dei contesti lavorativi analizzati; tale

responso si è rivelato particolarmente importante rispetto a quei gruppi per i quali

inizialmente si ipotizzava una natura invisibile e monologica (l'ambito legale e di

conferenza), anche se gli interpreti del settore medico-sanitario percepiscono il proprio

ruolo come più visibile rispetto agli altri. L'indagine ha poi dimostrato che gli interpreti

ritengono di avere un ruolo visibile sia in interazioni faccia a faccia che non, come nel

caso della comunicazione telefonica. Infine, è emerso che esiste una correlazione fra il

contesto di appartenenza sociale dell'interprete e la sua percezione del ruolo, ma

quest'ultima è determinata dal contesto lavorativo più che dai fattori sociali individuali.

A tal proposito, riportiamo alcune delle risposte collezionate da Angelelli (2004:79)

36

all'interno dei questionari sottoposti agli interpreti selezionati nel campione: “many of

the questions are not applicable to my experience as conference interpreter. I can see my

self giving very different answers with respect to a community interpreting situation. I

am not sure that the two are really comparable communication situations”. Questa

risposta è emblematica dell'importanza del contesto situazionale a conferma che gli

eventi mediati non sono tutti uguali (come affermerebbe la metafora del condotto) e che

gli interpreti stessi riconoscono che le loro opinioni potrebbero differire a seconda di

quale dei loro cappelli stanno indossando nel momento in cui rispondono al

questionario. Lo studio ha inoltre dimostrato quanto il “mito dell'invisibilità” sia

saldamente radicato nell'ideologia professionale, nonostante la dichiarata visibilità del

ruolo confermata dagli intervistati. Molti di loro danno per scontato il concetto di

neutralità-invisibilità come capo saldo del quadro normativo della loro professione ed

alcuni hanno espresso anche un certo fastidio di fronte alle domande che indagavano il

loro posizionamento lungo il continuum invisibilità-visibilità, quasi percependo il

proprio mestiere come trascendente rispetto ad ogni parametro umano: “our work is

serious, and we must be respectful no matter what. Of course we can have feelings – we

are human – but we keep them to ourselves. We are not participants; we are channelling

other people's words and feelings and give our all to do so”. Come mostra questa

risposta, la tensione continua fra il “ruolo normativo” e la “performance del ruolo” è un

elemento ricorrente; gli interpreti vivono cioè una condizione di dualità etica-

professionale; aderire al ruolo prescritto ma anche rendere la comunicazione da un

punto di vista pragmatico e quindi andare oltre la prescrizione del Codice. Come risulta

da altre risposte, la neutralità dell'interprete è plausibile ma non necessariamente

naturale e spontanea, anzi, è qualcosa che l'interprete professionista raggiunge

faticosamente: “A consecutive interpreter, doing political work, has to be very careful to

be neutral” (Ibid.). Anderson (1976:213) afferma, a questo proposito, che dietro la

facciata dell'interprete neutrale, (“the nonpartisan interpreter” che agisce come una

“fedele eco” dei partecipanti primari), si nasconde in realtà una considerevole

manipolazione del contenuto comunicativo a favore della moderazione e della

razionalità; in questo modo, l'interprete neutrale rischia di mistificare il messaggio

originale e di violarne la fedeltà attraverso la mitigazione delle parole più forti e

potenzialmente conflittuali. Inoltre, mentre da una parte, gli interlocutori primari si

37

aspettano di vedere massimizzati i propri status interazionali grazie all'azione

dell'interprete, dall'altra, l'eccessivo distacco dell'interprete neutrale è orientato al solo

risultato dell'interazione, non al raggiungimento degli obiettivi comunicativi delle parti:

“rather than being equally pulled in both directions, he might be pulled in neither (…)

and any outcome would be acceptable to him” (Ibid.). Un'ulteriore considerazione

meritano, poi, i cosiddetti interpreti ad hoc, bilingui privi di competenza e preparazione

professionale, che sono ancor più esposti al rischio di allinearsi con una delle parti e

creare legami che possano compromettere l'imparzialità pretesa dai codici di condotta;

Rudvin (2003:147) descrive questa identificazione fra interprete e cliente col termine

“bonding”:

Bonding, i.e. sympathy, empathy and/or identification, between parties (both service provider-interpreter

and client-interpreter) is a natural process, especially when the client and interpreter come from the same

ethnic group, if that group is a small minority, and especially if it is a persecuted minority.

Mason (1999) e Berk-Seligson (in Pöchhacker and Shlesinger 2002) parlano di “in-

group loyalties”, ossia, di lealtà nei confronti dei membri di uno stesso gruppo etnico-

culturale o “solidarietà culturale” (Garzone 2003), mentre Anderson (1976) parla di

“role overload” e “role conflict”. D'altro canto, però è auspicabile la creazione di un

sano rapporto lavorativo fra i tre partecipanti, “positive bonding” (Rudvin 2003:147),

che consentirebbe di instaurare un'atmosfera di generale fiducia e agio per facilitare lo

svolgersi dell'interazione mediata. Come avverte Rudvin (Ibid.) però, un eccessivo

legame fra i partecipanti rischierebbe di inficiare l'imparzialità dell'interprete e di

aumentare la pressione psicologica che grava su quest'ultimo. Nell'ambito medico e

legale per esempio, l'interprete, anche inconsapevolmente, può compromettere o

danneggiare la comunicazione fra i partecipanti; un legame eccessivamente stretto con

una delle due parti (creare un rapporto d'amicizia, ma anche dispensare consigli o

informazioni di propria iniziativa) potrebbe creare delle aspettative nei confronti

dell'interprete che quest'ultimo non sarebbe poi in grado di soddisfare, se non

commettendo illeciti deontologici. Come argomenta Anderson (1976: 212-213),

l'interprete, per qualsiasi motivo, può scegliere di allearsi con uno dei partecipanti e

divenire il cosiddetto Tertium Gaudens (Simmel 1964)6 della triade interazionale; il

proverbiale “terzo” che gode fra i due litiganti, nel caso in cui l'interprete come uomo 6 Simmel, G. (1964) The Triad in Wolf, K. trans. and ed.The Sociology of Georg Simmel, New York: The Free Press. Citato in Anderson (1976:213-214)

38

nel mezzo tragga un vantaggio personale nello schierarsi con l'uno o l'altro

interlocutore.

L'interprete, come detto finora, ha un potere interazionale notevole e persino maggiore

rispetto a quello dei partecipanti primari; in seguito descriveremo in che modo

l'interprete esercita concretamente questo potere all'interno della comunicazione

partendo dalle strategie della cortesia linguistica, la cosiddetta politeness (Brown and

Levinson 1987), attraverso le quali protegge la propria faccia o quella del proprio

interlocutore, influenzando, come vedremo, la percezione dei co-partecipanti.

2.3 La cortesia linguistica e l'interpretazione

Il comportamento linguistico socialmente appropriato a una data situazione

comunicativa è stato definito da Brown e Levinson (1987) con il termine politeness, il

quale non coincide necessariamente con la scelta del registro formale, ma riguarda più

in generale l'appropriatezza della comunicazione relativamente al livello di familiarità-

conoscenza fra i partecipanti, al livello di formalità, al tipo di situazione, alla relativa età

degli interlocutori e al loro sesso. Le realizzazioni linguistiche della cortesia nelle varie

culture richiamano come regole generali di base il principio di cooperazione di Grice

(1975) e il concetto di “faccia” elaborato da Goffman (1967)7. Il primo, formulato da

Grice (1975) nel quadro di una logica filosofica della conversazione, fu presentato per la

prima volta durante una lezione alla Harvard University nel 1967. Grice (1975: 59)

afferma che gli eventi comunicativi sono “tipici esempi di un comportamento, almeno

in una certa misura, cooperativo; ciascun parlante vi riconosce un intento o una serie di

intenti più o meno comuni o almeno una direzione accettata di comune accordo”.

Postula, pertanto, un principio generale, definito appunto “principio di cooperazione”,

che comprende quattro categorie, quantità, qualità, relazione e modo, ognuna articolata

in un certo numero di massime (Dai un contributo né più né meno informativo di quanto

richiesto, Non dire ciò che ritieni falso, Sii pertinente, Evita oscurità di espressione). Il

secondo concetto cui si ricollega la teoria della cortesia è quello di “faccia”, formulato

da Goffman (1967: 5) e definito dall'autore come:“the positive social value a person

7 Goffman, E. (1967) Interaction ritual: essays on face to face behavior, New York: Doubleday.

39

effectively claims for himself by the line others assume he has taken during a particular

contact”. Per non danneggiare questa immagine pubblica, i parlanti adottano strategie

interazionali che evitano il crearsi di situazioni potenzialmente minacciose per la faccia

(avoidant face-work): ad esempio, le formule di cortesia che accompagnano ordini e

richieste o gli espedienti utilizzati per gestire argomenti delicati o imbarazzanti. Brown

e Levinson (1978) fanno una distinzione fra la cosiddetta “faccia positiva” e la “faccia

negativa”; la prima è l'immagine di sé che ogni individuo reclama e proietta

nell'interazione e che desidera che gli altri apprezzino; la “faccia negativa” riguarda

invece la rivendicazione del proprio territorio e della propria libertà d'azione rispetto

alle imposizioni altrui. Come scrivono Bowe e Martin (2007:27): “The notion of

avoiding conflict or confrontation is an integral element of appropriate language usage,

finding its way into the language of almost all social groups – and it is this that is

generally recognised as “politeness”. Al contrario, nel caso in cui uno dei partecipanti

commetta un atto di minaccia, seppur involontariamente, come nelle gaffes,

“participants try to give accredited status as an incident – to ratify it as a threat that

deserves direct official attention – and to proceed to try to correct for its effects”

(Goffman 1967:19). Nel contesto dell'evento mediato, le strategie di cortesia cui i

parlanti primari ricorrono devono essere decodificate e ricodificate opportunamente

dall'interprete, il quale, oltre a barcamenarsi nella corretta resa di atti potenzialmente

minacciosi o difensivi della faccia dei partecipanti, è anch'egli coinvolto con la propria

“faccia” in qualità di terzo co-parteciapante, visibilmente e attivamente presente. Il

modo in cui gli interpreti non professionisti affrontano la gestione della politeness è

molto significativo delle insidie e della complessità dell'evento mediato. Lo studio sugli

“interpreti naturali” di Harris e Sherwood (in Mason 1999:18) racconta il caso di una

trattativa commerciale fra un immigrato italiano in Canada e un canadese anglofono che

comunicano tramite l'interpretazione della figlia bilingue del primo. I partecipanti

primari si comportano seguendo le proprie norme culturali e quando in un momento

cruciale del negoziato, l'italiano – nel quadro delle proprie aspettative culturali- si

rivolge all'interlocutore dandogli dell'imbecille, la giovane interprete ad hoc, mostra

contemporaneamente una consapevolezza bi-culturale ed un'istintiva mossa di

autodifesa della faccia:

Padre: Digli che è un imbecille!

Figlia (al terzo partecipante): My father won't accept your offer.

40

Ciò che l'interprete non professionista può in questo caso non aver considerato è che

una mossa simile può rivelarsi controproducente. Nel caso specifico infatti, il padre, che

conosce l'inglese abbastanza bene da monitorare almeno in parte la performance della

figlia, obietta immediatamente: “perchè non gli hai detto quello ti ho detto?”,

smascherando così il face-saving act della figlia. Anche Knapp-Patthoff e Knapp

(1987:181-201) si sono occupati approfonditamente della prestazione di interpreti ad

hoc, in particolare riportiamo il caso di una conversazione fra un interlocutore tedesco e

uno coreano mediati da una studentessa coreana di venticinque anni, quest'ultima ha

vissuto in Germania per tre anni ed ha appreso la lingua anche nell'ambito scolastico e

universitario. Come notano gli autori, la mediatrice (termine qui utilizzato per denotare

l'interprete non professionista) in alcune circostanze prende iniziative di proprio conto,

per esempio ricorrendo a strategie volte ad evitare conflitti ed incomprensioni. In

particolare, in merito all'uso delle strategie di cortesia (politeness strategies), si descrive

il comportamento del parlante tedesco che, nel formulare una richiesta all'interlocutore

coreano, mette in atto due tipi di strategie di cortesia per mitigare il potenziale face-

threatening act. Il primo tipo di strategia viene denominata “claiming common ground”,

ossia, l'affermazione di un terreno comune che secondo Brown e Levinson (1978:108):

“occurs by indicating that S and H both belong to the same set of persons who share

specific wants, including goals and values”. Tale strategia consente al parlante di

instaurare un'atmosfera amichevole facendo sembrare l'imposizione meno pesante; il

parlante tedesco, infatti, riconosce gli sforzi dell'interlocutore, afferma di comprendere

la posizione dell'altro e mostra solidarietà nel raccontare che lui stesso si era trovato in

precedenza nella medesima situazione. La rivendicazione di un terreno comune viene

ugualmente espressa in risposta al rifiuto o all'accettazione tramite frasi del tipo: “ah sì,

capisco”, “certo, posso comprendere”, “oh sì, è evidente”. Ciò che emerge con chiarezza

da questo studio, è che la mediatrice sceglie in ogni occasione di non tradurre

linguisticamente la strategia di cortesia adottata dal parlante tedesco. Gli autori

escludono la possibilità che l'interprete non abbia capito o che abbia deciso di non

tradurre per motivi di sensibilità culturale nei confronti del partecipante coreano; anche

in coreano, infatti, la strategia dell'affermazione del terreno comune risulta appropriata.

La seconda strategia utilizzata dal parlante tedesco si configura, poi, come atto di

41

cortesia per mitigare l'impatto conflittuale della sua imposizione sull'interlocutore e

riguarda l'utilizzo di verbi, avverbi ed espressioni modali che attenuano la potenziale

minaccia della faccia; (vielleicht, shon, mal che in italiano corrispondo a “forse”,

“anche”, “solo”). Anche in quest'occasione, la mediatrice non traduce le particelle

modali dal tedesco al coreano, nonostante la lingua coreana presenti opzioni linguistiche

equivalenti. La strategia di cortesia del parlante tedesco viene quindi vanificata dalla

mancata traduzione (zero rendition di Wadensjö 1998) da parte dell'interprete. Knapp-

Patthoff e Knapp (1987) analizzando poi le strategie utilizzate dalla mediatrice,

osservano che quest'ultima è molto più preoccupata di salvare la propria faccia piuttosto

che proteggere quella del partecipante tedesco; emblematiche di questo atteggiamento

sono le frasi: “ciò che gli interessa” o “ciò che vuole sapere” in relazione al parlante

tedesco, che denotano una chiara volontà da parte della ragazza di dissociarsi dalle

parole del parlante primario. Da notare, inoltre, il ricorso alla terza persona singolare

(mentre la norma prescrive l'utilizzo della prima persona) e il conseguente cambio di

footing da recapitulator a mero reporter che scarica la responsabilità dell'enunciato sul

parlante primario, optando deliberatamente per lo stile indiretto. L'allineamento, come

detto in precedenza, è soggetto ad una ri-negoziazione costante da parte dei co-

interlocutori e anche l'interprete, come soggetto partecipante, oscilla fra i vari ruoli di

ricezione a disposizione. In conclusione alla loro analisi sulla performance

dell'interprete non professionista, gli autori affermano: “This strongly suggests that she

regards her role as that of an independent, active party in the interaction, who too, has a

face to lose”. (1987:199)

Anche nell'ambito dell'interpretazione legale, è stato dimostrato che a volte l'interprete

utilizza strategicamente gli strumenti linguistici della cortesia per salvaguardare la

propria “faccia”; Berk-Seligson (in Pöchhacker and Shlesinger 2002:281) sostiene che il

caso più frequente di ricorso deliberato alla politeness da parte dell'interprete si registra

nella fase in cui i deputati sono chiamati a rispondere alle domande del giudice;

trattandosi prevalentemente di domande del tipo sì/no, quando l'imputato risponde con

un semplice “Yes” o “No”, spesso l'interprete risponde “Yes, sir” o “No, sir” rendendo

la risposta più cortese. Come si chiede l'autrice:

The question is whether the politeness she is striving for is for the defendant's sake or for her own. Court

interpreters, particularly those employed fulltime in a courthouse, are highly sensitive to the fact that they

42

are employees of the court, and that they are expected to act just as obsequiously before the judge as any

lawyer, defendant, or clerk. (Ibid.)

In questo caso, l'interprete difende la propria faccia e mostra anche un certo grado di

parzialità in quanto maggiormente schierato con l'istituzione che rappresenta, piuttosto

che impegnato a mantenere una posizione equidistante fra le parti. Mason (1999)

concorda nel riconoscere che anche la faccia dell'interprete è coinvolta nell'evento

mediato:

Interpreters are keenly aware of threats to face and adopt politeness strategies aimed at protecting their

own or their addressee's face: downtoning or hedging; introducing conventional apologies. (Mason

1999:13)

Susan Berk-Seligson (Ibid.), inoltre, ha condotto uno studio empirico che evidenzia

quanto gli interpreti in sede processuale possano influenzare la percezione dei giurati

riguardo alle dichiarazioni dei testimoni. L'uso del linguaggio durante il processo, e in

particolare il ricorso alle strategie di cortesia, è un'arma di notevole importanza. Come

emerge dall'analisi sociolinguistica dell'autrice, in questo contesto il modo col quale si

formula un enunciato può essere tanto significativo quanto il suo contenuto

proposizionale. L'indagine parte dalla consapevolezza che la reazione di un individuo

alle parole del suo interlocutore può variare a seconda di alcune caratteristiche

sociolinguistiche quali l'impiego di un varietà dialettale, il tono della voce, l'età, il sesso

ecc. Il metodo selezionato per condurre l'esperimento è quello della cosiddetta “matched

guise technique”, l'indagine sperimentale utilizza, infatti, due registrazioni audio (in cui

un testimone spagnolo viene tradotto all'inglese da un interprete) che sono identiche tra

loro in ogni dettaglio salvo una sola eccezione: nella prima versione l'interprete traduce

dallo spagnolo all'inglese ogni istanza del vocativo di cortesia señor-sir che ricorre negli

enunciati prodotti dal testimone; nella seconda versione, invece, l'interprete omette di

tradurre il vocativo di cortesia. I giurati fittizi chiamati a giudicare il testimone sono

stati selezionati per formare un campione rappresentativo dal punto di vista

sociolinguistico8 ed è stato chiesto loro di fingersi membri della giuria e fornire le loro

8 Il campione che ha partecipato all'esperimento è costituito da 551 persone, in maggioranza provenienti dall'area di Chicago e Pittsburg; il 55% è rappresentato da donne e il restante 44% da uomini; l'età media si aggira intorno ai 27,3 anni; dal punto di vista del livello d'istruzione, il 55% del campione è formato da individui in età scolastica e il restante 45% da persone già inserite nel mondo del lavoro, il 29% degli intervistati non ha più di 12 anni di istruzione scolastica alle spalle (cioè ha frequentato solo la scuola superiore); in merito, poi, all'identità etnica, il campione è così composto: 52,3% anglo-americani,

43

impressioni sul testimone. Ad ogni partecipante è stato sottoposto un questionario con

quattro aggettivi ognuno dei quali misurabile attraverso una scala di sette punti (da 1 a

7): convincente, competente, intelligente e attendibile. L'ipotesi di partenza, era che la

manifestazione della cortesia linguistica nella dichiarazione del testimone potesse avere

qualche impatto sulle impressioni dei giurati e i risultati emersi hanno ampiamente

confermato la tesi iniziale. La differenza fra i valori medi dei 4 attributi relativi alla

prima versione (polite version) rispetto ai valori medi della seconda (non-polite version)

si è rivelata statisticamente significativa per ognuno dei quattro aggettivi. Come

conclude Berk-Seligson (Ibid.), si possono trarre due riflessioni finali da questo

esperimento:

First, even though politeness has been considered to be one of the characteristics of powerless testimony

style, and hence should have a negative impact on jurors, this study finds that just the opposite is true:

politeness gives a witness an enhanced image. Second, what has made the difference between one version

and another is the role played by the interpreter.

Dal momento che il testimone spagnolo risponde esattamente nella stessa maniera in

entrambe le versioni, lo studio di Berk-Seligson dimostra che è solo ed esclusivamente

l'interprete a determinare la differenza nella valutazione dei giurati. Ancora una volta,

l'interprete non solo è attivamente coinvolto e visibile all'interno dell'interazione

mediata, ma è anche una figura determinante dell'andamento della comunicazione

interlinguistica e interculturale. Come ha evidenziato il caso presentato, la sola assenza

del vocativo “signore” (sir) in risposta alle domande dell'avvocato è sufficiente per

suscitare una valutazione più negativa da parte della giuria. Un'omissione

apparentemente irrilevante, che l'interprete ha il potere di gestire sapientemente, ma che

può modificare la reazione dell'interlocutore. Da notare poi, che questa manipolazione

della reazione, se in ambito processuale, ha certamente conseguenze assai più

consistenti che nel contesto di una informale conversazione faccia a faccia.

Nell'esperimento considerato, le strategie della cortesia linguistica hanno consentito di

modificare la valutazione del testimone accrescendo o diminuendo il suo grado di

persuasione, competenza, intelligenza e attendibilità agli occhi della giuria. Come

abbiamo detto in precedenza, la politeness o cortesia linguistica si può esprimere

39,4% ispanici, 6,75 afro-americani, 7% orientali, 0.4% nativi indiano-americani (ecc). (Berk-Seligson 2002:283)

44

attraverso vari strumenti linguistici e paralinguistici; nel caso sopra citato, la cortesia è

resa esplicita dal vocativo “sir”, ma ci sono molti altri modi di esprimere la cosiddetta

negative politeness nei confronti della “faccia negativa” dell'interlocutore (espressioni

che esprimono deferenza, formalità, scuse convenzionali ecc.). La complessità delle

relazioni soggiacenti l'interazione mediata è molto più grande di quanto si possa credere

a primo acchito e dagli esempi riportati finora si è dimostrato quanto il ruolo

dell'interprete sia centrale e condizionante. La tradizionale visione meccanicistica

dell'interprete come convertitore automatico della lingua è poco a poco smentita e

smontata dagli esempi offerti dai vari studiosi che si sono interessati a questo tema; a

proposito dell'azione visibile dell'interprete nell'interscambio comunicativo, possiamo

osservare la visibilità dell'interprete proprio a partire dalla sua produzione testuale.

2.4 Decidere cosa e come interpretare

Se adottiamo la prospettiva del “ruolo normativo”, dobbiamo, o dovremmo aspettarci

che l'interprete traduca fedelmente ed integralmente l'enunciato originale dalla lingua1

alla lingua2, conditio sine qua non della professione stessa come prescrivono i codici e

la letteratura. Se invece partiamo dalla “performance del ruolo”, cioè adottiamo una

prospettiva pragmatica e osserviamo l'effettiva prestazione dell'interprete sul campo, ci

renderemo conto, ancora una volta, della discordanza fra ciò che è e ciò che si pensa

dovrebbe essere. A questo proposito, Wadensjö (1998:106-108) propone una tassonomia

dei tipi di interpretazione (types of renditions):

1) close renditions, “interpretazioni strette”: il contenuto proposizionale

dell'interpretazione è uguale a quello dell'enunciato originale e lo stile dei due enunciati

coincide;

2) expanded renditions, “interpretazioni ampliate”: l'informazione è espressa più

esplicitamente rispetto all'originale;

3) reduced renditions, “interpretazioni ridotte”: l'informazione è espressa meno

esplicitamente rispetto all'originale;

4) substituted renditions, “interpretazioni sostituite”: consistono nella

combinazione di un'interpretazione ampliata e una ridotta;

45

5) summarized renditions, “interpretazioni riassunte”: il testo corrisponde a due o

più enunciati originali, in alcuni casi possono comprendere parti di due o più enunciati

originali appartenenti ad uno stesso interlocutore; in altri casi, corrispondono a due o più

enunciati proferiti da individui diversi; a volte, l'enunciato prodotto dall'interprete e un

enunciato originale possono fornire insieme il contenuto proposizionale di una

successiva “interpretazione riassunta”;

6) two part or multi-part renditions, “interpretazioni di due o più parti”: sono

definite da due enunciati prodotti dall'interprete corrispondenti ad un enunciato

originale, quest'ultimo viene separato in due parti da un altro enunciato originale

frapposto di cui però non viene tradotto il contenuto nell'interpretazione;

7) non-renditions, “non interpretazioni”: il testo si può considerare iniziativa o

reazione dell'interprete senza una corrispondenza (in termini di traduzione) ad un

enunciato originale precedente;

8) zero renditions, “interpretazioni nulle”: quando gli enunciati originali non

vengono tradotti

Contrariamente a quanto prescriva la norma, la produzione testuale dell'interprete può

presentare varie forme a dimostrazione della complessità del sistema turnazionale

dell'evento mediato e della strategia interpretativa selezionata dall'interprete di turno in

turno. Stando alla prescrizione di codici e studiosi, l'interprete dovrebbe produrre il

proprio turno dopo ogni enunciato di un partecipante primario e questo dovrebbe

configurarsi come “copia” del messaggio in lingua1 ricodificato nella lingua2 secondo il

seguente schema (dove DI sta per dialogue interpreter, P per professionista e S per

straniero che si rivolge all'istituzione o struttura del paese ospitante):

P: Enunciato 1 (nella lingua maggioritaria – di P )

DI: Enunciato 1' (= interpretazione di E1 nella lingua straniera)

S: Enunciato 2 (nella lingua straniera di S)

DI: Enunciato 2' (= interpretazione di E2 nella lingua di P)

P: Enunciato 3 (nella lingua di P)

DI: Enunciato 3' (=interpretazione di E3 nella lingua di S)

ecc.

La tassonomia proposta da Wadensjö (1998) risulta dall'analisi di un corpus di dati

autentici che l'autrice ha registrato nel reparto immigrazione di una stazione di polizia

46

svedese, tale classificazione smentisce la regolarità del precedente schema di

riferimento e mostra la varietà di interpretazioni che possono essere prodotte di volta in

volta nella pratica dell'interpretazione. Le “interpretazioni ampliate” aggiungono

esplicitamente informazione a ciò che è espresso nell'enunciato originale; queste

solitamente servono per specificare e disambiguare il significato referenziale e

interazionale di un determinato enunciato originale ma, come asserisce Wadensjö

(1998), aggiungere elementi informativi all'originale può significare esporre la

comprensione del messaggio iniziale ad una più ampia serie di opzioni interpretative

che possono rendere più complessa la ricezione dell'enunciato originale. Altre volte, le

“interpretazioni ridotte” rischiano invece di togliere chiarezza, almeno in parte, al

significato referenziale ed interazionale dell'originale; nemmeno le cosiddette

“interpretazioni strette” o fedeli, però, sono avulse da problematiche interpretative e, in

alcune occasioni, la traduzione letterale del messaggio originale può essere causa di

discrepanze di significato dovute alle differenti convenzioni culturali degli interlocutori

primari.

Procedendo con la classificazione di Wadensjö, troviamo poi le “interpretazioni

sostituite”, ovvero, interpretazioni più complesse nelle quali l'informazione è resa più

esplicita rispetto all'enunciato iniziale comprendendo a volte ampliamenti e riduzioni

allo stesso tempo; una tendenza abbastanza frequente in questo tipo di interpretazioni è

l'aprire il turno con l'informazione data per ultima nell'enunciato originale, in questi casi

l'interprete memorizza e ripristina l'informazione con ordine inverso provocando così

uno spostamento di enfasi da un punto all'altro del messaggio. Nel caso poi delle

“interpretazioni riassunte”, l'interprete produce una versione compendiata di più

enunciati originali emessi da uno o più individui. A questo proposito, l'autrice distingue

fra off-the-record e on-the-record talk, ossia, fra conversazioni ufficiose e conversazioni

ufficiali; nel contesto dell'evento mediato, anche l'interprete è un potenziale

interlocutore di conversazioni ufficiose che può cominciare di propria iniziativa (ad

esempio per chiedere chiarimenti ad uno dei clienti) o nelle quali può trovarsi coinvolto

per volere di una delle due parti (quando uno dei partecipanti si rivolge direttamente

all'interprete dando origine ad uno scambio fra i due che non verrà tradotto all'altro

partecipante primario).

Un'altra dimensione di analisi del comportamento dell'interprete riguarda la dicotomia

47

contributo esplicito vs. contributo implicito. Normalmente l'interprete controlla

implicitamente lo scambio comunicativo attraverso la propria produzione testuale e

attraverso il tipo di interpretazione che produce, così, implicitamente anche la traiettoria

tematica dello scambio risulta condizionata dell'intervento dell'interprete. Esempi di

contributi espliciti da parte dell'interprete si hanno, invece, in caso di richieste di

chiarimenti e commenti riguardanti l'enunciato del parlante precedente; in questi casi

viene prodotta una sequenza monolingue fra l'interprete e uno dei partecipanti primari

escludendo temporaneamente l'altro partecipante primario dalla conversazione.

L'interprete può infatti sollecitare uno dei co-interlocutori a fornire “meta-commenti” in

merito al significato di ciò che quest'ultimo vuole esprimere, a ciò che non ha capito o

alle sue intenzioni comunicative. Roy (2000) definisce l'interprete di comunità come un

“poliziotto della comunicazione” (communication cop), in quanto unico individuo

bilingue nel contesto enunciativo, l'interprete è l'unico partecipante che conosce il ritmo,

il tempo e le pause fra le sequenze comunicative delle lingue in oggetto e in definitiva,

detiene il ruolo di responsabile della gestione del “traffico comunicativo”. Anche

Wadensjö (In Pöchhacker e Shlesinger 2002:367-368), riguardo alla complessità del

ruolo svolto dall'interprete, conclude:

On a macro-sociological level, there is a duality inherent in the function of a dialogue interpreter already

in that she, in a sense, exhibit both service and control. (…) The Dialogue Interpreter on duty in

conversation is constantly confronted with assessing how, and by whom, interlocutors intend their

utterances to be understood. In the course of interaction, the Dialogue Interpreter at work, more or less

consciously, evaluates interlocutors' speakership and listenership.

Tornando alla teoria di Goffman (1981), possiamo affermare che l'interprete è co-

fautore e co-costruttore del “quadro partecipativo” dell'evento mediato in quanto

condiziona e controlla lo status partecipativo degli interlocutori principali; in altre

parole, l'interprete si occupa contemporaneamente di mediare e coordinare la

comunicazione fra i parlanti coinvolti.

Oltre ai tipi di interpretazione che l'interprete può deliberatamente scegliere di produrre,

un'ulteriore prova della sua visibilità e della sua azione è data dal modo col quale i

partecipanti primari si rivolgono a quest'ultimo nell'interscambio mediato. Un aspetto

rivelatore delle dinamiche interazionali che si sviluppano durante l'evento mediato è

costituito, infatti, dal modo in cui i partecipanti primari comunicano fra di essi, se cioè

48

parlano direttamente l'uno all'altro come se non fossero presenti barriere linguistiche fra

di loro, oppure se si rivolgono all'interprete sia da un punto di vista paralinguistico

(indirizzando lo sguardo e il linguaggio corporale nella sua direzione) che propriamente

linguistico (in particolare considerando la deissi personale: pronomi di persona,

appellativi, forme verbali). L'analisi della deissi personale è fondamentale per

comprendere il ruolo dei partecipanti all'evento comunicativo e la loro relativa

posizione all'interno dell'interazione. Da una parte il partecipante primario potrebbe dire

“penso che...” oppure, rivolgendosi direttamente all'interprete: “Gli riferisca che penso

che...”; analogamente, l'interprete può utilizzare la prima persona, fingendo di parlare al

posto del parlante primario, oppure rendere il messaggio originale in terza persona, es.

“ha detto che...”. Come afferma Garzone (2003.103), generalmente si può dire che

“citare”, presentare cioè l'enunciato nella stessa forma grammaticale nella quale è stato

formulato (attraverso il discorso diretto), è preferibile rispetto al “riportare” in quanto

permette di prevenire tutte quelle distorsioni che derivano dal trasformare il discorso

diretto in discorso indiretto. La letteratura e i codici di condotta professionale esistenti

prescrivono l'utilizzo della prima persona singolare nell'interpretazione ma, ancora una

volta, la pratica spesso contraddice tale prescrizione, soprattutto nel caso di interpreti

che si improvvisano tali, ma anche nel caso di interpreti professionisti quando, per

esempio, l'interprete decide di proteggere la propria faccia e distanziarsi da un enunciato

potenzialmente conflittuale. Dallo studio che Berk-Seligson (in Pöchhacker 2002) ha

condotto sull'interpretazione legale (detta anche interpretazione giudiziaria o di

tribunale) è emerso che la maggior parte dei testimoni che durante il processo depone

tramite un interprete, poco dopo l'inizio dello scambio mediato, inizia a rispondere

direttamente all'interprete, come se fosse quest'ultimo a porre le domande, piuttosto che

rispondere all'avvocato che effettivamente le ha formulate. Questo comportamento si

riflette a sua volta in due atteggiamenti frequenti: il primo è legato allo sguardo. Nel

rispondere alla domanda, infatti, l'interrogato mantiene il contatto visivo non con

l'avvocato ma con l'interprete; il secondo riguarda le forme di cortesia linguistica che

spesso corrispondono al sesso dell'interprete piuttosto che a quello dell'avvocato.

Quest'ultimo caso è evidente quando l'interprete è donna e l'avvocato uomo, o viceversa.

Come puntualizza la studiosa (Ibid.), negli eventi mediati in ambito legale, è necessario

che l'imputato si rivolga direttamente all'avvocato o al giudice e bisogna evitare che si

49

rivolga all'interprete come persona. In ogni caso, di frequente accade l'esatto contrario e

nell'eventualità di una discordanza fra il genere utilizzato dall'imputato e quello

dell'avvocato che lo interroga, l'interprete ha la possibilità di scegliere fra le seguenti

alternative: 1) interpretare letteralmente la forma allocutiva con il rischio di creare

qualche imbarazzo; 2) tradurre la forma allocutiva non correttamente ma in modo tale

che il genere dell'espressione linguistica corrisponda al sesso dell'avvocato; 3) eliminare

la forma allocutiva dall'interpretazione (esempio di zero-rendition); 4) sollevare il

problema davanti al giudice o avvocato. Secondo l'analisi di Berk-Seligson

(Ibid.2002:281), la seconda e la terza opzione sono le più frequenti e la discordanza

delle forme allocutive nel contesto dell'interazione mediata porterebbe ad alcune

conclusioni significative:

even though ideally the interpreter is supposed not to have her own persona in the proceeding, in fact she

is spoken to directly by the witnesses (…) and she often is addressed by lawyers and judges, even though

she is there merely to be a medium through which court officials can communicate with the non-English

speaking and hearing impaired.

In questo capitolo, abbiamo raccolto gli aspetti salienti della partecipazione attiva

dell'interprete all'evento mediato. Partendo dalla metafora meccanicistica dell'interprete

come canale comunicativo strumentale alla comunicazione interlinguistica ma invisibile

dal punto di vista interazionale, abbiamo poi raccolto i risultati emersi dalle analisi di

alcuni fra i maggiori studiosi di questo campo evidenziando quanto il ruolo

dell'interprete sia visibile, presente, condizionante, attivo e decisivo nel contesto

interazionale. L'interprete presente come persona, come partecipante a tutti gli effetti,

nella pratica gode di uno status interazionale estremamente potente, seppur in modo

implicito e a volte inconsapevole. L'interpretazione di comunità sulla quale si focalizza

il presente lavoro, si svolge in un contesto comunicativo molto interessante dal punto di

vista del ruolo detenuto dall'interprete; il contesto istituzionale di riferimento (il

tribunale, l'ospedale, l'ufficio immigrazione ecc.) presenta infatti alcune peculiarità

rispetto all'asimmetria dei ruoli conversazionali e allo “schema” interazionale che viene

a crearsi. Barlett (1982)9 propone il termine schemata per descrivere l'insieme di

conoscenze ed esperienze che l'individuo immagazzina all'interno di strutture mentali le

quali determinano le sue aspettative, il suo modo di concepire i ruoli, le responsabilità e

9 Barlett, F. C. (1982) Remembering. Cambridge: CUP citato in Knapp et alii. (1987:115)

50

le relazioni e attraverso le quali definisce ciò che ritiene importante e tipico. Nella

comunicazione interlinguistica e interculturale, il rappresentante dell'istituzione e il

cliente hanno generalmente schemi di riferimento divergenti e l'interprete assume il

ruolo di mediatore o gate-keeper (Erickson and Shultz 1982; Wadensjö 1998). Il quadro

istituzionale stabilisce a priori cosa ci si attende dall'interazione e cosa è o non è

opportuno fare durante la stessa; in questo contesto, il risultato dell'incontro dipende dal

modo in cui la parte di status inferiore (il cliente, paziente, l'immigrato ecc.)

padroneggia la forma di comunicazione propria dei contesti istituzionali-burocratici del

paese ospitante, ma dipende anche dall'abilità mediatrice dell'interprete e dalla sua

capacità e volontà di considerare la prospettiva dell'altro. Nel prossimo capitolo,

analizzeremo più dettagliatamente le caratteristiche della conversazione mediata e in

particolare della gestione (gate-keeping) conversazionale da parte dell'interprete.

CAPITOLO 3

L'INTERPRETE E LA GESTIONE DELLO SCAMBIO INTERAZION ALE

Come anticipato precedentemente, un aspetto costitutivo dell'evento mediato nell'ambito

dei servizi sociali è la sua natura dialogica e in questa sezione ci soffermeremo sulle

caratteristiche di ciò che Mason (1999:147) definisce: “interpreter-mediated

communication in spontaneous face-to-face interaction”.

Innanzitutto, è opportuno fornire una breve descrizione di ciò che si intende per parlato

dialogico per poi confrontarlo con un particolare tipo di parlato dialogico che è,

appunto, quello mediato dall'interpretazione nel contesto dei servizi sociali.

51

3.1 La natura dialogica dell'interpretazione di comunità

In primo luogo, il parlato è una delle due “strategie d’uso della lingua” (Bernardelli /

Pellerey 1999:54) insieme alla modalità scritta. Poiché la lingua scritta e la lingua

parlata vengono impiegate in contesti comunicativi diversi, queste due modalità

presentano differenze notevoli. Da una parte, il testo scritto che si fonda su un progetto

e su una elaborazione più accurati, dall’altra, il testo parlato che viene pianificato nel

momento stesso dell’enunciazione e che, di conseguenza, è ricco di pause, segnali

discorsivi, riformulazioni, esitazioni e ripetizioni. Carla Bazzanella (1994:14) individua

tre macro-tratti situazionali che caratterizzano il parlato canonico:

1. il mezzo fonico-acustico;

2. un contesto extralinguistico comune;

3. la compresenza di parlante e interlocutore/i (ibid.)

Strettamente collegati al tipo di mezzo sono l’immediatezza e l’irreversibilità del testo

parlato; l’elaborazione di quest’ultimo avviene in tempo reale e, data la minima

possibilità di pianificazione, il discorso viene continuamente modificato rispetto al

progetto iniziale, il parlante cioè svolge un continuo lavoro di aggiustamento del proprio

intervento nel corso del turno. Il testo parlato è inoltre irreversibile, non è possibile

cancellare ciò che è già stato pronunciato e l’unico escamotage di cui il parlante dispone

è la “ritrattazione” (Bernardelli / Pellerey 1999:56). L’evento comunicativo, in quanto

unico e irripetibile data la sua evanescenza, fa sì che l’ascoltatore non solo non possa

valutare con calma e a propria discrezione ciò che già è stato detto, ma costringe anche

l’ascoltatore a seguire il ritmo d’enunciazione selezionato da chi detiene il turno di

parola. Il secondo macro-tratto situazionale riguarda la presenza degli interlocutori nel

medesimo contesto comunicativo e determina la coincidenza fra tempo di codifica e

tempo di ricezione10; la compresenza degli interlocutori (terzo macro-tratto) determina,

infine, la possibilità di feed-back, ossia la possibilità del parlante di verificare durante lo

svolgersi del proprio turno, la reazione dell’interlocutore “che può dimostrare in vari

modi il suo accordo o disaccordo” (Bazzanella 1994:20); privilegio questo di cui

l’autore di un testo scritto non gode, almeno non nelle immediate circostanze dalla

produzione testuale. L'evento mediato, nonostante mantenga la struttura dialogica della 10 Nel caso dell'evento mediato, la coincidenza fra tempo di codifica e tempo di ricezione sarà valida per gli scambi monolingui fra partecipante primario e interprete.

