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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO Facoltà di Medicina e Chirurgia Corso di Laurea Specialistica in Biotecnologie Mediche TESI DI LAUREA SPECIALISTICA “Sviluppo di un saggio cellulare ad alta resa per l’identificazione di inibitori dell’espressione delle oncoproteine del Papillomavirus umano di tipo 16” Candidata: Relatore: Valentina Dell’Oste Dott. David Lembo Anno Accademico 2004-2005

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO

Facoltà di Medicina e Chirurgia

Corso di Laurea Specialistica in Biotecnologie Mediche

TESI DI LAUREA SPECIALISTICA

“Sviluppo di un saggio cellulare ad alta resa

per l’identificazione di inibitori dell’espressione delle

oncoproteine del Papillomavirus umano di tipo 16”

Candidata: Relatore:

Valentina Dell’Oste Dott. David Lembo

Anno Accademico 2004-2005

IINNDDIICCEE

INTRODUZIONE Pag. 1 I PAPILLOMAVIRUS Pag. 1

Caratteristiche generali Pag. 1

Struttura del virione Pag. 2

Ciclo replicativo del virus Pag. 5

Meccanismi patogenetici Pag. 13

Coltivazione del virus Pag. 25

CARATTERISTICHE CLINICHE DELLE INFEZIONI

DEI PAPILLOMAVIRUS Pag. 27

Epidemiologia Pag. 27

Manifestazioni cliniche Pag. 31

Profilassi Pag. 36

Diagnosi delle infezioni Pag. 38

Terapie Pag. 44

HPV E MODULAZIONE DEL SISTEMA IMMUNITARIO Pag. 51

Meccanismi di difesa dell’ospite Pag. 51

Meccanismi di evasione dal sistema immunitario Pag. 55

CONTESTO E RAZIONALE DELLA RICERCA Pag. 61 Il processo di ricerca e sviluppo di un farmaco antivirale Pag. 61

Sviluppo di un farmaco anti HPV: presupposti Pag. 63

Individuazione del bersaglio Pag. 65

La prova del principio Pag. 66

Sviluppo di saggi per lo screening di antivirali Pag. 70

SCOPO DEL LAVORO Pag. 83

MATERIALI E METODI Pag. 84

RISULTATI Pag. 91

Realizzazione e caratterizzazione di una linea cellulare

“reporter” contenente la regione LCR del genoma di HPV-16 Pag. 91

Analisi di un pannello di citochine utilizzando il clone

indicatore P13 Pag. 97

Effetto di IL-4 e IL-13 sui livelli di mRNA di E6 e E7 di

HPV-16 in cellule CaSki Pag. 101

DISCUSSIONE Pag. 105

BIBLIOGRAFIA Pag. 119

RINGRAZIAMENTI Pag. 133

INTRODUZIONE

I PAPILLOMAVIRUS

Caratteristiche generali

I papillomavirus (dal Latino “papilla”, pustola e dal Greco “oma”, tumore) sono

classificati nella famiglia Papillomaviridae, di cui sono noti 118 tipi (de Villiers et al.,

2004).

I papillomavirus umani (HPV) sono piccoli virus nudi a DNA, ubiquitari,

suddivisi in più di 200 genotipi, che inducono lesioni iperproliferative della pelle

(verruche) o delle membrane mucose (condilomi). I virus cutanei sono epidermotropici

e infettano principalmente la cute a livello di mani e piedi; le cellule bersaglio degli

HPV mucosali sono invece principalmente localizzate a livello della mucosa labiale, del

tratto respiratorio e dei genitali.

Gli HPV sono ulteriormente suddivisi in virus ad alto, medio e basso rischio

sulla base delle lesioni a cui sono associati (Tabella 1).

Gruppo di HPV Genotipo di HPV

Alto rischio

Rischio intermedio

Basso rischio

16, 18, 45, 56

31, 33, 35, 51, 52, 58

6, 11, 42, 43, 44

I gruppi ad alto rischio sono implicati nello sviluppo di tumori altamente

maligni, in particolare cancro alla cervice uterina e altri tumori del tratto anogenitale,

mentre quelli a basso rischio sono comunemente rilevabili nelle verruche a livello

Tabella 1: Sottogruppi di HPV, in base al rischio di indurre cancro anogenitale e lesioni precancerose.

genitale (Sanclemente et al., 2002). La comprensione del coinvolgimento degli HPV in

queste patologie ne ha sottolineato l’importanza medica e ha stimolato lo studio della

messa a punto di vaccini e farmaci per la loro prevenzione e cura.

Struttura del virione

Gli HPV sono piccoli virus icosaedrici nudi a DNA, che si replicano nel nucleo

di cellule epiteliali squamose.

Le particelle virali presentano un diametro di 52-55 nm ed un coefficiente di

sedimentazione di 300. Il virione è costituito da un genoma a singola molecola di DNA

circolare, a doppia elica, avente un peso molecolare di 7900 paia di basi, di cui il 42% è

formato da guanina e citosina. Il DNA costituisce il 12% del peso del virione ed è

associato a istoni cellulari, formando un complesso simile a cromatina (Figura 1).

Una caratteristica comune dei diversi sottotipi di HPV è la presenza di un

genoma formato da otto sequenze codificanti (ORF), localizzate su una singola elica di

Figura 1: Rappresentazione schematica del virione degli HPV.

DNA virale, che rappresenta lo stampo per la trascrizione di messaggeri policistronici

(Figura 2). Esiste inoltre una regione in cui non sono presenti ORF, chiamata LCR

(“long control region”) o URR (“upstream regulatory region”) o “noncoding region”, le

cui dimensioni sono notevolmente diverse tra i genomi dei diversi sottotipi di HPV (in

media rappresenta il 5% del genoma virale, con un peso molecolare che varia da 400 a

1000 paia di basi). All’interno di questa regione sono concentrate le sequenze

regolatorie richieste per la replicazione e trascrizione virale.

Le ORF degli HPV sono suddivise in regioni precoci (E, “early”, costituenti il

45% del genoma virale) e tardive (L, “late”, rappresentanti il 40% del genoma virale);

tali regioni codificano rispettivamente per proteine precoci (E1, E2, E3, E4, E5, E6, E7,

E8) e tardive (L1, L2). I geni E3 e E8 non presentano una funzione chiaramente

definita.

I geni precoci, espressi sia in cellule infettate in modo non produttivo sia in

cellule trasformate, sono trascritti in numerose sequenze codificanti parzialmente

sovrapposte, che subiscono uno “splicing” alternativo e presentano una comune

sequenza finale in 3’, definita da un segnale di poliadenilazione. Le regioni precoci

codificano per proteine virali regolatorie, tra le quali quelle necessarie per dare inizio

alla replicazione del DNA virale (Sanclemente et al., 2002). Negli HPV a elevato

rischio le proteine precoci sono codificate a partire da promotori precoci, quale, ad

esempio, P97 in HPV-31, prima dell’inizio della replicazione virale.

Le regioni tardive del genoma, L1 e L2, codificano invece per le proteine virali

del capside e sono espresse solo in cellule infettate in modo produttivo. La trascrizione

di proteine tardive è sotto il controllo di promotori tardivi, quale, ad esempio, P742 in

HPV-31 e si verifica durante l’assemblaggio di nuovi virioni maturi (Fehrmann et al.,

2003).

Il capside, che racchiude il genoma virale, presenta una simmetria icosaedrica

ed è composto da 72 capsomeri. Ogni capsomero è un pentamero di L1 (55 kD), una

proteina strutturale del capside, che costituisce l’80% delle proteine virali totali. L1 è

coinvolta principalmente nel legame al DNA virale, come dimostrano studi su virus

mutanti per L1, i quali sono ancora in grado di formare il capside, ma non possono

incorporare il DNA.

Il capside di ogni virione contiene inoltre circa 12 copie di L2 (70 kD), la

proteina minore del capside (Burd et al., 2003). L2 svolge principalmente ruoli di tipo

strutturale, ma anche diverse funzioni regolatorie durante il ciclo vitale degli HPV, tra le

quali il legame a recettori secondari, la determinazione della localizzazione nucleare del

Figura 2: Struttura del genoma degli HPV

virus e l’incapsidazione selettiva del DNA nel capside virale, aumentando così

l’infettività dei virioni.

Ciclo replicativo del virus

Il virus ha un tropismo molto ristretto per l’epitelio squamoso pluristratificato e

si replica pertanto solo nelle cellule epiteliali in differenziamento della cute e delle

mucose, come dimostra il fatto che le funzioni replicative del virus, come la sintesi del

DNA virale, la produzione di proteine capsidiche e il montaggio dei virioni, hanno

luogo unicamente a livello di cheratinociti in differenziamento terminale.

Le fasi iniziali della replicazione (adsorbimento a recettori cellulari,

penetrazione e scapsidazione) sono poco conosciute, date le difficoltà di propagazione

del virus, che avviene solo in colture organotipiche che mimano in vitro la struttura

dell’epidermide (Dianzani et al., 2001). L’infezione virale inizia con il legame del

virione alla superficie della cellula bersaglio, in questo caso lo strato basale dei

cheratinociti, in seguito a piccole ferite o traumi che ne permettano l’esposizione. I

recettori utilizzati dal virus per prendere contatto con le cellule e penetrare all’interno di

esse non sono stati ancora chiaramente identificati. Studi di legame con virioni marcati

radioattivamente hanno dimostrato che gli HPV possono legarsi non solo a cellule

epiteliali squamose, ma anche ad altri tipi di cellule. Questo indica che lo spiccato

tropismo degli HPV per i cheratinociti non è dovuto alla specificità del recettore.

L’integrina α6 è stato il primo candidato come possibile recettore degli HPV,

secondo studi che utilizzano le VLP (“Virus like particles”). Le VLP si legano

all’integrina e l’uso di anticorpi diretti contro α6 blocca il legame del virus alla cellula. Il

ruolo di questa integrina come recettore è stato confermato anche da studi in cui, su

linee cellulari dove l’espressione recettoriale era stata soppressa, veniva fatta esprimere

unicamente α6: questo era sufficiente per rendere possibile l’ingresso del virus nella

cellula. L’integrina α6 coopera con le subunità β1 e β4 dell’integrina β, situate sulla

superficie cellulare. L’integrina α6β1 viene espressa su un’ampia varietà di cellule, tra

cui piastrine, linfociti, cellule endoteliali, mentre α6β4 si trova su cellule epiteliali,

mesenchimali e neuronali. Gli HPV si possono legare ad entrambi i tipi di cellule, ma

preferenzialmente a quelle con profilo α6β4. L’espressione di queste integrine non

risulta però necessaria per l’ingresso del virus nelle cellule, come dimostra il fatto che

alcuni HPV entrano in cellule prive di questi recettori. E’ stato osservato che tali virus, a

livello di cheratinociti, si legano ad eparina e glicosaminoglicani, seguito da successivo

legame al recettore e internalizzazione (Howley et al., 2001).

Le particelle virali internalizzate sono trasportate in fagosomi, processo che può

essere inibito da citoclasina B e taxolo: questo implica un possibile coinvolgimento di

microtubuli e microfilamenti, inibiti da tali sostanze. Nonostante il legame alla

membrana plasmatica e l’ingresso del virione in grandi vescicole citoplasmatiche possa

essere monitorato con un microscopio elettronico, non si osservano virioni completi nel

nucleo delle cellule infettate, mentre si riscontra un segnale molto forte per proteine L1

e L2. Questa osservazione indica che la scapsidazione del virione si verifica nel

citoplasma e che le proteine L1 e L2 migrano nel nucleo grazie a segnali di

localizzazione nucleare.

Il ciclo replicativo del virus può essere suddiviso in uno stadio non produttivo o

precoce e uno produttivo, più tardivo, correlati allo stadio differenziativo della cellula

ospite. La fase non produttiva implica lo stabilirsi del genoma virale come plasmide

nucleare a livello dello strato basale dell’epitelio. Le cellule appartenenti a questo strato

sono costituite da cellule staminali in continua divisione, che rappresentano un serbatoio

per gli strati superiori (Hummel et al., 1992). Dato che la cellula basale è l’unica cellula

dell’epitelio in grado di dividersi, il virus deve realizzare un’infezione a questo livello

per indurre una lesione persistente, ma l’espressione dei geni tardivi, la sintesi del DNA

e delle proteine capsidiche, avvengono solo nelle cellule in differenziamento terminale

degli strati superiori (Dianzani et al., 2000). L’infezione delle cellule basali porta

all’attivazione della cascata di espressione dei geni virali, che permette la produzione di

20-100 copie per cellula di DNA virale in forma episomale, che viene mantenuto

stabilmente replicandosi in sincronia con il DNA cellulare. A livello basale

l’espressione dei geni virali è limitata a specifici geni precoci; alcuni di questi, in

particolare E5, E6, E7, stimolano la cellula infettata a proliferare e ad espandersi

lateralmente. Un gruppo di cellule figlie (in cui le copie di DNA virale sono state

equamente ripartite, assicurando l’infezione persistente delle cellule staminali

dell’epidermide) abbandona la membrana basale per stratificare e differenziare,

rendendo possibile l’ingresso del virus negli strati superiori dell’epidermide. A questo

livello inizia la fase tardiva del ciclo replicativo degli HPV, in assenza di replicazione

del DNA virale, con l’espressione di geni virali tardivi e la traduzione di proteine

strutturali. Successivamente, nelle cellule differenziate completamente viene perso il

controllo del numero di copie genomiche e il DNA è amplificato fino ad avere migliaia

di copie per cellula. Infine, negli strati più superiori dell’epitelio si verifica

l’assemblaggio e il rilascio nell’ambiente extracellulare di particelle virali mature

(Figura 3) ( Lambert, 1991; Laimins, 1996; Sanclemente et al., 2002; zur Hausen

2002).

La trascrizione dei geni virali è un processo complesso per la presenza di

promotori multipli, di meccanismi di “splicing” alternativi e per la produzione

diversificata di mRNA nelle differenti linee cellulari. Come gli herpesvirus e gli

adenovirus, gli HPV possono utilizzare per la trascrizione le RNA polimerasi DNA-

dipendenti della cellula e pertanto devono iniziare la trascrizione nel nucleo della cellula

ospite, dove si trovano gli enzimi necessari. Il genoma degli HPV viene trascritto in due

tempi, precoce e tardivo, come riportato in Figura 4.

Figura 3: Ciclo vitale degli HPV

(modificata da: zur Hausen, H. 2002. Nat. Rev. Cancer. 2:342–350).

Nella produzione dei diversi tipi di mRNA sono coinvolti promotori multipli ed

in particolare si distingue un promotore precoce ed uno tardivo. Nel caso di HPV-31,

P97 è il promotore maggiore, attivo in cellule differenziate in maniera non terminale;

questo promotore dirige l’espressione di E6 e E7 e corrisponde a P97 di HPV-16 e P105

di HPV-18.

La regione regolatrice LCR contiene diversi “enhancer” costitutivi, con

specificità di tessuto e di tipo cellulare che possono essere indotti da un’ampia varietà di

molecole, come sarà ampiamente discusso in questa tesi. Tali elementi sono essenziali

per l’inizio dell’espressione genica virale e per il mantenimento della latenza. Un

importante regolatore della trascrizione è il prodotto del gene E2, descritto

successivamente (Dianzani et al., 2001).

La regolazione dell’espressione dei geni virali è controllata da diversi fattori di

trascrizione cellulari, che si legano all’LCR tra i quali ricordiamo AP-1 (“activator

protein-1”), YY1 (“yin yang-1”), alcuni membri della famiglia degli “octamer binding

factor”, NF-1 (“nuclear factor-1”), elementi responsivi ai glucocorticoidi e Sp1

(Saunders et al., 1998).

DNA parentale mRNA Proteine precoci

DNA progenie mRNA Proteine tardive

Progenie virale

Figura 4: Meccanismo di replicazione e trascrizione degli HPV.

Le prime proteine virali ad essere espresse sono i fattori di replicazione E1 e E2;

esse formano un complesso che si lega a sequenze all’origine della replicazione virale,

che recluta la polimerasi cellulare e le proteine accessorie che mediano la replicazione

(Conger et al., 1999).

La proteina E1 svolge un ruolo importante nella fase plasmidica dell’infezione.

Le sue dimensioni variano dai 593 (HPV-48) ai 681 (HPV-10) aminoacidi, con un peso

molecolare compreso tra 67,5 kD (HPV-47) a 76,2 kD (HPV-10). Viene codificata a

partire dall’ORF E1, che è la più grande e meglio conservata ORF tra i diversi sottotipi

degli HPV, a dimostrazione del suo ruolo cruciale durante la replicazione virale, svolto

in collaborazione con E2. La proteina svolge un’attività ATPasica e 3’-5’elicasica ed è

necessaria per l’inizio della sintesi e per l’allungamento del DNA virale, in quanto

riconosce regioni ricche di AT situate all’origine della replicazione. Studi di mutagenesi

hanno dimostrato che E1 è indispensabile per il mantenimento del DNA in forma

plasmidica e, in assenza di E1, il genoma virale può essere espresso solo in forma

integrata.

E1 ha un’organizzazione strutturale tripartita: una regione N-terminale ad attività

non ben definita, uno spaziatore di lunghezza variabile e una zona C-terminale correlata

all’attività ATPasica ed elicasica. Il dominio di legame al DNA è stato caratterizzato

attraverso studi di cristallizzazione: è costituito da un’estesa ansa e da una regione ad α

elica, importanti per il riconoscimento del DNA.

E1 interagisce, oltre che con E2, con numerose altre proteine cellulari, quali la

subunità p180 della DNA polimerasi α cellulare e recluta il macchinario di replicazione

cellulare a livello del sito di origine della replicazione del genoma virale. E1 lega inoltre

il complesso ciclina E-Cdk2, specifico della fase S del ciclo cellulare, contribuendo a

un’efficiente replicazione virale in associazione alla replicazione cellulare.

L’interazione E1-Ubc9 è importante per l’accumulo intra nucleare di E1, dovuto

all’aggiunta di un gruppo SUMO su E1 da parte di Ubc9.

La proteina E2 è un’ importante regolatore della replicazione e della trascrizione

virale; la proteina è conservata tra le diverse sottofamiglie degli HPV, ha un peso

molecolare di 50 kD ed è attiva sotto forma di dimeri. Presenta diversi domini: nella

regione C-terminale si trova una sequenza che codifica per specifici domini di legame al

DNA; in seguito a cristallizzazione si è visto che tali domini sono costituiti da una

struttura dimerica a barile β, che lega il DNA; è inoltre presente una sequenza di legame

a E1 (Hedge et al., 1992). Nella porzione N-terminale della proteina è situato un

dominio di transattivazione, formato da una regione ad α elica affacciata ad una zona a

foglietti β; questi due domini sono separati da una regione cerniera interna che, al

contrario, non è ben conservata tra i diversi HPV né per quanto riguarda le dimensioni

né per la composizione aminoacidica.

E2, così come E1, è espresso a partire da un promotore precoce, svolgendo

pertanto un ruolo attivo nel controllare il numero di copie di genoma virale nelle cellule

indifferenziate. Lega il DNA come dimero in modo specifico a livello della sequenza

consenso palindromica ACCN6GGT: quattro di queste sequenze sono presenti nella

regione URR e tre fiancheggiano le regioni che riconoscono E2 presenti all’origine

della replicazione.

E2 è importante anche nel regolare la trascrizione virale a livello di promotori

precoci; esiste in due forme: a piena lunghezza, E2TA, con attività di attivatore o

repressore della trascrizione e troncato, E2TR e E8E2, repressori della trascrizione. Il

ruolo di E2TA nel mantenimento dei plasmidi virali è dovuto alla sua capacità di legare

tali plasmidi ai cromosomi implicati nella mitosi cellulare, in modo tale che il genoma

virale sia racchiuso nel nucleo cellulare quando questo si riforma durante la telofase. I

siti di legame per E2 sono localizzati vicino ai siti di legame per i fattori di trascrizione

cellulari che attivano i promotori precoci. A bassi livelli, E2 si lega a specifiche

sequenze di riconoscimento e attiva i promotori precoci, mentre a concentrazioni

elevate reprime la trascrizione bloccando il legame dei fattori di trascrizione (Steger et

al., 1997). Il ruolo di E2 come repressore è molto importante nel regolare i livelli di E6

e E7, le due principali oncoproteine virali e la sua perdita è il primo stadio di

trasformazione neoplastica. Ci sono due principali meccanismi di repressione messi in

atto da E2: E2TA spiazza i fattori Sp1 e TFIID dal promotore di E6, mentre E8E2 è in

grado, attraverso meccanismi non ancora del tutto chiari, di reprimere la trascrizione a

grandi distanze (Villa et al., 2002).

Le ultime fasi del ciclo replicativo degli HPV sono caratterizzate dalla

trascrizione dei geni virali tardivi (L1 e L2), tra i quali è compreso anche E4, nonostante

questo gene sia localizzato all’interno della regione precoce. Questi geni sono sotto il

controllo di un promotore specifico, situato all’interno dell’ORF di E7 degli HPV che

danno infezioni a livello genitale, attivo solo in cheratinociti differenziati. Questo

promotore, a differenza del precoce, non viene modulato negativamente da E2 e quindi

presenta elevati livelli di espressione in cellule differenziate. Lo stretto legame tra

l’espressione di geni tardivi e lo stadio di differenziazione degli epiteli indica che questo

processo è controllato da diversi fattori cellulari specifici, la cui modalità d’azione non è

ancora stata chiarita completamente (Longworth et al., 2004).

Il ruolo della proteina E4 non è del tutto chiaro: infatti, nonostante sia espressa

ad alti livelli in tessuti infettati e non sia rilevabile all’interno delle particelle virali

mature, non si sa quale sia la sua funzione nel ciclo vitale del virus. Studi di mutagenesi

effettuati sul gene E4 in BPV-1 evidenziano che E4 non è essenziale alla replicazione o

alla trasformazione virale. E’ stato osservato che E4 di HPV-16 svolge un ruolo

nell’infezione produttiva: la proteina si trova associata al citoscheletro di citocheratina,

di cui induce il collasso, che presumibilmente contribuisce alla liberazione della

progenie virale. Non si è tuttavia osservato il collasso di filamenti intermedi di cheratina

in cellule esprimenti E4 di HPV-1, mettendo così in discussione la generalità di questi

effetti. I dati attualmente disponibili sono compatibili con la possibilità che E4 potrebbe

essere coinvolta nella replicazione del DNA virale, attraverso l’alterazione

dell’ambiente extracellulare in modo tale da favorire i processi di sintesi o il rilascio del

virus (Howley et al., 2001).

Poche informazioni sono note riguardo l’assemblaggio e rilascio degli HPV. I

virioni si osservano solo nello strato granuloso dell’epitelio, mai in strati inferiori e

senza alcun effetto citolitico.

Meccanismi patogenetici

I meccanismi patogenetici degli HPV differiscono da quelli di altre famiglie

virali in quanto l’infezione richiede cellule epiteliali proliferanti, situate nello strato

basale dell’epidermide e delle mucose. In queste cellule l’espressione dei geni virali è

limitata a specifici geni precoci, che inducono la cellula a proliferare; l’espressione di

geni virali tardivi, con conseguente assemblaggio e rilascio del virione maturo, si

verifica invece negli strati sovrastanti.

Il ciclo replicativo completo del virus, con produzione di una progenie virale

matura è tipica delle infezioni da HPV a basso o medio rischio o delle lesioni a basso

grado degli HPV ad alto rischio, in cui il genoma degli HPV permane in forma

plasmidica.

Invece, nelle lesioni ad alto grado indotte dall’infezione da HPV ad alto rischio,

quali HPV-16 e HPV-18, avviene l’integrazione del DNA virale nel DNA cellulare, con

conseguente mancata produzione di una progenie virale completa (Figura 5).

Tale integrazione è determinante nei meccanismi di trasformazione e

immortalizzazione cellulare, poiché si verifica a livello della ORF E2, con conseguente

perdita dell’azione repressiva di E2 sulle oncoproteine virali E6 e E7, che svolgono un

ruolo fondamentale nei meccanismi di tumorigenesi (Longworth et al., 2004). Pertanto

nelle cellule dei tumori indotti da HPV ad alto rischio, i geni E1, E6 e E7 sono integrati

e funzionali, con conseguente stimolo alla proliferazione cellulare, mentre i geni E2, E4

e E5 vengono persi o non sono trascritti.

Figura 5: Meccanismo di integrazione del DNA virale in quello cellulare

(modificata da zur Hausen. 2002. Nat. Rev. Cancer. 2:342–350).

Oltre alle proteine E6 e E7, anche E5 è coinvolta, in misura minore, nei processi

di stimolazione della proliferazione. Verranno ora descritte in modo maggiormente

dettagliato queste proteine virali.

Il gene E5 degli HPV codifica per una proteina altamente idrofobica di circa 80

aminoacidi, localizzata a livello delle membrane endosomali, dell’apparato di Golgi e

della membrana plasmatica. Essa può avere un ruolo trasformante nelle fasi iniziali

dell’infezione, durante le quali il virus è presente in forma episomale, predisponendo la

cellula a successivi stimoli mitogeni. E5 contrasta i meccanismi di inibizione di crescita,

formando un complesso con il recettore per EGF, per il fattore di crescita derivato dalle

piastrine e per il CSF-1 (“colony stimulating factor”); inoltre la proteina E5 si lega a una

subunità di 16 kD dell’ATPasi vacuolare, interferendo con l’acidificazione degli

endosomi. Vengono così inibite le variazioni di pH, con conseguente aumento del

ricambio del recettore di EGF a livello della membrana plasmatica che porta ad un

aumento del segnale dato dal complesso EGFR/EGF. E5 svolge molteplici funzioni:

attiva la trasduzione del segnale per la mitosi tramite fattori di trascrizione come c-jun e

c-fos, inattiva la p21 e previene inoltre l’apoptosi in seguito a danno al DNA. Tuttavia il

suo ruolo nei processi di trasformazione è secondario, in quanto la sua espressione viene

persa in seguito all’integrazione del genoma virale (zur Hausen, 2002).

