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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO INTERFACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
E SCIENZE POLITICHE
CORSO DI LAUREA IN MEDIAZIONE LINGUISTICA E CULTURALE
LA MEDIAZIONE PER UNA NUOVA ETICA
DEGLI SCAMBI
COME INTERAGISCE LA GRANDE DISTRIBUZIONE ORGANIZZATA
NELLE FILIERE DEL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE
Tesi di Laurea di: Mara Cimasoni Matricola: 648154
Relatore: Prof. Sandro Rinauro
Anno Accademico 2007/2008
2
3
Indice
Introduzione ............................................................................................................... 5
1. Economia, commercio e mediazione...................................................................... 8
1.1 La mediazione può veicolare una nuova etica nell’economia? ............................ 8
1.2 L’economia come se le persone contassero........................................................10
2. Economia solidale..................................................................................................13
2.1 Il significato di economia solidale: cosa s’intende .............................................13
2.2 Forme di economia eticamente regolata.............................................................19
2.2.1 Il commercio equo e solidale (CES)............................................................19
2.2.2 La finanza etica ..........................................................................................20
2.2.3 Il microcredito ............................................................................................22
2.2.4 Il consumo critico e responsabile ................................................................24
2.3 Economia della responsabilità sociale................................................................26
3. Criteri operativi, cenni storici e analisi economica del CES................................30
3.1 Trade, not aid....................................................................................................30
3.1.1 Il prezzo equo .............................................................................................31
3.1.2 La sostenibilità ambientale e sociale ...........................................................34
3.1.3 L’investimento in beni pubblici locali.........................................................34
3.1.4 L’assistenza tecnica e finanziaria ................................................................35
3.2 Compatibilità tra CES e economia di mercato....................................................36
3.3 Cenni storici e culturali sulla nascita del CES....................................................38
3.4 Dal punto di vista della dottrina economica .......................................................41
3.5 Rilevanza e diffusione attuale in Italia e in Europa ............................................45
3.6 Gli attori e intermediari del CES........................................................................50
3.6.1 Produttori del Sud del mondo .....................................................................50
3.6.2 Associazioni, cooperative e consorzi di produttori ......................................50
3.6.3 Centrali d’importazione/Alternative Trade Organizations (ATOs) ..............51
3.6.4 Enti e marchi di certificazione ....................................................................52
3.6.5 Botteghe del Mondo (BdM)/Worldshops ....................................................55
4
3.7 La filiera del CES..............................................................................................57
4. L’evoluzione del CES: le interazioni con l’economia e il mercato tradizionale ..59
4.1 L’interazione con la GDO: nuove forme di distribuzione per il CES..................60
4.1.1 Le filiere ibride...........................................................................................66
4.1.2 Alcuni esempi di filiere ibride.....................................................................68
4.1.2.1 Il caso Esselunga – Ctm Altromercato..................................................68
4.1.2.2 Il caso Dico – Commercio Alternativo .................................................69
4.2 La responsabilità sociale nella GDO: una nuova interazione con il CES ............70
4.2.1 Le filiere imitative condotte dalle imprese della GDO.................................73
4.2.2 Alcuni esempi di filiere imitative condotte dalle imprese della GDO ..........75
4.2.2.1 Il caso Tesco plc ..................................................................................75
4.2.2.2 Il caso Marks&Spencer ........................................................................76
4.2.2.3 Il caso Coop Italia ................................................................................77
4.3 Le interazioni tra CES e GDO: il contesto italiano.............................................80
4.4 La responsabilità sociale delle imprese industriali: nuovi prodotti etici ..............86
4.4.1 Le filiere imitative condotte dalle imprese industriali..................................86
4.4.2 Alcuni esempi di filiere imitative condotte dalle imprese industriali............88
4.4.2.1 Il caso del marchio Mondovero/Alce Nero...........................................89
4.5 Sostenitori e detrattori delle contaminazioni con il mercato tradizionale: le
criticità e le potenzialità delle interazioni.................................................................90
Appendice 1. La carta italiana dei criteri del commercio equo e solidale...............96
Appendice 2. La carta d’Identità delle Botteghe ...................................................101
Appendice 3. La torta della GD italiana ................................................................103
Appendice 4. Graduatoria delle prime 30 imprese europee della GDO ...............104
Bibliografia..............................................................................................................105
Sitografia .................................................................................................................107
5
Introduzione
Questo scritto nasce da una duplice esigenza personale: la curiosità di conoscere le
prospettive di crescita del mercato equo e solidale come recente fenomeno socio-
economico che si inserisce nella vasta sfera dell’economia della responsabilità sociale, e
l’interesse per rintracciare tutti i possibili contesti d’uso della mediazione all’interno dei
circuiti in continua evoluzione dell’economia solidale.
Ho sempre considerato il commercio equo e solidale (CES) come emblema di
un’interazione economica con esito più che positivo fra soggetti molto diversi: si tratta
di una forma alternativa di commercio e di un modello di consumo che, affiancandosi ai
tradizionali circuiti commerciali, intende superare i difetti delle attuali relazioni
economiche tra Nord e Sud del mondo attraverso un’equa distribuzione del valore lungo
tutta la filiera di produzione e distribuzione dei prodotti provenienti dai Paesi in via di
sviluppo (PVS), promuovendo al contempo la compatibilità sociale e ambientale. Il fine
ultimo è quello di stimolare un concreto sviluppo in quelle aree del mondo dove
mancano risorse e infrastrutture per un decollo economico. Come forma di commercio,
questo modello non intende sovvertire il sistema economico prevalente, ma affiancarsi
come mercato alternativo basato su relazioni economiche paritarie.
Per funzionare, necessita concretamente di una mediazione fra le parti: lungo le
filiere di produzione e distribuzione interagiscono soggetti diversi che sono in grado di
raggiungere intese commerciali grazie a un’intesa attività di trattative basate sul dialogo,
l’assistenza e l’appoggio a progetti di sviluppo per l’investimento degli utili. Dal
piccolo produttore, associato a un consorzio o una cooperativa, al consumatore finale,
passando per le centrali d’importazione e gli enti di certificazione, la mediazione è
strumento imprescindibile per un’interazione efficace e proficua: permette di gettare
quel ponte ideale tra produttore e consumatore1, metafora spesso utilizzata dagli
operatori del settore per descrivere l’efficienza delle filiere eque e solidali, come canali
che evitano il maggior numero di passaggi distributivi.
1 Becchetti L. e Costantino M. (2007), “L’economia come se le persone contassero: produttori marginalizzati e consumatori responsabili”, in C. Pepe (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo e mercati avanzati, Milano: Franco Angeli, p. 56.
6
Consolidatosi attraverso queste filiere alternative ed autonome, il CES sta
sperimentando da qualche anno a questa parte un ampliamento dei volumi delle proprie
quote di mercato attraverso nuovi canali produttivi e distributivi, resi possibili grazie
all’interazione con alcuni dei più importanti attori del commercio internazionale, come
le imprese transnazionali e la grande distribuzione organizzata. Un intervento calibrato
di mediazione è reso per questo ancora più indispensabile dalla convergenza di questi
intermediari inediti che, per di più, perseguono obiettivi commerciali lontanissimi dalla
realtà del CES (come la massimizzazione del profitto e l’accumulazione del capitale).
L’influenza di questi nuovi attori nelle filiere eque e solidali è considerevole perché la
loro interazione con il mercato equo sta stimolando una crescita del commercio solidale
quasi inaspettata, con un ampliamento senza eguali delle reti distributive e la creazione
di nuove gamme di prodotti equi curati dalle stesse multinazionali.
Per la portata di questo fenomeno, non tutti gli operatori del mercato equo e solidale
vedono di buon occhio queste prospettive di crescita, ed è nato un acceso dibattito: il
timore di una banalizzazione o di uno stravolgimento dei valori solidali, insieme allo
sfruttamento dei marchi e delle certificazioni eque e solidali per mere strategie di
marketing, è elevato. Secondo invece alcuni esperti, poter guidare questo processo di
contaminazione determinerebbe un ulteriore ampliamento delle gamme di prodotti (oggi
limitate ad alcuni prodotti commodities2) e l’allargamento della distribuzione, arrivando
così a una maggiore visibilità ed efficienza.
È difficile poter pronosticare e formulare previsioni verosimili, ma per le ricadute
future di questi fenomeni di contaminazione ritengo sia utile ipotizzare le opportunità e i
limiti dell’evoluzione del CES costituite dalle nuove filiere ibride, nate dall’incontro del
mercato equo e la grande distribuzione, affinché si possa perseguire un beneficio diffuso
fra tutti i partecipanti e perché si possano trovare misure concrete per raggiungere
accordi economici che comportino ricadute positive per lo sviluppo delle economie dei
paesi più fragili e marginalizzati dal commercio internazionale. La mediazione va intesa
dunque non solo come strumento per la creazione di nuove filiere che includono
soggetti molto diversi, ma anche come una pratica che promuove un approccio
commerciale innovativo, che superi la sfera economica (interesse solo per il prodotto) e
2 Con questo termine, nella letteratura economica ci si riferisce a prodotti agroalimentari e materie prime (banane, caffè, cacao, tè, cotone…) provenienti dai paesi ex-coloniali, che rappresentano una quota notevole del commercio Sud-Nord del mondo.
7
pervada la dimensione sociale (prospettiva relazionale), per stimolare e sostenere una
nuova etica degli scambi attraverso la diffusione di un sistema di valori morali
sostenibili anche nei circuiti economici tradizionali e nelle abitudini di consumo.
Come punto di partenza, ho voluto iniziare questo scritto con un quesito relativo al
possibile ruolo della mediazione nella sfera economica, per poi rintracciarne a livello
teorico l’utilità del suo impiego nelle transazioni commerciali. Trovando una valida
risposta nell’approccio relazionale come modalità innovativa di intendere il commercio,
i primi capitoli intendono presentare una concezione economica distinta dall’attuale
modello di sviluppo prevalente, per introdurre alcuni dei contributi più recenti della
dottrina in merito al rapporto tra etica ed economia.
Il ricorso ad un approccio inedito negli scambi commerciali e il riconoscimento di
una responsabilità delle proprie azioni da parte dei principali attori economici sono ciò
che contraddistingue le pratiche di un’economia altra, generalmente denominata
economia solidale, le cui declinazioni concrete sono brevemente descritte nel secondo
capitolo.
A un approfondimento di una di queste pratiche, la più consolidata e riconosciuta, è
dedicato il terzo capitolo, dove vengono trattati al dettaglio i suoi criteri operativi,
insieme ad alcuni cenni sulla sua nascita e sulle considerazioni formulate da specialisti
dell’economia politica.
L’ultimo capitolo indaga alcune delle interazioni più interessanti fra l’economia di
mercato e CES, analizzando le soluzioni di compromesso raggiunte attraverso le filiere
ibride e imitative, realizzate grazie alla mediazione degli interessi di soggetti economici
diversi fra loro: questa parte consente di rintracciare gli sviluppi, le opportunità e i limiti
emersi dall’incontro di un sistema economico consolidato con un modello alternativo di
produzione e di consumo.
8
1. Economia, commercio e mediazione
1.1 La mediazione può veicolare una nuova etica nell’economia? La teorizzazione di un atteggiamento altruistico negli scambi commerciali non
costituisce qualcosa di inedito, ma è la sua applicazione pratica che lo è.
A partire dagli anni ’90 del secolo scorso, si sono pubblicati svariati volumi e
organizzati diversi convegni sul rapporto tra etica ed economia3: si è registrata quindi
una tendenza considerevole in campo accademico nel ricongiungere lo studio
dell’economia alla morale. Un esempio concreto di questa constatazione è dato dalla
nascita di centri di ricerca accademici4 dedicati allo studio delle relazioni economiche
che sorgono nei contesti della cooperazione e del non profit, vista l’importanza sempre
più crescente del cosiddetto Terzo settore, animato da istituzioni e soggetti economici
privati che attuano in una prospettiva etica nei confronti della collettività.
In questo campo di studi, è stato possibile concepire in modo innovativo lo scambio
commerciale, ispirato alla logica conciliativa della relazione e basato sulla mediazione
delle esigenze dei soggetti che vi prendono parte.
Modificando il senso e le ragioni dello scambio di stampo capitalistico, la
mediazione può rivelarsi uno strumento di informazione e una modalità di
partecipazione che permette di modificare una transazione commerciale strumentale in
un processo inclusivo, all’interno del quale i beneficiari possono instaurare un rapporto
basato sulla parità e la trasparenza, nel rispetto di un ordine di valori che mira al
benessere degli individui coinvolti. Questa modalità di scambio mette al centro di una
3 A questo proposito, è utile ricordare i recenti contributi di premi Nobel per l’economia a questa tematica: Scelta, benessere e equità di Sen (2006), Impresa, mercato, diritto di Coase (2006), Stato, mercato e libertà di Buchanan (2006) e Commercio equo per tutti di Stiglitz (2007). 4 In Italia, l’attività del Centro di Ricerche sulla Cooperazione e il Non Profit dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ha portato nel 2006 alla pubblicazione della prima indagine di rilevanza nazionale sul Commercio Equo e Solidale, a cui si affianca Econometica, il Centro Interuniversitario per l’Etica economica e la Responsabilità Sociale d’Impresa, mentre a livello internazionale vanno segnalati il network europeo EMES, Emergence des entreprises sociales en Europe, il network sudamericano RILESS, Red de Investigadores Latinoamericanos sobre Economía Social y Solidária e il canadese CRISES, Centro di Ricerca sulle innovazioni sociali (Laville J.-L., Cattani A. D. (2006), Dizionario dell’altra economia, Roma: Sapere 2000, p. 49).
9
relazione commerciale i suoi attori e le loro esigenze, rendendoli così capaci di trovare
un accordo condiviso, evitando che uno si avvantaggi a discapito dell’altro.
Più in generale, una prospettiva antropologica applicata agli scambi commerciali può
essere fonte di un vantaggio diffuso, grazie all’attenzione rivolta alla qualità delle
relazioni con i propri simili, e non solo per il volume di beni fisici o degli introiti
monetari. Questo può essere possibile grazie alla mediazione degli interessi e delle
identità delle parti che intendono instaurare un rapporto commerciale paritario,
attraverso il quale si vuole dare maggiore importanza alle esigenze dei soggetti e delle
comunità coinvolte, più che al ritorno economico.
Parallelamente, alcuni economisti hanno recentemente iniziato a pensare in maniera
sistematica al rapporto tra ricchezza e felicità5, arrivando a comprendere l’importanza
della qualità della rete di relazioni dell’individuo rispetto all’ambiente sociale che lo
circonda: non sembra che il disporre di ingenti somme di denaro sia necessariamente
fonte di benessere senza l’inclusione a un ambiente sociale in cui ci si riconosca e con
cui si condividano valori comuni6. La stessa logica può essere applicata alle ragioni
dello scambio commerciale: non vi è soddisfazione reciproca se manca un vantaggio
condiviso da entrambi le parti.
L’approccio relazionale applicato agli scambi economici attraverso la mediazione
degli interessi e delle motivazioni in gioco può rivelarsi inoltre uno strumento
d’intervento efficace in caso di criticità. Il ruolo della mediazione in campo economico
è di fondamentale importanza fra soggetti che perseguono obiettivi commerciali diversi,
e se è in grado di veicolare valori come la fiducia, lo scambio di conoscenze e la
reciprocità, può dare origine a una partnership di medio - lungo termine che comporta
un beneficio condiviso.
Questo stesso atteggiamento può essere applicato anche nella sfera dei consumi: il
cittadino che sceglie di acquistare un prodotto che veicola determinati valori morali nei
confronti del produttore (per esempio, condizioni di lavoro dignitose), andando oltre i 5 All’argomento è stata dedicata una specifica sessione nella Conferenza Annuale dell’American Economic Association del 2002 (Becchetti L. e Paganetto L. (2003), Finanza etica. Commercio equo e solidale. Roma: Donzelli). 6 È interessante ricordare che “le classifiche internazionali evidenzino come il gap di reddito tra paesi ricchi e paesi poveri non si traduca in un eguale gap di felicità, con il paradosso di alcuni paesi poveri del Sud del mondo in posizione migliore rispetto a tanti paesi cosiddetti avanzati” (Becchetti L. e Costantino M. (2007), “L’economia come se le persone contassero: produttori marginalizzati e consumatori responsabili” in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo…cit., p. 52).
10
criteri tradizionali di scelta come la qualità e il prezzo, adotta un approccio etico che gli
permette di superare quell’alienazione dello scambio imposta dal modello consumistico
prevalente nelle società industrializzate, dove lo scarto informativo ha determinato una
distanza tra merce e consumatore (vedi modalità d’acquisto nei grandi magazzini:
supermercati, discount, centri commerciali) spogliando l’acquisto di ogni valenza
sociale.
Se attualmente nei mercati delle merci e dei capitali si accusa una mancanza di
riferimento ad un quadro etico, dovuto al predominio delle dottrine liberiste, basate sui
principi della deregulation (assenza di regole), una modalità nuova degli scambi può
conciliare il commercio al benessere collettivo a livello transnazionale.
Per il momento, questo approccio relazionale contraddistingue alcune pratiche
economiche che mirano a stimolare rapporti paritari e concorrono alla creazione di
un’economia solidale ma alcuni specialisti segnalano la diffusione di questo approccio
commerciale anche nei circuiti economici dove fino a poco tempo fa si pensava fosse
impossibile il rispetto di criteri eticamente corretti.
1.2 L’economia come se le persone contassero7
La prospettiva relazionale applicata agli scambi commerciali apre così una sfida
all’attuale ordine economico: la mediazione permette di condurre un’interazione sulla
base del rispetto di un quadro etico e di gestire così la qualità della relazione
commerciale, superando una dimensione meramente economico-strumentale, in modo
tale da mettere al centro del rapporto le esigenze delle parti coinvolte e trovare un
accordo o un compromesso che le soddisfi, senza che avvenga a spese di una delle due.
Questa prospettiva riporta l’economia a una dimensione umana, e mette in chiaro la
sua missione come scienza sociale: creare valore e utilità al servizio dell’uomo, come
mezzo (e non fine assoluto) per la realizzazione non solo individuale ma collettiva,
perché la disciplina economica è una scienza rivolta alla società, e quindi al prossimo e
alla collettività e al loro benessere.
7 Titolo del working paper di Zamagni S. (2006), “L’economia come se la persona contasse: verso una teoria economica relazionale”, Aiccon Working paper n.32, Università di Bologna – sede di Forlì.
11
Questo approccio si rintraccia nei numerosi studi che caratterizzano da qualche
tempo a questa parte la letteratura economica, dove si va sempre più affermando
l’esigenza di ricorrere alla prospettiva relazionale per superare le insufficienze ed i
limiti esplicativi legati al paradigma riduzionista dell’individualismo massimizzante8: si
nota una crescente attenzione rivolta alla componente relazionale dell’individuo, che
segna una nuova visione dell’economia, particolarmente eclettica perché fa convergere i
contributi di diverse scienze sociali come la psicologia, la sociologia e l’antropologia
nell’analisi economica9.
In particolare, in questi contributi si concentra l’attenzione sull’importanza delle
azioni degli individui che, grazie alle loro interazioni, determinano le priorità e danno
risposta alle esigenze della collettività, superando lo stereotipo predominante di
un’egemonia della finanza e dell’economia, in un contesto economico in cui quello che
conta sono le persone e le loro scelte.
Un esempio di questa corrente della disciplina è il concetto formulato da Zamagni e
Bruni10 di “economia civile” che vede il mercato come spazio dove si esercitano le virtù
civili, come reciprocità, fiducia e fraternità, e focalizza l’attenzione sul benessere della
società civile grazie all’interazione e partecipazione dei cittadini attraverso una
democrazia economica, all’interno della quale gli individui contribuiscono attivamente
al raggiungimento di un equilibrio sociale.
Un ulteriore esempio si basa sugli stessi principi, ed è costituito dai fondamenti
dell’“economia della responsabilità sociale”, dove la responsabilità è ripartita tra i
cittadini che, agendo dal basso, possono influenzare il comportamento delle istituzioni e
delle imprese attraverso le proprie scelte.
Questi contributi non intendono stravolgere i fondamenti della dottrina economica,
ma restituirle il giusto significato di scienza sociale: rimettere la società al centro
8 Si tratta del paradigma neoclassico incentrato sulla figura dell’homo oeconomicus, il quale può raggiungere il suo massimo grado di soddisfazione attraverso la massimizzazione dei beni a sua disposizione. (Becchetti L. e Costantino M. (2006), Il commercio equo e solidale alla prova dei fatti. Milano: Mondadori, p. 13). 9 Becchetti L. e Costantino M. (2007), “L’economia come se le persone contassero: produttori marginalizzati e consumatori responsabili” in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo…cit., p. 53. 10 Autori del saggio del 2004 Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica edito da Il Mulino, Bologna. Tra l’altro, Zamagni ha coniato l’espressione homo reciprocans, inteso come soggetto economico con attitudini alla reciprocità e socialità nell’analisi economica (contrapposto a homo oeconomicus).
12
dell’economia e ridare al commercio la sua funzione di creazione di benessere. Come
scritto da Ransom: “il punto è di restituire al commercio quello che ne è lo scopo
essenziale: accrescere il benessere del genere umano nel suo insieme, se non ci riesce è
un’impresa priva di valore che arricchisce alcune persone rendendone povere molte di
più senza portare proprio a niente”11.
11 Ransom D. (2004), Commercio equo e solidale. Roma: Carocci, p.30.
13
2. Economia solidale
2.1 Il significato di economia solidale: cosa s’intende Se da un lato il processo di globalizzazione12 sta generando opportunità senza
precedenti per la crescita economica13, dall’altro lato suscita anche grandi
preoccupazioni relative alla sostenibilità ambientale e sociale, insieme ai problemi del
commercio internazionale e alle disparità sociali14 di un mondo sempre più
interconnesso.
I volumi della produzione e del commercio mondiale hanno raggiunto una soglia
quantitativa senza pari ma a rischio di uno sfruttamento e spreco delle risorse vitali da
cui dipende l’umanità: non sono pochi gli specialisti che, da prospettive di dottrine
diverse, hanno segnalato che “di più” non significa necessariamente “meglio”. A questo
proposito, una contraddizione data dalla crescita costante del reddito mondiale viene
segnalata dagli economisti dello sviluppo: la ricchezza mondiale cresce ogni anno, ma
non garantisce benessere a tutti15.
Il problema urgente rappresentato dalla gestione dei beni pubblici globali per uno
sviluppo diffuso necessita di nuove regole e strumenti per garantire la stabilità dei
12 Inteso come fenomeno complesso che consiste nell’integrazione economica dei mercati a livello globale secondo i principi dell’economia di mercato e del liberismo commerciale, e la crescente libertà e velocità nella mobilizzazione dei capitali. 13 Nell’analisi economica, si distinguono i concetti di crescita e sviluppo. La crescita è definita come l’aumento di un indicatore quantitativo, come il prodotto interno lordo (PIL); lo sviluppo si riferisce alla combinazione di azioni economiche e sociali volte a migliorare il benessere di una collettività, includendo le condizioni di vita non riducibili al solo tenore di vita (Laville J.-L., Cattani A. D. (2006), Dizionario… cit., p. 15). 14 L’ampliamento del divario economico e sociale si manifesta sia all’interno di ciascun paese che nelle relazioni tra i paesi del Sud e del Nord del mondo: “la differenza tra i redditi del 10 per cento più ricco e del 10 per cento più povero su scala mondiale si allarga: il rapporto era di 1 a 11 nel 1913; 1 a 35 nel 1973; 1 a 72 nel 1992. Il 20 per cento più ricco si accaparra l’86 per cento del prodotto interno lordo mondiale, il 20 per cento più povero appena l’1 per cento. Si contano 1,2 miliardi di persone che dispongono di meno di un dollaro al giorno e 2,8 miliardi (oltre il 45 per cento della popolazione mondiale) con meno di 2 dollari. Mentre 1,3 miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile, le fortune delle 200 persone più ricche del pianeta superano i redditi cumulativi del 41 per cento della popolazione mondiale” (Laville J.-L., Cattani A. D. (2006), Dizionario… cit., p. 40). Inoltre, a questa lista di contraddizioni, va aggiunto un ulteriore dato: i fatturati annuali di singole multinazionali superano il PIL di diversi paesi, come segnalato dalle Nazioni Unite in un suo report del 2002. 15 Becchetti L. (2005), La felicità sostenibile, Roma: Donzelli, 2005, p. 3.