52

conversazione, presenta alcune caratteristiche divergenti rispetto al parlato dialogico

canonico proprio per la presenza dell'interprete che, in linea di principio, occupa ogni

turno dopo l'enunciato di uno dei parlanti primari. I partecipanti primari, non parlano

direttamente l'uno all'altro ma comunicano tramite l'interprete; questa comunicazione a

tre si sviluppa su due livelli e il flusso comunicativo mediato dall'interprete si biforca:

da una parte, lo scambio comunicativo professionista-interprete, dall'altra lo scambio

cliente-interprete:

although the content of the turn originates from each primary participant, the turns acually takes place

between each speaker and the interpreter. The interpreter participates by managing simultaneous talk,

pauses and lags, and turn-taking for other turns. (Roy 2000:7)

Come vedremo, l'intervento frapposto dell'interprete si ripercuote sull'immediatezza del

parlato dialogico, influenzando il sistema dei turni e la funzione di segnali discorsivi,

back-channels ed altri elementi interazionali. Generalmente, l'interprete di comunità

produce il proprio turno di interpretazione appena il cliente ha terminato di parlare, poi

ascolta l'intervento del secondo cliente e lo traduce al primo. La lunghezza del turno

detenuto dal partecipante primario può variare e non esiste una misura precisa, in ogni

caso, il criterio fondamentale è quello di consentire ai parlanti di esprimersi liberamente

secondo il proprio ritmo e la propria velocità. Nella maggior parte dei casi, ciò significa

lasciare che i partecipanti completino il proprio commento o la propria domanda senza

interruzione e poi interpretare l'enunciato originale con un ritmo solitamente più veloce

rispetto al primo. Come spiega Rudvin (2003:175) a proposito dell'interpretazione fra

medico e paziente, la lunghezza dell'enunciato può essere fortemente condizionata dalla

situazione comunicativa stessa:

the length of speech sequence varied greatly, also because the interpreter was sensitive to the patient's

reactions/state of mind -i.e. when the patient was crying the interpreter would not interrupt but allow her

to finish speaking before translating, so the length of turns was directed by the patient's emotional state,

without necessarily being conscious of what she was doing.

In questo caso, Ahlberg11 parla di “comunicazione personale” , nella quale la gestione

del sistema turnazionale dipende ampiamente dalla sensibilità dell'interprete coinvolto.

La frammentazione del flusso comunicativo, spezzato più o meno regolarmente dal

11 Ahlberg, N., (2000) “No five fingers are alike.” What exiled Kordish women in therapy told me, Oslo, Solum. Citato in Garzone/Rudvin 2003:175.

53

turno di interpretazione, fa sì che i partecipanti primari abbiano più tempo a

disposizione per elaborare il proprio intervento; in questo modo viene alterato uno dei

tratti tipici del parlato dialogico individuati da Bazzanella (1994), ossia, la mancanza di

pianificazione dovuta allo svolgersi della comunicazione in tempo reale. Da un punto di

vista temporale, l'immediatezza dello scambio viene meno, si parla appunto di

comunicazione “mediata” dalla presenza dell'interprete e, come scrive Wadensjö

(1998:235): “primary interlocutors may sometimes utlize the “pauses”- when the

interlocutor talks in the unknown language- to reflect upon how to act next”. Gli

interlocutori primari, a differenza di quanto accade nella conversazione canonica, non

sono costretti a seguire il ritmo d'enunciazione l'uno dell'altro, ma devono adeguarsi al

ritmo d'enunciazione del loro interlocutore diretto che è l'interprete; come si dirà in

seguito, anche la possibilità di feedback è modificata, e a volte, compromessa, dalla

partecipazione dell'interprete. Proseguendo con l'analisi del parlato dialogico;

Bazzanella (1994:21-7) associa ai macro-tratti situazionali i corrispettivi linguistici, qui

di seguito riassunti. Al mezzo fonico-acustico corrispondono: frammentarietà della

costruzione del discorso; stile nominale; dislocazioni e topicalizzazioni, frasi scisse;

ellissi e brachilogie; prevalenza di paratassi sull’ipotassi12; cambiamenti di

pianificazione autoindotti, anacoluti; bassa coesione testuale; esitazioni, pause; uso di

connettivi semantici polivalenti; lessico generico; ripetizioni; segnali discorsivi. Al

contesto extra-linguistico comune corrispondono: autocorrezioni; parafrasi; particelle

modali o hedges; tendenza alla ridondanza e ampio uso di deittici. Infine, i corrispettivi

linguistici del terzo macro-tratto situazionale (compresenza di parlante e interlocutore/i)

sono: la deissi (in genere), uso frequente di fatismi; ampio uso di strategie di cortesia;

forte presenza di pronomi di prima persona; cambiamenti di pianificazione indotti

dall’esterno; discorsi simultanei ed interruzioni; segnali discorsivi di conferma o di

disconferma; maggior livello di implicitezza. Nel caso della comunicazione dialogica

mediata, sono soprattutto i corrispettivi linguistici associati al primo macro-tratto (il

mezzo fonico-acustico) a presentare delle discordanze: il turno prodotto dall'interprete

risulta essere infatti più “pulito” rispetto all'originale, proprio perchè ne costituisce una

12 La prevalenza, nel parlato dialogico, di paratassi sull’ipotassi è un aspetto molto dibattuto; in particolar modo, Miriam Voghera ha dimostrato più volte che il parlato conversazionale manifesta un grado abbastanza alto di ipotassi e le sue più recenti conclusioni sono che l’opposizione paratassi/ipotassi non è un tratto che globalmente differenzia scritto e parlato. Per un approfondimento si rimanda a Voghera (1992).

54

riproduzione nella lingua2:

a mediator has to process the turn of a speaker before he or she mediates it. This processing among other

psycholinguistic processes may include a reordering of content elements, deletions of elements that are

irrelevant for rendering a speaker's communicative intention, e.g. repetitive paraphrases within a turn.

(Knapp-Patthoff and Kanpp 1987:195)

Gli aspetti pragmatici, poi, detengono un’importanza particolare nella conversazione,

basti pensare agli elementi della deissi e alle “presupposizioni” e “implicature”13

(Levinson 1985:289) che derivano dal contesto enunciativo stesso: “questo tipo di

interazione, che è stato definito “parlato-parlato”, contiene la massima verbalità

implicita, vale a dire, gran parte del significato dipende dalla situazione”. (Dardano:

1996:203)14 In quanto alla situazione discorsiva, ci sono differenti tassonomie circa le

possibili classificazioni delle modalità conversazionali15, Zorzi propone la seguente:

Nell’ambito della conversazione si possono grossolanamente individuare tre larghe sezioni. Innanzi tutto

gli incontri in cui i diritti dei partecipanti sono dati a priori e, in gran parte dipendono dall’asimmetria dei

ruoli posizionali […]. Una seconda sezione riguarda incontri in cui i partecipanti hanno ruoli

complementari, ad esempio gli incontri di servizio o le interviste. In questi scambi verbali certi compiti

sono determinati a priori […]. Questa divisione è costitutiva dell’incontro stesso, consentendo di

identificarlo come tale. Una terza sezione riguarda la conversazione nella sua accezione comune: le

quattro chiacchiere informali senza una previa pianificazione degli argomenti da trattare e con pari diritto

di intervento dei partecipanti. (Zorzi 1990:7)

13 “La presupposizione è un tipo di inferenza pragmatica che, rispetto all’implicatura, sembra dipendere più strettamente dall’effettiva struttura linguistica delle frasi”. (Levinson 1985:175) Secondo la definizione proposta da Givón (1979:50 cit. in Brown / Yule 2001:29): “[presupposition is] defined in terms of assumptions the speaker makes about what the hearer is likely to accept without challenge”. [T. Givón (1979). On understanding grammar. New York, Academic Press.] La nozione di implicatura , invece, spiega come sia possibile intendere (in senso generale) più di quanto si dice effettivamente; ad esempio: A: sai che ore sono? B: mah, è già passato il lattaio… (Levinson 1985:109) Per un approfondimento si veda H. P., Grice (1975). Logic and conversation. In P. Cole / Morgan, J.L. (1975). Syntax and Semantics 3: Speech Acts. New York, Academic Press, pp. 41-58. 14 M., Dardano (1996). Manualetto di linguistica italiana. Bologna, Zanichelli. 15 De Mauro et alii, come cita Bazzanella (1994:81), individuano cinque gradi di naturalezza:

1) scambio bidirezionale faccia a faccia con presa di parola libera (conversazione in tutte le sue possibili forme);

2) scambio bidirezionale non faccia a faccia con presa di parola libera (conversazioni telefoniche); 3) scambio bidirezionale faccia a faccia con presa di parola non libera (dibattiti, interviste,

interrogazioni ecc.); 4) scambio unidirezionale in presenza di destinatario/i (lezioni, conferenze, omelie, comizi ecc.); 5) scambio unidirezionale o bidirezionale a distanza (trasmissioni radiofoniche e televisive). [Tullio De Mauro / Federico Mancini / Massimo Vedovelli / Miriam Voghera (1993). Lessico di frequenza dell’italiano parlato. Milano, Etaslibri]

55

Nel prosieguo di questo lavoro osserveremo che il tipo di conversazione ha importanti

ripercussioni sul sistema turnazionale e in particolar modo sul sistema di allocazione dei

turni di parola; come si può facilmente intuire l’asimmetria dei ruoli posizionali, tipica

degli eventi mediati nell'ambito dei servizi sociali, influisce sulla possibilità e sulle

modalità di presa del turno, è infatti il partecipante che rappresenta l'istituzione la figura

che detiene il maggior potere interazionale e, come vedremo, l'interprete gioca un ruolo

fondamentale nella regolazione del meccanismo di turnazione. Dalla natura dei ruoli

posizionali dipendono i diritti dei partecipanti, vale a dire la possibilità per i partecipanti

di prendere iniziative paritarie (il diritto, ad esempio, di fare domande, di scherzare, di

interrompere, di cambiare argomento ecc.); si vedrà quindi come in una situazione di

asimmetria dei ruoli l’avvicendamento dei turni segua regole diverse e imponga ai

parlanti diritti d’intervento non paritari mente l'interprete svolge il ruolo di gate-keeper

del flusso comunicativo.

3.2 L’analisi della conversazione: il metodo

Esistono diversi modelli teorici per affrontare lo studio della conversazione, questi si

possono distinguere in due tipi principali: l’analisi del discorso e l’analisi della

conversazione. L’approccio cui si farà riferimento in questo lavoro è il secondo.

Entrambe le analisi mirano a fornire una spiegazione del modo in cui avviene la

produzione e la comprensione del discorso, tuttavia differiscono nei metodi adottati che,

in gran parte, secondo alcuni autori, risulterebbero incompatibili. Come scrive infatti

Levinson, le procedure utilizzate dall’analisi del discorso (AD) sarebbero:

a) l’individuazione di un insieme di categorie di base o unità del discorso;

b) la formulazione di un insieme di regole di concatenazione che individuano le

sequenze ben formate (discorsi coerenti) escludendo quelle male strutturate

(discorsi incoerenti). (Levinson 1985:291)

È doveroso, però, precisare che la descrizione che Levinson dà dell’AD non è condivisa

unanimemente, anzi, si tratta di una posizione alquanto controversa; Brown e Yule,

analisti del discorso, si dissociano, infatti, da un metodo analitico che escluda

aprioristicamente frasi “male strutturate” e attribuiscono questo modo di procedere alla

56

grammatica testuale. I due autori affermano, al contrario:

the analysis of discourse is, necessarily, the analysis of language in use. As such, it cannot be restricted to

the description of linguistic forms independent of the purposes of functions which those forms are

designed to serve in human affairs. While some linguists may concentrate on determining the formal

properties of a language, the discourse analyst is committed to an investigation of what the language is

used for. [...] [AD] may be regarded as a set of techniques, rather than a theoretically predetermined

system for the writing of linguistic ‘rules’. (Brown &Yule 2001:1-23)

L’aspetto discriminante tra i due modelli di analisi teorica riguarderebbe, secondo

Levinson, l’importanza attribuita all’intuizione. Mentre l’analisi del discorso (AD)

utilizzerebbe la facoltà introspettiva come strumento chiave nella valutazione dei

fenomeni linguistici, l’analisi della conversazione la eviterebbe scrupolosamente

ritenendola in certi casi fuorviante. L’analisi della conversazione trae origine

dall’etnometodologia, una scuola sociologica fondata da Harold Garfinkel, autore

dell’opera “Studi etnometodologici” (1967) che viene considerata come l’atto fondante

di questa scuola.

L'etnometodologia si fonda sulla nozione che le attività quotidiane sono rese possibili dall’uso di una

serie di assunti e convenzioni, assimilabili a dei metodi, che vengono appunto definite etnometodi. Il suo

obiettivo fondamentale è lo studio del modo in cui i membri della società attribuiscono un senso a quelle

che gli etnometodologi chiamano espressioni indicali, ovvero quelle espressioni il cui significato non è

universale ma dipende dal contesto in cui vengono usate. Ad esempio nella conversazione quotidiana

molti concetti sono sottintesi, come esistesse un tacito accordo, le parole assumono un significato

differente a seconda di come sono dette e del contesto in cui sono dette. L'etnometodologia riconosce il

fatto che la gente comune cerca di fornire spiegazioni ai fatti sociali proprio come fanno gli scienziati,

ovviamente servendosi di un apparato concettuale del tutto diverso. (Grimaldi 2000)

Gli studi di etnometodologia comprendono:

• analisi della conversazione

• studio dell'interazione non verbale

• osservazione partecipante e non partecipante. (Ibid.)

L’approccio conversazionalista, adottato da Sacks, Schegloff, Jefferson, Pomerantz ed

altri, costituisce un modello rigorosamente empirico nello studio dei dati, questo modo

di procedere non ammette dati elicitati o ricostruiti ma considera esclusivamente dati

57

autentici16. I metodi utilizzati sono essenzialmente di tipo induttivo, l’obiettivo è la

ricerca di modelli ricorrenti in un corpus sufficientemente ampio e rappresentativo del

genere conversazionale. È bene precisare, però, che svolgere un’analisi su un corpus che

sia il più ampio possibile non significa avere velleità di completezza ed esaustività, ma

significa, piuttosto, disporre di una raccolta-dati abbastanza ampia da permettere di

identificare le proprietà sistematiche dell’oggetto di studio. Non si parte, cioè, da una

teoria iniziale costruita secondo uno studio di tipo introspettivo-intuitivo, per i

conversazionalisti, infatti, la competence chomskiana17, ossia la competenza innata del

parlante, non costituisce uno strumento analitico valido e scientificamente attendibile;

anzi, spesso l’“impressione” che i parlanti hanno della propria lingua differisce dal

modo in cui effettivamente tale lingua si concretizza negli enunciati prodotti dagli stessi

parlanti. L’analisi della conversazione, come già detto, verte primariamente su dati

realmente prodotti, osservabili e non manipolati dal linguista nel tentativo di farli

rientrare in determinate tassonomie; una teorizzazione prematura e categorie ad hoc

pregiudicano la veridicità degli studi svolti ed è questa la ragione per la quale i teorici

dell’AC evitano teorie che non siano supportate da dati reali. L’obiettivo centrale delle

ricerche che utilizzano l’approccio conversazionalista è la descrizione e la spiegazione

delle competenze che i partecipanti alla conversazione utilizzano durante lo svolgersi

dell’evento comunicativo. Un altro concetto portante dell’analisi della conversazione è,

a questo proposito, l’adozione della cosiddetta prospettiva del partecipante, ossia:

Da un lato il valore di un enunciato è ratificato dalla reazione del co-partecipante, che ne seleziona uno

dei significati possibili e a questo - e solo a questo- reagisce, dimostrando così la sua comprensione e,

insieme, rassicurando il primo parlante dell’efficacia del suo contributo; dall’altro chi parla disegna il suo

discorso tenendo conto del ricevente. (Zorzi 1990:7)

16 Levinson, in merito al modello conversazionalista, scrive: “si presta poca attenzione alla natura del contesto così come potrebbe essere concepito teoricamente in sociolinguistica o nella psicologia sociale (ad esempio, se i partecipanti siano amici o lontani conoscenti, se appartengano ad un certo gruppo sociale, se il contesto sia formale o informale, ecc.) […] l’importanza di questi fattori non è negata a priori: semplicemente, non è presunta. Se è possibile dimostrare in modo rigoroso che i partecipanti utilizzano queste categorie nella produzione di una conversazione, allora possiamo sostenere che rivestano un interesse per l’AC”. (Levinson 1985:299) 17 Per competence Chomsky intende la consapevolezza interiorizzata che ogni parlante ha della propria lingua. “Actual speech behaviour, speech performance, for him (Chomsky) is only the top of a large iceberg of linguistic competence distorted in its shape by many factors irrelevant to linguistics”. La citazione è tratta da: J. R. Searle (1972). “Chomsky’s revolution in linguistics”. The New York Review of Books. June, 29 (1972), pp. 60-1.

58

I primi analisti della conversazione sono quindi i partecipanti stessi che, una volta

identificata la strategia dell’interlocutore, sono in grado di coordinarsi a questa e di

continuare congiuntamente lo sviluppo dell’interazione. Le conversazioni, anche quelle

più informali, sono altamente strutturate e in modo niente affatto casuale: le regole di

interazione (es. distanza fisica tra i soggetti, volume di voce, turni di parola, frasi

standard che aprono e chiudono la conversazione) sono numerose e le persone vi

aderiscono senza accorgersene. Gli etnometodologi osservano e classificano il

comportamento esterno (cioè che può essere osservato direttamente) e inferiscono

l’esistenza delle regole che causano le regolarità comportamentali, nel contesto di

ciascuna situazione specifica. La scelta del metodo da adottare rappresenta un tema

alquanto dibattuto, gli analisti del discorso possono accusare i teorici dell’AC di essere

poco chiari nell’uso delle categorie concettuali e di non prestare la necessaria attenzione

ai fattori contestuali dell'interazione; d’altra parte, questi ultimi possono opporre ai

teorici dell’AD (così come connotati da Levinson) il pericolo che un’eccessiva

preoccupazione per la costruzione di teorie aprioristiche porti a sottostimare i dati

empirici; il dibattito rimane aperto. Cynthia Roy nel suo libro “Interpreting as discourse

process” (2000:9-10) afferma:

discourse is language as it is actually uttered by people engaged in social interaction to accomplish a goal.

My use of the concept is that developed in linguistics where a central goal of most discourse approches is

to discover and demonstrate how participants in a conversation make sense of what is going on within the

social and cultural context of face-to-face interaction.

3.3 L'interprete e l'avvicendamento dei turni di parola

In questa sezione intendo riassumere in termini generali come avviene l’organizzazione

sequenziale della conversazione e, l’alternanza dei turni costituisce, in merito, uno degli

aspetti più interessanti, soprattutto se si vuole indagare il ruolo dell'interprete nel

dialogo fra i partecipanti primari. Come descrive Roy (2000:36): “turn-taking in

interpreting has unique and complex features that actively involve the interpreter in

organizing, managing, constraining and directing the flow of talk”. Innanzitutto è

necessario entrare nella prospettiva della co-produzione dell’evento interazionale:

59

parlante e interlocutore/i, cioè, collaborano attivamente alla produzione congiunta della

conversazione. Il prodotto dell’interazione è frutto non solo della collaborazione ma

anche della negoziazione del messaggio linguistico fra i partecipanti; il sistema di

turnazione rappresenta, come vedremo, un elemento importante per comprendere la

costruzione dell’evento stesso. Ad una prima riflessione si può ritenere che durante

l’interazione fra due interlocutori un partecipante A parla, poi si ferma; un altro, B,

comincia, parla, si ferma; in questo modo la distribuzione del discorso fra i due

interlocutori sarà del tipo: A-B-A-B-A-B. Nel caso della comunicazione mediata lo

schema sarà del tipo: A-C-B-C-A-C-B-C. Ad un’analisi più approfondita di tale

meccanismo di alternanza ci si rende conto, tuttavia, che il fenomeno è tutt’altro che

banale. Come afferma Sacks (2007:63) ci sono due regole di base nel processo

conversazionale:

6) in una singola conversazione vi è almeno uno e non più di un partecipante che

parla per volta;

7) in una singola conversazione il parlante cambia.

Ora, com’è possibile che al verificarsi della seconda caratteristica venga mantenuta la

prima?

The question is, then, how does it happen that when somebody stops - though the notion “stop” is clearly

a very problematic kind of notion- somebody starts up. And only one starts up. That is to say, on the one

hand, people don’t start up talking just anywhere in that talk of others. And on the other, if conversations

take place with more than two people present, then there’s a question as to how it could happen that at

each given point somebody stops and somebody starts up, only one starts up. (Sacks 1992:32)

Ovviamente esistono situazioni in cui accade che più di un parlante prenda la parola

nello stesso momento e che ci sia quindi più di un parlante per volta, così come si

possono verificare situazioni di silenzio; un altro fattore determinante è quello culturale,

in alcune culture l'ordinata alternanza dei turni è la regola, come nel caso delle culture

anglo-americane di cui Wierzbicka (1991:80)18 descrive il modello turnazionale nel

seguente modo:

SOMEONE IS SAYING SOMETHING NOW

18 Wierzbicka, A. (1991) Cross-cultural pragmatics. The semantics of human interaction, Berlin: Mouton. Citato in Garzone 2003:71-72.

60

I CAN'T SAY SOMETHING AT THE SAME TIME

I CAN SAY SOMETHING AFTER THIS

In altre culture, invece, il sistema dei turni è maggiormente soggetto a comportamenti di

tipo competitivo e vi è una più alta frequenza di interruzioni e sovrapposizioni secondo

lo schema (Ibid.):

YOU SAID SOMETHING NOW

I WANT TO SAY WHAT I THINK ABOUT THIS

I WANT TO SAY IT NOW

Garzone (2003:72) osserva che, durante l'interazione mediata, tali divergenze culturali

possono emergere in maniera problematica, in questo caso, è compito dell'interprete

professionista riuscire a supplire a queste differenze attraverso la gestione del sistema

turnazionale.

Nella conversazione si può individuare una classe di “luoghi” nei quali le due

caratteristiche di fondo descritte da Sacks (1992) risultano particolarmente

problematiche. Questi “luoghi” sono detti punti di transizione o punti di rilevanza

transizionale (PRT), definiti in termini sintattici e intonativi19. Nel PRT intervengono le

regole per il passaggio del turno da un parlante all’altro, questo non significa però che in

quel punto il parlante debba necessariamente cambiare, ma solo che tale passaggio può

verificarsi. Il cambio ordinato del turno è visto come gestito attivamente dai partecipanti

che collaborano a costruire unità di discorso al termine delle quali è appropriato il

cambio. Sacks et alii20 (cit. in Zorzi 1990:15) distinguono due parti: la componente

costitutiva del turno e la componente allocativa. Le unità sulle quali opera il sistema

turnazionale sono determinate da vari tratti della struttura linguistica superficiale: “sono

unità sintattiche (frasi, proposizioni, sintagmi nominali, ecc.) parzialmente identificate

come unità di turno da strumenti prosodici e, soprattutto, intonazionali” (Levinson

1985:301). Una volta che il parlante di turno inizia il proprio intervento dovrebbe essere

possibile per l’ascoltatore prevedere quali unità il parlante ha intenzione di utilizzare 19 “All’interno di un discorso più largo, che comprende tutto il comportamento del parlante (e non solo quello verbale), Duncan (1973:37) ha identificato sei elementi che funzionano come segnali indicanti la fine del turno in atto : intonazione discendente; allungamento della sillaba finale; termine dei gesti delle mani; sequenze sociocentriche, tipo but uh, or something, you know; diminuzione del volume della voce in concomitanza delle sequenze sociocentriche; completamento dell’unità sintattica”. (Zorzi 1990:56) [S. Duncan (1973). Some signals and rules for taking speaker turns in conversations, in non-verbal communication. New York, Oxford University Press.] 20 Herbert Sacks / Emanuel A. Schegloff / Gail Jefferson (1974). “A simplest systematics for the organization of turn-taking in conversation”. Language, 50, 4, pp. 696-735.

61

così da capire quando l’espressione è completa. In altre parole, sembra che il parlante,

fin dalle prime parole, possa far comprendere all’ascoltatore con quale unità sintattica

si accinge a formare il proprio turno. Al punto di completamento, PRT, è possibile il

passaggio della parola secondo le seguenti regole (Sacks et alii 1974 cit. in Levinson

1985:302) in cui P è la persona che detiene il turno e S è il parlante successivo:

Regola 1: si applica inizialmente al primo PRT di ogni turno

a) Se P seleziona S nel corso del suo turno, deve smettere di parlare e far proseguire S; il passaggio

avviene al primo PRT dopo la selezione di S;

b) Se P non seleziona S, un altro partecipante qualsiasi può auto-selezionarsi; il primo che parla

conquista il diritto al turno successivo;

c) Se P non ha selezionato S e nessun altro si auto-seleziona, P può (ma non è necessario che lo

faccia) continuare a parlare (può, cioè, reclamare il diritto ad un’ulteriore unità di turno).21

Regola 2: si applica a tutti i PRT successivi:

Quando P ha applicato la regola (1c) si possono applicare le regole (1a-c) ai PTR successivi in modo

ricorsivo, finchè non si effettua il cambio di parola.

In merito all'interazione mediata, balza immediatamente all'occhio che tali regole per il

passaggio del turno risultano in parte sospese; data la barriera linguistica che divide i

partecipanti primari; questi ultimi per comunicare devono ricorrere all'interprete, quindi,

nonostante l'enunciato originale sia rivolto al co-interlocutore primario selezionato, sarà

in ogni caso l'interprete a detenere il turno di parola successivo per rendere il messaggio

dalla lingua1 alla lingua2; in altre parole, è l'interprete che si occupa della gestione e

della allocazione dei turni conversazionali. Inoltre, si può affermare che, almeno in linea

teorica, l'individuazione del PRT è palesata dal fatto che i partecipanti primari

segmentano il proprio intervento per consentirne l'interpretazione. Questa

frammentazione del flusso comunicativo introduce un certo grado di artificialità nella

conversazione fra i partecipanti primari che comunicano indirettamente fra di loro,

infatti, come spiegano Gentile et alii. (1996:42):

Ideally, the parties should speak in as natural a way as possible, as if they are communicating with each

other in the same language. In reality people sometimes find that the very presence of an interpreter

creates stress, which affect the way they speak or address each other.

21 “Data la flessibilità delle unità sintattiche costitutive dei turni e i modi di proseguire consentiti dalla regola (1c), non ci sono limiti rigidi per l’estensione temporale del turno”. (Levinson 1985:303)

62

La comunicazione interpretata introduce un certo grado di artificialità nell'interazione

fra i parlanti primari; come spiega Roy (2000:67), molti dibattiti accademici, libri, saggi

e pamphlet scritti sul tema dell'interpretazione presuppongono implicitamente che, se i

partecipanti primari parlano e rispondono reciprocamente, allora gli interpreti

dovrebbero dar loro l'illusione di comunicare direttamente l'uno con l'altro; sebbene, a

volte è possibile che i partecipanti abbiano l'impressione di parlarsi direttamente, la

realtà non è questa. I partecipanti primari comunicano sempre ed inevitabilmente con

l'interprete. Nonostante la comunicazione sia rivolta all'altro interlocutore principale,

spesso accadere infatti, come descritto nello studio di Berk-Seligson riportato

precedentemente, che i partecipanti primari parlino e mantengano il contatto visivo con

l'interprete piuttosto che con l'altro interlocutore principale; di conseguenza anche le

forme pronominali della deissi personale risultano sfasate e l'altro partecipante primario

non è più il “tu” rispetto a chi parla ma diventa “lui/lei” mentre l'interprete stesso viene

promosso al ruolo di interlocutore diretto.

Secondo l'analisi di Wadensjö (1998:234), le caratteristiche inerenti all'evento mediato

che divergono dalla tradizionale conversazione monolingue e che costituiscono

potenziali fonti di problemi sono:

• the non-standard turn-taking and the fragmentation of discourse;

• the non-standard back-channeling;

• the non-standard dependence on a mediator's understanding, or, seen from the point of view of

the person in the middle;

• the non-standard position of understanding on other's behalf and of understanding other'

(mis)understandings

Il fatto che ogni turno, almeno in linea di principio, sia seguito dal turno di

interpretazione, pone l'interprete al centro dell'intero sistema di alternanza dei turni e

limita lo spazio interazionale di ogni partecipante; chi parla, infatti, non può occupare

uno spazio interazionale a propria discrezione, ma deve tener conto della capacità

mnemonica dell'interprete che, ovviamente, non è illimitata. Come nota Wadensjö

(Ibid.), a volte può accadere che la segmentazione del messaggio in più parti

inframezzate dai turni di interpretazione possa compromettere la coesione del

messaggio; inoltre, al termine del turno prodotto dall'interprete, l'altro partecipante

primario potrebbe auto-selezionarsi e assumere il controllo dell'interazione anche se il

63

parlante iniziale non intendeva cedere il turno. La necessità di interrompere l'enunciato

dopo periodi più o meno lunghi per consentirne la traduzione, implica infatti la

possibilità di perdere il turno di parola proprio perchè al termine del turno di

interpretazione si viene a creare un PRT. Ciò che risulta da quanto detto finora è che

l’avvicendamento dei turni richiede un complesso meccanismo di coordinazione fra i

partecipanti i quali, lo ribadiamo, cooperano attivamente allo sviluppo dell’interazione e

richiede inoltre un notevole sforzo di coordinazione da parte dell'interprete.

Nei casi in cui il numero dei partecipanti alla conversazione aumenta (almeno quattro

parlanti), lo sforzo di coordinazione richiesto per un avvicendamento ordinato è

maggiore, la regola base del “si parla uno alla volta”, infatti, rimane invariata; ciò che

potremmo avere è semmai che “si producano più conversazioni parallele” (Sacks

2007:66). Infine bisogna tener presente che il meccanismo che regola l’avvicendamento

dei turni è un insieme di regole con opzioni prevedibili che, come abbiamo visto,

operano turno per turno, si può quindi parlare di sistema a gestione locale. Nessuno dei

partecipanti è escluso a priori dalla conversazione e, d’altra parte, non si ha un elenco

preordinato dei turni che si susseguiranno durante la scambio interazionale. Il passaggio

della parola opera turno per turno e questo fa sì che ogni partecipante sia tenuto a

seguire la conversazione in quanto potenzialmente selezionabile per il turno successivo.

Nello studio condotto da Roy (2000) sull'incontro mediato fra una professoressa

universitaria e uno studente non udente, l'autrice individua quattro categorie di turni che

sono estendibili agli eventi mediati in generale: turni regolari, turni che nascono da

pause o ritardi, turni iniziati dall'interprete e turni sovrapposti. I turni regolari, detti

anche “passaggi dolci” (smooth transitions), assomigliano ai turni regolari nella

normale conversazione faccia a faccia:

it is accomplished in the same language at a typical turn transition, a failing intonation indicating a stop. It

is accomplished quickly with relative smoothness and without hesitations, lenghty pauses, or outward

indications of a kink in the interactional rhythm. This is a regular turn. (Roy 2000:70)

Il turno regolare è così chiamato proprio perchè costituisce un passaggio che avviene

con facilità e naturalezza; diverso è il caso dei turni che nascono intorno a pause, ritardi

o silenzi. Un particolare tipo di silenzio, tipico della conversazione mediata, è il silenzio

che si produce mentre i partecipanti ascoltano (o guardano nel caso della lingua dei

segni) il turno di interpretazione. Il grado di tolleranza rispetto alla lunghezza di una

64

sequenza silenziosa dipende dallo stile conversazionale di un individuo; il silenzio,

comunque, crea un'opportunità per i partecipanti di appropriarsi del turno ed iniziare a

parlare. Roy (Ibid.) distingue fra ritardi regolari (regular lags) e ritardi lunghi (lengthy

lags); i ritardi regolari si possono trovare in due punti:

one instance occurs at the beginning of a speaker's talk whereby an interpreter does not begin to interpret

immediately but starts a few moments later. Another instance occurs when one speaker's stream of talk

ends, the interpretation continues, and then stops (Roy 2000:76)

Il ritardo regolare corrisponde alla percezione di ritardo accettabile dei partecipanti

nell'attesa di ricevere il messaggio interpretato; il ritardo, invece, può essere percepito

come troppo lungo quando uno dei partecipanti ritiene che il tempo di verbalizzazione

del messaggio in lingua2, o il tempo di silenzio, sia eccessivo e quindi reagisce e

verbalmente e/o non verbalmente. Questo tipo di ritardo produce generalmente due

effetti: o il partecipante a disagio riprende la parola, oppure manifesta il proprio disagio

attraverso il linguaggio del corpo mentre resta in attesa. Come argomentano Gentile et

alii. (1996:36): these “pauses”, while inevitable, work against a constant and focused

flow of communication”. Il tempo necessario all'interpretazione può quindi produrre un

effetto di distorsione, il cliente può pensare che la risposta non sia connessa alla sua

domanda e può chiedersi se tale discrepanza nasca dal prestazione dell'interprete o si

debba attribuire all'altro partecipante. Nonostante questi potenziali fattori di minaccia

della comunicazione, un punto importante evidenziato da Roy è che, durante

l'interazione interpretata, i partecipanti imparano a gestire e ad interagire nel quadro

dell'evento mediato:

primary speakers who lack experience with interpreters seem to learn about interpreted interaction as they

progress through a meeting. (...) In this meeting, the Professor “learns” how interpreted conversations

proceed so that her tolerance for lag and her wait for a response grow, gradually increasing in length.

(Roy 2000:80)

Un altro tipo di turno, poi, è quello iniziato dall'interprete. Nella gestione del sistema

turnazionale l'interprete si occupa dell'allocazione del turno di parola ai partecipanti

primari e questo costituisce l'intervento principale dell'interprete nel sistema di

alternanza dei turni. Ci sono però altri esempi in cui il turno nasce dall'iniziativa

dell'interprete: il primo è il turno offerto dall'interprete ad un partecipante che ha

segnalato il proprio desiderio di dire qualcosa, un particolare interessante è che per

65

offrire un turno l'interprete deve a sua volta occuparne uno, segno della complessità del

sistema interazionale. L'interprete, inoltre, può anche prendere il turno per sollecitare o

favorire l'intervento di uno dei partecipanti; Roy (2000) esaminando la registrazione

dell'evento mediato, osserva che ad un certo momento la comunicazione arriva ad un

punto di stallo e l'interprete esorta lo studente a dire qualcosa attraverso un semplice

gesto (l'interprete apre la mano e si sporge lievemente in avanti guardando il ragazzo).

Con questo gesto, cioè attraverso il comportamento non verbale, l'interprete influenza

sia la direzione che il risultato dell'evento comunicativo; d'altra parte, lo studente

riconosce l'indizio paralinguistico dell'interprete ed inizia a parlare. In questo caso: “the

interpreter takes a self-motivated turn and influences the outcome of the interaction (…)

he has assisted the student in behaving appropriately during this interaction” (Roy

2000:98). Ancora una volta, l'interprete emerge come figura di primo piano, non solo

come “tecnico della lingua”, ma anche come gestore/direttore della comunicazione

stessa. Infine, un ulteriore tipo di turno ricorrente durante lo scambio conversazionale è

il turno sovrapposto. A questo proposito, è bene fare una distinzione preliminare fra

sovrapposizione ed interruzione: la prima descrive un momento nel quale due o più

partecipanti parlano contemporaneamente; la seconda riguarda invece la percezione dei

partecipanti rispetto ai diritti e doveri conversazionali di ogni individuo (determinata

dalla lunghezza, dall'effetto e dal punto in cui si interrompe), la sovrapposizione, quindi,

non è necessariamente considerata interruzione. A quest'ultimo tipo di turno, data la sua

frequenza e ricchezza di sfumature, nonché risvolti interazionali, dedicheremo la

prossima sezione.

3.4 Le interruzioni

Un altro meccanismo cui i parlanti ricorrono più o meno inconsapevolmente, ma che in

realtà è regolato da un insieme di norme riconosciute, è quello delle interruzioni.

A prescindere dal disordine apparente che interruzioni e sovrapposizioni fra i parlanti

possono portare nel sistema di turnazione, contravvenendo alla regola basilare del “si

parla uno alla volta”, vedremo invece come esse contribuiscono a confermare la validità

di certe norme conversazionali. Tali disfluenze dell’evento interazionale sono spesso

66

ritenute devianti dal normale andamento della conversazione, sono cioè considerate

eccezioni, eventi unitari, errori casuali dei parlanti; al contrario, la regolarità con la

quale tali “deviazioni” si manifestano permette di riconoscerle come strategie

conversazionali che i parlanti utilizzano per il conseguimento di determinati effetti

comunicativi. Questi “intoppi” della comunicazione costituiscono una fonte di verifica

delle strategie seguite, cioè implicitamente riconosciute dai parlanti, perché si

presentano quando l’organizzazione ipotizzata non opera nel modo previsto. Si crea

quindi un “problema” che i partecipanti devono risolvere o ponendovi un rimedio o

traendo forti inferenze dall’assenza del comportamento atteso. In questo modo le regole

della conversazione vengono ribadite e rafforzate, in alcuni casi l’infrazione di una

regola viene marcata con un intervento del tipo: “Sto parlando io! Lasciami finire!” che

ne palesa l’esistenza.

Definire cosa intendiamo con il termine interruzione non è affatto semplice

contrariamente alla familiarità che il parlante comune percepisce nel suo utilizzo.

Studiosi di diverse aree hanno tentato in vari modi di precisare la natura concettuale di

questa parola; Zorzi raggruppa i molteplici punti di vista in due macro-categorie: gli

approcci psicologici e gli approcci descrittivi. I primi provengono dall’ambito della

psicologia sociale e, per quanto eterogenei, possono essere accomunati per due aspetti:

non affrontano il problema definitorio delle interruzioni, usando perlopiù il termine nell’accezione

comune, con il rischio - ovvio- di mescolare fenomeni diversi; collegano le interruzioni a un certo numero

di variabili sociali e individuali (sesso, ruolo sociale, intelligenza, caratteristiche della personalità, ecc.)

con particolare attenzione al rapporto interruzioni/potere. […] Un limite dell’approccio, per quanto

interessante, è l’indefinitezza di categorie concettuali quali intelligenza, loquacità, aggressività, fiducia in

se stessi, ecc., inoltre questo approccio non aiuta a distinguere né i vari tipi di parlato simultaneo, né tanto

meno, a collegarli ad altri aspetti dello scambio verbale22. (Zorzi 1990:85)

Gli approcci descrittivi si differenziano da quelli psicologici perchè partono da criteri

oggettivi per distinguere fra interruzioni e sovrapposizioni, mirano cioè a rintracciare

delle regolarità, dei meccanismi ricorrenti che possano fungere da discriminanti

nell’analisi dei vari fenomeni. Si individuano così tre diversi parametri:

a) il tempo; 22 Zorzi (1990:85) riporta alcuni risultati: gli uomini interrompono più delle donne; le donne più sicure di sé interrompono quelle meno sicure; la frequenza delle interruzioni è inversamente proporzionale all’ansietà sociale e direttamente proporzionale alla disponibilità e alla loquacità dell’interlocutore.

67

b) l’effetto che ha la sovrapposizione sul turno del primo parlante;

c) la posizione dell’interruzione all’interno dell’intera sequenza.

Il criterio preso in considerazione per quanto riguarda il tempo è la lunghezza della

sovrapposizione; in seguito alla misurazione acustica di questi fenomeni si definisce

sovrapposizione involontaria ogni parlato simultaneo che dura una parola mentre

stringhe più lunghe di parlato sovrapposto si classificano come interruzioni.23

Riguardo all’effetto che l’interruzione produce sul turno del primo parlante, si fa una

distinzione fra le interruzioni che hanno successo, ossia quelle in cui chi interrompe

impedisce al primo parlante di completare il proprio turno, e quelle che non hanno

successo, cioè quelle in cui chi interrompe non riesce a portare avanti il suo discorso

prima che l’altro abbia terminato.