Un ruolo di primaria importanza nei processi di trasformazione è svolto dalle

oncoproteine virali E6 e E7, grazie alla capacità di agire sui meccanismi di regolazione

del ciclo cellulare. La sola espressione di E6 e E7, soprattutto se concomitante, degli

HPV a elevato rischio è sufficiente a indurre l’immortalizzazione di cheratinociti

primari umani in coltura (Hawley-Nelson et al., 1989). Queste linee cellulari non sono

tuttavia sufficienti per innescare il processo di tumorigenesi in topi nudi e richiedono

altri eventi, come ad esempio la presenza dell’oncogene Ras attivato (Hurlin et al.,

1991). Queste osservazioni testimoniano che, in vivo, è necessario un processo a più fasi

per favorire la progressione tumorale indotta dagli HPV. A differenza degli HPV ad alto

rischio, E6 e E7 dei papillomavirus umani a basso rischio sono incapaci di

immortalizzare cheratinociti in vitro, nonostante possano prolungarne il tempo di vita

(Thomas et al., 2001).

Il gene E6 è uno dei primi ad essere espresso durante l’infezione dei

papillomavirus. Codifica per una proteina costituita da 150 aminoacidi che presenta due

domini Cys-X-X-Cys; la proteina E6 è distribuita nel nucleo e nel citoplasma; è priva di

attività enzimatica intrinseca e, per esercitare la sua funzione, deve legarsi a diverse

proteine cellulari (zur Hausen 2002). La sua espressione porta alla trasformazione di

cellule NHI 3T3 (fibroblasti murini) e all’immortalizzazione di cellule epiteliali umane

della mammella (Liu et al., 1999). L’efficiente immortalizzazione di cheratinociti umani

richiede invece la coespressione di E6 e E7 (Hawley-Nelson et al., 1989). I meccanismi

d’azione di questa proteina virale sono stati chiariti soprattutto grazie a studi

sull’interazione con p53.

p53 è uno dei primi geni oncosoppressori ad essere stato caratterizzato. Svolge

un ruolo di primaria importanza nel regolare l’espressione di proteine coinvolte nel

controllo del ciclo cellulare: viene attivata in seguito a danno al DNA e induce

l’espressione di p21, un inibitore delle chinasi dipendenti dalle cicline, con conseguente

blocco del ciclo cellulare e induzione di apoptosi.

Generalmente uno dei meccanismi di risposta dell’organismo ad un’infezione

virale è l’innesco di apoptosi, in modo tale da limitare la diffusione dell’infezione

virale. Molti virus, tra i quali gli HPV, hanno evoluto un sistema di evasione

dall’apoptosi, contribuendo così alla progressione tumorale. Per bloccare l’attività pro

apoptotica di p53 e rendere possibile la progressione del ciclo cellulare, E6 lega p53

attraverso l’ubiquitina ligasi E6AP, formando un complesso ternario. Questo porta

all’ubiquitinazione di p53 da parte di E6AP e alla sua successiva degradazione

attraverso il sistema del proteosoma 26S, con conseguente diminuzione della vita media

di p53 nei cheratinociti, da diverse ore a meno di 20 minuti (Huibregtse et al., 1997). E6

regola p53 anche indirettamente, associandosi a p300/CBP, un coattivatore di p53. In

seguito all’inattivazione funzionale p53, vengono deregolati i principali meccanismi di

controllo del ciclo cellulare in G1/S e G2/M, con conseguenti anomalie a livello della

duplicazione e della struttura dei cromosomi.

E’ interessante notare che il legame di E6 a E6AP ha come conseguenza

l’ubiquitinazione di E6AP stessa (Kao et al., 2000). Quindi E6 potrebbe regolare i

livelli dei substrati naturali di E6AP attraverso la sua degradazione. Alcune delle

proteine bersaglio di E6AP appartengono alla famiglia Src delle tirosine chinasi, che

interagiscono con diverse cascate di trasduzione del segnale (Frame, 2002).

E6 presenta anche un’attività indipendente da p53, importante per

l’immortalizzazione di cellule umane. Sono state identificate proteine E6 di HPV-16

incapaci di degradare p53, ma che immortalizzano cellule epiteliali mammarie umane.

Viceversa, altri mutanti mantengono la capacità di degradare p53, ma non sono in grado

di immortalizzare le cellule (Liu et al., 1999).

Questi dati dimostrano che per l’immortalizzazione cellulare è importante

l’interazione di E6 con altre proteine, oltre a p53. Ad esempio E6 interagisce con

proteine appartenenti alla famiglia dei PDZ; queste presentano un dominio conservato

che si trova spesso in proteine situate nelle aree di contatto tra le cellule, come le

giunzioni strette tra le cellule epiteliali o le giunzioni sinaptiche delle cellule neurali. Le

proteine PDZ sono importanti per il mantenimento dell’architettura molecolare al fine di

rendere possibile la trasmissione del segnale (Craven et al., 1998). Il legame dei

membri della famiglia dei PDZ, MUPP-1, hDLG e hSCRIB, all’estremità C-terminale

delle proteine E6 ad alto rischio porta alla loro degradazione (Kiyono et al., 1998).

L’importanza di questa interazione è stata confermata in esperimenti su topi transgenici

esprimenti la proteina E6 priva del dominio di legame a PDZ. In questi topi viene

mantenuta la capacità di inattivare p53, ma essi non sviluppano la iperdisplasia

epidermica, che invece si osserva frequentemente in topi transgenici per E6 normale

(Nguyen et al., 2003). Non è chiaro quali siano i meccanismi attivati in seguito al

legame di E6 alle proteine PDZ e quali membri di tale famiglia siano più importanti per

questi fenotipi.

Un’altra funzione fondamentale della proteina E6 ad alto rischio

nell’immortalizzazione cellulare è la capacità di attivare l’espressione della subunità

catalitica della telomerasi, hTERT. Si tratta di un enzima formato da quattro subunità,

che addiziona ripetizioni esameriche all’estremità telomerica dei cromosomi. L’attività

telomerasica è solitamente limitata a cellule embrionali ed è assente in cellule

somatiche. La perdita di questa attività porta ad accorciamento dei telomeri, con

successive divisioni cellulari e induzione di senescenza (Liu et al., 1999). E6 attiva la

trascrizione di hTERT attraverso l’azione combinata di Myc e Sp1. E6 lega Myc e il suo

cofattore Max, portando all’attivazione del promotore di hTERT (Veldman et al., 2003).

Per determinare l’immortalizzazione delle cellule è più importante l’azione su hTERT

rispetto a quella su p53. Tuttavia l’immortalizzazione dei cheratinociti umani del derma

(HFK) richiede la presenza di E7, con conseguente inattivazione della proteina

retinoblastoma, che porta a deregolazione del ciclo cellulare (Flores et al., 2000).

Quindi la degradazione di p53 è fondamentale per una completa trasformazione, mentre

il legame a proteine PDZ e l’attivazione di hTERT è necessaria per l’immortalizzazione.

Il ruolo primario di E6 nel ciclo degli HPV non è di per se indurre

trasformazione o immortalizzazione, ma rendere più semplice alcune fasi del ciclo

replicativo del virus. Usando un sistema genetico che permetta la trasfezione in

cheratinociti del genoma dell’HPV clonato, è stato dimostrato che l’espressione della

proteina E6 funzionale è necessaria per mantenere i genomi di HPV-31 e HPV-11 come

episomi, in grado di replicarsi stabilmente (Thomas et al., 1999)

La seconda oncoproteina degli HPV, importante per l’immortalizzazione delle

cellule infettate e per la patogenesi virale, è E7. Le proteine E7 degli HPV ad alto e

basso rischio si trovano prevalentemente nel nucleo e hanno una dimensione di 100

aminoacidi. L’espressione di E7 porta alla trasformazione di cellule NIH 3T3 murine

immortalizzate e, meno frequentemente, di cheratinociti umani (Munger et al., 1989).

Un’efficiente immortalizzazione di cheratinociti umani richiede però l’azione

concomitante di E6 e E7. Topi transgenici che esprimono solo E7 sviluppano lesioni a

basso grado e displasie cervicali ad elevato grado che possono andare incontro a

progressione maligna, mentre topi transgenici per E6 sviluppano solo lesioni

iperproliferative a basso grado (Riley et al., 2003). La caratteristica peculiare di E7

riguarda la sua capacità di associarsi alle proteine appartenenti alla famiglia del

retinoblastoma (Rb) (Dyson et al., 1989). Il legame a Rb si verifica a livello di una delle

tre regioni conservate presenti in tutte le proteine E7 degli HPV a elevato rischio: CR1

nella porzione N-terminale; CR2, che contiene una sequenza LXCXE che lega Rb;

CR3, in C-terminale, che contiene due domini a dita di zinco, importanti per la

dimerizzazione. I domini CR1 e CR2 di E7 presentano un’ omologia di sequenza alle

regioni CR1 e CR2 della proteina E1A di adenovirus, anch’essa capace di legare la

proteina Rb (Phelps et al., 1988).

La famiglia di proteine del retinoblastoma comprende Rb, p107 e p130, espresse

in modo diverso durante il ciclo cellulare (Berezutskaya et al., 1997). Mentre Rb è

espresso costitutivamente durante tutte le fasi del ciclo, p107 viene sintetizzato

soprattutto durante la fase S, mentre p130 predomina durante la fase G0 (Classon et al.,

2001).

Rb, nella forma ipofosforilata, presente durante la fase G1 precoce, forma

complessi con i fattori di trascrizione appartenenti alla famiglia E2F/DP1, che si legano

ai promotori di geni coinvolti nella progressione del ciclo cellulare verso la fase S

(come la DNA polimerasi α, la timidina chinasi e la timidilato sintetasi) o nei

meccanismi apoptotici e questo ha come conseguenza la repressione della trascrizione

(Edmonds et al., 1989). Per rendere possibile la progressione dalla fase G1 a S,

complessi ciclina chinasi fosforilano Rb, con conseguente rilascio di Rb dal complesso

con E2F, che rende possibile la trascrizione di geni coinvolti nella sintesi del DNA.

E7 recluta Rb lontano dal complesso E2F/DP1, con conseguente attivazione

costitutiva dei geni bersaglio di E2F (Berezutskaya et al., 1997). Oltre a legare Rb, E7

ne media anche la degradazione attraverso il sistema del proteosoma. I membri della

famiglia dei Rb sono i principali regolatori dell’uscita dal ciclo cellulare, che avviene

durante la differenziazione degli epiteli. La perdita della funzione di Rb rende possibile

la replicazione produttiva in cellule soprabasali differenziate (Chellappan et al., 1992).

Il legame di E7 a Rb è importante per il mantenimento di un adeguato numero di copie

di HPV-31 in forma episomica in cellule indifferenziate (Longworth et al., 2004).

Questo è legato alla perdita dei punti di controllo del ciclo cellulare, che bloccano il

mantenimento di DNA in forma extracromosomale.

Il legame dei membri della famiglia di Rb a E7 non è limitato agli HPV ad

elevato rischio, in quanto anche proteine E7 a basso rischio si associano a Rb, anche se

con una ridotta affinità di legame. Le proteine E7 degli HPV ad alto e basso rischio

presentano sequenze aminoacidiche simili, ma non identiche, a livello del dominio CR2,

che media il legame a Rb. La mutazione di un singolo aminoacido a livello del dominio

CR2 di E7 appartenenti agli HPV a basso rischio ha come conseguenza una maggiore

affinità di legame di E7 e l’acquisizione della capacità di trasformare cellule di roditore.

Inoltre, la proteina E7 di HPV-1 a basso rischio non è in grado di degradare Rb e questo

spiega la sua incapacità di attivare geni regolati da E2F. Questo implica che, nonostante

il legame tra E7 e Rb sia molto importante, altri fattori partecipano alla trasformazione e

immortalizzazione cellulare (Ciccolini et al., 1994). E7 degli HPV ad elevato rischio

induce inoltre la degradazione di Rb mediata da meccanismi di ubiquitinazione,

importante per il superamento del blocco del ciclo cellulare, mentre gli HPV a basso

rischio non presentano questa capacità (Fehrmann et al., 2003).

Oltre a legare i membri della famiglia di Rb, le proteine E7 si associano alle

cicline A e E, così come gli inibitori dipendenti dalle cicline chinasi, p21 e p27. Dato

che le cicline e le chinasi ad esse associate guidano la progressione nel ciclo cellulare

fosforilando la proteina Rb, non sorprende che E7 agisca aumentando l’attività di queste

proteine. Le proteine E7 ad elevato rischio legano direttamente i complessi ciclina A-

cdk2 e E7 di HPV-18 lega anche la ciclina E indirettamente, attraverso p107 (McIntyre

et al., 1996). La proteina E7 ad elevato rischio aumenta i livelli delle cicline A e E,

mente le E7 a basso rischio non hanno questo effetto. p21 e p27, due inibitori delle

cicline chinasi, sono legate da E7, che ne blocca l’azione e aumenta ulteriormente

l’attività delle cicline chinasi (Funk et al., 1997) Questo punto è molto importante, in

quanto chiarisce perché l’azione associata di E6 e E7 porta a un’immortalizzazione dei

cheratinociti più efficiente rispetto a quando le due proteine agiscono separatamente.

Infatti, come si è affermato precedentemente, E6 viene neutralizzato da INK4, mentre

E7 supera questa inibizione attivando direttamente le cicline A e E. E6, a sua volta,

impedisce l’apoptosi indotta da E7 degradando proteine proapoptotiche.

Il terzo gruppo di proteine legate da E7 sono le istone deacetilasi (HDAC).

Generalmente la repressione di promotori indotti da E2F è mediata non solo dal legame

a Rb, ma anche dall’azione di HDAC (Figura 6) (Brehm et al., 1998).

Rb

Ciclina

D/ C

DK4/6

G0

G2

G1

S

HDACHDAC

HDACHDAC

Rb DP

HDAC

E2F

Rb

P

P

P

Rb

P

P

P

E2F

Rb

E7

E2F

DP

In cellule che non presentano il papillomavirus umano, Rb lega le HDAC e le

recluta a livello di promotori inducibili da E2F. Recentemente si è visto che le proteine

E7 legano HDAC indipendentemente dal loro legame a Rb e questa associazione è

importante per permettere a E7 di svolgere un ruolo nell’immortalizzazione e nel

mantenimento del virus in forma episomale. Le proteine HDAC sono espresse in tutti i

Figura 6: Meccanismo regolazione del ciclo cellulare mediato dalle proteine Rb, HDAC e E2F/DP1

(modificata da: Longworth, M. S., and L. A. Laimins. 2004. J. Virol. 78: 3533–3541).

tessuti e agiscono per rimuovere i gruppi acetile da code N-terminali degli istoni che

formano i nucleosomi, bloccando così la replicazione. In più le HDAC deacetilano

direttamente i fattori E2F, con conseguente perdita della loro funzione (Munger et al.,

1989). Sono state identificate tre classi di HDAC, ma sono stati studiati principalmente i

membri delle prime due classi. Le HDAC di classe I sono attive solo quando legate a

cofattori che ne modulano l’attività o le dirigono al sito dove verranno deacetilate.

Fanno parte di questa classe le HDAC umane 1, 2, 3, 8, localizzate esclusivamente nel

nucleo. Le HDAC di classe II entrano ed escono dal nucleo. Le proteine E7 degli HPV

ad elevato rischio si legano alle HDAC 1 e 2 attraverso MIP2β, che si lega direttamente

a E7 (Brehm et al., 1999). In particolare, la proteina E7 di HPV-16 e HPV-31 spiazza

HDAC da Rb e lega questa proteina indipendentemente da Rb (Brehm et al., 1998).

Nella proteina E7 di HPV-31, la mutazione del sito di legame per HDAC, porta

all’incapacità di mantenere stabilmente il genoma virale in forma episomale e

all’impossibilità di aumentare la vita media delle cellule trasfettate. Non è chiaro il

motivo per cui il legame di HDAC a E7 sia necessario per il mantenimento del genoma

virale, ma sono state formulate diverse ipotesi.

La prima di queste afferma che, poiché il legame di E7 alle HDAC impedisce a

queste ultime di legare Rb, E7 potrebbe agire bloccando alcune importanti attività di

Rb. Una seconda possibilità è che il legame di HDAC a E7 ne blocchi la capacità di

deacetilare i fattori di trascrizione E2F, portando alla loro rilocalizzazione all’esterno

del nucleo. La rimozione dell’attività di HDAC dai promotori ne rende possibile

l’acetilazione e la successiva attivazione (Hurford et al., 1997). In esperimenti di

trasfezione transiente, si è visto che E7 transattiva il promotore della fosfatasi cdc25A,

attraverso i siti di legame a E2F presenti su tale promotore e questa attività dipende dal

legame sia di Rb sia di HDAC (Nguyen et al., 2003). cdc25A è importante per la

defosforilazione e attivazione delle cdk ed è necessario per la progressione nel ciclo

cellulare (Jinno et al., 1994). Questo è un altro importante bersaglio di E7, necessario

per lo svolgimento del suo ruolo nel contesto della patogenesi virale. Infine E7 silenzia i

geni reclutando HDAC, come nel caso di IRF1 (“interferon regulatory factor 1”), la cui

espressione è importante per la risposta del sistema immnunitario e degli interferoni

verso infezioni di papillomavirus persistenti (Park et al., 2000).

La regione C-terminale di proteine E7 appartenenti a papillomavirus ad alto e

basso rischio presenta domini Cys-X-X-Cys, simili a domini a dita di zinco. La

mutazione di una o di entrambe le cisteine in uno di questi domini porta alla perdita

della capacità di immortalizzare cellule HFK e di trasformare cellule di roditore (Dyson

et al., 1989). Inoltre la stabilità di E7 diminuisce notevolmente in seguito alla mutazione

di queste cisteine, dimostrando la loro importanza nel mantenere l’integrità strutturale di

E7 (Longworth et al., 2004).

Una delle proprietà più particolari della proteina E7 degli HPV ad elevato

rischio è la loro capacità di indurre instabilità genomica. Molti tipi di cancro positivi per

il papillomavirus umano contengono diverse aneuploidie, ad indicare che variazioni nel

numero di cromosomi sono eventi importanti nella progressione tumorale (Hashida et

al., 1991). L’espressione unicamente di E7 è sufficiente ad indurre un aumento anomalo

nel numero di cromosomi in cheratinociti umani primari (Duensing et al., 2000). I

centrosomi sono i principali centri di organizzazione dei microtubuli e guidano la

segregazione dei cromosomi in cellule figlie durante la divisione cellulare. Proteine E7

mutate che non legano o degradano Rb, ma si associano a p107, mantengono la capacità

di indurre anomalie a livello dei centrosomi (Duensing et al., 2003). Tali anomalie si

osservano anche in cellule prive di Rb e p53 e in fibroblasti embrionali di topi “knock

out” per Rb, p130 e p107. E’ possibile che il legame di una combinazione di membri

della famiglia di Rb o di altri fattori sia richiesta per mediare le anomalie del

centrosoma (Duensing et al., 2003).

Coltivazione del virus

Gli HPV sono difficilmente coltivabili in vitro, in quanto si replicano in vivo in

epiteli squamosi stratificati, le cui condizioni non sono completamente riproducibili in

coltura su monostrati cellulari.

L’infezione di monostrati cellulari (fibroblasti o cellule epiteliali) con HPV,

induce la replicazione del DNA virale in forma episomale e l’espressione di proteine

non strutturali, ad eccezione di E4. Il principale limite di questa tecnica è la mancata

espressione di proteine virali strutturali. In monostrati cellulari è possibile tuttavia

produrre il virus in forma infettiva se i geni codificanti per le due proteine virali

strutturali vengono forniti attraverso altri vettori virali attenuati.

Date le difficoltà dell’isolamento dell’HPV da monostrati cellulari, per la

diagnosi clinica di questo tipo di infezione, si utilizzano tecniche per la ricerca del DNA

virale, quali PCR o ibridazione molecolare.

Il tropismo specie-specifico di HPV ne ha limitato lo studio attraverso l’uso di

modelli animali. Tuttavia un possibile approccio per la propagazione degli HPV è stato

esporre colture di cellule epiteliali primarie all’azione del virus e in seguito porle sotto

la capsula renale di topi nudi. Quest’ultimo è un sito anatomico immunologicamente

protetto, che può sostenere la crescita di cellule eterologhe e la formazione di un epitelio

pluristratificato, in grado di riprodurre le caratteristiche di un epitelio squamoso

stratificato. Questo tipo di approccio ha reso possibile la propagazione in coltura di

diversi tipi di HPV, ma non viene applicato abitualmente nella pratica clinica; infatti si

tratta di un sistema non ottimizzabile per la produzione del virus su larga scala o per

l’analisi della replicazione virale.

Il ciclo replicativo completo del virus può essere riprodotto su colture cellulari

utilizzando sistemi di colture “raft”, formati da epiteli squamosi stratificati posti su

un’interfaccia aria-acqua. Questa tecnica è più complicata rispetto alla coltivazione su

monostrato cellulare e la replicazione virale completa avviene solo per una piccola

percentuale di cellule. Tuttavia è possibile ricorrere a questo sistema per studiare aspetti

biologici, genetici e biochimici del virus (Lowy et al., 2001).

CARATTERISTICHE CLINICHE DELLE INFEZIONI DA

PAPILLOMAVIRUS

Epidemiologia

Gli HPV sono patogeni ampiamente distribuiti nella specie umana, che si

trasmettono prevalentemente per via sessuale. Sono virus molto resistenti al calore e a

condizioni di aridità, pertanto si può verificare anche un tipo di trasmissione non

sessuale, ad esempio per mezzo di fomiti, in seguito a prolungato contatto con abiti

contaminati (Roden et al., 1997).

Gli HPV ad alto rischio sono strettamente associati a carcinomi alla cervice

uterina, che costituiscono la seconda causa di cancro mortale nella donna, con 288 000

vittime ogni anno nel mondo. In particolare sono coinvolti nell’80-90% dei casi di

neoplasia intraepiteliale della cervice uterina (CIN). Uno studio recente, condotto su

donne latino-americane, ha rilevato che l’infezione con HPV-16 e HPV-18 aumenta

significativamente il rischio di sviluppare cancro alla cervice uterina, con una

prevalenza di HPV-16 circa 10 volte superiore a quella di HPV-18; anche la

progressione delle lesioni precancerose è maggiore in seguito ad infezione di HPV-16

rispetto a quanto avviene per altri tipi di HPV (Swan et al., 1999).

Ogni anno sono riportati circa 510 000 nuovi casi, di cui l’80% in paesi in via di

sviluppo: 68 000 in Africa, 77 000 in America Latina e 245 000 in Asia.

In assenza di programmi di “screening” (quali il Pap test) che identifichino

precocemente la malattia, il cancro alla cervice uterina viene diagnosticato tardivamente

e porta a morte nella maggior parte dei casi. La più elevata incidenza annua si rileva

nell’America del Sud (93.8 su 100 000 donne ad Haiti, IARC 1996) e in Asia (30 su 100

000 donne in India) e in Sud Africa (61.4 su 100 000 donne in Tanzania). La prevalenza

di infezioni da HPV nel mondo è di 630 milioni di casi e quella delle infezioni cliniche

di 190 milioni. La prevalenza di cancro alla cervice uterina è invece di 2 274 000: 1 300

000 in Asia, 409 000 in Europa, 218 000 in Africa, 172 000 in America Latina, 167 000

in America del Nord e 8 000 in Australia. Studi epidemiologici hanno rilevato che in

USA, il 75% della popolazione compresa tra i 15 e 50 anni viene infettata da HPV, di

cui il 60% manifesta infezione di tipo transiente (rilevazione con anticorpi), il 10%

infezione persistente (rilevazione del DNA virale), il 4% anomalie citologiche e l’1%

lesioni cliniche. La prevalenza dell’infezione di HPV in donne sessualmente attive è del

18-25%, in particolare tra adolescenti. Queste donne possono trasmettere l’infezione al

proprio compagno o ai loro bambini. Nei neonati l’infezione da HPV può causare

papillomi nella cavità orale e nel tratto respiratorio superiore. In individui infettati da

HIV, l’infezione da HPV causa verruche estese e patologie rapidamente progressive

(www.who.int).

Ci sono diversi fattori che costituiscono un rischio per lo sviluppo del tumore

oltre all’infezione degli HPV, quali l’attività sessuale, l’età, la co-infezione con i virus

HIV, CMV, HHV-6, HHV-7 e HSV-2, condizioni di immunodepressione,

probabilmente anche il consumo di ormoni steroidei (principio attivo dei contraccettivi

orali) e il fumo di sigaretta. Per quanto concerne l’età si è osservato che la maggior

parte dei tumori cervicali origina a livello delle giunzioni situate tra l’epitelio colonnare

dell’endocervice e l’epitelio squamoso dell’esocervice. In questi siti avvengono continui

cambiamenti e il rischio maggiore di contrarre l’infezione coincide con il periodo di

maggiore plasticità, che si verifica durante la pubertà e in gravidanza, mentre

diminuisce in menopausa. L’infezione degli HPV è più diffusa in giovani donne attive

sessualmente, in un’età compresa tra i 18 e i 30 anni, anche se il tumore colpisce

soprattutto donne aventi più di 35 anni, ad indicare che l’infezione è probabilmente

contratta in giovane età e progredisce lentamente verso il cancro.