14
mercati finanziari, la tutela dell’ambiente, la conservazione delle risorse e l’equità
globale, per superare i difetti delle istituzioni internazionali preposte a queste funzioni,
come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione
Mondiale del Commercio, accusate di promuovere politiche commerciali e finanziare a
vantaggio di pochi.
Figura 1. Vignetta di Subito
“La corsa allo sviluppo è una corsa ad ostacoli nella quale gli atleti più deboli devono superare ostacoli più alti”16
Fonte della figura: http://www.italia.attac.org/tobin/vi11.html
L’economia solidale s’inserisce nel dibattito in corso relativo al divario economico e
sociale tra i paesi del Nord e del Sud del mondo, proponendo alternative reali e concrete
alle dinamiche dell’economia capitalistica e neoliberista per una nuova prospettiva
relazionale negli scambi commerciali transnazionali, attraverso le pratiche del
commercio equo e solidale, la finanza etica, il microcredito e il consumo critico, e
perseguendo l’obiettivo finale di promuovere lo sviluppo17 nelle aree più arretrate del
pianeta. Questo fenomeno viene talvolta identificato come un vero e proprio 16 OXFAM (2002), Rigged rules and double standards: trade, globalization, and the fight against poverty, Washington: Oxfam Publishing. 17 “Occorre smascherare l’assunto che a una ripresa dell’economia nazionale corrisponda necessariamente un miglioramento della vita dei poveri: lo sviluppo dev’essere concepito come un diritto dell’uomo, non come un fatto di crescita nel prodotto nazionale lordo. In una concezione profondamente rinnovata, lo sviluppo si dovrà intendere come un cambiamento concreto della situazione economica della metà più povera di una popolazione, misurando tale cambiamento in base al reddito reale per abitante”. (Yunus M. (1998), Il banchiere dei poveri, Milano: Feltrinelli, p. 28).
15
movimento, perché implica il coinvolgimento e la partecipazione dei cittadini del Nord
del mondo che, attraverso le scelte di consumo e risparmio, contribuiscono in prima
linea al sostegno e alla realizzazione delle pratiche di un modello economico
alternativo, migliorando inoltre indirettamente il contributo di imprese e istituzioni
impegnate nel riequilibrio del benessere economico e sociale dei paesi.
Molti operatori riconoscono la validità di queste forme di commercio e finanza
alternativi, complementari alle politiche di sviluppo delle istituzioni dei paesi del Nord e
Sud del mondo, perché determinano ripercussioni concrete e positive, a differenza degli
aiuti umanitari, che si limitano ad avere un carattere solo assistenziale e unilaterale,
senza stimolare un cambiamento concreto.
L’economia solidale intende affiancarsi alle forme tradizionali dell’economia
liberista, col fine di correggere dall’interno quelle diseguaglianze che oggi viziano il
commercio globale, dove si sono consolidate dinamiche di potere che favoriscono solo
alcuni soggetti a discapito di tutti gli altri, e dove valori di rispetto e dignità si sono
persi per quelli di profitto e arricchimento immediato a ogni costo.
Figura 2. Vignetta di Bruno D’Alfonso
La banana rappresenta uno dei prodotti commodities dei PVS soggetto al controllo degli oligopoli esercitati dalle principali imprese transnazionali in campo agroalimentare.
Fonte della figura: http://it.geocities.com/ciaccifumetti/vignette/pages/commercio-equo-solidale_jpg.htm
16
Difatti, i circuiti tradizionali dei prodotti commodities dal Sud del mondo, soprattutto
provenienti dai paesi ex – coloniali, presentano diversi problemi perché caratterizzati da
una forte asimmetria relazionale tra i suoi intermediari: precarie e malsane condizioni di
vita e di lavoro dei produttori, problemi d’impatto ambientale, forti squilibri di potere
nella catena di trasformazione e distribuzione, turbolente dinamiche di mercato, difficile
confronto con le esigenze del produttore e del consumatore finale18.
Inoltre, il commercio dal Sud del mondo di questi prodotti è caratterizzato dalla
presenza di multinazionali che, di fatto, controllano le catene di produzione e
distribuzione, lucrando la gran parte dei profitti ricavabili dalla filiera19: questo è lo
stato del mercato dei prodotti agroalimentari esportati dai PVS, gestito a favore di
oligopoli di importatori e imprese transnazionali che trattengono i ricavi nelle aree più
sviluppate, determinando lo sfruttamento di economie fragili, e negando le possibilità di
sviluppo che potrebbero colmare il divario economico e sociale che caratterizza il
pianeta. Inoltre, è proprio su questi prodotti che i governi dei paesi più industrializzati
riservano le barriere commerciali più restrittive e i dazi doganali più alti, che ricadono
sul debito estero dei paesi più poveri.
La mancanza di equilibrio nelle attuali relazioni del mercato internazionale rende
fragile la posizione di chi è svantaggiato e lascia spazio d’azione a chi invece detiene
più potere, che è così in grado di stabilire condizioni e prezzi a proprio ed esclusivo
vantaggio.
Le pratiche dell’economia solidale intendono porre rimedio allo squilibrio dei
mercati globali, seguendo il principio secondo il quale è la creazione di reddito20, e
quindi lo sviluppo, a poter risollevare le sorti delle economie dei PVS, non tanto la
distribuzione a pioggia di aiuti monetari attraverso i programmi di cooperazione poco
praticabili e spesso inefficaci.
18 Pepe C. (2007), “Filiere tradizionali e filiere alternative nel commercio dei prodotti dal Sud del mondo”, in Pepe C. (a cura di), Prodotti dal Sud del mondo e mercati avanzati. Potenzialità e contaminazioni tra commercio equo e solidale e commercio internazionale. Milano: Franco Angeli, p. 23. 19 Ibid. p. 27. 20 “La creazione di reddito favorita dallo spirito imprenditoriale è dunque il prerequisito fondamentale necessario per disporre di risorse utilizzabili per risolvere i problemi dello sviluppo” (Becchetti L. e Paganetto L. (2003), Finanza etica… cit., p. 15).
17
Figura 3. Vignetta di Subito
Un esempio dell’inefficienza degli aiuti internazionali è dato dai cosiddetti aiuti “legati”, che obbligano i PVS ad un ulteriore vincolo di dipendenza dai paesi più avanzati21.
Fonte della figura: http://www.italia.attac.org/tobin/vi03.html
All’interno di un dossier redatto da Oxfam nel 2002 dedicato al commercio mondiale
e alla lotta alla povertà, è possibile rintracciare un dato che giustifica l’inefficacia degli
aiuti finanziari allo sviluppo e alla cooperazione da parte dei paesi del Nord del mondo,
nonostante i loro considerevoli volumi: “Le restrizioni commerciali dei paesi ricchi
costano ai PVS circa 100 miliardi di dollari l’anno – due volte quanto ricevono in
termini di aiuti allo sviluppo”22.
Questa contraddizione ha stimolato e continua a incentivare la ricerca e la
sperimentazione di un’economia alternativa, regolata su valori e principi che permettano
la creazione di reddito là dove le condizioni economiche e sociali non lo rendono
possibile; in altre parole, un’economia animata e regolata dal concetto di solidarietà, sia
a un livello macroeconomico, dove le politiche delle istituzioni internazionali (Fondo
Monetario Internazionale e Banca Mondiale) stimolano e agevolano una reale
partecipazione ai mercati globali dei paesi marginalizzati dai circuiti e dagli accordi che
avvantaggiano i paesi industrializzati, sia a livello microeconomico, che vede il
consumatore finale agire con uno spirito altruistico, non solo sul piano ideale
21 Si tratta di risorse finanziare donate ai PVS a condizione che vengano impiegate per l’acquisto di beni prodotti dal paese donatore o per finanziare l’intervento esclusivo di imprese del paese donante per la costruzione delle opere ritenute necessarie. 22 OXFAM (2002), Rigged rules and double standards… cit., p.10.
18
(condivisione di valori di uguaglianza, autodeterminazione dei popoli, giustizia) ma,
con la sua scelta concreta, agisce per appoggiare la predisposizione di condizioni adatte
allo sviluppo dei paesi produttori, come la produzione autoctona, l’occupazione, il
miglioramento delle condizioni sociali dei PVS.
Rimane chiaro che i sostenitori e fruitori delle pratiche dell’economia solidale non
hanno la pretesa di presentare questo modello commerciale come la panacea agli
squilibri del mercato internazionale, ma le ragioni a sostegno di un’economia
eticamente regolata si fondano sulla validità dei risultati finora raggiunti, che mirano a
stimolare nel lungo termine una reale convergenza23, processo attraverso il quale le
economie dei paesi più arretrati possano raggiungere ed “agganciare” le economie dei
paesi industrializzati.
A fianco delle proposte dell’economia solidale, rimane per tanto valido l’appello
lanciato da molti per la realizzazione di politiche che ristabiliscano un riequilibrio
nell’ordine internazionale, non solo a livello economico, a partire dalla riforma di
organismi internazionali24 che siano efficienti e universalmente riconosciuti, ed
effettivamente in grado di incidere con progetti e regole per la massimizzazione del
benessere collettivo e non del profitto di una minoranza.
Da un punto di vista meramente terminologico, l’espressione “economia solidale”
viene utilizzata con un’accezione piuttosto ampia dalla maggior parte degli specialisti
che si occupano di analizzare queste pratiche economiche alternative, come il sociologo
francese Laville. Altri economisti esprimono preferenze anche per altre espressioni,
come “economia sociale”, “economia del benessere”, “economia civile” coniata da
Zamagni, “economia dal basso” impiegata molto da Becchetti per riferirsi al
coinvolgimento di una cittadinanza attiva nel sostenere e utilizzare gli strumenti di
consumo e risparmio in senso socialmente responsabile. 23 “La maggior parte dei lavori degli economisti concorda nel sostenere che la convergenza delle aree arretrate verso quelle più sviluppate è ritenuta, in generale, condizionata da quattro fattori principali: capitale fisico, capitale umano, qualità delle istituzioni (governance) e livello della tecnologia. Questo vuol dire che per recuperare i livelli di sviluppo dei paesi più avanzati, gli inseguitori devono raggiungere gli stessi tassi di risparmio e investimento, gli stessi livelli di scolarizzazione e di accesso alle tecnologie informatiche, la stessa stabilità istituzionale. Il recupero inoltre è reso particolarmente difficile dalla necessità di un’azione congiunta e contemporanea su tutti i fattori, non essendo sufficiente ai fini della convergenza e dell’uscita dalla “trappola della povertà” il progresso su uno solo di essi” (Becchetti L. e Paganetto L. (2003), Finanza etica… cit., p. 14). 24 Più volte è stata avanzata la proposta di riforma di organismi internazionali preposti a ristabilire equilibrio negli assetti economici e politici a livello mondiale: un esempio fra molti, la riforma delle Nazioni Unite.
19
2.2 Forme di economia eticamente regolata
2.2.1 Il commercio equo e solidale (CES)25
Secondo una definizione particolarmente semplice ma esaustiva, il CES costituisce
una modalità di commercio alternativo di prodotti agroalimentari e artigianali esportati
dai paesi del Sud del mondo verso i consumatori del Nord, basato su un processo
produttivo e distributivo che rispetta una serie di parametri che, complessivamente,
intendono stimolare lo sviluppo e la creazione di reddito nei PVS.
Secondo un’altra definizione, fornita da Becchetti e Costantino, il CES non è che
“una speciale filiera d’importatori, distributori e dettaglianti (chiamati commercianti
equosolidali) di prodotti alimentari e artigianali, parzialmente o interamente prodotti da
comunità rurali povere di paesi in via di sviluppo”26.
Questi prodotti si differenziano dunque non tanto per la loro qualità, ma per la natura
e le caratteristiche del processo produttivo27 in cui si ha pieno rispetto di criteri
eticamente orientati, come la dignità del lavoro, la sostenibilità sociale e ambientale, la
trasparenza e infine il reinvestimento di una parte degli introiti in beni pubblici locali.
Questi parametri rappresentano un contributo decisivo alla soluzione dei problemi
generati dall’attuale sistema produttivo prevalente e dai fallimenti del mercato; per
esempio, la stabilizzazione del prezzo, il prefinanziamento della produzione, la
compatibilità sociale e ambientale, la trasparenza dell’informazione, la partnership tra
importatore e produttore in grado di generare servizi all’export e opportunità di
apprendimento e trasferimento tecnologico.
Il principio cardine di questo modello commerciale è rappresentato dal “prezzo
equo”, che si riferisce a una remunerazione dei produttori dei PVS che garantisca un
ricavo più alto rispetto a quello realizzato dai canali commerciali tradizionali,
consentendo così ai lavoratori e produttori di soddisfare i bisogni essenziali e di
25 Per un approfondimento sui criteri operativi, intermediari, filiere produttive e distributive, cenni storici e analisi economica, cfr. capitolo III. 26 Becchetti L. e Costantino M. (2006), Il commercio equo e solidale… cit., p. 22. 27 Becchetti L. e Paganetto L. (2003), Finanza etica… cit., pp. 116 e seguenti.
20
garantire un livello di vita dignitoso. Il “prezzo equo” rappresenta una soluzione al
fallimento del mercato del lavoro in condizioni di monopolio e in quelle condizioni
dove l’eccesso e l’abuso di potere contrattuale del datore di lavoro rende il salario del
lavoratore non equo, o meglio, inferiore al valore della propria prestazione28.
2.2.2 La finanza etica
Si tratta di quella parte della finanza che si occupa di selezionare e gestire
investimenti (azioni, obbligazioni, prestiti) condizionati da criteri etici e di natura
sociale29. Attraverso i cosiddetti fondi etici è possibile indirizzare il risparmio verso le
imprese e organizzazioni che dimostrano attenzione verso una produzione sostenibile,
influenzando così l’operato di altre imprese e determinando processi virtuosi in grado di
orientare società e imprenditori verso uno sviluppo sostenibile.30
La finanza etica è supportata da intermediari specializzati che si occupano della
raccolta di fondi di quegli investitori disposti ad accettare un rendimento inferiore pur di
investire in iniziative di alto contenuto sociale. “L’investitore etico non è interessato
soltanto al rendimento della propria operazione, ma vuole essere consapevole delle
ragioni di fondo che producono tale redditività e delle caratteristiche del processo
produttivo adottato dall’impresa in cui ha investito”31. L’investimento socialmente
responsabile è particolarmente diffuso negli Stati Uniti e nel Regno Unito32, mentre
nell’Europa continentale ha conosciuto una crescita ridotta, ma presenta uno sviluppo
promettente: alcune indagini campionarie annunciano prospettive di crescita per questo
settore dal lato della domanda dei risparmiatori individuali, come riportato da una
ricerca condotta in ambito europeo dal German Sustainable Investment Forum nel 2002,
dove la percentuale di coloro che ritengono la finanza socialmente responsabile
28 Ibid. p. 19. 29 Ibid. p. 156. 30 Ibid. p. 20. 31 Ibid. p. 156. 32 Secondo dati rilevati nell’aprile 2001, esistono 230 fondi etici negli Stati Uniti che gestiscono un volume di 2324 miliardi di euro (⅛ del totale dei risparmi gestiti complessivamente dai fondi Usa), e 55 nel Regno Unito con un volume di risparmi pari a 17 miliardi di euro (ibid. p. 159).
21
un’iniziativa valida è cresciuta dal 20 al 35 per cento negli ultimi 3 anni, mentre in Italia
risulta che la finanza etica sia un fenomeno ancora poco conosciuto secondo una ricerca
condotta nello stesso anno da IREF, Istituto italiano di ricerche educative e formative,
nella quale solo 4,4 per cento degli italiani maggiorenni dichiara di esserne a
conoscenza, e un 9,5 per cento che ne ha solo sentito parlare.
È interessante accennare che anche il sistema bancario sta conoscendo sviluppi verso
un’economia solidale, con la nascita delle banche etiche, che svolgono la funzione di
punto d’incontro tra i risparmiatori (che sentono l’esigenza di una gestione dei propri
risparmi più consapevole e responsabile) e le iniziative economiche che si basano su un
modello di sviluppo umano e sociale sostenibile, e fondate sui valori della solidarietà e
della responsabilità civile.
Per esempio, l’evoluzione di questo sistema bancario alternativo in Italia è stata
realizzata da piccoli gruppi di Mutua Autogestione, le cosiddette MAG33, mentre nel
1998 è sorta Banca Popolare Etica, che propone di investire il risparmio attraverso
operazioni che finanziano unicamente iniziative socio-economiche di utilità sociale ed
internazionale, per la difesa dell’ambiente e la crescita culturale della società,
perseguendo un duplice obiettivo, imprenditoriale e culturale.
Un altro esempio italiano è il Consorzio Etimos, un consorzio cooperativo
appartenente a Banca Etica, specializzato nella raccolta di risparmio a sostegno di
esperienze microimprenditoriali e programmi di microfinanza nei PVS e in Italia tra i
propri soci, che devono essere organizzazioni (e non privati) che hanno sottoscritto
almeno una quota del capitale sociale, come, per esempio, nei PVS, istituzioni di micro
finanza, banche popolari e di villaggio, cooperative di produttori, associazioni,
università, scuole e istituti di promozione sociale, mentre in Italia, cooperative e
Botteghe del CES, fondazioni, enti pubblici e religiosi.
Gli stessi meccanismi su cui si basano le attività del Consorzio Etimos caratterizzano
anche organizzazioni simili in Europa, che hanno però dimensioni maggiori, come le
olandesi Triodos Bank e Oikocredit, e l’inglese Shared Interest34.
33 Si tratta di società cooperative finanziarie che operano nell’ambito della finanza etica, sorte a partire dalla fine degli anni ’70 (http://it.wikipedia.org/wiki/Mutua_autogestione). 34 Depperu D. e Todisco A. (2007), “Sistemi di creazione di valore nelle filiere equo solidali” in Pepe C. (a cura di) Prodott dal Sud del mondo… cit., p. 108.
22
A queste esperienze legate alla finanza solidale, si sono affiancate iniziative sorte nel
sistema bancario tradizionale, come Banca Prossima, costola non profit del gruppo
Intesa San Paolo35.
2.2.3 Il microcredito
Costituisce uno strumento particolarmente efficace36 e apprezzato nel campo
dell’economia solidale, e in particolare della microfinanza37, e rappresenta la possibilità
di accedere al prestito di importi bassi per le fasce di popolazione più povere,
considerate dal sistema finanziario tradizionale non solvibili (incapaci di restituire il
denaro prestato), perché rappresentano beneficiari che non sono in grado di offrire
garanzie collaterali o che comportano spese di gestione troppo alte, offrendo basse
possibilità di profitto a fronte di rischi elevati.
Il tasso d’interesse applicato nel microcredito è molto basso (in grado di consentire la
copertura dei costi dell’operazione) e, per agevolare la restituzione del prestito, vengono
costituiti appositamente gruppi di beneficiari del prestito, in modo da poter creare una
condivisione della responsabilità: i beneficiari si sentono reciprocamente responsabili
per la restituzione, e unendo i propri sforzi sono più motivati a fare del meglio.
Il principio sui cui si basa il microcredito consiste nel ritenere che la povertà diffusa
nei paesi più arretrati economicamente non sia dovuta a ignoranza o pigrizia, ma alla
mancanza di strumenti che possano comportare la creazione di reddito da parte di chi
viene tradizionalmente escluso dal sistema creditizio, ossia il povero. L’individuo che
vive in condizioni di povertà e riceve un prestito, anche ridotto, è in grado di dare avvio
a una piccola attività imprenditoriale, ed è così motivato a migliorare il proprio status
35 Jacomella G., “Boom del microcredito, anche l’Italia lo scopre”, Corriere della Sera, 1/6/2008. 36 Le Nazioni Unite scelsero il 2005 come l’anno internazionale del microcredito, con l’obiettivo di sottolineare l’efficacia di questa iniziativa. 37 Insieme dei servizi finanziari di piccola scala alle famiglie e alle imprese escluse dal sistema finanziario tradizionale. La microfinanza (MF) è un’attività dell’intermediazione finanziaria, le istituzioni di MF (IMF) si distinguono dagli altri tipi di operatori finanziari per il target a cui si rivolgono e per la dimensione delle loro operazioni unitarie. Spesso le IMF sono specializzate nella concessione di “microcrediti” ed il termine “microcredito” è a volte utilizzato come sinonimo di “microfinanza” (Lorigliola S. (2003), Verso Sud. Il commercio equo al Sud del mondo: progetti e produttori per un’economia solidale, Verona: Ctm Altromercato, p. 92).
23
sociale ed economico, intraprendendo un’attività che fornisca un sostento per sé e la
propria famiglia, ed evitando di ricorrere a elemosina e usura (il mercato nero del
credito), che condannano a una perenne condizione di dipendenza e sudditanza, e per
questo considerate cause dirette della povertà.
Il microcredito dimostra dunque che è possibile sradicare la povertà attraverso un
nuovo metodo di concessione del credito rivolto ai poveri. Ad avere questa intuizione è
stato l’economista bengalese Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace del 2006,
fondatore della Grameen Bank38, la cui esistenza e continuo sviluppo dimostrano la
validità del microcredito, perché quasi tutti i suoi beneficiari sono stati in grado di
restituire le somme ricevute in prestito39. Anzi, risulta evidente che i meno abbienti sono
i beneficiari che meritano più fiducia rispetto a qualsiasi altra categoria che si rivolge al
sistema creditizio: il povero che riceve un prestito è consapevole di avere un’unica
possibilità per cambiare le proprie sorti, e per questo s’impegna a sfruttare al meglio la
chance concessagli, arrivando a restituire la somma ricevuta.
Sulla scia del successo di Grameen Bank, sono stati creati istituti bancari simili che si
occupano dell’erogazione di servizi come il credito e il risparmio, chiamati anche le
Banche dei poveri, sorte nei paesi del Sud del Mondo, e ora presenti anche in quelli
industrializzati.
In Italia, secondo dati dell’Istat, la pratica del microcredito è cresciuta del 7 per cento
tra il 2004 e il 2005, mentre nell’ultimo biennio le somme erogate sono aumentate del
33 per cento e i beneficiari del 24 per cento. I suoi promotori italiani sono diversi, per la
metà costituiti da fondazioni non bancarie, associazioni, diocesi e MAG, più di un
quarto è rappresentato da enti locali e università, mentre il restante da fondazioni
bancarie e banche40.
38 Fondata nel 1976, prima banca al mondo a effettuare prestiti sul criterio basato non sulla solvibilità del beneficiario, ma sulla fiducia (http://it.wikipedia.org/wiki/Grameen_Bank). 39 Il tasso di recupero del credito fornito da Grameen Bank risulta superiore al 98 per cento (Yunus M. (1998), Il banchiere… cit., p. 34). In questo senso, la Grameen Bank è stata anche oggetto di studi e ricerche da parte di organismi e agenzie indipendenti, anche da parte della Banca Mondiale (www.grameen-info.org). 40 Jacomella G., “Boom del microcredito, anche l’Italia lo scopre”, Corriere della Sera, 1/6/2008.
24
2.2.4 Il consumo critico e responsabile
All’interno del vasto panorama dell’economia solidale, il consumo critico e
responsabile costituisce un modello d’acquisto da parte dei cittadini dei paesi
economicamente più avanzati fondato sulla scelta di prodotti che veicolano i valori della
sostenibilità sociale e ambientale, perché realizzati nel rispetto di un quadro etico,
politico o ideologico condiviso.
Il movimento che sostiene questo modello di consumo è stato denominato
consumerismo41, animato non solo dai singoli consumatori che individualmente
adottano comportamenti d’acquisto coerenti a un modello di sviluppo sostenibile (per
esempio, viene praticato il boicottaggio dei prodotti di imprese considerate fallimentari
sotto il profilo etico), ma dalle associazioni di consumatori che promuovono campagne
di pressione su imprese e governi, per varare leggi e procedure di controllo sulla qualità
degli alimenti, la lotta all’inquinamento, la sicurezza dei prodotti industriali e delle
condizioni di lavoro.