Il terzo parametro riguarda la posizione dell’interruzione, ciò che interessa non è tanto

l’effetto della sovrapposizione/interruzione sul primo turno quanto il “luogo” in cui

inizia la sovrapposizione.

By overlap we tend to mean talk by more than a speaker at a time which has involved a second one to

speak given that a first was already speaking, the second one has projected his talk to begin at a possible

completion point of the prior speaker’s talk. If that’s apparently the case, if for example, his start is in the

environment of what could have been a completion point of the prior speaker’s turn, then we speak of it

as an overlap. If it’s projected to begin in the middle of a point that is in no way a possible completion

point for the turn, then we speak of it as an interruption. (Schegloff 1978, cit. In Zorzi 1990:87)24

La distinzione fra sovrapposizione ed interruzione è quindi data dal “quando” il turno

del secondo parlante inizia rispetto al turno del primo, in questo modo il punto di

rilevanza transizionale diventa determinante per il riconoscimento dell’una o dell’altra.

Ricapitolando, il secondo parametro definisce il termine sovrapposizione in rapporto

all’effetto che il turno interrompente ha sul turno del primo parlante, mentre il terzo

parametro lo definisce in base al momento in cui interviene il secondo parlante. Il

discorso simultaneo (DS) si produce quando due o più interlocutori parlano

23 Questo studio è stato condotto da Zimmerman e West nel 1975 (cit. in Zorzi 1990:85). Per un approfondimento si veda: D. Zimmerman / C. West (1975). Sex role, interruptions and silence in conversation. In B. Thorne / N. Henley (eds.). Language and sex. Rowley MA, Newbury House, pp. 29-105. 24 E. Schegloff (1978). On some questions and ambiguities in conversation. In W. U. Dressler (ed.). Current trend in textlinguistics. Berlino, De Gruyter, pp. 81-102.

68

contemporaneamente; la lunghezza del discorso simultaneo varia da una sola parola ad

un enunciato intero. Spesso il DS riguarda semplicemente una interiezione, come nel

caso dei back-channels (ad esempio: “mmh”, “sì sì”, “esatto”, “è vero”).

Nel contesto dell'evento mediato, le interruzioni si inseriscono in un quadro

interazionale reso ancor più complesso dalla la natura mediata della comunicazione.

Innanzitutto, avendo ribadito lo status partecipativo dell'interprete, è ragionevole

aspettarsi che anche quest'ultimo produca dei turni interrompenti e la realtà

dell'interpretazione lo dimostra con una certa frequenza. I motivi più ricorrenti di

interruzione da parte dell'interprete sono perlopiù due: la richiesta di spiegazioni e

chiarimenti ai partecipanti primari, e la necessità di reclamare il proprio spazio per

l'interpretazione del messaggio. Una delle caratteristiche che Wadensjö (1998:234) ha

descritto come potenziale “trouble source”, già citata in precedenza, è: “the non-

standard dependence on mediator's understanding”. La comprensione del messaggio

originale non è solo il primo passo nel processo interpretativo ma ne costituisce anche

un momento cruciale; ovviamente, prima di interpretare è fondamentale che l'interprete

abbia capito l'enunciato del partecipante primario. Come avvertono Gentile et alii.

(1996:45): “it is far worse to misinterpret or distort the meaning because a necessary

clarification or explanation was not sought than to interrupt the flow of the interview in

order to seek such clarification/explanation”. Gli stessi autori spiegano che, in genere, le

persone che sono solite lavorare con l'affiancamento di un interprete, considerano

interruzioni di questo tipo da parte dell'interprete come indice di professionalità e

preoccupazione per il successo della comunicazione, non attribuiscono cioè tali richieste

di spiegazioni all'incompetenza di quest'ultimo. Una variabile che influisce sul grado di

flessibilità e accettazione di un'interruzione di chiarimento è il tipo di contesto nel quale

si svolge l'interpretazione; Hale (2007) fa notare che l'atmosfera privata, informale e

rilassata del consulto medico, per esempio, favorisce la richiesta di ripetizione o di

chiarimento da parte dell'interprete in caso di fraintendimenti o ambiguità,

permettendogli, ciò nonostante, di mantenere un certo distacco professionale e fornendo

un'interpretazione accurata. Mentre in ambito processuale o investigativo si utilizzano

strategie inquisitorie che rendono l'interrogatorio volutamente insidioso, l'obiettivo del

medico è quello di essere il più chiaro possibile e preciso con il paziente; in questo caso

l'interprete può quindi trarre vantaggio dallo scopo dell'interazione e, se necessario,

69

richiedere le dovute delucidazioni. La seconda situazione principale di interruzione

opportuna da parte dell'interprete si ha, invece, quando uno dei partecipanti parla per un

lasso di tempo troppo esteso (relativamente alla capacità mnemonica dell'interprete). In

questo caso l'interruzione è appropriata; ricordiamo, infatti, che l'interprete deve gestire

sequenze logiche e sintattiche spesso complesse, oltre a padroneggiare due sistemi

linguistici e culturali diversi. Così, quando l'interprete si trova a dover immagazzinare

tutta in una volta una quantità eccessiva di informazione, è bene che interrompa il

parlante di turno per segnalare l'esigenza di frammentare l'enunciato e permetterne

l'interpretazione. L'interruzione, in ogni modo, non deve essere né troppo brusca né

troppo timida:

The interpreter does not abruptly stop a speaker mid-sentence because he/she thinks that's enough. On the

other hand, if out of excessive politeness or timidity the interpreter allows any speaker to go and on, there

are two possible outcomes, both negative in terms of the objectives of the interview. Either the segment

will be abbreviated or summarised, or the interpreter will ask the speaker to repeat the whole thing.

(Gentile et alii. 1996:46)

Per quanto concerne, poi, le interruzioni prodotte dai partecipanti primari nel corso dello

scambio interazionale, utilizziamo la classificazione proposta da Bazzanella (1994:175-

181) la quale prende in considerazione tre variabili:

- il discorso simultaneo (DS);

- il completamento dell’enunciato da parte del primo parlante (CE);

- l’ottenimento del cambio di turno da parte di chi interrompe (CT).

Dall’incrocio di queste variabili Bazzanella (1994) individua così vari tipi di

interruzione:

− Interruzione semplice (I), caratterizzata dalla presenza di DS, dall’ottenimento

del cambio di turno da parte di B, e dal non completamento dell’enunciato di A.

− Back-channel (BC) e Interruzione vana (IV), entrambi caratterizzati dalla

presenza di DS, dall’assenza di cambio di turno da parte di B, e dal non completamento

dell’enunciato di A. Mentre però i back-channels sono prodotti senza l’intenzione di

prendere il turno, e quindi l’assenza di cambio di turno da parte di B è del tutto

prevedibile, nel caso dell’interruzione vana l’assenza di cambio di turno da parte di B è

un insuccesso, in quanto il cambio era stato tentato intenzionalmente.

− Interruzione silenziosa (IS), caratterizzata da assenza di DS, l’interlocutore

70

prende il turno senza che il parlante di turno abbia terminato il suo enunciato (perché si

trova in un momento di difficoltà, o nella pianificazione del discorso, o nella ricerca di

un termine che gli sfugge), approfittando così del silenzio altrui (sovente anche per

supportarlo).

− Suggerimenti lessicali (SL), come l’interruzione silenziosa, si trovano nel caso

di assenza di DS e di assenza di completamento dell’enunciato, ma non ricercano (e

conseguentemente non ottengono) il cambio di turno.

Anche in quest'occasione, dobbiamo ricordare che mentre nella conversazione canonica

A e B sono i due co-interlocutori che parlano direttamente l'uno all'altro, nella

comunicazione mediata avremo A, B e C e con maggiori probabilità l’interruzione

evverrà nello scambio monolingue fra uno dei parteciapnti principali e l'interprete;

raramente infatti si darà il caso che un partecipante interrompa l'altro partecipante

primario, proprio per la mancanza di comprensione o inintelligibilità del messaggio fra

due parlanti di lingue diverse. I tipi di interruzione così classificati da Bazzanella,

trasposti all'ambito dell'interpretazione, riguarderanno soprattutto lo scambio fra

interprete e partecipante primario e, in maniera abbastanza prevedibile, il soggetto che

più di ogni altro sarà sottoposto ad interruzioni e sovrapposizioni nel corso dell'evento

mediato sarà l'interprete. Garzone (2003:102) sostiene che i motivi alla base di questa

frequenza di interruzioni rivolte al turno dell'interprete si possono spiegare sotto vari

punti di vista: il primo riguarda il supposto status inferiore dell'interprete all'interno

dell'interazione; il secondo riguarda la sua non autonomia come interlocutore, avendo la

funzione di rendere comprensibile il messaggio fra i due (o più) interlocutori principali.

In questo modo, non appena il partecipante ritiene di aver capito il contenuto

dell'interpretazione, è abbastanza naturale che questo voglia rispondere

immediatamente, anche se il turno dell'interprete non è ancora stato completato.

Come emerge dall'analisi di Roy (2000), è invece abbastanza frequente che si

sovrappongano più parlanti contemporaneamente; come abbiamo detto la

sovrapposizione ha un impatto diverso rispetto all'interruzione vera e propria riguardo ai

parametri di tempo, effetto sul turno del primo parlante e posizione all'interno della

sequenza enunciativa. Se due parlanti iniziano un turno nello stesso momento e si

sovrappongo al turno di interpretazione che l'interprete sta ancora elaborando (quindi ci

sono tre parlanti sovrapposti), quali sono le alternative a disposizione dell'interprete per

71

poter gestire la comunicazione? Roy (2000:85) individua quattro opzioni principali:

1) l'interprete può fermare uno dei parlanti (o entrambi) e permettere all'altro di

continuare. Se l'interprete blocca entrambi, o l'interprete indica chi dei due può prendere

la parola, oppure uno dei due seleziona il parlante successivo.

2) L'interprete può momentaneamente ignorare il turno sovrapposto di un

partecipante, memorizzare il segmento, continuare il turno di interpretazione rivolto

all'altro partecipante e poi produrre la sequenza “conservata in memoria” subito dopo la

fine del turno. Questa possibilità dipende dall'abilità mnemonica dell'interprete e dal

giudizio dell'interprete riguardo all'importanza o all'impatto del segmento enunciativo

lasciato in sospeso.

3) L'interprete può ignorare totalmente l'enunciato sovrapposto

4) l'interprete può momentaneamente ignorare l'enunciato sovrapposto e dopo aver

terminato l'interpretazione per un partecipante può “offrire il turno successivo” all'altro

o può indicare in qualche modo che il turno è stato violato.

Riguardo alla prima alternativa, l'interprete non solo è chiamato ad agire nell'arco di

qualche frazione di secondo, ma deve anche considerare una molteplicità di fattori:

l'importanza del messaggio, le relazioni fra i parlanti e lo status relativo. Roy (Ibid.)

indica inoltre l'importanza dei cosiddetti “segnali di contestualizzazione”

(contestualization cues) sottolineati soprattutto da elementi prosodici, che possono

indicare l'importanza del frammento sovrapposto e indirizzare l'interprete verso

l'opzione più adeguata. Nel caso in cui l'interprete decida di ignorare momentaneamente

l'enunciato sovrapposto e trattenerlo nella memoria possiamo identificare tre situazioni:

l'interprete ritiene che quel segmento non sia cruciale al momento; il segmento

sovrapposto è breve, semplice e facile da ricordare; oppure, l'interprete prevede che uno

dei parlanti sta terminando o è in procinto di terminare il proprio turno. L'autrice

individua inoltre due tipi di enunciati sovrapposti che possono essere ignorati

dall'interprete senza influenzare il risultato comunicativo in maniera rilevante. Il primo

è dato dai cosiddetti back-channels o fatismi che servono per confermare l'attenzione o

esprimere accordo ( “mm-hmm”, ah ah”, “certo” ecc.) Il secondo tipo è altrettanto breve

ma possiede un maggior contenuto semantico, per esempio: “sì, posso farlo”, “no, ne

dubito”. Come spiega Roy (2000:90), in questi casi è preferibile che l'interprete ignori

72

tali enunciati prodotti in sovrapposizione per due ragioni fondamentali: innanzitutto

perchè non è fisicamente possibile ascoltare due persone contemporaneamente e parlare

allo stesso tempo, soprattutto dal momento che il compito dell'interprete presenta una

complessità tale da richiedere la piena attenzione di quest'ultimo. In secondo luogo,

l'inserimento dell'enunciato sovrapposto potrebbe sorprendere il parlante che detiene la

parola e portarlo a sospendere il turno perchè è stato interrotto nel suo ragionamento.

Come conclude Roy (2000:92):

Overlapping talk is a difficult dilemma for interpreters. Whether the talk is simply of a back-channel

nature or will become an attempt to take a turn does not deny its potential meaningfulness in

conversational activity. As overlapping talk begins, any prediction as to its eventual length is a fifty-fifty

probability. (…) Acting on these communicative “problems”, and acting on them quickly, is what

interpreters do.

Rispetto alla conversazione spontanea che prevede parità di diritti d’intervento per i

partecipanti, l'evento mediato nell'ambito dei servizi pubblici presenta l'asimmetria dei

ruoli posizionali e la presenza dell'interprete come terzo partecipante il cui status

interazionale può essere giudicato inferiore agli occhi dei co-interlocutori ma, alla luce

di quanto detto finora, si può affermare che è certamente diverso rispetto a quello dei

partecipanti primari e, per molti versi, superiore in quanto alla gestione dell'evento

stesso. In particolare, si è visto come il sistema turnazionale della comunicazione

mediata presenti delle peculiarità in merito all'allocazione e all'alternanza dei turni di

parola. Nella conversazione quotidiana, la presa del turno è un’attività competitiva nella

quale ogni partecipante è potenzialmente coinvolto:

a) il parlante del momento seleziona quello successivo

b) il parlante successivo si auto-seleziona

c) se né a) né b) sono validi, il parlante di turno può mantenere la parola e

continuare a parlare.

Comunemente, quando si affronta il fenomeno delle interruzioni, si suole ricorrere alla

distinzione polare fra interruzioni supportive e interruzioni competitive; si tratta di una

dicotomia di tipo funzionale, perché fondata sui motivi che si trovano alla base delle

interruzioni stesse. Alla prima categoria appartengono le interruzioni volte a sostenere il

parlante di turno, mentre la seconda comprende quelle finalizzate ad ottenere il turno di

parola. In base alla classificazione di Bazzanella (1994:189), fra le interruzioni

supportive rientrano i back-channels e i suggerimenti lessicali, mentre esempi di

73

interruzioni competitive sono: l’interruzione semplice, la sovrapposizione,

l’interruzione silenziosa, e l’interruzione vana.

I limiti che questa dicotomia comporta stanno nella difficoltà di individuare l’intenzione

soggiacente ad ogni interruzione; Bazzanella evidenzia, in particolare, due punti deboli

della distinzione fra supportive e competitive:

1. tipi di interruzione classificati sotto una categoria possono assumere il valore funzionale

opposto in determinate situazioni;

2. l’effettiva “portata” supportiva o competitiva deve essere calcolata in base ad un numero

maggiore di parametri, che non il semplice cambio di turno25. (Bazzanella 1994:190)

Una volta superata questa dicotomia, Bazzanella suggerisce che i vari tipi di

interruzione possano essere identificati attraverso la co-occorrenza di parametri

acontestuali od oggettivi, e di variabili contestuali; i primi sono indipendenti dal

contesto situazionale, mentre i secondi sono strettamente collegati al contesto

particolare:

riassuntivamente consideriamo parametri oggettivi i seguenti: tono alto e/o volume alto, durata della

sovrapposizione, insistenza e persistenza, vicinanza di PRT, presenza o assenza di modalizzatori, accordo

o disaccordo preposizionale, cambio di topic, passaggio del turno ad un terzo partecipante

conversazionale. Consideriamo parametri contestuali: i rapporti di status, gli stili individuali e le abitudini

culturali, lo scopo socialmente costituito e riconosciuto, l’“urgenza psicologica”, la “causa di forza

maggiore”. (Bazzanella 1994:193)

Fra i parametri contestuali rientrano, oltre ai rapporti di status di cui abbiamo già fatto

menzione, gli stili individuali e le abitudini culturali; lo studio degli stili individuali

appartiene alla macro-categoria degli approcci psicologici in quanto si concentra su

aspetti soggettivi, quali sono le caratteristiche della personalità, difficilmente

inquadrabili in analisi sistematiche; è tuttavia innegabile che a livello individuale ci

possa essere una corrispondenza fra il tipo di personalità e la maggiore o minore

tendenza ad interrompere. Anche per quanto concerne le abitudini culturali si individua

una certa correlazione fra stereotipi comportamentali di una popolazione rispetto al

modo e alla frequenza con le quali gli individui della stessa trattano le interruzioni; il

25 L’ottenimento del turno da parte di chi interrompe è, infatti, il vero elemento discriminante in questo tipo di classificazione polare.

74

brano che segue pone a confronto la cultura italiana e quella anglosassone dal punto di

vista del comportamento interazionale:

First impressions suggested a sharp contrast between the quieter (surface) manners of English meetings

and the Italian meetings. In all of the recorded Italian interactions the tone of the voice was often loud, the

pace faster, and the apparent lack of concern for turn-taking practices was sometimes disconcerting,

particularly to Anglo-Saxon ear. [...] Non-native observers may be baffled by the frequency of what we

have defined previously as overlaps. Recent work on intercultural negotiation seems to confirm that the

Italians take the floor through “successful interruptions” at least twice as frequently as their Dutch

counterparts. (Bargiela Chiappini / Harris 1997:69-224)

Gli stereotipi su anglosassoni e italiani sono molteplici: i primi interrompono poco e

parlano più lentamente, mentre i secondi parlano ad alta voce, tutti insieme,

interrompendosi di frequente, tanto che a volte può risultare sconcertante la mancanza

di preoccupazione per il rispetto dei turni.26

Susan Ervin-Tripp affronta tali differenze da una diversa prospettiva:

Groups which emphasize autonomy and value what Brown & Levinson (1978) call “negative politeness”

can be expected to leave the floor to one speaker and to risk gaps of inattention more readily than

interruption. Groups which emphasize solidarity and “positive politeness” are likely to look for evidence

of closeness through the production of joint texts, proxy completion and simultaneity. (Ervin-Tripp

1987:5027 cit. in Zorzi 1990:84)

La percezione dell’interruzione è quindi culturalmente determinata, ma il modo di

interrompere dipende in primo luogo “dall’organizzazione conversazionale cui i parlanti

si orientano” (Zorzi 1990:83). Zorzi ha analizzato un corpus di registrazioni di incontri

di servizio in libreria sia in italiano che in inglese, e dal suo studio sono emersi i

seguenti dati:

In italiano l’unico modo per sospendere la produzione di una seconda parte dispreferita, dato che

normalmente viene data consecutivamente alla prima parte, è l’interruzione (e in questo senso è un

rimedio “preparatorio”). Del tutto diversamente in inglese, si ha interruzione solo se non si è negoziata

l’accettabilità della richiesta e della risposta nella frase strutturalmente designata a ciò (vale a dire fra la

26 Le variabili culturali che possono contribuire a differenziare l’atteggiamento dei partecipanti alla conversazione sono numerose; la dicotomia: “Deal-focus vs. Relationship-focus” è una di queste; ci sono cioè culture che attribuiscono maggior importanza all’instaurarsi di buone relazioni sociali fra i partecipanti, mentre per altre culture è più rilevante la conclusione degli affari anche a scapito dei rapporti interpersonali. 27 S. Ervin-Tripp (1987). “Cross cultural and developmental sources of pragmatic generalization”. In J. Verschueren / M. Bertucelli Papi. (eds.). The pragmatic perspective. Amsterdam, Benjamins, pp. 47-60.

75

richiesta e la risposta stessa), ciò spiega perché le interruzioni sono più numerose in italiano28. (Zorzi

1990:105)

La breve rassegna dei parametri oggettivi e contestuali appena presentata ha voluto

esporre la molteplicità degli aspetti operanti nel momento in cui un partecipante effettua

un turno interrompente. Alcune di queste sovrapposizioni riguardano turni nei quali chi

interviene manifesta tramite back-channels (MM; sì; ah; è vero; infatti; etc.) la propria

attenzione e il proprio coinvolgimento rispetto alla conversazione; come sarà spiegato

oltre, in generale il partecipante che si sovrappone al parlante di turno tramite pause

piene e segnali discorsivi di conferma e/o accordo non intende chiedere la parola ma

segnalare l’attenzione in corso e la propria disponibilità al proseguimento

dell’interazione. Altre sovrapposizioni ricorrenti nel parlato spontaneo riguardano casi

nei quali chi interrompe è ansioso di esprimere la propria posizione sul tema trattato,

quindi, salvo rare eccezioni (peraltro in situazioni comunicative “affollate” e mai in

conversazioni “a due”), non si tratta di sovrapposizioni con cambio di topic, così come

sono più rari esempi di interruzioni attuate per passare il turno ad un terzo partecipante.

In altre parole, nella tipica conversazione spontanea le interruzioni con valore

conflittuale sono meno numerose mentre si ha abbondanza di sovrapposizioni e

interruzioni che esprimono partecipazione da parte di chi le produce. Tali caratteristiche,

secondo la definizione di Deborah Tannen (1984), rientrano nel cosiddetto parlato

conviviale:

[…] in cui interrompersi e parlare insieme sembrano segni di coinvolgimento emotivo, di viva

partecipazione e interesse per la conversazione e di sintonia fra gli interlocutori. […] Il parlato

sovrapposto e interrompente è una delle manifestazioni più significative di uno stile conversazionale ad

28 Di seguito riportiamo due esempi di incontri di servizio, rispettivamente in italiano e in inglese, tratti dallo studio di Zorzi (1990:96-103). 1) A: Signorina / signorina scusi manuali per dipingere dove si trovano?

B: Erm_ +dipingere…* A: +dipinti* / +su pittura su ceramica* B: +Mm sì (qualcos-)* (Mi dovrebbe tornare) qualcosa penso però solo sulla pittura ad olio

2) A: Erm_ I suppose that would make sense / yes / well we haven’t got it / I’m ++sure we could get it*

B: you HAVEN’T got it* A: for you / oh unless they’ve got it in HIstory of course/ I mean_ which is possible / ‘cos they’ve got erm ANcient history! B: Uhuh! +well I’ll have a look* A: +in the history department* B: I’ll have a look!

76

“alto coinvolgimento”. Per i partecipanti che adottano questo stile, la sovrapposizione non solo è ben

vista, ma anche cercata (al contrario del silenzio o delle pause fra i turni che sono accuratamente evitate

come “antisociali”). (Tannen 1984:3029 cit. in Zorzi 1990:91)

3.5 I segnali discorsivi

Come abbiamo sinora osservato, i corrispettivi linguistici che Bazzanella associa al

macro-tratto situazionale della compresenza degli interlocutori sono:

1) uso frequente di fatismi; 2) ampio uso di strategie di cortesia; 3) forte presenza di pronomi di prima

persona; 4) cambiamenti di pianificazione indotti dall’esterno; 5) discorsi simultanei ed interruzioni; 6)

segnali discorsivi di conferma o di disconferma; 7) maggior livello di implicitezza. (Bazzanella 1994:27)

Ai fini della nostra analisi, vogliamo comprendere in che misura l'evento mediato, e

quindi l'azione dell'interprete, comporti delle differenze rispetto alla comune

conversazione spontanea; i segnali discorsivi costituiscono un’importante risorsa

interazionale a disposizione dei partecipanti, in quanto indicano l’intenzione di chi parla

rispetto al turno di parola. Attraverso l’uso di certi segnali discorsivi, infatti, il parlante

può manifestare l’intenzione di prendere, mantenere oppure cedere il turno, cosicché gli

altri partecipanti sappiano quando è possibile intervenire nel rispetto delle regole

conversazionali. Secondo la definizione proposta da Bazzanella (2001):

I segnali discorsivi sono quegli elementi che, svuotandosi in parte del loro significato originario,

assumono dei valori aggiuntivi che servono a sottolineare la strutturazione del discorso, a connettere

elementi frasali, interfrasali, extrafrasali e a esplicitare la collocazione dell’enunciato in una dimensione

interpersonale, sottolineando la struttura interattiva della conversazione. (Bazzanella 2001:225)

Deborah Schiffrin ha approfondito il tema dei discourse markers partendo dall’analisi di

un corpus di interviste di gruppo da lei raccolto, ed ha poi elaborato i risultati ottenuti

nell’opera omonima dalla quale citiamo la seguente definizione:

I operationally define markers as sequentially dependent elements which bracket units of talk. [...]

Sometimes those units are sentences, but sometimes they are propositions, speech acts, tone units. In sum,

I am being deliberately vague by defining markers in relation to units of talk because this is where they

occur – at the boundaries of units as different as tone groups, sentences, actions, verses, and so on. [...] I

define markers at a more theoretical level as members of a functional class of verbal (and non-verbal) 29 Tannen, D. (1984) Conversational style: analyzing talk among friends, Norwood (N. J.) : Ablex

77

devices which provide contextual coordinates for ongoing talk. (Schiffrin 1987:31-41)

L’insieme dei segnali discorsivi forma appunto una classe funzionale, cioè raggruppa

elementi alquanto eterogenei dal punto di vista delle classi grammaticali di

appartenenza, accomunati però dalla funzione che svolgono:

Possono fungere da segnali discorsivi: operatori di coordinazione (es. e, ma), operatori di coordinazione

avverbiale (es. cioè), avverbi frasali (es. praticamente), interiezioni (es. eh?), sintagmi verbali (es.

guarda), sintagmi preposizionali (es. in qualche modo), ed espressioni frasali (es. come dire). (Bazzanella

2001:225)

Secondo la tassonomia indicata da Bazzanella (2001:232) le funzioni dei segnali

discorsivi si possono distinguere in due categorie: le funzioni interattive, che riguardano

“l’atteggiamento del parlante verso l’interazione in corso”; e le funzioni metatestuali30

volte a segnalare “l’articolazione delle varie parti del testo […] ed il rapporto tra gli

argomenti e i temi trattati nel dialogo” (Ibid.). Lo scarso contenuto semantico dei

segnali discorsivi è dimostrato dal fatto che la loro assenza non incide sul significato

dell’enunciato, ciò che cambia riguarda invece il piano pragmatico, la dimensione

interazionale dell’enunciato in questione. A dimostrazione di quanto appena detto è

l’eliminazione dei segnali discorsivi nel discorso indiretto (DI): il carattere mediato di

questo cancella, infatti, la dimensione emotiva-interazionale che è alla base della

funzione pragmatica dei segnali discorsivi presenti nel discorso originale. Per quanto

riguarda il discorso diretto (DD), invece, si riscontra la presenza dei segnali discorsivi

in questa forma di reported speech, ma, come è emerso dal lavoro di Emilia Calaresu

(2004:20-1)31 che ha svolto un’analisi comparativa fra discorsi originali e rispettivi

discorsi riportati, tali segnali discorsivi appartengono al reporter e non all’enunciatore

originale: “l’impiego di segnali discorsivi in apertura di discorso diretto corrisponde

semplicemente a strategie di ricreazione di situazioni discorsive altre da parte del

30 Le funzioni metatestuali, così come descritte da Bazzanella (2001:246-9), sono le funzioni svolte da:

- demarcativi: (ma) insomma, a proposito, senti, comunque - focalizzatori: se (nell’uso correlativo), ma, sì, proprio, appunto, ecco, ti dico, ti voglio dire

- indicatori di riformulazione: -indicatori di parafrasi: diciamo, voglio dire, in altre parole -indicatori di correzione: diciamo, anzi, insomma, cioè, non so, no -indicatori di esemplificazione: mettiamo, diciamo, prendiamo, ecco, per/ad esempio.

31 E. Calaresu (2004). Testuali parole: la dimensione pragmatica e testuale del discorso riportato. Milano, Franco Angeli.

78

reporter”. (Ibid.)

Oltre a produrre un effetto di maggior espressività e aderenza al parlato, i markers che

troviamo in apertura di DD sono uno dei segnali tangibili che si sta introducendo un

discorso diretto e, solitamente, si giustappongono alle cosiddette “cornici”, che sono:“le

parti introduttive con verbo di dire (o equivalenti contestuali come fare)” (Calaresu

2004:18). La presenza o assenza dei segnali discorsivi all’interno dell’enunciato non ha

alcuna ripercussione sul contenuto semantico di quest’ultimo; la non incidenza di questi

elementi linguistici sul contenuto proposizionale è data da proprietà sintattiche quali:

l’interrogabilità, la sostituzione tramite pro-forme, l’eliminabilità e la negazione. La

prima e la seconda proprietà riguardano rispettivamente l’impossibilità di formulare

domande che abbiano come risposta segnali discorsivi e l’impossibilità di sostituzione

tramite pro-forme; la terza proprietà si riferisce alla possibilità di cancellazione dei

segnali discorsivi senza che ciò alteri il contenuto semantico del discorso; la quarta

proprietà, infine, indica l’impossibilità di negazione dei segnali discorsivi, grazie anche

alla loro “frequente parenteticità che li mantiene esterni al contenuto proposizionale”

(Bazzanella 2001:230). Queste caratteristiche costituiscono il motivo principale della

frequente omissione di tali particelle all'interno del turno formulato dall'interprete;

nonostante l'interprete sia tenuto a riportare l'enunciato originale nella sua totalità e

completezza parlando in prima persona come a simulare una conversazione

monolingue, generalmente i segnali discorsivi vengono eliminati nella versione

interpretata. Se i segnali discorsivi sono così ricorrenti negli enunciati dei parlanti

primari è perchè assolvono ad una molteplicità di funzioni interazionali, anche se i

parlanti ne sono inconsapevoli, che permettono loro di gestire il sistema turnazionale ed

esprimere la propria posizione in merito allo scambio comunicativo.

I segnali discorsivi con funzione interattiva utilizzati dal parlante di turno possono

essere finalizzati a:

- prendere il turno, il partecipante manifesta la propria intenzione di prendere la parola;

- mantenere il turno: questa funzione è svolta dai cosiddetti riempitivi, ossia da segnali

discorsivi (diciamo, praticamente, come posso dire, non so, per così dire) utilizzati per

riempire spazi che, data la difficoltà di pianificazione da parte del parlante, rimarrebbero

vuoti e potrebbero essere interpretati dall’interlocutore come PRT, inducendolo quindi a

prendere la parola. Spesso questi segnali discorsivi sono accompagnati da pause piene

79

(e_, ehm, mm), da pause vuote (silenzi), dall’allungamento della vocale precedente e da

indicatori di correzione (cioè)

- richiedere l’attenzione: delle forme imperative alla II pers. sing. o pl. (o alla III sing. o

pl., o alla II pl. come forme di distanza) vengono usate per richiamare e mantenere

l’attenzione. […] È il caso di: senti/a; senti un po’, mi segui/e?, di’ /dimmi/dica, ehi,

guarda/guardi/guardate, vedi/vede/veda. (Bazzanella 2001:235) In inglese troviamo due

segnali discorsivi ricorrenti nel richiamare/mantenere l’attenzione dell’interlocutore,

y’know e I mean: “y’know gains attention from the hearer to open an interactive focus

on speaker-provided information and I mean mantains attention on the speaker. […] I

mean displays speaker orientation, and as a byproduct it invites hearer’s attention;

y’know invites hearer attention and thus directly invites hearer assessment; as a

byproduct, y’know displays speaker orientation” (Schiffrin 1987:267-310).

- controllare la ricezione. I segnali discorsivi di controllo della ricezione sono utilizzati

dal parlante per accertarsi della corretta ricezione dell’enunciato da parte

dell’interlocutore. I segnali più comuni sono: eh?, capisci?, capito?Uno dei segnali

discorsivi deputati , in inglese, al controllo della ricezione da parte di chi parla è, ancora

una volta, y’know, come spiega Schiffrin, infatti: “ Y’know allows a speaker to check on

how the discourse is creating an interactional progression away from an initially

asymmetric distribution: is knowledge now more equitably devided? Is opinion now

shared?” (Schiffrin 1987:279).

- richiedere accordo e/o conferma. Qui troviamo segnali discorsivi come: no?, vero?,

non è vero?, eh?, non è così?, giusto?. Tali elementi discorsivi si trovano in posizione

finale ed hanno intonazione interrogativa. Questi segnali discorsivi di richiesta

d’accordo e/o conferma possono allo stesso tempo svolgere un’altra funzione

interazionale, ossia, cedere il turno. In questi casi, data la presenza di un segnale

apposito, il passaggio del turno è rimarcato e i partecipanti sono così “avvisati”

dell’imminente transizione del turno di parola. In inglese, il segnale discorsivo

maggiormente utilizzato per indicare la disponibilità del parlante a cedere il turno è

“so”. Come osserva Schiffrin (1987:218): “in contrast to and –which marks a speaker’s

continued turn – so is a turn-transition device which marks a speaker’s readiness to

relinquish a turn. Since so is a turn-transition device, it should not be surprising to find

it followed by explicit turn-transition phrases if a next speaker does not avail

80

him/herself of the opened turn space. Such phrases explicitely open a participation slot

to a hearer. i.e. Jack: We’re considering the...more or less: the oppressors. So eh...take it

from there”.

Il fatto che durante l'evento mediato questi segnali discorsivi siano spesso omessi nella

versione interpretata si deve proprio alla natura mediata dell'evento; i vari riempitivi

legati alla pianificazione in tempo reale, per esempio, perdono la loro valenza nel turno

di ricodificazione dell'interprete (che costituisce una seconda versione dell'originale); gli

eventuali riempitivi, false, partenze o esitazioni, quando presenti nel turno di

interpretazione, sono da attribuire all'interprete stesso e non al parlante primario. Così

anche i segnali discorsivi finalizzati a verificare l'attenzione e la comprensione

dell'interlocutore vedono in parte alterata la propria funzione dalla mediazione

dell'interprete il quale, come abbiamo detto, è il principale regolatore

dell'avvicendamento dei turni.

Oltre ad assolvere a numerose esigenze comunicative del parlante, i segnali discorsivi

sono ampiamente utilizzati anche dall'interlocutore, incluso quando quest'ultimo

intende mantenersi in posizione di ricezione. Come abbiamo visto, la conversazione è il

prodotto del lavoro congiunto di parlante e interlocutore; pur senza prendere il turno di

parola, infatti, l’interlocutore può contribuire attivamente all’evento interazionale

tramite segnali discorsivi (perlopiù fatismi e back-channels) che spesso si

sovrappongono al turno del parlante. Come abbiamo detto in precedenza, la maggior

parte delle sovrapposizioni individuate nel parlato spontaneo sono costituite appunto da

segnali discorsivi prodotti dall’interlocutore per:

− mostrare attenzione in corso (sì, mm, ah)

− esprimere accordo e/o conferma (sì, esatto, certo, è vero, infatti, assolutamente,

benissimo) o accordo parziale, se non perplessità (beh/be', mah, insomma)

− segnalare ricezione e acquisizione di conoscenza (ho capito, ah, a_h!, no_!,

ecco)

− richiedere spiegazioni (cioè?, in che senso?, eh?, cosa?)

− interrompere il parlante (ma, allora, scusa/ scusami/ scusate; un attimo, un

momento; insomma)

Ricapitolando, all'interno dello scambio comunicativo, i segnali discorsivi svolgono

81

un'importante funzione ausiliaria in quanto aiutano i co-interlocutori ad organizzare e a

gestire il sistema dei turni oltre a favorire la comprensione reciproca attraverso

meccanismi di feedback. Nella triade interazionale dell'evento mediato, i segnali

discorsivi rappresentano un caso interessante; dato il loro scarso contenuto semantico,

spesso l'interprete omette tali elementi all'interno del turno di interpretazione e numerosi

studi che hanno confrontato gli enunciati originali con quelli prodotti dall'interprete

hanno mostrato che i vari meccanismi di feedback e back-channellig tendono ad essere

ridotti, se non addirittura eliminati:

Interlocutors' small words of back-channelling are rarely translated. It is as if the relative “transparency”

of this communicative activity reduces the relevance of translating (…) However “closely” the interpreter

strives to translate, the interpreter-mediated conversation in itself transforms the interactional significance

of back-channelling (Wadensjö 1998:121)

Secondo Wadensjö (1998), cioè, offrire una traduzione letterale dei back-channels

prodotti dai parlanti, da una parte permetterebbe all'interprete di aderire ai precetti dei

codici di deontologia professionale per i quali si deve tradurre tutto ciò che viene

proferito dai partecipanti primari; d'altra parte, però, una traduzione letterale

sminuirebbe l'unicità dell'interprete all'interno dell'interazione dal momento che

interpretare questi elementi discorsivi rischierebbe di far risultare superflua

l'interpretazione stessa:

In interpreter-mediated encounters, a kind of joyful relief can sometimes be observed when primary

parties suddenly find themselves understanding one onother directly, and they can laugh at the interpreter

being excessively helpful. (Wadensjö 1998:122)

I partecipanti primari possono ovviamente identificare un certo comportamento come

espressione di attenzione, conferma o disaccordo, ma meno la comunicazione è

trasparente e mutuamente accessibile per gli interlocutori principali (per esempio grazie

ad una certa affinità culturale o perchè hanno una conoscenza basilare del rispettive

lingue), più questi dipendono dall'interprete che deve essere in grado di capire quando

l'interpretazione è o non è necessaria.

In merito all'evento mediato, Knapp e Knapp-Patthoff (1987:194) affermano che per

alcuni tipi di enunciati, in particolare espressioni enfatiche, una traduzione letterale non

rappresenterebbe un 'interpretazione adeguata, il loro significato, piuttosto, dovrebbe

essere reso tramite una descrizione delle intenzioni del parlante (es. “he's delighted”,

82

“she agrees” al posto di enunciati del tipo: “oh yes”, “that' nice”, “clear” etc.) (Ibid.).

Dato che l'elaborazione di tali enunciati rende ancora più complesso il compito

dell'interprete, è ragionevole presupporre che nella maggior parte dei casi quest'ultimo

si astenga in partenza dal fornire una traduzione e che tali porzioni di enunciato siano

rese attraverso una “zero rendition” (Wadensjö 1998), ovvero, non siano tradotte affatto:

“thus, these utterances pose a problem of mediatibilty for M (mediator), which does not

arise from the structures of the languages involved, but from the very structure of

mediator discourse” (Knapp et alii.1987:194). Come spiegano gli autori (Ibid.),

generalmente questi tipi di enunciato si collocano all'inizio del turno e sono

immediatamente seguiti da una domanda o richiesta, oppure indicano l'intenzione di

mantenere il turno di parola (es. “ehm”) seguiti da un'eventuale pausa e da una

successiva richiesta, domanda ecc. Nella versione ri-codificata tali elementi verrebbero

quindi rimossi a favore di un contenuto proposizionale più conciso, come scrivono

Gentile et alii. (1996) è anche per questa ragione che solitamente i turni dell'interprete,

e quindi le versioni tradotte, sono più brevi rispetto agli enunciati originali. Grazie a

questa breve indagine sul tema dell'avvicendamento dei turni di parola, abbiamo potuto

considerare la complessità inerente all'interpretazione al di là dell'apparente semplicità

del ruolo dell'interprete; abbiamo visto come anche meccanismi automatici che

utilizziamo inconsciamente mentre parliamo sono la prova di regole conversazionali

sottostanti tutt'altro che banali. L'evento mediato chiama in gioco le relazioni, le

intenzioni, le aspettative comunicative e le competenze conversazionali di tutti i

partecipanti coinvolti, primo fra tutti (data la sua centralità all'interno dell'interazione)

l'interprete, il quale, man mano che procediamo nella nostra analisi si spoglia dei luoghi

comuni e dei pregiudizi che lo relegano al ruolo di automa della comunicazione ed

emerge sempre più come figura protagonista responsabile del successo comunicativo fra

gli interlocutori primari.