La risposta immunitaria principale verso il virus è di tipo cellulare; pertanto

situazioni di immunodepressione, come trapianti o sindrome da immunodeficienza

acquisita, aumentano il rischio di contrarre l’infezione (Calore et al., 2001).

La regione LCR del genoma virale presenta sequenze simili agli elementi

responsivi agli ormoni glucocorticoidi e pertanto la loro attività è aumentata dagli

ormoni steroidei, come il progesterone e il desametasone. L’uso prolungato di

contraccettivi orali è quindi un altro importante fattore di rischio. Un ulteriore elemento

da considerare è il fumo, che è però indipendente dall’infezione virale per lo sviluppo di

cancro cervicale (Adam et al., 2000). Anche gravidanze multiple sono un fattore di

rischio tra donne che presentano infezione da HPV, così come il consumo di alcol e le

abitudini alimentari (Burd et al., 2003).

Altri virus trasmessi sessualmente potrebbero agire come cofattori nello sviluppo

di cancro cervicale; tra questi, ad esempio HSV-2, CMV, HHV-6 e HHV-7 (zur

Hausen, 1982). Una forte riduzione del rischio di sviluppare neoplasie cervicali è invece

la coinfezione con virus adeno-associati (Coker et al., 2001). Il prodotto del gene Rep78

di adenovirus blocca la trascrizione degli oncogeni E6 e E7, interferendo con il legame

delle proteine che legano la sequenza TATA a livello del promotore P97 nella regione

LCR degli HPV.

Il titolo virale è direttamente correlato alla gravità della malattia. In particolare è

stato dimostrato che HPV-16 raggiunge livelli maggiori rispetto agli altri HPV e, solo

per HPV16, tale dose è direttamente proporzionale alla gravità della malattia. Gli altri

tipi di virus ad alto rischio, anche a basso titolo, sono in grado di indurre tumori maligni

(Swan et al., 1999).

Un altro fattore emergente nello sviluppo di neoplasie cervicali è il ruolo svolto

dalle diverse varianti virali (Giannoudis et al., 2001). Le varianti virali differiscono per

quanto riguarda proprietà chimiche e patogenicità. Sulla base di variazioni di sequenza

delle regioni L1, L2, LCR del genoma virale, è stato possibile individuare cinque

varianti filogenetiche di HPV-16: europeo (E), asiatico (As), asiatico-americano (AA),

africano-1 (Af1) e africano-2 (Af2). La loro oncogenicità varia in base alla distribuzione

geografica e all’origine etnica della popolazione virale. In uno studio è stato dimostrato

che, a causa dell’aumento dell’attività trascrizionale e delle variazioni subite a livello

delle sequenze responsive ai progesteroni, la variante asiatica-americana presenta

un’attività maggiormente oncogena rispetto alla variante europea.

Anche la predisposizione genetica svolge un ruolo importante nel favorire

l’insorgenza di cancro alla cervice uterina (Magnusson et al., 2001). Essa determina la

suscettibilità all’infezione, l’abilità di eliminarla e il tempo necessario per lo sviluppo

della malattia. Gli effetti di un ambiente famigliare condiviso incidono solo per un 2%,

soprattutto tra sorelle piuttosto che tra madre e figlia. Numerosi studi hanno inoltre

riscontrato un’associazione tra carcinomi contenenti HPV-16 o HPV-18 e la presenza di

particolari antigeni leucocitari umani (HLA). Individui con alcuni tipi di antigeni

tessutali, come, ad esempio, HLA-DQB1*03 (DQ3), corrono maggiori rischi di

sviluppare cancro alla cervice uterina. Allo stesso modo pazienti con HLA-B7 tendono

a sviluppare carcinomi più aggressivi con una diagnosi peggiore. L’antigene HLA-II

Dqw3 è espresso dal 67-88% delle donne con cancro alla cervice, mentre solo dal 50%

della popolazione di controllo (Burd et al., 2003). Infine, all’interno della popolazione,

è possibile riscontrare un polimorfismo a livello del codone 72 della proteina p53, che

può codificare alternativamente per un’arginina o una prolina. La variante con l’arginina

è più suscettibile alla degradazione da parte della proteina E6: infatti, è maggiormente

presente nei tumori associati agli HPV (Sanclemente et al., 2002).

La gravità della malattia tende inoltre ad aumentare per il verificasi della

contemporanea co-infezione di diversi tipi di HPV. Queste sono state riscontrate

nell’11,8% di pazienti con analisi citologiche normali e nel 34,5% di pazienti con lieve

o moderata discariosi. La maggior parte delle infezioni multiple è caratterizzata dalla

presenza di due genotipi virali, anche se sono già stati riscontrati casi con tre, quattro,

cinque genotipi (Kleter et al., 1999).

Manifestazioni cliniche

Gli HPV possono essere suddivisi in tre sottotipi: a basso, intermedio ed alto

rischio, in base alla gravità della patologia ad essi associata.

Gli HPV a basso rischio sono associati a lesioni proliferative della pelle e delle

mucose, in genere benigne. Le manifestazioni cliniche comprendono verruche comuni,

piane e plantari, condilomi acuminati genitali e anali, condilomi piani cervicali (Figura

7), lesioni maculari pitiriasiformi in pazienti con epidermodisplasia verruciforme (EV),

papillomi laringei. Questi ultimi si presentano nell’infanzia e, nonostante siano benigni,

possono causare ostruzione respiratoria acuta e danno spesso recidive (Tabella 2) (Dolei

et al., 2002).

Figura 7: Condiloma cervicale.

Tipi di lesioni Genotipi di papillomavirus

Lesioni cutanee

Verruche volgari, piane e plantari

Verruche in soggetti con EV

Carcinomi cutanei in soggetti con EV

1, 2, 3, 4, 7, 10, 27, 28, 29, 41

5, 8, 9, 12, 14, 15, 17, 19, 20, 47, 49

5, 8, 14, 17, 20, 47

Lesioni mucose

Condilomi acuminati e piani

Papulosi Bowenoide

Condiloma gigante

Papillomi delle vie respiratorie

Papillomi congiuntivali

Lesioni della mucosa orale:

Iperplasia focale epiteliale

Infezioni con papillomavirus del tratto genitale

Lesioni sulle labbra

Carcinomi della cervice uterina:

- alta associazione

- moderata associazione

- scarsa associazione

Cancro vulvare

6, 11, 42, 43, 44, 54, 55

16

6, 11

6, 11

6, 11

13, 32

6, 11, 16,

2

16, 18, 45, 56

31, 33, 35, 51, 52

6, 11, 42, 43, 44

16

Tra le lesioni cutanee, le verruche comuni o volgari sono le forme più diffuse e

si manifestano in forma di papule bianche-grigiastre o brune, piatte o rilevate, che si

Tabella 2: Associazioni prevalenti tra genotipi degli HPV e manifestazioni cliniche.

localizzano più frequentemente a livello delle mani, in particolare sulle superfici dorsali

e nelle regioni periungueali. Vi sono inoltre verruche piane, che hanno l’aspetto di

papule rosse, lievemente rilevate, che insorgono a livello del viso o delle mani e le

verruche plantari e palmari, che si localizzano rispettivamente nella pianta dei piedi e

nel palmo delle mani. I genotipi degli HPV più frequentemente riscontrati in verruche

sono i tipi 1, 2, 3, 4 e 7.

La maggior parte dei restanti tipi cutanei degli HPV (genotipi 5, 8, 9, 12, 14, 15,

17, 19, 20, 47, 49) è stata ritrovata nelle lesioni della epidermodisplasia verruciforme

(EV), un’affezione caratterizzata dalla diffusione delle lesioni da HPV disseminate in

gran parte della superficie corporea, simili a verruche piane e macule rossastre, che si

manifesta in soggetti con profonde alterazioni dell’immunità cellulare. Non è

infrequente la degenerazione in carcinoma a cellule squamose. Tra gli HPV di tipo

cutaneo, i genotipi 5 e 8 e meno frequentemente il 14, 17, 20 e 47, sono stati identificati

in carcinomi a cellule squamose che possono insorgere in tali individui.

Le lesioni mucose benigne da HPV comprendono prevalentemente condilomi

acuminati e piani, che sono conseguenti a trasmissione sessuale del virus e insorgono a

livello del pene, dei genitali femminili, dell’uretra, dell’area perianale e del retto. Si

manifestano come masse esofitiche verrucose di consistenza molle (condilomi piani) o

modestamente rilevate (condilomi acuminati). Sono generalmente associati ad infezioni

dei genotipi 6 e 11 di HPV a basso rischio e non portano a cancro. La maggior parte

delle lesioni è asintomatica e si può risolvere spontaneamente in 3-4 mesi, rimanere

invariata o aumentare di dimensione e numero. Quando le verruche sono di colore

rosso-marrone devono essere sottoposte a biopsia, in quanto potrebbe trattarsi di

papulosi Bowenoide, causata da HPV-16 e HPV-18 e, dal punto di vista istologico,

presentare la stessa configurazione delle neoplasie intraepiteliali. Queste lesioni

potrebbero evolvere in carcinoma.

Altre sedi mucose infettate dagli HPV, caratterizzate da lesioni benigne di tipo

papillomatoso, si trovano a livello respiratorio, congiuntivale e orale.

L’infezione può verificarsi in forma latente o inattiva, con andamento

asintomatico, che presenta la zona epiteliale infettata citologicamente normale. Il DNA

dei papillomavirus umani (solitamente HPV-6 e 11) è riscontrabile generalmente nel

10% dei casi.

L’infezione attiva, caratterizzata da lesioni squamose intraepiteliali (SIL), si

manifesta con grandi cellule arrotondate dette coilociti. Le SIL sono classificate in

rapporto alla gravità delle lesioni istologiche. In Europa è possibile distinguere tre gradi

di neoplasie intraepiteliali cervicali (CIN): CIN1 (lieve), CIN2 (moderata), CIN3

(severa). Negli Stati Uniti le SIL sono suddivise in SIL a basso grado (LGSIL, che

corrisponde a CIN1) e SIL ad alto grado (HGSIL, paragonabile a CIN2 e CIN3). A

livello di vagina, vulva, ano e pene si riscontrano lesioni simili ma non identiche:

neoplasie intraepiteliali vaginali (VAIN), vulvari (VIN), anali (AIN) e penili (PIN). La

maggior parte di queste lesioni è associata ad infezione da HPV. In particolare, nelle

LGSIL si riscontrano soprattutto HPV ad alto rischio. La maggior parte delle lesioni

mantiene il virus in forma episomica e sostiene un ciclo di replicazione completo: sono

espressi anche geni tardivi e origina una particella virale completa. Le HGSIL sono

prevalentemente associate a HPV ad alto rischio, che non possono però compiere un

ciclo di replicazione completo, a causa di difetti differenziativi tipici di queste lesioni. I

geni tardivi non sono espressi, il DNA virale è integrato in quello cellulare e

l’espressione degli oncogeni E6 e E7 è deregolata. CIN3 è caratterizzata da aneuploidia

cromosomica ed evolve verso forme maligne (Stanley et al., 2003).

Profilassi

Igiene

La comprensione del fatto che le lesioni a livello cervicale, vulvare, vaginale e

perianale sono di origine infettiva ha portato a notevoli miglioramenti in materia di

prevenzione del cancro alla cervice uterina. In primo luogo sono state consigliate misure

legate all’igiene, per evitare la trasmissione iatrogena tra i pazienti affetti da disturbi

ginecologici.

La prevenzione meccanica di infezioni anogenitali trasmesse sessualmente è

invece impraticabile. Infatti, le infezioni da HPV sono molto diffuse all’interno della

popolazione sessualmente attiva e l’uso del preservativo o di sostanze spermicide offre

solo una protezione limitata, in quanto le infezioni possono essere trasmesse in seguito

al contatto con altre parti del corpo, come labbra, ano, scroto, che non sono protetti dal

preservativo (Burd et al., 2003).

Vaccini

Una possibile strategia per la prevenzione e cura delle infezioni degli HPV è la

vaccinazione; in questo contesto, LGSIL e HGSIL devono essere considerate

separatamente. Nella LGSIL, infatti, è disponibile un numero maggiore di potenziali

bersagli antigenici, in quanto il ciclo replicativo del virus si svolge in modo completo.

In un individuo immunocompetente l’utilizzo del vaccino dovrebbe portare alla

guarigione della lesione, senza rischio di ricorrenze. Sono stati eseguiti studi riguardanti

l’infezione di HPV mucosali in cani (un valido modello di LGSIL), i quali indicano che

E7 non è un antigene ottimale per la realizzazione di un vaccino. Al contrario,

l’immunizzazione con E1 e E2 è più efficace dal punto di vista profilattico e

terapeutico. Per massimizzare la risposta, il vaccino può essere somministrato in

associazione ad immunomodulatori. I primi trial clinici per la sperimentazione di questo

tipo di vaccinazione hanno dato buoni risultati nel caso di lesioni a basso grado. Il punto

da chiarire è se una vaccinazione terapeutica sarà in grado di eliminare anche

l’infezione latente.

Nel caso di infezioni con HPV ad alto rischio la realizzazione di un vaccino è

più complessa. HGSIL è una patologia eterogenea, le lesioni sono instabili, la risposta

del sistema immunitario non è regolata e il virus mette in atto sistemi di evasione; infine

l’espressione di HPV è molto variabile; pertanto la risposta al vaccino varierà

dall’eliminazione completa del virus all’assenza di eliminazione. Ci sono solo due

possibili bersagli antigenici: E6 e E7, ovvero le uniche proteine ad essere espresse in

HGSIL. Tuttavia, le lesioni classificate come CIN3 regrediscono attraverso un

meccanismo mediato dal sistema immunitario e in questo caso un vaccino potrebbe

essere efficace, ma in associazione ad altri farmaci (Stanley et al., 2003).

I vaccini diretti verso i virus ad alto rischio sono in fase I e II di

sperimentazione, ma attualmente non sono ancora disponibili in commercio. Sono

costituiti da VLP, formate dalle proteine strutturali del capside L1 e L2 ma prive di

DNA virale all’interno. Sono realizzate esprimendo le ORF L1 e L2 in cellule eucariote.

Queste si assemblano spontaneamente in VLP, altamente immunogene. Data l’elevata

specificità antigenica delle proteine del capside degli HPV, non è possibile ottenere una

protezione crociata verso diversi genotipi; pertanto sarebbe necessario effettuare una

vaccinazione specifica per ogni tipo di HPV. I vaccini migliori sono costituiti da un

insieme di VLP dei principali genotipi ad alto rischio.

L’immunogenicità e la sicurezza del vaccino di HPV-16 realizzato con VLP

contenenti la proteina maggiore del capside L1, sono state valutate in un trial di fase I, a

doppio cieco, randomizzato e supportato da un controllo con placebo (Harro et al.,

2001). Il vaccino è stato realizzato inserendo il gene codificante per L1 in un

baculovirus, usato come vettore. Questo è stato poi fatto esprimere in cellule di insetto.

Una dose ottimale di 50 µg di vaccino è stata somministrata mediante iniezione nel

muscolo deltoide a distanza di 0, 1, 4 mesi. Questo vaccino è ben tollerato, anche senza

adiuvanti; il titolo anticorpale è 10 volte maggiore rispetto a quello sviluppato durante

un’infezione naturale e persiste per un lungo periodo di tempo.

Anche se i dati disponibili attualmente non permettono di arrivare a conclusioni

sicure riguardo gli effetti protettivi del vaccino, studi su modelli animali permetteranno

di appurare meglio questi punti. Se si riuscirà a sviluppare un vaccino efficace per

l’uomo sarà teoricamente possibile prevenire più di 300 000 casi di cancro all’anno

(Burd et al., 2003).

Diagnosi delle infezioni

Per la diagnosi di laboratorio delle infezioni causate dagli HPV, dato che

mancano efficaci metodi colturali, si ricorre in primo luogo a saggi di tipo citologico e

istologico. Sono state introdotte anche tecniche molecolari, come l’ibridazione in situ e

soprattutto la PCR. Tra le alterazioni che possono essere confuse con le verruche

causate dagli HPV, vi sono quelle indotte dal poxvirus del mollusco contagioso.

Citologia convenzionale

Il principale metodo per la rilevazione degli HPV ad alto rischio è la colorazione

di Papanicolau degli strisci di campioni prelevati dalla cervice uterina (chiamata

comunemente “Pap test”); è stata introdotta nel 1949 dal patologo George Papanicolau,

prima che si sapesse quale fosse la causa del cancro alla cervice uterina. Questa tecnica

si basa sull’osservazione dei cambiamenti morfologici subiti dalle cellule nelle zone

trasformate della cervice. In conformità a questo tipo di colorazione è stata realizzata la

classificazione di Bethesda, introdotta nel 1988 e approvata nel 1991, in sostituzione al

sistema CIN (introdotto nel 1973 e basato sull’analisi dell’architettura dei tessuti). Un

aggiornamento della classificazione di Bethesda è stato realizzato nel 2001, per

integrarvi i miglioramenti nella comprensione di questi tipi di patologie. Le anomalie

delle cellule squamose sono suddivise in quattro categorie: 1) ASC, atipia delle cellule

squamose 2) LGSIL, lesioni a cellule squamose intraepiteliali di basso grado 3) HGSIL,

lesioni a cellule squamose intraepiteliali ad alto grado 4) carcinoma alle cellule

squamose.

Il “Pap test” presenta alcuni limiti. I campioni prelevati sono, nell’8% dei casi,

inadeguati. Si possono verificare risultati falsamente negativi nel 20-30% dei casi, in

quanto, talvolta, il campione è contaminato da sangue, funghi, batteri presenti a livello

della cervice, impedendo la rilevazione di cellule anomale. Inoltre, se le cellule

rimangono esposte all’aria troppo a lungo prima della fissazione, si alterano (Burd et

al., 2003).

Citologia su monostrato

Sono stati sviluppati nuovi metodi per la raccolta e l’analisi di campioni destinati

al “Pap test”, al fine di ridurre il numero di risultati falsamente negativi. Con tali sistemi

i campioni sono raccolti in una soluzione conservante, anziché essere posti direttamente

sul vetrino manualmente. La struttura cellulare è mantenuta più correttamente, in quanto

le cellule sono immediatamente fissate. Inoltre si utilizza una particolare spatola

cervicale per la raccolta del campione, che permette di raccogliere un numero di cellule

doppio rispetto agli altri strumenti. Il monostrato cellulare uniforme che si ottiene viene

così esaminato più facilmente dai tecnici, si evita la seccatura del campione e viene

rimossa la maggior parte dei contaminanti (muco, proteine, globuli rossi, batteri e

lieviti) Attualmente sono disponibili due sistemi di citologia su monostrato approvati

dalla FDA: il sistema “PrepStain” e il “ThinPrep Pap” (Figura 8).

I costi sono maggiori rispetto al “Pap test” tradizionale, ma numerose

pubblicazioni in questo campo consigliano l’utilizzo della citologia su monostrato per la

rilevazione di lesioni precancerose. La sensibilità della diagnosi è maggiore per tutti i

tipi di patologie, in una percentuale che varia dal 4 al 117% in base al tipo di paziente.

Quando si paragonano i risultati della citologia su monostrato e della colorazione di Pap

tradizionale al “gold standard”, costituito da biopsia effettuata con colposcopia diretta,

la citologia su monostrato è più efficace nell’identificazione di un quadro displastico

(Sheets et al., 1995).

La FDA ha approvato due nuovi dispositivi: “AutoPap” 300QC (NeoPath,

Redmond, Wash) e “PapNet” (Neuromedical Systems, Suffern, N.Y.), realizzati al fine

di rendere le procedure diagnostiche maggiormente automatizzabili. Sistemi

Figura 8: Striscio realizzato con la tecnica “ThinPrep Pap”, che mette in evidenza cellule squamose

anomale con effetto citopatico causato dagli HPV (freccia), in accordo con il quadro istologico della

LSIL.

computerizzati mostrano, su uno schermo, cellule potenzialmente anomale, destinate a

successiva analisi. Con questo sistema si possono studiare sia campioni ottenuti con il

“Pap test” tradizionale sia quelli ottenuti con la tecnica del monostrato cellulare.

Un altro sistema per migliorare la diagnosi effettuata con il Pap test è realizzare

una colorazione specifica per gli HPV. “BenchMark” (Ventana Medical Systems,

Tucson, Ariz) è un sistema automatizzato modulare che realizza una colorazione

immunoistochimica su campioni ottenuti con il sistema “ThinPrep Pap”. Sono

disponibili sonde per alcuni sottotipi di HPV ad alto rischio (HPV-16, 18, 31, 33, 35,

39, 45, 51, 52, 56, 59, 70) e a basso rischio (HPV-6, 11, 42, 43, 44) (Burd et al., 2003).

Istopatologia

I pazienti che, in seguito ad analisi con “Pap test”, presentano anomalie, ma

senza evidenti lesioni cervicali, sono solitamente sottoposti a colposcopia e a biopsia

con colposcopia. La colposcopia può rilevare displasie ad alto e basso grado, ma non

patologie microinvasive. Se non vengono rilevate anomalie, viene effettuata una

biopsia. Essa è utilizzata per confermare la maggior parte delle diagnosi attraverso

l’osservazione delle alterazioni morfologiche tipiche delle infezioni da HPV, come

iperplasia epiteliale (acantosi), vacuolizzazione citoplasmatica degenerativa (coilocitosi)

in cheratinociti differenziati con nuclei atipici. Inoltre può essere utilizzata una

colorazione che evidenzi gli antigeni o gli acidi nucleici degli HPV. Sono disponibili

anticorpi monoclonali o policlonali diretti verso un antigene comune tra gli HPV,

ovvero un epitopo lineare situato al centro della proteina maggiore del capside, molto

espressa tra i diversi genotipi virali. Il legame dell’anticorpo viene rilevato attraverso la

marcatura con perossidasi-antiperossidasi. La colorazione è solitamente localizzata nel

nucleo delle cellule infettate, anche se talvolta può essere osservata nel citoplasma dei

coilociti.

Il DNA o l’RNA degli HPV può essere evidenziato in tessuti derivanti da

biopsia attraverso metodi di ibridazione in situ, che prevedono l’uso di sonde marcate

con radioisotopi o con ligandi chimicamente reattivi e rilevati con autoradiografia,

fluorescenza o con una reazione colorimetrica. Le tecniche di ibridazione in situ

localizzano le sequenze degli acidi nucleici dell’HPV all’interno di singole cellule,

mantenendo la morfologia delle cellule e del tessuto al fine di valutare le alterazioni

morfologiche associate alle lesioni. Per la rilevazione degli HPV, sono preferibili sonde

che non utilizzano isotopi e metodi enzimatici sono più adatti rispetto a quelli basati

sulla fluorescenza per agevolare l’interpretazione. Le caratteristiche del segnale

(confluente o appuntito) riflettono la forma episomale o integrata del DNA virale.

L’intensità del segnale è direttamente proporzionale al numero di copie. Le tecniche in

situ di amplificazione del segnale o del bersaglio sono state sviluppate per rilevare

enzimaticamente un basso numero di copie delle sequenze di acido nucleico degli HPV

(Burd et al., 2003).

Rilevazione del DNA degli HPV

PCR con primer specifici: si basa sulle variazioni di sequenza all’interno dei

geni E6 e E7 nell’ambito dei diversi genotipi di HPV. Sono stati realizzati quattordici

primer specifici per cento paia di basi della sequenza codificante per E7 di diversi

genotipi di HPV ad alto rischio. La sensibilità analitica del saggio è tra le dieci e le

duecento copie di HPV per campione. Questo tipo di PCR viene utilizzata

prevalentemente a scopo di ricerca, in quanto la resa è limitata dalla necessità di usare,

per ogni campione, amplificazioni multiple con PCR (Burd et al., 2003).

PCR con primer aspecifici: la maggior parte degli studi basati sulla PCR

utilizzano primer consenso per amplificare un ampio spettro di tipi di HPV in una

singola reazione di PCR. I primer sono rivolti verso regioni conservate del genoma

degli HPV, come il gene che codifica per la proteina capsidica L1. Ad esempio i primer

MY09-MY11, sono diretti verso un frammento di 450 paia di basi all’interno della

sequenza codificante L1 (Bosch et al., 1995). Questi primer tuttavia falliscono nel

rilevare il DNA degli HPV nel 7% dei casi di cancro cervicale. Questo potrebbe essere

dovuto all’assenza di DNA virale nelle cellule tumorali o a risultati della PCR

falsamente negativi dovuti all’integrazione del DNA dei papillomavirus nel genoma

cellulare, che potrebbe aver distrutto le sequenze verso le quali sono diretti i primer.

Sono stati sviluppati diversi metodi per identificare i diversi genotipi di HPV

dopo l’amplificazione con primer generali e consenso. Tra queste ricordiamo analisi di

sequenziamento, dei polimorfismi di lunghezza dei frammenti di restrizione e

ibridazione con sonde specifiche usando “Dot blot” (Burd et al., 2003).

Ibridazione liquida: viene realizzata utilizzando il kit “Hybrid Capture” (Digene,

Beltsville, Md.), approvato dalla FDA per la rilevazione del DNA degli HPV su

campioni prelevati dalla cervice. Si tratta di un saggio che rende possibile

l’amplificazione del segnale di ibridazione e che determina quantitativamente la

presenza di virus nel campione attraverso tecniche di chemioluminescenza basate

sull’uso di anticorpi. Il DNA proveniente da un paziente viene denaturato e unito a un

gruppo di sonde a RNA all’interno di una soluzione. Si usano due gruppi di sonde a

RNA: il gruppo A riconosce alcuni sottotipi di HPV a basso rischio, mentre il gruppo B

riconosce quelli ad alto rischio. Si forma un ibrido RNA-DNA, che viene immobilizzato

all’interno di pozzetti situati in una piastra e decorato con anticorpi primari e

successivamente secondari, diversamente marcati. Il segnale luminoso, misurato con un

luminometro ed espresso come unità di luminosità relativa, viene paragonato a un

valore limite. La sensibilità analitica varia da 6,6 a 17,6 pg/ml in base al tipo di HPV.