Il movimento attinge la propria forza dall’idea che gli effetti delle scelte di consumo
etico sono paragonabili a quelle del voto42: scegliendo di comprare un prodotto rispetto
ad un altro, si esercita un voto con il portafoglio che è possibile esprimere
quotidianamente come strumento di partecipazione dal basso all’economia da parte dei
cittadini. Come spiegano Becchetti e Costantino, “il consumo responsabile segna
l’avvio di una nuova fase più matura della democrazia economica con un aumento di
partecipazione da parte della società civile alle scelte economiche: promuovere pari
opportunità, agevolare la rottura di monopoli, favorire i produttori...”43.
Questo meccanismo di partecipazione dal basso influenza l’operato delle grandi
imprese e della grande distribuzione di massa, che si equipaggiano a fornire prodotti per
i consumatori più critici: a partire dalle scelte d’acquisto consapevole, si viene a creare
un circolo virtuoso che contagia il settore produttivo.
41 Si tratta di un neologismo proveniente dall’Inghilterra, dove i movimenti dei consumatori sono più forti e radicati, e sta a indicare un rapporto critico con il consumo. Per l’Italia sono molto interessanti i contributi offerti dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo, diretto da Francesco Gesualdi (Perna T. (1998), Fair Trade… cit., p. 90). 42 Becchetti L. e Costantino M. (2007), “L’economia come se le persone contassero: produttori marginalizzati e consumatori responsabili” in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo… cit., p. 47. 43 Ibid. p. 48.
25
Nei mercati più avanzati, come quello inglese, alcuni specialisti come Nicholls
riconoscono la diffusione del fenomeno di consumo etico di massa emergente44, che
obbliga le imprese a cercare strategie per questi nuovi sviluppi del mercato, come il
rinnovamento delle politiche di marketing e la continua osservazione del
comportamento d’acquisto dei consumatori.
Una forma avanzata di consumo critico è il modello rappresentato dai Gruppi
d’Acquisto Solidale (GAS), costituiti da soci organizzati in associazioni o gruppi
informali che si impegnano a stabilire contatti diretti con produttori agroalimentari per
acquistare all’ingrosso con regolarità (generalmente, con cadenza settimanale) prodotti
alimentari che rispettano specifici criteri di produzione, come la biologicità e la
sostenibilità del trasporto e dell’imballaggio a basso impatto ambientale, costruendo una
filiera diretta con i fornitori che evita l’intermediazione dei soggetti tradizionali di
distribuzione. Questo sistema permette di concordare il prezzo “equo” dei beni
direttamente con il produttore, a condizione che vengano stabilite relazioni d’acquisto di
lungo periodo. Si tratta di un movimento di consumo nato negli anni ’60 del XX secolo
in Svizzera, Germania e Giappone, diffuso poi anche negli Stati Uniti, Canada e il resto
dell’Europa Occidentale45, e avviato in Italia nel 1994 con la creazione del primo GAS a
Fidenza; il movimento italiano si consolida nel 1997 con la nascita della rete nazionale
di collegamento dei GAS, che ha la funzione sostenere il network di collaborazione dei
gruppi per diffondere informazioni sui produttori e i loro prodotti e divulgare l’idea dei
gruppi d’acquisto46.
44 In inglese, emergence of mass-market consumerism (riportato da Pepe C. (2007), “Filiere tradizionali e filiere alternative nel commercio dei prodotti dal Sud del mondo” in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud… cit., p. 22). 45 Tratto dai lemmi Community-supported Agriculture e Gruppi d’Acquisto Solidale di Wikipedia (http://en.wikipedia.org/wiki/Community-supported_agriculture). 46 Tratto dalla sezione documenti del sito della rete nazionale di collegamento dei GAS (http://www.retegas.org/index.php?module=pagesetter&func=viewpub&tid=2&pid=3).
26
2.3 Economia della responsabilità sociale
Se la soluzione dei dilemmi del sistema socio-economico è lasciata al solo
intervento di imprese e istituzioni, la possibilità di risolvere paradossi si allontana. Leonardo Becchetti, 2005
Nel campo della ricerca economica, alcuni specialisti hanno cercato di individuare
una teoria sull’importanza della responsabilità dei diversi attori che interagiscono nel
sistema economico, con l’obiettivo di fornire un valido contributo alle politiche
economiche rivolte alla massimizzazione del benessere collettivo.
Da qui la concezione di “economia della responsabilità sociale”, in cui ogni soggetto
che partecipa al sistema economico riconosce la responsabilità dei propri
comportamenti e delle proprie scelte, perché producono inevitabilmente ricadute nei
confronti degli altri soggetti con cui interagisce.
Il presupposto per una responsabilità diffusa nel sistema economico è l’esistenza di
una “democrazia economica”, nella quale la cittadinanza ha la possibilità d’influire sulle
dinamiche del sistema economico e sui suoi problemi in maniera altrettanto
determinante che l’operato delle imprese e delle istituzioni.
Sostenitore di questa visione economica è l’economista Leonardo Becchetti che,
basandosi sul principio dell’“equilibrio dei tre pilastri”47, afferma che la ripartizione
della responsabilità nel sistema economico deve essere condivisa allo stesso modo tra
cittadini, imprese e istituzioni. Lo stesso ordine viene indicato dagli economisti Stefano
Zamagni e Luigino Bruni, con la triade Stato, mercato e società civile48.
Questi approcci intendono superare i fallimenti delle teorie economiche precedenti,
basate rispettivamente sulle capacità dello Stato di svolgere le funzioni di regolatore
dell’economia attraverso la promulgazione di leggi (pianificatore benevolente pubblico)
e le possibilità del mercato di autoregolarsi grazie alla concorrenza perfetta e
all’equilibrio della domanda e offerta (la mano invisibile).
47 Una sorta di parallelo all’equilibrio dei tre poteri delle istituzioni di uno Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario) formulati da Montesquieu (Becchetti L. (2003), Finanza etica… cit., p. 18). 48 Bruni L. e Zamagni S. (2004), Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica. Bologna: Il Mulino.
27
Becchetti punta l’attenzione sulle pratiche concrete fornite dall’economia della
responsabilità sociale che, superando la visione riduzionista49, vede i cittadini come
attori capaci di determinare nel moderno sistema socio-economico cambiamenti dal
basso: una minoranza di cittadini, mettendo al centro delle loro scelte non solo il proprio
interesse ma anche il benessere della collettività, è in grado di incidere sul
comportamento di imprese e istituzioni. Becchetti scrive a questo proposito che “basta
infatti una quota minoritaria di cittadini con preferenze etiche che orienta consumi e
risparmi verso le imprese socialmente responsabili per dare un segnale a istituzioni e
imprese sull’attenzione dei consumatori ai problemi dell’ambiente e dello sviluppo e per
indurre le imprese stesse ad aumentare la propria responsabilità sociale al fine di
conquistare la fetta di mercato dei consumatori etici”50.
Questa visione si basa sul principio per cui la sfera di diritti e doveri di ogni cittadino
coinvolge non solo la dimensione sociale, ma anche quella economica: ogni individuo
ha una sua responsabilità e, come individui appartenenti a un complesso tessuto socio-
economico, siamo tutti in grado di influenzare il mercato.
A seconda dei valori che si intende perseguire, è possibile sostenere un
atteggiamento di appoggio o di disapprovazione nei confronti, per esempio,
dell’impresa produttrice di un bene che si sta per acquistare. Adottando criteri
responsabili di consumo, devono incidere nelle scelte d’acquisto i metodi di produzione
(le condizioni dei lavoratori, i metodi agricoli applicati, impiego di manodopera
retribuita dignitosamente, il rispetto dell’ambiente…) del bene che si sta per comprare.
In questo modo, è possibile adottare un’ottica d’acquisto che tenga conto delle
ripercussioni che l’acquisto stesso può determinare.
Questa visione economica viene anche definita “economia dal basso” per via
dell’effetto-leva nell’influenzare il comportamento di imprese e istituzioni, che si
vedono obbligate a tener conto dell’orientamento della cittadinanza per realizzare i
propri obiettivi tradizionali. Per questo, l’interesse per il tema della responsabilità sta
guadagnando sempre più attenzione di molte imprese.
49 Teoria prevalente nella dottrina economica, secondo la quale gli individui tendono a massimizzare il proprio utile o piacere personale, che coincide in genere con la massimizzazione del benessere derivante dalle opportunità di consumo (ibid. p. 12). 50 Becchetti L. e Paganetto L. (2003), Finanza etica… cit., p. 16.
28
Figura 4. Il circolo virtuoso instaurato dai tre pilastri
dell’economia della responsabilità sociale
fonte: Becchetti L. e Paganetto L. (2003), Finanza etica. Commercio equo e solidale. Roma: Donzelli, p. 113.
L’utilizzo di metodi che determinano un consumo socialmente responsabile da parte
dei cittadini non produce quindi solo un effetto diretto, sostenendo per esempio il
mercato equo attraverso il consumo di prodotti solidali, ma anche un effetto indiretto su
imprese e istituzioni che si vedono costrette a tener conto del cambio di preferenze dei
cittadini per poter realizzare i propri obiettivi tradizionali. In questa maniera, entrano
nella logica del mercato e del confronto concorrenziale i valori extraeconomici di
rispetto dell’ambiente, equa distribuzione del valore, importanza delle condizioni di
lavoro in tutte le fasi del ciclo produttivo. Il contagio è presto fatto: i temi della
solidarietà, dell’inclusione e della salvaguardia ambientale possono divenire fattori sui
quali si gioca la competitività tra le imprese. Un altro significativo passo in avanti è
l’integrazione di preoccupazioni sociali già all’interno della fase produttiva51, in modo
da ridurre o minimizzare i suoi effetti collaterali indesiderati.
A fianco del contributo di Becchetti, sono diversi i filoni di pensiero che danno
attenzione ai concetti di reciprocità e responsabilità sociale, schierandosi nettamente
contro il paradigma riduzionista dell’individualismo massimizzante.
51 Questo principio cardine della responsabilità sociale supera quella visione dicotomica dell’economia tipica della filantropia americana, per la quale prima c’è il momento della produzione e creazione di ricchezza, duro e spietato, che crea quei guasti sociali cui la fase successiva della filantropia e della carità cerca di porre rimedio. (Becchetti L. e Costantino M. (2006), Il commercio equo… cit., p. 12).
29
Sulla centralità dell’idea di responsabilità, da intendersi come fondamento di una
nuova etica economica, è concorde il filosofo tedesco Hans Jonas52 che giustifica la
necessità di una morale adeguata e appropriata alla società odierna caratterizzata dal
dominio tecnologico, che ha reso obsoleto l’ordine etico precedente (che chiama
“morale della prossimità”, patrimonio etico del passato inadeguato all’era dell’uomo
tecnologico). Jonas spiega come “gli obiettivi e le conseguenze dell’azione determinata
dalla tecnologia moderna sono così nuovi che l’etica precedente non è più in grado di
abbracciarli”53. Dunque, la ricerca di un’etica adeguata ai tempi che corrono passa
attraverso il “principio di responsabilità”, utilizzato anche dal sociologo britannico
Zygmunt Bauman in un suo noto saggio54 nel quale denuncia la necessità di
un’estensione della responsabilità in tutti i settori della società odierna55. In un suo
saggio56 più recente, Bauman riporta una crescente consapevolezza dell’individuo a
responsabilizzarsi, a costruirsi una morale inedita, come reazione all’imperante
individualismo e alla debolezza delle strutture sociali: “Se io sono il fine sono anche il
mezzo, lo strumento del cambiamento”.
Su questo stesso principio, collegato a quello dell’autolimitazione, si sono basati gli
studiosi del Wuppertal Institut nel redigere il famoso rapporto57 sul “futuro sostenibile”.
52 Autore del testo Il principio responsabilità. Un’etica per una civiltà tecnologica, pubblicato da Einaudi, Torino nel 1990. 53 Riportato da Perna T. (1998), Fair Trade… cit., p. 154. 54 Bauman Z. (1996), Le sfide dell’etica, Milano: Feltrinelli. 55 Riportato da Perna T. (1998), Fair Trade… cit., p. 154. 56 Bauman Z. (2006), La vita liquida, Bari: Laterza. 57 Wuppertal Institut (1997), Futuro sostenibile, Bologna: EMI.
30
3. Criteri operativi, cenni storici e analisi economica del CES
È la creazione di reddito e non la distribuzione della ricchezza
la chiave fondamentale per la lotta alla povertà. Leonardo Becchetti, 2005
3.1 Trade, not aid
Per meglio comprendere il CES, è utile fare riferimento allo slogan “Trade, not aid”
(commercio, non aiuti) che fu promosso per la prima volta nel 1964 alla prima
conferenza dell’Unctad58 a Ginevra. Il significato di questa frase racchiude, infatti,
l’essenza del mercato equo e solidale, che si contrappone alle logiche assistenziali degli
aiuti monetari: promuovere le possibilità per i PVS di esportare materie prime e
manufatti nei mercati avanzati, senza penalizzazioni e senza occupare una posizione di
svantaggio, accedendo così al commercio internazionale.
In altre parole, lo scopo del modello di scambi commerciali proposto dal CES è
quello di permettere ai produttori marginalizzati dalle dinamiche del mercato
internazionale di poter vendere le proprie merci a un prezzo (il “prezzo equo”) che
rispetti il valore reale dei prodotti e del lavoro necessario per crearli, che non sia quindi
stabilito da intermediari o esportatori (che adottano spesso pratiche di speculazione), o
dalle continue fluttuazioni della Borsa.
Le transazioni commerciali effettuate all’insegna dei principi del CES intendono
finalizzare l’autogestione dei produttori dei PVS e stimolare processi di sviluppo nelle
realtà in cui vivono, reinvestendo i ricavi in tecnologia (strumenti e mezzi per la
coltivazione) e infrastrutture necessarie per un miglioramento delle condizioni sociali
(scuole per i propri figli, ospedali, formazione lavoro).
Rimane inteso che l’esistenza dei canali CES viene meno nel momento in cui i
produttori raggiungono un’autonomia.
58 United Nations Conference on Trade and Development (in it. Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo) è l’organismo delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo, istituito nel 1964. L’organizzazione ha come missione quella di incrementare le opportunità commerciali, di investimento e sviluppo dei paesi in via di sviluppo e aiutare tali paesi ad integrarsi nell'economia mondiale su basi giuste.
31
È utile individuare i fattori distintivi del CES, che costituiscono le condizioni
imprescindibili affinché si possano stabilire relazioni commerciali eque e solidali.
3.1.1 Il prezzo equo
È il fattore chiave delle relazioni eque e solidali, perché permette di perseguire quella
logica di equa remunerazione dei fattori produttivi di questo mercato alternativo: si
tratta di un prezzo tendenzialmente giusto59 rispetto al costo del lavoro necessario per
produrlo, e in grado dunque di garantire il “minimo vitale” in guadagno e in condizioni
dignitose per il produttore, oltre la soglia di povertà (lontano da ogni forma di
elemosina, perché il guadagno del produttore è legato a un’attività produttiva).
A seconda dei casi, il “prezzo equo” viene concordato tra i produttori e gli
importatori del CES, quindi è frutto di una ricerca comune, possibile grazie alla
mediazione tra le parti coinvolte e le rispettive esigenze, e viene stabilito sulla base del
costo delle materie prime, del costo del lavoro locale e della retribuzione dignitosa e
regolare, contro lo sfruttamento del lavoro minorile e il ricorso all’usura come fonte di
credito immediato.
In altri casi, quando possibile, si fa riferimento a un prezzo minimo stabilito da
FLO60, Fairtrade Labelling Organization, l’ente internazionale senza scopo di lucro che
si occupa principalmente della certificazione dei prodotti equosolidali.
O ancora, in altri casi il prezzo viene determinato sulla base degli standard
internazionalmente riconosciuti (come le quotazioni della Borsa), sotto il quale non può
mai scendere e a cui si aggiunge una maggiorazione61, chiamata in inglese fair trade
premiuim, il cui ammontare viene destinato a fini sociali e di sviluppo della comunità di
produttori secondo progetti controllati dai certificatori (finanziamento di strutture come
scuole, assistenza medica di base, programmi per il miglioramento della qualità e la
conversione al biologico per i prodotti alimentari).
59 Non si tratta di un dato determinabile aprioristicamente. 60 Cfr. paragrafo 3.6.4. 61 Ad esempio, al prezzo minimo per il caffè, che si basa su quei 120 dollari per 100 libre fissati come prezzo minimo negli accordi internazionali, viene aggiunto un premio e, nel caso di coltivazione biologica, il premio è più alto.
32
Prescindendo dalle fluttuazioni del mercato, il “prezzo equo” viene mantenuto anche
nei casi in cui crolli, garantendo al produttore, grazie all’eliminazione di tutte quelle
intermediazioni speculative dalla filiera produttiva e distributiva, un guadagno concreto.
Si arriva così a stabilire un pagamento ai produttori nettamente superiore a quello di
mercato (anche di 6 volte), e inoltre il pagamento viene effettuato in date predefinite
con l’intento di agevolare la programmazione delle spese nel bilancio dei produttori.
In definitiva, con il termine “prezzo equo” ci si riferisce a “un prezzo socialmente
sostenibile (comprensivo di una remunerazione dignitosa del lavoro), ecologicamente
sostenibile (comprensivo dei costi per una produzione ecocompatibile), e inoltre
economicamente efficiente (competitivo sul mercato nel rapporto qualità-prezzo)”62.
È chiaro che talvolta anche il prezzo finale proposto al consumatore occidentale è
superiore rispetto ai prezzi medi di mercato, ma include un valore aggiunto che i
prodotti tradizionali non hanno: la soddisfazione sociale di sentirsi partecipi di un
progetto di sviluppo a sostegno di una comunità di produttori del Sud del mondo.
Questo valore aggiunto è andato perso nell’economia capitalistica, che spoglia di ogni
valenza sociale il rapporto tra venditore e compratore, ridotto a mero consumatore che
ricerca il miglior rapporto qualità/prezzo o lo status symbol dato da un prezzo
maggiorato senza motivazioni apparenti.
Grazie alla trasparenza dei rapporti solidali, inoltre, è lo stesso consumatore che può
constatare come è stato determinato il prezzo del prodotto che sta acquistando attraverso
lo “schema del prezzo trasparente”, solitamente allegato a ogni prodotto artigianale, che
riporta le percentuali delle voci che concorrono a formare il prezzo finale (prezzo
pagato al produttore/artigiano, costo trasporto e distribuzione, spese doganali, margine
dei rivenditori).
È in via di studio da parte degli operatori dell’AGICES, l’Assemblea Generale
Italiana del Commercio Equo e Solidale, la procedura per rendere sempre disponibile
questa fonte di informazioni rivolta al consumatore equosolidale.
62 Roozen N., van der Hoff F. (2003), Max Havelaar. L’avventura del commercio equo e solidale. Milano: Feltrinelli.
33
attori prezzo tradizionale e margini percentuali
“prezzo equo” e margini percentuali
PRODUTTORE 0,15 8 % 0,62 18 %
INTERMEDIARI LOCALI 0,06 3 % 0,08 2 %
ESPORTATORE 0,14 7 % 0,14 4 %
CERTIFICATORE 0,06 2 %
IMPORTATORE TORREFATTORE DISTRIBUTORE
1,65 83 % 2,46 73 %
PREZZO FINALE 2 3,36
Tabella 1. Confronto prezzo tradizionale e “prezzo equo” lungo la filiera del caffè
(dati in euro, riferiti ad una confezione di 250 g di caffè).
Fonte: Depperu D. e Todisco A. (2007), “Sistemi di creazione di valore nelle filiere equo solidali” in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo… cit., p. 115.
L’idea del “giusto prezzo” costituisce uno degli aspetti distintivi del commercio
solidale ed è in assoluta controtendenza rispetto alle classiche leggi del mercato
capitalistico63 che, perseguendo il principio della massimizzazione de profitto, tende a
stabilire un prezzo oligopolistico perché controllato dalle maggiori imprese che cercano
di raggiungere un margine extraprofitto, a discapito sia dei produttori (costretti ad
accettare le condizioni imposte dagli speculatori che approfittano della loro condizione
di dipendenza), che dei consumatori finali (vittime di una mancanza di trasparenza e di
informazione sulla filiera produttiva, costretti all’acquisto come atto privo di qualsiasi
valore sociale, senza possibilità di influenzare e condizionare il prezzo di vendita).
63 “il prezzo delle merci che si determina oggi sul mercato capitalistico è sempre meno un prezzo legato al gioco della libera concorrenza tra le imprese, e sempre più un prezzo oligopolistico, controllato da poche grandi imprese che lucrano sul crescente scarto informativo tra produttori e consumatori” (Perna T. (1998), Fair Trade… cit., p. 99).
34
3.1.2 La sostenibilità ambientale e sociale
L’attenzione del CES è rivolta a ricercare e realizzare modalità di produzione
“socialmente ed ecologicamente compatibili”.
Per sostenibilità sociale s’intende offrire ai produttori e lavoratori condizioni di
lavoro dignitose, un ambiente di lavoro salubre, la promozione di una reale
partecipazione alle decisioni attraverso unità produttive locali, basate
sull’organizzazione sociale di una comunità, un villaggio o una cooperativa, e in ultimo
la promozione di pari opportunità di lavoro e la non discriminazione di alcuni gruppi
della popolazione (donne, disabili o i più svantaggiati).
Per garantire la sostenibilità ambientale, si privilegiano processi produttivi a basso
impatto ambientale, si evita di ricorrere all’importazione di materie prime scarse o
difficilmente reperibili e si ricorre dove possibile all’agricoltura biologica. In questo
senso, si sta registrando una tendenza sempre più crescente da parte dei produttori
nell’adozione della produzione biologica, stimolata dagli importatori, che in questo
possono ottenere una doppia certificazione (equa e biologica) che aumenta il valore
aggiunto dei prodotti, rendendoli poi molto più competitivi e differenziabili sui mercati
del Nord del mondo.
3.1.3 L’investimento in beni pubblici locali
Attraverso progetti concordati tra rappresentanti locali dei produttori e gli importatori
delle filiere del CES, si stimola l’investimento del surplus ricavato dai produttori,
dovuto ai maggiori introiti derivanti dallo scambio equo e solidale, in attività che
incrementino la produzione di beni pubblici locali di rilevante impatto sociale, da
destinare alla comunità per servizi primari, come istruzione e sanità. Il rispetto di questo
criterio garantisce concretamente lo sviluppo di una comunità locale, che può accedere e
realizzare servizi che migliorino le condizioni di vita e che rendano possibili prospettive
di crescita economica. Questo modello d’intervento a favore dei PVS è particolarmente
interessante perché si differenzia dalle forme di cooperazione internazionale, in quanto
vengono stabiliti progetti che rispondano effettivamente alle necessità delle comunità
locali, liberi da intermediazioni e vincoli economici, quindi più diretti ed efficaci.
35
3.1.4 L’assistenza tecnica e finanziaria Dove possibile si agevolano forniture di materie prime, come sementi e fertilizzanti,
etichette e materiale per imballi, mentre invece il prefinanziamento della commessa è un
criterio imprescindibile del CES: al momento in cui viene effettuato l’ordine,
l’importatore anticipa generalmente fino al 50 per cento del pagamento complessivo,
riducendo così il rischio che vincoli finanziari o problemi di accesso al credito possano
bloccare l’attività produttiva, condizioni diffuse tra i produttori del Sud del mondo che
spesso sono costretti a rivolgersi ai moneylenders locali che impongono tassi d’interesse
elevati (usurai).
Inoltre, ulteriore parametro che contraddistingue le partnership commerciali del CES
è dato dalla durata dei contratti tra produttori e importatori dei circuiti equi e solidali:
pluriennali e a lungo termine (durata minima: 2 anni). Per esempio, gli importatori si
impegnano a garantire ogni anno l’acquisto di un quantitativo equivalente almeno all’80
per cento di quello dell’anno precedente. Questa tipologia di contratto implica
l’impegno da parte degli importatori di CES non solo a offrire prezzi adeguati, ma a
mantenerli stabili nel tempo, assicurando così i produttori contro eventuali riduzioni nei
prezzi dovuti a fattori incontrollabili, come condizioni atmosferiche avverse al raccolto,
variazioni nei gusti dei consumatori del Nord, o ingresso sui mercati di nuovi produttori.