83

CAPITOLO 4

L'interprete in ambito medico

In questo capitolo concentreremo la nostra attenzione su un ambito professionale

specifico circoscrivendo la nostra analisi alla figura dell'interprete che opera nel

contesto dei servizi socio-sanitari. In questo ambito, la complessità insita nel ruolo

dell'interprete risulta ulteriormente ampliata dalla delicatezza e dalla responsabilità che

il tipo di contesto comporta. Nella prima parte ci occuperemo di delineare le

caratteristiche salienti e le peculiarità dell'interpretazione medica, come viene

denominata in territorio anglosassone (medical interpreting), per passare poi alla

presentazione dell'attuale situazione italiana che, come vedremo, mostra alcune

specificità locali, e a volte contraddizioni, degne di una riflessione più profonda.

Il tema della comunicazione interlinguistica in ambito medico o socio-sanitario è

particolarmente delicato in corrispondenza della gravità delle conseguenze di eventuali

“errori” comunicativi, imputati in questo caso all'interprete o mediatore linguistico-

culturale responsabile dell'interazione fra i parlanti monolingui. Come scrive Rudvin

(2003:159):

According to the law, all individuals have equal right to access legal, social and health services. However,

frequently language is a serious obstacle to equal access, even when language-mediaton services are

provided for, if the quality of the interpreting is not adequate, then the clients are clearly not enjoying the

rights to which they are entitled.

La formazione dell'interprete occupa quindi un ruolo fondamentale, ma in questo settore

più di ogni altro è frequente il ricorso a interpreti improvvisati (ad hoc) che,

sovraccaricati di un compito che non sono preparati a svolgere, si ritrovano a dover

sostenere situazioni psicologicamente ed emotivamente provanti, dense di divergenze

culturali di cui spesso non sono consapevoli, oltre alle difficoltà tecniche e

terminologiche legate all'interpretazione.

Angelelli ha studiato approfonditamente il ruolo dell'interprete in ambito medico

utilizzando un corpus di dati raccolto durante oltre 300 incontri nel contesto ospedaliero

ed intervistando gli stessi interpreti in merito alle opinioni che nutrono riguardo al loro

ruolo professionale. Lo studio è stato svolto presso un ospedale della California per un

periodo di ventidue mesi. L'autrice ha cominciato la propria riflessione a partire dal

84

censimento del 2000 dal quale risulta che negli Stati Uniti circa 21 milioni di persone

hanno una limitata padronanza della lingua inglese; tale risultato equivale ad una

notevole varietà etnica e linguistica che rende certamente impegnativo il compito di

fornire un'adeguata assistenza socio-sanitaria ai pazienti che possiedono una conoscenza

limitata dell'inglese.

Come scrive Angelelli (2004:19),

the most important communication skills for an HCP (healthcare provider) in cross-cultural setting are

those that assist in patient assessment and elicitation skills to understand the patient's perspective of

symptoms and explanatory health-beliefs models.

Per esempio, pazienti che provengono da ambienti culturali diversi mostrano diverse

attitudini circa il modo di ascoltare le notizie, soprattutto le brutte notizie; per alcune

culture il semplice proferimento di cattive notizie può venire associato a conseguenze

infauste. La maggior parte dei pazienti preferisce ricevere tutte le informazioni

disponibili sul proprio stato di salute e sulle possibili opzioni terapeutiche. Per i medici,

d'altro canto, può rivelarsi estremamente importante la consapevolezza che pazienti di

culture diverse possono differire nelle preferenze che riguardano il modo di ricevere

l'annuncio di un referto negativo. Anche i pazienti che sono interessati ad una

informazione specifica, per esempio nel caso di una prognosi, potrebbero astenersi dal

fare qualsiasi domanda ai medici; questi ultimi, secondo un'ottica multi-culturale, non

dovrebbero interpretare il silenzio del paziente al quale è stato chiesto di esporre

eventuali dubbi come equivalente all'assenza di dubbi o domande da rivolgere loro;

spesso, infatti, la non verbalizzazione di una domanda nasconde al contrario l'interesse

verso la risposta. Alcuni temi particolarmente delicati e sensibili, inoltre, possono

divenire veri e propri tabù per alcune culture; in Italia, per esempio, è tipico soprattutto

fra i più anziani evitare la parola “tumore” e sostituirla con locuzioni più vaghe che ne

possano mitigare l'impatto, l'espressione più ricorrente in questo caso è “brutto male”.

Gli interpreti specializzati ad operare in ambito socio-sanitario e chiamati ad assistere i

pazienti delle minoranze etno-linguistiche più deboli, non solo dovrebbero essere

consapevoli di atteggiamenti determinati culturalmente, ma dovrebbero anche essere

mediatori competenti nel gestire eventuali divari interculturali. Dallo studio di Angelelli

è emerso che i pazienti delle culture minoritarie, specialmente quando non

padroneggiano l'inglese, più raramente ricevono risposte empatiche dai medici,

85

instaurano relazioni interpersonali con loro, ricevono informazioni sufficienti e sono

incoraggiati a partecipare alle decisioni terapeutiche che li riguardano. Come mostra

l'analisi, inoltre, negli Stati Uniti ai pazienti stranieri che non parlano inglese

corrisponde un numero inferiore di visite per le cure primarie ed un ricorso meno

frequente ai servizi volti alla prevenzione; nonostante ciò, non è chiaro quali siano i

fattori (se il paziente o l'operatore sanitario) che spiegano tale inferiorità di status da un

punto di vista sanitario-assistenziale. Un'altra tendenza che riguarda i pazienti stranieri è

quella di ricorrere a visite emergenziali piuttosto che a regolari appuntamenti

d'ambulatorio. A complicare ulteriormente la situazione, poi, vi è il fatto che la maggior

parte delle istituzioni si affida sempre più spesso ad interpreti improvvisati ed inesperti;

negli Stati Uniti, meno di un quarto degli ospedali offre corsi di formazione per il

proprio staff. Angelelli ha rilevato che solo nove ospedali (sui 300 analizzati) si

preoccupavano di dare una preparazione ai loro interpreti volontari; questo significa che

la maggior parte delle prestazioni di interpretariato/mediazione linguistica negli

ospedali è svolta da pazienti, familiari, amici, membri dell'equipe medica e addetti alle

pulizie, cioè da “interpreti” privi di formazione. Questa pratica, che abbiamo presentato

sotto l'etichetta di “ad hoc interpreting”, spesso sfocia in errori d'interpretazione

(omissioni, aggiunte, sostituzioni ecc,) e versioni condensate o riassunte degli enunciati

prodotti da medico e paziente. Spesso i pazienti sono accompagnati dai familiari durante

le visite mediche, in particolare quando si tratta di pazienti anziani. I pazienti

accompagnati da un familiare tendono a comportarsi diversamente rispetto ai pazienti

non accompagnati, in particolare per quanto riguarda le problematiche mediche, le

relazioni familiari e l'inclinazione verso il coinvolgimento della famiglia in merito alle

cure. I familiari, inoltre, spesso si comportano da interpreti rispondendo alle domande al

posto del paziente e non permettendo a quest'ultimo di parlare liberamente; di frequente

offrono consigli e informazioni di propria iniziativa e non traducono i commenti

espressi dal diretto interessato, così come le domande del medico sono spesso riportate

in modo non corretto e a volte non vengono tradotte affatto. Anche la mancanza di

contatto visivo fra medico e paziente può sottrarre al medico alcuni preziosi indizi non

verbali che riguardano i pensieri e lo stato d'animo del paziente, con il rischio quindi di

compromettere, o almeno ostacolare, la definizione di un quadro clinico più preciso. La

presenza dell'interprete, infatti, può ridurre la comunicazione verbale diretta e la

86

reciprocità non verbale fra i due partecipanti primari, rendendo così l'incontro meno

personale e diminuendo il senso di legame fra i due; questo accade soprattutto quando

gli operatori della struttura ospedaliera o socio-sanitaria non sanno come comportarsi

durante l'evento mediato e non sanno come “utilizzare” l'interprete. Secondo Angelelli,

la presenza di una terza persona può influenzare negativamente la relazione che si

instaura fra medico e paziente a causa di un ridotto senso di privacy e intimità fra i due,

anche nel caso in cui l'interprete e il medico abbiano ricevuto un'ottima formazione

preventiva in merito alle dinamiche dell'evento mediato. Alcune ricerche condotte in

questo ambito nell'arco degli ultimi vent'anni mostrano che i pazienti che comunicano

attraverso un interprete hanno più difficoltà a conoscere la propria diagnosi e con una

frequenza significativa esprimono una certa insoddisfazione verso l'esito dell'incontro

ritenendo che il medico avrebbe potuto spiegarsi meglio; d'altra parte, i pazienti che

comunicano direttamente con gli operatori esprimono un maggior grado di

soddisfazione così che, in definitiva, possiamo considerare la comunicazione mediata

come “un'arma a doppio taglio”:

When used improperly, it can pose a barrier to establishing a therapeutic patient-provider relationship.

However, adequate communication brokered through an interpreter can facilitate the exchange of

information between HCP (healthcare provider) and patient, and have a profoundly positive impact on the

wellbeing of the patient (Angelelli 2004:25).

Di conseguenza, possiamo affermare che l'interprete dovrebbe occupare un ruolo

mediano di interfaccia culturale, andando quindi a scardinare il vecchio mito

dell'invisibilità. Quando si analizza l'evento mediato in ambito socio-sanitario è

importante non confondere i termini interazione e relazione interpersonale, questi due

termini infatti non sono intercambiabili: “an interaction between patient and HCP is

characterized by an observable exchange of behaviours, whereas a relationship involves

qualities that are more subjective (caring, concern, respect, and compassion)”. (Ibid.

2004:15) Un rapporto di collaborazione fra medico e paziente è un'alleanza terapeutica

nella quale i due soggetti coinvolti divengono complici nella comune lotta contro la

malattia e quando i pazienti sono trattati come partner durante l'incontro, o consulto

medico, esprimono una maggiore tendenza a porre domande, chiedere chiarimenti e

mostrano, in definitiva, una maggiore soddisfazione e una ridotta preoccupazione verso

la malattia grazie all'aderenza alle cure prescritte. In questo modo viene a stabilirsi un

87

legame di tipo emotivo fra i due partecipanti primari; sostegno, empatia, interesse e

legittimazione da parte del medico, così come domande mirate e puntuali, sono tutti

elementi importanti nella costruzione del rapporto interpersonale col paziente che, in tal

modo, si sente ascoltato e capito.

A questo punto, è interessante indagare gli effetti che la presenza dell'interprete

provoca sulle dinamiche di questo rapporto triadico. Gli eventi mediati al California

Hope (pseudonimo che Angelelli utilizza per riferirsi all'ospedale nel quale ha svolto la

sua ricerca) coprono una serie di attività: concordare o cancellare un appuntamento;

dare notizie o consegnare referti; condurre un una visita orale (per le patologie del

linguaggio); condurre una visita medica di controllo; condurre una procedura (es. TAC);

e telefonare per ricordare un appuntamento. In queste attività, può presentarsi ognuna

delle seguenti funzioni: lamentarsi, rimproverare, spiegare, manifestare sostegno,

giustificare/si, domandare e rispondere, esprimere solidarietà, dare istruzioni, informare

e ricordare.

Siccome solo una piccola percentuale pari al 4% dei casi studiati dall'autrice ha

confermato la teoria dell'invisibilità dell'interprete, la conclusione che ne deriva è che la

visibilità dell'interprete può essere più legata e dipendente dal contesto situazionale che

al tipo di interazione. La presenza di altri ascoltatori ha un impatto significativo

sull'interazione; a differenza dell'interpretazione di tribunale e di conferenza che sono

pubbliche di natura, l'interpretazione in contesto medico si svolge generalmente in un

luogo privato (ad eccezione dello staff medico presente); questo contesto “intimo”,

tuttavia, può offrire all'interprete più occasioni di visibilità. Come ogni altro evento

comunicativo, anche l'evento mediato è caratterizzato dalla struttura tripartita: apertura,

corpo centrale e chiusura. Come ogni consulto medico monolingue, anche l'evento

mediato può essere suddiviso in sei fasi che Byrne e Long (1976)32 hanno identificato

nel loro studio; queste fasi comprendono:

1) rapportarsi col paziente;

2) scoprire il motivo della visita;

3) condurre una visita di tipo verbale o fisico, o entrambe;

4) esaminare le condizioni di salute del paziente;

32 Byrne, P. S., Long, B., E., I. (1976) Doctors talking to patients: a study of the verbal behaviours of doctors in consultation. London: HMSO.

88

5) prescrivere la cura o ulteriori esami;

6) concludere.

La presenza di un interprete durante l'evento comunicativo ha un impatto su ognuna di

queste sei fasi. Il concetto di visibilità sembra essere un concetto fluido che presenta una

serie di variabili. La visibilità varia a seconda delle fasi del consulto medico, la visibilità

che si riscontra durante le fasi di apertura e chiusura, per esempio, è estremamente

ritualizzata. Le strategie linguistiche e comunicative utilizzate dall'interprete per rendere

gli enunciati che produce sono varie; in alcuni casi, l'interprete risulta lievemente

coinvolto nella produzione testuale a causa del ricorso al pronome singolare (includendo

se stesso nell'interazione); in altri casi, l'interprete produce messaggi che aggiungono

informazione in maniera significativa rispetto agli originali, percorrendo così livelli di

maggiore o minore visibilità:

For example, if a doctor uses a technical term, such as clear liquid diet, the interpreter takes ownership by

expanding, explaining, or changing the register for the patient, in order to ensure that the patient

understand. Clear liquids then become water, broth, and apple juice. (Angelelli 2004:77)

A livello di scelte lessicali durante la comunicazione interculturale l'interprete svolge

quindi un compito delicato, Ian Mason (1999:12) propone un esempio interessante:

A hospital doctor addressing a patient may well refer to a “problem with the waterworks” rather than a

“genito-urinary tract” problem; the discourse adopted is one which acts as an appropriate sign

(informality, friendly bedside manner) within its culture; if used cross-culturally without interpreter

mediation, it may meet whit a look of blank incomprehension or, worse, result in offence being taken.

Un interprete competente e doverosamente formato costituisce, quindi, una figura

cruciale nel compensare differenze interculturali e nel rendere l'enunciato d'arrivo

semanticamente e pragmaticamente appropriato; in questi casi l'azione dell'interprete è

chiaramente più visibile. Solitamente, il maggiore grado di visibilità (e il conseguente

impatto sulle informazioni mediche e personali trasmesse) non riguarda le fasi di

apertura e chiusura dell'incontro; al contrario, interessa le fasi intermedie (dalla seconda

alla quinta – es. durante la visita o le fasi di disamina delle condizioni di salute o di

prescrizione della terapia o di successivi esami). Gli obiettivi dei partecipanti coinvolti

durante l'evento mediato non sono gli unici elementi che divergono; come abbiamo

89

detto in precedenza, ogni partecipante porte con sé le proprie aspettative personali. I

pazienti si aspettano di essere ascoltati, i medici si aspettano di ottenere le informazioni

necessarie per definire la diagnosi e presentare possibilità terapeutiche, gli interpreti, dal

canto loro, si aspettano di aiutate i partecipanti monolingui nel comunicare l'uno con

l'altro. A volte i pazienti stranieri arrivano all'appuntamento avvertendo una sensazione

di forte impotenza e frustrazione, sapendo di non possedere il repertorio linguistico

(gergo tecnico, “medicalese”) necessario per interagire con il dottore o infermiere ma

cercando disperatamente una soluzione per il loro stato di salute. A volte i medici si

trovano a lavorare sotto forti pressioni di tempo, a volte non dispongono del repertorio

linguistico idoneo alla comunicazione con un interlocutore profano oppure non

conoscono la cultura di appartenenza del paziente. Sta all'interprete il compito di

organizzare e coordinare questo insieme di risorse, obiettivi, ed aspettative interazionali.

Nel seguente dialogo, l'interprete si presenta al paziente (Ibid. 2004:80):

(HI: hospital interpreter; N: nurse; P: patient) HI: María Gómez? N: Gómez. Thank you. Here he is. HI: Señora. Buenos días. (Ma'am, good morning.) P: Sí. Buenos días. (Yes. Good morning.) HI: Soy un intérprete, ma llamo Joaquín y le voy a ayudar a practicar con la enfermera. (I am an interpreter. My name is Joaquín, and I am going to help you talk with the nurse.) P: okay.

Joaquín descrive il proprio ruolo al paziente come interprete ed aiutante al contempo.

Questo turno di parola non gli è formalmente attribuito ma è lui stesso a posizionarsi

all'interno dell'interazione come partecipante attivo. Il seguente esempio (Ibid.) dimostra

un più alto livello di visibilità rispetto alle fasi di apertura e chiusura, soprattutto in

termini di enunciati originati per iniziativa dell'interprete e in riferimento alla gestione

del dialogo:

D: let's see...no heart disease runs in the family, right? HI: Y no hay enfermedades del corazón que andan en la familia de Used, verdad? (no heart disease in your family, right?) P: No D: Has she ever been checked for the skin test for tuberculosis? HI: Le han hecho alguna vez el estudio de piel para tuberculosis? (Have you ever been tested with the skin test for tuberculosis?) P: Pues, allá me hicieron estudios pero no sé si es para eso... (Well, I had some tests done there, but I don't know if they were to check that...) HI: es una aguja que se le meta, le inyecta un poco de liquído bajo la piel y tiene que regresar dentro de

dos o tres días para que le vean si ha cambiado la piel.

90

(It is a needle thet is inserted, it injects a little liquid under the skin and you have to go back in two or three days so that they can see if you have changed your skin.)

P: No HI: No, she hasn't had that. I just described for her what it was as she said she's had different tests but she

wasn't sure if she has had tuberculosis; so I explained to her how PPD works.

In questo dialogo, l'interprete, di propria iniziativa, spiega al paziente in cosa consiste

un test per la tubercolosi ritenendo, così facendo, di non interferire nella costruzione del

rapporto di fiducia con il medico. L'interprete, in questo modo, media e dirige la

comprensione dell'enunciato originale e incide sulla relazione fra il medico e il paziente

nel momento in cui subentra come autore dell'informazione.

Come dimostrano anche gli esempi riportati, gli interpreti spesso sono partecipanti attivi

e visibili durante l'evento comunicativo. Le fasi di apertura e chiusura (di natura

formulaica e ritualizzata) mostrano un minor tasso di visibilità che si presenta perlopiù

quando si registra un coinvolgimento dell'interprete come autore del testo. Si

riscontrano poi esempi di notevole visibilità nei casi in cui l'interprete, sotto l'influenza

dei fattori sociali in gioco, sostituisce progressivamente l'interlocutore monolingue

divenendo egli stesso autore primario del testo. Attraverso il suo studio, Angelelli ha

osservato in prima persona che gli interpreti dirigono le mosse interazionali e

coordinano gli scambi di informazione fra i parlanti; i risultati così emersi hanno

avvalorato la tassonomia proposta da Baker33 secondo la quale l'interprete partecipa a:

• Relazioni strutturali, perchè collega parte del testo in questione all'evento

comunicativo nella sua complessità; l'interprete ricollega costantemente una

risposta o un commento alla globalità del tema trattato.

• Relazioni generiche, in quanto collega il testo ai testi precedenti.

• Relazioni relative al mezzo, in quanto collega il testo al mezzo col quale è

prodotto; se gli interlocutori basano il testo su una radiografia o un referto, per

esempio, l'interprete fa riferimento a questi mezzi, diversi dal mezzo testuale.

• Relazioni interpersonali, in quanto collega il testo ai partecipanti coinvolti.

• Relazioni referenziali, in quanto rapporta il testo al mondo o contesto

ambientale proprio di una lingua.

• Relazioni del silenzio, in quanto ciò che non viene detto o non può essere

espresso verbalmente ha comunque un impatto sul testo; l'interprete svolge il

33 Baker, A. (1995) Beyond translation: essays towarda a modern philology. Michigan: University of Michigan Press.

91

proprio compito durante i silenzi (le pause dei parlanti primari), interpreta il

silenzio, provoca o richiede il silenzio e riempie il silenzio altrui.

L'interprete, come abbiamo visto, detiene una moltitudine di ruoli e il termine utilizzato

dagli interpreti per definire il proprio ruolo evidenzia, ancora una volta, la tensione fra il

ruolo prescritto (invisibile) e il ruolo effettivo (visibile). In ogni caso, questa tensione

sembra esistere solo a livello percettivo, astratto; nella pratica, infatti, gli interpreti

diventano partecipanti visibili e attivi nel corso dell'interazione mediata. Molti di loro

hanno descritto il loro ruolo attraverso varie metafore:

Gli interpreti come detective; i pazienti non sempre danno risposte precise alle domande

formulate loro dai medici o dagli altri operatori sanitari; a volte, addirittura, i medici

chiedono agli interpreti di ottenere le informazioni necessarie senza definire una

domanda precisa; “Interpreters then take the lead in a line of questioning, in order to get

the answer. In other words, they become detectives, questioning the patient carefully,

hoping to discover the answer” (Angelelli 2004:131)

Gli interpreti come ponti multiuso; grazie alla loro capacità di adottare la prospettiva

culturale di entrambi i partecipanti primari, medico e paziente, gli interpreti colmano

questo divario culturale; “They provide a service to both patients and HCPs, sometimes

by educating the parties on cultural differences and other times by simply smoothing the

differences without making either party aware of the process”. (Ibid.)

Gli interpreti come intenditori di diamanti; i racconti dei pazienti sono molto diversi fra

loro in termini di contenuto e generalmente presentano un misto di informazioni

rilevanti, meno rilevanti, oppure del tutto irrilevanti; “In the telling of a story, the patient

opens up a bag full of rocks, diamonds, and dirt; it is important that interpreters be

capable of distinguishing diamonds from ordinary rocks” (Ibid.)

Gli interpreti come minatori; mentre ad alcuni pazienti piace raccontare la propria

storia, altri sono più restii a fornire le informazioni necessarie all'interprete o al medico.

“In these cases, interpreters have to find a way to extract information excavating until

they get to the gold (the necessary information), as miners do (Ibid.)

92

4.1 Il briefing

L'interazione fra medico e paziente, nonostante le barriere linguistico-culturali, è un

elemento fondamentale che può ripercuotersi sull'esito stesso della terapia prescritta. In

altre parole, non è sufficiente comunicare solo le informazioni di carattere prettamente

medico, è importante anche che i due partecipanti primari instaurino e costruiscano un

rapporto interpersonale grazie alla partecipazione dell'inteprete/mediatore. Per poter

interagire al meglio sia con l'interlocutore primario che con l'interprete è necessario

sapere cos'è un evento mediato e in cosa consiste la figura dell'interprete o mediatore

linguistico-culturale. A questo proposito sarebbe ideale organizzare una sessione

informativa preliminare, detta briefing, con entrambe le parti (fra interprete e medico, e

fra interprete e paziente) durante la quale spiegare il ruolo detenuto

dall'interprete/mediatore, fornire alcune regole base in termini di gestione dei turni di

parola, di aspettative interazionali (cosa ci si deve aspettare dall'evento mediato e dalla

performance dell'interprete) e in termini di etica professionale. Come avvisano Gentile

et alii.(1996:21) è importante che la sessione di briefing sia condotta con cautela e

professionalità:

The briefing from both clients about the subject matter of the interview needs to be handled extremely

carefully to avoid eiher client assuming, during the interview, that the interpretation will be supplemented

with what was discussed at the briefing. (Ibid.)

Secondo gli autori, è necessario chiarire che le informazioni fornite durante la fase di

briefing non verranno utilizzate dall'interprete per integrare ciò che verrà detto durante

la successiva interazione a tre; questo comportamento vizierebbe la vera essenza della

figura professionale dell'interprete alterandone il ruolo. Inoltre, se l'interprete utilizzasse

l'informazione ricevuta durante la sessione preliminare per aggiungere e completare

l'enunciato del paziente in sede di consulto medico, potrebbe dare adito a conseguenze

sfavorevoli di cui sarebbe ritenuto responsabile. Per evitare tutto ciò, l'interprete

dovrebbe organizzare la sessione informativa preliminare nel miglior modo possibile

senza entrare troppo nel dettaglio con i partecipanti: “this may be to obtain as much

information as possible when the booking is made and to avoid waiting in the company

of one client before the assignment” (Ibid 1996:22).

Piccinini (in Luatti 2006) parla di stipula preventiva di un “contratto” di mediazione,

93

una sorta di patto dove l'operatore prima dell'intervento di mediazione, definisce

insieme con il mediatore, le modalità d'intervento: posizione dei soggetti, collocazione

dei tempi per la traduzione, scambio di informazioni sul caso, gestione delle

informazioni ecc. Per mantenere la fiducia del medico (o operatore sanitario) è

necessario che il mediatore mantenga il flusso della comunicazione ma non produca

direttamente comunicazione (come vedremo la pratica spesso smentisce tali precetti); è

fondamentale cioè che l'interprete/mediatore si tenga alla “giusta distanza”:

Spesso il mediatore viene vissuto dall'utente come un confidente, egli incarna un modello di una

integrazione avvenuta, una storia di immigrazione conclusa positivamente, ma a lungo termine, per il

mediatore, il fatto di rappresentare un punto di riferimento costante, il fatto di dover essere disponibile in

ogni momento, rischia di diventare controproducente e di portare ad uno sconfinamento della dimensione

professionale in quella personale. (Ibid. 2006:99)

La formazione professionale dell'interprete che opera in questo ambito è quindi cruciale,

una professione nella quale è previsto l'instaurarsi di una relazione d'aiuto necessita di

strumenti professionali per poter stabilire con chiarezza alcune regole cardine che

proteggano l'interprete dal rischio di essere troppo coinvolto, complice e solidale con

uno dei partecipanti; il paziente col quale condivide l'appartenenza linguistico-culturale,

o l'operatore dell'istituzione che incarna l'autorità e che a volte ha un rapporto di

collaborazione continuativa con l'interprete:

Si tratta quindi di una posizione di equilibrio, il mediatore deve essere, da un lato, credibile e meritevole

di fiducia rispetto alla comunità di appartenenza, d'altro canto però, deve essere abile a non lasciarsi

coinvolgere troppo dalle problematiche legate ai singoli e alla comunità (Ibid.).

Come detto in precedenza, l'interprete può lavorare come freelance, oppure può operare

tramite un'agenzia o cooperativa o un'associazione no profit; il tipo di contratto può

essere di collaborazione o prestazione occasionale, a chiamata, oppure può lavorare

all'interno di un team stabile presso una struttura ospedaliera o socio-sanitaria. Come

suggeriscono Gentile et alii. (1996), l'importanza del briefing è necessaria anche e

soprattutto nel caso di prestazioni isolate quando cioè è prevista una singola esperienza

di comunicazione mediata. Durante il briefing, o “accordo di traduzione”, fra il

mediatore linguistico-culturale e l'operatore, è importante stabilire che tipo di

traduzione operare, come spiega Marta Castiglioni (in Luatti 2006), fornire una

traduzione “fedele e completa” può significare cose molto diverse a seconda dei casi e

94

dei contesti situazionali. Durante la compilazione di una cartella clinica o la

realizzazione di un'anamnesi, per esempio, il mediatore linguistico-culturale procederà

alla traduzione del contenuto che risponda alla domanda formulata dall'operatore,

tralasciando eventuali commenti dai pazienti e tutto ciò che non sia funzionale alla

raccolta dei dati necessari alla visita. In altre circostanze, “una traduzione fedele”

richiede che alle parole del paziente si aggiungano ulteriori spiegazioni di tipo culturale.

Diversa ancora la mediazione linguistico-culturale nell'ambito della salute mentale che,

proprio per la sua specificità, richiederebbe un approfondimento appositamente

dedicato. Secondo Castiglioni, inoltre, è importante che il mediatore linguistico-

culturale ricordi all'operatore che esiste sempre un certo livello di “intraducibilità” e che

tradurre è “dire quasi la stessa cosa” (Eco 2001)34 in un'altra lingua. Un altro tema

controverso e degno della massima attenzione è se e come interpretare e decodificare la

comunicazione non verbale, il paralinguaggio (il tono della voce, il timbro, i silenzi, le

pause ecc.) e il linguaggio del corpo (postura, sguardo, gesti ecc.) che non di rado sono

fonte di malintesi, ambiguità comunicative e fraintendimenti che possono provocare

anche pericolosi errori diagnostici o di valutazione di una data situazione:

Un esempio rappresentativo, accaduto all'inizio del nostro lavoro, è stato quello dell'assistente sociale che

di fronte al silenzio della donna cinese riguardo al nome da dare al bambino e al ritardo nell'iscrizione

nell'anagrafe, interpreta in modo sbagliato che la donna vuole dare il neonato in adozione. Il silenzio della

donna era invece motivato dalla necessità di consultare l'oroscopo cinese per la scelta del nome.

(Castiglioni in Luatti 2006:150)

Come spiega la stessa autrice, il caso sopracitato è dovuto ad un malinteso

culturalmente determinato; nelle culture occidentali il silenzio spesso significa assenso,

al contrario per gli asiatici significa dissenso. Le persone occidentali esprimono la

rabbia o il disaccordo considerando queste manifestazioni come segni d'apertura e

sincerità, nella cultura araba-mediorientale, per esempio, le persone tendono ad

interiorizzare la rabbia e il disaccordo e considerano la loro manifestazione come

inconveniente o presuntuosa. Richard Gesteland (1997), a proposito della

comunicazione interculturale, parla del cosiddetto “mito dell'orientale imperscrutabile”

(the myth of the “inscrutable oriental”), i parlanti asiatici, soprattutto cinesi,

giapponesi e abitanti dell'area meridionale del continente asiatico, presentano un

34 Eco, U. (2001) Dire quasi la stessa cosa, Bompiani, Milano. Citato in Luatti 2006:149.

95

linguaggio più indiretto, preferiscono nascondere le proprie emozioni, in particolare

quelle negative, “they seem to treat no as a four-letter-word. To avoid insulting you they

may instead murmur that will be difficult” (Ibid.). Gesteland, poi, classifica le differenze

culturali principali secondo i seguenti parametri dicotomici:

• Deal-Focus vs Relationship-Focus Cultures (Clarity vs Harmony)

• Informal vs Formal Cultures

• Rigid- Time vs Fluid- Time Cultures

• Expressive vs Reserved Cultures

• 'Low-Context' and 'High- Context' Communication (Direct Language vs Indirect

Language)

Affinchè la comunicazione interculturale abbia successo, è fondamentale tener conto di

tali differenze radicate nella cultura dei parlanti che, nella maggior parte dei casi, sono

implicite e sconosciute all'interlocutore di diversa appartenenza linguistico-culturale;

un'altra interessante distinzione individuata da Gesteland (1997) riguarda il diverso

livello di espressività dei parlanti:

- Very expressive cultures: the Mediterranean Region, Latin Europe, Latin America;

- Moderately expressive: USA and Canada, Australia and New Zealand, Eastern Europe, South Asia;

- Reserved cultures: East and Southeast Asia, Nordic and Germanic Europe.

La sessione informativa preliminare all'evento mediato vero e proprio può essere quindi

utilizzata anche per far luce su alcune divergenze culturali rilevanti delle quali è bene

informare i partecipanti primari allo scopo di evitare, o per lo meno attenuare, eventuali

malintesi basati su pregiudizi di tipo etnocentrico, se non addirittura conflitti

comunicativi scaturiti da misunderstanding di carattere interculturale. In fase di

briefing, inoltre, è opportuno definire il setting nel quale avverrà la mediazione così da

stabilire alcune regole di comportamento che possano arginare il rischio di possibili

malintesi, Castiglione (2006) propone di fissare tali regole:

− la presentazione del mediatore all'inizio dell'intervento: il mediatore linguistico-

culturale spiega all'utente il motivo della sua presenza per ottenere il consenso a

partecipare alla visita o al colloquio, oltre a ricordare la regola del segreto professionale;

− la collocazione spaziale del mediatore linguistico-culturale: come già detto

citando Gentile et alii. (1996), la disposizione delle sedie durante l'evento mediato

96

dovrebbe permettere di riprodurre il triangolo e, nel caso non sia possibile rispettare una

posizione triangolare, il mediatore dovrebbe collocarsi accanto all'utente per bilanciare

la situazione di disparità di potere e a volte d'ineguaglianza in cui ogni utente si viene a

trovare (disuguaglianza d'accesso alle risorse d'informazione e asimmetria di status

posizionale) Ancora una volta, il colloquio etnopsichiatrico costituisce un ambito di

ricerca a parte, in quest'ultimo infatti è preferibile una disposizione circolare dei

partecipanti per favorire e facilitare il flusso comunicativo;

− il turno di parola: il mediatore linguistico-culturale deve rispettare e fare

rispettare il turno di parola per consentire di ascoltare e trasmettere in modo corretto ciò

che viene detto e per permettere di evitare il crearsi di situazioni di disagio e stress.

In seguito all'evento mediato, può essere molto utile un'ulteriore sessione informativa

che prende il nome di de-briefing, ossia un incontro a posteriori fra interprete o

mediatore culturale e operatore sanitario; come afferma Rudvin (2003:152):

De-briefing can be very useful to discuss any problem that have arisen during the session that are still

unclear or may have led to a misunderstanding. It is also an opportunity for the interpreter to discuss

difficult ethical issues or dilemmas with a doctor , psychiatrist or judge if s/he needs support, advice or

simply empathy.(...) Ultimately, decisions about whether to brief/de-brief, whether or not one can offer

practical advice to the client etc. are, of course, not the responsibility of the interpreter alone but the legal

institutions themselves.

In questa sezione, abbiamo voluto riassumere i motivi principali che stanno alla base di

un'ideale sessione di briefing in vista dell'evento mediato fra paziente ed operatore

sanitario, come verrà detto nel prosieguo di questo lavoro utilizzando le testimonianze

dirette di alcune mediatrici culturali, spesso la sessione informativa preliminare (così

come quella conclusiva) non rientra però nella prassi del servizio di mediazione

culturale offerto dalle aziende socio-sanitarie, o meglio, nella pratica si riscontra (se

prevista) una forma di briefing molto più breve e concisa di quella postulata in via

teorica; spesso infatti, la sessione di briefing col paziente, è inglobata nello stesso

scambio mediato medico-paziente e si riduce ad una brevissima presentazione del

mediatore prima di iniziare la visita o consulto medico.

97

4.2 La mediazione interculturale in ambito socio-sanitario e la situazione italiana

Come scrive Rudvin (2005:331), ricollegandosi alla teoria antropologica di Kleinman35,

“le strutture sanitarie ed assistenziali sono “solo” dei sistemi come altri, non universali

nella loro struttura, e profondamente limitati dalla propria cultura di riferimento

(culture-bound)”. Il sistema sanitario è quindi un “modello concettuale” culturalmente

definito, non un modello universale stabilito a prescindere dal contesto socio-culturale

nel quale è inserito, a tal proposito scrive Baraldi (2003:110):

Queste identità culturali non sono caratteristiche predefinite di gruppi sociali, di minoranze, di nazioni o

di altri segmenti. La trasformabilità le distingue, essendo esse sistematicamente contaminate da forme

culturali diverse con cui entrano in contatto: l'identità culturale (e quindi la diversità culturale) è una

produzione, non un antecedente alla comunicazione. (…) L'informazione prodotta nella comunicazione è

una costruzione sociale, dunque non è mai oggettiva.

Il sistema sanitario pertanto, è radicato e modellato da e nella cultura di riferimento, così

come lo scopo stesso delle terapie mediche e l'impianto teorico e metodologico sul

quale il sistema pone le proprie fondamenta. Il ruolo dell'interprete-mediatore

rappresenta l'anello di congiunzione fra il linguaggio e le istituzioni, entrambi

culturalmente costituiti. Nella maggior parte dei casi le istituzioni si rivolgono ad

agenzie, cooperative o associazioni attraverso appalti o convenzioni per la gestione dei

servizi di mediazione. Come si è già detto, la mediazione può richiedere interventi

molto differenziati e può esigere varie modalità di coinvolgimento: ascolto,

accompagnamento, sostegno, orientamento, testimonianza, informazione, traduzione

linguistica e consulenza su aspetti legati all'appartenenza culturale. Da una parte dunque

la complessità del ruolo che l'interprete-mediatore è chiamato a svolgere, dall'altra

l'emergenza del fenomeno immigratorio italiano che ha comportato in concreto

l'impossibilità di elaborare e strutturare con la dovuta attenzione un modello di

mediazione efficiente ad efficace, un modello nel quale i miglioramenti sono stati

apportanti solo a posteriori, in seguito ai risultati emersi dall'esperienza diretta. La

situazione italiana si presenta ancora piuttosto eterogenea e carente di un impianto

istituzionale e normativo in grado di delineare uniformemente questo profilo

35 Kleinman, A. (1980) Patients and healers in the context of culture : an exploration of the borderland between anthropology, medicine, and psychiatry. Berkeley: University of California press.

98

professionale tuttora confuso, basti pensare alla stessa terminologia che ad oggi manca

di una definizione standardizzata ed ufficialmente riconosciuta. Tale mancanza di

strutturazione, sia a livello professionale che disciplinare, rende ancora più complessa e

problematica la definizione del ruolo dell'interprete-mediatore in ambito socio-sanitario,

così come si ripercuote sul servizio sociale offerto agli utenti stranieri. Rudvin

(2005:336) parla di “trasversalità del problema nei diversi ambiti sociali (sanitario,

giuridico, amministrativo)”, aggravata da un reclutamento spesso casuale e

improvvisato che minaccia la credibilità e l'immagine stessa di una professione che

richiede notevoli competenze tecniche e personali. Il reclutamento di interpreti

qualificati per le cosiddette “lingue a diffusione limitata”, poi, rappresenta un' ulteriore

criticità del sistema italiano: “hospitals and immigration services tend to use a collegue-

friends-yellow pages network” (Ibid.), più raro è invece il caso di team stabili di

mediatori linguistico-culturali all'interno delle strutture socio-sanitarie del Paese.

L'Italia di oggi attraversa un momento storico di transizione, nel quale proliferano e

spesso si sovrappongono profili professionali, percorsi formativi (offerti dalle università

o quelli di carattere pubblico offerti dalle ONG) e denominazioni sempre più ambigue

ed incerte; Belpiede (in Luatti 2006:246) propone un riassunto della caotica

terminologia italiana rispetto alla figura dell'interprete-mediatore:

Mediatore “interculturale”, mediatore “culturale”, mediatore “linguistico-culturale”, “operatore sociale”,

“operatore sociale e culturale”, “agevolatore/facilitatore”, “tecnico esperto in mediazione”, “tecnico

qualificato in mediazione”,...: la varietà delle definizioni evidenzia come il nome, e di conseguenza il

profilo del mediatore, siano oggetto di discussione nella maggior parte delle Regioni italiane. C'è da

chiedersi se tali opzioni definitorie siano l'esito di riflessioni o piuttosto di scelte che non riflettono una

disamina precisa, ma semplicemente espressione del contesto territoriale e del suo linguaggio.

Come sostiene la stessa autrice, tale situazione è imputabile in particolare a due processi

istituzionali: “le autonomie regionali e universitarie” (Ibid.) In assenza di una

regolamentazione a livello nazionale, ogni regione, e ciascuna università, ha creato ex

novo una moltitudine di profili formativi e di corsi di laurea che si differenziano solo

per minime variabili dei rispettivi piani didattici non facendo altro che aumentare la

frammentazione delle professioni cosiddette “sociali”. Rudvin (2006:59) descrivendo il

quadro italiano, individua una sostanziale, seppur non precisa, differenziazione: “In

Italy a distinction – albeit not yet standardized – is made between language mediator

99

(cummunity interpreter/public service interpreter) and cultural mediator (culture-

broker)”. Come spiega Rudvin, per motivi di ordine geo-politico, il ruolo del mediatore

culturale in Italia è stato nettamente predominante rispetto a quello dell'interprete e

l'interpretariato è semplicemente considerato come una delle tante attività svolte dal

mediatore culturale: “The main task of a language mediator is to translate. The assumed,

and mistaken, simplicity of this task leads to the frequent recruitment of ad-hoc

interpreters”. (Rudvin 2006:60)

In Italia, la distinzione fra interprete e mediatore linguistico-culturale risulta spesso

confusa, farraginosa, se non addirittura deviante rispetto alla reale definizione di tali

figure professionali:

Entrambe le figure condividono gli stessi obiettivi di base dell'operatore sanitario, ovvero capirsi, aiutarsi

vicendevolmente per arrivare a un'intesa, giungere a una diagnosi ed una terapia. Tradizionalmente, il

ruolo del mediatore in questo processo è più pro-attivo che non quello dell'interprete. (Rudvin 2005:338)

Rudvin propone una descrizione delle qualifiche professionali del mediatore culturale

(Ibid.):

- deve essere (preferibilmente) straniero;

- deve avere un vissuto migratorio (per stabilire l'empatia emotiva e culturale);

- attitudine all'ascolto e capacità di immedesimazione;

- livello di istruzione elevato;

- alte competenze linguistiche nella propria lingua madre sia scritta sia orale;

- buon livello culturale;

- conoscenza della realtà italiana.