Questa tecnica non presenta una forte rilevanza clinica, ma è ampiamente usata

in studi di ricerca ed epidemiologia. Non viene utilizzata per analisi di screening sulla

popolazione generale, ma è indicata come supporto alla diagnosi di infezione da HPV e

per discriminare tra papillomavirus umani ad alto e basso rischio; è utilizzato inoltre per

un’analisi più approfondita di pazienti risultati positivi al “Pap test”, al fine di valutare il

rischio di sviluppare cancro alla cervice uterina. Tuttavia questo saggio non può essere

realizzato indipendentemente dal “Pap test”. I limiti sono legati alla reattività crociata

degli anticorpi utilizzati per la rilevazione del segnale, che può portare ad ottenere

risultati falsamente positivi (Burd et al., 2003).

Rilevazione dell’mRNA degli HPV: viene realizzata utilizzando il test “In-Cell”

(Invirion, Frankfurt, Mich), che permette di identificare l’RNA dei geni E6 e E7. E’ così

possibile determinare se i geni oncogeni degli HPV sono presenti e attivi. Il saggio può

essere automatizzato su ogni sistema in grado di rilevare la fluorescenza. La citometria

di flusso può essere adattata a questo saggio utilizzando campioni derivanti da analisi

citologiche. Quest’analisi può essere eseguita anche direttamente su strisci destinati al

“Pap test” e visualizzata utilizzando un microscopio a fluorescenza. La sensibilità del

saggio è del 100%, la specificità del 70% (Burd et al., 2003).

Terapie

Gli obiettivi delle terapie verso le patologie associate a HPV sono:

- l’eradicazione delle infezioni;

- la guarigione dei sintomi;

- la prevenzione delle malattie a lungo termine;

- la prevenzione delle infezioni.

Le terapie attualmente disponibili hanno raggiunto questi obiettivi solo in parte.

Infatti, non si tratta di terapie antivirali specifiche, ma di trattamenti ablativi che non

risolvono l’infezione virale e il problema della trasmissione. E’ possibile suddividere le

terapie disponibili in quattro categorie: 1) ablative (trattamenti chirurgici) 2) agenti

citotossici 3) terapia fotodinamica 4) terapie immunomodulatorie.

Trattamenti chirurgici

Le lesioni non invasive intraepiteliali, identificabili solo utilizzando il

microscopio, sono solitamente trattate con procedure ablative superficiali, come la

crioterapia o la terapia laser. Sono procedure ambulatoriali che garantiscono il

mantenimento della fertilità; sono efficaci, a breve termine, ma il tasso di ricorrenza è

elevato, in quanto si rimuove unicamente la lesione superficiale, mentre persistono in

profondità i cheratinociti infettati.

Con la crioterapia, il tessuto anomalo e cinque millimetri di tessuto circostante

sono raffreddati con una sonda per diverse volte consecutive, al fine di indurre necrosi.

Un’alternativa è la rimozione del tessuto attraverso un laser di biossido di carbonio: è

efficace come la crioterapia e la zona cicatrizza più velocemente, subendo meno

deformazioni, ma i costi sono più elevati. Le procedure di rimozione che sfruttano

un’ansa elettronica sono attualmente considerate il trattamento più adatto per la cura di

lesioni non invasive. Si utilizza un filo carico elettricamente per l’ablazione della zona

alterata e del canale endocervicale distale. E’ meno cara rispetto alla terapia con il laser

e preserva il tessuto rimosso per un successivo esame istologico.

I tumori di dimensione inferiore ai tre millimetri sono trattati utilizzando la

biopsia conica.

I tumori precocemente invasivi sono affrontati ricorrendo ad isterectomia o

radioterapia. L’obiettivo è distruggere le cellule maligne della cervice, dei tessuti

paracervicali e dei linfonodi regionali. I tumori in stadio già avanzato sono trattati con

radioterapia diretta verso il tumore primario e verso i potenziali siti di metastatizzazione

(Burd et al., 2003).

Agenti citotossici

Gli agenti citotossici sono utilizzati per il trattamento delle verruche genitali. Si

tratta di preparati ad uso topico, che distruggono le cellule al momento del contatto,

indipendentemente dalla presenza di HPV. Sono caratterizzati da forti effetti collaterali

e da un elevato tasso di ricorrenza della malattia.

Un esempio di tali agenti è costituito dalla Podofilina, un derivato del

Podophyllum, ad uso topico. Agisce legando le proteine dei microtubuli, con

conseguente arresto della cellula in metafase. E’ controindicato in gravidanza.

L’acido tricloroacetico è un altro agente utilizzato a livello topico, ma che può

provocare effetti collaterali quali ulcerazioni, dermatiti, infezioni secondarie. Il

vantaggio rispetto alla Podofilina è che non dà effetti collaterali sistemici e pertanto può

essere utilizzato in gravidanza. Questi farmaci sono stati analizzati in ristrette

sperimentazioni cliniche, al fine di valutare la loro efficacia nel trattamento della CIN e

della VIN, ma non sono abitualmente utilizzati per la cura di infezioni di HPV a livello

mucosale.

Il 5-fluorouracile, un antitumorale antimetabolita, è disponibile sotto forma di

crema, ma la sua applicazione sulle lesioni genitali esterne è limitata, in quanto provoca

notevoli reazioni infiammatorie. Il meccanismo d’azione si basa sul blocco del trasporto

della timidina extracellulare, inibendo la via di salvataggio della sintesi dei nucleotidi.

Presenta rischio di teratogenesi e il suo uso è controindicato in gravidanza. E’ utilizzato

per il trattamento della VIN, ma i risultati sono variabili (Stanley et al., 2003).

Terapia fotodinamica

La terapia fotodinamica presenta un’efficacia variabile nel trattamento delle

infezioni di HPV. Il meccanismo d’azione si basa sull’attivazione di un fotosensore (ad

esempio l’acido aminolevulinico) da parte della luce, portando al rilascio di specie

dell’ossigeno molto reattive. Questo provoca la distruzione dei tessuti, con conseguente

attivazione del sistema immunitario dell’ospite. Il fotosensore è somministrato in modo

sistemico o topico (nel caso di CIN, VIN e verruche genitali). Il fallimento della

risposta alla terapia si associa ad una diminuzione dell’espressione di MHC di classe I

su cellule neoplastiche, indicando che la terapia fotodinamica agisce come

immunomodulatore (Stanley et al., 2003).

Terapia immunomodulatoria

Una strategia per il controllo delle infezioni da HPV consiste nell’indurre o

potenziare la risposta immunitaria, in particolare cellulo-mediata. Questo rende

possibile il trattamento anche di infezioni silenti. Gli anticorpi sono invece scarsamente

coinvolti nel controllo delle infezioni di HPV, ma potrebbero prevenire infezioni

successive.

La terapia con Interferone, caratterizzato da attività antiproliferativa, antivirale e

immunomodulatoria, è molto importante, soprattutto nella papillomatosi respiratoria

ricorrente, ma anche in altre lesioni papillomatose, quali i condilomi genitali. Non sono

bloccate le recidive, tuttavia il trattamento ha il vantaggio di non danneggiare i tessuti e

può inoltre aiutare a ridurre la massa delle lesioni prima dell’intervento di distruzione

con mezzi fisici o chirurgici. L’efficacia terapeutica migliore si è osservata con IFN-α

somministrato per via parenterale e con IFN-β intralesionale, che possono indurre

remissione completa dei condilomi genitali recidivanti in gran parte dei pazienti trattati.

Tuttavia si verificano effetti collaterali, quali febbre e mialgia. Il trattamento è costoso,

di efficacia limitata e non è applicato nei trattamenti di routine di queste lesioni.

Sono particolarmente importanti gli Imidazochinoloni, agenti farmacologici che

modulano le cellule dendritiche e i macrofagi. Un esempio è l’Aldara (Imiquimod),

applicato in modo topico. Agisce come ligando di recettori situati su macrofagi e cellule

dendritiche, provocando il rilascio di citochine e IFN-α. E’ efficace nel trattamento di

verruche genitali. Non è ancora riconosciuto per il trattamento della CIN, mentre è stato

già realizzato un “trial” per la sua applicazione nella cura della VIN. Il suo utilizzo deve

essere strettamente controllato, in quanto il rilascio di citochine può causare potenti

effetti collaterali di tipo infiammatorio.

La Cimetidina è un altro farmaco ad azione immunomodulatoria. Si tratta di un

antagonista del recettore H2 istaminico. E’ stata somministrata per via orale, ad alte

dosi, per il trattamento di verruche genitali e cutanee, papillomatosi respiratoria e

congiuntivale, soprattutto nei bambini. La cimetidina è stata testata in trial clinici in

doppio cieco e con il placebo, ma non è risultata efficace nel trattamento di patologie

indotte da HPV.

Terapia antivirale

Attualmente non sono disponibili in commercio chemioterapici attivi contro

HPV, ma il loro sviluppo è auspicabile per diverse ragioni. Infatti, una terapia antivirale

ha le potenzialità di essere efficace verso infezioni sia inapparenti sia visibili

clinicamente. Ci sono numerosi pazienti immunodepressi infettati da HPV, che non

possono essere trattati con immunoterapia e per i quali i farmaci antivirali sarebbero

l’unica alternativa. Inoltre, lesioni multifocali, come la VIN, che non possono essere

sottoposte a terapie ablative e potrebbero essere resistenti a terapie immunomodulatorie,

sarebbero trattate efficacemente con chemioterapici. Per queste motivazioni lo sviluppo

di un antivirale attivo verso HPV è un obiettivo prioritario per aziende e gruppi di

ricerca. Esistono tuttavia una serie di ostacoli, che saranno maggiormente approfonditi

nel corso di questa tesi (Stanley et al., 2003).

Retinoidi

I retinoidi sono composti naturali o sintetici simili alla vitamina A, che svolgono

una funzione preventiva verso la CIN e il cancro cervicale. Presentano un effetto

antiproliferativo, inducono differenziazione in cellule epiteliali legandosi ad un

recettore nucleare, ma non presentano una specifica attività anti HPV. Tuttavia si è

osservato che, in vitro, portano ad una diminuzione dei livelli di trascrizione di E6/E7 e

delle molecole coinvolte nell’apoptosi. La potenzialità dei retinoidi come agenti

preventivi verso le infezioni da HPV è discutibile: in studi sperimentali sono risultati

efficaci solo in combinazione con agenti citotossici, come il Cisplatino (Stanley et al.,

2003).

Indolo 3-carbinolo (I-3-C)

E’ un derivato vegetale che ha effetti chemiopreventivi, come dimostrano studi

in fase pre-clinica. Presenta un’attività anti estrogenica e induce apoptosi. Topi

transgenici per E6/E7, esposti cronicamente a 17β-estradiolo, sviluppano cancro

cervicale; tuttavia, quando questi animali sono sottoposti ad una dieta supplementata

con I-3-C, l’incidenza di cancro si riduce. Questi risultati sono senza dubbio importanti,

ma necessitano di conferme su trial estesi a un maggior numero di pazienti (Stanley et

al., 2003).

Cidofovir

Tra i farmaci utilizzati per la cura delle infezioni degli HPV è necessario citare

anche il Cidofovir, un analogo nucleosidico, che presenta un’attività ad ampio spettro

verso i virus a DNA, in particolare il citomegalovirus, ed è relativamente efficace anche

verso gli HPV, inducendo apoptosi quando è applicato localmente a livello delle cellule

infettate (Andrei et al., 2001). Durante una sperimentazione, è stato applicato un gel,

costituito per l’1% da Cidofovir, in modo topico, per un mese su 15 donne affette da

una grave forma di CIN. Nell’80% delle pazienti è stata osservata una risposta completa

o parziale, che è stata in seguito verificata anche attraverso analisi istologiche e PCR

(Snoeck et al., 2000).

HPV E MODULAZIONE DEL SISTEMA IMMUNITARIO

Meccanismi di difesa dell’ospite

Il sistema immunitario è importante nel controllo delle infezioni degli HPV.

Questo concorda con il fatto che, in donne immunodepresse, la SIL (“lesione squamosa

intraepiteliale”) presenta una maggiore incidenza e persistenza. In particolare si osserva

l’intervento del sistema immunitario cellulare ed umorale. Le infezioni di HPV sono

simili a quelle mediate da virus non litici, in quanto non causano distruzione cellulare,

ma sono rilasciati dalle cellule infettate mediante desquamazione. La difesa ideale verso

questo tipo di infezione è una combinazione di anticorpi neutralizzanti e lisi cellulare

mediata dai linfociti T citotossici (CTL). I CTL agiscono su cheratinociti presenti negli

strati intermedi degli epiteli squamosi, dove si verifica la trascrizione e replicazione del

virus e dove le proteine precoci sono espresse abbondantemente. Nonostante le proteine

tardive L1 e L2 non siano bersaglio dei CTL, in quanto sono espresse negli strati

superficiali, gli anticorpi neutralizzanti sono diretti proprio verso queste proteine, per

prevenire nuove infezioni (Sanclemente et al., 2002).

La neutralizzazione mediata da anticorpi coinvolge in particolare IgG sieriche e

IgA secretorie, rivolte verso antigeni di superficie del virus, al fine di bloccarne

l’ingresso nelle mucose epiteliali. Gli anticorpi circolanti e il complemento possono

opsonizzare e agglutinare le particelle virali, facilitando la fagocitosi mediata dai

recettori C3b e Fc. Non è chiaro se la risposta anticorpale sia sufficiente a proteggere le

donne dall’infezione e se tale protezione sia duratura. La persistenza delle verruche,

anche in individui immunocompetenti, indica che il sistema immunitario trova difficoltà

nell’innescare una risposta effettiva, a causa di immunodepressione locale o mancato

riconoscimento delle proteine virali.

Gli anticorpi non sono sempre in grado di eliminare il virus, soprattutto quando

entra in stato di latenza, in cui il DNA virale è integrato in quello cellulare. E’

particolarmente importante, a questo punto, l’intervento del sistema dell’immunità

cellulare, mediato da linfociti T citotossici (CTL) CD8+ e da linfociti T “helper” di tipo

1 (Th1) CD4+. Questo sistema mette in atto strategie di sorveglianza intercellulari e

intracellulari, che impediscono l’accumulo di cellule tumorali, sia abolendo

l’espressione degli oncogeni virali, sia eliminando le cellule infettate attraverso

l’apoptosi (Figura 9) (zur Hausen et al., 2000).

LSIL

HSIL

Carcinoma in situ

Carcinoma invasivo

Diminuzione delcontrollo immunitario

Controllo intracellulare

Contro intercellulare

Instabilità cromosomica indotta da E6/E7, aneuploidia, alterazioni del DNA cellulare

Persistenza del DNA virale

Infezione

La sintesi endogenadi IFN-β è bloccata

HPV

HPV

HPV

I meccanismi di regolazione intracellulari prevengono l’immortalizzazione di

cellule infettate con HPV ad alto rischio. I meccanismi molecolari alla base di questo

processo implicano la modificazione di oncoproteine virali, attraverso fosforilazione o

Figura 9: Controllo intercellulare e intracellulare dell’ospite durante il processo di progressione

tumorale causato dagli HPV (modificata da zur Hausen. 2002. . Nat. Rev. Cancer. 2:342–350).

defosforilazione. L’oncoproteina E7, ad esempio, è fosforilata dalla caseina chinasi II.

Un altro meccanismo di inibizione è mediato dall’interazione tra oncoproteine virali e

proteine dell’ospite, quali gli inibitori delle cicline chinasi (p21 e p27), che solitamente

sono inattivate da E7, ma la cui overespressione porta a risultati opposti, bloccando E7.

La regolazione intercellulare, invece, previene la conversione verso un fenotipo

maligno di cellule immortalizzate (che dal punto di vista clinico equivalgono a lesioni

epiteliali di basso grado) da HPV. Questo meccanismo è mediato principalmente

dall’azione di citochine secrete dai Th1 e Th2. Specifiche citochine mediano la

repressione della trascrizione di oncogeni virali, a differenza di quanto accade nel caso

di IL-6 e IL-17, che potenziano la tumorigenicità di cellule di cancro alla cervice uterina

in topi nudi.

TGF-β rientra tra le citochine che bloccano la trascrizione di geni precoci di

HPV in cellule immortalizzate, mentre in cellule maligne l’attività trascrizionale rimane

invariata. La resistenza all’inibizione di TGF-β è un evento tardivo nel corso dello

sviluppo di carcinoma alla cervice. Altre citochine che bloccano la trascrizione di HPV

in cellule immortalizzate sono IL-1 e TNF-α (Woodworth et al., 1990).

Alcuni studi hanno dimostrato che anche TNF-α, secreto dai macrofagi, agisce

reprimendo la trascrizione dei geni di HPV in cellule immortalizzate, ma non in cellule

maligne. Questo è dovuto principalmente a modificazioni del complesso trascrizionale

AP-1. L’espressione di AP-1 nel corso della differenziazione cellulare e determina

l’espressione di E6 e E7 in epiteli stratificati. Mentre in cellule immortalizzate il

complesso trascrizionale AP-1 a livello del promotore di HPV è costituito da omodimeri

c-jun/c-jun, il trattamento con TNF-α porta invece alla formazione di eterodimeri c-

jun/fraI (quest’ultimo è anche attivato dall’acido retinoico, altro potente inibitore di

HPV), in grado di sopprimere la trascrizione di HPV. In cellule maligne il complesso

AP-1 è invece formato da eterodimeri c-jun/c-fos, che svolgono un ruolo importante

nella conversione di cellule immortalizzate verso un fenotipo maligno. (zur Hausen,

2000).

Altre importanti citochine inibitorie sono gli interferoni e IL-2, prodotti da

cellule Th1 attivate. IL-2 svolge un’azione indiretta, mediando l’attivazione dei

precursori dei CTL. IL-2 e IFN-α attivano le cellule NK, importanti nei primi giorni

dell’infezione finché si sviluppa, in 3-4 giorni, una risposta specifica mediata da CTL:

essi distruggono le cellule infettate, eliminando potenziali fonti di infezione.

Gli interferoni, soprattutto β e γ (α è più specifico per alcune linee cellulari),

agiscono sia su cellule immortalizzate sia su cellule maligne, eliminando il virus

attraverso l’induzione di uno stato antivirale nelle cellule. Il tumore può presentare

meccanismi di resistenza agli interferoni, attraverso l’azione di E6 e E7, che

interagiscono con fattori coinvolti nella sintesi di IFN-α, quali p48, bloccandone così la

trascrizione.

La dimostrazione di un’ inibizione selettiva, in vivo, mediata da IFN, della

trascrizione di HPV in cellule immortalizzate, deriva da esperimenti di ibridazione in

situ, in seguito al trapianto di cellule immortalizzate in topi nudi e trattamento con IFN.

Dopo tre giorni la trascrizione di E6 e E7 si riduce maggiormente rispetto a quanto

accade in vitro. Se lo stesso trattamento è realizzato su cellule maligne, non si ottengono

gli stessi risultati. Questi dati concordano anche con le osservazioni cliniche, in cui si

vede che, in lesioni a basso grado l’espressione di E6 e E7 è notevolmente inferiore

rispetto alle lesioni ad alto grado (Durst et al., 1991).

Da questi dati emerge un importante ruolo del controllo intercellulare di HPV

mediato dalle citochine, che viene perso con la progressione maligna del tumore (zur

Hausen et al., 2000).

Meccanismi di evasione dal sistema immunitario

Gli HPV, in modo particolare i sottotipi ad elevato rischio, hanno evoluto una

serie di meccanismi per evadere dai sistemi di difesa della cellula bersaglio, i quali sono

alla base della progressione dei tumori in cui è coinvolto HPV:

- portano a diminuzione dell’espressione cellulare del complesso maggiore di

istocompatibilità di classe I (MHCI) e della proteina di trasporto TAP-1, con

conseguente alterazioni nella presentazione dell’antigene (Cromme et al., 1994);

- modificano l’espressione di chemochine e citochine, bloccando i processi di

comunicazione tra i cheratinociti infettati da HPV e gli effettori del sistema

immunitario (Rosl et al.,1999);

- guidano la cellula all’evasione dagli stimoli apoptotici mediati dai complessi

CD95/TNF, TRAIL/TNF-α e i loro relativi meccanismi di trasmissione del

segnale (Walczak et al., 2000).

L’interazione tra HPV e il sistema immunitario si differenzia da quella di altri

virus. Infatti, mentre patogeni quali il citomegalovirus producono specifici antigeni che

interferiscono con i meccanismi di processazione dell’antigene, nessuna proteina di

HPV svolge questa funzione come scopo primario. E’ la concomitanza di più fattori a

minimizzare la presentazione del virus al sistema immunitario.

Diverse alterazioni del sistema di presentazione dell’antigene, che coinvolgono i

meccanismi di trasporto al proteosoma, i recettori HLA e i sistemi cellulari di

riconoscimento dell’antigene, si verificano, ad esempio, nel corso di lesioni squamose

intraepiteliali a elevato grado e carcinoma in situ. Questo insieme di meccanismi di

evasione dal sistema immunitario è determinante per la progressione delle infezioni

verso la malignità.

Un altro meccanismo coinvolge le cellule presentanti l’antigene. Infatti, per

essere riconosciute dai CTL, gli antigeni virali devono essere rilasciati dalla cellula

infettata e presentati da cellule presentanti l’antigene (APC), tra le quali importanti sono

le cellule di Langerhans. In seguito all’infezione, si osserva una diminuzione e

un’alterazione morfologica di queste cellule, fenomeno che potrebbe spiegare la lunga

persistenza del virus nelle cellule. La causa potrebbe essere una diminuzione di TNF-α,

che è un potente attivatore delle cellule di Langerhans, o l’espressione dell’oncoproteina

E7, che interferisce con la loro differenziazione. Inoltre, poiché l’infezione degli HPV

non comprende una fase viremica, diminuisce la possibilità di un’efficace presentazione

antigenica da parte delle APC.

Anche l’evasione dai meccanismi apoptotici è particolarmente importante nel

corso della patogenesi virale. Per definizione, l’apoptosi è un programma geneticamente

determinato che porta all’attivazione di deossiribonucleasi attivate da caspasi. Di

conseguenza, non solo viene clivato il DNA a elevato peso molecolare, ma anche il

genoma virale che non è ancora stato incapsidato. Quindi è un processo importante nel

limitare la diffusione della progenie virale nell’organismo e nel mantenere un adeguato

rapporto tra il numero di cellule perse e acquisite; l’alterazione di questo equilibrio può

favorire la progressione tumorale.

Gli oncogeni di alcuni tipi di HPV interferiscono con la capacità della cellula di

andare incontro a morte cellulare programmata, come è stato dimostrato utilizzando la

tecnica “TUNEL” (che misura il livello di frammentazione del DNA direttamente su

sezioni di tessuto primario) (Gavrieli et al., 1992).

L’apoptosi è generalmente innescata nelle cellule da un’ampia gamma di diversi

segnali intrinseci, come mancanza di nutrienti, ipossia o agenti chemioterapici. Tuttavia

il principale evento fisiologico che rende possibile l’accensione del macchinario che

porta a morte cellulare programmata è il legame tra i ligandi naturali in grado di attivare

l’apoptosi (CD95L, TRAIL, TNF-α) ai recettori suicidi corrispondenti presenti sulla

superficie cellulare, che appartengono alla famiglia dei recettori transmembrana TNF. In

seguito al legame con il ligando, si verifica l’oligomerizzazione del recettore, seguita

dal reclutamento del dominio FADD (“Fas-associated-death domain”) e della

procaspasi 8, in modo tale da realizzare il complesso DISC (“Death-inducing signaling

complex”). La formazione di DISC stimola il taglio proteolitico caspasi a valle e porta

ad alterazioni morfologiche come condensazione dei nuclei, frammentazione del DNA

intranucleosomale (Figura 10).

Caspasi 8

APOPTOSI

Degradazione enzimatica delle proteine del nucleo

Attivazione delle caspasi

DISC

FADD

Dominio di morte

Legame di CD95LOligomerizzazione di CD95

CD95CD95L

Caspasi 8

APOPTOSI

Degradazione enzimatica delle proteine del nucleo

Attivazione delle caspasi

DISC

FADD

Dominio di morte

Legame di CD95LOligomerizzazione di CD95

CD95CD95L

Figura 10: Formazione di DISC mediata da CD95

(modificata da: Finzer, P., A. et al., 2002. Cancer Letter. 188: 15-24).

Per quanto riguarda l’apoptosi mediata da CD95, si possono verificare due

diversi meccanismi di trasmissione del segnale (Figura 11): in cellule di tipo I l’apoptosi

viene innescata dalla formazione di DISC, con conseguente attivazione delle caspasi 8 e

3. In cellule di tipo II, viene temporaneamente inibita la formazione di DISC, mentre le

procaspasi 3 e 9 sono attivate in seguito alla distruzione delle membrane mitocondriali e

il rilascio di fattori stimolanti l’apoptosi, come il citocromo c. La morte di cellule di tipo

II viene inibita in seguito all’overespressione di Bcl-2 o Bcl-xl. L’apoptosi mediata da

CD95/TNF-α è regolata negativamente da FLIP (“FLICE-caspase 8 inhibitory

proteins”), che comprende fattori virali e cellulari coinvolti nella trasformazione e nella

permanenza del virus nelle cellule. Questi fattori competono con la procaspasi 8, in

quanto presentano una struttura simile, ma sono prive del dominio catalitico essenziale

per la proteolisi (Scaffidi et al., 1999).