Si cura anche il trasferimento di conoscenze tecnologiche di processo di prodotto,
consulenze di marketing che avvicinano i produttori ai loro mercati di sbocco, e servizi
all’export che consentono ai produttori di conoscere gli standard richiesti per
l’esportazione (learning by trading)64.
Per una visione completa dei criteri dettagliati riconosciuti dalle organizzazioni
italiane di CES, è utile fare riferimento ai 16 punti contenuti nell’articolo 3 della Carta
Italiana dei Criteri del CES65 redatta dall’Assemblea Generale Italiana del Commercio
Equo e Solidale nel 1999.
64 Becchetti L. e Costantino M. (2007), “L’economia come se le persone contassero: produttori marginalizzati e consumatori responsabili”, in C. Pepe (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo… cit., p. 60. 65 Cfr. appendice 1.
36
3.2 Compatibilità tra CES e economia di mercato Secondo Leonardo Becchetti e Marco Costantino, il CES può essere definito come
“moderna impresa sociale di mercato”66 perché capace di competere con le imprese
tradizionali, però differenziandosi da esse per i suoi obiettivi: non sono quelli della
massimizzazione del profitto, ma dell’inclusione sociale dei produttori marginalizzati
del Sud del mondo. Inoltre, provvede sia a controbilanciare gli effetti dell’imperfezione
del mercato internazionale67 (mancanza di una reale concorrenza dovuto al dominio di
importatori con maggiore potere contrattuale, presenza di barriere doganali…) sia a
distribuire il profitto lungo tutta la filiera proprio grazie alla maggiorazione del prezzo
pagato ai produttori, che consente di trasferire redditi dai consumatori verso i
produttori68. L’ambizione è quella di modificare dall’interno le regole del commercio
internazionale, immettendo un nuovo livello di coscienza69 all’interno dei meccanismi
dell’economia liberista: il CES opera a fianco delle filiere tradizionali, senza implicare
il sovvertimento delle dinamiche che dominano il mercato internazionale, in quanto
intende proporsi come alternativa valida praticabile.
In questo senso, Tonino Perna puntualizza che “il movimento per un commercio
equo non nasce da un’ideologia che si vuole imporre alla realtà, ma dalla
sperimentazione e incarnazione di un bisogno di giustizia che come tale è
continuamente soggetto ad aggiustamenti e riflessioni critiche”70.
Una definizione del CES, largamente riconosciuta e utilizzata, viene fornita da
FINE71 nel rapporto del 2001 dell’EFTA72: “il CES è una partnership economica basata
66 Becchetti L. e Costantino M. (2007), “L’economia come se le persone contassero: produttori marginalizzati e consumatori responsabili”, in C. Pepe (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo… cit., p. 49. 67 Secondo la teoria classica, le condizioni di mercato perfetto sono date da un numero molto elevato di agenti sia sul fronte della domanda che su quello dell’offerta, informazione perfetta, assenza di rischio, assenza di barriere all’ingresso (ibid. p. 57). 68 Ibid. p. 58. 69 Pepe C. (2007), “Filiere tradizionali e filiere alternative nel commercio dei prodotti dal Sud del mondo” in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo… cit., p. 16. 70 Perna T. (1998), Fair Trade… cit., p. 11. 71 Struttura informale nata nel 1998 che rappresenta i diversi operatori del CES a livello internazionale, composta da FLO, IFAT, NEWS!, EFTA (le cui iniziali ne costituiscono l’acronimo), con le funzioni di scambio di informazioni, il coordinamento e la definizione di criteri uniformi. Cfr. paragrafo 3.6.3.
37
sul dialogo, la trasparenza e il rispetto, che mira ad una maggiore equità nel commercio
internazionale; contribuisce ad uno sviluppo sostenibile complessivo attraverso l’offerta
di migliori condizioni economiche e assicurando i diritti dei produttori marginalizzati
dal mercato, specialmente nel Sud del mondo. Le organizzazioni del commercio equo,
col sostegno dei consumatori, sono attivamente impegnate a supporto dei produttori, in
azioni di sensibilizzazione e in campagne per cambiare regole e pratiche del commercio
internazionale convenzionale”.
Da questa definizione si può cogliere una duplice finalità: a livello microeconomico,
stabilire una relazione tra consumatori responsabili del Nord e i produttori
marginalizzati del Sud attraverso l’acquisto di prodotti che salvaguardino i diritti di
questi ultimi; a livello macroeconomico, appoggiare i produttori svantaggiati attraverso
la pressione politica esercitata verso gli altri cittadini e le istituzioni per ottenere nel
lungo periodo cambiamenti significativi e durevoli nelle politiche del commercio
internazionale, ma anche nei confronti delle imprese tradizionali, che per effetto della
maggiorazione del prezzo del CES, se applicato su vasta scala, si vedono costrette a
incrementare i prezzi di pagamento per non perdere i fornitori73.
Sul fronte macroeconomico, sono state mosse alcune critiche al CES da parte
dell’Economist74, accusandolo di essere assistenzialista, perché con la sua politica di
prezzi fissi e impegni a lungo termine induce a non diversificare la produzione quando
non è più competitiva, e a perseguire una logica fuori mercato. A questa critica, non
sono tardate le risposte dai sostenitori del CES, con le quali è stato puntualizzato che i
produttori dell’economia solidale sono già esclusi dal mercato tradizionale, a
prescindere dall’operato del CES. Alcuni specialisti hanno voluto valorizzare il ruolo
correttivo del commercio equo, segnalando che spesso lancia le basi di un vero mercato,
rompendo monopoli, stimolando la concorrenza anche nelle aree più isolate, superando
72 European Fair Trade Association, associazione di centrali d’importazione europee. Cfr. paragrafo 3.6.3. (EFTA, Krier J.-M. (2001), Fair Trade in Europe 2001. Facts and figures on the Fair Trade sector in 18 European countries. http://www.european-fair-trade-association.org/efta/Doc/FT-E-2001.pdf). 73 Ibid. pp.57-58. 74 Articolo dal titolo “Ethical Food” pubblicato dal celebre settimanale economico-finanziario il 7/12/2006.
38
la mancanza di un sistema di credito con i prefinanziamenti, a cui va aggiunta la
funzione di formazione e miglioramento tecnico rivolto ai produttori75.
Inoltre, negli ultimi vent’anni, l’interazione con soggetti economici lontani dal CES è
l’ulteriore riprova della validità dell’economia solidale e di come possa correggere il
mercato verso un riequilibrio delle forze, cambiando in senso più sostenibile le relazioni
fra paesi arretrati e mercati avanzati.
3.3 Cenni storici e culturali sulla nascita del CES
Le prime manifestazioni di un commercio alternativo si hanno negli Stati Uniti nel
corso degli anni ’40 nelle comunità protestanti mennoniti76, ma si tratta di pratiche da
considerarsi pioneristiche e circoscritte, perché non hanno prodotto ripercussioni
considerevoli al di fuori del loro contesto d’origine.
Nella forma che conosciamo oggi, il CES nasce e continua a essere promosso da
organizzazioni non profit sorte nei paesi industrializzati del Nord del mondo, nelle vesti
di importatori e distributori, e la loro configurazione giuridica prevalente è quella di
cooperative e associazioni. Queste organizzazioni sorgono e prendono slancio negli anni
‘60 nei paesi del Nord Europa, come Paesi Bassi, Germania e Regno Unito, prendendo
il nome di Alternative Trade Organizations (ATOs), che in italiano vengono chiamate
comunemente centrali d’importazione.
Madre della prima centrale d’importazione è stata la fondazione olandese SOS
Wereldhandel77, promossa a Kerkrade da un gruppo di giovani del Partito cattolico
olandese nel 195978, impegnati in campagne per la raccolta di viveri da destinare alle
popolazioni in situazioni di emergenza alimentare (per esempio, la prima iniziativa fu la
raccolta di latte in polvere a favore delle popolazioni povere della Sicilia), nel pieno del
75 Zanuttini P. (2007), “Dal produttore al consumatore, le vie del mercato sono infinite”, Il Venerdì di Repubblica, supplemento de La Repubblica del 11/05/2007. 76 Comunità che predicano un ritorno alle origini vivendo parcamente in gruppi sociali virtuosi, nei quali è bandita ogni forma di lusso (Marrese E. (2007), “L’Italia scopre i prodotti equo solidali”, La Repubblica Affari & Finanza del 18/6/2007). 77 Divenuta poi Fair Trade Organisatie nel 1967, oggi la più importane centrale d’importazione in Olanda. 78 Perna T. (1998), Fair Trade… cit., p. 80.
39
fermento del cosiddetto “nuovo catechismo olandese”79. L’azione di questa fondazione
era volta a stimolare la collettività ad agire nel proprio piccolo per offrire aiuto,
seguendo la strategia della crescita dal basso, poi divenuta uno dei pilastri del modello
di consumo del CES, intesa come spinta al cambiamento prodotta da comuni cittadini
sensibili alle problematiche legate alla mancanza di sviluppo nei paesi del Sud del
mondo, rese note e divulgate a partire dalla fine degli anni ’50 attraverso i primi
reportages sui mass media.
Questa prima esperienza di carattere assistenziale insegnò che gli aiuti offerti dalle
azioni e campagne della fondazione SOS Wereldhandel non portavano ai cambiamenti
sperati nei paesi a cui si rivolgeva, perché non andavano a incidere sulle reali cause
della povertà. Per questo si iniziò a sperimentare un’altra forma di aiuto: il denaro
raccolto dalla fondazione fu utilizzato per finanziare piccoli progetti di sviluppo, per
stimolare nuove forme di imprenditoria locale in aree economicamente arretrate. Il
problema non fu tanto l’avvio delle attività, ma la vendita dei prodotti che si
realizzavano: per questo, si diede inizio all’acquisto dei prodotti da parte della
fondazione, con l’idea di rivenderli nel mercato interno olandese.
In questa maniera, venne a costituirsi il primo nucleo di CES: un’associazione situata
in un paese economicamente avanzato si impegna a finanziare lo sviluppo di un
progetto imprenditoriale in un paese economicamente arretrato, garantendo un mercato
di sbocco ai suoi prodotti. La loro vendita fu inizialmente organizzata attraverso mostre
e mercatini di opere missionarie, per corrispondenza, o attraverso i “gruppi di azione
Terzo Mondo”, ossia associazioni che si impegnavano a predisporre banchetti di vendita
presso manifestazioni cittadine e sagre parrocchiane.
Nel corso degli anni ’70 sorsero associazioni80 in altri paesi europei che gestivano
circuiti commerciali alternativi sul modello della fondazione olandese, attraverso le
quali venivano acquistati prodotti del Sud del mondo direttamente da contadini e
artigiani a un prezzo che garantisse un guadagno grazie al quale vivere dignitosamente,
79 Si tratta di un movimento di credenti che determina l’inizio del dissenso diffuso poi in Europa rispetto sia alla struttura gerarchica della Chiesa, sia ai suoi tabù in campo sessuale. In pochi anni, anche per effetto del ’68, il movimento si avvicinò alla politica, dando origine alle “comunità di base” e ai “cristiani per il socialismo”. 80 Vanno citate le più importanti: le franco-svizzere Artisans du Monde (1974) e OS3 (1976), la tedesca GEPA (1974), l’inglese Oxfam-Tradecraft (1968).
40
e inoltre veicolare nei prodotti stessi valori riconoscibili dai consumatori finali, in modo
da farli sentire partecipi di una catena costruita appositamente per stimolare lo sviluppo.
È doveroso fare un accenno anche al contributo per la nascita di circuiti commerciali
alternativi dato dall’esempio di Oxfam alla fine degli anni ’50, quando al direttore
dell’ONG inglese venne l’idea, durante una visita ad Hong Kong, di vendere i prodotti
artigianali confezionati dai profughi cinesi nei negozi di Oxfam dislocati in Europa. Nel
corso degli anni successivi, questo canale di commercializzazione è andato
consolidandosi, tanto da arrivare nel 1964 alla creazione di una centrale
d’importazione81.
La prima Bottega del Mondo (BdM) viene inaugurata nella primavera del 1969 a
Breukelen, piccola città in Olanda, da un gruppo di giovani. In pochi anni, si diffusero
altri negozi simili nel Nord dell’Europa, coinvolgendo migliaia di volontari e centinaia
di associazioni, arrivando a contagiare anche i paesi industrializzati di altri continenti,
con la nascita di associazioni nordamericane, giapponesi, canadesi e australiane.
Per comprendere la nascita del movimento equo è utile fare riferimento anche al
clima culturale del ’68, che vede il costituirsi di un movimento variegato e mosso da più
istanze, non solo da gruppi studenteschi e operai mossi da ideologie politiche sorte dalle
alternative storiche (socialismo reale), ma anche nuovi movimenti paralleli, come quello
delle donne, degli ecologisti e dei pacifisti, sorti verso la fine degli anni ’70, rilanciando
il principio di spinta dal basso come regola che prevede la partecipazione di tutti per
produrre cambiamento. Questo atteggiamento partecipativo, insieme a un’apertura verso
visioni più critiche rispetto alle ideologie tradizionali per la ricerca di nuove idee
rispetto ai problemi imposti dal cambiamento tecnologico, economico e culturale,
definisce quella parte del movimento del ’68 da cui ha avuto origine lo sviluppo del
CES e delle nuove forme di solidarietà internazionale. Proprio dal movimento
ambientalista e per i diritti umani inoltre verrà adottata l’attenzione per l’impatto
ambientale e le colture biologiche, insieme alla maggiore importanza
dell’organizzazione (partecipazione delle donne, democrazia interna…). Tonino Perna
spiega che, in questo contesto culturale, è rimasto forte “il focus primario che ha fatto
nascere il movimento per un commercio equo: la libera associazione dei produttori e dei
consumatori per la ricerca di un prezzo dei prodotti del lavoro umano che risponda di 81 EFTA, Krier J.-M. (2001), Fair Trade in Europe 2001. Facts and figures on the Fair Trade sector in 18 European countries.
41
più ai bisogni vitali e meno alle cosiddette leggi di mercato. […] Il movimento del fair
trade punta a incidere sia sul mercato capitalistico, sia sulle istituzioni, attraverso un
meccanismo di campagne di sensibilizzazione e lobbying, e, nello stesso tempo,
costruendo hic et nunc delle alternative concrete”82.
Se nel corso degli anni ’70 la vendita dei prodotti attraverso i canali commerciali
alternativi del CES gestiti dalle prime centrali d’importazione e dalle BdM veniva
considerata come forma d’aiuto ai poveri (secondo Francesco Fontana, questa fase
iniziale può anche essere denominata entusiasmo empirico), nel corso degli anni ’80 si
decise di intraprendere vere campagne di informazione al lato della vendita (per
Fontana, fase della solidarietà politica), basata su una gamma sempre più ampia di
prodotti, inizialmente costituita solo dall’artigianato, e approdata solo in seguito ai
prodotti agroalimentari.
Nel corso degli ultimi due decenni, sono state adottate tecniche commerciali in grado
di attirare l’attenzione dei consumatori, come alcune tecniche di marketing del mercato
tradizionale, facendo leva sulla peculiarità del prodotto CES (fase della professionalità e
coordinamento) e sull’affermarsi di un consumo responsabile. Da qui è sorta la
necessità di ampliare la distribuzione commerciale, agevolando l’entrata dei prodotti nei
canali distributivi tradizionali garantendo però la loro riconoscibilità attraverso i marchi
di certificazione83.
3.4 Dal punto di vista della dottrina economica
Molti specialisti si sono impegnati nel definire il fenomeno del CES dal punto di
vista della dottrina dell’economia politica, ricercando le sue potenzialità e i suoi limiti
rispetto al sistema produttivo capitalistico.
È evidente la tendenza a “normalizzare” il fenomeno CES utilizzando i parametri
consueti della dottrina ufficiale, inglobandolo nel mercato internazionale come
fenomeno di nicchia (approccio marginalista) dal punto di vista quantitativo (il fatturato
del CES è praticamente irrilevante rispetto al valore degli scambi di beni e servizi a 82 Perna T. (1998), Fair Trade… cit., p. 86. 83 Per questi ultimi cenni storici generici, mi sono basata sul contributo di Fontana F. (1997), “Il commercio equo solidale in Europa” in Amatucci F. Il commercio… cit., pp. 78 – 83.
42
livello mondiale). Questa visione tende a minimizzare le potenzialità di crescita del
commercio equo.
Adottando questo approccio, alcuni specialisti, come Borgonovi, spiegano la capacità
del CES di affiancarsi al modello capitalistico come una delle varianti “al modello
interpretativo del funzionamento dell’economia che non necessariamente devono negare
i fondamenti logici e tecnici del modello capitalistico”84.
Seguendo questo filone, Lorenzi85 aggiunge che il CES ha un ruolo decisamente
funzionale rispetto al mercato perché ne corregge le imperfezioni e ne permette un
funzionamento migliore: questa funzione si esaurisce nel momento in cui i produttori
del Sud del mondo riusciranno a rapportarsi autonomamente con il mercato.
La visione di Passarelli86 si avvicina a questo approccio ma riconosce il ruolo
dell’integrazione del commercio equo all’interno dell’economia capitalistica per il
merito e la funzione di riequilibrare le forze del mercato, rendendo più concorrenziali
quei mercati oggi dominati da oligopoli/oligopsoni (come quello delle banane e del
caffè) che creano enormi svantaggi per i paesi esportatori.
Altri specialisti hanno paragonato l’operato delle organizzazioni occidentali di
commercio equo a delle incubatrici d’impresa, perché mirano a mettere in piedi
imprese, consorzi e cooperative di produttori, curandone e proteggendone la loro
produttività, di modo che possano raggiungere una propria maturità e autonomia nel
mercato mondiale.
Per Bellù87, partendo da un’indagine IRER-Lombardia dedicata al mercato del caffè,
è utile sintetizzare in tre punti il ruolo del CES rispetto al nostro modello produttivo
prevalente: contrastare i mercati oligopolistici attraverso il sovrapprezzo pagato ai
produttori che serve da fonte di finanziamento per far crescere una concorrenza reale,
promuovere lo sviluppo di una determinata regione, e, in ultimo, stabilizzare nel breve
periodo i prezzi dei prodotti commodities, per aumentare le prospettive di crescita dei 84 Borgonovi E. (1997), “Le ragioni dello sviluppo del commercio equo e solidale”, in Amatucci (a cura di), Il commercio… cit., p. 33. 85 Lorenzi L. (1996), “Idee in transito”, in L’Altromercato, dicembre 12/1996. 86 Passarelli F. (1997), “Relazioni verticali importatore non profit, distributore profit: oltre il volontariato”, in Amatucci (a cura di), Il commercio… cit., pp. 41-49. 87 Bellù L. G. (1997), Commercio equo: analisi comparata della produzione e distribuzione del caffè, in Istituto Regionale Ricerca della Lombardia, Il commercio equo solidale. La cooperazione per lo sviluppo ecosostenibile: l’esperienza italiana e svizzera, pp. 42 – 46.
43
produttori marginalizzati dal mercato capitalistico. Questa visione riduce la capacità del
CES a promozione imprenditoriale delle organizzazioni di produttori come funzione che
si limita alla sfera economica, senza però valutare nel lungo periodo le possibilità di
sopravvivenza rispetto al mercato internazionale.
È per questo che alcuni specialisti preferiscono coniugare una visione
pluridisciplinare del fenomeno, includendo principi sociologici e antropologici, per
individuare la portata sociale e i fattori che aiutano a definire il fenomeno stesso. Per
esempio, Perna88 sottolinea come la forza e novità del commercio equo sia quella di
ricreare “un primato delle relazioni sociali sulla sfera economica”: in primo luogo, le
relazioni del mercato equo si basano sulla crescita della fiducia tra gli operatori delle
filiere solidali, e la fiducia rappresenta una componente più importante della crescita del
fatturato, in quanto verrebbe meno se non ci fosse fiducia. Inoltre, le organizzazioni
CES del Nord del mondo stabiliscono clausole commerciali con i produttori del Sud per
proteggere e stimolare la loro produttività, firmando contratti di collaborazione e
partnership pluriennali, finanziando in anticipo la merce commissionata (solitamente si
prefinanzia la metà del valore) e offrendo anche supporto di carattere tecnico. In questa
maniera, si viene a creare un network complesso di relazioni sociali basate sulla fiducia
che va dalle relazioni a lungo termine tra produttore e importatore, per arrivare ai negozi
specializzati nella vendita dei prodotti equi, fino al consumatore finale.
In secondo luogo, le transazioni non hanno nessun tipo di carattere assistenziale ed
evitano deliberatamente ogni tipo di dono unilaterale (sganciato da qualunque rapporto
di reciprocità)89, ma anzi intendono stimolare uno sviluppo autonomo per rafforzare le
economie del PVS attraverso relazioni paritarie con i loro produttori e artigiani,
offrendo la possibilità ai rappresentati di questi settori economici, seppur ridotti, dei
paesi del Sud, di riscattarsi dalla condizione marginale di svantaggio rispetto al mercato
internazionale. Per questo motivo, i prezzi dei prodotti equi sono agganciati a costi reali
e nelle transazioni commerciali non si instaura nessun tipo di rapporto di dipendenza per
fondi o fonti di sussistenza. Si potrebbe individuare una componente simile al dono da
88 Perna T. (1998), Fair Trade… cit., pp. 114 – 116. 89 Sahlins definisce con l’espressione “reciprocità negativa” ogni tipo di dono senza contropartite; in questo senso, ci si riferisce agli aiuti internazionali a pioggia, spesso mal impiegati, o all’elemosina che può provocare effetti negativi per chi la riceve (in Sahlins M. (1980), Economia dell’età della pietra, Milano: Bompiani).
44
parte del consumatore che è disposto a pagare un prezzo superiore il prodotto equo, ma
non si tratta di un dono unilaterale perché in cambio il consumatore riceve una
soddisfazione addizionale e si sente partecipe di quel network che alimenta la coscienza
del diritto di chi produce a vivere con più dignità.
Per quanto riguarda le potenzialità di crescita e diffusione del CES come fenomeno
socio-economico, alcuni specialisti si sono soffermati a riflettere che un prodotto equo è
capace di veicolare un insieme di valori (etica, rispetto, informazione, trasparenza) che
rispondono alla domanda di giustizia e sostenibilità dei consumatori occidentali più
critici: le transazioni del commercio equo acquistano una valenza etica che le distingue
dal mercato tradizionale, svuotato di ogni valore e basato sulla mercificazione che
pervade ogni settore. In questo senso, il CES ha dalla sua parte un notevole potenziale,
perché può incidere sui consumi che caratterizzano il mercato capitalistico: se sarà in
grado di inserire i propri valori nelle dinamiche dei consumi odierni (ora motivati
dall’innovazione, status symbol90, differenziazione, marketing…) potrà guadagnare
quote di mercato maggiori, trasformando in “bisogno” la scelta etica del consumatore91:
la domanda di prodotti sostenibili per l’ambiente e rispettosi dei diritti umani, insieme
alla trasparenza dei sistemi di produzione potrebbero così diventare requisiti
indispensabili per il mercato. Il consumatore non si soffermerà a controllare prezzo e
qualità nel momento in cui è chiamato ad acquistare: un criterio di scelta per comprare
sarà il contenuto etico del prodotto.
Sarebbe utile individuare altri parametri per poter meglio valutare fenomeni
economici come il CES, il microcredito e la finanza etica, in cui la sfera economica
s’intreccia con quella sociale e culturale. Perna, riferendosi nello specifico al CES,
insiste affermando che “proprio per questo che tale fenomeno non può essere analizzato
usando categorie tradizionali della scienza economica contemporanea. […] Così le
campagne d’informazione e di denunzia in difesa dei produttori del Sud non possono
90 “Sono i significati intangibili dei beni a divenire progressivamente più importanti tanto da far affermare, provocatoriamente, (…) che viviamo nella società meno materialistica che sia mai esistita. Appunto perché l’individuo è orientato ad apprezzare, e scegliere, le proposte del mercato sulla base dei loro significati immateriali.” Fabbris G. (1994), La pubblicità: teorie e prassi, Milano: Franco Angeli, pp. 31 sg., riportato in Perna T. (1998), Fair Trade… cit., p. 122. 91 Perna T. (1998), Fair Trade… cit., p. 123.