L'interprete, d'altro canto, traduce ed interpreta in maniera più distaccata durante la

relazione interculturale, utilizza un “approccio dissociativo” nei confronti

dell'interlocutore, traduce con più precisione possibile quanto viene detto e deve

possedere un'attitudine all'imparzialità. Mediatore linguistico-culturale ed interprete,

inoltre, condividono la consapevolezza delle differenze interculturali e della mancanza

di corrispondenza terminologica e/o comunicativa fra lingue diverse. Rudvin (Ibid.

2005:342) afferma che nella formazione dell'interprete mancano spesso elementi quali:

− il diverso modo di descrivere i sintomi;

− i tabù culturali;

− la descrizione e la percezione del dolore;

100

− i diversi approcci alla gerarchia professionale (come comportarsi: Lei/tu,

contatto visivo, tono di voce, poter contraddire);

− le differenze nel rapporto medico-paziente;

− le differenze nel rapporto uomo-donna;

− le percezioni legate all'età;

− il ruolo della famiglia;

− il consenso informato;

− la riservatezza.

Detto questo, sarebbe incauto asserire che la figura del mediatore linguistico-culturale e

quella dell'interprete sono figure antitetiche; queste due figure professionali

rappresentano piuttosto ruolo diversi ma appartenenti ad uno stesso continuum, o spettro

professionale nel quale si ha, da una parte, una figura più pro-attiva e partecipante, e

dall'altra, una figura più distaccata ed imparziale che svolge un compito di

traduzione/interpretazione più automatico (ma non per questo più facile!).

Come conclude Rudvin (Ibid.)

si potrebbe ipotizzare una distinzione di ruoli che vede il mediatore culturale chiamato nei casi di

necessità di “mediazione” (dove si sono già verificati problemi di comprensione o di altra natura che

necessitano di un intervento più attivo e per pazienti con difficoltà psicologiche o sociali). Dato che la

formazione del mediatore culturale richiede tempi più lunghi e un pool di mediatori più ristretto, si

potrebbe ricorrere ad interpreti per compiti più mirati, brevi e circoscritti e per casi “standard”.

101

CAPITOLO 5

La ricerca sul campo: un'indagine nel settore sanitario emiliano

Dopo aver presentato l'impianto teorico sul quale poggia il presente lavoro, in questa

sezione verrà proposta una breve ricerca sul campo; l'ambito di studio è circoscritto alle

strutture ospedaliere emiliane e la selezione degli ospedali è stata in parte guidata dalla

possibilità di reperimento dei dati d'interesse, e in parte basata su un criterio di tipo

demografico, legato sia al numero di abitanti dell'area di riferimento, sia alla

proporzionale presenza di stranieri sul territorio.

Il metodo utilizzato è stato quello dell'intervista, tale strumento metodologico è stato

selezionato fra le altre opzioni possibili (questionario, conversazione registrata, video

ecc.) per la relativa facilità d'impiego nel contesto in questione avendo scelto di

strutturare l'intervista in maniera da non risultare invadente o impositiva rispetto ai

soggetti intervistati, ossia le mediatrici culturali. In altre parole, la struttura, seppur

conservando una griglia di base che è stata mantenuta uniforme per tutte le interviste

svolte, non presenta una scaletta di domande rigidamente definita; ciò che costituisce la

struttura fissa dell'intervista sono piuttosto gli spunti tematici proposti a ciascuna delle

mediatrici culturali intervistate. L'organizzazione strutturale dell'intervista utilizzata

nella nostra ricerca può essere descritta come segue:

1) Presentazione della mediatrice, provenienza geografica-culturale, periodo di

permanenza nel nostro paese, tipo di figura professionale ricoperta nella struttura

socio-sanitaria;

2) Formazione professionale, livello di istruzione, tipo di contratto di lavoro;

3) Descrizione del ruolo che ricopre e dell'organizzazione del servizio di mediazione

culturale nella struttura socio-sanitaria di riferimento;

4) Discussione di alcuni elementi specifici: briefing, segreto professionale,

terminologia tecnica, problematiche linguistiche e traduttive, gestione dei turni di

parola e utilizzo della 1^ o 3^ persona durante la mediazione;

5) Gestione delle differenze culturali: quali sono le maggiori differenze incontrate;

racconto di aneddoti legati alla comunicazione interculturale.

Le interviste sono state previamente concordate, o con la coordinatrice del servizio di

102

mediazione contattata telefonicamente o via e-mail, oppure con la mediatrice stessa (con

la quale ho potuto parlare telefonicamente, utilizzando i recapiti telefonici pubblicati sul

sito Internet dell'azienda socio-sanitaria relativa). Le strutture sanitarie presso le quali si

sono svolte le interviste sono:

− l'Ospedale SS. Annunziata di Cento (Ferrara);

− l'Ospedale S. Anna di Ferrara;

− l'Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna;

− l'Ospedale di Bentivoglio (Bologna);

− il Policlinico di Modena;

− il Poliambulatorio di Reggio Emilia Viale Monte S. Michele

− Lo “Spazio Salute Immigrati”, Ausl di Parma

Da un punto di vista pratico, durante l'intervista mi sono servita di un semplice

quaderno per gli appunti sul quale ho annotato sinteticamente le risposte delle

mediatrici, trascrivendo (quando possibile in termini mnemonici) alcuni frammenti di

discorso diretto che ho successivamente riportato in questo lavoro per rendere la

testimonianza diretta dell'intervistata e per sottolineare alcune scelte lessicali

significative che, come vedremo, risultano particolarmente interessanti ai fini della

nostra indagine.

La raccolta delle interviste alle mediatrici culturali si è svolta nell'arco di circa un mese

(fra dicembre 2010 e gennaio 2011) e, compatibilmente con la disponibilità accordatami

dalle operatrici, è stata elaborata per costituire la controparte empirica della sezione

teorica con la quale abbiamo aperto il presente lavoro. Le interviste si sono svolte in co-

presenza, delineandosi cioè come conversazioni a due semi-strutturate e faccia a faccia,

fra intervistatore (chi scrive) e intervistato (la mediatrice culturale). Solo in due casi,

come si dirà, l'intervista è stata condotta in presenza di altri soggetti che hanno

mantenuto il ruolo di partecipanti passivi, ascoltatori, forse influenzando in parte la

libertà di risposta dell'intervistata. La possibilità di parlare direttamente con il soggetto

centrale sul quale verte questo studio è stata estremamente produttiva ed illuminante;

da una parte, mi ha permesso di confermare o confutare certi aspetti teorici prescritti

dalla letteratura e dalla saggistica che si è occupata di questo tema; dall'altra, mi ha

permesso di conoscere l'aspetto più umano di questa figura professionale tanto

103

controversa quanto affascinante; le mediatrici con le quali ho potuto parlare si sono

dimostrate estremamente disponibili, alcune di loro mi hanno persino ringraziata per

l'attenzione dedicata loro, e gli aneddoti che mi hanno raccontato sono stati

preziosissimi per conoscere un po' più da vicino la loro realtà professionale e quella

delle strutture socio-sanitarie della Regione Emilia-Romagna. Come scrive Rudvin

(2006:63):

On principle, the hospitals (often in conjunction with local authorities) employ migrant staff (trained or

untrained), mainly female, who do an excellent job, but are badly underpaid and have little long-term job

security. Many have families and small children to care for and rely on their husbands as the principal

breadwinners.

Questo è in sintesi il quadro che mi si è prospettato dinnanzi una volta entrata nel vivo

della ricerca sul campo: un mondo quasi esclusivamente femminile, composto da donne

in gamba che svolgono la loro professione con grande impegno e dedizione ma anche

con grande sacrificio.

Le interviste alle mediatrici culturali:

5.1 Ospedale SS. Annunziata, Cento (Ferrara)

Mediatrici pakistane

Il primo dicembre 2010 mi reco all'ospedale SS. Annunziata di Cento in provincia di

Ferrara, essendo il mio comune di residenza ho pensato di iniziare la mia indagine sul

campo proprio a cominciare dalla mia città (o meglio cittadina, l'ultimo documento dell'

“Ufficio Statistiche e Censimenti” del 31 dicembre 2009 dichiara un totale di 35.150

abitanti in tutta l'area comunale). Mi rivolgo alle infermiere del reparto ginecologia-

ostetricia chiedendo se è possibile fare una breve intervista a uno dei mediatori culturali

in servizio, la capo-sala mi dice che al mercoledì c'è la mediatrice pakistana e al venerdì

quella marocchina, così riesco ad avere un colloquio con Sadia, una giovane pakistana,

studentessa di lingue (inglese e spagnolo) presso l'Università di Ferrara, che lavora

saltuariamente come mediatrice linguistica da circa un anno e mezzo. Ha 22 anni e da

cinque anni vive in Italia, parla molto bene l'italiano, quattro anni fa ha frequentato un

104

corso semestrale di mediazione culturale organizzato gratuitamente dal Comune di

Cento dove ha seguito lezioni di lingua italiana e un breve corso intensivo incentrato

sulla terminologia medica e sull'organizzazione ospedaliera; ha trovato il corso molto

utile e l'attestato finale che le hanno rilasciato le ha permesso di registrarsi fra i

mediatori culturali della Cooperativa Camelot36 con sede a Ferrara.

Contratto e remunerazione

Ora ha un contratto a chiamata con questa cooperativa e occasionalmente, per lo più

quando c'è bisogno di sostituire un'altra mediatrice, la chiamano uno o due giorni prima

per sapere se è disponibile. Mi dice che è molto felice di fare questo mestiere, certo

lavora poco (a volte passano settimane intere senza ricevere nessuna telefonata dalla

cooperativa) e quando le chiedo se è soddisfatta della remunerazione che percepisce mi

risponde: “prendo 11€ l'ora, però non me lo sono mai chiesto se lo stipendio è poco. A

me piace questo lavoro”.

Segreto professionale e alleanze

La cooperativa per la quale lavora le ha fatto firmare un contratto che prevede, fra le

altre cose, la sottoscrizione di regole di deontologia professionale; alcune di queste si

riferiscono al rapporto col paziente e riguardano il segreto professionale che il

mediatore linguistico-culturale è tenuto a coprire, così come si riferiscono alla necessità

di mantenere un rapporto professionale col paziente. Sadia mi dice che a volte, anche se

non dovrebbe, lascia il proprio numero di telefono ai pazienti: “se è un pakistano che

non parla una parola di italiano e mi chiede un aiuto io lo lascio [il numero] perchè se

hanno bisogno mi dispiace..”.

Briefing, 1^ o 3^ e registro linguistico

Le chiedo poi se è prevista una sezione preliminare (briefing) durante la quale il

mediatore possa spiegare al paziente in cosa consiste il suo ruolo e come comportarsi

36 Gli operatori della Cooperativa coprono oggi una ventina di gruppi linguistici tra cui: arabo, russo, albanese, rumeno, urdu, ucraino, indi, cinese, oltre naturalmente a inglese, francese, tedesco e spagnolo. Grazie alle loro competenze si sono attivati progetti e servizi di mediazione linguistico-culturale in: ambito scolastico, ambito sanitario, ambito penitenziario, ambito sociale, ambito informativo. (v. sito ufficiale: http://www.coopcamelot.org )

105

durante la comunicazione mediata (per esempio in merito alla gestione e allocazione dei

turni di parola, alla disposizione logistica dei partecipanti, ai problemi di carattere

interculturale e, soprattutto, in merito alla figura del mediatore stesso), la ragazza mi

risponde sommariamente di sì, che si presenta al paziente e gli dice che è una

mediatrice. Le chiedo poi se durante l'evento mediato parla in prima o in terza persona e

mi risponde che loro, i mediatori, parlano sempre in terza persona; la comunicazione,

non solo linguistica ma anche paralinguistica dei parlanti monolingui, sarebbe quindi

sempre rivolta al mediatore. Sadia porta il velo, è musulmana e parla cinque lingue:

l'urdu, il punjabi, l'inglese, l'italiano e, a livello ancora scolastico, lo spagnolo; quando

lavora come mediatrice culturale negli ospedali di Ferrara e provincia, le capita

prevalentemente di mediare per pazienti pakistani, indiani e bangladeshi. Da un punto di

vista terminologico-lessicale, mi spiega che durante la mediazione cerca di tradurre ciò

che dice il medico nella maniera più semplice possibile (abbassamento del registro

linguistico) e, siccome il medico italiano utilizza spesso vocaboli tecnici che non

possiedono un equivalente lessicale in lingua urdu, la giovane mediatrice ricorre

frequentemente alla parafrasi e nel caso in cui si trovi di fronte ad un nome proprio (di

un medicinale o di una procedura medica per esempio) che non esiste o non è

conosciuto in Pakistan, allora prima spiega di cosa si tratta, e poi fornisce direttamente il

termine italiano. Sadia dice che a volte potrebbe fornire il termine corrispondente in

inglese, lingua co-ufficiale del Pakistan utilizzata negli affari e nella redazione di atti

governativi oltre che dall'élite urbana, ma generalmente gli immigrati pakistani che

giungono in Italia non hanno una conoscenza sufficiente dell'inglese per poterlo

utilizzare come lingua veicolare.

Differenze interculturali

Mi racconta poi che l'aspetto più complicato del suo lavoro riguarda le differenze

culturali, riferendosi in particolare al rapporto uomo-donna e al modo di trattare la

malattia e di relazionarsi col paziente. Quando le capita di rapportarsi con un paziente

pakistano di sesso maschile, spesso si trova in imbarazzo, arrossisce e vede che anche

l'uomo, almeno inizialmente, è in una situazione di disagio quando si ritrova a parlare

direttamente con la giovane ragazza di questioni piuttosto intime, se non veri e propri

tabù. Poi continua: “qui il dottore dice tutto subito! In Pakistan non è così, non dici

106

subito al paziente che ha qualcosa di brutto”, mi spiega che la cosa più difficile per lei è

quella di dover comunicare direttamente al paziente una notizia o un referto negativo;

nella sua cultura le cattive notizie si comunicano ai familiari, non al paziente, e in

maniera più indiretta, lasciando ad intendere, ed utilizzando un linguaggio più “criptico”

nel contesto di una comunicazione meno esplicita. “Noi siamo molto più chiusi” dice

Sadia, “se il dottore dice una frase, poi io ne devo dire cinque di frasi per spiegare”;

allora le chiedo: “quindi non traduci solo quello che dice il medico ma puoi parlare di

più?” e mi risponde: “Sì aggiungo molto, perchè devo spiegare piano piano che cosa

succede”. In questo caso la mediatrice non ha il ruolo di semplice “animatore”

(Goffman 1981) dell'enunciato originale ma agisce in qualità di vero e proprio “autore”

(Ibid.), assumendosi la responsabilità di ciò che dice e di ciò che aggiunge di propria

iniziativa in caso di “non-renditions” (Wadensjö 1998).

Gestire l’emotività e i temi tabù

Mi racconta che una volta, davanti ad una coppia di pakistani in attesa del primo figlio

(la donna era ormai al termine della gravidanza), il medico sentendo che il battito

cardiaco del feto era molto debole, disse a Sadia che il bimbo sarebbe potuto morire alla

nascita. Sadia allora, in grande difficoltà, cercò lentamente, e con un dispendio di tempo

certamente superiore a quello impiegato dal medico, di dare ai genitori la cattiva notizia,

ma solo al termine di un lungo e faticoso discorso disse che “forse poteva esserci la

possibilità che morisse”, a quel punto la donna iniziò a piangere e Sadia mi dice che

quando un paziente piange, lei cerca di consolarlo, di rassicurarlo, gli dice che non deve

preoccuparsi e che qui in Italia i dottori sono molto bravi. Il mio tempo a disposizione

con Sadia è terminato, la ringrazio e lei gentilmente decide di lasciarmi il suo numero

di telefono per ulteriori informazioni sulla sua professione.

Intervista alla seconda mediatrice pakistana

Come detto in precedenza, presso l'ospedale SS. Annunziata di Cento il mercoledì è il

giorno in cui è presente la mediatrice pakistana, forse a causa di più appuntamenti

concordati per la stessa giornata, riesco ad incontrare una seconda mediatrice pakistana;

ha appena terminato la mediazione durante l'ora di fisioterapia di un giovane pakistano

107

presso la palestra del reparto di ortopedia, così mi presento e le chiedo di poterle fare

qualche domanda in merito al suo ruolo professionale. Da subito si mostra molto

disponibile, si chiama Aziz, ha una cinquantina d'anni, ha il capo coperto dal velo e

lavora come mediatrice da circa dieci anni.

Contratto e formazione

Anche lei lavora all'interno della Cooperativa Camelot e oltre a collaborare con

l'ospedale di Cento, due giorni a settimana per sei ore complessive presta servizio

presso lo sportello dell'Azienda USL di Ferrara in via Boschetto dove si trovano

consultori familiari e ambulatori ginecologici. Le chiedo che tipo di formazione ha

avuto e mi risponde che, quando ha iniziato lei, non era ancora previsto nessun tipo di

tirocinio, così ha maturato l'esperienza direttamente sul campo.

Registro linguistico, 1^ o 3^ persona e briefing

Mi spiega che durante la mediazione utilizza un linguaggio semplice, comune, evitando

i tecnicismi utilizzati dal medico e semplificando ciò che viene detto il più possibile, la

mediazione avviene sempre in terza persona. Il suo ruolo, oltre alla mediazione

linguistico-culturale, comprende anche l'aiuto alla comprensione dei documenti

necessari ai pazienti immigrati e il servizio di accoglienza indirizzato a questi ultimi

(quando lavora allo sportello della USL). Aziz mi dice che quando incontra un nuovo

paziente, presenta brevemente il proprio ruolo: “dico che sono lì per aiutare a parlare col

dottore”.

Aspetti interculturali e temi tabù

Le chiedo poi se si è mai trovata di fronte a difficoltà comunicative legate alla diversità

culturale, mi risponde che durante gli appuntamenti ginecologici, per esempio, le donne

pakistane sono un po' a disagio nello scoprire il proprio corpo, così utilizzano un

lenzuolo per lasciare scoperta solo la zona interessata.

Rapporto coi pazienti e alleanze

Mi racconta inoltre, che a volte le pazienti cercano un aiuto che vada oltre l'incontro di

mediazione in ospedale, spesso chiedono ad Aziz di poter avere il suo numero di

telefono o di poterla incontrare al di fuori, “ma io dico di no, non si può” dice Aziz, e

108

spiega loro che se vogliono possono tornare in ospedale per parlare di nuovo con lei. In

questo modo rispetta la deontologia professionale e “sfugge” al rischio di creare

aspettative che non dovrebbe e non sarebbe in grado di soddisfare.

5.2 Istituto Ortopedico Rizzoli (Bologna)

Il 6 dicembre mi reco all'Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna ed ho un colloquio con

la caposala della “Clinica Ortopedica e Traumatologica IV a prevalente indirizzo

Oncologico (ex-V Divisione)”, qui vengono trattati, prevalentemente, pazienti affetti da

tumori dell'apparato muscolo-scheletrico, sia dell'osso sia delle parti molli37; l'istituto è

rinomato a livello internazionale e i pazienti che ricorrono alla competenza dello staff

medico di questa struttura provengono da tutto il mondo, anche se per ragioni di

distanza geografica i pazienti europei costituiscono la maggior parte. La caposala mi fa

subito presente che in ospedale non è previsto uno staff di mediatori culturali stabile;

per le necessità di interpretariato per pazienti IOR è possibile usufruire del servizio

offerto dalla ONLUS denominata AMISS, organizzazione già fornitrice di tale servizio

per le aziende ospedaliere dell'area metropolitana. Il servizio di mediazione può essere

richiesto:

• in urgenza: l'intervento della mediazione deve essere eseguito entro le 24h

successive alla richiesta;

• programmato: l'intervento della mediazione verrà eseguito dopo le 24h dalla

richiesta.

Il coordinamento del Servizio di mediazione Interculturale Socio-Sanitario AMISS è

attivo dalle ore 8.00 alle ore 17.00 dal lunedì al venerdì per le richieste di mediazione

programmata, e dalla ore 8.00 alle ore 21.00 tutti i giorni per le mediazioni urgenti.

A.M.I.S.S. (Associazione Mediatrici Interculturali in ambito Sociale e Sanitario) si è

costituita in seguito al Corso di Formazione per Mediatrici Interculturali in ambito

Socio-Sanitario (h.700), coordinato dall'ISI (Informazione Salute Immigrati). La

formazione è stata realizzata con la collaborazione dei servizi territoriali competenti ed

37 http://www.ior.it/curarsi-al-rizzoli/clinica-ortopedica-e-traumatologica-iv-prevalente-indirizzo-oncologico

109

offre i seguenti servizi: interpretariato sociale, mediazione interculturale, indicazioni

operative per aree d'intervento specifiche, strategie di lettura delle culture e dei diversi

codici comunicativi. L'associazione è costituita da un gruppo di donne provenienti da

diversi paesi: Albania, Algeria, Cina, Ex Jugoslavia, Filippine, Romania, Marocco,

Nigeria, Perù, Pakistan, Venezuela; che sono formate specificamente per operare nei

servizi sociali e sanitari che dispongono di strumenti linguistici e culturali adeguati per

interventi di mediazione. L'URP (Ufficio Relazioni con il Pubblico) del Rizzoli, in caso

di richiesta contatta l'associazione AMISS per concordare il servizio di mediazione in

base alle esigenze del richiedente. La caposala mi spiega che per i malati immigrati, la

legge italiana prevede la concessione di un permesso di soggiorno temporaneo per cura;

i cittadini stranieri possono chiedere di entrare in Italia per cure mediche, a condizione

che vengano loro concessi il visto d'ingresso da parte dell'Ambasciata italiana o

Consolato competente nel paese di provenienza e il permesso di soggiorno per cure

mediche da parte della Questura. Le Regioni, poi, forniscono aiuti umanitari volti

all'assistenza sanitaria provvisoria degli immigrati e all'eventuale ricongiungimento dei

familiari38; mi spiega inoltre che per i pazienti oncologici (che costituiscono la

maggioranza nella Clinica IV del Rizzoli) il trattamento completo dura in genere un

anno: un periodo iniziale di cure chemioterapiche, l'eventuale intervento chirurgico e

successivamente un ulteriore ciclo chemioterapico. Durante questo anno di cure

mediche e chirurgiche, il cittadino extracomunitario è sostenuto economicamente dallo

Stato Italiano. Nel caso, poi, di clandestini che giungono direttamente al Pronto

Soccorso, la caposala mi dice che per etica professionale gli operatori sanitari sono

tenuti ad accoglierli e sarà poi compito della direzione sanitaria rivolgersi alla Regione

per regolarizzare l'assistenza del paziente. Ci sono poi associazioni di volontariato che

offrono il loro supporto ai pazienti stranieri anche per ciò che concerne la presa in

carico delle loro famiglie; all'interno dell'Istituto Rizzoli, inoltre, si trova la Casa delle

Suore che fornisce alloggi ai degenti immigrati e l' “Associazione per lo studio e la cura

dei tumori delle ossa e dei tessuti molli” mette a disposizione case ed appartamenti

durante il periodo di permanenza del malato grazie alle donazioni di coloro che la

sostengono. La caposala mi informa che prima di iniziare i trattamenti terapici,

l'immigrato deve essere preso in cura da un pediatra (nel caso di bambini) o da un

38 http://poliziadistato.it/articolo/219-Ricongiungimento_familiare

110

medico di base e mi spiega che la chemioterapia è regolata da protocolli internazionali

tali da permettere al paziente di poter proseguire la cura anche una volta fatto ritorno al

proprio Paese. Per quanto riguarda l'aspetto linguistico del rapporto col paziente

straniero, mi informa che il documento relativo al consenso che ogni paziente deve

firmare è disponibile in varie lingue (quelle a maggior diffusione mondiale) e, al

bisogno, la direzione può stilarne una copia nella lingua richiesta dal malato in cura. La

caposala mi racconta che lo staff infermieristico del Rizzoli è composto da operatori

provenienti da varie nazioni: rumeni, polacchi, paraguayani, ucraini ecc. e qualche

tempo fa poteva capitare che facessero loro stessi da interpreti-mediatori ai pazienti

stranieri che condividevano la loro lingua; mi spiega però che lei è sempre stata

contraria (salvo casi di emergenza) a queste mediazioni improvvisate: “tradurre non è

facile e in ogni caso non sono pagati per fare questo..poi impiegherebbero tempo che

dovrebbero utilizzare per fare altro!”. Il tema della mediazione linguistico-culturale sta

guadagnando un riconoscimento crescente e, nonostante ci siano ancora molti punti

controversi e molti aspetti sottovalutati, si sta acquisendo progressivamente la

consapevolezza necessaria per dedicare la giusta attenzione all'identità linguistica e

culturale del cittadino straniero, con l'obiettivo di garantire il rispetto del diritto alla

salute di ogni individuo.

5.3 Ospedale S. Anna di Ferrara

Mediatrice di lingua araba

Il 7 dicembre alle ore 8.30 ho un appuntamento con Dhouha presso l'Arcispedale S.

Anna di Ferrara. Dhouha è la mediatrice culturale di lingua araba che tre giorni a

settimana (per un totale di 8 ore settimanali) presta servizio di mediazione linguistico-

culturale nell'Azienda Ospedaliero-Universitaria di Ferrara. L'appuntamento con la

mediatrice è stato concordato precedentemente con la coordinatrice dell'Ufficio

Accoglienza e Mediazione, Cinzia Gallerani, alla quale mi sono rivolta su invito della

responsabile interaziendale Sandra Bombardi, contattata all'indirizzo mail pubblicato sul

sito Internet dell'ospedale. Sulla facciata del depliant relativo al servizio di mediazione

dell'Ausl di Ferrara (v. Appendice) compare il titolo: “accoglienza è mediazione,

111

mediazione è accoglienza” e vengono poi forniti tutti i contatti necessari (mail, indirizzi,

numeri di telefono e fax), oltre ad una breve descrizione dei servizi di mediazione

offerti e alle tabelle relative agli orari durante i quali si svolge il servizio nelle varie

lingue. Durante l'intervista a Dhouha, tenutasi nell'Ufficio Accoglienza e Mediazione, è

presente, qualche scrivania più distante, anche la coordinatrice C. Gallerani e, di tanto in

tanto, entra qualcuna delle altre mediatrici in servizio (questo forse ha in parte

condizionato la libertà di risposta di Dhouha in conseguenza al “monitoraggio”, seppur

indiretto e discreto, esercitato dalla semplice compresenza della coordinatrice e delle

colleghe di passaggio). La mediatrice di lingua araba ha un'agenda colma di

appuntamenti dovuta alla forte presenza di arabofoni nella zona, Dhouha è tunisina e

vive in Italia da nove anni, lavora per la Cooperativa Camelot (come Sadia e Aziz) e dal

2007 si occupa di mediazione in ambito socio-sanitario, mentre prima lavorava come

mediatrice per le scuole.

Confronto fra la mediazione in ambito scolastico e in ambito sanitario

Di sua iniziativa mi racconta che quando lavorava nelle scuole spesso si trovava di

fronte a ragazzi che vivevano situazioni difficili e ai quali, dopo essersene guadagnata la

fiducia, era chiamata a dare un sostegno psicologico-assistenziale; nel mondo arabo, mi

racconta, l'istruzione utilizza metodi didattici più formali così, dopo un primo periodo di

sostanziale ottimismo di fronte alla “informalità” del sistema italiano, spesso gli studenti

immigrati si ritrovano disorientati, hanno difficoltà durante il loro percorso scolastico e

soffrono l'emarginazione sociale da parte dei loro coetanei. In ospedale, continua

Dhouha, è molto diverso, la frustrazione per la non-accettazione è un tema a parte e il

mediatore ha il compito di aiutare il paziente a comunicare col medico e viceversa.

Formazione

Le chiedo poi che tipo di formazione è richiesta per ricoprire il suo ruolo e, davanti alla

sua titubanza, le chiedo se ha dovuto frequentare un corso o un tirocinio per poter

praticare, Dhohua mi risponde vagamente dicendomi che l'anno scorso hanno

partecipato ad un corso nazionale sulla mediazione.

Dialetti e registro linguistico

Per quanto riguarda la terminologia tecnica e le eventuali difficoltà di traduzione, mi

112

racconta che deve cercare di spiegare ciò che dice il medico nella maniera più semplice

e chiara per il paziente (abbassamento di registro); quando si tratta di vocaboli di

difficile traduzione o impossibili da tradurre con un corrispettivo termine in lingua

araba, a volte ricorre al francese (data la francofonia di una parte della comunità araba

che ha studiato il francese a scuola; Dhouha mi spiega però che le giovani generazioni

parlano sempre meno il francese in seguito ad un processo di arabizzazione iniziato

negli anni '90). Un altro punto rilevante per quanto riguarda l'aspetto linguistico, ha a

che fare con la frammentazione del mondo arabo in una moltitudine di varietà39

regionali o locali che sono solo in parte mutuamente intelligibili per i rispettivi locutori;

solo l'arabo classico dei testi scritti è condiviso da tutti, mentre l'arabo parlato presenta

un quadro piuttosto eterogeneo. A volte Dohuha è chiamata a mediare per un paziente

arabofono che parla una varietà di arabo diversa dalla sua, in questi casi, mi racconta,

cerca di fare il possibile per farsi capire, anche aiutandosi con disegni attraverso i quali

spiega il problema medico rilevato ed illustra le azioni e le cure (terapeutiche) che il

medico prescrive. A questo proposito, Rudvin scrive:

Interpreters for clients from the large international language groups such as English, Spanish, French and

Arabic will often not be from the client's own country; apart from the fact that the vast variety of

“englishes”, “frenches”, “spanishes”, etc., have different semantic and grammatical features from the

“standard models” of the world languages, they clearly do not share their culture referents – so not only

do the communication models differ (directness, distance, politeness, semantic overlap, etc.) - even if they

are speaking the same language (indeed many interpreters find it difficult to even understand varieties of a

particular language), but their real-world referents do not overlap. Varieties of standard languages

(especially colonial languages) are sometimes described as “cross-cultural”, or “nativized” - that is, the

language has been adapted -semantically, grammatically- to its new terrain and culture (for example,

English in the Indian subcontinent or East or Central Africa), and reflects that reality and world-vision,

rather than, say, the UK or the US. (Rudvin 2006:67)

1^ o 3^ persona

In seguito alla domanda circa l'utilizzo della prima o della terza persona durante la

mediazione, risponde: “so che bisognerebbe usare la prima persona, però il paziente se

parlo dicendo io al posto di lui può non capire...molti di quelli che arrivano sono

39 La lingua araba è parlata in: Algeria, Arabia Saudita, Bahrain, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iraq, Giordania, Kuwait, Libano, Libia, Mauritania, Marocco, Oman, Qatar, Sudan, Siria, Tunisia, Autorità Nazionale Palestinese (Cisgiordania e Gaza), Sahara Occidentale, Yemen (parlato dalla maggioranza dei cittadini) e in molti altri paesi, fra i quali Israele, come lingua di minoranza.

113

analfabeti...”; il ricorso alla prima persona, mi dice, rischierebbe di confondere il

paziente e di complicare ulteriormente la comunicazione.

Aspetti interculturali, rapporto uomo-donna e temi tabù

L'intervista procede poi sull'aspetto interculturale della mediazione e chiedo quali siano

le difficoltà maggiori che ha dovuto affrontare, Dohuha è un po' perplessa, le chiedo se

per esempio il rapporto uomo-donna fra mediatrice e paziente è problematico e subito

mi risponde che questo non è vero e che le donne arabe, soprattutto quelle istruite, sono

molto rispettate; a questo punto mi rendo conto che Dhouha ha interpretato la mia

domanda come insinuante e puntualizzo che non mi stavo riferendo al rispetto, quanto

ad un eventuale imbarazzo nella mediazione uomo-donna quando si affrontano temi

intimi e possibili tabù. Dhouha allora sorride e (parlando a bassa voce) dice: “a volte sì,

soprattutto per le malattie sessualmente trasmissibili” e mi racconta di una coppia con

problemi di infertilità, l'uomo aveva un' infezione genitale che aveva tenuto nascosta

alla moglie; i medici, grazie all'aiuto di Dhouha, si resero conto nel corso delle varie

visite succedutesi che la moglie ignorava la situazione del marito e un giorno, in

occasione di un appuntamento individuale al quale si era presentata solo la donna

insieme al figlio piccolo, decisero di comunicare alla giovane madre la realtà dei fatti

tramite la mediazione di Dhouha.

Il distacco

Le chiedo allora se si siano mai verificati casi in cui diventa difficile mantenere una

posizione di distacco e imparzialità e mi risponde che con i pazienti precisa sempre i

limiti del suo ruolo e che, in caso di bisogno, dice loro di utilizzare il servizio

dell'ospedale per avere un supporto di mediazione. La mediatrice tunisina si mostra

molto disponibile di fronte alle mie domande e mi racconta qualche aneddoto del suo

lavoro; mi racconta che le è successo in due occasioni di assistere il paziente anche in

sala operatoria durante l'intervento, la prima volta si trattava di una turista siriana che, a

seguito di un incidente, dovette subire un intervento d'emergenza al S. Anna e, non

conoscendo l'italiano, si avvalse dell'aiuto di Dhouha la cui presenza fu richiesta anche

durante l'operazione chirurgica. Il secondo caso riguarda un uomo che dovette subire un

intervento al cervello, Dhouha mi spiega che si trattò di un episodio molto delicato, il

114

paziente parlava una varietà dialettale di arabo che Dhouha conosceva solo in parte,

quindi, a seguito di una decisione presa dallo staff medico, si pensò di preparare una

serie di disegni per spiegare al paziente il tipo di intervento che avrebbe subito; la

presenza di Dhouha in sala operatoria le fu richiesta perchè l'uomo sarebbe rimasto

cosciente durante l'operazione ed era necessaria la presenza di una persona che potesse

capire la sua lingua. Dhouha mi racconta che fu una giornata piuttosto stressante ma che

decise di accettare quell'impegno per sostenere il paziente, poi mostrandomi il dito, mi

racconta che l'uomo le strinse la mano con forza durante tutta l'operazione e una volta

uscita dalla sala operatoria si ritrovò con le mani tutte indolenzite.

Quando le chiedo degli aspetti più difficili del suo mestiere a livello interculturale,

risponde che in Tunisia si ha un rapporto meno diretto col paziente, così, quando è al

corrente che la situazione clinica di un paziente è molto grave, cerca di dare coraggio e

di infondere fiducia nel paziente, lo invita a pregare, a rivolgersi alla religione (“in

Tunisia si prega Allāh per avere conforto”); anche con lo staff medico del S. Anna,

continua, c'è un grande lavoro di squadra, quando la situazione è un po' delicata i medici

hanno prima un incontro con la mediatrice (briefing) per spiegarle il problema medico

in questione, cosa intendono fare e come affrontare il paziente.

Compiti aggiuntivi

Mi racconta inoltre che nel caso delle gestanti di lingua araba, Dhouha le segue durante

tutto il percorso della gravidanza e, una volta giunte alla 38^ settimana, è la mediatrice

stessa che si preoccupa di controllare che la cartella clinica sia completa di tutti i

documenti necessari affinchè non manchi nulla; la mediatrice diviene così una figura di

supporto sia in termini linguistico-assistenziali che operativi, (per esempio quando

controlla i documenti della partoriente).

Rapporti con la comunità e fiducia

Quando le domando poi se non ha mai avvertito il rischio di prendere troppo a cuore il

caso di un malato, suo connazionale, o col quale condivide la lingua e in parte la

cultura, mi risponde che ciò che le ha permesso di mantenere il giusto distacco è il fatto

di non frequentare la comunità arabofona locale; questo le ha garantito, fra l'altro, una

certa credibilità come professionista “neutrale”: “loro sanno che non vado a dire tua

moglie ha questo o tuo fratello ha questo, così capiscono che possono fidarsi di me...se

115

li incontro al supermercato però li saluto..come stai e poi basta..”; Dhouha sottolinea

così, che è riuscita a guadagnarsi la fiducia dei pazienti grazie alla non frequentazione

della comunità di immigrati di lingua araba, se così fosse stato, i pazienti avrebbero

avuto diffidenza nei suoi confronti per paura che il segreto professionale non venisse

mantenuto. Mi racconta poi, che quando il servizio di mediazione in ospedale non era

ancora strutturato su basi continuative, capitava che i pazienti portassero con loro

qualche parente o conoscente che potesse parlare italiano e fungere quindi da interprete,

così Dhouha, sorridendo, mi riporta un caso in cui il parente aveva tenuto nascosta la

complicata situazione medica del malato, i medici avevano sospettato qualcosa, e alla

fine si scoprì che al paziente era stato detto che l'intervento chirurgico serviva per

“togliere un microbo”!

5.4 Ospedale di Bentivoglio (Bologna)

Mediatrice di lingua araba

Mercoledì 15 dicembre, previo accordo telefonico, arrivo all'ospedale di Bentivoglio

(Bo), e nello studio dedicato al servizio di mediazione culturale incontro Nadia,

mediatrice di lingua araba. Nadia, quasi giustificandosi, mi dice subito: “forse non sono

la persona più indicata per risponderti..”; le spiego brevemente il mio progetto di tesi

dicendole che si tratta di una semplice chiacchierata e che il suo aiuto potrebbe

comunque essere molto prezioso, allora mi sorride facendo sì con la testa. Nadia è

italiana, è nata nel nostro Paese ma parla perfettamente arabo perchè è nata da un

“matrimonio misto”, il padre è libico e la madre italiana: “hanno scelto di darmi questo

nome perchè è sia arabo che italiano”, durante l'infanzia ha vissuto per qualche anno in

Libia dove ha conosciuto la cultura che le è stata trasmessa dal padre e, dopo essersi

laureata in lingue straniere nel nostro Paese, ha iniziato a lavorare come mediatrice

culturale. Per questo, mi spiega, si considera una “mediatrice atipica”: “molti pensano

che per essere mediatori culturali si debba per forza essere immigrati, ma io credo anche

che per essere mediatori culturali in ogni caso non basti essere immigrati”.

116

Formazione

In quanto al suo percorso formativo come mediatrice, Nadia ha frequentato un corso per

la mediazione culturale predisposto dalla provincia di Bologna e strutturato in 100 ore

di insegnamento teorico e 200 ore di tirocinio pratico per 300 ore complessive; mi dice

però che il corso non prevedeva una sessione curriculare di specializzazione nell'ambito

socio-sanitario ma una preparazione più generale sulla mediazione interculturale.

Organizzazione del servizio

Le chiedo poi che tipo di servizio offre l'ospedale di Bentivoglio e come si svolge la sua

giornata lavorativa; tre giorni a settimana (lunedì, mercoledì e venerdì) è presente una

mediatrice di lingua araba che può variare a seconda dei periodi o degli impegni, l'arabo

è l'unica lingua disponibile nel servizio di mediazione dell'ospedale. Nadia pensa che la

situazione sia peggiorata negli ultimi anni: “servirebbe almeno un mediatrice di urdu-

punjabi e una di lingua cinese ma qui c'è solo l'arabo”. Le chiedo allora se si tratta di un

problema di fondi dell'Ausl e mi risponde che secondo lei si tratta piuttosto di

disinteresse verso le esigenze concrete della popolazione straniera. Il suo servizio presso

la struttura ospedaliera non copre l'intera giornata, ma solitamente due ore, dalle 8:30

alle 10:30; quando arriva si infila il camice bianco “per essere riconoscibile” e poi inizia

il suo giro nei reparti di pediatria e ostetricia-ginecologia, comincia con il controllo

della tabella dove sono registrati i vari pazienti e se vede che c'è qualche paziente di

lingua araba va a fargli visita per sapere se ha bisogno di qualcosa.