APOPTOSI

Tipo I Tipo II

Attivazione diCasp-8

c-Flip

DISC

CD95L

CD95

Bcl-2Bcl-XL

Casp-3Casp-9

Cyt c, Apaf-1

APOPTOSI

Tipo I Tipo II

Attivazione diCasp-8

c-Flip

DISC

CD95L

CD95

Bcl-2Bcl-XL

Casp-3Casp-9

Cyt c, Apaf-1

Figura 11: Meccanismi apoptotici di tipo I e II

(modificata da: Finzer, P., A. et al., 2002. Cancer Letter. 188: 15-24).

Gli HPV hanno sviluppato strategie efficienti per modulare la risposta apoptotica

in seguito a infezione. La proteina E5 dei papillomavirus umani riduce la quantità del

recettore CD95 sulla superficie cellulare. Tuttavia, poiché E5 non è espressa nelle

cellule cancerose, la rilevanza fisiologica della diminuzione dell’espressione di CD95 è

probabilmente limitata al ciclo di vita naturale, in cui il temporaneo blocco dell’apoptosi

protegge gli intermedi di replicazione e i virioni immaturi dal clivaggio mediato dalle

caspasi. Questo dato è supportato dalla scoperta che l’espressione di superficie del

recettore I di CD95/TNF non viene alterata quantitativamente in cellule contenenti

l’HPV immortalizzate rispetto ai cheratinociti (Aguilar-Lemarroy et al., 2002).

Invece le oncoproteine E6/E7 di HPV-16 e HPV-18 modulano efficientemente

altri aspetti dei meccanismi apoptotici. Ad esempio E6 di HPV-16 sensibilizza

all’apoptosi cellule epiteliali mammarie immortalizzate in presenza di tamoxifene e di

altri agenti che recano danno al DNA, ma protegge le cellule fibrose durante la

differenziazione naturale in maniera dipendente o meno da p53. Al contrario fibroblasti

umani immortalizzati da E7 sono resistenti alla morte cellulare mediata da TNF-

α/cicloesimide (Thompson et al., 2001), ma non a quella mediata da TRAIL in

cheratinociti (Basile et al., 2001). Entrambi gli oncogeni portano ad un aumento di

apoptosi in cellule epiteliali umane in seguito a esposizione a condizioni di ipossia (Kim

et al., 1997), mentre cellule di carcinoma cervicale HPV-16 positive sono meno

suscettibili all’apoptosi mediata da CD95 (Aguilar-Lemarroy et al., 2001).

Il principale effetto di E6 sui meccanismi apoptotici è l’inattivazione proteolitica

di alcuni fattori pro apoptotici come p53, Bak, Bax o c-Myc, attraverso il sistema del

proteosoma, secondo le modalità precedentemente descritte. In particolare,

l’inattivazione di p53 è un punto chiave nella regolazione dell’apoptosi indotta da

CD95. La sola applicazione del CD95-L induce morte cellulare in cellule

immortalizzate da E7, mentre i cheratinociti esprimenti E6 oppure E6/E7 sono resistenti

(Aguilar-Lemarroy et al., 2002). Questi ultimi possono essere sensibilizzati all’apoptosi

indotta da CD95-L in seguito al blocco della degradazione mediata dal proteosoma,

preceduta dalla riespressione di p53 e c-Myc. Questa osservazione concorda con l’idea

che l’attivazione del recettore CD95 necessita di modificazioni aggiuntive da parte di

p53 nella sua forma fosforilata.

E6 compie la sua funzione antiapoptotica anche ad altri livelli, in particolare

agendo su TNF-α, secondo un meccanismo mediato da p53. TNF-α, a differenza di

CD95, induce altri meccanismi protettivi per la cellula, come quelli mediati da NF-κB o

dalle MAP chinasi. E6 impedisce al dominio di morte di TNF R1 di interagire con

FADD. Viene infatti bloccata la porzione C-terminale del recettore, impedendo così

l’attivazione delle procaspasi 8 e 3, entrambe necessarie per un’efficiente trasmissione

del segnale apoptotico (Finzer et al., 2002).

E7, com’è stato precedentemente descritto, agisce inattivando Rb, che svolge

un’azione anti-apoptotica; pertanto la diminuzione dei livelli intracellulari di Rb,

causata da E7, favorisce l’innesco di meccanismi apoptotici (Jones et al., 1997).

Quando E7 viene introdotto in fibroblasti umani porta a diminuzione della procaspasi 8

che protegge da morte cellulare indotta da TNF-α/CHX. E7 svolge inoltre un ruolo

importante nel modulare l’equilibrio tra l’istone deacetilasi (HDAC) e l’istone acetilasi

(HAT), in quanto lega HDAC attraverso la proteina Mi2β; anche E6 influenza questo

equilibrio, abrogando la funzione costimolatoria di CBP e p300. E’ stato dimostrato che

l’inibizione di HDAC induce blocco della crescita e apoptosi in cellule esprimenti E7,

ma non quando viene espressa solo la proteina E6 (Finzer et al., 2001).

CONTESTO E RAZIONALE DELLA RICERCA

Il processo di ricerca e sviluppo di un farmaco antivirale

La realizzazione di un nuovo farmaco richiede un percorso molto complesso e di

lunga durata, diviso fondamentalmente in due fasi: ricerca e sviluppo (Figura 1).

Necessità medica

Studi di biologiamolecolare sul virus

Disegno razionale basatosulla struttura

Identificazione dei meccanismi rilevanti per patogenesi e

replicazione virale

Sviluppo si saggi “high-throuput”per lo “screening” di librerie di

prodotti naturali e derivanti dalla chimica combinatoriale

“Lead compound”

Farmaco candidato

Farmaco commercializzabile

Sviluppo pre-clinico

“Hit compound”

Sviluppo clinico

Necessità medica

Studi di biologiamolecolare sul virus

Disegno razionale basatosulla struttura

Identificazione dei meccanismi rilevanti per patogenesi e

replicazione virale

Sviluppo si saggi “high-throuput”per lo “screening” di librerie di

prodotti naturali e derivanti dalla chimica combinatoriale

“Lead compound”

Farmaco candidato

Farmaco commercializzabile

Sviluppo pre-clinico

“Hit compound”

Sviluppo clinico

Anche per la messa a punto di farmaci antivirali è necessario intraprendere

questo lungo percorso di ricerca, ma con una serie di difficoltà aggiuntive:

- i virus sono parassiti endocellulari obbligati, che utilizzano enzimi della cellula ospite

per compiere il loro ciclo riproduttivo. Tali enzimi non possono essere colpiti dal

farmaco, perchè anche la cellula stessa sarebbe danneggiata;

- i farmaci antivirali devono presentare un’efficacia del 100% per non rischiare di

trasformare l’infezione acuta in persistente;

- alcuni patogeni sono difficilmente coltivabili in vitro (es. HBV, HCV, HPV) e

pertanto non esiste un valido modello cellulare utilizzabile nelle fasi di ricerca. Per altri

virus non ci sono invece validi modelli animali che riproducono la patologia umana (es.

HCV): diventa così difficile valutare la sicurezza e l’efficacia di un farmaco;

Figura 1: Percorso per la realizzazione di un farmaco.

- per alcune infezioni virali sono disponibili farmaci, ma che spesso sono attivi nelle

prime 24-48 ore dell’infezione, quando è ancora difficile formulare una diagnosi

precisa.

La fase di ricerca prevede l’invenzione o l’esplorazione di nuove molecole con

attività antivirale. In primo luogo è necessario identificare, sulla base delle conoscenze

disponibili riguardo la struttura e il ciclo replicativo del virus, il bersaglio virale da

inibire. Tale bersaglio, ad esempio un enzima o un anti-recettore virale, deve svolgere

un ruolo rilevante nei meccanismi patogenetici e replicativi del patogeno e deve

verosimilmente consentire lo sviluppo di un farmaco dotato di tossicità selettiva nei suoi

confronti.

In seguito bisogna confermare la validità del bersaglio, in altre parole fornire la

cosiddetta prova del principio: le recenti innovazioni tecnologiche permettono di

inattivare singoli geni nel contesto di un genoma virale o di bloccarne l’espressione

consentendo di verificare direttamente le disponibilità di una proteina virale e il suo

ruolo nel processo patogenetico. Questi approcci sperimentali possono confermare con

buona approssimazione la validità del bersaglio proposto.

A questo punto si allestisce il saggio biologico più appropriato per analizzare

una serie di molecole (derivanti dall’archivio di composti chimici, prodotti della

chimica combinatoriale, fonti naturali o molecole endogene) che potrebbero inibire il

bersaglio. Al termine di questo processo si arriva ad identificare i “lead compounds”,

vale a dire molecole che potrebbero essere efficaci candidati per le successive fasi di

ricerca.

In seguito si realizzano una serie di esperimenti in vitro su modelli cellulari e

quindi in vivo su modelli animali, al fine di valutare e ottimizzare le caratteristiche

farmacocinetiche e la tossicità dei composti: al termine di questa fase verranno

identificate le molecole candidate per le successive fasi di sviluppo (da migliaia di

molecole di partenza si otterranno al massimo due, tre molecole ottimali).

Il processo di sviluppo clinico di un farmaco comprende quattro fasi, realizzate

sull’uomo:

- Fase I: viene in genere realizzata su una decina di soggetti sani e volontari (ad

eccezione dei farmaci antineoplastici e dei prodotti biotecnologici), ricoverati in idonee

unità attrezzate e sotto la sorveglianza di personale medico; comprende lo studio della

farmacocinetica, della tollerabilità e del metabolismo del farmaco.

- Fase II: gli studi sono eseguiti su 200-400 pazienti, il più possibile omogenei, al fine

di confermare l’efficacia terapeutica e la tollerabilità del farmaco. Come trattamenti di

controllo si utilizzano il placebo e un farmaco sicuramente attivo già presente in

commercio.

- Fase III: consiste nell’estensione degli studi controllati a casistiche più ampie e meno

selezionate per una più accurata determinazione dell’efficacia terapeutica e della

tollerabilità. Spesso tali studi sono multicentrici, al fine di assicurare una maggiore

variabilità delle casistiche.

- Fase IV: comprende tutti gli studi eseguiti dopo la commercializzazione del farmaco.

Si propone di individuare eventi avversi anche gravi, ma rari, non legati all’attività

farmacologica specifica della sostanza, ma soprattutto a condizioni particolari di

reattività del singolo paziente (Ongini, 2001).

Sviluppo di un farmaco anti HPV: presupposti

Per capire se è possibile sviluppare un farmaco anti HPV, così come per altri

antivirali, è necessario soddisfare alcune esigenze sia commerciali sia virologiche.

Per quanto riguarda le esigenze commerciali, deve esserci una richiesta sul

mercato e il farmaco deve produrre un profitto. Per adempiere alle esigenze virologiche

di un farmaco antivirale bisogna invece fornire la prova del principio.

La necessità medica di avere un farmaco anti HPV è sicuramente molto elevata.

Infatti gli HPV sono stati inclusi nella lista degli agenti carcinogenici di gruppo 1

dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC), essendo la principale

causa di tumori anogenitali. In particolare HPV-16 si riscontra nel 60% delle neoplasie

maligne, HPV-18 nel 10-12%, HPV-31 e HPV-45 nel 4-5% dei casi. Il test di

“screening” di Papanicolaou ha significativamente ridotto l’incidenza dell’infezione nei

paesi industrializzati, ma in molti paesi questo tipo di cancro è una delle principali cause

di morte.

L’incidenza del cancro alla cervice uterina, nel mondo, è di circa 470 600 nuovi

casi l’anno, mentre in Italia è di 3500; la mortalità nel mondo è di 233 400, in Italia di

1500.

Le terapie disponibili sono poche e di tipo ablativo: rimozione dell’utero,

conizzazione, isterectomia. Non esiste un farmaco e tutti gli approcci sono ad elevato

grado di ricorrenza, nel senso che il virus non viene in realtà eliminato.

In base ad una recente analisi di mercato, effettuata dall’agenzia

DATAMONITOR, si riscontra la forte esigenza di sviluppare, nel corso dei cinque,

dieci anni futuri, prodotti non invasivi per il trattamento di infezioni da HPV, che

vengano poi commercializzati gradualmente.

In primo luogo, le aziende farmaceutiche Merck & GSK attualmente stanno

sviluppando i vaccini profilattici anti HPV, soprattutto attivi contro i tipi 16 e 18. In

base alle popolazione destinatarie di questo vaccino, DATAMONITOR crede che

l'immunizzazione potrebbe fornire un mercato potenziale di 1-3 miliardi di dollari.

Tuttavia si ritiene che, accanto a strategie profilattiche, sarebbe necessario

possedere un farmaco (antivirale o biologico) che abbia come bersaglio terapeutico

direttamente HPV, che potrebbe fruttare un guadagno annuale di 1.4 bilioni di dollari

all’interno dei sette maggiori mercati mondiali (www.piribo.com).

Nel loro insieme queste considerazioni giustificano la necessità di un processo di

ricerca e sviluppo di un farmaco antivirale per i trattamenti dei carcinomi anogenitali

associati all’infezione da HPV ad alto rischio.

Individuazione del bersaglio

Nel corso degli ultimi anni, grazie al miglioramento delle tecniche

biotecnologiche, sono stati compresi maggiormente i meccanismi patogenetici di HPV e

sono iniziati gli studi per la messa a punto di farmaci antivirali e vaccini. Tuttavia i

problemi rimangono molti, per diverse ragioni: HPV non cresce in colture cellulari

standard e conseguentemente non è possibile ottenere virus a elevato titolo; questo

impedisce l’allestimento dei classici saggi antivirali, quali ad esempio i sistemi per

inibire polimerasi o proteasi, che tradizionalmente costituiscono dei bersagli selettivi

per i farmaci antivirali. Infine l’infezione latente non si risolve.

Sia le proteine E6 e E7 che E1 e E2, rappresentano dei potenziali bersagli di

farmaci antivirali. Tuttavia ci sono una serie di ostacoli per il loro sviluppo.

Dal punto di vista strutturale, è noto che E6 e E7 legano rispettivamente due e

uno ione zinco, dando origine a strutture a dita di zinco con una dimensione anomala di

29 aminoacidi, ma non è ancora stata determinata la struttura di nessuna di queste due

proteine mediante risonanza magnetica nucleare e spettroscopia o cristallografia a raggi

x e questo rappresenta un ostacolo importante per lo sviluppo di un farmaco. E’ tuttavia

possibile sfruttare le proprietà di queste proteine per legare ioni zinco e interagire con

ligandi cellulari per la messa a punto di saggi ad alta resa, quantificando l’effetto di

piccole molecole sul rilascio di ioni zinco da E6 e E7 (Beerheide et al., 1999).

Un altro problema riguarda il fattore di trascrizione virale E2. Esso è un

bersaglio per alcuni aspetti inadeguato, in quanto presenta funzioni sia di attivatore sia

di repressore e potrebbe non essere possibile determinare quale di queste due funzioni

sia alterata da un farmaco. Tuttavia si è visto che in cellule di cancro alla cervice uterina

infettate con un virus ricombinante esprimente E2, quest’ultimo lega il promotore

precoce di HPV, reprimendo la trascrizione di E6 e E7, con conseguente stabilizzazione

di p53 e delle altre proteine che controllano il ciclo cellulare. E1 invece è un bersaglio

più adatto in quanto è il principale regolatore della replicazione virale, presenta attività

ATPasica ed elicasica. Potrebbe pertanto essere sfruttato in saggi di “screening” per

l’individuazione di molecole antivirali. Tuttavia nessun tentativo di inibire E1 o E2 ha

data fino ad ora buoni risultati e inoltre, dato che queste due proteine non sono espresse

quando il virus si presenta in forma integrata nel genoma cellulare, la loro inibizione

rappresenterebbe un approccio funzionante solo per infezioni virali produttive. E6 e E7

risultano quindi il bersaglio più adatto per lo sviluppo di un farmaco anti HPV, ma

occorre fornire la prova del principio, al fine di dimostrare che l’inibizione

dell’espressione di E6 e E7 modifica effettivamente il fenotipo trasformato (Bernard et

al., 2004).

La prova del principio

Esiste un’ampia letteratura in cui si descrive come, in molti casi, i trascritti di E6

e E7 siano stati efficacemente inibiti in vitro mediante macromolecole come ribozimi,

attameri e “RNA interference” (siRNA), con conseguente diminuzione della crescita di

linee cellulari HPV positive. Il problema comune di questi approcci, basati sullo

sviluppo di macromolecole e subunità terapeutiche biodegradabili, consiste nel riuscire

ad indirizzare questi composti in specifici siti anatomici a concentrazioni attive dal

punto di vista terapeutico, superando i blocchi imposti dal sistema immunitario.

Per quanto concerne le strategie d’inibizione basate sui ribozimi, è interessante

analizzare lo studio effettuato dal gruppo di ricerca di Chen (Chen et al., 1996). Tre

ribozimi diretti contro l’RNA di HPV-18 sono stati clonati in un vettore di espressione

plasmidico. Ogni plasmide è stato in seguito trasfettato in cellule HeLa HPV-18 positive

e in cellule non esprimenti HPV, come cellule Tu167 di cancro orale. L’effetto dei

ribozimi sulle cellule HeLa è una notevole riduzione della crescita (particolarmente

efficace è il ribozima diretto contro il nucleotide 309 del trascritto di HPV-18) e un

aumento della dipendenza verso i fattori di crescita. Una molecola con la stessa

sequenza antisenso del ribozima, ma priva della subunità catalitica altera in misura

minore il fenotipo delle HeLa. L’effetto dei ribozimi deve essere attribuito all’aumento

della concentrazione intracellulare di p53.

Un altro sistema per inibire l’espressione delle oncoproteine di HPV è basato

sull’uso di attameri, molecole peptidiche selezionate per legarsi, in vivo, a una proteina

bersaglio e bloccarne selettivamente l’attività intracellulare, in modo tale da valutare le

conseguenze dell’inattivazione di una proteina nel suo contesto cellulare naturale. Per

isolare molecole in grado di legare la proteina E6 di HPV-16 è stata analizzata una

libreria di attameri peptidici, attraverso una variante della tecnica del doppio ibrido, in

un ceppo di lievito. Sono stati ottenuti 17 attameri, la cui specificità per E6 e per altre

proteine (come E7) è stata testata mediante saggi d’ibridazione. Alcuni sono specifici

inibitori di E6 di HPV16, altri sono attivi anche su E6 di altri HPV. Per analizzare il

legame degli attameri a E6 in vitro è stato eseguito un “GST pull down”: alcuni attameri

non legano E6 in vitro, mentre in vivo presentano importanti effetti biologici,

probabilmente a causa di un’ alterata conformazione della proteina in vitro. Le

conseguenze dell’espressione di attameri su colture cellulari sono state valutate

attraverso un saggio di formazione di colonie e un “TUNEL”. Si osserva che solo un

numero limitato di attameri inibisce la crescita di colonie e induce apoptosi, nonostante

siano numerosi gli attameri in grado di legarsi a E6. Questo potrebbe essere dovuto a

una minore affinità di alcuni attameri rispetto ai ligandi cellulari di E6, oppure al fatto

che tali attameri si legano a domini di E6 non coinvolti nell’inibizione della crescita

cellulare. Infine si è visto che l’inibizione di E6 si associa a un aumento di p53 in

cellule HPV16 positive. Lo svantaggio degli attameri, che si è cercato di risolvere con

siRNA, è di possedere un’attività in vitro non molto prolungata (Butz et al., 2000).

Per quanto riguarda la tecnologia dell’”RNA interference”, è stato realizzato uno

studio dal gruppo di ricerca guidato da F. Hoppe-Seyler (Butz et al., 2003) per inibire

selettivamente l’ oncoproteina E6 in cellule HeLa HPV18 positive. Il vettore contenente

la sequenza da inibire (pSUPER18E6, specifico per una sequenza di 19 nucleotidi

all’interno dell’ORF codificante per E6) è stato trasfettato nelle cellule con il sistema

della precipitazione con calcio fosfato. Per studiare il grado d’inibizione di E6 è stata

effettuata una RT-PCR: si osserva una notevole riduzione dei livelli di E6, a

dimostrazione della specificità del costrutto. E’ stata poi valutata l’espressione di p53,

un noto inibitore di E6 e di p21, attivata da p53. Si osserva un notevole aumento sia di

p53 (in quanto non è più degradata da E6), sia di p21, a dimostrazione che p53 è anche

funzionale. I livelli di E7 sono invece normali, a dimostrazione della selettività del

vettore pSUPER18E6. Per studiare le conseguenze dell’inibizione di E6 sulla crescita

cellulare è stato effettuato un saggio che analizza la formazione delle colonie: la

capacità di formare colonie di cellule HeLa HPV-18 positive trasfettate con

pSUPER18E6 è completamente alterata, mentre su cellule prive di HPV il vettore non

ha effetto. Attraverso il saggio TUNEL si è visto inoltre che l’inibizione di E6 con

siRNA supera la resistenza delle cellule cancerose all’apoptosi. Questa strategia

d’inibizione è più vantaggiosa rispetto alla tecnica dell’antisenso, attraverso la quale si

osserva solo una certa diminuzione della crescita, ma non un’induzione così marcata di

apoptosi. Il principale ostacolo da superare per l’utilizzo di siRNA in terapia consiste

nel trovare efficienti sistemi di trasferimento dei vettori e nel superare i blocchi del

sistema immunitario.

Un altro tipo di approccio per l’inibizione dell’espressione delle oncoproteine E6

e E7 di HPV è stato far esprimere in modo ectopico la proteina E2 di HPV in cellule

HeLa HPV-18 positive. Quando il genoma virale è presente in forma episomale nella

cellula, E2 si lega al promotore virale precoce del virus, regolando negativamente

l’espressione delle oncoproteine E6 e E7. Tuttavia durante il processo di integrazione

del DNA virale in quello cellulare, l’ORF codificante per la proteina E2 viene persa,

con alterazione della regolazione di E6 e E7 e conseguente overespressione delle

oncoproteine. E’ stato dimostrato che l’espressione ectopica della proteina E2 bovina in

linee di carcinoma cervicale reprime l’espressione degli oncogeni E6 e E7 con

conseguente induzione di senescenza cellulare e ripristino dei meccanismi di

segnalazione intracellulare mediati dalle proteine p53 e pRb (Goodwin et al., 2000;

Wells et al., 2000; DeFilippis et al., 2003).

Sulla base dei risultati ottenuti da questi e da altri lavori, è possibile affermare

che l’inibizione dell’espressione o dell’attività delle oncoproteine E6 e E7 rappresenta

un valido bersaglio farmacologico.

Sviluppo di saggi per lo “screening” di antivirali

Nel corso degli anni ’60 e ’70, sulla scia del successo ottenuto nella cura delle

infezioni batteriche attraverso l’uso di antibiotici, le aziende farmaceutiche intrapresero

un programma di “screening” alla “cieca” (il cosiddetto “blind screening”), allo scopo

di individuare composti chimici dotati di attività antivirale. Tale approccio era poco

efficace, poiché non veniva identificato a priori un meccanismo o un enzima da inibire.

Di conseguenza i successi ottenuti furono pochi, ad eccezione della scoperta della

Amantadina, approvata alla fine degli anni ’60 per il trattamento del virus dell’influenza

A. In realtà, il meccanismo di inibizione di questi prodotti spesso non era noto (nel caso

specifico dell’Amantadina, solo intorno al 1990 ne fu compreso il meccanismo

d’azione).

Con l’introduzione della tecnologia del DNA ricombinante, i sistemi di

“screening” alla “cieca” sono stati abbandonati. I geni essenziali alla crescita del virus

possono essere identificati, clonati ed espressi in organismi e i prodotti dei geni virali

possono essere purificati e analizzati a livello molecolare. In questo modo è possibile

effettuare una ricerca del composto farmacologicamente attivo mirata a uno specifico

bersaglio virologico. Sono stati quindi sviluppati saggi di “screening” basati sul

meccanismo e saggi cellulari (“mechanism-based screens” e “cell-based screens”),

caratterizzati dal fatto che i loro bersagli sono enzimi codificati dal virus o processi

replicativi virali.

Nel corso degli anni ’90, grazie ai numerosi progressi scientifici e alle pressioni

economiche per la riduzione dei costi di sviluppo (al fine di ottenere un aumento della

competitività tra le case farmaceutiche), è emersa la necessità di migliorare le

metodiche di “screening” per la messa a punto di nuovi farmaci. Sono stati così

sviluppati nuovi sistemi di screening, i cosiddetti saggi “high-throughput”. Si tratta di

saggi basati sul meccanismo o saggi cellulari, attraverso i quali è possibile saggiare un

altissimo numero di composti, in modo automatizzato, per valutarne l’attività di

attivatori o inibitori di un particolare bersaglio biologico, come nel caso di recettori di

superficie o enzimi metabolici.

E’ cresciuto il numero di potenziali bersagli terapeutici, derivati da studi di

genomica funzionale e sono state realizzate librerie di composti da analizzare, derivati

dalle tecniche di sintesi, parallele e combinatoriali, di molecole chimiche. La stima del

numero di geni che compongono il genoma umano (circa 30 000) e il numero di singole

strutture chimiche ottenibili in linea teorica usando le metodiche attualmente disponibili

(circa 100 milioni) indicano che sarebbero necessari più di 1012 saggi per la mappatura

completa dei possibili bersagli terapeutici, a livello strutturale e funzionale.

Inizialmente si osservava una maggiore tendenza all’adozione di piastre a 96

pozzetti e di sistemi robotizzati, liquidi e su piastra. Molti gruppi di ricerca tendono ora

a preferire formati con piastre a 384 pozzetti, a densità più elevata e volumi più ridotti.