45
essere misurate in termini aziendali tradizionali perché rappresenterebbero solo un costo
con scarsi ritorni del medio periodo”92.
3.5 Rilevanza e diffusione attuale in Italia e in Europa
Il CES è cresciuto sorprendendo anche gli stessi operatori equosolidali, ed è entrato a
far parte ormai stabilmente nel costume della vita economica dei nostri giorni.
Secondo un rapporto93 pubblicato nel 2008, le organizzazioni che lavorano nella
realtà italiana del CES sono state quantificate al 2005 in 379, che includono 11 centrali
d’importazione, mentre le restanti costituiscono associazioni o imprese impegnate nella
distribuzione e attività associativa, come le Botteghe del Mondo, e il fatturato totale
ammonta a 103 milioni di euro.
A livello europeo, l’ultimo rapporto di FINE e l’associazione olandese di BdM94
pubblicato nel 2007 annuncia che la crescita del CES negli ultimi 4 anni si è
praticamente triplicata, con un volume stimato in 832 milioni di euro nel 2004, lievitato
a 2.381 milioni di euro nel 2007 (a cui vanno aggiunti la stima di 265 milioni di euro di
prodotti equosolidali non certificati), dato significativo in senso assoluto, ma ancora più
considerevole se confrontato con le stime relative ai 5 anni precedenti, che risalgono al
1999-2000, quando si sono attestate intorno ai 260 milioni di euro.
Questa crescita è dovuta in maniera considerevole all’ampliamento delle reti
distributive, che oggi contano quasi 120.000 negozi in 33 paesi del mondo (di cui 28
europei), tra Botteghe del Mondo, negozi tradizionali e supermercati che rivendono i
prodotti CES.
Il dato che rende efficacemente l’idea della diffusione del CES è la penetrazione che
hanno conosciuto alcuni prodotti, come le banane e il caffè, nel mercato tradizionale di
alcuni paesi europei (tabella 2): per esempio, la quota di mercato raggiunta dalle banane
92 Ibid. p. 114. 93 Gruppo di lavoro del Master “Lavorare nel non profit”, in collaborazione con Lunaria e Agices (2008), “Tutti i numeri dell’equo - Le dimensioni del commercio equo e solidale in Italia”, working paper, Urbino: Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. 94 Krier J.-M. (2007), Fair Trade 2007: new facts and figures from an ongoing success story. A report on Fair Trade in 33 consumer countries. Bruxels: Dutch Association of Worldshops, FINE Advocay Office.
46
eque in Svizzera è del 55 per cento, il che significa che oltre la metà delle banane
vendute in Svizzera proviene dal CES.
prodotti equi certificati
paesi
BANANE
CAFFÈ
Svizzera 55 % 4 %
Regno Unito 5,5 % (*) 20 % (*)
Finlandia 5 % (*) 0,4 % (*)
Belgio 4 % (*) 1,7 % (*)
Austria 20 % 2,3 %
Danimarca 0,9 % (*) 2 % (*)
Norvegia 70 % (#) 1,3 %
Irlanda 1,5 % 3,5 %
Olanda 4,5 % 3 %
Svezia 2 % 2%
Germania 2 % 1 %
Francia n/d 7 %
(*) 2004
(#) solo banane biologiche
Tabella 2. Quote di mercato raggiunte da alcuni prodotti CES certificati nei mercati europei
Fonte: Krier J.-M. (2007), Fair Trade 2007: new facts and figures from an ongoing success story. A report on Fair Trade in 33 consumer countries.
Bruxels: Dutch Association of Worldshops, FINE Advocay Office.
47
A livello di consumi, il mercato europeo costituisce il maggior mercato di vendita dei
prodotti equi, perché viene acquistato tra il 60 e il 70 per cento di tutti i prodotti CES
realizzati a livello globale.
paese fatturato complessivo fatturato pro capite
STATI UNITI 730.800 2,43
REGNO UNITO 704.300 11,57
FRANCIA 210.000 3,31
SVIZZERA 158.100 21,06
GERMANIA 141.700 1,72
CANADA 79.600 2,42
AUSTRIA 52.800 6,36
OLANDA 47.500 2,90
SVEZIA 42.500 4,66
DANIMARCA 39.600 7,27
ITALIA 39.000 0,66
BELGIO 35.000 3,31
FINLANDIA 34.600 6,56
IRLANDA 23.300 5,40
NORVEGIA 18.100 3,87
AUSTRALIA NUOVA ZELANDA 10.800 0,44
GIAPPONE 6.200 0,05
SPAGNA 3.900 0,09
LUSSEMBURGO 3.200 6,72
Tabella 3. Fatturato complessivo e pro capite (in euro) dei prodotti del CES venduti in 19 paesi del mondo.
Fonte: Krier J.-M. (2007), Fair Trade 2007: new facts and figures from an ongoing success story. A report on Fair Trade in 33 consumer countries.
Bruxels: Dutch Association of Worldshops, FINE Advocay Office.
48
I mercati nazionali che in assoluto registrano i fatturati più alti sono quello
statunitense e britannico, rispettivamente con il 31 e 30 per cento delle vendite di
prodotti equosolidali certificati venduti nel mondo.
Il consumo pro capite più alto di prodotti equosolidali si registra in Svizzera, dove si
stima una spesa annua per ciascun cittadino di poco più di 21 euro, seguiti dai cittadini
del Regno Unito (11,57 euro) e dai cittadini dei paesi del Nord Europa, come
Danimarca (7,27 euro), Finlandia (6,56) e Svezia (4,66).
La portata economica del fenomeno CES si spiega per il suo carattere pratico e
funzionale: a differenza dell’operato di associazioni e ONG che si concentrano su azioni
di denuncia e sensibilizzazione95, le organizzazioni di commercio equo coniugano
denuncia e informazione alla pratica di un’economia alternativa nel panorama del
commercio internazionale. È grazie a questo aspetto che si spiega la crescita ed
espansione del fenomeno, che ha incontrato non solo consensi tanto nei consumatori
occidentali quanto di produttori del Sud del mondo, ma ha prodotto risultati quantitativi
considerevoli, chiamando l’attenzione di economisti e specialisti.
Un ulteriore dato interessante è costituito dalla diffusione della conoscenza del CES
a livello mondiale, reso disponibile da un’indagine d’opinione rivolta ai consumatori
rispetto all’economia solidale, pubblicata dalla Nielsen dell’ottobre del 2008: il 70 per
cento dei consumatori europei afferma di conoscere il CES, mentre solo la metà dei
consumatori dell’America Settentrionale afferma di averne sentito parlare, e rispondono
nello stesso modo il 43 per cento dei consumatori asiatici e dell’area pacifica, il 25 per
cento rispettivamente di quelli sudamericani e dei mercati mediorientali e africani96.
Il valore dell’iniziativa del CES è stata riconosciuta anche dalle istituzioni, come la
Comunità europea che, attraverso diverse risoluzioni97, ha invitato la Commissione
europea a riconoscere il CES come valida politica comunitaria di cooperazione allo
sviluppo e come strumento per il raggiungimento degli obiettivi al Trattato Ce perché
favorisce “lo sviluppo sostenibile dei PVS, in particolare di quelli più svantaggiati;
95 Relative alle problematiche dei rapporti di scambio impari Nord-Sud, lo sfruttamento minorile, il ruolo perverso della finanza internazionale, la mercificazione e svendita delle risorse ambientali, ecc… 96 Nielsen (2008), Corporate Ethics and Fair Trading. A Nielsen global consumers report. New York: Environmental Change Institute of the University of Oxford and the Nielsen Company, p. 9. 97 Per esempio, le prime risoluzioni del Parlamento Europeo furono la A3 0373/93 e la A4 198/98, insieme alla risoluzione della Commissione Europea 619/1999.
49
l’inserimento armonioso e progressivo dei PVS nell’economia mondiale; la lotta contro
la povertà nei PVS.”98 La risoluzione più recente99 del Parlamento Europeo in merito al
sostegno del CES e alle sue ripercussioni pratiche sullo sviluppo dei PVS è stata
deliberata nel 2006, mettendo in primo piano il CES come esempio di come le pratiche
e relazioni commerciali possano contribuire a colmare il divario tra paesi sviluppati e
PVS, e favorire l’integrazione di quest’ultimi nell’economia mondiale, e allo stesso
tempo come possa anche rappresentare un modello di consumo che contribuisce allo
sviluppo dei PVS.
A livello nazionale, le istituzioni che hanno riconosciuto la validità delle iniziative di
CES si sono limitate a deliberare mozioni, come quelle dei consigli comunali di diverse
città italiane (come Milano, Roma, Bologna) e di consigli regionali (Friuli Venezia
Giulia, Toscana, Marche), e infine quella del Senato e della Camera dei Deputati del
29/05/2003, che all’interno dei propri centri di ristorazione ha adottato prodotti CES.
Una proposta di legge100 è stata avanzata nel 2003, proponendo detrazioni fiscali per le
famiglie per la spesa di prodotti CES, meccanismi premiali e incentivi per la vendita,
come una riduzione dell’Iva al 4 per cento.
Nel dicembre del 2004 si è costituita un’associazione di parlamentari, chiamata
“Associazione dei parlamentari per il Commercio Equo” (AIES), con lo scopo di
agevolare l’ingresso delle tematiche relative al CES nelle commissioni legislative
dedicate a redigere una legge per regolare il CES in Italia: sarebbe la prima a livello
europeo.
98 Ibid. p. 55. 99 Risoluzione del Parlamento Europeo 2245/2005: “invita la Commissione a presentare una raccomandazione sul Commercio equo e solidale, riconoscendo che un atto legislativo non vincolante è, in questo momento, un tipo di atto più adeguato e che non implica il rischio di un eccesso di regolamentazione e la invita altresì ad esaminare la possibilità di presentare una raccomandazione sulle altre iniziative commerciali soggette a controlli indipendenti che contribuiscono a rafforzare le norme sociali ed ambientali”. 100 Proposta di legge 3892 di Fioroni, Bindi, Franceschini.
50
3.6 Gli attori e intermediari del CES
3.6.1 Produttori del Sud del mondo
Sono le figure centrali nel CES perché ne rappresentano i protagonisti indiscussi: si
tratta di contadini proprietari di appezzamenti e artigiani dotati di un proprio
laboratorio. Sono generalmente organizzati in strutture produttive piuttosto limitate,
come singole famiglie, piccole imprese autogestite o comunità contadine, che, per le
loro dimensioni ridotte, tendono a riunirsi in organizzazioni economiche di livello
superiore (le associazioni), che possono raggiungere anche dimensioni rilevanti. Questi
raggruppamenti permettono di essere riconosciuti dagli enti di certificazioni
internazionale del CES.
Ciò che accomuna i produttori dei PVS è la difficoltà ad accedere al mercato
internazionale, e per farlo sono costretti spesso a ricorrere a intermediari locali che
speculano sul loro potere contrattuale (praticamente inesistente) acquistando la loro
merce a prezzi bassi, o alle grandi imprese multinazionali, che detengono gli oligopoli
che caratterizzano i mercati dei beni coloniali (banane, caffè, cacao, tè…).
3.6.2 Associazioni, cooperative e consorzi di produttori
Rappresentano i produttori che singolarmente non sarebbero in grado di gestire le
fasi di esportazione o commercializzazione dei propri prodotti, specie nel caso di derrate
agricole, perché non dispongono delle competenze o delle risorse necessarie: per questo,
le associazioni svolgono la funzione di interlocutori con le centrali d’importazione,
ossia le organizzazioni di trader (esportatori o importatori) dei circuiti del CES. Le
associazioni di produttori che rispettano i criteri del CES vengono accreditate dagli enti
di certificazione, come FLO International.
Alcune di queste associazioni sono sorte in autonomia nei paesi del Sud del mondo, e
oggi stanno assumendo un ruolo sempre più rilevante perché stanno promuovendo
circuiti equi senza l’appoggio di organizzazioni non profit del Nord del mondo,
occupandosi delle esportazioni senza la mediazione delle centrali d’importazioni. Per
51
esempio, la federazione ecuadoriana MCCH, che raccoglie 400 associazioni di
produttori di cacao in 21 provincie, esporta prodotti alimentari verso i mercati
occidentali, e recentemente è arrivata a concludere una relazione commerciale diretta
con Ferrero.
3.6.3 Centrali d’importazione/Alternative Trade Organizations (ATOs)
Si tratta di organizzazioni che curano le relazioni d’importazione direttamente con le
associazioni di produttori, e per questo vengono denominate anche con il termine più
generico di traders. La loro funzione principale è quella di favorire ed effettuare il
trasferimento di beni dai paesi di produzione ai paesi di consumo.
In Italia, la più nota e importante per fatturato è CTM Altromercato, seguita da
Commercio Alternativo, Roba dell’Altro Mondo, Equomercato, Libero Mondo, Altra
Qualità, Equoland, Mondo Solidale.
Prima in Germania è Gepa, mentre in Spagna le maggiori ATOs sono Alternativa 3,
Intermon Oxfam e Ideas, in Francia SolidarMonde e Artisans du Monde, in Svizzera
Claro Fair Trade, in Austria Eza, nel Regno Unito CafèDirect, Traidcraft, Oxfam,
mentre negli Stati Uniti Ten Thousand Villages e SERRV International.
Il coordinamento internazionale delle centrali d’importazione è curato dall’IFAT,
International Federation for Alternative Trade, fondata nel 1989 e oggi costituita da
circa 300 membri tra centrali d’importazione e associazioni di produttori di oltre 60
Paesi. La sua funzione preminente è quella di mettere in contatto importatori dei canali
CES e produttori, attraverso il Registro Internazionale dei produttori, che raccoglie tutti
quei produttori che vogliono instaurare un progetto di commercializzazione dei loro
prodotti con una centrale di importazione europea.
A livello europeo è presente EFTA, European Fair Trade Association, creata in via
formale nel 1987 e registrata come fondazione europea nel 1990 riunendo 12 centrali
d’importazione in 9 paesi (Austria, Belgio, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi,
Spagna, Regno Unito, Svizzera). La collaborazione tra le centrali d’importazione
permette un’ottimizzazione degli sforzi da parte di ognuna di essa: si tende, per
esempio, a unificare a livello centrale i rapporti con una medesima cooperativa o
consorzio di produttori, così che una sola centrale d’importazione si incarica di gestirne
52
le relazioni, tagliando sui costi di spedizione, imballaggio, giacenza in porto franco, e
soprattutto permettendo di realizzare forme di economia di scala. L’unione sinergica
delle centrali d’importazione è agevolata anche dai marchi di certificazione, che
fungono da veicolo di scambio di informazioni.
3.6.4 Enti e marchi di certificazione
Si tratta di organizzazioni senza scopo di lucro che hanno il compito di controllare e
certificare l’eticità sia dei produttori dai quali vengono effettuate le esportazioni, sia le
filiere d’importazione gestite dai traders, e garantire inoltre la conformità dei prodotti
commercializzati come equi e solidali secondo gli standard e i criteri del CES. Per
questa ragione, la certificazione assume un ruolo fondamentale nei canali del
commercio alternativo, perché costituisce una tutela per il consumatore, a cui si assicura
il rispetto dei principi del CES, soprattutto per quanto riguarda la redistribuzione del
profitto lungo tutta la filiera (adeguata remunerazione lungo tutti i passaggi produttivi e
distributivi), e la garanzia di acquisto di un prodotto ad alto contenuto di valore, frutto
di un processo sostenibile a livello sociale e ambientale.
L’ente di certificazione più importante è FLO International (FLO-I), FairTrade
Labelling Organiztion International, associazione senza scopo di lucro fondata nel 1997
in Germania allo scopo di coordinare le iniziative in materia di certificazione, elaborare
criteri internazionali per ciascun prodotto101 e presiedere al controllo dell’osservanza di
tali criteri da parte di produttori e traders. Questa organizzazione102 funge da
“ombrello” per le varie agenzie di certificazione operanti a livello nazionale, ad essa
101 Sinora FLO ha creato standard quasi esclusivamente nel settore delle derrate alimentari (banane, cacao, caffè, tè, zucchero di canna, riso, frutta secca, frutta e verdura fresca, succhi di frutta, spezie, uva da vino, quinoa e miele), con l’eccezione di pochi beni agricoli non alimentari, come i fiori recisi, le piante ornamentali e il cotone, e di un solo prodotto manifatturiero, i palloni da gioco. 102 “FLO è in realtà costituita da due diverse organizzazioni: un’associazione senza scopo di lucro di diritto tedesco (FLO-I), cui aderiscono 20 organizzazioni (le “Iniziative nazionali”) localizzate in 15 paesi europei oltre che in Australia, Canada, Giappone, Messico e Stati Uniti, che determina gli standard necessari ad ottenere la certificazione di produttore del CES e la licenza del marchio Fairtrade; una società (FLO-Cert Ltd), controllata dall’associazione, che ha il compito di sorvegliare i soggetti che hanno ottenuto la certificazione o la licenza d’uso del marchio Fairtrade e che segue gli standard ISO di certificazione”. (Barbetta G. P. (2006), “Il commercio equo e solidale in Italia”, Università Cattolica del Sacro Cuore, Centro di ricerche sulla cooperazione e il non profit, Working paper n.3, Milano, p.6).
53
affiliate. Inoltre, FLO ha introdotto attraverso FLO-CERT, sua controllata che si occupa
solo di indagini per la certificazione, il marchio Fairtrade, unico marchio internazionale
per i prodotti del CES.
Dal 1997, il marchio Fairtrade ha sostituito i 4 marchi prima riconosciuti e impiegati
a livello nazionale in Europa, con i suoi rispettivi enti di certificazione, tutt’oggi
esistenti con funzioni specifiche: Transfair in Italia, Germania, Austria, Lussemburgo,
Canada, Giappone, Stati Uniti; Max Havelaar in Svizzera, Olanda, Belgio, Danimarca,
Francia, Norvegia; Fairtrade Mark in Irlanda e Regno Unito; Rättvisemärkt o Reilu
kauppa/Rejäl Handel, rispettivamente in Svezia e Finlandia. Sono queste le
organizzazioni nazionali che, sentita l’esigenza di un unico marchio e di un’adeguata
struttura di certificazione mondiale, hanno dato vita a FLO International.
Figura 5.
Marchi nazionali Figura 6.
Marchio internazionale
Per quanto le relazioni con i produttori e rispettiva certificazione, FLO stabilisce gli
standard che debbono essere rispettati per poter ottenere il marchio Fairtrade: la
certificazione dei produttori viene svolta direttamente da FLO (attraverso la controllata
FLO-CERT Ltd) con una indagine iniziale, che attribuisce il marchio al produttore, e
successivamente con un insieme continuativo di controlli ed ispezioni (almeno una
all’anno per ogni produttore) che garantisce il mantenimento degli standard previsti dal
54
sistema e certifica la destinazione a fini sociali e comunitari del premio pagato dai
traders, il cosiddetto fair trade premium. Il produttore deve pagare una tariffa a FLO
per ottenere la certificazione iniziale (con un costo minimo di circa 2.000 euro,
applicato alle organizzazioni più piccole che richiedono la certificazione di un solo
prodotto, e varia al crescere delle dimensioni del produttore e del numero di prodotti ed
impianti certificati). Una ulteriore tariffa (con un costo minimo di circa 1.000 euro, che
aumenta al crescere delle dimensioni e del “grado di rischio” del produttore) è richiesta
per il rinnovo annuale della certificazione, che comporta almeno una ispezione diretta
da parte di FLO.
Invece, le centrali d’importazione e, più in generale, i traders che vogliono
commercializzare prodotti del CES, ricevono la licenza d’uso del marchio Fairtrade una
volta iscritti al registro dei licenziatari del marchio stesso, a patto che soddisfino i criteri
basici del CES. Concretamente, la licenza all’uso del marchio viene rilasciata dalle
organizzazioni nazionali, socie di FLO International (per esempio, per l’Italia è il
consorzio Fairtrade – Transfair Italia, costituito da 20 organizzazioni attive nel campo
della cooperazione internazionale e del non profit) a fronte del pagamento di royalties
che si aggirano intorno all’1,5 - 2 per cento del prezzo al consumo dei prodotti sui quali
viene utilizzato il marchio. Va precisato che le royalties hanno lo scopo di sostenere le
attività di FLO International e delle organizzazioni nazionali.
Tra i compiti delle organizzazioni nazionali associate a FLO, oltre alla concessione
della licenza all’uso del marchio, vi sono anche il monitoraggio delle dimensioni
complessive del CES, la creazione di campagne di sensibilizzazione ed informazione
rivolte sia al pubblico che alle imprese e la verifica del rispetto delle condizioni
contrattuali legate all’uso del marchio da parte dei licenziatari. Le modalità di
svolgimento di questa attività sono attualmente in corso di ri-definizione, soprattutto a
partire dall’esigenza di garantire processi con caratteristiche comuni in tutti i paesi.
Va aggiunto che non tutti i prodotti che ricevono la denominazione “equo e solidale”
che si trovano in commercio presentano il marchio di certificazione, e questo è dovuto a
ragioni diverse. In primo luogo, alcuni operatori del CES (come le centrali
d’importazione o altri traders) collaborano con produttori talmente svantaggiati e
marginalizzati da non essere in grado di rispettare tutti i requisiti richiesti da FLO per
ottenere la certificazione; in questi casi, sono gli importatori a farsi da garanti del
rispetto dei principi del CES, offrendo inoltre azioni di assistenza che puntano a far
55
crescere le competenze tecniche, commerciali e amministrative necessarie per rispettare
i requisiti imposti dal processo di certificazione di FLO. E qui sorge problema di un
evidente conflitto di interessi per l’operatore del CES che svolga simultaneamente sia il
ruolo di importatore e distributore di un prodotto, sia quello di certificatore del processo
produttivo. In secondo luogo, non sono stati ancora concordati standard per la
certificazione di tutti i prodotti CES, soprattutto per i beni dell’artigianato, per via della
complessità delle produzioni, per definizione non standardizzate e peculiari di ogni
contesto culturale in cui si svolge. In ultimo, alcuni soggetti del CES (soprattutto in
Italia, alcune centrali d’importazione, come Ctm Altromercato) hanno manifestato
perplessità su alcuni aspetti del processo di certificazione svolto da FLO o, addirittura,
sulla stessa possibilità di certificare solo prodotti invece di intere filiere produttive. Per
queste ragioni, la gran parte delle ATOs italiane ha deciso di non aderire alle
organizzazioni nazionali che hanno promosso la costituzione di FLO e che ne
rappresentano a tutti gli effetti i soci.
3.6.5 Botteghe del Mondo (BdM)/Worldshops
Si tratta di organizzazioni che si occupano di distribuire e commercializzare i
prodotti attraverso punti vendita. I prodotti CES presenti nelle Botteghe generalmente
vengono acquistati dalle centrali d’importazioni, ma vi sono anche casi di acquisto
diretto dai PVS tramite progetti di sviluppo concordati. Funzione delle Botteghe non è
quindi solo quella di vendita, ma produrre materiale informativo e sostenere campagne
di sensibilizzazione, traducendole in iniziative concrete sul territorio (cicli di incontri,
cene, presentazione progetti presso luoghi pubblici…). Sia le centrali di importazione
che le BdM, in Italia, sono organizzazioni senza fini di lucro e hanno l’obbligo del
reinvestimento degli utili.
È utile fare riferimento al documento103 redatto dall’Associazione Botteghe del
Mondo, attraverso il quale si è identificato il ruolo delle BdM, insieme ai loro criteri
ideali e organizzativi. Nella parte introduttiva, si legge che “la BdM si andrà sempre più
103 Associazione Botteghe del Mondo (2004), Carta d’Identità delle Botteghe, consultabile al sito http://www.assobdm.it/modules/wfsection/article.php?articleid=3 (per il testo integrale, si veda appendice 2).
56
identificando come un soggetto dell'economia no profit all'interno del sistema del
C.E.S., dove le proposte fatte al consumatore sono di carattere complessivo in quanto
non si limitano alla vendita dei prodotti provenienti dal Sud del mondo, ma propongono
un modello di sviluppo alternativo all'attuale sistema economico che prevede proposte
quali ad esempio il risparmio alternativo, i viaggi, le assicurazioni e quant'altro la
fantasia e le nostre capacità saranno in grado di realizzare. La BdM si configurerà
pertanto come il terminale di una proposta complessiva e come riferimento
fondamentale per lo sviluppo di quanto sopra detto”.