Briefing, dialetti e registro linguistico

Mi spiega che di norma si presenta al paziente prima della visita con il medico, durante

un breve colloquio a tu per tu con il paziente straniero spiega chi è, che ruolo ha e qual è

la sua origine geografico-culturale; mi racconta che è meglio dire subito al paziente che

è di origine libica così da evitare malintesi in seguito, sia da un punto di vista linguistico

che per quanto riguarda eventuali differenze culturali. Le chiedo (memore dell'intervista

fatta a Dhouha) se abbia mai incontrato difficoltà di comunicazione dovute alle varietà

di arabo esistenti; mi risponde affermativamente: “soprattutto col marocchino, perchè è

un arabo molto diverso da quello ufficiale”, in questi, casi mi dice: “si cerca di capirsi

117

comunque” nonostante la difficoltà; spesso il termine tecnico che usa il medico italiano

manca di un corrispondente in lingua araba così si cerca di parafrasare il concetto e

trasmetterlo al paziente nel modo più chiaro possibile.

Rapporto col paziente

Alla mia domanda su eventuali problemi relazionali e interculturali con i pazienti, Nadia

mi risponde che in alcuni casi le capita di incontrare una certa diffidenza e resistenza

iniziale, un atteggiamento a volte restio, che riconduce al fatto di essere identificata

come rappresentante dell'istituzione (la struttura ospedaliera italiana), il paziente

immigrato a volte mostra una certa cautela davanti alla figura della mediatrice e Nadia

afferma che è importante fare il proprio lavoro senza risultare invadenti o impositivi; se

il paziente manifesta timore o diffidenza, allora tenta di spiegare con parole semplici e

chiare che tipo di compito svolge cercando di mettere a proprio agio il paziente

straniero.

Criticità del sistema italiano, remunerazione e pregiudizi

La conversazione si sposta poi sulla situazione attuale dei servizi di mediazione

culturale della zona; Nadia manifesta una certa sfiducia, ammette di essere scoraggiata,

(mentre le parlo vedo il suo pancione sotto il camice bianco, aspetta il secondo figlio,

ormai mancano pochi mesi al termine della gravidanza) dice che con questo tipo di

lavoro è praticamente impossibile riuscire ad avere uno stipendio che le permetta di

vivere autonomamente, in più, con l'arrivo del secondo figlio, sa che non potrà più

“permettersi” di fare questa professione, già ora le è impossibile mantenersi solamente

con le poche ore di mediazione all'ospedale, “devi avere anche un secondo lavoro,

altrimenti non puoi”. E' evidente il senso di amarezza delle sue parole, “questo è un

ambiente molto chiuso..” dice, e mi spiega che non è facile accedere a questi posti di

lavoro, innanzitutto per la scarsità delle posizioni disponibili, ma si riferisce soprattutto

alla sua “ibridità” culturale e si ricollega a quanto detto all'inizio del nostro colloquio: il

fatto di non essere una parlante nativa di lingua araba, il fatto di non essere stata lei

stessa immigrata le ha reso ancora più difficile l'inserimento in questo ambito

professionale. Poi, ribadendo la sua opinione, dice che il mediatore linguistico non è

anche, o per forza, un mediatore culturale, che il semplice fatto di essere cittadino

118

straniero non abilita automaticamente l'individuo alla professione di mediatore

culturale, e ripete: “è un ambiente chiuso...perchè forse hanno paura che gli venga tolto

anche questo..”. Nadia, come mi spiega, pensa che esigere un passato di immigrazione e

la cittadinanza straniera come requisiti base per poter accedere a questa professione,

dipende in parte dalla volontà di “proteggere” un lavoro, almeno uno, che finora è stato

prerogativa degli stranieri.

Per qualche anno, prima di sottoscrivere il suo contratto di prestazione occasionale con

l'ospedale di Bentivoglio, Nadia ha prestato servizio come volontaria (quindi

gratuitamente) presso l'Ambulatorio Sokos di Bologna, Sokos è un'associazione di

medici e operatori sanitari volontari nata nel 1993 per l'assistenza a emarginati e

immigrati40. Tramite il Tesserino STP (Straniero Temporaneamente Presente) gli

immigrati senza permesso di soggiorno vengono introdotti in una sorta di anello di

congiunzione tra una situazione di clandestinità – e quindi di assenza di tutela sanitaria -

e una condizione di accesso al SSN (Servizio Sanitario Nazionale) attraverso il

tesserino, che permette di fare esami, acquistare farmaci, eccetera. Questa è l’attività

principale svolta da Sokos che funge da interfaccia con associazioni e istituzioni

bolognesi41.

Genere e mediazione

A questo punto chiedo a Nadia come mai il servizio di mediazione culturale in ambito

socio-sanitario (come ho potuto constatare anche grazie alle interviste svolte) sia una

prerogativa prevalentemente femminile, mi risponde che negli ospedali lavorano solo

mediatrici donne perchè, soprattutto nei reparti di ginecologia e maternità, si richiede

una presenza femminile per consentire alla donna straniera di sentirsi a proprio agio (in

alcuni casi la presenza di una mediatrice e non di un mediatore è la sola via di

comunicazione interculturale, tanto più durante una visita ginecologica); Nadia mi

40 Dal 1993 l’associazione di medici e operatori sanitari volontari Sokos fornisce assistenza medica gratuita ai migranti, anche senza permesso di soggiorno, e alle persone emarginate. Nata dapprima come unità mobile di intervento nei campi dei rifugiati bosniaci e kosovari allestiti lungo le rive del Reno e a Borgo Panigale, dal '98 Sokos ha anche un ambulatorio a Bologna, dove i volontari promuovono e tutelano il diritto alla salute delle persone che non sono raggiunte dal servizio sanitario avendone comunque pieno titolo. (v. http://www.meltingpot.org/articolo857.html ) 41 (v. http://www.meltingpot.org/articolo857.html )

119

spiega però che esistono ovviamente anche mediatori culturali di sesso maschile, si

tratta più che altro di una differenza di carattere contestuale: si può dire che

generalmente le donne sono impiegate nei servizi di mediazione culturale nelle strutture

ospedaliere e socio-sanitarie, mentre si riscontra una netta presenza maschile nella

mediazione culturale che ha luogo nei penitenziari o presso i centri di tossicodipendenza

per esempio. Alla base di tale differenziazione di genere si trova l'esigenza di

comunicare col cittadino straniero, l'obiettivo primario è la comunicazione, il cittadino

straniero deve essere posto in una condizione di scambio interazionale che gli sia il più

favorevole possibile; la scelta del sesso del mediatore non costituisce certo un esempio

di discriminazione sessuale, quanto la necessità di andare incontro alle esigenze del

paziente-utente straniero e della comunicazione interculturale in sé. Un mediatore uomo

in sala parto o in ambulatorio ginecologico, oppure una mediatrice donna in un carcere

maschile, risulterebbero inadeguati non dal punto di vista della loro competenza

professionale ma unicamente per la loro identità sessuale che, in questi casi, potrebbe

mettere a repentaglio se non rendere del tutto impossibile lo scambio comunicativo con

l'utente straniero di sesso opposto. In tali contesti, non tanto la differenza di cultura,

quanto soprattutto la condizione psicologica-emotiva del cittadino straniero e la

delicatezza della situazione contestuale rappresentano elementi di primaria importanza;

la credibilità, la fiducia che il mediatore deve infondere nel cittadino straniero sono

presupposti irrinunciabili per permettere la comunicazione interlinguistica e

interculturale. Nadia mi racconta che saltuariamente ha lavorato anche presso la “Casa

delle donne per non subire violenza” di Bologna, qui le mediatrici sono tutte donne,

Nadia mi dice che questa è stata per lei l'esperienza più dura da un punto di vista

emotivo e personale, “una volta ho pianto davanti ad una ragazza marocchina che era

stata stuprata..secondo me in questi casi non ci si deve nascondere, se mi scendeva una

lacrima davanti a lei non la nascondevo..”. A questo punto dell'intervista con Nadia mi

rendo conto di quanto possa essere complesso e difficile il suo mestiere, mi rendo conto

che i codici di deontologia professionale sono tanto necessari quanto (forse) difficili da

applicare in situazioni di estrema delicatezza e sensibilità nelle quali l'interprete-

mediatore deve cercare di controllare la propria emotività e mantenere quel “giusto

distacco” che gli si chiede.

120

Mediazione integrata

L'ospedale di Bentivoglio fa parte di quelle strutture socio-sanitarie della Regione che

offrono un servizio di mediazione integrata; l'Italia negli ultimi quindici anni è stato uno

dei paesi più soggetto al dinamismo dei nuovi ingressi di cittadini stranieri e la

situazione dell'area bolognese è caratterizzata dall'alta percentuale di cittadini stranieri

presenti, più alta quasi del doppio della media nazionale.

Dall'elaborazione dei dati delle Anagrafi condotta dall'Ufficio di Statistica della

Provincia di Bologna relativa al 31/12/200642, si osserva che sulla popolazione totale

residente a Bologna pari a 373.026 abitanti, la popolazione straniera era costituita da

30.319 individui; mentre per quanto riguarda il resto della provincia, la popolazione

totale residente ammontava a 581.656 abitanti dei quali 35.471 stranieri. Data la

consistente presenza di cittadini stranieri sul territorio bolognese, le strutture socio-

sanitarie hanno dovuto adottare strumenti e metodi di mediazione linguistico-culturali

volti a consentire l'erogazione dei servizi assistenziali e sanitari di cui ogni cittadino ha

diritto. Come si legge sul sito dell’azienda Usl regionale (v. nota precedente), le

maggiori criticità della comunicazione interculturale sono dovute alla diversità

linguistica, alla diversità culturale (prevenzione, profilassi, modalità di accesso,

trattamenti medici, visite periodiche, calendario di vaccinazione ecc.), alla diversa

percezione della salute e al luogo in cui il paziente straniero si trova (ambulatorio,

Pronto Soccorso o reparto, che prevedono modalità di mediazione differenti:

mediazione programmata vs. mediazione urgente). Fra gli strumenti di cui si avvale

l'Ausl di Bologna per erogare un servizio di mediazione culturale integrata troviamo:

• il “Triage Multilingue Telefonico”: servizio specializzato di mediazione

linguistica e culturale che tramite un call center nel quale operano mediatori di

madrelingua, fornisce assistenza informativa attiva in 24h;

• il servizio di mediazione culturale a chiamata programmata;

• la presenza quotidiana nei maggiori ospedali di mediatrici culturali in loco,

sportello centralizzato di mediazione.

42 V. www.ausl.re.it/HPH/FRONTEND/Home/DocumentViewer.aspx?document_id=799

121

Come si legge sul sito dell'Ausl regionale43, la mediazione cosiddetta integrata

comprende il triage telefonico multilingue, la modalità “plug and play” e il servizio di

mediazione su prenotazione; in altre parole, grazie a speciali apparecchi telefonici è

possibile selezionare la lingua necessaria alla conversazione mediante pulsantiera (nella

quale sono raffigurate le bandierine corrispondenti alle lingue disponibili) o rubrica

inserita nel telefono stesso; l'operatore sanitario viene così messo in collegamento con

un operatore madrelingua di un call center che tradurrà in simultanea ciò che dirà

l'assistito: si attiva così una conversazione a tre (operatore sanitario-mediatore-paziente)

che permette, in ogni momento della giornata, uno scambio informativo corretto ed

esauriente per l'iter clinico diagnostico del paziente. Negli stessi apparecchi è inoltre

possibile attivare il servizio di mediazione programmata che consente un intervento di

mediazione personalizzato. Le lingue disponibili nel servizio di Triage Multilingue

Telefonico sono: cinese, russo, spagnolo, arabo, portoghese, punjabi, tedesco, inglese,

bengalese, srilankese, albanese, francese, ucraino, filippino, croato, serbo e rumeno. Gli

utenti stranieri sono informati della presenza del servizio di Triage Multilingue

Telefonico con vetrofanie contenenti il messaggio scritto nelle varie lingue. Finora sono

state installate quattro postazioni attive sulle 24 ore nei quattro Pronto Soccorsi con più

accessi presso l'ospedale Maggiore, l'ospedale di Bentivoglio, l'ospedale di Bazzano e

l'ospedale di S. Giovanni in Persiceto, oltre ad altre dieci postazioni attive delle 8:00

alle 17:00 presso altri ospedali della provincia dove si registra un notevole afflusso di

utenti stranieri.

5.5 Policlinico di Modena

Mediatrice di lingua araba

Giovedì 30 dicembre alle 13.30 incontro Khira al Policlinico di Modena, ho fissato

l'appuntamento il giorno prima telefonando al numero presente sul sito dell'ospedale

sotto la voce “servizio di mediazione culturale”. Al telefono ho parlato con la Dott.ssa

Amanda Zanni, coordinatrice della Cooperativa Sociale Integra che si occupa del

43 Vedi bibliografia.

122

servizio di mediazione in tutta la provincia di Modena, in questo modo ho potuto

concordare un appuntamento con una delle mediatrici che fanno parte della cooperativa.

Come si legge su sito Internet dedicato a Integra: “la cooperativa sociale Integra nasce

nel 2001, quando un gruppo di mediatori interculturali decide di tentare di rispondere al

sempre più stabile fenomeno migratorio, non soltanto con interventi assistenziali, ma

anche e soprattutto con azioni a garanzia del rispetto dei diritti di cittadinanza e di una

effettiva inclusione sociale delle persone immigrate. Oggi Integra dispone di numerose e

diverse figure professionali specializzate in ambito interculturale, provenienti dalla

maggior parte delle aree geografiche esistenti ed opera in tutte le dimensioni che

attraversano la vita sociale: socio-sanitaria, educativa, giuridica, lavorativa, culturale e

ricreativa” (www.coopintegra.it). Quando arrivo all'ingresso 1 del Policlinico, mi

aspetta Khira, mediatrice di lingua araba; dopo una prima presentazione, ci rechiamo

nell'ufficio di mediazione culturale al primo piano dove è presente anche la responsabile

del servizio. L'atmosfera è molto cordiale e amichevole, dopo esserci accomodate alla

scrivania, chiedo a Khira di parlarmi un po' della sua storia. E' tunisina, ha 39 anni ed è

arrivata in Italia a 18 anni subito dopo essersi sposata con un uomo del suo paese. Parla

perfettamente italiano e la cadenza è tipicamente modenese. Mi racconta che lavora con

la cooperativa dal 2002 ma ha iniziato a svolgere questa professione come volontaria

già dal '97, “sono uno dei soci fondatori”, dice ridendo, fa parte cioè di quel gruppo di

mediatori culturali che nel 2001 decise di fondare la Cooperativa dopo un'esperienza di

volontariato presso le varie strutture socio-assistenziali del territorio. Dopo pochi minuti

di conversazione, Khira si toglie il velo rimanendo solo con il copricapo aderente che le

fascia i capelli, poi, rivolgendosi alla collega seduta dall'altra parte della stanza dice:

“tengo le orecchie scoperte perchè ho caldo!” e scoppiano a ridere.

Formazione e organizzazione del servizio

La nostra chiacchierata prosegue, riguardo alla formazione professionale, mi spiega che

lei non ha frequentato il tirocinio di formazione (attualmente previsto) perchè otto anni

fa non era ancora stato introdotto; Khira è dipendente fissa al Policlinico (lavora dal

lunedì al venerdì e a turno il sabato mattina) insieme ad altre due mediatrici fisse, una

anglofona e l'altra di lingua araba come lei; quando si presenta la necessità di

mediazione in una lingua diversa dall'arabo e dall'inglese, la cooperativa contatta la

123

mediatrice della lingua richiesta a chiamata.

Briefing e alleanze

Le chiedo come avviene la presentazione della mediatrice al paziente straniero, mi

risponde che ormai non c'è bisogno di nessuna presentazione (briefing) perchè il

servizio di mediazione è conosciuto dalla comunità immigrata, quindi non vi è la

necessità di spiegare la funzione e la figura della mediatrice. Le chiedo poi se abbia mai

incontrato resistenza da parte del paziente straniero nei suoi confronti e mi dice che, al

contrario, i pazienti sono generalmente molto contenti di essere affiancati da una

persona che parli la loro lingua, si sentono più “protetti” e più sereni nel dialogo col

medico.

Dialetti e registro linguistico

A questo punto le mie domande sono focalizzate sulla dimensione linguistica della

mediazione, anche Khira (come già avevano fatto Dhouha e Nadia) mi spiega che

l'arabo parlato comprende una vasta serie di dialetti che variano da regione a regione o

da stato a stato, abbracciando un territorio che va dal Nord- Africa al Medio Oriente.

“Così noi dobbiamo sapere tutti i dialetti”, mi dice, “l'arabo classico è uguale per tutti,

ma si usa per la lingua scritta, il problema però è che alcune persone non sono nemmeno

istruite...”; ancora una volta, “si cerca di capirsi”, attraverso il frequente ricorso alla

parafrasi e tramite l’impiego di un lessico comune. Il giordano e il libanese, continua,

sono varietà di arabo similari, l'egiziano presenta caratteristiche linguistiche (lessicali e

fonetiche) diverse e il marocchino è fra tutte la varietà più diversa e a sé stante. Khira

parla anche francese ma durante la mediazione ricorre solo raramente all'utilizzo di

termini francesi (anche perchè a volte il paziente non lo comprende se possiede un basso

livello di istruzione). “Quando parliamo con le gravide, le parole più frequenti sono

'pressione alta', 'diabete' eccetera..allora come fai a dirlo se non esiste una parola uguale

in arabo? Io dico per esempio tensión [francese], oppure dico, qual è il contrario di

zucchero? Così capiscono che è il sale che non fa bene per la pressione...”.

124

1^ o 3^ persona

Le domando poi se utilizzi la prima o la terza persona durante la mediazione e, con un

giro di parole, mi fa capire che utilizza la prima persona perchè il paziente è in grado di

riconoscere che l'autore delle parole è il medico e viceversa il medico comprende che le

parole proferite dalla mediatrice appartengono al paziente. Khira si toglie anche il

copricapo, nell'ufficio siamo solo donne e l'atmosfera è rilassata ed informale, ha i

capelli tinti di un rosso ramato raccolti in una coda.

Segreto professionale e fiducia

Le chiedo allora che tipo di rapporto abbia con la comunità araba locale e Khira mi

racconta che quando le capita di incontrare un/una paziente al di fuori dell'ospedale

aspetta che sia lui/lei a salutarla e finge di non ricordare l'episodio di mediazione e la

relativa problematica medica. Anche se ricorda perfettamente, preferisce adottare questo

escamotage e fingere di non ricordare (a meno che l'episodio non sia troppo recente)

giustificandosi col fatto di parlare ogni giorno con tanti pazienti diversi. In questo

modo, mi spiega, il paziente si sente più “protetto” e “rassicurato” dalla professionalità

della mediatrice.

Il distacco

Per quanto riguarda eventuali difficoltà di comunicazione interculturale, Khira mi

racconta che dopo tanti anni di esperienza si sente più forte, ora sa come gestire

situazioni difficili o imbarazzanti in maniera più matura, a volte un po' più “distaccata”

di quanto non avrebbe saputo fare all'inizio della sua carriera. Mi racconta che poco

prima di incontrare me, ha mediato per una bambina araba di 12 anni arrivata in Italia

con i genitori da due giorni, dopo 48 ore non è ancora possibile attribuire al paziente un

medico di base per ragioni burocratiche; la bambina ha bisogno di una “vaccinazione

particolare...sta molto male..c'è già tutto il pus che le scende dal naso...”, ma al

Policlinico c'è una lista di attesa di tre mesi, così l'hanno indirizzata verso un'altra

struttura. Khira mi dice che in casi come questo è molto difficile riuscire a mantenersi

distaccati e a controllare la propria parte emotiva, che fa rabbia il fatto di non poter fare

niente per motivi di burocrazia e mi dice che, una volta fuori dall'ambulatorio, ha

125

spiegato meglio ai genitori come raggiungere l'altra struttura medica e ha detto loro che

avrebbe chiesto nuovamente ai medici circa la possibilità di curare la bambina. “Se sei

sensibile, facendo questo lavoro lo diventi ancora di più..però capisci anche quanto sei

fortunato..”.

Mediazione e genere

Le chiedo se anche la Cooperativa Integra impiega soltanto mediatrici donne oppure se

ci sono anche mediatori, mi risponde che per la mediazione negli ospedali e agli

sportelli delle strutture socio-sanitarie lavorano quasi sempre donne (nel team di

mediatori di Integra lavorano attualmente solo tre uomini), “Se vai al SER.T [Servizio

Tossicodipendenze dell'Ausl di Modena], invece, lì trovi dei mediatori uomini perchè in

quei casi c'è bisogno di una figura più autoritaria e la tua parola [cioè quella di una

donna] è meno forte”. Come scrivono Shlesinger e Voinova (2010:1)44 a proposito del

concetto di genere:

Gender as a social (rather than biological) construct is one of the features that organizes our view of the

world and remains an over-arching analytical category. It results in explicit and implicit forms of

difference (leading, in many cases, to explicit and implicit forms of inequality), whether embedded in

social policy and social institutions or internalized by the individual men and women themselves.

Il genere come costrutto sociale, dunque, modella e guida il nostro modo di concepire la

realtà e le relazioni con gli altri; quando Khira afferma che la parola della donna è meno

forte rispetto a quella dell’uomo sta appunto esprimendo una visione del genere

culturalmente determinata:

A central theme running through the discussions of the role of gender in shaping professional identity

relates to the premise that contemporary societies assign decision-making qualities, a public voice and

political power primarily to men (Von Flotow 1997: 100, citato in Shlesinger e Voinova 2010:3)

Le domando poi come sia il rapporto uomo-donna nella sua professione. “Nessun

problema”, dice, anche in Tunisia ci sono dottori uomini che curano pazienti di sesso

femminile e medici di sesso femminile che curano uomini. Al Policlinico, “quando ci

sono pazienti molto religiose che chiedono solo donne, si cerca di trovare una

dottoressa.”; a Khira è capitato varie volte di essere presente durante una visita

44 Shlesinger, M. and Voinova, T. (2010) Self-perception of female translators and interpreters in Israel.

126

andrologica quando il paziente arabo necessitava della sua mediazione. Mi racconta

anche che lei stessa, qualche tempo fa, ha dovuto subire una colposcopia e l'unico

medico che effettua questo tipo di esame al Policlinico è uomo; in quella situazione,

Khira, donna araba musulmana, dopo un primo momento di imbarazzo, ha effettuato

l'esame con tranquillità. “Si tratta di professionisti, non importa se sono uomini o

donne” conclude. Ci sono stati però anche episodi più complicati nell'esperienza della

mediatrice; una volta, un uomo arabo la cui moglie doveva subire un raschiamento

uterino, disse a Khira che la moglie doveva essere operata soltanto da una donna

altrimenti non avrebbe effettuato l'operazione. Davanti a quelle parole, Khira disse che

avrebbero chiesto se fosse stato possibile far eseguire l'intervento da una dottoressa ma,

in caso contrario, l'uomo doveva assumersi la responsabilità della sua decisione (quella

non era la volontà della moglie) nell'eventualità di una emorragia o altra complicanza,

“se voleva decidere di non fare il raschiamento allora lui doveva firmare un foglio dove

dichiarava di essere responsabile..dopo l'ho detto anche al dottore e mi ha detto che

avevo fatto bene”. Fortunatamente poi si trovò una dottoressa che potè eseguire

l'intervento, ma ciò che balza all'occhio è il ruolo assolutamente attivo della mediatrice;

nel caso sopracitato, è lei che intima all'uomo di firmare un foglio nel quale dichiara di

non voler permettere alla moglie di essere operata, non è il medico che lo dice (anche se

in un secondo momento confermerà) ma si tratta di un'iniziativa di Khira. Anche lei, lo

ribadisce, è musulmana e praticante ma rimane disarmata di fronte a questi esempi di

fondamentalismo perchè, mi racconta “tutti sanno che il nostro profeta, Maometto, dice

che ai tempi delle guerre le donne facevano le medicazioni agli uomini feriti in

guerra...dunque questo si fa da sempre! Fin dalla storia antica!”, mi spiega quindi che,

contrariamente a quanto si dica sul mondo arabo, la sua è una cultura che rispetta tanto

l'uomo quanto la donna e i casi di fondamentalismo più marcato non rispecchiano

l'essenza della sua cultura d'appartenenza.

Temi tabù

La difficoltà maggiore da un punto di vista psicologico, poi, riguarda i casi di malattie

sessualmente trasmissibili, veri e propri “tabù” (termine utilizzato dalla mediatrice in

più occasioni), soprattutto l'AIDS, “anche l'epatite può essere trasmessa sessualmente,

però è diverso, suscita meno vergogna e imbarazzo perchè si può contrarre in altri modi,

127

ha un impatto meno violento”, quando pronuncia la parola “AIDS” Khira abbassa il

volume della voce, quasi sussurrando, e mi spiega quanto sia difficile comunicarlo al

paziente o dare informazioni su questa malattia, spiegare cosa comporta e come si

contrae: “devi dirgli che si prende anche quando si va con le prostitute”. Mi racconta

che recentemente ha mediato per una ragazza di 22 anni che ha contratto l'AIDS dal

marito, in questi casi mi dice, “sto con il magone per una settimana, poi capisci che devi

andare avanti”.

Aspetti culturali e integrazione

A questo punto, dopo circa quaranta minuti di conversazione, ringrazio Khira per il

tempo dedicatomi e la disponibilità con la quale ha risposto alle mie domande, poi,

quando sto per uscire dall'ufficio, mi invita a bere un caffè giù al bar. Me lo vuole

offrire, dice sorridendo, perchè in Tunisia si usa così verso l'”ospite”. Al bar

continuiamo a chiacchierare, parliamo un po' di tutto, mi racconta delle sue tre figlie e

dei suoi desideri per il loro futuro; mi racconta che ha anche un secondo lavoro, ogni

venerdì pomeriggio per due ore lavora in un piccolo centro ricreativo per donne

immigrate dove parlano di tutto, preparano il caffè, si truccano, si tingono i capelli e

trascorrono in compagnia due ore piacevolissime. Khira ci tiene a sottolineare che i

luoghi comuni sulla cultura araba sono in parte infondati, “a casa nostra le donne

possono fare tutto! E' quando arrivano qui in Italia che cambiano le cose, e a volte anche

perchè i mariti hanno paura che possano diventare troppo indipendenti”; mi racconta

che l'importante è capire e spiegare che non si fa nulla di male. Lei, per esempio, ogni

mattina va a fare colazione al bar da sola e rimane a leggere il giornale per una decina di

minuti prima di iniziare a lavorare. Questa banale abitudine è stata per lei una piccola

conquista; poco dopo essersi trasferita a Modena, infatti, una donna della comunità

araba sua conoscente le disse che le avevano detto di averla vista sola al bar e che

iniziavano a circolare voci sul suo conto; nel suo paese d'origine, la Tunisia, le donne

vanno al bar regolarmente senza alcun problema, ma in Italia questo non è visto di buon

occhio perchè qui si vendono anche gli alcolici, mentre nei paesi arabi i “coffee shop”

vendono solo bevande analcoliche. La mattina seguente, Khira si presentò nello stesso

bar in compagnia del marito: “Così mi hanno vista e hanno capito che mio marito

sapeva e che era tutto tranquillo, non c'è niente di male!”. Mi dice che spesso spiega alle

128

pazienti come raggiungere gli ambulatori o gli sportelli socio-sanitari utilizzando le

linee dell'autobus, offrendosi anche di incontrarsi alla fermata del bus per poi fare un

tragitto insieme e mostrare la strada alla donna. Mi dice che le donne arabe qui in Italia

spesso maturano un complesso di inferiorità, alcune di loro hanno conseguito lauree nel

loro paese ma qui faticano ad imparare l'italiano e ciò che facevano abitualmente nel

loro paese di provenienza diventa quasi impossibile una volta giunte in Italia. Mi dice

che il marito può accompagnare la moglie dal medico se si tratta di qualche visita

sporadica, per farlo però deve chiedere un permesso al lavoro. Secondo Khira è anche

per questo che sorgono i problemi e le discussioni all'interno della coppia. I motivi

sarebbero anche di carattere pratico quindi. “Basta prendere l'autobus! Così il marito

può andare al lavoro..però poi ci sono alcuni uomini che hanno paura che la donna inizi

a fare le cose da sola...hanno paura che dopo possa scappare di casa!” dice ridendo.

Parlando del rapporto coi pazienti dice: “la cosa che odio di più è essere presa per i

fondelli” aggiunge, e mi spiega che a volte durante la visita medica, ci sono pazienti che

dicono di non poter sostenere le cure per motivi economici o per altre difficoltà

familiari; Khira dice che, quando capisce che il o la paziente sta mentendo

(drammatizzando la propria situazione in modo da ottenere aiuti per le spese mediche),

una volta finita la visita prende da parte il paziente e gli spiega che non c'è bisogno di

raccontare bugie, che è meglio essere sinceri, perchè possono ricevere comunque

qualche aiuto per coprire le cure mediche necessarie. Il ruolo svolto dalla mediatrice

sembra andare ben al di là del ruolo normativo imparziale e distaccato descritto dalla

letteratura.

Quando stiamo per salutarci, infine, Khira mi dice che il suo lavoro le piace moltissimo,

è una professione molto impegnativa ma che le permette di aiutare le persone e di far

valere le sue qualità, sia professionali che personali.

5.6 Poliambulatorio di Reggio Emilia Viale Monte s. Michele

Mediatrice cinese

Lunedì 3 gennaio mi reco al Poliambulatorio di Viale S. Michele a Reggio Emilia, ho un

appuntamento con la mediatrice culturale cinese Sun Shuyan, con la quale ha parlato al

129

telefono qualche giorno prima per fissare l'incontro. Arrivo allo sportello dell'URP dove

è di servizio il lunedì pomeriggio e dopo esserci salutate ci appartiamo in uno degli

studi adiacenti per iniziare l'intervista.

Formazione e organizzazione del servizio

Sun lavora come mediatrice culturale da 15 anni, ha iniziato questa professione prima in

ambito scolastico, e poi in quello socio-sanitario. Ha conseguito un attestato

riconosciuto a livello regionale dopo aver frequentato un corso per mediatori culturali di

300 ore complessive nell'anno 2005 (v. Cap. 6.2). Oltre a prestare servizio presso lo

sportello dell'Ufficio Relazioni con il Pubblico del Poliambulatorio, si occupa anche

della mediazione interculturale che si svolge durante le visite ambulatoriali della stessa

struttura. Presso l’Azienda USL di Reggio Emilia, inoltre, è aperto dall’ottobre 1998

uno spazio denominato “Centro per la Salute della Famiglia Straniera”, in convenzione

con la Caritas, che si occupa di dare assistenza agli stranieri sprovvisti di permesso di

soggiorno e quindi non iscrivibili al Sistema Sanitario Nazionale (in base alla Legge 40

“Turco-Napolitano” del marzo 1998 e il Testo Unico delle Leggi sull’Immigrazione 286

del ’98). Gli utenti e gli accessi sono cresciuti negli anni stabilizzandosi a circa 2000

utenti l'anno e 7000 accessi l'anno. L’etnia maggiormente rappresentata è l’etnia cinese.

La presenza fissa della mediatrice, Sun, ha fatto sì che l’utenza cinese abbia avuto un

peso molto importante e abbia nel tempo fatto assumere al centro una funzione di

riferimento per la comunità di immigrati cinesi presente in città. Presso il centro sono

sempre presenti i mediatori culturali, ogni 15 giorni una assistente sociale e una volta al

mese un medico di igiene pubblica per l'ambulatorio TBC.

Differenze nei sistemi sanitari

Sun mi spiega che il sistema sanitario italiano è abbastanza lontano da quello cinese, le

differenze più importanti riguardano la necessità di stabilire degli appuntamenti presso

le strutture sanitarie italiane a fronte dell'accesso diretto che caratterizza il sistema

sanitario cinese. “E' abbastanza duro spiegare queste differenze”, aggiunge, qui in Italia

ci possono essere liste d'attesa molto lunghe, di alcuni mesi a volte, e le cure (sia a

livello terapeutico che chirurgico) possono a volte differire fra i due Paesi; anche la

prassi degli accertamenti, poi, non trova un corrispettivo nel sistema cinese, dove invece

130

la consuetudine vede una diagnosi più immediata e diretta della problematica medica.

Da un punto di vista economico, continua Sun, negli ultimi trenta anni il sistema

sanitario cinese ha percorso un processo di americanizzazione e sono quindi aumentate

le strutture sanitarie private a pagamento, non accessibili da parte degli strati sociali più

indigenti.

1^ o 3^ persona e briefing

Riguardo allo svolgimento della mediazione in ambulatorio, Sun mi dice che può

avvenire sia in prima persona che in terza persona, “dipende dai casi”; anche la pratica

del briefing, o sessione informativa preliminare, può essere previsto o meno a seconda

dei casi; generalmente è richiesto quando si rende necessario l'intervento di un

assistente sociale per esempio, allora Sun “prepara il paziente e i familiari” ad affrontare

la situazione, spiegando loro l'iter quale si dovrà seguire e la funzione della figura

professionale chiamata ad intervenire.

Dialetti e registro linguistico

Per quanto riguarda la lingua, durante la mediazione Sun utilizza il “cinese ufficiale”,

ossia il mandarino standard45. Quando però il paziente cinese non è scolarizzato e non è

in grado di parlare il mandarino standard, si rende necessaria “una doppia traduzione”;

Sun mi spiega che in questi casi il paziente, solitamente anziano, si fa accompagnare

alla visita medica da un parente (un figlio o un nipote che abbia un livello di istruzione

più elevato) e che possa fare da interprete fra paziente e mediatrice culturale: il parente

cioè traduce dalla varietà dialettale cinese al cinese standard (e viceversa) e la

mediatrice tradurrà poi dal cinese standard all'italiano per il medico (e viceversa). Certo

la mediazione in queste situazioni diventa più lunga a livello temporale e più “faticosa”

per il numero di partecipanti coinvolti e per il maggior numero dei passaggi di

interpretazione necessari.

45 La lingua cinese, parlata sotto forma di mandarino standard, è la lingua ufficiale della

Repubblica Popolare Cinese e della Repubblica della Cina sotto Taiwan, nonché una delle quattro lingue

ufficiali di Singapore ed una delle sei lingue ufficiali delle Nazioni Unite.

131

Rapporti con la comunità, aspetti interculturali e segreto professionale

Da un punto di vista interculturale poi, Sun conferma la “chiusura” della comunità

cinese immigrata verso il mondo esterno; lei stessa è riuscita a guadagnarsi la fiducia

dei pazienti connazionali dopo un lento “monitoraggio” da parte di questi ultimi. Mi

racconta che inizialmente, per vagliare la sua credibilità e professionalità, “può

succedere che il paziente dica in un primo momento di avere un problema alla spalla,

poi alla seconda visita dice di avere male alla schiena e alla fine [quando ha valutato la

riservatezza e la discrezione degli operatori sanitari e della mediatrice] rivela di avere

un problema agli organi genitali”. Questa cautela e diffidenza fa parte della cultura

cinese verso tutto ciò che appartiene ad un universo culturale differente. Quando chiedo

a Sun se lei frequenta la comunità cinese di Reggio Emilia, risponde sorridendo: “qui ho

molti più amici italiani che cinesi! Quando lavoro parlo quotidianamente con cinesi ma

al di fuori è raro”. Mi racconta poi che le è capitato di mediare per due donne cinesi fra

loro amiche le quali hanno avuto prova della discrezione di Sun, che (sotto segreto

professionale) ha taciuto sia all'una che all'altra di aver mediato per entrambe così da

poter risultare affidabile e professionale; poi aggiunge: “i cinesi sono molto pettegoli!”,

e questo rende ancora più importante l'assoluta riservatezza del colloquio medico cui la

mediatrice prende parte per svolgere la mediazione. Un altro punto di particolare

rilevanza e delicatezza legato alla cultura cinese riguarda la “sorveglianza” esercitata

dai familiari del paziente, ma anche da parte dei datori di lavoro. Non di rado, dopo aver

mediato per un paziente cinese, accade che un parente chiami Sun al numero telefonico

dell'URP per ricevere notizie sulla visita medica e sullo stato di salute del parente; altre

volte, invece, capita che lo stesso datore di lavoro del paziente chiami il Poliambulatorio

per chiedere a Sun quale sia la situazione medica del dipendente per il quale Sun ha

mediato, “così vogliono sapere quando potrà tornare a lavorare”. La mediatrice, con

risolutezza, risponde loro che non è possibile rilasciare informazioni private del paziente

e che l'unico modo per ottenere informazioni è parlare col diretto interessato o con la

sua famiglia.

132

Corsi interculturali per la gravidanza

Sun mi racconta in seguito di aver partecipato attivamente al progetto “Il Drago e la

Fenice”46 che si occupa dell'organizzazione di corsi di preparazione alla nascita per

donne cinesi; il progetto si inserisce in un discorso più ampio del Servizio di Pediatria e

Salute Donna del distretto di Reggio Emilia in collaborazione con l'Unità Operativa di

Psicologia Clinica del Dipartimento di Salute Mentale, rivolto ai pazienti, in particolare

alle donne straniere, che cerca di attrezzare i servizi di cornici metodologiche sempre

più specifiche e mirate a rispondere a pazienti di diverse culture. Il nome di questa

iniziativa fa riferimento alla simbologia cinese sul tema della nascita: il Drago,

raffigurato in giallo, è associato all’Imperatore, alla sua potenza e quindi al figlio

maschio, la Fenice, multicolore, tenace e immortale, simboleggia l’Imperatrice e quindi

la figlia femmina.

Il corso è condotto da un’ostetrica del Consultorio, dalle psicologhe e dalla mediatrice

culturale cinese (Sun). Il primo corso ha preso l’avvio a settembre 2004 e proprio la

stabilità e la fiducia nella mediatrice hanno funzionato da catalizzatore e da richiamo

per le donne. In particolar modo le gravidanze seguite dal Centro nell’anno 2002 sono

state 175 di cui 138 cinesi, nel 2004 sono state 227, di cui 145 di donne cinesi e nel

2005 un totale di 200 di cui 130 cinesi. Gli operatori si sono “guadagnati” la fiducia

necessaria ad entrare nell’intimità e nel privato di una comunità così attenta a mantenere

i confini del proprio specifico culturale originario, così “impermeabile” al contesto

occidentale. Le donne invitate a prendere parte a questo corso, sono state contattate per

telefono, una per una, partendo dagli elenchi in possesso del Centro per la Famiglia

Straniera. Questo tipo di contatto è stato un lavoro impegnativo ma necessario dal

momento che in città non esiste una rappresentanza organizzata della comunità cinese.

Solitamente la comunità cinese non è contemplata in questo tipo di iniziative sul

territorio perché è vista come un gruppo chiuso e riservato.

Aspetti culturali della comunità cinese

Sun mi conferma la chiusura insita nella cultura cinese, la tendenza all'isolamento e alla

46 I risultati di questo progetto sono stati raccolti e pubblicati nel libro omonimo a cura del Servizio Sanitario Regionale Emilia-Romagna, AUSL di Reggio Emilia. In seguito riporteremo alcuni dati tratti da tale fonte, v. http://www.lacosapsy.com/DRAGOEFENICE.pdf

133

auto-ghettizzazione è parte di una mentalità ed un atteggiamento culturalmente definiti;

anche il fatto di lavorare e sposarsi all'interno della comunità di appartenenza (almeno

nella maggioranza dei casi) fa sì che gli immigrati cinesi in Italia vivano in un piccolo

microcosmo che intrattiene legami col mondo esterno solo sporadicamente; ciò, fra

l'altro, impedisce o quantomeno rallenta notevolmente l'apprendimento della lingua

italiana. Il ruolo della mediatrice cinese è fondamentale per dialogare con i servizi

socio-sanitari del territorio, forse più che per altre culture da un punto di vista statistico.

Il progetto “il Drago e la Fenice” propone tre corsi all'anno. Ogni corso è articolato in

una media di 8 incontri durante la gravidanza, con la possibilità di aggiungerne altri

tematici, a seconda della necessità e delle loro richieste, ed un incontro successivo alla

nascita dei bambini.