Un tipico programma di screening ad alta resa, all’interno di industrie farmaceutiche,

opera nell’ordine di 10 000 composti esaminati al giorno; nel caso di laboratori che

lavorano con sistemi “ultra-high-throughput”, si ragiona invece con dimensioni

dell’ordine di 100 000 molecole al giorno.

Per andare incontro alla necessità di ridurre i costi di sviluppo e di manodopera,

si è verificata una tendenza alla miniaturizzazione dei saggi, simultaneamente alla loro

automatizzazione. La miniaturizzazione riduce la quantità di reagenti chimici e biologici

necessari e facilita l’analisi parallela di numerosi campioni. Per rendere possibile tutto

questo sono stati seguiti due approcci generali: in primo luogo, sistemi basati su piastra

sono stati sostituiti da sistemi basati su pozzetti a maggiore densità e minore volume;

successivamente sono stati progettati dispositivi che rendono possibile la continua

realizzazione delle analisi di screening.

I tentativi di raggiungere un’adeguata automazione, miniaturizzazione ed alta

resa ha avuto come conseguenza l’aumento dell’enfasi nello sviluppo di formati più

omogenei e di tecniche di rilevazione a maggiore sensibilità. Ad esempio, i saggi

omogenei “mix and measure” sono adatti per soddisfare l’elevata resa, in quanto

permettono di evitare i passaggi di filtrazione, separazione, lavaggio, molto laboriose e

difficili da automatizzare.

Un’altra possibilità è la costruzione di un farmaco anche in base a studi

strutturistici. Questo dipende dal fatto di possedere la struttura atomica del bersaglio

d’inibizione, spesso ottenuta con raggi x o cristallografia. E’ così possibile costruire

ligandi che legano il sito attivo dell’enzima o un altro punto critico e ne inibiscono

l’attività. Con questo sistema sono stati progettati, ad esempio, inibitori della proteasi di

HIV.

Stanno assumendo una sempre maggiore importanza le tecniche di rilevazione

basate sulla fluorescenza, grazie alla loro elevata sensibilità e viene sempre più

abbandonato l’uso di radioisotopi. Un notevole contributo è stato dato dalla messa a

punto di saggi basati sulla tecnologia dei geni “reporter”.

Tecnologia dei geni “reporter”

La tecnologia dei geni “reporter” è ampiamente sfruttata per monitorare gli

eventi cellulari associati ai meccanismi di trasduzione del segnale e di espressione

genica.

Il termine “gene reporter” è utilizzato per definire un gene con un fenotipo

facilmente distinguibile rispetto alle proteine endogene. L’attività di questi geni può

essere controllata da precise sequenze regolatorie, responsive all’alterazione delle

condizioni all’interno di cellule ospiti. Ad esempio, segnali extracellulari sono rilevati

dai diversi tipi di recettori presenti sulla superficie cellulare, i quali permettono

l’attivazione di un meccanismo di trasduzione del segnale, attraverso il reclutamento di

fattori di trascrizione che, dopo essersi legati a specifiche sequenze responsive sul

DNA, attivano la trascrizione del gene. Per capire la relazione tra l’attivazione e

l’inibizione delle diverse vie e i loro effetti sull’espressione genica, sono stati fusi

specifici elementi responsivi del gene di interesse con geni codificanti per proteine

“reporter”.

L’unità “reporter” è formata dal promotore e dal gene “reporter”. Il promotore

lega fattori di trascrizione attivati in risposta a una cascata di attivazione del segnale. Il

legame con il fattore di trascrizione rende possibile l’espressione del gene “reporter.

Spesso vengono utilizzati promotori endogeni, quali c-fos, ma è necessario prestare

attenzione ai diversi tipi di segnali che possono attivare il promotore e quindi falsificare

i risultati del saggio. I promotori che contengono un unico sito di legame per fattori di

trascrizione, come CRE (“cAMP responsive element”), riducono i rischi di interferenza,

anche se sono sottoposti all’azione di segnali endogeni. Una valida alternativa è

utilizzare promotori che non leghino fattori di trascrizione nativi del sistema cellulare in

studio, quali Gal4 di lievito: viene trasfettato il dominio di legame per i fattori di

trascrizione di Gal4, accoppiato a un dominio regolatore e al gene “reporter”, la cui

espressione è regolata da elementi responsivi a Gal4.

I geni reporter maggiormente utilizzati sono descritti in tabella 1. In generale

hanno il vantaggio di presentare una bassa attività di fondo nelle cellule e di amplificare

i segnali provenienti dalla superficie cellulare per produrre una risposta molto sensibile

e facilmente rilevabile. La scelta del “reporter” dipende dalla linea cellulare utilizzata,

dal tipo di esperimento e dal sistema di rilevazione. I geni “reporter” attualmente

disponibili sono classificati in geni intracellulari ed extracellulari. I geni intracellulari

(ad esempio CAT, β-galattosidasi, GFP, luciferasi) sono prodotti e trattenuti nelle

cellule; i geni extracellulari (quali fosfatasi alcalina, β-lattamasi) codificano per proteine

che sono secrete nel mezzo di coltura: pertanto è possibile rilevare la proteina “reporter”

nel mezzo di coltura senza alterare la cellula (New et al., 2003).

Gene reporter Vantaggi Svantaggi

CAT

(“Chloramphenicol

acetyltransferase”, batterico)

Non presenta attività endogena;

disponibile test ELISA

automatizzato.

Uso di radioisotopi.

β-Galattosidasi (batterica)

Ben caratterizzata; stabile; sono

disponibili saggi bio o

chemioluminescenti

Attività endogena in cellule di

mammifero.

Luciferasi (lucciola)

Attività specifica; non presenta

attività endogena; conveniente.

Richiede un substrato, O2 e

ATP.

Luciferasi (batterica)

Adatta per l’analisi della

trascrizione genica in procarioti.

Meno sensibile rispetto alla

luciferasi di lucciola; non adatta

all’uso in cellule di mammifero.

Fosfatasi alcalina

(placenta umana)

Proteina secreta; sono

disponibili saggi colorimetrici

poco costosi e saggi

luminescenti molto sensibili.

Attività endogena in alcune

cellule; interferisce con i

composti che devono essere

testati.

GFP

(“Green fluorescent protein”)

Autofluorescente (non necessità

di un substrato); non presenta

attività endogena.

Richiede modifiche post

traduzionali; bassa sensibilità

(non c’è amplificazione del

segnale).

Per la realizzazione del saggio cellulare descritto in questa tesi è stato utilizzato

come gene “reporter” la luciferasi di lucciola (Photinus pyralis). Si tratta di una

famiglia di enzimi che catalizzano l’ossidazione di diversi substrati (come la proteina

luciferina), emettendo luce. La quantità di luce emessa è proporzionale all’attività

dell’enzima e fornisce un’indicazione immediata relativa all’attività trascrizionale del

Tabella 1: Geni reporter maggiormente utilizzati.

promotore del gene e che ne guida l’espressione. Esistono diversi tipi di luciferasi: la

luciferasi batterica, ad esempio, è una proteina dimerica, labile al calore, che la rende

meno adatta all’uso in cellule di mammifero. La luciferasi della lucciola è uno dei

principali geni “reporter” utilizzati in cellule di mammifero, per la sua elevata

sensibilità (10-20 moli di enzima). I problemi di quest’ultimo tipo di luciferasi derivano

dal fatto che è necessaria la lisi della cellula prima dell’aggiunta del substrato luciferina

e il fascio di luce emessa dura pochi secondi. Tuttavia, l’uso di membrane permeabili e

di esteri di luciferina lisabili dalla luce ha risolto il problema della lisi cellulare. Sono

inoltre disponibili reagenti che prolungano la vita media del fascio di luce per diverse

ore, rendendo possibile l’applicazione di questo saggio su formati multi pozzetto. La

luciferasi “Renilla” è particolarmente adatta per saggi su cellule viventi, in quanto

catalizza l’ossidazione della celenterazina, che è permeabile alla membrana. Tutte le

luciferasi non presentano attività endogena in cellule di mammifero.

La tecnologia dei geni “reporter” è stata applicata in numerosi settori di studio,

quali:

Analisi dei promotori: la tecnologia dei geni reporter è stata utilizzata in un

primo momento soprattutto per lo studio della responsività di promotori e “enhancer”

situati a monte dei geni. Questo sistema è stato utilizzato, ad esempio, per lo studio di

fattori di trascrizione responsabili dell’espressione basale e tessuto specifica di alcuni

recettori (es. β2 adrenergici, recettore di LH, IL-2 ecc...), delle sequenze responsive a

diversi ormoni, al calcio, all’ossido nitrico e ad altre sostanze.

Trasferimento genico: i geni reporter sono stati utilizzati come marcatori del

trasferimento genico effettuato attraverso diverse tecniche di trasformazione. A questo

scopo si utilizzano vettori contenenti il “reporter” e il gene di interesse. Esempi di tale

applicazione sono la tecnologia del FACS (“Fluorescence activated cell sorting”), che

permette di rilevare il trasferimento di geni utilizzando come marcatore la GFP. I geni

“reporter” sono anche utilizzati nel monitoraggio dell’espressione genica in animali e

piante transgeniche e nel campo della terapia genica, per il trattamento di malattie quali

Parkinson, fibrosi cistica e cancro.

“Imaging” dell’espressione genica: storicamente l’organizzazione spaziale

dell’espressione genica in piante e animali veniva determinata usando saggi

colorimetrici o basati sulla fluorescenza, che utilizzavano come marcatori la β-

glucuronidasi e la β-galattosidasi. Tuttavia lo sviluppo della GFP e della luciferasi come

marcatori non invasivi dell’espressione genica, in associazione a tecnologie quali la

microscopia a fluorescenza, ha reso possibile l’acquisizione di informazioni temporali e

spaziali dell’espressione genica anche a livello della singola cellula. E’ possibile

identificare la localizzazione subcellulare, l’interazione tra specifiche proteine,

l’interazione tra diverse proteine nello stesso istante, compresi i cambiamenti nel loro

ambiente in risposta a eventi intra o extra cellulari.

“Screening” a elevata resa: l’applicazione della tecnologia dei geni “reporter” a

sistemi di “screening” ad alta resa ha permesso l’utilizzo dei saggi cellulari come valida

alternativa ai saggi biochimici in vitro. Il principale vantaggio di questi saggi è che

riproducono in parte le condizioni fisiologiche e forniscono informazioni riguardanti la

biodisponibilità e la tossicità del composto; la possibilità di mantenere queste cellule in

coltura per molte settimane permette un’osservazione a lungo termine dei cambiamenti

adattativi associati alla resistenza ai farmaci e agli effetti collaterali.

Caratterizzazione di recettori: la tecnologia dei geni “reporter” è stata utilizzata

per la clonazione, l’espressione funzionale e la caratterizzazione di recettori di

membrana e intracellulari. Questo ha reso possibile l’identificazione di ligandi agonisti

e antagonisti che alterano l’attività recettoriale in cellule viventi. Il principale vantaggio

dei saggi cellulari con i geni reporter è la loro adattabilità a strategie a elevata resa, non

radioattive e semplici da realizzare. Tali saggi sono effettuati su piastre a 96 o 384

pozzetti e sono spesso associati a sistemi computerizzati. Questo permette l’analisi di

milioni di composti con potenziale interesse terapeutico per le aziende farmaceutiche.

Sarà inoltre possibile identificare nuovi bersagli terapeutici, coinvolti nei meccanismi

patogenetici di numerose malattie (Naylor, 1999).

Chimica combinatoriale

Una possibile risposta alle sempre crescenti esigenze imposte dal mercato

farmacologico, è rappresenta dalla chimica combinatoriale. Si tratta di un procedimento

che permette la sintesi di un gran numero di sostanze (anche milioni di molecole)

strutturalmente correlate, che vengono poi esaminate al fine di individuare quelle di

potenziale utilità terapeutica, da avviare alla sperimentazione clinica. La sintesi non è

casuale: infatti, essendo note le caratteristiche delle sostanze di partenza, ci si può

attendere che i prodotti finali possiedano le proprietà desiderate. I tempi e i costi del

processo sono notevolmente inferiori rispetto a tutti gli approcci precedentemente usati.

Gli insiemi (o biblioteche) di composti combinatori da sperimentare vengono

realizzati in modo relativamente semplice. Ci si basa su reazioni chimiche standard per

assemblare specifici gruppi di unità strutturali fino a ottenere un’enorme varietà di

molecole più grandi. Ad esempio, si possono considerare quattro molecole: A1, A2, B1,

B2. Le molecole A1 e A2 sono strutturalmente correlate e si definiscono come

appartenenti alla stessa classe di composti; B1 e B2 derivano invece da una seconda

classe. Supponiamo che queste due classi di composti possano reagire per formare una

nuova molecola, una variante della quale potrebbe essere un farmaco efficace. Le

tecniche combinatorie ci permettono di costruire tutte le possibili combinazioni: A1-B1,

A1-B2, A2-B1 e A2-B2. In realtà il ricercatore lavora con un numero di molecole molto

maggiore.

Le tecniche combinatorie attualmente disponibili sono fondamentalmente di due

tipi. La prima, nota come sintesi parallela (Figura 2), fu introdotta a metà degli anni

’80 da H. M. Geysen.

Tutti i prodotti vengono assemblati separatamente, in recipienti di reazione

distinti. A questo scopo si utilizza una micropiastra da

titolazione, munita di pozzetti (tipicamente 96 pozzetti),

che sono parzialmente riempiti con una soluzione

contenente sferette inerti di polistirene (pallini grigi in

figura 2). Si aggiunge il primo insieme di molecole

(gruppo A-quadrati-, ad esempio diversi tipi di ammine)

alle sferette e si filtra il contenuto di ogni pozzetto per

eliminare le sostanze che non hanno reagito (cioè che

non si sono fissate alle sferette). Si unisce il secondo

insieme di molecole (gruppo B –triangoli-, ad esempio

diversi acidi carbossilici), quindi si filtra per eliminare il

materiale che non ha reagito. Una volta prodotta una

biblioteca di 96 composti, si staccano le strutture finali

dalle sferette per poterne analizzare l’attività biologica.

Sebbene le reazioni chimiche necessarie per legare i

composti alle sferette e per poi staccarli introducano una

complicazione nel processo di sintesi, la disponibilità di

Figura 2: Sintesi parallela (Le Scienze quaderni n. 102, 1997).

semplici metodi di purificazione consente di superare questi problemi. Oggi in molti

laboratori apparecchiature robotizzate sono d’aiuto nel lavoro di routine della sintesi

parallela, per esempio introducendo piccole quantità di molecole reattive nel pozzetto

opportuno, al fine di rendere più veloce e accurato il processo.

La seconda tecnica per generare una biblioteca di composti è conosciuta come

sintesi “taglia e mescola” (Fig. 3).

Fu introdotta nella seconda metà degli anni ’80

da Arpad Furka. A differenza della sintesi parallela,

nella quale ogni composto rimane nel proprio recipiente,

la sintesi “taglia e mescola” genera una miscela di

composti correlati all’interno dello stesso contenitore.

Questo metodo riduce il numero di recipienti necessari e

aumenta il numero di composti che si possono ottenere

(fino a diversi milioni). Tuttavia, prendere in

considerazione un numero così elevato di prodotti e

provarne l’attività biologica può diventare assai

complicato. Si inizia con provette riempite con una

soluzione di sferette inerti di polistirene. Si aggiunge il

primo insieme di molecole (gruppo A) alle provette,

mettendo le molecole A1 nella prima provetta, le

molecole A2 nella seconda e così via.

Figura 3: Sintesi “taglia e mescola”(Le Scienze quaderni n. 102, 1997).

Successivamente si uniscono i contenuti di tutte le provette. Si divide la miscela

in parti uguali, quindi si aggiunge la seconda serie di molecole (gruppo B), mettendo la

molecola B1 nella prima provetta, B2 nella seconda e così di seguito. Si separano le

sferette dal materiale non reagito e si staccano le strutture finali.

Spesso si analizza il contenuto di ogni provetta per determinare l’attività

biologica media della miscela. Poiché ogni miscela è costituita dagli stessi componenti

finali, è possibile individuare la variante che funziona meglio. A questo punto si ripete

la sintesi, aggiungendo solo il composto più potente (ad esempio B2) in nuove provette

contenenti i composti dell’altro gruppo (A), per capire quale delle combinazioni A-B2

sia la più attiva biologicamente. Molte industrie farmaceutiche hanno automatizzato

anche questa tecnica, attraverso l’uso di sistemi robotizzati che introducono reagenti ed

effettuano le operazioni di miscelatura. Sono stati inoltre ideati sistemi che rendono

possibile l’identificazione del composto reattivo in una miscela di molti prodotti. E’

stato visto che, alla fine di una sintesi, tutte le molecole fissate a una singola sferetta

hanno la stessa struttura. E’ pertanto possibile separare dalla miscela le sferette che

recano molecole biologicamente attive e poi, attraverso tecniche di rilevazione molto

sensibili, determinare la struttura molecolare dei composti fissati. Purtroppo questo

sistema funziona solo per certi composti, come peptidi e piccoli frammenti di DNA.

Altri ricercatori hanno messo a punto sistemi per addizionare a ciascuna sferetta un

tracciante chimico, che indica essenzialmente l’ordine con cui specifiche unità sono

state aggiunte alla struttura. Nonostante questi metodi innovativi, a causa delle difficoltà

nell’identificazione dei composti realizzati attraverso la sintesi “taglia e mescola”,

attualmente la maggior parte delle industrie farmaceutiche continua ad affidarsi alla

sintesi parallela.

La chimica combinatoriale ha dato validi risultati nell’applicazione alle

benzodiazepine, importanti farmaci che modulano positivamente il recettore GABAA.

Dato l’ampio spettro delle loro attività (ansiolitiche, anti convulsivanti, ipnotico

sedative…) le benzodiazepine furono i primi composti sottoposti a sintesi combinatoria

per la ricerca di nuovi farmaci. Successivamente le industrie farmaceutiche hanno

applicato le tecniche di chimica combinatoria a un’ampia gamma di sostanze di

partenza. In generale, i chimici utilizzano biblioteche combinatorie di piccole molecole

organiche come fonte di composti guida promettenti o per ottimizzare l’attività di un

composto già identificato. Questa tecnica potrebbe quindi essere efficacemente sfruttata

per la realizzazione di molecole in grado di inibire selettivamente l’attività di HPV

(Plunkett et al., 1997).

SCOPO DEL LAVORO

Gli HPV ad alto rischio sono carcinogeni umani di gruppo I e rappresentano la

principale causa di tumori alla cervice uterina. I meccanismi patogenetici attraverso i

quali gli HPV inducono la progressione maligna delle cellule infettate sono stati chiariti

in modo esaustivo e implicano il coinvolgimento delle oncoproteine virali E6 e E7, le

quali sono responsabili del mantenimento del fenotipo cellulare trasformato.

Tuttavia, non sono attualmente disponibili farmaci per il trattamento di questi

tumori e la terapia è prevalentemente di tipo chirurgico. La necessità clinica, le

considerazioni relative al mercato potenziale, l’esistenza di un bersaglio farmacologico

validato, indicano che la ricerca e lo sviluppo di un farmaco antivirale per il trattamento

dei tumori associati all’infezione da HPV ad alto rischio è necessario, vantaggioso e

fattibile.

Pertanto l’obiettivo di questa tesi è stato sviluppare e validare un saggio

cellulare, che permetta l’analisi ad alta resa di banche di molecole sintetiche o

biologiche al fine di identificare inibitori dell’espressione delle oncoproteine E6 e E7 di

HPV ad alto rischio.

Inoltre, per verificare se il saggio da noi sviluppato potesse essere realmente

utilizzato in un processo di “screening”, abbiano intrapreso un progetto dimostratore

volto ad identificare fattori inibitori in una collezione di 32 citochine appartenenti a

diverse classi funzionali.

MATERIALI E METODI

Linee cellulari e plasmidi

Per la realizzazione degli esperimenti sono state utilizzate le cellule HaCat, una

linea cellulare di cheratinociti umani spontaneamente immortalizzati e la linea cellulare

CaSki, che deriva da un carcinoma cervicale umano positivo per HPV-16.

Entrambe le linee cellulari sono state coltivate nel terreno EAGLE modificato da

Dulbecco (DMEM) (Gibco-BRL), contenente 0,06 mg/ml di gentamicina, 2 mM di

glutammina ed il 10% di siero di vitello (Gibco-BRL); le cellule sono state mantenute a

37°C e al 5% di CO2.

Sono inoltre state utilizzate le cellule P13 e P21, cloni stabili derivati da cellule

HaCat, coltivati in un terreno a cui sono stati aggiunti 0.2 mg/ml di antibiotico G418

(Gibco-BRL) per la selezione.

Il plasmide “reporter” pALuc HPV-16 LCR contiene la sequenza LCR completa

(compresa tra i nucleotidi 7009 e 7024) del ceppo di riferimento europeo di HPV-16

(HPV-16R, contenuto nella banca dati di HPV), clonata a monte del gene della

luciferasi della lucciola. pSTneoB è un vettore di espressione per cellule di mammifero,

che conferisce resistenza all’antibiotico G418.

Citochine

Per la realizzazione degli esperimenti sono state utilizzate le seguenti citochine:

Activina A, GDF-15, GM-CSF, IL-1β, IL-3, IL-4, IL-6, IL-7, IL-8 (CXCL8), IL-9, IL-

10, IL-11, IL-13, IL-15, IL-17, IL-18, IL-19, IL-20, IL-21, IL-22, I-309 (CCL1), IP-10

(CXCL10), IFN α, β, γ, LEC (CCL16), MIP1α (CCL3), MIP1β (CCL4), NAP-2

(CXCL7), SDF-1 (CXCL12) SPARC, TGFβ1/ β2/ β3 umano e TNF-α .

Esse sono state acquistate dalle aziende: Bender MedSystems (Burlingame CA),

Peprotech (RochyHill NJ), R&DSystems (Minneapolis MN).

Trasfezione e selezione di cloni cellulari trasfettati stabilmente

Per ottenere una linea cellulare stabile, le cellule HaCat, piastrate ad una densità

di 2 x 105 cellule per piastra (sono state utilizzate capsule Petri dal diametro di 60 mm),

sono state trasfettate con i plasmidi pALuc HPV-16 LCR e pSTneo, mediante il metodo

della coprecipitazione con fosfato di calcio.

Quattro ore prima della trasfezione, il terreno è stato sostituito con terreno

fresco. In seguito, per ogni trasfezione, successivamente per ogni trasfezione sono state

preparate la soluzione HBS 2X (Na2HPO4 1.5 mM, NaCl 280 mM, HEPES -acido 4-2-

idrossietil-1-piperazina-etansulfonico- pH 7.1 50 mM) e la soluzione contenente il DNA

(10 µg del plasmide pALuc HPV16 LCR, 50 ng di plasmide pSTneo, 37 µl CaCl2 2M,

H2O per arrivare a un volume finale di 300 µl).

La soluzione contenente il DNA plasmidico è stata addizionata, goccia a goccia

e in agitazione, alla soluzione HBS 2X. Il tutto è stato incubato per 1 minuto a

temperatura ambiente, per consentire la formazione dei precipitati di DNA-fosfato di

calcio. Trascorso questo periodo di tempo, la soluzione è stata aggiunta alla coltura

cellulare, dove è stata lasciata per una notte. Il giorno successivo il terreno è stato

rimosso e sostituito da altro terreno, contenente il 10% di siero.

24 ore dopo la trasfezione, le cellule sono state staccate dal substrato mediante

una soluzione di tripsina/EDTA in tampone fosfato PBS (“phosphate-buffered saline”),

seminate in tre piastre, dal diametro di 100 mm e selezionate in terreno contenente

l’antibiotico G418 (0.4 mg/ml) per 2-3 settimane, fino alla comparsa delle colonie

cellulari persistenti.

Le colonie sono state tripsinizzate e raccolte come “pool”. Singoli cloni sono

stati ottenuti attraverso il metodo della diluizione al limite seminando le cellule del

“pool” in piastre a 96 pozzetti ad una densità di 0.5 cellule per pozzetto.

25 cloni sono stati espansi e saggiati per l’attività luciferasica basale. Per gli

studi successivi sono stati scelti due di questi cloni, nominati P13 e P21, in quanto

presentavano l’attività luciferasica più elevata.

Saggio della Luciferasi

I cloni trasfettati stabilmente sono stati seminati in piastre di coltura a 24 o 96

pozzetti, a una densità rispettivamente di 6 x 104 e di 2 x 104 cellule per pozzetto.

Il giorno successivo, alcune cellule sono state trattate con diverse citochine,

mentre altre, usate come controllo, non sono state trattate. 24 ore dopo il trattamento, i

monostrati di cellule sono stati lavati due volte con il tampone fosfato PBS, lisate in

ghiaccio con 40 µl (nel caso di piastre a 24 pozzetti) o 25 µl (per piastre a 96 pozzetti)

di tampone di lisi “reporter” (Promega); infine le proteine solubili sono state recuperate

in seguito a centrifugazione.

E’ poi stata valutata la concentrazione delle proteine presenti nel surnatante

(attraverso il saggio colorimetrico “Biorad DC Protein Assay”) e la loro attività

luciferasica mediante il saggio luciferasico (Promega), utilizzando come strumentazione

il luminometro Lumino (Startec Medical System). Per la realizzazione del saggio

luciferasico sono stati addizionati 100 µl di “Luciferase Assay Reagent” (Promega) a 20

µl di lisato cellulare.