Il coordinamento a livello europeo è gestito da NEWS!, Network of European World
Shops, che raccoglie dal 1994 le federazioni nazionali di BdM di 13 paesi europei e
rappresenta in totale circa 2700 BdM. Non tutte le BdM aderiscono ad una federazione,
e la situazione varia secondo i paesi: in alcuni, tutte le Botteghe fanno parte di un’unica
federazione, in altri l’adesione è parziale, in altri ancora esiste una pluralità di
federazioni o di singoli consorzi.
57
3.7 La filiera del CES Per definire le relazioni che distinguono i circuiti commerciali del CES, è utile rifarsi
alla teoria di “filiera”, sviluppata dagli economisti T. Hopkins e I. Wallerstein nel 1986,
che hanno definito il concetto di filiera come “un insieme di lavoro e processi
produttivi, il cui risultato finale è un bene di consumo”104. Questa teoria si presta
particolarmente per l’analisi del mercato equo perché si focalizza sulla sequenza di
processi che si estendono dalla produzione delle materie prime ai prodotti finiti e alla
loro vendita ai consumatori: di tutti questi passaggi, si analizza la natura dei flussi di
beni che veicolano e la loro distribuzione geografica.
Lo schema sottostante individua i passaggi che caratterizzano le filiere produttive e
distributive tradizionali del CES.
Figura 7.
Schema della classica filiera CES. Fonte: Pepe C. (2007), “Filiere tradizionali e filiere alternative nel commercio dei prodotti dal Sud del
mondo” in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo e mercati avanzati, Milano: Franco Angeli, p. 28.
104 Hopkins T. e Wallerstein I. (1986), “Commodities chains: construct and research”, in Gereffi G. e Korezeniewics, Commodities chains and global capitalism, Westport: Praeger Publishers (riportato da Depperu D. e Todisco A. (2007), “Sistemi di creazione di valore nelle filiere equo solidali” in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo… cit., p. 103.
58
I produttori, attraverso i consorzi accreditati da FLO, vendono alle centrali
d’importazione, le quali raccolgono le materie prime in magazzini, e si incaricano della
spedizione. Generalmente si tende a svolgere le fasi di imballaggio e packaging nella
stessa area di produzione dei prodotti. Successivamente, le centrali d’importazione
vendono e distribuiscono alla rete di BdM.
Questo schema si applica ai singoli prodotti commercializzati nei circuiti
equosolidali; può risultare utile il confronto fra la filiera tradizionale del caffè con
quella relativa gestita dal CES, per confrontare la differenza dei passaggi distributivi
(figura 8).
Figura 8. Confronto fra la filiera tradizionale del caffè e quella del CES
Fonte: Depperu D. e Todisco A. (2007), “Sistemi di creazione di valore nelle filiere equo solidali” in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo e mercati avanzati, Milano: Franco Angeli, p. 114.
La filiera CES può essere definita come una filiera sostenibile sotto il profilo
strategico ed economico, perché non stravolge la stabilità economica degli attori e
intermediari coinvolti, ma soprattutto non impone la rinuncia alla redditività realizzata
nelle filiere del mercato tradizionale, anzi, è capace di realizzare profitto lungo tutti i
suoi passaggi, dando uguale beneficio a tutti i suoi soggetti.
59
4. L’evoluzione del CES: le interazioni con l’economia e il mercato
tradizionale
Negli ultimi due decenni, la direzione presa dagli operatori dei canali dell’economia
solidale, attraverso la quale si è inteso amplificare la forza di impatto del CES e
ricercare potenzialità di sviluppo, è stata quella di interagire e mediare con il mercato
tradizionale, per uscire dalla dimensione di “nicchia”. Questo avvicinamento è stato
agevolato anche dall’accresciuta sensibilizzazione dei consumatori ai prodotti con una
valenza etica e all’interessamento da parte di un numero sempre più significativo di
imprese tradizionali all’economia della responsabilità sociale come fonte di vantaggio
competitivo, favorendo così le possibilità di crescita e diffusione dei principi di un
commercio alternativo.
Si possono rintracciare delle vere e proprie contaminazioni del CES con il mercato
tradizionale, definibili sotto due profili: da un lato, la convergenza fra circuiti e soggetti
differenti (relazioni con la grande distribuzione organizzata - GDO), e dall’altro lato, la
diffusione di pratiche economiche etiche nell’economia capitalistica (adozione di criteri
equi e solidali da parte di imprese industriali transnazionali). Ne sono nate una serie di
esperienze, come la vendita di prodotti del CES attraverso le strutture della grande
distribuzione, la certificazione di filiere controllate da multinazionali convertite ai criteri
dell’equo e solidale, o percorsi autonomi di offerta di prodotti a contenuto etico da parte
di imprese industriali e della grande distribuzione.
Queste tendenze possono essere identificate come propulsori dell’evoluzione del
CES e della diffusione dei suoi principi, perché nel loro complesso comportano la
trasformazione delle relazioni Sud-Nord all’insegna dell’equità dei rapporti di scambio,
il rispetto dei contesti, l’adozione di una prospettiva relazionale negli scambi, e quindi
di un’attenzione rivolta alla qualità delle relazioni, e inoltre portano all’abbandono degli
automatismi del liberismo, per il raggiungimento di valori inediti nella sfera economica.
I soggetti economici che hanno costituito pratiche commerciali sperimentali
all’insegna dell’interazione tra mercato tradizionale e economia solidale sono
multinazionali, centrali d’importazione, imprese della grande distribuzione e enti di
certificazione legati alla sfera del CES. La natura così diversa dei soggetti coinvolti
rende indispensabile una mediazione per il rispetto di tutte le identità e delle loro
60
motivazioni, più o meno rivelatrici di una coscienza sociale e ambientale, dal momento
che per definizione perseguono obiettivi opposti: se la GDO e le imprese multinazionali
mirano alla ricerca di strategie per aumentare la competitività e la crescita del fatturato,
il CES intende agevolare il miglioramento delle condizioni di vita dei produttori del Sud
del mondo con iniziative di sostegno al reddito e progetti di sviluppo a favore delle
comunità dei produttori, e, in un’ottica di più lungo termine, stimolare un’attività
imprenditoriale capace di competere nel mercato internazionale.
4.1 L’interazione con la GDO: nuove forme di distribuzione per il CES
L’entrata dei prodotti equi nella grande distribuzione è stata adottata come strategia
di crescita da parte di alcune centrali d’importazione del Centro e Nord Europa a partire
dalla seconda metà degli anni ’80: “le ATOs desideravano attivare canali di
commercializzazione che consentissero ulteriori sbocchi ai prodotti certificati, nonché
consentissero a tutti i cittadini di reperire una gamma di prodotti fortemente etici anche
nel negozio o nel supermercato tradizionale, in particolare per quanto riguarda l’area
food, mantenendo al contempo delle condizioni valide e sostenibili per i piccoli
produttori”105.
Gli obiettivi di questa strategia inedita non si limitavano però ad allargare i canali
distributivi, fino ad allora costituiti solo dalle BdM, e rendere così più accessibili i
prodotti del commercio equo ad una gamma più ampia di consumatori, ma cercare
anche di intervenire sulla questione rappresentata dalla formazione del prezzo dei
prodotti equi. Grazie all’economia di scala, il ricarico del prezzo della merce distribuita
in un supermercato era sempre minore rispetto ai margini106 stabiliti sui prezzi dei
prodotti del commercio equo venduti in una BdM, costretta ad imporre un ricarico ben
maggiore per via del suo fatturato ridotto e delle spese più gravose. Il canale della
grande distribuzione ha costituito un’opportunità per aumentare i volumi dei prodotti
105 Pastore P. (1997), “Marchi etici e di garanzia del Fair Trade: alla ricerca di nuovi canali distributivi” in Amatucci F. (a cura di), Il commercio…cit., p. 98. 106 Per esempio, secondo l’indagine del 1997 condotta da Bellù, intitolata Commercio equo: analisi comparata della produzione e distribuzione del caffè, il margine stabilito dalle BdM per la vendita del caffè è di circa il 23 per cento contro l’8 – 10 per cento che si registra nella grande distribuzione.
61
importati dalle centrali d’importazione, che si sono ritrovate a poter convogliare nei
canali distributivi tradizionali assortimenti più considerevoli, costruendo così piccole
economie di scala.
Un ulteriore aspetto strategico preso in considerazione grazie all’entrata del CES nei
canali commerciali della GDO è stato il tentativo di far passare importanti principi di
regolazione del mercato capitalistico (prezzi prestabiliti e superiori a quelli vigenti,
anticipo finanziario ai produttori...), anche se va constatato che la grande distribuzione
ha trovato conveniente la rivendita di prodotti equosolidali come strategia di
diversificazione dell’offerta, senza modificare in maniera rilevante l’orientamento del
proprio operato sul mercato. Questo ha comportato il forte rischio di perdita e
banalizzazione dei principi che distinguono il commercio equo, dovuto al fatto che
molte imprese con le quali è entrato in relazione continuano ad essere guidate dalla
logica del profitto.
Sono stati creati appositamente marchi di garanzia etica attraverso i quali certificare
inizialmente un gruppo limitato di prodotti alimentari equosolidali, come caffè, tè e
cioccolata che, arrivando sugli scaffali dei punti vendita di imprese commerciali della
GDO107, hanno seguito il percorso di un nuovo tipo di filiera, chiamata ibrida, in cui la
catena di prodotto CES confluisce nei canali distributivi della grande distribuzione,
determinando l’interazione e la convergenza di operatori legati a contesti economici
diversi.
107 Secondo i criteri segnalati dall’Assemblea Generale Italiana del Commercio Equo e Solidale (AGICES), inclusi anche dall’Osservatorio Nazionale del Commercio del Ministero dello Sviluppo Economico, per Grande Distribuzione si intende: - grande magazzino: “esercizio al dettaglio operante nel campo non alimentare, che dispone di una superficie di vendita superiore a 400 mq e di almeno 5 distinti reparti (oltre l’eventuale annesso reparto alimentare) ciascuno dei quali destinato alla vendita di articoli appartenenti a settori merceologici diversi ed in massima parte di largo consumo”; - supermercato: “esercizio di vendita al dettaglio operante nel campo alimentare (autonomo o reparto di grande magazzino) organizzato prevalentemente a libero servizio e con pagamento all’uscita, che dispone di una superficie di vendita superiore a 400 mq e di un vasto assortimento di prodotti di largo consumo ed in massima parte preconfezionati nonché, eventualmente, di alcuni articoli non alimentari di uso domestico corrente”; - ipermercato: “esercizio al dettaglio con superficie di vendita superiore a 2500 mq, suddiviso in reparti (alimentare e non alimentare), ciascuno dei quali aventi, rispettivamente, le caratteristiche di supermercato e di grande magazzino”; - minimercato: “esercizio al dettaglio in sede fissa operante nel campo alimentare con una superficie di vendita che varia tra 200 e 399 mq e che presenta le medesime caratteristiche del supermercato”; - grande superficie specializzata: “esercizio al dettaglio operante nel settore non alimentare (spesso appartenente ad una catena distributiva a succursali) che tratta in modo esclusivo o prevalente una specifica gamma merceologica di prodotti su una superficie di vendita non inferiore ai 1500 mq”.
62
Il primo marchio di garanzia etica è stato Max Havelaar108 istituito in Olanda nel
novembre del 1988 e diffuso poi per opera delle organizzazioni locali di CES in Belgio,
Norvegia, Francia, Danimarca e Svizzera109: queste organizzazioni sono veri e propri
organismi di certificazione che stabiliscono i criteri per il riconoscimento dei prodotti
CES, alcuni dei quali sono relativi ai produttori (si scelgono gruppi di produttori con
scarsa o nessuna possibilità di accesso al mercato tradizionale), al prezzo (prezzo
minimo che copra non solo i costi di produzione ma assicuri al gruppo di produttori un
margine per investimenti di tipo sociale o produttivo, a cui si aggiunge un bonus per
l’incentivazione della coltivazione biologica), al supporto finanziario (prefinanziamento
o credito in modo che i produttori non si trovino in difficoltà prima della vendita del
prodotto) e alla partnership (di lungo periodo per agevolare una pianificazione del
produttore che ha così maggiori certezze per il futuro).
In seguito al mancato raggiungimento di accordi relativi alle caratteristiche di
commercializzazione e di immagine, alcune ATOs appartenenti a EFTA decidono nel
1992 di creare un altro marchio e rispettivo ente di certificazione, che potesse
distinguersi da Max Havelaar per criteri più rigidi imposti ai licenzatiari (per esempio,
soglia del 51 per cento di prodotto equosolidale in caso di prodotti composti). Nasce
così l’associazione di marchio Transfair, con sede a Stoccarda, composta dalle
organizzazioni fondate in rapida successione in Austria, Germania, Italia, Stati Uniti,
Canada, Lussemburgo e Giappone.
Negli anni successivi, a opera di alcune organizzazioni inglesi, viene fondata Fair
Trade Foudation nel Regno Unito, con sede a Londra, seguita da Reilun Kaupan e
Rättvisemärkt in Svezia e Finlandia.
A partire dall’aprile 1997, spinti dalla volontà di facilitare il riconoscimento dei
prodotti equosolidali a livello transnazionale e agevolare la collaborazione tra le
organizzazioni, tutti i marchi nazionali di garanzia vengono coordinati da FLO
International, Fairtrade Labelling Organization, che basandosi su un quadro di criteri
108 Pseudonimo dell’olandese Eduard D. Dekker che, al rientro in patria dopo un lungo soggiorno nelle colonie olandesi dell’Estremo Oriente (Indonesia) dove lavorò come impiegato statale nella seconda metà del XIX secolo, decise di comporre l’omonima novella per criticare la politica della Corona olandese che obbligava i contadini di quei territori a coltivare caffè per l’esportazione nella madrepatria, e negando quindi la possibilità di coltivarlo per il proprio fabbisogno alimentare. 109 Attualmente, con questo marchio, si possono trovare prodotti equi in quasi l’intera gamma dei punti vendita della grande distribuzione svizzera.
63
unici, rilascia le licenze d’uso dell’unico marchio di garanzia internazionale, Fairtrade,
che si affianca agli enti di certificazione a livello nazionale.
I sistemi di certificazione hanno contribuito non solo ad agevolare l’introduzione dei
prodotti CES nei canali di consumo di massa, ma anche ad aumentare la loro credibilità
e facilitarne il loro riconoscimento da parte dei consumatori all’interno dei punti vendita
delle imprese commerciali di grandi dimensioni: “la presenza del marchio permette
infatti l’accesso dei prodotti sugli scaffali, garantendone disponibilità e accessibilità
diffuse ed esercitando nel contempo un’importante funzione di legittimazione agli occhi
del consumatore”110.
Grazie all’ingresso dei prodotti CES nei canali della GDO (in tutta Europa, si
contano oggi più di 67.000 punti vendita111 di supermercati che rivendono i prodotti
equosolidali), si è registrato un aumento, in termini relativi112, delle quote di mercato
dei prodotti equi, insieme anche a un aumento delle referenze, ampliandone
l’assortimento.
Nel penultimo rapporto di FINE/EFTA, pubblicato nel 2005, si riconosce
apertamente l’importanza che hanno assunto i canali distributivi della GDO nella
commercializzazione dei prodotti CES: “The retailers, both the specialized Fair Trade
shops (the “Worldshops”) and the supermarket chains that prominently place Fair Trade
products on their shelves, are key in the process of Fair Trade consumption”113. Se è una
delle maggiori organizzazioni del CES a riportare questa constatazione, è dunque
indiscutibile che la commercializzazione di prodotti CES nella grande distribuzione
rappresenti un canale di sviluppo considerevole: ad oggi, si è ormai consolidato a livello
europeo, ma rimane più evidente in alcuni paesi (tabella 4), soprattutto dove
l’evoluzione del settore distributivo è più avanzata, come Germania (30.836 punti
110 Zanderighi L. (1997), “Offerta dei prodotti etici e grande distribuzione organizzata”, in Amatucci F. (a cura di), Il commercio…cit., p. 97. 111 Krier J.-M. (2007), Fair Trade 2007: new facts and figures from an ongoing success story. A report on Fair Trade in 33 consumer countries. Bruxels: Dutch Association of Worldshops, FINE Advocay Office. http://www.fairfutures.at/doku/FairTrade2007newfacts+figures.pdf 112 In termini assoluti, le quote di mercato dei prodotti CES rispetto al mercato tradizionale restano comunque marginali, anche dopo la commercializzazione nella GDO (Depperu D. e Todisco A. (2007), “Sistemi di creazione di valore nelle filiere equo solidali” in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo…cit., p. 106). 113 Osterhaus A. (2005), introduzione al rapporto EFTA, Krier J.-M., Fair Trade in Europe 2005. Facts and figures... cit., p.5.
64
vendita tra GDO e negozi tradizionali), unico paese con una larghissima distribuzione al
dettaglio dei prodotti CES, seguita da Francia (7.800), Norvegia (5.600), Austria (5.150)
e Italia (4.725), al quinto posto nella classifica europea di paesi con più punti di vendita
per i prodotti del CES certificati Fairtrade. È da notare che attualmente la
commercializzazione dei prodotti del CES, a livello distributivo europeo, si basa su una
netta prevalenza dei canali della GDO rispetto a quelli convenzionali costituiti dalle
BdM e negozi convenzionali, e sono aumentati del 24 per cento rispetto al 2000, con
una crescita particolarmente vivace del 32 per cento proprio nel settore della grande
distribuzione. Fuori dall’Europa, il paese con un più elevato numero di punti vendita
risultano gli Stati Uniti (40.280), seguiti dal Giappone (4.170) e Australia con Nuova
Zelanda (1.060).
paese punti vendita GDO
BdM e negozi tradizionali totale
Germania 30.000 836 30.836
Francia 7.500 300 7.800
Norvegia 5.600 n.d. 5.600
Austria 5.000 105 5.150
Italia 4.150 575 4.725
Olanda 4.000 426 4.426
Regno Unito 3.100 (*) 117 3.217
Finlandia 3.000 19 3.019
Danimarca 2.700 14 2.714
Svizzera 2.500 300 2.800
Svezia 2.500 44 2.544
Belgio 700 (*) 296 996
Irlanda 350 8 358
Spagna 95 (*) 120 215
Portogallo 9 (*) 9 (*) 18
Lussemburgo 160 7 167
65
Stati Uniti 40.000 280 40.280
Canada n.p. 50 50
Giappone 3.820 350 4.170
Australia
Nuova Zelanda 1.000 60 1.060
Europa (#) 68.864 3.176 72.040
resto del mondo (∆) 44.820 740 45.560
Mondo 113.684 3.916 117.600
(*) 2005
(#) include tutti gli attuali paesi dell’Unione Europea e Svizzera, Lussemburgo, Norvegia
(∆) include i 5 paesi extra-europei indicati in tabella: Stati Uniti, Canada, Giappone, Australia, Nuova Zelanda
Tabella 4. Numero punti vendita della rete distributiva CES nel mondo
Fonte: Krier J.-M. (2007), Fair Trade 2007: new facts and figures from an ongoing success story. A
report on Fair Trade in 33 consumer countries. Bruxels: Dutch Association of Worldshops, FINE Advocay Office. http://www.fairfutures.at/doku/FairTrade2007newfacts+figures.pdf
Se si aggiungono i mercati di altri paesi del mondo dove il CES ha conosciuto una
buona diffusione, il numero dei punti vendita in tutto il mondo supera i 100.000.
Il mercato italiano presenta caratteristiche proprie: è l’unico paese in cui più della
metà del fatturato totale viene generato dalle BdM, mentre le catene della GDO hanno
generato solo il 44 per cento delle vendite, contro una media europea del 75 per
cento114: nel resto d’Europa infatti la distribuzione tradizionale attraverso la GDO
rappresenta il principale canale di diffusione dei prodotti equosolidali. Questa
peculiarità del settore distributivo italiano si spiega da un lato per l’elevato numero di
BdM presenti nella rete di vendita al dettaglio nazionale, ma anche dall’altro lato dal
minor sviluppo strategico e manageriale che caratterizza la GDO italiana. Barbetta
segnala che la vendita di prodotti equosolidali da parte delle imprese distributrici
“genera un fatturato ancora estremamente modesto, forse a causa della difficoltà che
114 Risso M. (2007), “Il ruolo del distributore nell’offerta dei prodotti a carattere etico-sociale” in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo… cit., p. 130.
66
sperimenta nel trasmettere ai consumatori quei “contenuti valoriali” che sono invece
comunicati attraverso le botteghe”115.
4.1.1 Le filiere ibride
La confluenza di filiere produttive alternative gestite dagli operatori CES con il
canale distributivo rappresentato dalla GDO ha creato delle filiere ibride, che si
centrano sulla partnership tra centrale d’importazione e impresa della grande
distribuzione, quindi fra soggetti molto diversi, che appartengono a culture e pratiche
gestionali fra loro distanti ma unite da interessi divenuti complementari.
Figura 9. Schema filiera ibrida con GDO
Fonte: Pepe C. (2007), “Filiere tradizionali e filiere alternative nel commercio dei prodotti dal Sud del
mondo” in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo e mercati avanzati, Milano: Franco Angeli, p. 29.
Le filiere ibride rappresentano per il CES un’opportunità di interazione privilegiata
con soggetti che si distinguono per la forte capacità d’impatto sul mercato finale, grazie
115 Barbetta G. P. (2006), “Il commercio equo e solidale in Italia”, Università Cattolica del Sacro Cuore, Centro di ricerche sulla cooperazione e il non profit, Working paper n.3, p. 44, Milano.
67
alla notorietà dei loro marchi e delle loro insegne, insieme ad un raggio d’azione ampio
basato su reti distributive di livello anche internazionale: per questo motivo, la
possibilità di gestire relazioni commerciali con interlocutori così evoluti e competitivi
costituisce un confronto e una collaborazione particolarmente interessante per le
prospettive di crescita delle pratiche di economia solidale.
Se da un lato gli operatori del CES possono aumentare volumi e ampliare i propri
canali di distribuzione raggiungendo una maggiore visibilità grazie a nuovi sbocchi di
vendita, è anche vero che dall’altro lato le imprese della GDO conseguono attraverso i
canali offerti dalle filiere ibride un proprio vantaggio, grazie alla maggiore
differenziazione dell’offerta costituita dalla vendita dei prodotti equi e al recupero di
immagine che va a beneficio di tutta la gamma di prodotti trattati col proprio
marchio116. I distributori riescono così a beneficiare di un ritorno d’immagine
considerevole: “la semplice presenza in assortimento di tali prodotti può apparire,
infatti, agli occhi del consumatore, come una presa di posizione dell’impresa verso uno
sviluppo concepito secondo principi di equità, condivisione delle responsabilità e
solidarietà”117.
Le partnership sui cui si basano le filiere ibride comportano quindi un vantaggio
condiviso dai suoi intermediari, senza implicare uno stravolgimento dei valori
perseguiti: le centrali d’importazione conseguono il miglioramento delle condizioni dei
produttori dei PVS attraverso canali di vendita molto più ampi per i loro prodotti,
mentre le aziende della GDO hanno modo di aumentare la propria competitività
attraverso la strategia di diversificazione della propria offerta, rendendosi più attrattiva
di fronte a una clientela che vuole aumentare le proprie possibilità di scelta e si mostra
sempre più sensibile a valori che vanno al di là del semplice bisogno di consumo.
Come però segnalato da Pepe, “l’introduzione di prodotti ispirati a valori sociali ed
etici da parte di imprese industriali e commerciali richiede un atteggiamento innovativo,
ma non comporta un cambiamento dell’orientamento culturale di fondo”118. Il CES
rimane un’opportunità di business per le imprese della GDO, che non sono mosse da
116 Pepe C. (2007), “Filiere tradizionali e filiere alternative nel commercio dei prodotti dal Sud del mondo”, in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo…cit., p. 29. 117 Risso M. (2007), “Il ruolo del distributore…” cit., p. 127. 118 Pepe C. (2007), “Filiere tradizionali e filiere alternative…” cit., p. 29.