Come si è potuto constatare durante i corsi, le donne straniere vivono una solitudine

linguistica, relazionale e familiare che, a volte, impedisce loro di utilizzare pienamente i

corsi per le donne italiane. Come registra il dossier del progetto47, le persone che, dalla

Cina, si trasferiscono nella zona (provincia di RE) per lavorare provengono

prevalentemente da una stessa zona geografica, vicino a Shangai, la regione dello

Zhejiang, un territorio molto povero, prevalentemente rurale, grande come l’Italia.

Recentemente però il flusso migratorio ha interessato anche le province del nord della

Cina. I lavoratori cinesi (a Reggio Emilia in particolar modo ma anche nel resto

dell’Italia) sono occupati prevalentemente nel settore della ristorazione, nel settore

tessile e nelle attività commerciali quali bar e locali d’intrattenimento. Solo il 20% dei

lavoratori cinesi lavora alle dipendenze di datori di lavoro italiani. In Italia gli immigrati

cinesi trovano collocazione in piccoli laboratori tessili artigianali, prevalentemente

gestiti da connazionali, che funzionano in collegamento con le fabbriche locali di

maglieria. Il loro arrivo è spesso clandestino.

La subordinazione ai datori di lavoro è molto alta; il datore di lavoro filtra i contatti con

l’esterno e gestisce anche gli avvenimenti privati dei suoi dipendenti: i problemi di

salute, le nascite, i ricongiungimenti familiari. Le telefonate all'URP per poter carpire

qualche informazione dalla mediatrice che ha assistito alla visita medica di un

dipendente rientrano appunto in tale ottica di subordinazione. Esiste una dimensione

47 V. www.lacosapsy.com/DRAGOEFENICE.pdf

134

comunitaria molto forte, di coesione e di solidarietà, ma anche di vincolo e di

costrizione. In questo contesto, la decisione di avere un figlio, la gravidanza e la nascita

di un bambino rappresentano eventi particolari e complessi, che vengono gestiti in modi

contraddittori.

La mancata conoscenza della lingua ed il progetto di emigrazione, apparentemente poco

incline all’integrazione, di questo gruppo etnico ha fatto sì che finora i servizi abbiano

svolto un ruolo marginale nell’accompagnamento al parto ed alla nascita dei bambini

cinesi e dei loro genitori. La realtà del flusso migratorio dalla Cina è spesso sconosciuta,

in quanto i servizi offerti dal territorio non vengono utilizzati dai cinesi. Il momento

della nascita di un bambino è quindi una delle poche tappe della loro vita in cui donne

cinesi e servizi vengono in contatto.

Spesso le donne cinesi che giungono al centro non conosco affatto la lingua italiana ad

eccezione di una manciata di parole, così, le coordinatrici del progetto insieme alla

mediatrice hanno deciso di dedicare una parte del tempo all’apprendimento della lingua

e delle parole italiane attinenti alla nascita. E’ stato previsto, nello spazio degli incontri,

un piccolo corso di italiano. Come è risultato dal dossier le donne colgono l’importanza

delle parole spingi e non spingere perché l’ostetrica che le seguirà durante il parto le

pronuncerà spesso. Sun racconta che spesso riceve telefonate dalla sala parto perché

dica alla partoriente di spingere.

Credenze cinesi sul tema della nascita

Un aspetto molto importante nella cultura cinese, con particolare riferimento al tema

della nascita, è occupato dalla simbologia e dalle tradizioni legate alla superstizione. Il

dossier del progetto ha raccolto alcune credenze e abitudini alimentari che possono

stupire o far sorridere l'uomo occidentale ma che diventano punti di grande importanza

nel quadro di una comunicazione interculturale che abbandoni la prospettiva

etnocentrica a favore di un confronto più aperto alla diversità culturale.

Riportiamo di seguito alcune credenze cinesi in merito alle abitudini alimentari durante

la gravidanza tratte dal dossier: “Più frutti di mare si mangiano più il bambino diventa

intelligente. CLM è preoccupata perché mangia troppe arance e la madre le ha detto che

faranno diventare il bambino arancione. Le loro tradizioni dicono che nell’ultimo mese

di gravidanza non si può guardare qualcuno che taglia, per esempio, la carne o il pesce

135

in cucina. Una donna al settimo mese di gravidanza ha fatto i ravioli cinesi e suo figlio è

nato con un orecchio a forma di raviolo”.

Oltre alle credenze e alle superstizioni, la cucina cinese e il tipo di alimentazione

tradizionale è molto diverso da quello italiano, Sun mi dice però che oggi le donne

cinesi in Italia modificano mano a mano le loro abitudini e “mangiano un po' di tutto”.

Come avverte il dossier, le donne cinesi per la maggior parte sono recettive all’infezione

da toxoplasma e conservare le abitudini alimentari cinesi (che prevedono uno scarso

consumo di carne e un abbondante consumo di riso e vegetali) le protegge fino alla

prima visita ginecologica in cui viene spiegato loro quali precauzioni igienico-

alimentari attuare durante il corso della gravidanza. La toxoplasmosi può essere

contratta mangiando carni crude o poco cotte (specie di agnello), di insaccati, di verdure

lavate male o di latticini non pastorizzati. Semplici avvertenze sul consumo di alcuni

cibi possono quindi permettere alle donne cinesi di seguire, se lo vogliono, una dieta

alimentare diversa rispetto a quella d'origine.

Alcune importanti differenze interculturali riguardano poi il momento stesso del parto:

negli ospedali cinesi il marito non può entrare in sala parto ed assistere alla nascita del

figlio, ma di solito le donne sono accompagnate dalle proprie mamme e anche i medici

sono tutte donne. Qui in Italia le donne cinesi si fanno però accompagnare dal marito e

i mariti sono contenti di poter assistere al parto anche se mostrano a volte un po' di

timore. La situazione in Cina sta lentamente cambiando, oggi gli uomini non possono

ancora entrare in tutti gli ospedali. Forse in quelli delle grandi città è più facile ma

sicuramente negli ospedali più piccoli è ancora vietato l’ingresso agli uomini, è proprio

scritto sulla porta. La credenza cinese è che abbiano un'influenza negativa sulla donna e

sul parto.

Un' usanza importante da un punto di vista interculturale (che un occidentale

difficilmente potrebbe comprendere senza essere messo al corrente della tradizione

cinese) riguarda il divieto per le mamme di toccare l'acqua per un certo periodo dopo il

parto. Le testimonianze raccolte da Sun e dall'equipe medica che ha realizzato il

progetto “il Drago e la Fenice” riportano che:

“a XF, alla nascita del primo figlio, hanno proposto di fare la doccia, lei sapeva di non

poterla fare ma non ha avuto il coraggio di dire di no. Per il secondo figlio vorrebbe

seguire la tradizione. Anche i denti non si potrebbero lavare, perchè se no si crede che

136

da vecchi cadranno prima; un'altra neo-mamma si è trovata a disagio al Nido

dell’ospedale nel momento in cui le infermiere le hanno chiesto di lavare il bambino nel

lavandino, senza usare le salviettine umidificate come avrebbe voluto fare lei. Il

bambino era troppo sporco. Sapeva di non dover toccare l’acqua e non riusciva a

spiegare questo alle infermiere. Alla fine ha lavato il bambino”.

Il problema dovuto a tale differenza interculturale si può risolvere utilizzando salviettine

umidificate (o guanti), basterebbe che il personale socio-sanitario fosse informato di tale

esigenza per far sì che le mamme cinesi che partoriscono in Italia possano vivere i

momenti successivi al parto con serenità, risparmiandosi il trauma di contravvenire ad

una credenza popolare per loro importante.

Altri aspetti simbolici o culturalmente definiti riguardano: il trattamento della placenta

(in Cina la placenta è usata per produrre medicinali, aumenta gli anticorpi, per cui si

deve stare attenti che la placenta una volta espulsa non sia presa da qualcuno che

potrebbe usarla per produrre medicinali); i temi della sessualità e della contraccezione,

inoltre, sono considerati tabù e la pianificazione familiare iniziata negli anni '80 per

regolare il numero delle nascite ha intrecciato la sessualità e la procreazione ad aspetti

sociali e normativi molto forti. Anche l'allattamento è in alcuni casi un momento

difficile per la donna cinese: alcune donne preferiscono non allattare il figlio perchè

hanno paura di creare un legame troppo forte prima di distaccarsene, spesso infatti la

crescita dei figli deve essere delegata ai nonni e/o ai parenti rimasti in Cina. I bambini

dopo i primi due o tre mesi dalla nascita vengono spesso riportati in Cina e ritornano in

Italia dai genitori in età scolare.

L'intervista a Sun e l'esperienza raccolta del progetto “il Drago e la Fenice” ci ha

permesso di aprire una finestra su una cultura lontana dalla nostra, ricca di tradizioni e

aspetti simbolici di cui spesso non siamo a conoscenza; grazie al sostegno delle

mediatrici culturali è però possibile costruire un ponte fra le due culture che si

incontrano. In momenti delicati e carichi da un punto di vista psicologico-emotivo come

quelli del parto o della diagnosi di una malattia, la mediazione culturale diventa

fondamentale per garantire non solo il successo della comunicazione, ma anche il

rispetto e la comprensione dei partecipanti e delle rispettive culture.

137

5.7 “Spazio Salute Immigrati”, Ausl di Parma

Mediatrice di rumeno e moldavo

Martedì 4 gennaio incontro Cecilia allo “Spazio Salute Immigrati” nel centro di Parma,

ho concordato l'appuntamento telefonicamente con la mediatrice stessa una settimana

prima; quando mi accoglie ci accomodiamo nello studio ed inizia a raccontarmi della

sua esperienza. Cecilia è la mediatrice di rumeno e moldavo, è arrivata in Italia dalla

Romania nel '99, ha più o meno cinquanta anni ed è sposata con un italiano, di Napoli,

conosciuto due anni dopo il suo arrivo.

Contratto e remunerazione

Lavora come mediatrice dal 2003, ha un contratto di collaborazione coordinata e

continuativa (co.co.co.) che prevede 7 ore settimanali distribuite su due giorni (martedì

e venerdì); Cecilia mi dice che il suo stipendio attuale è di 524 euro; quando ha iniziato

questa professione le mediatrici percepivano dai 1000 ai 1200 euro mensili a fronte del

doppio (o più) di ore lavorative settimanali.

Organizzazione del servizio

All'apertura dello “Spazio Salute Immigrati” (S.S.I.) le mediatrici che prestavano

servizio erano cinque e coprivano cinque lingue e culture diverse, ora sono solo due:

Cecilia per il rumeno e il moldavo, e Ming per il cinese. Dagli ultimi due anni a questa

parte, l'Ausl di Parma, della quale lo S.S.I. fa parte, ha optato (forse per motivi di fondi)

per una riduzione delle mediatrici all'attivo e quando è necessaria una mediazione in

un'altra lingua si ricorre ai servizi di mediazione a chiamata. Quando Cecilia ha iniziato

a svolgere questa professione, nel 2003, lo S.S.I. non era conosciuto come oggi presso

le comunità di immigrati del parmense; mi racconta che le mediatrici distribuivano

volantini e depliants informativi in vari punti di aggregazione della città: parchi,

stazioni, supermercati, piazze ecc. In questo modo potevano “spargere la voce” e far

conoscere ad un numero sempre maggiore di potenziali utenti l'esistenza di uno spazio

appositamente dedicato agli stranieri con o senza permesso di soggiorno.

Al Servizio possono rivolgersi gli immigrati (direttamente o con prenotazione

telefonica) che non conoscono l'organizzazione dei servizi sanitari o le opportunità di

138

assistenza garantite dalla legislazione, non hanno il permesso di soggiorno o, pur

avendolo, non sono iscritti al Servizio Sanitario Nazionale. I servizi offerti al pubblico

(per utenza maschile e femminile) sono: assistenza sociale, medicina di base

(infettivologia), mediazione culturale e pediatria. Il lavoro di Cecilia presso lo S.S.I.

comprende sia il servizio di mediazione telefonica sia quello di mediazione in co-

presenza con medico e paziente durante la visita ambulatoriale. In questo spazio, oltre

alle due mediatrici, esercitano un pediatra, uno psicologo, un medico di base e un

assistente sociale. Cecilia svolge anche mediazioni a chiamata presso il Pronto Soccorso

e il consultorio del Programma Salute Donna di via Pintor a Parma, oltre a coprire

mediazioni “extra”, che non rientrano nel contratto sopracitato, presso altre strutture

socio-sanitarie della provincia; mi racconta, per esempio, che il giorno dopo ha un

appuntamento a Fidenza (PR), dovrà mediare per una bambina rumena che sarà presa in

carico da un assistente sociale.

Formazione

Riguardo alla formazione di Cecilia, avendo intrapreso la professione prima

dell'approvazione della Legge Regionale n.5 del 24 marzo 2004 (v. Cap. 6.2), la

mediatrice non ha compiuto il tirocinio formativo attualmente previsto ma, agli inizi

della sua professione, insieme alle altre mediatrici dell'Ausl di Parma, ha seguito un

corso di formazione (che non prevedeva il rilascio di un attestato ma solo la frequenza)

tenuto da vari operatori socio-sanitari, in particolare dalla Dott.ssa Adele Tonini,

ginecologa e responsabile dello Spazio Immigrati dell'Azianda Usl di Parma; e al quale

hanno contribuito attivamente i mediatori dell'Ausl di Torino, portando la loro

esperienza come testimonianza diretta, furono infatti i primi in Italia ad intraprendere un

progetto di mediazione culturale rivolto agli immigrati nel nostro Paese; il corso fu

organizzato dalla Direzione Uffici Comunali di Parma (D.U.C).

Compiti aggiuntivi

Parlando della sua routine lavorativa, Cecilia mi racconta che solitamente compila

insieme al paziente la sua “biografia” raccogliendo i dati anagrafici ed altre

informazioni relative al suo trascorso e alla sua permanenza in Italia; in questo modo,

139

prima della visita con il medico, Cecilia e il paziente hanno modo di parlare a tu per tu

(secondo Gentile et alii. 1996, v. Cap. 4, il mediatore-interprete dovrebbe evitare di

trascorrere del tempo da solo con il paziente; ancora una volta, le opinioni sono

divergenti e la teoria sembra essere smentita dalla pratica).

Fiducia

Cecilia mi spiega l'importanza di conquistare la fiducia del paziente, “devi puntare al

cuore”, dice, “devi fargli capire che sei lì per aiutarlo”; molti immigrati, specie se

clandestini, hanno paura di rivolgersi alle strutture sanitarie pubbliche perchè temono di

essere consegnati alla Questura. Grazie alla mediatrice, vengono informati dei servizi

offerti e vengono assistiti anche per ciò che riguarda le eventuali pratiche burocratiche.

1^ o 3^ persona, aspetti linguistici e interculturali

La mediazione, mi dice, avviene in prima persona e il briefing spesso non è necessario

perchè ormai il servizio è diffusamente conosciuto sul territorio. Da una prospettiva

interculturale, Cecilia pensa che la cultura italiana e quella rumena siano simili, anche

da un punto di vista linguistico ci sono somiglianze dovute al comune ceppo

linguistico48 e durante l'intervista Cecilia mi fa alcuni esempi di parole somiglianti:

carta = hârtie; calendario = calendar ; acqua = apă ecc. ; la mediatrice vuole

sottolineare la comune discendenza delle due culture e aggiunge che gli immigrati

rumeni e moldavi imparano l'italiano molto velocemente, soprattutto se arrivano in

Italia da giovani. “Dopo non hanno più bisogno di me!”, dice ridendo, “non come i

cinesi che hanno bisogno della mediatrice anche per andare in bagno!”, Cecilia fa un

paragone con la collega cinese, (sono rimaste solo loro due come mediatrici fisse allo

S.S.I.) e mi fa notare che gli immigrati cinesi imparano la lingua più lentamente, a volte

non vogliono o non hanno bisogno di impararla perchè vivono prevalentemente

all'interno della comunità cinese, mentre rumeni e moldavi imparano velocemente per

motivi di sopravvivenza.

48 La lingua rumena (o dacorumeno) è una lingua romanza o neo-latina appartenente al gruppo indoeuropeo. La lingua rumena è una delle lingue romanze balcaniche e viene parlata come madrelingua da più di 26 milioni di persone in Romania, Moldavia, ed in diverse parti della Serbia, Bulgaria, Macedonia, Albania, Grecia, Ucraina ed Ungheria.

140

Rapporti con la comunità

Le chiedo se lei frequenti la comunità rumena e moldava di Parma e mi risponde

scuotendo la testa, le chiedo allora se ha qualche amica sua connazionale e mi dice di

no, “perchè dopo si crea invidia...ho provato, ho avuto amiche ma poi..non ho tempo

adesso..”. La mediatrice qui in Italia si è ricreata una vita, è sposata con un italiano e

qualche anno dopo essere arrivata nel nostro Paese, anche i due figli che allora avevano

sei e sette anni l'hanno raggiunta; ora sono adulti e vivono a Parma. Mi dice di non

avere tempo per le amicizie, durante la settimana lavora e nel weekend deve occuparsi

delle faccende domestiche e cucinare per il marito che, da buon napoletano, ama

mangiare e le ha insegnato a cucinare piatti tradizionali della sua terra. Anni fa aveva

conosciuto delle donne rumene con le quali aveva stretto amicizia ma poi i rapporti si

sono deteriorati per fraintendimenti ed invidie, “ognuno deve pensare a se stesso”, dice,

“se io sono stata più fortunata, l'amica non dovrebbe essere invidiosa..”.

Temi tabù

A questo punto riporto il discorso sul tema della mediazione culturale e le domando se

ha mai riscontrato difficoltà o se si sia mai trovata in situazioni di mediazione

complesse, la risposta è stata: “i rumeni non sono tutti balordi... i balordi ci sono

dappertutto”. Allora la interrompo e le dico che ovviamente io non credo questo e le

spiego che mi riferivo a situazioni di particolare delicatezza o stress; Cecilia mi

risponde che ci sono parecchi casi di infezioni e malattie sessuali ma è sempre un po'

sulla difensiva, quasi a voler giustificare i pazienti e la loro disperazione. Mi fa capire

che alla sua età certe cose passano in secondo piano ma quando un uomo e una donna

sono giovani, allora è più facile lasciarsi trasportare. Le chiedo se per lei è imbarazzante

parlare di malattie sessualmente trasmissibili con pazienti uomini e mi risponde di no,

ormai ha superato il disagio che provava all'inizio e comunque durante la visita

andrologica, la mediatrice si volta prima che il paziente si svesta e continua a mediare

rimanendo voltata. A volte, quando capisce che la situazione è piuttosto delicata o

quando il medico stesso glielo fa presente, esce dall'ambulatorio e rimane dietro la porta

per essere a disposizione nel caso sia necessario tradurre una parola o una frase; poi,

terminata la visita, se c'è bisogno di spiegare qualcosa al paziente, o se il paziente

necessita di chiarimenti, Cecilia fornisce tutte le spiegazioni dovute.

141

Salute mentale

Altri casi particolarmente toccanti riguardano poi le badanti rumene e moldave che

giungono allo “Spazio Salute Immigrati” per avere un supporto psicologico; Cecilia è

estremamente sensibile all'argomento, anche lei durante il primo anno di permanenza in

Italia ha lavorato come badante per un'anziana della città. Dice che è una vita durissima,

“un inferno”, “la mia vecchia mi svegliava alle due di notte e poi passava il dito sopra

un mobile o un quadro e mi diceva c'è polvere e io pulivo..se non metti i tappi nelle

orecchie non ce la fai”; la mediatrice mi dice che se una donna è troppo sensibile rischia

di sprofondare in una forte depressione, dice che ci si sente umiliate e la giornata di 24

ore sembra interminabile. Non so cosa intendesse esattamente, ma mi ha detto che a fare

questo lavoro ci si può “ammalare molto” (credo si riferisse a stress ed esaurimento

nervoso). Mi racconta di sentirsi molto fortunata, “io sono arrivata in Italia con invito”,

aveva il biglietto aereo pagato ma la maggior parte delle donne rumene che arrivano nel

nostro Paese vive esperienze molto dure. Per pagarsi il viaggio hanno bisogno di cinque

o sei mila euro (inclusi gli interessi degli usurai) perchè spesso sono costrette a

rivolgersi a degli “sfruttatori” per ottenere prestiti di denaro; una volta arrivate in Italia,

continua Cecilia, il primo anno si ritrovano a mangiare alla Caritas e vivono col

pensiero fisso di saldare il loro debito e di trovare il modo per sopravvivere; in più,

spesso hanno lasciato la famiglia in Romania, a volte dei figli, e quindi vivono nella

costante preoccupazione di racimolare un po' di soldi da mandare a casa. La situazione

in questi casi è comprensibilmente durissima, disperata. Nel '99, aggiunge, la situazione

era notevolmente più difficile rispetto ad oggi “Parma era chiusa. Non c'erano stranieri e

se arrivavi ti portavano alla Polizia”. Le parole di Cecilia sono enfatiche, ma

sicuramente dieci anni fa la vita degli immigrati era più dura rispetto ad ora.

La chiacchierata con Cecilia volge al termine, la mediatrice conclude ripetendomi di

sentirsi fortunata a fare questo lavoro, lei ha vissuto in prima persona le sofferenze e le

difficoltà delle sue connazionali che arrivano in ambulatorio con storie tragiche.

Durante l'intervista, inoltre, ha ribadito più volte che i rumeni non sono tutti delinquenti

e che la vita degli immigrati che arrivano in Italia può essere davvero difficilissima. La

sua voglia di raccontare e raccontarsi mi ha colpita. Quando ci salutiamo le porgo la

mano, lei me la stringe e mi chiede se può baciarmi. Poi aggiunge che posso passare a

trovarla quando voglio.

142

Al termine di questo capitolo di ricerca sul campo, la figura della mediatrice

culturale appare decisamente più concreta ed umana. Le sette mediatrici che mi hanno

gentilmente dedicato parte del loro tempo per descrivere in cosa consiste la loro

presenza presso le strutture socio-sanitarie della regione non corrispondono ad una

figura professionale univoca ed omogenea; le caratteristiche ricorrenti e condivise

riguardano più che altro l'aspetto partecipante, attivo, coinvolgente ed umano di questa

professione. Tutte le mediatrici che hanno risposto all'intervista, anche se con modalità

differenti, sono partecipanti attive, che agiscono anche di propria iniziativa, prendendo a

volte decisioni autonome verso il paziente e svolgendo una vasta gamma di mansioni

che vanno dalla mediazione linguistico-culturale in co-presenza, al supporto psicologico

verso l'utente straniero, all'assistenza nell'adempimento di procedure burocratiche (come

la compilazione di cartelle cliniche, modulistica ecc.), all'offerta di informazioni

ulteriori al paziente, all'azione quasi “educativa” dell'utente straniero per ciò che

concerne il sistema normativo, sanitario e culturale del nostro Paese. Oltre a queste

caratteristiche comuni, ogni mediatrice ha presentato un modus operandi diverso; per

quanto riguarda l'utilizzo della prima o della terza persona durante la mediazione, per

esempio, due mediatrici hanno risposto di usare sempre la terza persona, due la prima

persona, e le altre tre utilizzano entrambe a seconda a seconda dei casi. Anche la pratica

del briefing, come è emerso dalle interviste, è molto meno accurata di quanto prescriva

la letteratura, anzi, a volte non è nemmeno previsto. La cosiddetta “fedeltà”

all'enunciato originale del locutore è un altro punto critico, di rottura rispetto alla teoria:

in primo luogo, le mediatrici utilizzano un linguaggio più semplice di quello originale

(del medico) determinando così un abbassamento del registro linguistico a favore della

comprensibilità dell'enunciato da parte dell'utente-paziente, spesso scarsamente istruito;

in secondo luogo, il testo mediato è generalmente più esteso dell'originale per il

frequente ricorso alla parafrasi e per la necessità (culturale) di mitigare il carattere

diretto del messaggio del medico italiano, indirectness e hedging caratterizzano spesso

il comportamento linguistico delle mediatrici; in terzo luogo poi, rifacendoci alla teoria

di Goffman (1981) le mediatrici non sono semplici “animators” ma, in alcuni casi, sono

veri e propri “authors”, cioè autrici dell'enunciato, responsabili di ciò che dicono di

propria iniziativa. Per quanto riguarda la formazione professionale, tre mediatrici su

sette hanno svolto il tirocinio formativo previsto dalla nuova Legge Regionale del 2004

143

(v. Cap. 6.2), mentre le altre quattro hanno “imparato sul campo” e hanno frequentato al

più qualche conferenza o breve corso sulla mediazione culturale disposti dall'Ausl di

competenza.

L'aspetto certamente più forte che risulta dalle interviste è quello che riguarda il

rapporto umano con il paziente straniero e il grande dispendio di energie, da un punto di

vista psicologico ed emotivo, richiesto alle mediatrici che, pur sottopagate e in

situazioni di forte stress, sono impegnate in prima linea a svolgere un compito tutt'altro

che semplice.

CAPITOLO 6

La regione Emilia-Romagna

6.1 L'immigrazione straniera in Emilia-Romagna

In questa sezione ci occuperemo di fornire una breve sintesi sull'attuale situazione della

Regione in quanto a flussi migratori e presenza di cittadini stranieri sul territorio

regionale e presenteremo in questa sede alcuni dei dati pubblicati nel decimo rapporto

sull'immigrazione straniera nella Regione49.

Il rapporto reca l'introduzione di Anna Maria Dapporto, Assessore alla Promozione delle

politiche sociali e di quelle educative per l’infanzia e l’adolescenza, Politiche per

l’immigrazione, Sviluppo del volontariato, dell’associazionismo e del terzo settore della

Regione Emilia-Romagna, ed è stato pubblicato nel 2010 facendo riferimento ai dati

dell'anno 2008. Come scrive l'Assessore A. M. Dapporto:

“Negli ultimi anni, le politiche regionali in materia di immigrazione hanno mirato alla

realizzazione di azioni organiche, multisettoriali, al fine di trovare risposte adeguate a

un fenomeno divenuto strutturale per la nostra società. (…) Nel corso del 2008 gli

immigrati stranieri in regione hanno oltrepassato le 421.000 unità e il 9,7% della

popolazione residente, allineandosi a quanto avviene nel resto del continente: la media

europea è, infatti, superiore al 9% e nei paesi dell’Europa centrosettentrionale essa

49 Vedi Bibliografia

144

supera già il 10%. Questo rapporto dimostra come il motore dell’immigrazione sia

costituito dal mercato del lavoro che, in Emilia-Romagna (almeno fino all’estate 2008),

agli effetti della sostanziale piena occupazione che vi si è registrata, somma gli effetti

del calo demografico degli ultimi decenni. La Regione Emilia-Romagna sta

proseguendo nel suo impianto di programmazione delle politiche di integrazione sociale

iniziato già nel 2000. La legge regionale n. 5 del 24 marzo 2004 è stata la prima in Italia

dopo la riforma del Titolo V della Costituzione.

In seguito all’approvazione della legge regionale sono state attuate azioni su più fronti:

dagli sportelli informativi alle attività di informazione culturale e interculturale, dalle

reti regionali per i richiedenti asilo, per la lotta alla tratta e contro le discriminazioni su

base etnica, dalla promozione di forme di rappresentanza dei cittadini stranieri

all’attività di mediazione interculturale.

A queste azioni occorre aggiungere due strumenti fondamentali previsti dalla legge

regionale per l’immigrazione: la Consulta regionale per l’integrazione sociale e il

Programma triennale 2006/2008 per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri. La

Consulta (della quale si è definito anche un comitato esecutivo) risponde alla necessità

di avere una programmazione condivisa delle politiche per l’immigrazione tra

Istituzioni, rappresentanti degli immigrati (due per provincia), associazioni di categoria,

sindacati e Terzo settore. Il Programma triennale detta le linee d’azione per il triennio,

puntando ad una convergenza tra politiche di diversi settori (casa, istruzione, sanità,

sociale, lavoro, trasporti, cultura). L’integrazione si realizza a partire dalle scelte prese

in sede istituzionale, affrontando le questioni in modo complessivo e non singolarmente,

proprio perché il fenomeno migratorio coinvolge tutti i settori della società. Alla fine del

2008 l’Assemblea Legislativa regionale ha approvato il secondo programma triennale

che avrà valenza dal 2009 al 2011, individuando tre grandi priorità: l’alfabetizzazione,

la mediazione interculturale (ma anche dei conflitti) ed il contrasto alla discriminazione

su base etnica. Quindi per la prima volta in questa legislatura, l’immigrazione è entrata

stabilmente e in modo strutturale nelle politiche di programmazione della Regione.

La ricaduta di queste politiche sul territorio è stata analizzata attraverso la realizzazione

del quarto rapporto di monitoraggio dei 38 Piani di zona sociali per l’immigrazione

(giugno 2009), in cui è stato possibile valutare quanto i territori hanno recepito della

programmazione regionale e quanto si sono impegnati in termini di risorse. Purtroppo

145

nel 2009, è continuata una decurtazione del Fondo Nazionale per le Politiche Sociali

dopo quella avvenuta nel 2005; questi tagli mettono in difficoltà le politiche della

Regione e degli enti locali sull’integrazione, mancando anche un quadro di riferimento

di programmazione nazionale.

Gli immigrati sono sempre più, ed in maniera crescente, utenti dei servizi di welfare

della regione: non soltanto nel campo delle politiche sociali, ma anche di quelle

sanitarie, scolastiche, lavorative, abitative, ecc… Per la prima volta nel corso del 2009,

il lavoro dell’Osservatorio regionale sul fenomeno migratorio si è arricchito di un

importante elemento: uno studio sul gettito contributivo e fiscale dei lavoratori

immigrati. È anche per questo motivo che l’immigrazione rappresenta una risorsa per la

nostra comunità, una possibilità di crescita e di arricchimento per tutti, nell’ambito di un

quadro di regole condivise”.

Passiamo ora ai dati relativi all'immigrazione straniera nella Regione comparandoli al

quadro dell'immigrazione nazionale ed europea.

Secondo le Nazioni Unite sono più di 200 milioni i migranti nel mondo ovvero, circa il

3% della popolazione mondiale dimora abitualmente in un paese diverso da quello in

cui è nato. Si tratta di un fenomeno difficile da “misurare” poiché caratterizzato da una

grande rapidità di evoluzione, da una grande mobilità anche all’interno del territorio

italiano, da una componente di lavoro sommerso e più in generale dalla clandestinità;

tanto difficile da misurare quanto necessario da capire, anche attraverso i numeri,

delineandone i tratti caratterizzanti.

Una stima della popolazione straniera regolarmente presente sul territorio è possibile

integrando le informazioni contenute nell’archivio dei permessi di soggiorno in corso di

validità gestito dal Ministero dell’Interno e nell’archivio dei residenti con cittadinanza

straniera gestito dall’Istat in collaborazione con le anagrafi comunali.

Anche nello scenario di crisi economica e occupazionale delineatosi nel corso del 2008

l’immigrazione in Italia non ha arrestato al sua crescita. Secondo la Caritas/Migrantes50

in Italia i soggiornanti stranieri sono passati dai 500.000 di fine anni ottanta ai circa

4.330.000 della fine del 2008 di cui 3.891.295 iscritti in anagrafe.

La Caritas/Migrantes aggiunge che se si tiene conto del fatto che la regolarizzazione di

settembre 2009, pur in tempo di crisi, ha coinvolto quasi 300mila persone nel solo

50 Dossier Statistico Immigrazione Caritas-Migrantes 2009; v. http://www.caritasitaliana.it

146

settore della collaborazione famigliare, delle quali circa 30.000 in Emilia-Romagna,

l’Italia supera abbondantemente i 4,5 milioni di presenze straniere. La stima di circa

461.800 soggiornanti pone l’Emilia-Romagna al quarto posto tra le regioni italiane in

quanto a consistenza preceduta da Lombardia (997.800), Lazio (499.200) e Veneto

(502.200). Se si considera la presenza straniera in termini di incidenza dei residenti

stranieri sulla popolazione residente complessiva ecco che l’Emilia-Romagna balza al

primo posto con circa 9,7 stranieri residenti ogni 100 residenti in complesso, seguita

dall’Umbria con 9,6 stranieri residenti per 100 abitanti e da Lombardia e Veneto con

9,3. I ritmi di crescita della popolazione straniera in Emilia-Romagna hanno raggiunto

il massimo tra la fine degli anni novanta e la metà degli anni 2000 quando, anche a

seguito dei numerosi procedimenti di regolarizzazione, si avevano incrementi medi

annui attorno al 20%. Dopo l’ultima ondata di regolarizzazione del 2004 i ritmi di

crescita si sono dimezzati anche se l’ingresso nella Comunità europea di Romania e

Bulgaria ha determinato un incremento del 15% nel corso del 2007. Anche il 2008 si è

distinto per un aumento di poco superiore al 15% degli stranieri residenti in Emilia-

Romagna e questo sia per il continuo aumento della popolazione straniera proveniente

dai nuovi Paesi Membri sia per i consistenti flussi da paesi non comunitari.

In termini assoluti le più alte presenze di cittadini stranieri residenti si trovano in

Germania (7,255 milioni), Spagna (5,262 milioni), Gran Bretagna (4,021 milioni),

Francia (3,674 milioni) e Italia (3,433 milioni): gli stranieri residenti in questi cinque

Stati rappresentano più del 75% degli stranieri residenti nell’Unione europea. In tutti gli

Stati membri, ad eccezione di Lussemburgo, Irlanda, Belgio, Cipro, Slovacchia,

Ungheria e Malta, la maggior parte degli stranieri residenti proviene da paesi esterni alla

UE. In termini di paese di provenienza si riscontra in Italia, e in Emilia-Romagna, una

maggiore frammentazione rispetto agli altri grandi paesi, da ricondurre in parte

all’assenza di legami storici, linguistici o di prossimità geografica che influenza le

provenienze dell’immigrazione in altri paesi, come, ad esempio, per gli indiani in Gran

Bretagna o gli algerini in Francia.

L’alta frammentazione tra i paesi d’origine viene vista come una condizione che

potrebbe, a priori, ridurre il rischio di ghettizzazione in quanto favorisce assai meno

l’eventuale formazione e l’affermarsi di forti minoranze compatte, prevalenti rispetto

alle altre.

147

Come viene sottolineato nell’Eurostat Regional Yearbook 200951 in molte regioni

europee, dove la crescita naturale è nulla o negativa, l’immigrazione internazionale

assume ancor più importanza in quanto collegata alla possibilità di mantenere una certa

dimensione demografica; in particolare in Emilia-Romagna e nelle altre regioni del

Centro-Nord Italia l’immigrazione è in grado di contrastare la crescita negativa dovuta

alla sola componente naturale.

In una situazione di invecchiamento della popolazione e di limitato ricambio

generazionale delle classi di età lavorative si creano maggiori spazi di inserimento per

gli immigrati e lo dimostra il fatto che non solo l’Emilia-Romagna attrae sempre più

stranieri ma continua ad attrarre anche una parte consistente delle migrazioni interne al

paese. Nel 2008 il saldo migratorio interno dell’Emilia-Romagna, pari a 4,6 per mille,

risulta ancora una volta il più elevato tra le regioni italiane e, unito al saldo migratorio

con l’estero, avrebbe portato ad un incremento della popolazione ad opera delle sole

migrazioni pari al 15,8 per mille. La crescita complessiva è stata però di circa 14

persone ogni 1.000 presenti nella popolazione in quanto il tasso di crescita naturale,

tuttora negativo, è pari a circa -1,3 per mille.

La popolazione straniera è presente oramai su tutto il territorio regionale anche se vi

sono delle zone in cui vi è una maggiore incidenza in funzione delle diverse

specializzazioni economiche, delle vie di comunicazioni presenti e del mercato abitativo

più o meno favorevole; in particolare è evidente come le province di Piacenza, Parma,

Reggio Emilia e Modena abbiano un numero di stranieri ogni 100 residenti superiore

alla media regionale pari a 9,7%. Queste province emiliane hanno circa l’11% di

stranieri residenti al contrario di Ferrara che continua a mostrare la presenza più bassa

(6,1%) seppure con notevoli incrementi nel corso degli ultimi anni. I dati raccolti

identificano una vasta area tra le province di Reggio Emilia e Modena con valori

superiori all’11% e che raggiungono, in molti comuni, anche il 20% nonché una fascia

di comuni al confine tra la provincia di Piacenza e la Lombardia e zone collinari della

provincia di Modena, Bologna e di Forlì-Cesena.

Il peso della componente femminile è più elevato della media regionale nelle province

di Ferrara (54,1%), Rimini (52,5%), Bologna (51,3%) e Parma (50,5%). Questa

distribuzione è influenzata in parte dalla distribuzione per cittadinanza degli stranieri 51 http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/product_details/publication?p_product_code=KS-HA-09-001

148

residenti poiché vi sono delle nazionalità in cui la componente femminile è decisamente

prevalente: tra le prime troviamo Ucraina (16.407 donne pari al 81,2%del totale degli

ucraini residenti), Polonia (8.349, 73,8%) e Moldavia (12.306, 68,5%). Tra le prime

venti cittadinanze presenti, quote di donne superiori al 50% si riscontrano anche per gli

immigrati residenti provenienti da Nigeria, Filippine e Romania e Bulgaria.

Il costante e rapido aumento della popolazione straniera incide in maniera notevole sulle

caratteristiche strutturali della popolazione sia perché ne modifica la consistenza sia

perché contribuisce in larga misura al suo ringiovanimento in termini di rapporto tra

popolazione anziana e giovanile: va infatti ricordato che circa il 78% degli stranieri

residenti in Emilia-Romagna si colloca nelle classi di età tra i 15 e i 64 anni, attive sia

dal punto di vista lavorativo sia demografico e contribuendo quindi alla ripresa della

natalità.

Nell’analisi della distribuzione degli stranieri residenti per cittadinanza (v. tabella in

Appendice) è evidente come i gruppi di più antica immigrazione siano ancora molto

rappresentati, in particolare i cittadini marocchini (62.680 residenti), gli albanesi

(54.336), i rumeni (54.205) e i tunisini (20.343): a partire dal 2006 la consistenza dei

cittadini rumeni ha superato quella dei cittadini tunisini che fino ad allora avevano

rappresentato la terza cittadinanza in quanto a consistenza.

Tra le prime venti cittadinanze per consistenza l’incremento più elevato nel corso del

2008 è quello dei cittadini moldavi (17.970 residenti, +40,1% rispetto al 1.1.2008)

seguiti dai rumeni (54.205, +30,1%); con variazioni superiori al 15,2% medio regionale

si trovano anche le provenienze da Bangladesh, Sri Lanka, Bulgaria, Ucraina, India e

Polonia.

Seppure i cittadini stranieri si collocano abbastanza omogeneamente sul territorio e

quindi nelle graduatorie delle residenze a livello provinciale ritroviamo sostanzialmente

le cittadinanze già citate, si possono riconoscere rispetto ad esse alcune particolarità.

Nelle graduatorie delle prime venti cittadinanze presenti a livello provinciale notiamo

che i cittadini albanesi, marocchini e rumeni si collocano tra le prime tre cittadinanze

tranne a Parma dove in seconda posizione troviamo i moldavi (4.668 residenti pari a

circa il 26% del totale regionale), a Reggio Emilia dove la seconda posizione è occupata

dagli indiani (5.351 poco più del 41% del totale regionale) e nella provincia di Rimini

dove in terza posizione troviamo gli ucraini (2.421 circa il 12% del totale regionale). Da

149

notare anche il quarto posto occupato dalla comunità cinese nelle province di Rimini,

Forlì-Cesena e Reggio Emilia, dai senegalesi nella provincia di Ravenna, dagli ucraini

in quella di Ferrara, dai filippini a Bologna e dai macedoni a Piacenza.

Questa breve panoramica sul quadro dell'immigrazione straniera in Emilia-Romagna è

estremamente utile per comprendere più a fondo il contesto nel quale si situano i servizi

di mediazione culturale predisposti dalla Regione. Come è emerso dalle testimonianze

delle mediatrici intervistate, spesso le lingue di mediazione presso le strutture socio-

sanitarie regionali rappresentano solo le lingue maggiormente diffuse; a fronte della

grande varietà dei flussi di immigrazione che caratterizzano il territorio della Regione,

in alcuni casi il servizio di mediazione culturale risulta pertanto insufficiente rispetto

alle lingue cosiddette minoritarie e ai rispettivi parlanti che, come tutti i cittadini

stranieri, dovrebbero poter usufruire di tale servizio.