Saggio per la valutazione della vitalità cellulare

Le cellule sono state seminate a una densità di 6 x 104 cellule in piastre a 24

pozzetti e il giorno successivo alcune di queste sono state trattate con citochine, mentre

altre, utilizzate come controllo, non sono state trattate.

Dopo 24 e 48 ore dal trattamento è stata determinata la vitalità cellulare

mediante il saggio colorimetrico CellTiter 96R AQueous One Solution Cell Proliferation.

Esso si basa sull’utilizzo di un reagente (CellTiter 96R AQueous One Solution Cell

Proliferation Reagent) contenente i composti tetrazolio MTS e PES (fenazina

etansolfato, un reagente di accoppiamento elettronico): PES presenta un’elevata stabilità

chimica, che rende possibile la reazione con MTS, per formare una soluzione stabile.

MTS viene ridotto nelle cellule in un prodotto colorato, il formazano, solubile nei

terreni di coltura tessutali. Questa conversione si accompagna alla produzione di

NADPH o NADH da parte degli enzimi deidrogenasi, presenti in cellule attive dal

punto di vista metabolico

E’ necessario in primo luogo scongelare il reagente 96R AQueous One Solution

Cell Proliferation lasciandolo per 90 minuti a temperatura ambiente o 10 minuti nel

bagno riscaldato a 37°C. In ogni pozzetto della piastra a 96 pozzetti, contenente il

campione diluito in 100 µl di terreno di coltura, si aggiungono 20 µl di reagente. La

piastra viene incubata per 1-4 ore a 37°C in un ambiente umidificato, al 5% di CO2.

L’assorbanza del prodotto colorato viene letta a 409 nm. La quantità di

formazano prodotta è direttamente proporzionale al numero di cellule vive presenti in

coltura.

Real-time PCR quantitativa su DNA

Il DNA genomico delle cellule HaCat, CaSki e dei cloni P13 e P21 è stato

isolato lisando le cellule con una soluzione costituita da 10 mM Tris/HCl pH 8.0, 25

mM EDTA, 100 mM NaCl, 0.5% SDS, 100 µg/ml di proteinasi K e incubando la

soluzione a 50°C per 4-5 ore. La digestione è seguita da un’estrazione con fenolo

cloroformio, precipitazione del DNA in etanolo 100%, ammonio acetato 7.5 M e alcol

isoamilico. Infine è stato effettuato un trattamento con RNasi (1 µg/ml di RNasi e 0.1%

di SDS in tampone TE per 1 ora a 37° C). L’estrazione con fenolo, cloroformio, alcol

isoamilico viene ripetuta una seconda volta. Successivamente si centrifuga e si lava il

lisato cellulare con etanolo 70%. Si risospende tale lisato in tampone TE e si incuba la

soluzione a 65°C per 1 ora.

La real-time PCR quantitativa su DNA è stata allestita in un volume di reazione

di 25 µl, utilizzando il reagente “Brillant SYBR Green QPCR Master Mix”

(Stratagene). In particolare, la miscela di reazione conteneva 12.5 µl di Syber Mix, 0.75

µl di Rox (diluita 1 a 1000), 1.5 µl di primer senso 10 µM, 1.5 µl di primer antisenso 10

µM e acqua distillata sterile fino a un volume finale di 20 µl. In un secondo momento

sono stati aggiunti 5 µl di campione o di acqua (come controllo).

Per amplificare la regione LCR di HPV-16 sono stati disegnati i seguenti primer:

primer senso: 5’-CCAAATCCCTGTTTTCCT-3’.

primer antisenso: 5’-ATGTGCCTAACAGCGGTA-3’.

Per avere un controllo positivo interno, il saggio è stato effettuato anche sul gene

della β-actina, utilizzando i seguenti primer:

primer senso: 5’-GTTGCTATCCAGGCTGTG-3’;

primer antisenso: 5’-TGTCCACGTCACACTTCA-3’.

L’amplificazione del DNA è stata effettuata su una piastra a 96 pozzetti,

utilizzando come strumentazione il modello Mx3000P “Real-time Machine PCR

System” (Stratagene).

La real-time PCR realizzata è di tipo comparativo-quantitativo. Per ogni analisi è

stata delineata in parallelo una curva standard di riferimento, sulla base di diluizioni

seriali di DNA estratto da cellule CaSki, da 0.005 ng a 50 ng di DNA. Le cellule CaSki

contengono 600 copie di DNA genomico integrato di HPV-16 per cellula. Per esprimere

i risultati quantitativi ottenuti in equivalente genomico per i campioni sconosciuti, è

stato utilizzato un fattore di conversione pari a 6.6 pg DNA per cellula diploide.

Quantificazione dei trascritti E6-E7

L’RNA totale è stato estratto a partire da 1 x 106 cellule HaCat (usate come

controllo negativo) e cellule CaSki, utilizzando il kit NucleoSpin II (Machery-Nagel).

Successivamente 2 µg di RNA sono stati retrotrascritti con il kit RevertAid cDNA

Synthesis (Fermentas), utilizzando “Random exhamer primer”. Il cDNA risultante è

stato quantificato mediante una “Real-Time PCR” utilizzando i seguenti primer:

1) specifici per il gene E6 di HPV-16:

primer senso: 5’-GCAAGCAACAGTTACTGAGACGT-3’;

primer antisenso: 5’-GCAACAAGACATACATCGACCGG-3’;

2) primer specifici per il gene E7 di HPV-16:

primer senso: 5’-GATGGTCCAGCTGGACAAGC-3’;

primer antisenso: 5’-GTGCCCATTAACAGGTCTTC-3’;

3) primer specifici per il gene della β-actina:

primer senso: 5’-GTTGCTATCCAGGCTGTG-3’;

primer antisenso: 5’-TGTCCACGTCACACTTCA-3’.

L’amplificazione del DNA è stata realizzata utilizzando la miscela di reazione

“Master Mix Brillant SYBR Green QPCR” (Stratagene), in una piastra di reazione a 96

pozzetti, utilizzando come strumentazione il modello Mx3000P “Real-Time Machine

PCR System” (Stratagene). I risultati sono stati normalizzati sulla base dei livelli di β-

actina ed espressi come percentuale di inibizione rispetto ai controlli non trattati (usati

come calibratori)

Citofluorimetria

1 x 106 cellule HaCat e Caski sono state raccolte, lavate due volte con PBS

contenente l’1% di albumina di siero bovino (BSA) e lo 0.01% di NaN3.

Successivamente sono state incubate con anticorpi diretti verso IL-13Rα1 (IgG1

murina), IL-4R (IgG2a murina) o anticorpi anti isotipo (R&D Systems, Minneapolis,

MN) per 30 minuti a 4°C. Le cellule sono state quindi lavate per due volte e incubate

con anticorpi di capra diretti verso IgG-FITC murina (Immunotech, Marsiglia, Francia)

per 30 minuti a 4°C e analizzate con lo strumento FACSort (Becton-Dickinson,

Rutherford, NJ).

RISULTATI

Realizzazione e caratterizzazione di una linea cellulare “reporter”

contenente la regione LCR del genoma di HPV-16

Per la realizzazione di una linea cellulare “reporter”, utilizzabile per l’analisi di

inibitori della trascrizione dei geni E6 e E7 di HPV-16, è stata scelta la linea di

cheratinociti umani HaCat, in quanto supporta una forte attività del promotore LCR

(Sailaja e Bernard, 1999) del genoma di HPV-16, ma è priva di qualsiasi sequenza del

DNA degli HPV in grado di competere con il sistema “reporter”.

Le cellule sono state cotrasfettate con il plasmide pALuc HPV-16 LCR, che

contiene la sequenza LCR completa, clonata a monte del gene della luciferasi di

lucciola e con il plasmide pSTneoB, che conferisce resistenza all’antibiotico G418. In

seguito le cellule sono state sottoposte a selezione con l’antibiotico G418 e clonati con

il sistema della diluizione al limite.

Venticinque cloni sono stati espansi e analizzati per l’attività luciferasica basale.

Nove di questi sono risultati positivi e, per la realizzazione degli esperimenti successivi,

sono stati scelti due cloni, chiamati P13 e P21, poiché manifestano un’elevata attività

luciferasica (Figura 1).

050

100150200250300350400450

Atti

vità

luci

fera

sica

(RLU

/µg

di p

rote

ina)

P1 P6 P9 P11 P12 P13 P14 P18 P21 P23

* *0

50100150200250300350400450

Atti

vità

luci

fera

sica

(RLU

/µg

di p

rote

ina)

P1 P6 P9 P11 P12 P13 P14 P18 P21 P23

* *

Per verificare e dimostrare la presenza della sequenza LCR all’interno dei cloni

saggiati, è stata eseguita una PCR, a partire dal DNA estratto dalle cellule HaCat

parentali (come controllo negativo), dai cloni P13 e P21 e da cellule CaSki (cellule

umane di cancro alla cervice uterina, HPV-16 positive, usate come controllo positivo).

L’amplificato è stato quindi visualizzato attraverso una corsa elettroforetica, eseguita su

gel di agarosio (allo 0.8%): è stato possibile evidenziare un frammento di dimensioni

attese (152 nucleotidi) nelle cellule P13, P21 e Caski, mentre non si osserva alcun

segnale nei campioni di cellule HaCat (Figura 2).

Figura 1: Analisi dell’attività luciferasica dei cloni “reporter” ottenuti

attraverso il sistema della diluizione al limite

400

300

200

100

bp Mw 1 2 3 4

Successivamente, per quantificare il numero di copie del plasmide “reporter”

integrato è stata realizzata una “Real-Time PCR” quantitativa sul DNA genomico

estratto dalle stesse cellule.

E’ noto che le cellule CaSki contengono 600 copie di genoma di HPV-16

integrato per cellula (Capone et al., 2000); pertanto esse sono state scelte per la

costruzione di una curva standard di riferimento. Il numero ottenuto di copie di LCR per

cellula è una copia per genoma, in entrambi i cloni.

Questi risultati dimostrano che sono stati prodotti cloni contenenti un sistema

“reporter” integrato.

I cloni P13 e P21 sono stati poi validati per l’uso in un saggio cellulare,

analizzando i seguenti parametri:

1) Stabilità dell’espressione della luciferasi nel tempo;

Figura 2: Corsa elettroforetica dell’amplificato della regione LCR del

genoma di HPV-16, ottenuto mediante PCR, in cellule HaCat, P13, P21,

Caski. In cellule HaCat (pozzetto 1), non si osserva alcun segnale. Nei cloni

P13, P21 (pozzetti rispettivamente 2 e 3) e in cellule Caski (pozzetto 4), è

possibile rilevare il segnale di un amplificato di 152 nucleotidi, indicativo

della presenza della regione LCR integrata nel genoma cellulare.

2) Risposta a stimoli inibitori noti;

3) Compatibilità con un formato ad alta resa;

1) Per valutare la stabilità dei cloni selezionati, ne sono stati analizzati i livelli di

attività luciferasica a tempi diversi, successivi alla selezione. Nella figura 3 si osserva

che è possibile rilevare livelli stabili di attività luciferasica nei cloni P13 e P21, raccolti

a 30, 40, 50, 60, 60 e 80 giorni di coltura continua dopo la selezione, con un valore

medio di circa 400 unità luminose relative (RLU)/µg di proteina per il clone P13 e 370

RLU/µg di proteina per il clone P21.

0

100

200

300

400

500

30 dps 40 dps 50 dps 60 dps 70 dps 80 dps

Luci

fera

se a

ctiv

ity (R

LU/ µ

g)

P13P21

Att

ività

luci

fera

sica

(RL

U/m

g)

0

100

200

300

400

500

30 dps 40 dps 50 dps 60 dps 70 dps 80 dps

Luci

fera

se a

ctiv

ity (R

LU/ µ

g)

P13P21

Att

ività

luci

fera

sica

(RL

U/m

g)

2) Per valutare se le linee cellulari “reporter” possano essere utilizzate per

Figura 3: Validazione del saggio. Stabilità dell’espressione della luciferasi nel tempo.

Livelli di attività luciferasica nei cloni P13 e P21, a 30, 40, 50, 60, 70, 80 giorni

successivi alla selezione con l’antibiotico G418, espressi in unità luminose relative per

microgrammo di proteina. Si calcola con un valore medio di circa 400 RLU/µg di

proteina per il clone P13 e 370 RLU/µg di proteina per il clone P21. I risultati mostrati

nel grafico rappresentano la media ± SD di tre esperimenti eseguiti in duplicato.

selezionare gli inibitori di LCR, è stata analizzata la risposta di P13 e P21 ad inibitori

noti della regione LCR di HPV-16: le citochine TGF-β1 e TNF-α (Baldwin et al., 2004;

Kyo et al., 1994). Le cellule, seminate in una piastra a 24 pozzetti, sono state trattate per

24 ore con 50 ng/ml di ciascuna citochina, mentre alcuni campioni, usati come

controllo, non sono stati trattati. Come si osserva in figura 4, è possibile evidenziare il

67% e il 62% di inibizione da parte di TGF-β e il 55% e 47% di inibizione da parte di

TNF-α, rispettivamente, sui cloni P13 e P21. Questo dato dimostra che il sistema

“reporter” integrato risponde in maniera attesa a stimoli noti e che quindi le linee

cellulari “reporter” presentano le potenzialità di identificare nuovi inibitori dell’attività

della regione LCR.

0

20

40

60

80

untreated TGF-b1 TNF-a

Luci

fera

se a

ctiv

ity (%

of i

nhib

ition

)

P13P21

Att

ività

luci

fera

sica

(% d

i ini

bizi

one)

Non trattate TGF-β1 TNF-α

0

20

40

60

80

untreated TGF-b1 TNF-a

Luci

fera

se a

ctiv

ity (%

of i

nhib

ition

)

P13P21

Att

ività

luci

fera

sica

(% d

i ini

bizi

one)

Non trattate TGF-β1 TNF-α

Figura 4: Validazione del saggio. Risposta a stimoli inibitori noti della regione LCR

di HPV-16. I cloni P13 e P21 sono stati trattati con 50 ng/ml di TGF-β1 e TNF-α o

non sono stati trattati. L’attività luciferasica è stata misurata 24 ore dopo il

trattamento. I risultati mostrati nel grafico rappresentano la media ± SD di tre

esperimenti eseguiti in duplicato.

3) Per verificare se l’attività luciferasica espressa dai cloni P13 e P21 fosse

compatibile con un formato miniaturizzato ad alta resa, si sono seminate 6000, 10 000 e

20 000 cellule per pozzetto, in una piastra a 96 pozzetti.

In figura 5 è possibile osservare che l’aumento del numero di cellule da 5000 a

20 000 per pozzetto è accompagnato da un progressivo aumento dell’attività luciferasica

(rispettivamente 1700, 2700, 6000 RLU). Tenendo conto del valore basale registrato dal

luminometro (circa 40 RLU), il segnale emesso da 20 000 cellule per pozzetto è più che

sufficiente per la rilevazione, ad indicare che l’attività luciferasica generata dai cloni

cellulari “reporter” rende possibile l’impiego del saggio in un sistema ad alta resa.

0

1000

2000

3000

4000

5000

6000

7000

5000 10000 20000

cells seeded/well

Lucu

fera

se a

ctiv

ity (R

LU)

P13P21

Atti

vità

luci

fera

sica

(RL

U)

Cellule seminate/pozzetto

0

1000

2000

3000

4000

5000

6000

7000

5000 10000 20000

cells seeded/well

Lucu

fera

se a

ctiv

ity (R

LU)

P13P21

Atti

vità

luci

fera

sica

(RL

U)

Cellule seminate/pozzetto

Figura 5: Validazione del saggio. Compatibilità con un formato ad alta resa. Si sono

seminate 5000, 10 000, 20 000 cellule per pozzetto, in un formato a 96 pozzetti, dei

cloni P13 e P21; il giorno successivo ne è stata analizzata l’attività luciferasica. I

risultati mostrati nel grafico rappresentano la media ± SD di tre esperimenti eseguiti in

duplicato.

Analisi di un pannello di citochine utilizzando il clone indicatore P13

Per verificare se il saggio cellulare messo a punto potesse essere

vantaggiosamente utilizzato in un processo di “screening” ad alta resa, abbiamo

analizzato, in un formato di piastra a 24 pozzetti, un pannello di trentadue citochine,

appartenenti a diverse classi funzionali, utilizzando il clone P13 come linea cellulare

“reporter”.

I cloni sono stati trattati con le diverse le citochine, ad una concentrazione di 50

ng/ml, per 24 ore. L’analisi è stata ripetuta tre volte, in duplicato. In base ai risultati

ottenuti è stato possibile suddividere le citochine in tre gruppi, sulla base della

percentuale di inibizione dell’attività luciferasica relativa alla regione LCR (Tabella1).

Citochine % di inibizione di LCR (valori medi ± SD)

Gruppo*

Tabella 1: Effetto delle citochine sull’attività della regione LCR del genoma di HPV-16.

* I gruppi sono formati in base alla percentuale di inibizione di LCR.

Gruppo I: 0-29%; Gruppo II: 30%-49%; Gruppo III: 50%-70%

Anti-infiammatorie

IL-4 56.6 ± 7.2 III

IL-10 0 I

IL-13 64.3 ± 5.8 III

TGF-β1 61.4 ± 8.4 III

TGF-β2 60.1± 6.5 III

TGF-β3 58.9 ± 5.9 III

Activina 32.4 ± 4.3 II

GDF-15 16.3 ± 2.1 I

Osteonectina 0.2 ± 0.003 I

Pro-infiammatorie

IL-1β 33.3 ± 4.6 II

IL-15 12.6 ± 1.8 I

IL-17 29.6 ± 3.6 I

IL-18 3 ± 0.5 I

IL-19 9 ± 1.2 I

IL-20 10.2 ± 0.8 I

IL-22 10.3 ± 1.7 I

TNF-α 53.7 ± 4.3 III

GM-CSF 12 ± 0.7 I

Fattori di crescita

IL-3 2.1 ± 0.09 I

IL-6 5.2 ± 0.3 I

IL-7 2.5 ± 0.5 I

IL-21 2.4 ± 0.4 I

Fattori chemotattici

IL-8 0 I

IP-10 5.2 ± 0.9 I

LEC 16.1 ± 2.3 I

MIP-1α 0 I

MIP-1β 27.3 ± 3.8 I

NAP-2 0 I

I-309 0.9 ± 0.2 I

Interferoni

IFN-α 58.2 ± 7.6 III

IFN-β 63.1 ± 4.8 III

IFN-γ 35.5 ± 4.3 II

Tabella 1: Effetto delle citochine sull’attività della regione LCR del genoma di HPV-16

Sono state classificate nel gruppo I ventuno citochine, che hanno mostrato

un’attività inibitoria nulla o molto bassa (da 0% a 29%). Tre citochine (activina, IL-1β,

e IFN-γ), caratterizzate da una modesta attività inibitoria (dal 30% al 49%), sono state

classificate nel gruppo II, mentre otto citochine (IL-4, IL-13, TGF-β1, TGF-β2, TGF-

β3, IFN-α e IFN-β), a maggiore attività inibitoria (dal 50% al 70%), sono state

classificate nel gruppo III. Attraverso questo saggio non è stata evidenziata alcuna

citochina con attività stimolatoria sull’LCR di HPV-16.

Dato che, in generale, l’ esito di un saggio di questo tipo, dipende in parte

dall’attività citostatica o citotossica del composto somministrato, abbiamo analizzato

l’effetto di tutte le citochine classificate nel gruppo III sulla proliferazione del clone P13

attraverso il saggio di proliferazione cellulare descritto in Materiali e Metodi. Nessuna

delle citochine studiate presentava un’attività antiproliferativa alla concentrazione e nei

tempi utilizzati per il saggio della luciferasi. Questi risultati dimostrano che la riduzione

dell’attività luciferasica non è una conseguenza della ridotta vitalità cellulare.

All’interno del gruppo III, le citochine IL-4 e IL-13 sono particolarmente

interessanti, in quanto non erano ancora state descritte, in studi precedenti, come

inibitori dell’attività trascrizionale del promotore LCR degli HPV e per questo motivo

sono state oggetto di analisi più dettagliate.

Per stabilire le dosi di IL-4 e IL-13 in grado di produrre il 50% di inibizione

dell’attività di LCR (ID50), il clone P13 è stato trattato con diverse concentrazioni di

citochine, comprese tra 0.1 ng/ml e 250 ng/ml. La figura 6 evidenzia che entrambe le

citochine riducono l’attività di LCR in modo dipendente dalla concentrazione. Infine,

un’analisi di regressione non lineare dei dati ha permesso di calcolare la ID50 come pari

a 4 ng/ml per IL-4 e 11.3 ng/ml per IL-13.

A

B

10 -1 10 0 10 1 10 2 10 30

10

20

30

40

50

60

70IL 4

ng/ml

% d

i ini

bizi

one

10 -1 10 0 10 1 10 2 10 30

10

20

30

40

50

60

70IL 13

ng/ml

% d

i ini

bizi

one

A

B

10 -1 10 0 10 1 10 2 10 30

10

20

30

40

50

60

70IL 4

ng/ml

% d

i ini

bizi

one

10 -1 10 0 10 1 10 2 10 30

10

20

30

40

50

60

70IL 4

ng/ml

% d

i ini

bizi

one

10 -1 10 0 10 1 10 2 10 30

10

20

30

40

50

60

70IL 13

ng/ml

% d

i ini

bizi

one

10 -1 10 0 10 1 10 2 10 30

10

20

30

40

50

60

70IL 13

ng/ml

% d

i ini

bizi

one

Figura 6: Percentuale di inibizione dell’attività luciferasica dei cloni P13

(A) e P21 (B) in seguito a trattamento con dosi crescenti di citochine IL-4 e

IL-13. Si osserva che entrambe le citochine riducono l’attività di LCR in

modo dipendente dalla concentrazione.

Effetto di IL-4 e IL-13 sui livelli di mRNA di E6 e E7 di HPV-16 in

cellule CaSki

Per verificare se la riduzione dell’attività luciferasica provocata da IL-4 e IL-13

nel clone “reporter” P13 rifletta una diminuzione dei livelli dell’mRNA di E6 e E7 in

cellule di cancro alla cervice uterina positive per HPV-16, è stata scelta la linea cellulare

CaSki come modello di studio.

Per prima cosa abbiamo esaminato l’espressione delle componenti recettoriali di

IL-4 e IL-13, in particolare la catena α del recettore di IL-4 e la catena α1 del recettore

di IL-13, in cellule HaCat, Caski e in monociti THP-1 (usati come controllo positivo)

(Hart et al., 1999).

Come si può osservare in figura 7, l’analisi al citofluorimetro rivela che le

cellule HaCat e CaSki esprimono entrambe le catene del recettore di IL-4 e IL-13 e sono

quindi potenzialmente responsive a queste citochine.

Figura 7: Analisi al citofluorimetro dell’espressione superficiale delle componenti

recettoriali IL-4R e IL-13Rα1 in monociti THP-1 (usati come controllo positivo),

in cellule Caski e HaCat. Le cellule THP-1, HaCat e CaSki esprimono entrambe le

catene del recettore di IL-4 e IL-13 e sono quindi potenzialmente responsive a

queste citochine. Ogni pannello costituisce un istogramma dell’espressione di IL-

4R e IL-13Rα1 (curva ombreggiata). Le curve non ombreggiate rappresentano la

colorazione con un anticorpo secondario, usato come controllo.

Intensità della fluorescenza

Numero di cellule

Successivamente abbiamo studiato l’effetto di IL-4 e IL-13 sull’espressione dei

livelli di mRNA dei geni E6 e E7 in cellule CaSki. Il TGF-β1 è stato utilizzato in questi

esperimenti in quanto è un noto inibitore dell’attività del promotore LCR e il suo

recettore è espresso in cellule CaSki (Kang et al., 1998). A questo scopo le cellule sono

state trattate rispettivamente con 50 ng/ml di TGF-β, IL-4 e IL-13 per 24 ore e i livelli

di mRNA sono stati determinati mediante la “Real-Time PCR”.

I risultati illustrati in figura 8 dimostrano che tutte le citochine esaminate

riducono i livelli di mRNA di E6 e E7 sebbene in misura diversa. Il trattamento con

TGF-β1 esercita un forte effetto inibitorio riducendo rispettivamente dell’86,2% e dell’

85,5% i livelli dei trascritti di E6 ed E7; il trattamento con IL-4 provoca un riduzione

del 56.3% dei livelli del trascritto E6 e del 62% dei livelli del trascritto E7, mentre dopo

trattamento con IL-13 le cellule Caski presentano una riduzione dei livelli del trascritto

E6 pari al 50% ed una riduzione dei livelli del trascritto E7 pari al 53%.

Questi dati confermano l’effetto inibitorio esercitato sull’attività trascrizionale

del LCR, che è stato osservato nella linea cellulare reporter dopo trattamento con TGF-

β, IL-4 ed IL-13 ed esclude la possibilità che la riduzione dell’attività luciferasica possa

essere una conseguenza di un effetto aspecifico esercitato dalle citochine sull’attività

enzimatica o sulla stabilità.

0

0,2

0,4

0,6

0,8

1

1,2

Non trattato TGF β1 IL-4 IL-13

Live

lli d

i mR

NA

rela

tivi

E6E7

0

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0,6

0,8

1

1,2

Non trattato TGF β1 IL-4 IL-13

Live

lli d

i mR

NA

rela

tivi

E6E7

Figura 8: Effetto delle citochine TGF-β1, IL-4 e IL-13 (50 ng/ml per 24 ore)

sull’espressione dei geni E6 e E7 in cellule CaSki, analizzato attraverso “Real-time PCR”. I

risultati sono espressi come livelli relativi di mRNA. Se si pone pari a 1 la quantità di

mRNA estratto da cellule non trattate, in seguito a trattamento con il TGF-β1 si registrano

livelli relativi di mRNA del trascritto E6 e E7 pari a circa 0.2, mentre livelli pari a circa 0,5

dopo trattamento con IL-4 e IL-13.