68
una semplice vocazione a favorire un consumo responsabile, ma dall’interesse a
migliorare la loro performance, legata a obiettivi di mercato e di profitto: la relazione
con il CES è una risposta al mercato e non un cambiamento della mission aziendale119.
Tuttavia, non va comunque sottovalutato il valore aggiunto prodotto attraverso le
filiere ibride, perché permettono di mettere in atto un’interazione proficua non solo in
termini economici ma anche sociali, per via delle implicazioni generate nel contesto
sociale a monte della filiera: tutto questo è reso possibile grazie a un processo di
mediazione degli obiettivi perseguiti dai suoi intermediari, che sono capaci di
raggiungere un’intesa commerciale inedita, nel rispetto di un’economia basata sulla
consapevolezza delle responsabilità e votata ad un benessere condiviso.
4.1.2 Alcuni esempi di filiere ibride
I circuiti di interazione tra economia solidale e tradizionale si sono stabiliti
inizialmente grazie a questo tipo di filiera, formando i primi casi d’integrazione che si
sono poi consolidati nel tempo, o sono mutati per sperimentare nuove forme di
collaborazione. Questo tipo di filiera permette infatti un primo lancio sperimentale di
prodotti equosolidali, senza compromettere l’immagine e la produttività dell’azienda
distributrice. È in un momento successivo che le società della grande distribuzione
decidono se continuare questa forma di collaborazione o dare vita ad una nuova
partnership con le centrali d’importazione del CES.
4.1.2.1 Il caso Esselunga – Ctm Altromercato
Un caso d’integrazione tutto italiano è dato dal partenariato commerciale tra Ctm
Altromercato e Esselunga, rispettivamente la prima centrale d’importazione in Italia con
sede a Bolzano, seconda per fatturato nel mondo, e la catena leader della grande
distribuzione nel Nord e Centro Italia, seconda per fatturato dopo il colosso Coop.
119 Risso M. (2007), “Il ruolo del distributore…” cit., p. 144.
69
La collaborazione è iniziata nel febbraio del 2002, ed è duplice: da un lato prevede la
vendita di prodotti a marchio Ctm Altromercato in appositi spazi all’interno dei punti
vendita della catena (testata di corridoio a livello iniziale-centrale dell’area alimentare);
dall’altro lato, la fornitura da parte di Ctm Altromercato di materie prime alimentari che
si inseriscono nell’offerta della linea a marchio Esselunga Bio, che hanno lo scopo di
ampliare la gamma a marchio dell’impresa distributiva, composta da prodotti alimentari
ottenuti da coltivazione biologica. In questo caso, si tratta di prodotti che appaiono con
private label Esselunga, dislocati all’interno delle categorie merceologiche tradizionali
in cui è suddivisa l’area di vendita, ma in realtà sono forniti e lavorati direttamente dalla
centrale d’importazione Ctm Altromercato, e sono limitati alla sfera dei prodotti
alimentari coloniali, come banane, zucchero di canna, tè verde, cacao e caffè.
L’introduzione di questi prodotti determina un ritorno d’immagine considerevole per
la catena distributrice, che agli occhi del consumatore si vede impegnata nello stesso
tempo ad appoggiare forme di coltivazione rispettose dell’ambiente e a dare un supporto
concreto all’economia solidale. Per questo, si tratta di una politica assortimentale molto
diffusa, in cui i distributori mirano a rafforzare una tipologia di prodotti combinando
contenuti e caratteri diversi: in questo caso, i valori etici sono abbinati alla valenza
biologica. Questa scelta è anche motivata dal fatto che i consumatori siano più propensi
all’acquisto di prodotti etici se questi garantiscono anche il loro carattere salutare
rispetto a quelli del commercio tradizionale, come è stato rilevato da recenti studi di
mercato.
4.1.2.2 Il caso Dico – Commercio Alternativo
La partnership che ha costituito in tempi recenti una nuova filiera ibrida nel
panorama distributivo italiano è stata quella avviata nell’ottobre 2007 da Dico, catena di
discount di proprietà Coop Italia, e Commercio Alternativo, centrale d’importazione di
Ferrara e seconda a livello nazionale.
Seguendo l’esempio della catena tedesca di discount Lidl, prima in Italia ad
introdurre referenze equosolidali nei magazzini dei prodotti senza marca, i punti vendita
Dico hanno proposto inizialmente 3 referenze (tè English breakfast, tè verde e
cioccolata spalmabile).
70
Dopo i risultati positivi riscontrati con questa prima fase sperimentale,
successivamente, nel luglio del 2008, la partnership ha previsto il lancio della linea con
il nuovo marchio Equosolidale, in assortimento in tutti e 300 punti vendita, fornita
direttamente da Commercio Alternativo e certificata Fairtrade – Transfair Italia. La
linea prevede 11 referenze che includono nuovi prodotti come caffè, zucchero di canna
e cacao120.
4.2 La responsabilità sociale nella GDO: una nuova interazione con il CES Se un primo passo verso un’interazione tra economia solidale e mercato tradizionale
è stato mosso dagli operatori del CES, in un momento successivo sono state le imprese
della grande distribuzione ad avvicinarsi ai temi della responsabilità sociale,
relazionandosi con alcuni attori del CES.
Questo orientamento innovativo121 è stato adottato prevalentemente dalle imprese
della distribuzione commerciale più lungimiranti e con una forte inclinazione al cliente,
ampliando i propri obiettivi al di là dell’orizzonte delle performance strettamente
economiche, per dare maggiore importanza alla capacità di interagire con i suoi propri
interlocutori, differenziarsi dalla concorrenza, e prestare maggiore attenzione alle
esigenze di una clientela in aumento che pratica un consumo critico e responsabile.
In breve, si possono riconoscere tre ordini di motivi che hanno spinto le imprese
della GDO a referenziare e inserire nel proprio assortimento i prodotti equosolidali:
la domanda di prodotti con una valenza etica da parte dei consumatori,
interessati a trovare i prodotti del CES all’interno dei supermercati e degli
ipermercati;
120 Transfair Italia (2007 - 2008), “Prodotti equosolidali nei discount: anche Dico propone referenze certificate Fairtrade”, articolo del 17/10/2007 e “Dico e Commercio Alternativo insieme per una nuova linea equosolidale”, articolo del 27/6/2008, inseriti nella sezione news del sito internet di Fairtrade - Transfair Italia (http://www.transfair.it/). 121 Alcuni esempi concreti di questo orientamento da parte delle imprese della GDO sono costituiti dalla presentazione annuale di un Bilancio Sociale (CSR report), l’adozione di codici di condotta etica, soprattutto legati alla correttezza nei rapporti con la forza lavoro, e l’offerta di prodotti riferiti alla sostenibilità sociale e ambientale a partire dall’inizio della filiera produttiva (Risso M. (2007), “Il ruolo del distributore…” cit., p. 125).
71
l’opportunità di differenziare la propria offerta di beni e servizi, aumentando la
propria competitività rispetto le imprese concorrenti e dando risposta a nuovi
segmenti di consumo: l’elevata concorrenza tra diverse forme distributive
(supermercato, ipermercato, discount…) e tra differenti insegne che operano
con la stessa forma distributiva all’interno di uno stesso bacino commerciale
spinge le imprese ad ampliare gli assortimenti per limitare un confronto
competitivo basato basicamente sul prezzo e salvaguardare così il livello del
margine di guadagno;
in termini di fatturato e margine, i prodotti equosolidali assicurano risultati
economici sia direttamente con la loro vendita che indirettamente attraverso la
creazione di un maggior traffico nel punto di vendita: è fuor di dubbio che la
logica di mercato con cui opera la GDO non possa che valutare l’inserimento
di questi prodotti secondo un’ottica economica e non di natura meramente
sociale (in caso contrario, si tratterebbe di un’atto di puro e semplice
“mecenatismo commerciale”122.
Le azioni strategiche messe in atto dai distributori sono andate oltre la partnership
con le centrali d’importazione del CES, arrivando a costituire delle filiere autonome, in
cui controllano e gestiscono non solo la distribuzione, ma anche i processi di
produzione e trasformazione dei beni con una valenza etica, distribuiti con il marchio
dell’insegna commerciale (private label), da includere nell’offerta di vendita per i propri
consumatori. Questo tipo di filiere sono state denominate imitative, perché intendono
imitare i passaggi di filiera del CES generalmente gestiti dalle centrali d’importazione,
senza però ricorrere alla loro mediazione, conservando comunque un legame con i
circuiti del CES sotto il profilo della certificazione.
Questo indica chiaramente che si è delineata una nuova interazione tra le imprese
commerciali dedicate alla distribuzione e gli intermediari del CES, basata
prevalentemente sui rapporti con gli organismi di certificazione: se prima la scelta di
interagire con il CES consisteva nel rivendere prodotti importati e confezionati dalle
centrali d’importazione, limitandosi a introdurre sui propri scaffali prodotti a più alto
contenuto etico-valoriale attraverso la filiera ibrida, ora i distributori optano anche per
l’inserimento nei propri assortimenti di linee di prodotti a marchio proprio certificati 122 Zanderighi L. (1997), “Offerta dei prodotti etici e grande distribuzione organizzata” in Amatucci F. (a cura di) Il commercio… cit., p. 95.
72
secondo i criteri dell’economia solidale dagli enti preposti a garantire il rispetto degli
stessi.
Se da un lato questa scelta della GDO dimostra una maggior sensibilizzazione alla
responsabilità sociale perché comporta investimenti più considerevoli, dall’altro lato
questa strategia permette di individuare filiere più brevi, in modo da poter lucrare
margini più alti e sviluppare politiche commerciali più adatte al proprio target di
mercato, riducendo il numero degli operatori nella catena di fornitura e facilitando la
propria predominanza.
Recentemente, alcuni distributori hanno deciso di svincolarsi dagli enti di
certificazione del CES, scegliendo il percorso dell’autocertificazione e puntando sulla
fiducia riservata dai clienti all’insegna commerciale. Questa direzione implica la
dissoluzione dei legami instaurati con il CES, per perseguire l’obiettivo di garantire un
rapporto qualità/prezzo più concorrenziale e di limitare lo sforzo di riconfigurazione
delle filiere.
In definitiva, si possono riconoscere scelte differenti di marketing, talvolta
complementari, da parte della GDO per quanto concerne l’offerta di prodotti a
contenuto etico123, a seconda del diverso posizionamento strategico dei distributori
rispetto alle tematiche di responsabilità sociale:
prodotti confezionati e diffusi dagli operatori del CES e rivenduti dalla
GDO (attraverso le filiere ibride);
prodotti a marchio del distributore certificati dagli enti di certificazione
(come FLO-CERT con il marchio Fairtrade), provenienti da filiere
direttamente gestite dall’impresa distributrice (le filiere imitative);
prodotti a marchio del distributore autocertificati;
prodotti etici a marchio industriale, che possono essere certificati o meno
dagli organismi di certificazione del CES.
123 Risso M. (2007), “Il ruolo del distributore…” cit., p. 131.
73
4.2.1 Le filiere imitative condotte dalle imprese della GDO
Negli ultimi anni, i grandi distributori sono riusciti a guadagnarsi un ruolo sempre
più predominante all’interno delle filiere prodotto, e la spiegazione di questo fenomeno
è duplice: da un lato, sono favoriti dal loro peso economico e dalla capacità di governare
i circuiti di fornitura, detenendo una leadership di canale considerevole, mentre dall’alto
lato la vicinanza al consumatore e la capacità di conoscere il mercato permette di
pianificare politiche di marketing efficaci, rispondendo alla richiesta di maggiore eticità
e responsabilità avanzata dai consumatori più critici. Questi due aspetti si sono
rafforzati reciprocamente e hanno portato le imprese distributrici più competitive,
soprattutto in contesti evoluti come il Regno Unito o altri paesi del Centro e Nord
Europa, a creare ex novo filiere produttive che imitano le filiere del CES, entrando in
diretto contatto con le organizzazioni di produttori dei PVS per l’importazione di una
limitata gamma di beni (solitamente ristretta a caffè, tè, banane, ossia le referenze CES
più conosciute), di fatto sostituendosi alle centrali d’importazione del CES.
Le filiere imitative sono costituite da catene di fornitura gestite dalle imprese della
GDO che, sulla scia di quelle del CES, garantiscono il contenuto etico dei loro prodotti
a partire dalla correttezza ed equità dei rapporti di scambio e dal rispetto del contesto
sociale e ambientale dei fornitori, coerentemente con la prospettiva economica
relazionale, che sottolinea la qualità della partnership, duratura e collaborativa, più che
la transazione commerciale come strumento di mercato124.
Queste filiere permettono all’impresa distributrice di gestire in autonomia l’offerta di
prodotti equi e solidali, ma necessita dell’intervento degli enti di certificazione del CES,
che garantiscono il rispetto dei valori etici che intendono veicolare. Per questo, le
imprese della GDO sono chiamate a sottoscrivere accordi per ottenere la licenza d’uso
del marchio di garanzia etica da applicare sui propri prodotti, realizzando così una
relazione diversa con gli intermediari del commercio equo, limitata all’organismo
certificatore. Il distributore che diviene licenziatario del marchio di garanzia deve
pagare le rispettive royalties all’ente di certificazione, che svolge la funzione di
controllo e garanzia anche a tutela dell’acquisto del consumatore.
124 Paganetto L. (2007), prefazione del volume di Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo… cit., p. 9.
74
I vantaggi conseguiti dall’impresa distributrice non si limitano ad instaurare rapporti
diretti con fornitori già accreditati dai canali CES (attraverso FLO International), ma
può riconvertire filiere di fornitura già esistenti in modo che possano ricevere la
certificazione.
Coerentemente con le strategia di crescita ed espansione della GDO, i distributori
sono in grado così di differenziare e rinnovare l’offerta, non limitandosi a interventi
sulla composizione degli assortimenti e sul rapporto qualità/prezzo dei prodotti, ma
ridefinendo direttamente le filiere produttive, incidendo anche sulla differenziazione e
innovazione dell’assortimento equo e solidale. Questo rappresenta il potere d’influenza
che possono raggiungere le imprese distributive, che conseguono in questo modo un
ampliamento delle proprie competenze: è qui che sorge il timore da parte di alcuni
operatori del CES per lo sfruttamento dei principi equosolidali messo in atto dalle
imprese di distribuzione di massa.
L’attenzione dei distributori commerciali ai prodotti equo e solidali è decisamente in
crescita, ed è dimostrato dalla messa a punto di politiche di marketing mirate a cogliere
le opportunità offerte dal CES:
la creazione di un’immagine positiva dell’impresa e di un capitale di
fiducia ispirata dall’equo e solidale presso i consumatori, che tendono a
identificare l’immagine dell’impresa con i contenuti valoriali dei prodotti;
l’arricchimento dell’offerta attraverso l’inserimento di prodotti ad alto
contenuto etico nella politica del marchio commerciale (solitamente il marchio
insegna);
il controllo della politica di prezzo interamente gestita dal distributore125,
coerentemente con il rispetto dei valori di equità dello scambio, con la quale si
tende ad armonizzare il prezzo finale a scaffale con quello della stessa categoria
merceologica, con la scelta diffusa da parte delle imprese della GDO di non
imporre margini di troppo superiori a quelli medi della categoria126;
125 A differenza delle filiere ibride, nelle quali il prezzo al consumo dei prodotti etici provenienti dai canali del CES commercializzati dalla GDO erano generalmente imposti dalle centrali d’importazione. 126 Risso riporta che “fra le imprese della distribuzione si sta comunque diffondendo una posizione per la quale il plus previsto per i prodotti fair non deve essere totalmente a carico dei consumatori e il margine sui prodotti fair non deve essere maggiore al margine medio di categoria” (in Risso M. (2007), “Il ruolo del distributore…” cit., p. 138).
75
l’adozione di tecniche di merchandising mirate a migliorare la visibilità e
le performance di vendita dei prodotti etici, con la tendenza a dedicare spazio
nelle rispettive categorie merceologiche per stimolare processi di comparazione
da parte dei clienti.
Attraverso queste politiche di marketing, le aziende della GDO cercano un
bilanciamento tra determinazione del prezzo, le strategie di comunicazione e la
definizione degli assortimenti per sfruttare, in un’ottica di lungo termine, le potenzialità
di diffusione dei prodotti a valenza etica, superando quell’immagine di “nicchia” che
riveste oggi.
4.2.2 Alcuni esempi di filiere imitative condotte dalle imprese della GDO
Non è possibile riconoscere un approccio unico da parte dei distributori nel proporre
un’offerta di prodotti a contenuto socialmente responsabile. A titolo esemplificativo, è
utile passare in rassegna alcuni casi emblematici, come le scelte messe in atto da Tesco
plc, la maggiore catena distributiva in termini di fatturato nel Regno Unito, la diretta
concorrente inglese Marks&Spencer, e il caso tutto italiano di Coop, il primo operatore
per fatturato della GDO in Italia con 1158 punti vendita su tutto il territorio nazionale, e
fra le prime 30 imprese distributrici in Europa127.
4.2.2.1 Il caso Tesco plc
La maggiore impresa del settore distributivo inglese è stata tra i precursori
dell’inserimento di prodotti a contenuto etico negli scaffali dei punti vendita dalle
grandi superfici. Se inizialmente si è avvalsa dell’offerta di prodotti realizzati da centrali
d’importazione attraverso filiere ibride, successivamente, in tempi molto brevi, Tesco
plc ha lanciato una linea di prodotti a marchio proprio costituendo proprie filiere
imitative e, dove possibile, ha convertito filiere preesistenti di prodotti provenienti dal
Sud del mondo ai principi dell’equo e solidale, ricevendo la licenza d’uso del marchio 127 Cfr. appendice 4.
76
britannico Fair Trade Foundation. Nei due anni successivi, l’impresa distributrice ha
ampliato l’offerta arrivando a proporre un assortimento di 90 referenze, includendo
anche prodotti equi innovativi, come rose, mango, avocado, agrumi e biscotti.
Nel solo 2005 le vendite di prodotti equosolidali della catena hanno conseguito un
incremento del 60 per cento, e da sola l’impresa della GDO ha rappresentato un terzo
della quota di mercato equo e solidale nel Regno Unito. Anche se la linea solidale a
marchio insegna non assume un ruolo centrale nella governance dell’impresa, continua
a rappresentare un aspetto importante della sua offerta che contraddistingue l’identità
dell’insegna128.
4.2.2.2 Il caso Marks&Spencer
Tra le insegne più amate delle catene di distribuzione inglesi, la società è nata
proponendo un assortimento di prodotti di abbigliamento in stile british a marchio
insegna e solo in seguito ha allargato l’offerta al settore alimentare. Ciò che
contraddistingue M&S è la presenza del marchio insegna nell’intero assortimento, e con
il tempo questa strategia ha favorito da parte dei clienti una percezione di completa
fiducia e identificazione tra prodotti e distributore. L’impresa ha sempre pianificato
campagne di comunicazione orientate al rispetto di principi etici condivisi a livello
internazionale in relazione al rispetto delle condizioni di lavoro, dei diritti umani e della
salvaguardia ambientale: in questo senso, M&S ha sempre dimostrato un impegno nel
riconoscere la propria responsabilità sociale d’impresa, ed è arrivata a costituire una
filiera imitativa che rispettasse tutti i criteri del CES come scelta conseguente, per
riconfermare l’immagine conquistata nel tempo dall’impresa e per offrire una gamma a
marchio proprio equosolidale, anche perché i consumatori inglesi tendono a ricercare
specificatamente i prodotti filiera contraddistinta dai valori del CES.
Forte del suo rapporto con il consumatore e del suo ruolo di leader di filiera,
l’impresa si è distinta in una prima fase nell’operare in piena autonomia rispetto ai
certificatori del CES, senza richiedere la licenza d’uso dei marchi di garanzia,
scegliendo di autocertificarsi con l’intento di evitare il maggiore costo dovuto alle
128 Risso M. (2007), “Il ruolo del distributore…” cit., p. 132.
77
royalties e di mantenere così un buon rapporto prezzo-qualità. In breve, l’impresa ha
dovuto rinunciare alla strada dell’autocertificazione, anche a causa della pressione
mediatica e delle associazioni inglesi di CES, arrivando a richiedere la licenza d’uso
all’ente certificatore Fair Trade Foundation.
L’assortimento equosolidale a marchio insegna include referenze alimentari come
caffè, tè e prodotti freschi come avocado, mango, ananas e banane, mentre per il settore
non-food si limita ad alcuni capi d’abbigliamento in cotone.
Una peculiarità che distingue ancora una volta l’insegna è la vendita di caffè equo:
non è disponibile sugli scaffali dei punti vendita, ma viene solo venduto nelle caffetterie
dei negozi, usate come strutture di servizio complementare alla superficie di vendita, per
cui si garantisce un caffè in tazza 100 per cento equo, assicurando il consumo di un
volume che raggiunge il 22 per cento di tutto il caffè consumato nel Regno Unito.
Questa scelta strategica è dovuta al fatto che il caffè venduto come prodotto in polvere
risulterebbe meno appetibile per via dei costi maggiori, e inoltre non garantirebbe quel
margine che l’impresa ricava dalla vendita del caffè in tazza, che inoltre rende più
agevole la destinazione di una quota più consistente dei ricavi per finanziare un
pagamento più alto per i produttori.
4.2.2.3 Il caso Coop Italia
Il primo gruppo della GDO italiana ad includere nelle politiche di marketing i
fondamenti della responsabilità sociale d’impresa è stata Coop, che alla fine del 1995 ha
costituito una prima filiera imitativa per l’inserimento di una miscela di caffè che
rispettasse i criteri equosolidali all’interno della gamma di caffè a marchio proprio. I
fornitori della materia prima erano piccoli produttori dei paesi del Centro America (in
particolare Messico, Guatemala e Nicaragua). In seguito, la catena distributiva ha
siglato contratti di acquisto (prezzi equi garantiti, prefinanziamenti agevolati, contratti
di lunga durata) per altri prodotti del settore alimentare, che arrivavano sugli scaffali dei
punti vendita nella linea a marchio d’insegna Per la solidarietà, certificata da Trasnfair
Italia.
78
Nel 1997 arriva a offrire, a fianco dei prodotti alimentari equi, anche prodotti non
alimentari importati dal Sud Est asiatico, sottoposti a un controllo e certificazione etica
da parte dell’ente certificatore italiano di CES.
Nel corso dell’anno successivo, Coop propone alla clientela il primo pallone di cuoio
da calcio equosolidale grazie all’accordo stipulato con la società Talon di Sialkot, in
Pakistan, con il quale si impegnava a garantire commesse continuative negli anni a patto
che l’impresa produttrice pakistana rispettasse i principi sanciti dall’Oil per quanto
riguarda le condizioni dei lavoratori, garantendo sicurezza e salubrità degli ambienti di
lavoro, e il divieto al ricorso di manodopera minorile.
Nel febbraio 2003 si inaugura la linea di prodotti equosolidali a marchio proprio con
il nuovo nome Solidal, certificata sempre da Transfair Italia, consolidando le filiere
stabilite con i produttori in partnership nei PVS: oggi include 61 referenze, tra prodotti
alimentari freschi e confezionati e prodotti non-food129. Negli ultimi anni sono entrate a
farne parte sia nuove referenze del comparto alimentare (riso, zucchero di canna, frutta
fresca come banane e ananas) che nel settore non alimentare, come per esempio una
linea d’abbigliamento che include camicie e polo in cotone biologico proveniente da
Africa (Camerun, Mali, Senegal, Burkina Faso), India, Nepal e Argentina, con progetti
promossi direttamente da Coop130 (alcuni dei progetti sono Tuscany Kerala Garment,
una fabbrica con più di 150 donne di Madaplathuruth, nell’India meridionale, la catena
tessile integrata creata in collaborazione con la fondazione umanitaria bioRe® India, a
cui aderiscono 5.000 agricoltori indiani dell’India centrale e infine il progetto pilota con
Ctm Altromercato per la produzione di T-shirt nelle fabbriche argentine occupate dai
dipendenti dopo la crisi economica del 2001-2002), alcuni dei quali senza però la
certificazione di Transfair Italia: in questo caso, si è adottata la strategia inedita
dell’autocertificazione, puntando sulla fiducia instaurata con la clientela che da più di
11 anni acquista i prodotti della linea etica gestita dall’impresa distributrice131. Un
progetto che rientra nel settore non-food è quello lanciato nel 2007 per l’importazione di
rose recise keniane certificate Fairtrade, che provengono da tre aziende della zona del
129 Coop Italia (2007), Bilancio dei prodotti a marchio Coop 2007. Tutti i nostri frutti, settore per settore. p. 39 http://www.e-coop.it/CoopRepository/COOP/CoopItalia/file/fil00000059310.pdf. 130 Ibid. pp. 43 – 44. 131 Risso M. (2007), “Il ruolo del distributore…” cit., p.135.