6.2 La mediazione culturale in Emilia-Romagna: la legislazione italiana e regionale

In questa sezione cercheremo di delineare l'attuale situazione della regione Emilia-

Romagna rispetto alla figura del mediatore linguistico-culturale e alle politiche regionali

che regolano tale profilo professionale, in particolare facendo riferimento al processo di

definizione di questo ruolo avvenuto fra il 2004 e il 2005. Prima però, è opportuno

fornire una breve descrizione del quadro normativo italiano in merito al tema

dell'immigrazione per poi focalizzare l'attenzione sulla legislazione regionale.

Da un punto di vista normativo, così come descritto da Camilotti e Sebastianis (in Luatti

2006), il termine mediatore è stato utilizzato per la prima volta dal Ministero della

Pubblica Istruzione nella circolare n. 205 del 26 luglio 1990 “Accoglienza ed

organizzazione scolastica degli alunni stranieri”, in cui si parla dell' “impiego di

mediatori di madre lingua per agevolare la comunicazione nell'ambito scolastico e nella

comunicazione scuola-famiglia, nonché [dell'] utilizzo di esperti di madre lingua per

attuare le iniziative per la valorizzazione della lingua e cultura d'origine”, senza però

definirne il ruolo, le competenze e i requisiti. Fino a venti anni fa, dunque, la

mediazione culturale è stata relegata ad una posizione marginale ed accessoria, priva di

150

un assetto strutturato che ne stabilisse i caratteri sotto il profilo normativo. Ma solo nella

legge 40/98 (Legge Turco-Napolitano), in seguito confluita nel Decreto legislativo

286/9852, si fa riferimento per la prima volta al mediatore come figura “qualificata”.

L'ambiguità della terminologia utilizzata, tuttavia, rende la definizione del “mediatore

qualificato” ancora piuttosto farraginosa, poiché si parla di mediatori culturali

qualificati e di mediatori interculturali, senza esplicitarne le eventuali differenze

(Ibid.)53

Secondo quanto scrive Fiorucci (in Luatti 2006) utilizzando toni piuttosto forti per

esprimere il proprio disappunto, la legge sull'immigrazione attualmente in vigore, Legge

Bossi-Fini del 30 luglio 2002, n.189, sembra caratterizzarsi per almeno due aspetti

principali:

− “ l'istituzionalizzazione della precarietà: i rischi di diventare clandestini e

irregolari presenti in questa legge sono elevatissimi (…) L'economia sommersa che si

fonda sul lavoro nero, accumula ricchezza “utilizzando” persone che non possono

rivendicare diritti e non possono ribellarsi a condizioni di lavoro dure, nocive e

insopportabili in una moderna società democratica”;

− “ la riduzione della persona umana al suo essere prestatore d'opera: collegare il

permesso di soggiorno al contratto di lavoro (“contratto di soggiorno”) costituisce una

negazione della persona umana nel suo complesso”.

Il dibattito a livello politico-normativo, come appare anche dal brano sopracitato,

rimane acceso; Fiorucci (Ibid.) pone a confronto la Legge Bossi-Fini con la precedente 52 “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”. 53 L. 40/98, art. 36, c. 6b: [...sono dettate le disposizioni dei] criteri per il riconoscimento dei titoli di studio e degli studi effettuati nei Paesi di provenienza ai fini dell'inserimento scolastico, nonché dei criteri e delle modalità di comunicazione con le famiglie degli alunni stranieri, anche con l'ausilio di mediatori culturali qualificati ”; art. 40, c. 1: “Lo Stato, le Regioni, le Province e i Comuni (…) favoriscono: (…) la realizzazione di convenzioni con associazioni (…) per l'impiego all'interno delle proprie strutture di stranieri, titolari di carta di soggiorno o permesso di soggiorno di durata non inferiore a due anni, in qualità di mediatori interculturali al fine di agevolare i rapporti tra le singole amministrazioni e gli stranieri appartenenti ai diversi gruppi etnici, nazionali, linguistici e religiosi”. Anche il DPR 394/99 (“Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”) adotta la denominazione mediatore culturale qualificato e ne indica come compiti l'accoglienza, la comunicazione con le famiglie e le azioni a tutela dalla lingua di origine: art. 45 c. 5 e 6: “Il collegio docenti formula proposte in ordine ai criteri e alle modalità per la comunicazione tra scuola e famiglia degli alunni stranieri. Ove necessario, anche attraverso intese con l'ente locale, l'istituzione scolastica si avvale dell'opera di mediatori culturali qualificati ”. Ricordiamo che la Legge 189/02 (“Bossi-Fini”) ha lasciato inalterate le disposizioni relative all'istruzione per gli immigrati ed i loro figli. (Camilotti e Sebastianis 2006:213)

151

legge quadro sull'immigrazione, la Legge n. 40 del 6 marzo 1998 (Legge Turco-

Napolitano), la quale, nonostante i limiti e gli elementi controversi54 che mostrava,

presentava alcuni aspetti innovativi già nel titolo “Disciplina dell'immigrazione e norme

sulla condizione dello straniero”:

- non parlava più di norme “urgenti” in materia di immigrazione, quasi a voler prendere atto del

carattere non più transitorio dell'immigrazione nel nostro paese;

− non faceva riferimento esclusivamente alla dimensione lavorativa dell'immigrato, parlando per la

prima volta di “condizione dello straniero”e prendendo in considerazione una vasta gamma di

aspetti tra loro interrelati per giungere all'acquisizione del pieno diritto di cittadinanza (casa,

lavoro, assistenza sanitaria, istruzione, formazione e riqualificazione professionale, possibilità di

accesso ai servizi)

− presentava un articolo, art. 36 “Istruzione degli stranieri. Educazione interculturale”, che per la

prima volta in una legge italiana introduceva il concetto di educazione interculturale, con

riferimento alla figura dei mediatori culturali (senza però regolamentarne la qualifica e la

formazione).

La Legge Turco-Napolitano del 1998, primo testo unico sull'immigrazione, nell'art. 42

nomina i mediatori linguistico-culturali, affermando il loro impiego nei servizi “al fine

di agevolare i rapporti tra le singole amministrazioni e gli stranieri appartenenti ai

diversi gruppi etnici, nazionali, linguistici e religiosi”. La legge, inoltre, stabilisce la

creazione di un Albo nazionale dell'associazione e delle cooperative che svolgono azioni

di mediazione a favore della popolazione immigrata. Come detto in precedenza, la

Turco-Napolitano non fissa esplicitamente la natura delle attività di mediazione

linguistico-culturale. Casrtiglioni (in Luatti 2006:146) aggiunge:

Gli sforzi inoltre per arrivare alla definizione del ruolo e del profilo professionale del mediatore

linguistico-culturale da parte del CNEL [Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro] attraverso

l'istituzione di un'apposita commissione, nei due anni successivi alla promulgazione del testo Unico, sono

riamasti sulla carta.

Oltre alla mancanza di omogeneità e chiarezza terminologica già menzionata, risulta

evidente la mancanza di corrispondenza fra il testo normativo e la realtà della

mediazione culturale effettivamente svolta sul campo; nonostante i piccoli progressi

54 Fiorucci si riferisce qui alla questione delle impronte digitali e alla situazione dei Centri di permanenza temporanea (CPT) italiani: “ ICPT , istituiti con la legge Turco-Napolitano e mantenuti in vita e rinforzati nella loro funzione repressiva dalla Legge Bossi-Fini, rappresentano dei veri e proprio “lager” dove vengono sospesi tutti i diritti” (Fiorucci in Luatti 2006: 107)

152

registrati in questa breve panoramica della normativa nazionale sul tema

dell'immigrazione e della mediazione interculturale, permangono infatti criticità e punti

oscuri ancora da risolvere.

In quanto alla legislazione regionale dell'Emilia-Romagna, il processo di cambiamenti

qualitativi e quantitativi iniziato nella seconda metà degli anni '90 si è sviluppato di pari

passo con la crescente presenza di cittadini stranieri nel nostro Paese, la quale ha

contribuito a diffondere la consapevolezza dell'importanza di servizi assistenziali e di

mediazione culturale che potessero permettere agli immigrati di dialogare con il sistema

italiano ed accedere alle infrastrutture del Paese. Come spiegano esaustivamente

Facchini e Martelli (in Luatti 2006), nel dicembre 2001, la Regione Emilia-Romagna ha

sottoscritto con enti locali, parti sociali (Associazioni datoriali e Sindacati) e forum

regionale del terzo settore un “Protocollo d'intesa in materia di immigrazione straniera”

nel quale si sono definiti cinque assi strategici di intervento regionale per l'integrazione

dei migranti: governo dei flussi migratori, lavoro e formazione professionale, politiche

abitative, integrazione sociale e nuova legislazione regionale.

A proposito della mediazione culturale, il protocollo regionale 2001 affermava come:

la relazione tra culture differenti richiede che sia dedicata particolare attenzione alle azioni e ai progetti di

mediazione culturale volti al superamento delle incomprensioni, diffidenze e conflitti che inevitabilmente

si creano. La realizzazione efficace di interventi di mediazione culturale necessita però dell'attivazione di

percorsi volti alla definizione del profilo professionale, all'individuazione di percorsi formativi specifici,

alla differenziazione fra ambiti e modalità d'intervento, alle modalità organizzative per la gestione di

progetti e servizi, alla destinazione di risorse economiche specifiche. La progettazione di iniziative in tal

senso non possono e non devono non disporre della ricca esperienza realizzata in questa regione

dall'associazionismo, dal volontariato e dalla cooperazione sociale.

La nuova legge regionale si configura quindi come strettamente collegata al tema della

mediazione interculturale e la Regione Emilia-Romagna è stata la prima regione italiana

a legiferare in materia di politiche per l'integrazione dei cittadini immigrati dopo la

riforma del Titolo V della Costituzione55 e dopo la modifica della normativa nazionale

55Con la legge Costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 viene riformata la parte della Costituzione riguardante il sistema delle Autonomie Locali e dei rapporti con lo Stato. La riforma comporta la revisione degli articoli 114-133 della Carta Costituzionale. Attraverso la conferma di alcuni articoli, l’abrogazione di altri e la modifica di altri ancora, viene cambiato in profondità l’ordinamento istituzionale della Repubblica. Quanto alla organizzazione istituzionale, il nuovo testo dell’articolo 114 (il primo del Titolo V), secondo una logica di equiordinazione, indica che la Repubblica (intesa come Stato-ordinamento) è costituita da

153

(approvazione del D.Lgs. 286/98) e delle sue successive modifiche previste dalla L.

189/2002.

Come argomentano Facchini e Martelli (2006), l'approvazione di una nuova normativa

regionale si rendeva necessaria per almeno tre ragioni:

• la evidente vetustà della precedente legge regionale in vigore (LR 21 febbraio

1990, n. 14), che sostanzialmente nasceva nel solco della impostazione

emergenziale causata dai primi consistenti flussi migratori nel nostro paese;

• le modifiche sostanziali rispetto alle caratteristiche del fenomeno migratorio

(stabilizzazione e femminilizzazione in primis)

• un forte processo di innovazione e modificazione legislativa avviato a livello

nazionale a partire dalla emanazione del D.Lgs. 286/1998 e successive

modificazioni.

La nuova legge regionale per l'integrazione sociale dei cittadini stranieri, LR n. 5 del 24

marzo 2004, “Norme per l'integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati.

Modifiche alle leggi regionali 21 febbraio 1990, n. 14 e 12 marzo 2003, n. 2” (v.

Appendice), è nata dunque per promuovere e garantire una maggiore coesione sociale

tra nuovi e vecchi cittadini residenti sul suolo italiano e prevede attività di mediazione

culturale al fine di:

garantire per i cittadini stranieri immigrati pari opportunità di accesso all'abitazione, al lavoro,

all'istruzione ed alla formazione professionale, alla conoscenza delle opportunità connesse connesse

strutture paritetiche, senza distinzione tra livelli gerarchici: Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato (inteso come Stato-persona) L’articolo 114 prevede, inoltre, il riconoscimento costituzionale della funzione di capitale della Repubblica per la città di Roma. In considerazione della nuova forma di Stato decentrato, i nuovi importanti compiti costituzionali della capitale saranno disciplinati con legge dello Stato. La rilevanza del nuovo orientamento federalista si manifesta, in particolare, nella inversione, disposta con il nuovo testo dell’articolo 117, della enunciazione delle materie di competenza esclusiva, che pone implicitamente come più rilevante la competenza regionale rispetto a quella statale. Il secondo comma di tale articolo, infatti, definisce l’ambito di materie in cui deve essere esercitata la potestà legislativa esclusiva da parte dello Stato; nel vecchio testo erano, invece, stabilite in modo esplicito le materie di competenza regionale. Il comma successivo indica le materie “concorrenti”, sulle quali, tuttavia, l’iniziativa legislativa spetta alle Regioni, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla normativa dello Stato. Il comma 4, infine, attribuisce alle Regioni la potestà legislativa residuale, cioè relativamente a ogni materia non espressamente riservata allo Stato. (…) Secondo il principio di sussidiarietà, che attribuisce le funzioni al livello “più basso“ di governo, l’ambito regionale, con la riforma, è divenuto quello legislativamente più rilevante, mentre ai Comuni (articolo 118) spettano le funzioni amministrative. (Espa e Felici 2003:29:30, v. http://www.isae.it/ra_fed_cap3_2003.pdf )

154

all'avvio di attività autonome ed imprenditoriali, alle prestazioni sanitarie ed assistenziali [e, rispetto

all'assistenza sanitaria afferma che] “la Regione promuove, anche attraverso la Aziende sanitarie, lo

sviluppo di interventi formativi destinati ai cittadini stranieri immigrati ed attività di mediazione

interculturale in campo socio-sanitario, finalizzati ad assicurare gli elementi conoscitivi idonei per

facilitare l'accesso ai servizi sanitari e socio-sanitari. (artt. 1 e 13)

La Regione Emilia-Romagna, ispirandosi al principio di pari opportunità e con

l'obiettivo di assicurare il pieno inserimento sociale, culturale e politico per i cittadini

stranieri, ha introdotto uno specifico articolo, art. 17, “Interventi di integrazione e

comunicazione interculturale”, che prevede al punto e) come la Regione e gli Enti locali

promuovano:

il consolidamento di competenze attinenti alla mediazione socio-culturale, secondo la normativa regionale

in materia di formazione professionale, finalizzate alla individuazione ed alla valorizzazione di una

specifica professionalità volta a garantire sia la ricognizione dei bisogni degli utenti, sia l'ottenimento di

adeguate prestazioni da parte dei servizi. (citato in Luatti 2006:237)

Con la delibera n.1576 del 30 luglio 2004 “Prime disposizioni inerenti la figura

professionale del mediatore interculturale” la Regione Emilia-Romagna ha definito gli

standard formativi essenziali per il riconoscimento della qualifica di mediatore

interculturale e ha fissato tale figura professionale con la delibera n. 2212 del 10

novembre 2004, “Approvazione repertorio delle qualifiche professionali regionali”56. In

queste delibere vengono individuate le competenze del mediatore e i contenuti del

percorso formativo, ma non vengono indicati i requisiti d'accesso alla professione.

Come scrivono Camilotti e Sebastianis (in Luatti 2006), tra le competenze rientrano la

diagnosi dei bisogni e delle risorse degli immigrati, il loro orientamento ai servizi, la

capacità di intermediazione linguistica e le tecniche di mediazione interculturale. I

contenuti della formazione, poi, prevedono nozioni generali su: fenomeni e dinamiche

dei processi migratori, organizzazione e funzionamento dei servizi socio-sanitari,

educativi, scolastici e lavorativi in Italia e nel paese d'origine, normativa

sull'immigrazione, tecniche di base della comunicazione, di interpretariato, elementi di

base di sociologia ed antropologia culturale, pedagogia interculturale e psicologia

dell'immigrazione. Da notare che anche tra i contenuti didattici e non solo fra le

56 V. http://bur.regione.emilia-romagna.it/bur/area-bollettini/n.-132-del-07.10.2010/adeguamento-ed-integrazione-degli-standard-professionali-del-repertorio-regionale-delle-qualifiche/allegato-1_schede-monografiche

155

competenze richieste si specifica la lingua di provenienza parlata e scritta.

Secondo Belpiede (2006:254) gli strumenti principali del mediatore interculturale

professionista sono: “il decentramento emozionale e culturale e il ruolo di terzo,

l'ascolto e la relazione empatica”. Facchini e Martelli (2006), riflettendo sul profilo

professionale del mediatore interculturale e il suo ruolo, affermano che gli operatori, per

non essere ridotti a meri traduttori linguistici della comunicazione, dovrebbero

possedere competenze trasversali in ambito comunicativo e relazionale e competenze

specifiche; in secondo luogo, dovrebbero rielaborare in termini professionali la propria

esperienza migratoria. In altre parole quindi, il mediatore culturale dovrebbe diventare

un esperto della comunicazione interculturale in un settore di attività specifico: l'ambito

giudiziario, la sanità , la scuola, ecc. L'obiettivo, dunque, è la formazione di una figura

professionale competente e specializzata, riconosciuta e tutelata attraverso la definizione

di standard nazionali.

In quanto alle qualifiche del mediatore culturale, con la delibera n. 265 “Approvazione

standard dell'offerta formativa a qualifica e revisione di alcune tipologie di azione di cui

alla delibera di GR n. 177/2003” del 14 febbraio 2005, la Giunta regionale stabilisce gli

standard formativi del Sistema regionale delle qualifiche. La scheda monografica con

gli standard relativi ai corsi per la qualifica di mediatore interculturale si colloca

nell'area professionale “Assistenza sociale, sanitaria, socio-sanitaria”. Il percorso

formativo prevede:

• corsi di 500 ore, con una quota di ore di stage pari almeno al 35-45% del monte

ore complessivo, rivolti a giovani non occupati, che hanno concluso un percorso

di istruzione e formazione con il conseguimento del relativo titolo finale;

• corsi di 300 ore per giovani-adulti occupati o disoccupati (con un periodo di

stage pari al 20-40% del monte ore totale) la cui durata può essere ridotta fino ad

un minimo di 200 ore, in funzione delle caratteristiche dei partecipanti. Anche in

questo caso non vengono date disposizioni precise sui requisiti relativi all'età, ai

titolo di studio e alla nazionalità dei corsisti.

Il 7 febbraio 2006, la Giunta regionale ha approvato il Programma Triennale 2006-2008

per l'integrazione sociale dei cittadini stranieri sulla base dell'art. 3 della Legge

regionale, in cui, al punto 14 “Comunicazione e mediazione interculturale”, si intende

156

favorire:

la promozione all'approccio interculturale attraverso una serie di possibilità operative con lo scopo di

conoscere e valorizzare gli apporti culturali diversi al fine di costruire assieme nuove solidarietà, nuove

comunità socialmente coese in una logica di pari opportunità di diritti e di rispetto dei doveri socialmente

definiti. (citato da Camilotti e Sebastianis in Luatti 2006:218)

Due anni dopo, in data 16 dicembre 2008, la Giunta Regionale ha decretato

l'approvazione del Programma Triennale 2009-2011 per l'integrazione sociale dei

cittadini stranieri. Gli obiettivi strategici del programma sono tre:

- Primo, la promozione dell’apprendimento e dell’alfabetizzazione della lingua italiana per favorire i

processi di integrazione e consentire ai cittadini una piena cittadinanza.

- Secondo obiettivo, la promozione di una piena coesione sociale attraverso processi di conoscenza,

formazione e mediazione da parte dei cittadini stranieri immigrati e italiani.

- Terzo, la promozione di attività di contrasto al razzismo e alle discriminazioni, lavorando su più aspetti:

prevenzione ed educazione, sostegno a progetti e azioni per eliminare alla base le situazioni di

svantaggio, opportunità di orientamento, assistenza e consulenza legale, e un lavoro costante di

osservazione del fenomeno nel territorio regionale, con particolare attenzione al ruolo dei mezzi di

informazione57.

In conclusione, nonostante i progressi gradualmente registrati che abbiamo sin qui

ricordato, dobbiamo però sottolineare il rischio che le autonomie regionali riguardanti la

regolamentazione della mediazione interculturale possano creare ulteriori ambiguità a

livello nazionale. In ogni regione si sono stabiliti, infatti, profili e standard differenti ed

in alcune la figura professionale del mediatore interculturale non esiste neppure. Il

rischio, pertanto, è quello di “formare un mediatore con un corso di 300 ore in Emilia-

Romagna che poi si trasferisce in un'altra regione dove il suo certificato non ha alcun

valore o perchè in quella regione non esiste affatto il profilo o perchè è stato individuato

un profilo per la professionalizzazione del quale sono richieste più ore” (Piccinini in

Luatti 2006:103).

Come già detto, ciò che sarebbe auspicabile è la definizione a livello nazionale di uno

standard comune di questa figura professionale che sia unanimemente ed

uniformemente riconosciuta su tutto il territorio del Paese; un altro punto di criticità

della situazione attuale riguarda inoltre la mancanza di coordinamento fra il mondo del

57http://www.emiliaromagnasociale.it/wcm/emiliaromagnasociale/news/2008/dicembre/17_immigrazionepp.htm

157

lavoro e il sistema formativo per cui, ad oggi, le cooperative o associazioni che erogano

servizi di mediazione linguistico-culturale non hanno alcun vincolo che le porti ad

impiegare mediatori qualificati, come succede invece per le professioni sociali

ufficialmente regolamentate. Un altro punto di divaricazione, infine, è dato dai corsi

universitari da una parte, e dai corsi di formazione professionale dall'altra. Come spiega

Piccinini (in Luatti 2006:104):

Da un lato abbiamo giovani interessati a lavorare nel settore del management interculturale con nozioni

raffinate di sociologia, antropologia, psicologia, dall'altro abbiamo adulti stranieri, principalmente donne,

che hanno vissuto a loro volta un'esperienza di migrazione, sono portatori del loro patrimonio linguistico

e culturale d'origine e sanno dialogare con la società italiana e i servizi diversi. (...) Rischiamo di trovarci

in una situazione dove ci sono “mediatori culturali” italiani, laureati, che lavorano per le pubbliche

amministrazioni e gestiscono il lavoro della manovalanza composta da mediatori interculturali stranieri.

In questo senso, uno sforzo di coordinamento a livello sistemico nazionale costituirebbe

la premessa necessaria per garantire credibilità alla figura del mediatore culturale e per

definirne formalmente il profilo professionale dal punto di vista giuridico, in modo da

eliminare l'ambiguità e la vulnerabilità che fino ad oggi hanno caratterizzato questo

ruolo tanto complesso quanto fondamentale nell'odierna società multietnica.

6.3 Alcuni dati sui mediatori culturali della Regione

A maggio 2010, la Regione Emilia-Romagna ha pubblicato un report di ricerca

intitolato “La mediazione interculturale nei servizi alla persona della Regione Emilia-

Romagna. Lingua, mediazione e culture”58. Come recita l'introduzione a tale rapporto,

vengono illustrati: “gli esiti della prima ricerca di carattere regionale realizzata sui

mediatori interculturali operanti nel territorio dell’Emilia-Romagna. L’indagine,

sicuramente inedita per ampiezza e caratteristiche in ambito nazionale, si inserisce in

una pratica già sperimentata di follow up professionale con cui il Servizio Politiche per

l’accoglienza e l’integrazione sociale della Regione Emilia-Romagna intende conoscere

meglio coloro che, nel suo territorio, lavorano in ambito migratorio. Nel 2009,

58v. http://ermes.regione.emilia-romagna.it/ermes/notizie/copy_of_attualita/luglio/pronto-il-primo-censimento-sui-mediatori-interculturali/Ricerca_Mediatori_in_E-R_-web.pdf

158

l’interesse viene posto più specificatamente su quanti, a vario titolo, operano come

mediatori/mediatrici interculturali (ma anche linguistici e culturali) nei diversi servizi

alla persona dell’intera Emilia-Romagna (sportelli e centri informativi per stranieri,

Aziende USL, Ospedali, consultori, scuole, centri per l’impiego, servizi per migranti,

ecc) e che si dedicano ad un’utenza prevalentemente straniera.

[Questo rapporto risponde fra l'altro] ad una necessità strategica propria della Regione

Emilia-Romagna che, nel suo ultimo “programma triennale per l’integrazione sociale

dei cittadini stranieri 2009-2011” pone proprio le attività di mediazione interculturale

e/o linguistico-culturale tra le azioni prioritarie di intervento regionale nell’ambito delle

politiche di accoglienza e inclusione degli stranieri”.

Di seguito proponiamo una sintesi dei risultati emersi da questa ricerca (v. nota 54), in

particolare concentrando la nostra attenzione su come e dove vengono oggi svolte le

attività mediatorie e chi ne sono i protagonisti. Secondo i dati del rapporto, in Emilia-

Romagna operano complessivamente circa 300 mediatori e mediatrici interculturali, a

cui si affianca poi un numero quasi doppio di persone che svolgono quest’attività in

modo più occasionale, non continuativo e strutturato. In totale, si tratta di 849 mediatori

impiegati nei servizi socio-sanitari e assistenziali della Regione.

Un dato significativo, cui abbiamo fatto cenno più volte nel corso del nostro lavoro

riguarda la netta presenza femminile nell'ambito della mediazione culturale: le 685

donne censite dal rapporto rappresentano oltre l’80% dei mediatori della Regione e

operano prevalentemente nell'ambito dei servizi sanitari.

Come si dice in questo studio, “Il settimo Rapporto Cnel sugli indici di integrazione

degli immigrati in Italia, recentemente diffuso, riconosce all’Emilia-Romagna il primo

posto nel Paese”.

Per quanto riguarda le attività di mediazione, emerge che la quasi totalità degli enti

pubblici – con l’eccezione di alcune realtà sanitarie – si avvale di fornitori esterni, in

maggioranza cooperative o associazioni (34 per l’Emilia-Romagna). Sul totale dei

mediatori e delle mediatrici a disposizione in regione, 849 unità, le presenze più

numerose riguardano Modena (226 mediatori), Bologna (188), Parma (136) e Ferrara

(106).

Degno di nota è fra tutti il settore sanitario, i mediatori strutturati o occasionali che

svolgono, in tutto o in parte, le loro attività nelle strutture sanitarie regionali

159

costituiscono infatti il 50% dell'intero gruppo di mediatori all'attivo. In realtà, come

abbiamo già detto, in questo specifico settore si dovrebbe parlare di mediatrici. Qui la

componente femminile rappresenta infatti oltre il 90% delle figure deputate alla

mediazione interculturale, e in alcune aziende sanitarie è pressoché esclusiva. Secondo i

dati del rapporto: a Bologna (Ausl e Azienda ospedaliera) operano 95 mediatrici, tutte

donne; a Ferrara su 87 operatori nel campo della mediazione 74 sono donne, e a

Modena (sempre Ausl e Azienda ospedaliera) sono attive 86 donne e un solo uomo.

Come hanno confermato le stesse mediatrici intervistate nella nostra indagine, la

presenza femminile nei servizi sanitari non deve stupire in quanto si ha a che fare con

ambiti di specificità (come i reparti di ginecologia e i consultori) dove non solo è

importante conoscere lingue e culture ma anche saper approcciare esperienze,

confidenze e ambiti d’intimità. Oltre al sanitario, gli altri settori prevalenti d’attività per

i mediatori sono lo scolastico-educativo e l’informativo (sportelli, servizi di accoglienza

e orientamento).

La ricerca ha registrato che fra le culture e le lingue di competenza più diffuse troviamo:

l’arabo (166 mediatori, di cui 122 donne), seguito dal rumeno/moldavo (72), dal cinese

(67) e dall’albanese (64). I curricula scolastici dei mediatori, poi, sono mediamente alti:

se meno del 3% ha terminato la scuola dell’obbligo, oltre il 12% possiede un diploma

universitario triennale, e più del 55% ha una laurea: tra questi ultimi, il 10% ha un titolo

post laurea di specializzazione o il dottorato. Sul totale dei mediatori, il 60,8% si è

formato per operare nel campo della mediazione culturale seguendo corsi appositi.

Questo in sintesi, è il quadro tracciato dal rapporto del 2010 sulla mediazione

interculturale nei servizi alla persona. Il primato della Regione Emilia-Romagna a

livello nazionale è certamente un buon risultato, rimane tuttavia ancora molta strada da

percorrere per la piena integrazione sociale dei cittadini immigrati nel nostro Paese e per

la definizione professionale dei mediatori culturali che rappresentano un importante

anello di congiunzione nella catena della coesione sociale italiana.

160

CAPITOLO 7

Conclusioni

Al termine del lavoro di indagine sin qui presentato si propongono ora alcune note di

sintesi e considerazioni conclusive.

Abbiamo iniziato la nostra analisi partendo dal ruolo normativo attribuito all’interprete

per i servizi pubblici, o community interpreter, e abbiamo quindi presentato il profilo

teorico che la letteratura e gli studiosi della materia conferiscono a questa figura

professionale. Una volta prese le distanze dalla concezione meccanicistica

dell’interpretazione, spesso sminuita da antichi luoghi comuni che la equiparano alla

mera decodificazione e codificazione linguistica, ci siamo soffermati sulla natura

dialogica, sociale e contestuale dell’evento mediato. Considerare la lingua come un

sistema di relazioni complesso che rispecchia il modello cognitivo della cultura nella

quale è immerso costituisce un presupposto fondamentale per comprendere la

comunicazione interlinguistica e interculturale. L’interpretazione non consiste dunque

nell’associazione automatica di termini corrispondenti fra lingue diverse, ma significa

piuttosto rielaborare il messaggio originale in un’altra lingua e cultura cercando di

conservarne il più possibile la natura semantica e pragmatica. Le leggi della matematica

non appartengono quindi all’universo della mediazione linguistica e l’interprete-

mediatore, ben lontano dall’immagine di “scatola parlante” o “condotto” fra i locutori

primari, è chiamato a svolgere un compito che richiede grandi capacità comunicative,

oltre che propriamente tecniche, e una grande preparazione professionale. Competenze

linguistiche, culturali, tecniche, mnemoniche e professionali costituiscono così il

bagaglio necessario all’interprete o mediatore linguistico-culturale nell’ambito dei

servizi pubblici.

Proseguendo nella nostra analisi, abbiamo poi osservato il ruolo attivo e partecipante di

questa figura durante lo svolgersi della comunicazione mediata; il “pas-de-trois” nel

quale gli interlocutori primari e l’interprete sono coinvolti rappresenta un lavoro di

concertazione e co-partecipazione di cui l’interprete è il vero perno centrale. Stabilire

cosa e come tradurre, regolare e condurre l’interazione fra parlanti di lingue diverse,

rapportarsi al contesto situazionale e allo status relativo dei partecipanti, considerare le

161

implicazioni culturali della comunicazione e saper gestire la propria identità personale e

culturale che inevitabilmente l’interprete porta con sé: queste, come abbiamo visto, sono

alcune delle più importanti sfide che si presentano all’interprete-mediatore durante la

fase di mediazione in co-presenza.

Nella seconda parte del presente lavoro, abbiamo invece spostato la nostra attenzione

sul ruolo effettivo dell’interprete-mediatore in un ambito circoscritto, quello socio-

sanitario della Regione Emilia-Romagna. Il quadro emerso è caratterizzato da una

ricchezza di esperienze diverse, fra loro eterogenee per molti aspetti, che si allontana dal

rigore e dalla linearità dei precetti teorici iniziali. La delicatezza connaturata al settore

socio-sanitario rende il compito del mediatore interculturale (questa è l’espressione più

opportuna in tale contesto) ulteriormente complesso e impegnativo. Lo stress, la

pressione psicologica e il forte impatto emotivo del contesto situazionale sono elementi

intrinseci nella mediazione di questo ambito e sono fattori che aumentano il carico di

difficoltà e responsabilità che incombe sul ruolo del mediatore, o meglio, della

mediatrice.

Come abbiamo osservato, infatti, si tratta di un ambiente prevalentemente femminile in

cui operano donne che tendenzialmente hanno maturato una lunga esperienza nel campo

e presentano, oltre a grandi capacità linguistiche, anche una notevole attitudine

comunicativa e abilità a porsi in contatto con utenti e pazienti che spesso versano in

situazioni di forte disagio. Gli utenti stranieri, inizialmente, possono manifestare timore

e diffidenza nei confronti della mediatrice che, pur essendo loro connazionale,

rappresenta anche l’istituzione del Paese ospitante; in tale situazione la capacità di

costruire un ponte comunicativo col cittadino straniero è fondamentale ed è sostenuta in

parte dal vissuto migratorio che la mediatrice condivide col paziente, e in parte è

rafforzata dal suo trascorso professionale e formativo: spesso infatti le mediatrici hanno

conseguito lauree nel loro Paese di origine e hanno operato in vari settori (soprattutto

socio-educativi) oltre a quello sanitario, sviluppando così una sensibilità e un’esperienza

che corroborano e consolidano le loro competenze professionali. Un dato interessante

che emerge di frequente riguarda la differenza di status socio-economico e il livello di

istruzione fra la mediatrice e il paziente immigrato; tale differenza si ripercuote spesso

sulla comunicazione dando luogo ad una semplificazione del linguaggio e ad un

162

abbassamento del registro linguistico selezionato, oltre ad influenzare aspetti culturali

(in particolare legati a temi tabù).

Un aspetto che è importante sottolineare in questa fase conclusiva, riguarda la

connotazione più espressiva che strumentale delle mediatrici interculturali che operano

nel settore socio-sanitario; a dispetto del supposto distacco prescritto dai manuali

teorici, l’attitudine empatica ed espressiva delle mediatrici è un elemento che emerge

con assoluta chiarezza dalle interviste realizzate: comunicare e ascoltare il paziente (non

solo occuparsi di tradurre il messaggio da una lingua all’altra), accompagnare il

paziente in una tappa del suo percorso di integrazione, conquistare la sua fiducia, farlo

sentire “protetto” e mettere a sua disposizione la propria professionalità (non solo da un

punto di vista linguistico) per garantire il diritto fondamentale alla cura di ogni cittadino

e per favorirne l’integrazione nella nostra società.

Come abbiamo constatato, inoltre, dietro alle mediatrici si trovano spesso delle

associazioni di mediatori o cooperative che collaborano con le Aziende Usl regionali e

forniscono un servizio di mediazione linguistico-culturale sempre più strutturato che va

ad inserirsi nel quadro di una riorganizzazione dell’intero sistema, un lento processo, in

alcuni casi ancora insoddisfacente, ma che sta registrando anche risultati degni di nota.

Queste cooperative, alcune delle quali nate da un progetto degli stessi mediatori

culturali (come nel caso di Integra nella provincia di Modena), rappresentano il ponte

fra la domanda e l’offerta e detengono un ruolo fondamentale nel fornire alle istituzioni

pubbliche e private operatori professionali, competenti e affidabili contribuendo, fra

l’altro, a semplificare l’iter per il reperimento e la certificazione dei singoli mediatori

culturali da parte dei committenti. Ciò che sino ad oggi ha alimentato la condizione di

vulnerabilità e mancanza di istituzionalizzazione di questa figura professionale nel

nostro Paese è in parte riconducibile all’assenza di riconoscimento formale di tale

profilo a livello normativo e all’assenza di un’organizzazione integrata che coinvolga le

strutture pubbliche/private, le agenzie o cooperative di interpretariato e mediazione, e i

mediatori stessi. Il ricorso a bilingui improvvisatisi mediatori, la banalizzazione del

ruolo che il mediatore ricopre, e la sua conseguente sottovalutazione, sono tutte

concause dell’attuale situazione della mediazione interculturale italiana; la crescente

portata dei flussi migratori, nonostante ciò, ha portato ad un lento ma graduale

miglioramento dei servizi dedicati alla mediazione linguistico-culturale del Paese dando

163

una spinta propulsiva all’evoluzione dei servizi già esistenti e alla nascita di nuovi.

Come spiega Rudvin (2005), infatti, anche la storia dell’immigrazione nel nostro Paese,

fra i vari fattori, ha contribuito a plasmare la situazione odierna e le sue peculiarità

rispetto a paesi di più lunga tradizione migratoria quali U.S.A., Regno Unito, Canada e

Australia; in Italia il coinvolgimento delle associazioni di volontariato e della Chiesa (in

particolare attraverso la Caritas) è molto più forte che in altre realtà nazionali, mentre a

livello governativo si registra un intervento meno incisivo sulle politiche che riguardano

l’integrazione della popolazione immigrata. Questo ha dato origine ad una tendenza

all’”assistenzialismo” nei confronti dell’immigrato che ha portato poi a preferire il

concetto di mediatore rispetto a quello di interprete.

Tornando alla nostra analisi, comparando la griglia teorica delineata nella prima sezione

del lavoro con l’indagine e la presentazione di dati empirici della seconda, si riscontra

una relazione dicotomica fra la figura normativa dell’interprete-mediatore e quella

concretamente osservata nella pratica. Da una parte si prescrive un ruolo fin troppo

asettico e distaccato dalla realtà interazionale dell’evento mediato, dall’altra si rileva un

grado di partecipazione del mediatore interculturale che rischia di sfociare nella

prevaricazione dei partecipanti primari.

Forse dosare e miscelare le caratteristiche dell’uno dell’altro potrebbe essere una giusta

soluzione, ossia, modulare la razionalità e il rigore scientifico del ruolo normativo con

la partecipazione empatica e spesso “auto-gestita” del ruolo effettivo. Di certo, questo

sarebbe possibile soltanto raggiungendo un livello di standardizzazione e

istituzionalizzazione che possa tracciare con chiarezza il profilo professionale del

mediatore interculturale su base nazionale. Anche il ruolo dell'istituzione e dei suoi

operatori nella relazione di mediazione è altrettanto ambiguo e necessita di essere

formalizzato a livello legislativo.

Tutto il peso della conduzione del rapporto con lo straniero, infatti, è scaricato sul

mediatore: da una parte quindi è evidente la difficoltà dell’istituzione a confrontarsi con

tutti i soggetti presenti sul suo territorio di competenza (e potenziali utenti delle proprie

prestazioni) con la conseguente centralità del mediatore come figura fondamentale fra

l’istituzione e gli utenti stranieri; dall'altra, l’eventuale fallimento della mediazione è

imputato completamente al mediatore e al cittadino immigrato. In altre parole, il rischio

è che, nonostante lo sforzo di comprensione e di avvicinamento alla struttura regolativa

164

dell’istituzione, la responsabilità di un ipotetico fallimento del servizio di mediazione

venga fatto ricadere sul mediatore stesso e sul cittadino della cultura minoritaria, senza

che l’istituzione si adoperi per mettere in atto una riorganizzazione del proprio sistema.

La soluzione auspicabile, ancora una volta, è data dall’integrazione di tutti i soggetti

coinvolti; non soltanto i partecipanti fisicamente presenti all’evento mediato, ma anche i

soggetti esterni che determinano o quantomeno incidono sul servizio di mediazione

interculturale offerto alla popolazione immigrata. Il raggiungimento di questo obiettivo

costituirebbe un enorme traguardo da un punto di vista sociale e assegnerebbe il giusto

riconoscimento ad una professione tanto complessa quanto appassionante che i

mediatori interculturali di oggi, nonostante le criticità del sistema attuale, svolgono con

estrema dedizione.

165

Ringraziamenti...

Un ringraziamento speciale alla Prof.ssa Rudvin per aver nutrito il mio interesse verso

la mediazione linguistico-culturale e per aver stimolato una curiosità che mi ha portata a

conoscere realtà nuove e affascinanti. Grazie a Sadia, Aziz, Dhouha, Nadia, Khira, Sun

e Cecilia, le mediatrici culturali che hanno accettato di rispondere alle mie domande

raccontandosi con grande generosità e dedicandomi tempo preziosissimo.

Grazie ai miei genitori che mi hanno sostenuta durante tutto il percorso di studi e grazie

a mio fratello Giacomo che mi ha pazientemente accompagnata durante le trasferte per

realizzare le interviste. Infine, grazie a Giulio che in questi mesi mi ha incoraggiata e

consigliata nella progettazione del mio lavoro.

166

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APPENDICE