DISCUSSIONE

Il carcinoma della cervice uterina, ampiamente diffuso a livello mondiale,

rappresenta la seconda causa di morte per tumore nella donna. Gli HPV ad alto rischio,

quali HPV-16, HPV-18, HPV-31 e HPV-45, sono stati identificati come gli agenti

causali dei carcinomi cervicali ed in particolare il DNA dell’HPV-16 è stato evidenziato

nella maggior parte di essi.

Attualmente il trattamento di lesioni associate a infezione da HPV viene

realizzato chirurgicamente. Tuttavia, nonostante la rimozione chirurgica della neoplasia,

spesso la crescita del tumore riprende, a causa della persistenza del virus nei tessuti

sani. La prevenzione delle infezioni da HPV attraverso vaccinazione o immunoterapia è

in corso di studi, ma non è ancora stata introdotta nella pratica clinica. Pertanto risulta

necessario lo sviluppo di strategie antivirali finalizzate al trattamento di neoplasie

indotte da HPV e tali da ridurre la loro ricorrenza. Nonostante siano stati elucidati i

principali meccanismi coinvolti nella patogenesi dei tumori causati da HPV, la

realizzazione di farmaci per il loro trattamento presenta notevoli ostacoli: in primo

luogo i sistemi per lo studio del virus in vitro sono tecnicamente complessi e non

convenienti per l’analisi di molecole antivirali; inoltre il genoma di HPV non codifica

per proteine enzimatiche, quali polimerasi o proteasi, che rappresentano i bersagli

tradizionali per le terapie antivirali. Pertanto nuovi bersagli rilevanti per la patogenesi

virale devono essere identificati e validati per poter essere inclusi nel programma di

sviluppo di un farmaco.

Potenziale bersaglio di farmaci anti-HPV sono le oncoproteine E6 e E7. I geni

E6 ed E7 degli HPV ad alto rischio sono i principali oncogeni virali, essendo in grado,

cooperativamente, di immortalizzare e trasformare un’ampia varietà di cellule primarie

umane (Munger et al., 1989). Inoltre è necessaria la loro continua espressione in cellule

di carcinomi della cervice uterina per il mantenimento del fenotipo trasformato

(DeFilippis et al., 2003; Goodwin et al., 2000; Wells et al., 2000).

Le oncoproteine E6 ed E7 innescano il processo di trasformazione della cellula

infettata interagendo funzionalmente e fisicamente con numerose proteine regolatorie

cellulari (p53, la subunità catalitica della telomerasi hTERT, la proteina del

retinoblastoma p105Rb, le cicline A e E, p21, p27 e le deacetilasi istoniche) sovvertendo

funzioni cellulari, quali il controllo del ciclo cellulare, l’apoptosi, la senescenza, il

riparo del DNA e la stabilità genomica (Finzer et al., 2002; zur Hausen, 2002;

Longworth et al., 2004).

A differenza di molti altri tipi di tumore, la maggior parte dei carcinomi della

cervice uterina associati ad HPV mantengono i geni oncosoppressori p53 e p105Rb in

forma non mutata (Scheffner et al., 1991) e sono quindi potenzialmente suscettibili alle

strategie terapeutiche finalizzate al recupero del controllo della crescita cellulare in

seguito alla repressione delle oncoproteine E6 ed E7 di HPV. Sistemi basati sull’utilizzo

di macromolecole, quali ribozimi, RNA antisenso, RNA “interference”, per reprimere l’

espressione delle oncoproteine di HPV in cellule di carcinoma della cervice uterina,

hanno dato come risultato una forte inibizione della proliferazione. (DeFilippis et al.,

2003; Butz et al., 2003; Chen et al., 1996). Recentemente è stato osservato che

l’espressione ectopica della proteina E2 di HPV, capace di legare il promotore maggiore

precoce (LCR) del virus e inibire la trascrizione dei geni di E6 ed E7, causa una forte

inibizione della sintesi del DNA cellulare, un’acquisizione rapida del fenotipo

senescente con il recupero delle vie di segnale mediate da p53 e p105Rb in cellule del

carcinoma cervicale (HeLa) (Goodwin et al., 2000; Wells et al., 2000). Questi studi

hanno fornito la prova del principio che l’inibizione delle due oncoproteine virali possa

bloccare la crescita di tumori associati a HPV. Tuttavia, questi approcci basati sull’uso

di macromolecole sono limitati da problemi associati al rilascio di concentrazioni attive

a livello di specifici siti anatomici, in seguito a somministrazione sistemica. Per poter

allestire strategie terapeutiche sulla base di queste conoscenze, sono necessari metodi

capaci di identificare piccole molecole chimiche o di origine biologica in grado di

inibire selettivamente l’attività trascrizionale della sequenza LCR di HPV.

La porzione LCR, che regola la trascrizione di E6 ed E7, presenta numerosi siti

di legame per fattori di trascrizione virali e cellulari e dipende dalla loro azione

coordinata. Pertanto è improbabile realizzare un inibitore diretto verso tale regione

disegnando il farmaco sulla base della struttura del promotore. Questo approccio

richiede infatti bersagli precisi e ben caratterizzati, come i siti catalitici di enzimi virali

o le interazioni specifiche proteina-proteina. Un approccio alternativo è utilizzare come

potenziale risorsa di farmaci candidati, librerie di composti generate con la chimica

combinatoriale, estratti di prodotti naturali o collezioni di citochine.

Per analizzare queste collezioni di prodotti bioattivi abbiamo generato e validato

un saggio cellulare ad alta resa, che rappresenta l’oggetto di questa tesi.

Come bersaglio è stata scelta la sequenza LCR dell’HPV ad alto rischio di tipo

16, essendo il principale virus isolato dai carcinomi della cervice uterina con una

prevalenza del 50-60% nella maggioranza dei paesi (Bosch et al., 2003).

Il sistema indicatore che abbiamo sviluppato è costituito da una linea cellulare

“reporter” di cheratinociti umani (HaCat), trasfettati stabilmente con un plasmide

ricombinante contenente il gene Luciferasi posto sotto il controllo trascrizionale della

sequenza LCR di HPV-16, la quale possiede la sequenza promotore e gli elementi

”enhancer” degli oncogeni E6 ed E7. In questo sistema, l’attività luciferasica è una

misura proporzionale dell’attività trascrizionale della sequenza LCR.

La linea cellulare “reporter” è stata validata per l’utilizzo in un saggio cellulare

misurando:

1) La stabilità dell’espressione luciferasica nel tempo;

2) La risposta a inibitori noti della regione LCR, quali TGF-β1 e TNF-α;

3) La compatibilità con un formato ad alta resa.

I nostri risultati hanno dimostrato che il saggio ad alta resa generato permette

una facile, rapida e sicura identificazione di inibitori dell’ espressione delle

oncoproteine E6 ed E7 di HPV-16 in banche di composti sintetici o biologici. Inoltre, il

vantaggio di un saggio cellulare rispetto a uno non cellulare, è il maggiore grado di

successo che si può riscontrare utilizzando gli inibitori identificati con il primo saggio,

in modelli animali, poiché tale saggio verifica l’entrata e potenzialmente la stabilità del

composto all’interno della cellula.

Anche in studi precedenti (Craigo et al., 2000) si descrive un procedimento

volto a identificare molecole inibitorie dell’espressione dei geni codificanti per le

oncoproteine di HPV, basato però sulla tecnica della trasfezione transiente. In questo

caso, come sistema indicatore, è stata utilizzata la linea cellulare di carcinoma cellulare

C33A (HPV negativa), trasfettata transientemente con un plasmide ricombinante posto

sotto il controllo trascrizionale del promotore della sequenza LCR di HPV-16.

La realizzazione del saggio transiente richiede una serie di passaggi tecnici, così

articolati:

• Le cellule vengono seminate (giorno 1) in un formato non compatibile con un

saggio ad alta resa (ad esempio piastre da 60 o 35 mm di diametro).

• In seguito le cellule sono trasfettate transientemente con il plasmide

ricombinante (giorno 2). Questo passaggio richiede l’uso di reagenti specifici tra

i quali, oltre al plasmide ricombinante purificato, anche un plasmide di

normalizzazione purificato e i reagenti necessari per la trasfezione. Tale

passaggio inoltre deve essere eseguito da un operatore dotato di competenze e

manualità specializzate.

• Successivamente vengono aggiunte le molecole da analizzare (giorno 3).

• Infine viene misurata l’attività luciferasica specifica (giorno 4). A questo scopo

il terreno di coltura viene rimosso, le cellule vengono lavate, staccate dal

substrato, centrifugate e il surnatante viene eliminato. Il sedimento cellulare

viene lisato con un tampone di lisi appropriato. I lisati cellulari sono nuovamente

centrifugati per rimuovere i componenti subcellulari e il campione ottenuto è

sottoposto al dosaggio del contenuto proteico, ad esempio attraverso il metodo

di Bradford. Successivamente vengono misurate l’attività luciferasica e l’attività

del gene indicatore del plasmide di normalizzazione (per esempio Renilla

luciferasi o β-galattosidasi). I campioni vengono letti uno alla volta utilizzando

un luminometro. I risultati ottenuti con il dosaggio della luciferasi devono essere

normalizzati con quelli ottenuti misurando l’attività dell’indicatore del plasmide

di normalizzazione, per annullare le differenze tra diversi campioni dovute a

eventuali variazioni nell’efficienza di trasfezione. Per ottenere l’attività

luciferasica specifica, l’attività luciferasica normalizzata viene a sua volta divisa

per la concentrazione delle proteine ottenuta con il metodo di Bradford.

E’ evidente che il saggio descritto non è adatto per l’analisi di numerose molecole

poiché richiede tempi lunghi, deve essere eseguito da operatori specializzati (la

manualità necessaria rappresenta un limite e aumenta il rischio di imprecisioni) e

soprattutto implica la ripetizione delle operazioni di trasfezione ad ogni esperimento, il

che determina la continua necessità di plasmidi ricombinanti purificati e di numerosi

reagenti e kit commerciali. Inoltre questo tipo di procedura non è compatibile con un

formato ad alta resa, ovvero un formato a 96 pozzetti. Di conseguenza, questo

procedimento consente di analizzare solo poche decine di sostanze la settimana.

Il saggio oggetto di questa tesi, basato invece sulla trasfezione stabile, supera molti

dei problemi riscontrati durante la realizzazione degli esperimenti sopra descritti. In

primo luogo l’applicazione del nostro saggio riduce notevolmente il tempo necessario

per il completamento dell’analisi di inibitori dell’espressione delle oncoproteine di

HPV. Il saggio può essere effettuato secondo lo schema temporale descritto in figura 1:

• La linea cellulare “reporter” viene seminata in piastre a 96 pozzetti (giorno 1);

• Successivamente vengono aggiunte le molecola da saggiare (giorno 2);

• Infine viene addizionato l’agente di rivelazione dell’attività luciferasica

direttamente nei pozzetti, che vengono letti tutti simultaneamente mediante un

luminometro (giorno 3).

1) La linea cellulare “reporter” viene seminatasu una piastra con formato a 96 pozzetti

2) Screening di piccole librerie di molecole

3) Misura dell’attività luciferasicamediante un lettore di micropiastre

4) Identificazione dell’ “Hit compound”

Giorno 1

Giorno 2

Giorno 3

1) La linea cellulare “reporter” viene seminatasu una piastra con formato a 96 pozzetti

2) Screening di piccole librerie di molecole

3) Misura dell’attività luciferasicamediante un lettore di micropiastre

4) Identificazione dell’ “Hit compound”

Giorno 1

Giorno 2

Giorno 3

Figura 1: Sviluppo di un saggio cellulare ad alta resa.

I principali vantaggi del saggio che abbiamo sviluppato sono determinati

dall’utilizzo, come indicatore, di una linea cellulare trasfettata stabilmente. Infatti

questo implica che:

- Non è necessario un evento di trasfezione, con conseguente risparmio di almeno un

giorno di lavoro e di molte ore di manodopera. Inoltre si consegue un notevole

risparmio economico, a livello dei diversi plasmidi e reagenti che sarebbero richiesti per

ripetere ogni volta la trasfezione.

- Non ci sono problemi connessi con eventuali differenze nell’efficienza di trasfezione

tra i diversi campioni. Pertanto non è necessario utilizzare un sistema di

normalizzazione.

- Utilizzando come agente “reporter” il gene codificante per la luciferasi, non sono

richieste procedure particolari per la preparazione del campione (come ad esempio la

rimozione del terreno, il lavaggio, la raccolta e la centrifugazione delle cellule, il

dosaggio proteico) perchè è disponibile un kit commerciale (Steady-Glo assay system,

Promega) che permette l’analisi direttamente in un formato a 96 pozzetti. L’unica

procedura richiesta è l’aggiunta del reagente direttamente nel pozzetto contenente le

cellule senza rimuovere il terreno di coltura. Tale manovra può essere eseguita con una

pipettatrice multicanale o un sistema automatizzato. Il reagente lisa le cellule e

contemporaneamente fornisce il substrato per la luciferasi.

- L’attività luciferasica può essere rilevata contemporaneamente nei 96 pozzetti della

piastra con un luminometro adatto, riducendo quindi i tempi di analisi.

Pertanto l’utilizzo del saggio da noi realizzato consente di esaminare centinaia di

molecole al giorno e migliaia di molecole alla settimana in maniera rapida e con costi

contenuti rispetto alla tecnologia precedentemente descritta.

La risposta immunitaria dell’ospite all’infezione da HPV è fondamentale

nell’eliminazione del virus e nel controllo di infezioni virali persistenti. Meccanismi di

regolazione intercellulari svolgono un ruolo importante nel prevenire la conversione di

cellule infette da HPV verso un fenotipo maligno; si ritiene che tali meccanismi siano

mediati da citochine, che vengono secrete da cellule epiteliali mucosali infette,

bloccando la trascrizione genica del virus (Altmann et al., 1994; zur Hausen, 2000). In

particolare, alcune citochine pro-infiammatorie ed anti-infiammatorie, come la famiglia

degli interferoni, IL-1, TNF-α e TGF-β, reprimono la trascrizione degli oncogeni virali

(Kim et al., 2000; Fontaine et al., 2001; Woodworth et al., 1990; Baldwin et al., 2004;

Kyo et al., 1994).

Il saggio cellulare descritto è stato impiegato in un formato a 24 pozzetti per

analizzare un pannello di 32 citochine appartenenti a diverse classi funzionali,

comprendenti citochine anti- e pro-infiammatorie, chemochine, fattori di crescita o

interferoni. Le citochine sono state classificate in tre gruppi in base alla percentuale di

inibizione dell’attività luciferasica: il gruppo I comprende 21 citochine che esercitano

attività inibitoria nulla o bassa (0-29%), il gruppo II è costituito da 3 citochine (activina,

IL-1β, e IFN-γ) che mostrano una modesta attività inibitoria (30-49%), mentre il gruppo

III comprende 8 citochine, precisamente IL-4, IL-13, TGF-β1, TGF-β2, TGF- β3, TNF-

α, IFN-α e IFN-β, che esercitano un’alta attività inibitoria (50-70%) sull’attività

luciferasica. Nessuna citochina ha mostrato attività antiproliferativa alla concentrazione

e al tempo post-trattamento scelto per il saggio luciferasico, indicando che la riduzione

dell’attività luciferasica non è una conseguenza della ridotta proliferazione cellulare o

della ridotta vitalità.

I risultati dell’analisi hanno confermato l’attività inibitoria degli interferoni, di

TNF-α e di TGF-β1 sulla regione LCR dell’HPV-16; questi dati dimostrano

l’affidabilità del saggio.

La superfamiglia TGF-β comprende tre isoforme TGF-β (TGF-β1, TGF-

β2, TGF-β3), le activine, le inibine, fattori di crescita e di differenziazione (GDFs) e le

proteine BMP (“Bone morphogenetic protein”) (Johnson et al., 2002). Queste molecole

agiscono attraverso complessi recettoriali costituiti da due polipeptidi (recettori di tipo I

e II) ad alta affinità, che possono formare eterodimeri; il dominio intracellulare serina-

treonina chinasico, presente nel recettore di tipo II, attiva le proteine Smad, che

trasmettono il segnale nel nucleo, regolando l’espressione dei geni bersaglio (Roberts,

1999; Mizono et al., 2000).

L’analisi che abbiamo eseguito, rivela che oltre al TGF-β1, anche il TGF-β2 ed

il TGF-β3 inibiscono l’attività trascrizionale della regione LCR di HPV-16, mentre un

effetto moderato o nullo è stato osservato con l’ Activina o con GDF-15,

rispettivamente. La differente attività dei membri della superfamiglia TGF-β, sulla

sequenza LCR, è giustificabile considerando che Activina e TGF-β regolano in maniera

differente alcuni marcatori di differenziamento delle cellule HaCat e pertanto si ritiene

che possano trasmettere, almeno in parte, differenti segnali all’interno della cellula

(Shimizu et al., 1998).

Diversi studi sono stati compiuti per comprendere il ruolo del TGF-β nel

controllo delle infezioni da HPV. In particolare, è stato osservato che il TGF-β inibisce

la proliferazione cellulare e l’espressione a livello trascrizionale degli oncogeni E6 ed

E7 di HPV-16 in cellule immortalizzate pre-cancerose (Woodworth et al., 1990).

Recentemente è stato proposto un modello per chiarire tale effetto inibitorio sull’attività

della regione LCR di HPV-16: il trattamento con TGF-β riduce i livelli

dell’oncoproteina Ski, impedendone il legame e l’attivazione del fattore di trascrizione

nucleare NFI presente nella regione LCR dell’HPV-16, con conseguente blocco

dell’attività trascrizionale di LCR (Figura2) (Baldwin et al., 2004).

citoplasma citoplasma

TGFTGF--ββ

citoplasma citoplasma

TGFTGF--ββ

A dispetto dell’effetto inibitorio esercitato dal TGF-β su cheratinociti

immortalizzati HPV-16 positivi, alcune linee cellulari del carcinoma cervicale,come le

cellule HeLa HPV-18 positive, non risultano responsive alla citochina (Hasskarl et al.,

2000). La resistenza di tali cellule maligne all’attività antiproliferativa del TGF-β è

interpretabile come meccanismo virale di evasione dai sistemi di difesa della cellula

bersaglio, manifestabile nel corso dello sviluppo del carcinoma cervicale; le stesse

oncoproteine virali, E6 ed E7, svolgono un ruolo di mediatori di tale resistenza,

modificando l’espressione delle citochine con il conseguente blocco dei processi di

comunicazione tra i cheratinociti infettati da HPV e gli effettori del sistema

Figura 2: Modello che illustra l’inibizione della regione LTR di HPV-16 mediata da TFG-β in

cheratinociti immortalizzati (Modificata da: Baldwin, A. et al., 2004. Journal of Virology. 78

(8): 3953-64).

immunitario. In fibroblasti embrionali murini, E7 di HPV-16 è in grado di diminuire

l’attività del promotore del TGF-β2 e di inibire la via di trasduzione del segnale della

citochina, bloccando direttamente l’attività trascrizionale delle proteine Smad (Smad2,

Smad3, Smad4) (Lee et al., 2002; Murvai et al., 2004). La proteina E6 di HPV-18

invece è in grado di mediare la degradazione proteolitica di TIP-2/GIPC, proteina

coinvolta nell’espressione del recettore di TGF-β di tipo III a livello delle membrane

cellulari (Bonvin et al., 2005); queste azioni svolte dalle oncoproteine favoriscono il

processo di trasformazione cellulare associato a HPV.

L’impiego del saggio cellulare ad alta resa ha inoltre identificato due citochine,

IL-4 ed IL-13, dotate di un’alta attività inibitoria nei confronti della regione LCR di

HPV-16. Non essendo mai state descritte in letteratura come inibitori dell’attività

trascrizionale della sequenza LCR, IL-4 ed IL-13 sono state oggetto di analisi più

dettagliate. Entrambe le citochine riducono l’attività di LCR in modo dipendente dalla

concentrazione e la ID50 è risultata pari a 4 ng/ml per IL-4 e 11.3 ng/ml per IL-13.

Poiché la regione LCR guida la trascrizione dei geni E6 ed E7 nel genoma di

HPV, abbiamo utilizzato una RT Real Time PCR per verificare se la riduzione

dell’attività luciferasica indotta da IL-4 ed IL-13 nella linea cellulare reporter (HaCat)

riflettesse un’inibizione dei livelli dei trascritti di E6 ed E7 in una linea cellulare umana

derivata dal carcinoma della cervice uterina e positiva per HPV-16 (CaSki). Il saggio

RT-Real Time PCR ha evidenziato, in seguito al trattamento delle cellule CaSki con IL-

4, una inibizione del trascritto di E6 e E7 rispettivamente del 56,3% e del 62%, mentre

in seguito al trattamento delle cellule CaSki con IL-13, un’ inibizione del trascritto di

E6 e E7 rispettivamente del 50% e del 53%. Questi dati dimostrano che IL-4 ed IL-13

inibiscono la trascrizione mediata da LCR nel “contesto naturale”, validando il saggio

cellulare come strumento per identificare inibitori della trascrizione di E6 ed E7.

IL-4 ed IL-13 sono citochine strutturalmente e funzionalmente correlate, secrete

principalmente dai linfociti Th2 attivati; le due citochine condividono molte funzioni

biologiche ed esercitano una varietà di effetti immunoregolatori su differenti tipi

cellulari, quali linfociti B, monociti, cheratinociti, cellule dendritiche.

I recettori di IL-4 e IL-13 sono multimerici e condividono alcune componenti

recettoriali : la catena alfa del recettore dell’IL-4 (IL-4Rα) e la catena alfa 1 del

recettore dell’IL-13 (IL-13Rα1) possono eterodimerizzare e formare un recettore che

lega sia IL-4 sia IL-13 (Murata et al., 1999). Questo recettore, chiamato IL-13R o anche

IL-4R di tipo II, è espresso su numerosi tipi di cellule, sia emopoietiche sia di altro tipo,

ad eccezione di cellule T. L’associazione di IL-4Rα con IL-2R γc forma IL-4R di tipo I,

che viene espresso su cellule ematopoietiche e può legare solo IL-4 (Mueller et al.,

2002).

Le due citochine condividono anche la via di trasduzione del segnale, poiché è la

comune componente recettoriale IL-4Rα a presentare residui tirosin-chinasici

intracitoplasmatici a cui si associa la chinasi JAK in seguito alla dimerizzazione dei

complessi recettoriali. Nella forma fosforilata JAK recluta Stat6, che viene

successivamente fosforilato e dimerizza per migrare al nucleo e attivare promotori

bersaglio.

IL-4 ed IL-13 condividono diverse funzioni biologiche: intervengono come

mediatori delle reazioni allergiche promuovendo lo scambio isotipico verso la classe

IgE, aumentano l’espressione del complesso maggiore di istocompatibilità di classe II

sulle cellule e sotto-regolano l’espressione delle citochine proinfiammatorie secrete dai

monociti (Chomarat et al., 1998). Le due citochine hanno inoltre effetti

proinfiammatori su altri tipi di cellule ed in particolare aumentano l’espressione di IL-6

da parte di cellule endoteliali e cheratinociti (Derocq et al., 1994).

Finora IL-4 ed IL-13 non erano state considerate citochine antivirali, ma

recentemente è stata dimostrata la loro capacità di reprimere l’espressione di HIV in

monociti e macrofagi umani (Naif et al, 1997; Montaner et al., 1997). In uno studio

condotto su una linea cellulare di pro-monociti, IL-4 è in grado di inibire l’espressione

di HIV, indotta dagli esteri del forbolo, a livello trascrizionale (inibizione della regione

LCR) attraverso l’azione di NFkB. Si ritiene pertanto che IL-4 possa indurre uno stato

di senescenza cellulare in monociti infettati, impedendo l’espressione del virus in

seguito allo stimolo dato da citochine infiammatorie (Goletti et al., 2002).

Inoltre, è stata evidenziata la capacità di IL-4 di sopprimere l’espressione e la

replicazione del virus dell’Epatite B a livello trascrizionale in linee cellulare del

carcinoma epatocellulare (Lin et al., 2003).

Questi osservazioni, insieme ai risultati presentati in questa tesi, evidenziano un

ruolo emergente di IL-4 e IL-13 nella difesa dell’ospite contro le infezioni virali,

sebbene il loro significato clinico sia ancora da chiarire.

Concludendo, il saggio, oggetto di questa tesi, costituisce un valido strumento

per l’identificazione di composti inibenti la trascrizione delle oncoproteine E6 ed E7 di

HPV-16. Data la sua adattabilità ad un formato ad alta resa, il suo impiego può

concretamente facilitare la ricerca e lo sviluppo di farmaci per il trattamento di

carcinomi umani associati a HPV.

Il saggio cellulare ci ha permesso di eseguire la prima analisi sistematica degli

effetti esercitati dalle citochine sull’ attività trascrizionale della regione LCR di HPV-

16. I dati ottenuti rappresentano quindi una fonte di informazioni utili per guidare gli

studi futuri sul ruolo svolto dalle citochine nella “clearence” del virus dai tessuti infetti

e nella sorveglianza delle infezioni persistenti causate da HPV.

La scoperta di nuove citochine, IL-4 e IL-13, inibitorie dell’espressione di E6 ed

E7, giustifica inoltre indagini future finalizzate a verificare se il trattamento delle cellule

del carcinoma cervicale con queste citochine possa permettere il recupero dell’attività

degli oncosoppressori p53 e p105Rb ed il controllo della crescita cellulare.

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