79
lago Naivasha, scelte sia per le tecniche colturali a basso impatto ambientale, che per il
rispetto degli standard SA 8000.
Tra il 2005 e il 2007, Coop ha registrato un raddoppio delle vendite di prodotti della
sua linea equosolidale nell’arco di due anni, con una crescita del fatturato da 10,7
milioni a 21 milioni di euro, dimostrando un’accoglienza eccezionale da parte dei
consumatori. Nei primi quattro mesi del 2007, solo per la linea d’abbigliamento solidale
si è registrato un aumento delle vendite del 120 per cento132. Stando a questi dati
numerici, è utile tenere in considerazione che il giro d’affari generato dalla vendita dei
prodotti Solidal Coop incide solo per circa lo 0,5 per cento sul totale dei prodotti a
marchio insegna133. Per completare il quadro delle strategie adottate da Coop nel campo
della responsabilità sociale d’impresa, è da segnalare anche la vendita di vino e altre
referenze prodotte dalla cooperativa Libera Terra, che gestisce coltivazioni nel Sud
Italia in terreni confiscati alla mafia.
0
5
10
15
20
25
1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007
vendite in milioni di euro
Grafico 1.
Andamento delle vendite dei prodotti delle linee Per la Solidarietà e Solidal Coop
Fonte: Coop Italia (2007), Bilancio dei prodotti a marchio Coop 2007. Tutti i nostri frutti, settore per settore. p. 26 http://www.e-coop.it/CoopRepository/COOP/CoopItalia/file/fil00000059310.pdf
132 Amato R. (2007), “Dall’Africa al Sud America la catena della solidarietà”, Repubblica Affari&Finanza del 18/6/2007. 133 Didero L. (2006), “Un business dal Sud del mondo”, Largo Consumo, fascicolo 7/2006.
80
4.3 Le interazioni tra CES e GDO: il contesto italiano
Il variegato panorama della grande distribuzione italiana ha iniziato a proporre
un’offerta di prodotti con una valenza etica negli assortimenti dei generi alimentari solo
nell’ultimo decennio, dimostrando un certo ritardo rispetto alle scelte effettuate dalle
imprese che operano nello stesso settore in altri paesi europei.
È da sottolineare inoltre un altro aspetto che contraddistingue il settore italiano della
GDO rispetto a quello europeo, per cui la collaborazione tra imprese commerciali e
operatori del CES non si è consolidata a partire da partenariati per la costituzione di
filiere ibride ma si è da subito stabilito il modello della filiera imitativa, con la creazione
nel 1995 della prima linea a marchio insegna da parte di Coop Italia. Sin dalla creazione
del marchio di garanzia Transfair Italia, Coop ha sempre ottenuto la licenza d’uso
dell’ente di certificazione italiano.
Il colosso francese Carrefour, prima impresa distributrice in Europa per fatturato134,
si decide a inserire in 300 punti vendita del territorio italiano i prodotti equosolidali del
marchio Mondovero (caffè, tè, cacao, cioccolata, miele) solo a partire dal 2001: si tratta
della costituzione di una filiera ibrida peculiare, perché non prevede la classica
interazione con una centrale d’importazione di commercio equo, ma al suo posto vi è un
consorzio di tre aziende tradizionali di trasformazione italiane (Pompadur, Conapi e
Coind) che, dal 1998, decidono di creare un marchio di prodotti a valenza etica
importando materie prime da circa 300 organizzazioni di produttori dei PVS, per potersi
distinguere sul mercato della trasformazione come aziende attente a sviluppare canali
produttivi ad alta responsabilità sociale. Dal 2005, il marchio Mondovero viene
sostituito da quello di Alce Nero, in seguito alla partenrship con il gruppo Alce Nero &
Mielizia135.
La stessa scelta iniziale di Carrefour viene adottata anche dalle imprese della grande
distribuzione italiane Pam e Conad (oggi seconda a Coop Italia per fatturato, dopo le
134 Cfr. appendice 4. 135 Cfr. paragrafo 4.4.3.
81
alleanze con Interdis e la catena francese E. Leclerc), che dal marzo 2001 ampliano
l’assortimento dei prodotti alimentari con le referenze di Mondovero136.
A partire dal 2003, nei punti vendita Conad la gamma di prodotti equi si è ampliata, e
attualmente è costituita da 58 referenze a marchio proprio, tra cui alcuni prodotti
ortofrutticoli, come gli ananas importati dalla cooperativa Ghanacoop137, guidata dalla
comunità di ghanesi (circa 3000 persone) di Modena che mira a incentivare l’economia
e lo sviluppo del proprio paese d’origine con diverse iniziative, tra cui la
commercializzazione di prodotti equosolidali freschi. È in cantiere il progetto di
costituire un’azienda agricola in Ghana chiamata “Migrants for Ghan-Africa”, per la
coltivazione di mais, pomodori e altri prodotti freschi. Al lato della
commercializzazione di prodotti etici, il gruppo Conad è molto impegnato anche nel
finanziamento di progetti assistenziali nel campo sanitario per migliorare le condizioni
di vita nei PVS.
Nel marzo del 2002, dopo una fase di monitoraggio dell’andamento delle vendite
delle referenze equosolidali, Carrefour diffonde i prodotti a marchio Mondovero anche
nei punti vendita di sua proprietà a insegna GS e Di per Di: l’inserimento prevede il
posizionamento dei prodotti Mondovero in specifici espositori visibili all’intero dei
punti vendita.
Con questa ulteriore diffusione, i prodotti equosolidali arrivano ad essere
raggiungibili complessivamente in 3.500 punti vendita della grande distribuzione138.
Nel febbraio 2002 un altro importante operatore della grande distribuzione decide di
inserire prodotti equosolidali nei propri punti vendita: Esselunga stabilisce una filiera
ibrida con Ctm Altromercato, rivendendo sia i suoi prodotti in appositi spazi visibili nel
136 Transfair Italia (2001), “Pam e Conad inseriscono i prodotti Mondovero garantiti TransFair Italia”, articolo del 13/03/2001, consultabile alla sezione news di www.transfair.it (http://www.transfair.it/site/news/010313.html). 137 Conad (2008), “L’ananas più buona si chiama Ghanacoop”, articolo del 17/03/2006 e “In Ghana una rete sanitaria grazie alla solidarietà”, articolo del 18/04/2008, consultabile alla sezione news di www.conad.it. 138 Transfair Italia (2002), “Con Carrefour altri mille punti vendita per i prodotti garantiti da TransFair”, articolo del 29/03/2002, consultabile alla sezione news di www.transfair.it (http://www.transfair.it/site/news/020329.html).
82
reparto alimentare, che ampliando la linea a proprio marchio biologico con materie
prime fornite dalla centrale d’importazione italiana139.
Nel marzo del 2002 i prodotti Mondovero biologici vengono adotatti da NaturaSì,
l’impresa distributrice italiana nata nel 1992 che si distingue per la vendita di prodotti
biologici attraverso catene di supermercati e superttes, sparse nel Nord e Centro Italia.
A distanza di più di un anno, nel novembre 2003, la catena NaturaSì istituisce filiere
imitative con la creazione del marchio insegna I prodotti della natura, certificati
Fairtrade – Transfair Italia, che garantiscono allo stesso tempo il rispetto dei criteri del
CES e metodi di produzione sostenibili perché biologici140.
Sul modello della linea Solidal di Coop Italia e della gamma equosolidale a marchio
insegna di Conad, nel novembre 2006 Crai lancia la sua gamma equosolidale a marchio
proprio in tutti i punti vendita della catena, con tre referenze che si affiancano all’offerta
convenzionale a marchio insegna, e altre tre che ampliano l’assortimento dei prodotti
private label, tutte e sei certificate da Fairtrade – Transfair Italia141.
Anche la grande multinazionale francese Auchan, con 49 ipermercati in Italia,
intraprende la stessa direzione, con una linea equosolidale a marchio proprio certificata
Fairtrade, che include 9 referenze142.
Nell’ottobre 2007, i prodotti equosolidali arrivano anche nei discount italiani: la
catena tedesca Lidl inaugura nei suoi 45 punti vendita italiani una linea a marchio
proprio chiamata Fairglobe che si basa sui criteri del CES, e comprende 7 referenze
alimentari143. Nello stesso periodo, i discount Dico di proprietà Coop Italia, stabiliscono
una filiera ibrida con la centrale d’importazione di Ferrara Commercio Alternativo.
139 Esselunga (2002), “Esselunga e Ctm Altromercato insieme”, comunicato stampa del 20/02/2002, consultabile nell’area stampa del sito www.esselunga.it (http://www.esselunga.it/default.aspx?idPage=570). 140 Transfair Italia (2003), “NaturaSì inaugura la nuova linea private label dedicata al commercio equo e solidale e garantita dal marchio TransFair”, articolo del 4/11/2003 consultabile alla sezione news di www.transfair.it (http://www.transfair.it/site/news/031106.html). 141 Crai (2006), “Crai presenta la linea equosolidale”, comunicato stampa del 12/09/2006, consultabile nell’area stampa del sito www.crai-supermercati.it (http://www.crai-supermercati.it/sala_stampa/comunicati/2006/Linea-Equo-Solidale_06.pdf). 142 http://www.auchan.it/Prodotti/ProdottiAuchan/LineeSpeciali/Pagine/Prodotti_Equosolidali.aspx 143 Transfair Italia (2007), “Io faccio la spesa giusta: Lidl lancia la nuova linea equosolidale Fairglobe”, articolo del 11/10/2007, consultabile alla sezione news di www.transfair.it (http://www.transfair.it/site/news/071011.html).
83
In sintesi, la strategia maggiormente adottata dalle società italiane e straniere che
operano nella GD italiana prevede la creazione di filiere imitative per la vendita di
prodotti etici a marchio proprio certificati dall’organismo Fairtrade - TransFair Italia,
come indicato nella tabella 2.
La stragrande maggioranza delle imprese distributrici ha scelto di ampliare
l’assortimento dei propri prodotti scegliendo referenze equosolidali appartenenti
esclusivamente al reparto alimentare (ad esclusione della linea d’abbigliamento e i
palloni da calcio Solidal di Coop Italia) senza la mediazione di centrali d’importazione
(a parte il caso Esselunga e Dico), creando linee prodotto a marchio proprio o
rivendendo prodotti di aziende che hanno convertito alcune filiere produttive al CES.
Oltre all’esigenza di diversificare le fonti di approvvigionamento e di non sottostare al
potere di mercato delle ATOs, le imprese della GDO hanno scelto di creare filiere
imitative autonome con l’obiettivo di sottrarsi alle politiche commerciali delle ATOs,
considerate anticompetitive e inaccettabili: un esempio di questo è il prezzo di vendita
imposto da parte della centrale d’importazione.
84
insegna impresa GDO anno
politica adottata per l’inserimento di prodotti
equosolidali certificazione
fine 1995
filiera imitativa per prodotti a
marchio proprio Per la Solidarietà, denominta nel 2003 Solidal; oggi
costituita da 61 prodotti alimentari e non, includendo abbigliamento e
palloni da calcio
Fairtrade - TransFair Italia
su quasi tutte le referenze della
linea Solidal
COOP
2007/2008
filiera ibrida per
commercializzazione in 236 punti vendita della catena di discount
Dico di prodotti della ATO italiana Commercio Alternativo, con la
quale ha creato il marchio Equosolidale
Fairtrade - TransFair Italia
2001
commercializzazione in circa
300 punti vendita di prodotti equosolidali del marchio Mondovero/Alce Nero
Fairtrade - TransFair Italia
CARREFOUR
marzo 2002
commercializzazione nei punti
vendita GS e Di per Di dei prodotti del marchio Mondovero/Alce Nero
Fairtrade - TransFair Italia
PAM marzo 2001
commercializzazione prodotti
del marchio Mondovero/Alce Nero in tutti i punti vendita Pam e
Panorama
Fairtrade - TransFair Italia
marzo 2001
commercializzazione prodotti
del marchio Mondovero/Alce Nero in tutti i punti vendita
Fairtrade - TransFair Italia
CONAD
2003
filiera imitativa per prodotti
ortofrutticoli e non a marchio proprio composta da 58 referenze
Fairtrade - Trans Fair Italia
ESSELUNGA febbraio 2002
filiera ibrida per
commercializzazione prodotti Ctm Altromercato e ampliamento linea Esselunga Bio con materie prime
fornite da Ctm Altromercato
autocertificata
NATURASÍ marzo 2002
commercializzazione in 25 punti vendita di prodotti Mondovero Bio
Fairtrade - TransFair Italia
85
novembre 2003
creazione di una filiera imitativa con il marchio I prodotti della
natura
Fairtrade - TransFair Italia
CRAI novembre 2006
filiera imitativa per i prodotti a
marchio proprio Buono in tutti i sensi per una gamma di 6 referenze
Fairtrade - TransFair Italia
ottobre 2007
filiera imitativa per i prodotti a
marchio proprio in 49 ipermercati
Fairtrade - Trans Fair Italia
AUCHAN
2007
commercializzazione prodotti
equi a marchio proprio nei circa 200 punti vendita Sma, Cityper e Simply
Fairtrade - Trans Fair Italia
LIDL ottobre 2007
filiera imitativa per i prodotti a
marchio Fairglobe per una gamma di 7 referenze in 450 supermercati
discount
Fairtrade - TransFair Italia
Tabella 5. Schema riassuntivo delle politiche di inserimento dei prodotti CES
Fonte: propria elaborazione
86
4.4 La responsabilità sociale delle imprese industriali: nuovi prodotti etici
La diffusione di criteri e pratiche uscite dai circuiti del commercio alternativo, della
finanza etica e del consumo critico si stanno riproducendo all’interno di filiere
governate da soggetti tradizionali e rivolte a un più ampio mercato. Si tratta di processi
di imitazione basati sullo sviluppo di filiere Sud-Nord ispirate ai valori di sostenibilità,
ma che il più delle volte non hanno collegamenti diretti con le filiere del CES: queste
strategie rientrano nella logica della responsabilità sociale d’impresa, con la quale le
società tradizionali si fanno carico dell’impatto economico, sociale e ambientale delle
proprie attività.
Si sono dunque costituite catene di fornitura che, sulla scia di quelle del CES
(attraverso la certificazione, o la sola imitazione) garantiscono il contenuto etico dei
loro prodotti, a partire dalla correttezza ed equità dei rapporti di scambio e dal rispetto
del contesto sociale e ambientale, coerentemente con la prospettiva economica
relazionale, che sottolinea l’aspetto relazionale più che quello di mercato144.
4.4.1 Le filiere imitative condotte dalle imprese industriali
L’iniziativa parte dalle imprese industriali del mercato tradizionale, come le
multinazionali, alla ricerca di nuovi canali di fornitura più convenienti, che permettono
di eliminare fasi intermedie e di integrare uno o più di quei valori extra-economici
(soprattutto, rispetto dell’ambiente e diritti dei lavoratori) che hanno la capacità di
rinnovare l’immagine dell’impresa e soddisfare le esigenze di consumo dei gruppi di
consumatori più responsabili e critici. Questi canali di fornitura più convenienti non
sono altro che filiere imitative, simili a quelle condotte dalle imprese della grande
distribuzione ma gestite direttamente o da grandi e medie imprese di trasformazione,
come le multinazionali, o da piccolo-medie società in terzismo con i marchi privati della
GDO.
Entrambi i soggetti possono avvalersi o meno di un ente certificatore del CES per
garantire il rispetto e l’attenzione ai valori etici, e quando questo avviene, costituisce 144 Paganetto L. (2007), prefazione del volume di Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo… cit., p. 9.
87
l’unico contatto che si instaura con la sfera del CES: generalmente, il conseguimento del
marchio di garanzia è un obiettivo che si pongono tutte quelle imprese industriali che
sono interessate ad arricchire la propria gamma con una o più linee di prodotti solidali. I
vantaggi che comporta il marchio di garanzia sono considerevoli: per differenziarsi
dalla concorrenza e conquistare un’immagine rinnovata.
Figura 10. Schema filiera imitativa
Fonte: Pepe C. (2007), “Filiere tradizionali e filiere alternative nel commercio dei prodotti dal Sud del mondo” in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo e mercati avanzati,
Milano: Franco Angeli, p. 30.
La filiera imitativa condotta da soggetti tradizionali dell’economia di mercato
prevede il contatto diretto tra imprese industriali e i produttori dei PVS accreditati da
FLO. Si può constatare una considerevole differenza tra gli attori delle filiere imitative
perché rappresentano processi di integrazione asimmetrica, all’interno dei quali i
soggetti non possiedono un peso economico e contrattuale identico, anche se però
bisogna sottolineare che responsabilità e obbiettivi condivisi possono contribuire al
raggiungimento di un equilibrio delle forze in campo, e innescare anche un processo di
emancipazione dei soggetti meno evoluti, che acquisiscono una capacità di
contrattazione.
88
4.4.2 Alcuni esempi di filiere imitative condotte dalle imprese industriali
Questo tipo di filiere imitative si basa sulla trasformazione distribuzione di beni
alimentari a largo consumo e con una ampia diffusione nei paesi occidentali, come il
caffè.
Un esempio particolarmente lampante e allo stesso tempo contraddittorio, che ha
suscitato critiche da parte di alcuni operatori CES, è il caffè Aroma proposto dall’aprile
2003 dai 140 negozi fast food di McDonald’s in Svizzera145, e in 600 statunitensi146,
certificato Max Havelaar. Nello stesso anno, un’altra catena di caffetterie e fast food
statunitense, Dunkin Donuts, ha iniziato a vedere espresso equo e solidale in tazza. In
seguito, la concorrente Sturbucks ha fatto inserire il marchio Fairtrade nei propri menu,
ma è riferito solo a una tipologia di caffè su un totale di 40 proposte. Nestlè si è
adeguata a questa tendenza nel 2005, con il lancio del primo caffè istantaneo
equosolidale distribuito dalla GDO. Alcuni annunciano che Wal Mart, il più grande
rivenditore al dettaglio nel mondo per fatturato, sembra intenda inserire un caffè equo
nei propri assortimenti.
Nel mercato italiano, Lavazza, Caffè Corsini e Illy hanno adottato strategie simili
alle grandi multinazionali del caffè, aggiudicandosi l’appellativo di imprese equo-
convertite.
Questi risultati si devono anche all’azione di sensibilizzazione condotta direttamente
da Transfair Italia: “grazie alla politica di informazione e comunicazione portata avanti
nel 1996, si è riusciti ad allargare la base dei licenziatari del marchio per quanto
riguarda il prodotto caffè, con l’arrivo sul mercato anche di aziende for-profit,
interessate alla riconversione di almeno una parte dei loro prodotti, e si è delineata la
possibilità di licenziare ulteriori prodotti, quali tè, cacao, zucchero”147.
145 Montagut X. (2004), “Commercio equo in McDonald’s?”, Xarxa de Consum Solidari, Barcellona, riportato in documento della cooperativa Libero Mondo, Dove va il commercio equo e solidale? Grande distribuzione e Botteghe del Mondo, supplemento di Tempi di fraternità, n. 8/2004, ottobre, p.10, consultabile nella sezione Documenti in http://www.liberomondo.it/. 146 Jacomella G. (2006), “Caffè corretto al supermercato? Il mondo equo-solidale si divide”, Corriere della Sera, 31/10/2006. 147 Pastore P. (1997), “Marchi etici e di garanzia del Fair Trade: alla ricerca di nuovi canali distributivi” in Amatucci F. (a cura di), Il commercio…cit., p. 102.
89
4.4.2.1 Il caso del marchio Mondovero/Alce Nero
La creazione del marchio Mondovero è degna di nota perché costituisce uno dei
pochi casi italiani di grande impegno da parte di imprese industriali di trasformazione
verso la responsabilità sociale: gli investimenti messi in atto per la creazione di questo
marchio hanno comportato la creazione di filiere imitative che si affiancano a quelle
convenzionali della produzione commerciale. Questo significa che, al lato dei loro
prodotti a proprio marchio, con una forte prevalenza del biologico, queste aziende
propongono referenze che rispettano i criteri dell’economia solidale con una linea a
marchio diversificato. Inoltre, è da aggiungere che gli sforzi di queste imprese per
metodi di produzione socialmente responsabili è dimostrato anche dal fatto che
aderiscono tutte allo standard SA 8000 di certificazione del rispetto dei diritti dei
lavoratori.
Il gruppo di aziende148 di trasformazione che dà vita nel 1998 a questo marchio
attraverso un partenariato molto originale è costituito da Co.N.Api, il Consorzio
Apicoltori e Agricoltori Biologici Italiani per la lavorazione del miele dal 1978 (socia
del consorzio Fairtrade – Transfair Italia), da Pompadour, azienda con sede a Bolzano
che lavora il tè e infusi, e da Co.Ind scarl, azienda del bolognese che dal 1961 è
impegnata nella torrefazione di caffè, specialista nei prodotti a marca commerciale. Con
l’acquisto di materie prime provenienti da circa 300 organizzazioni di contadini e
produttori iscritte al registro di FLO International, il consorzio interaziendale italiano
offre uno sbocco di vendita ai produttori del Sud del mondo, instaurando con loro
rapporti diretti e pagamenti che consentano un miglioramento delle condizioni delle
proprie realtà produttive ed esistenziali, e comportandosi quindi come le centrali
d’importazione del CES. Una delle maggiori cooperative di produttori con cui
collaborano è Sin Fronteras che, dal 2004, raccoglie 20 soci produttori di diversi PVS, a
loro volta associati in organizzazioni nazionali in Guatemala, Costa Rica, Nicaragua, El
Salvador, Panama, Perù, Brasile, Argentina.
Con il marchio Mondovero si commercializzano prodotti equosolidali (caffè, tè nero
e verde, miele, cacao, zucchero e cioccolato) certificati FairTrade - Trasfair Italia
148 Transfair Italia (2001), “Pam e Conad inseriscono i prodotti Mondovero garantiti TransFair Italia”, articolo del 13/03/2001, consultabile alla sezione news di www.transfair.it (http://www.transfair.it/site/news/010313.html).
90
distribuiti prevalentemente nella GDO, grazie agli accordi siglati con le catene dei punti
vendita di Carrefour (GS e Dì per Dì), Pam, Conad, NaturaSì, insieme a punti vendita
specializzati. Il fatturato del marchio raggiunge in pochi anni 1 milione di euro,
incassato per il 90 per cento dalla vendita con la GDO, e per il 10 per cento tramite il
dettaglio specializzato149.
Nel 2005 avviene il passaggio al marchio Alce Nero, in seguito anche alla
partnership con il gruppo Alce Nero & Mielizia150, con il quale si intende proporre
un’offerta di prodotti dalla doppia valenza, equosolidale e biologico: questo
cambiamento è dovuto al fatto che tutte le produzioni provenienti dalle organizzazioni
di produttori dislocate nei diversi PVS vengono certificate come biologiche, e per
questo si decide di dare maggiore visibilità a questa tipologia produttiva e commerciale
con un nuovo marchio. Alce Nero sostituisce gradualmente Mondovero, ma continua la
sua larga diffusione nella grande distribuzione con la certificazione Fairtrade con 12
referenze bioequosolidali (caffè, tè nero e verde, miele, cacao, zucchero, cioccolato,
frollini, snacks, succhi di frutta e riso), a cui affianca una linea biologica di provenienza
solo italiana.
4.5 Sostenitori e detrattori delle contaminazioni con il mercato tradizionale: le
criticità e le potenzialità delle interazioni
I fenomeni di interazione del CES con i soggetti che oggi predominano l’economia di
mercato hanno determinato una spaccatura di vedute e prese di posizioni contrapposte
tra gli attori che lavorano nell’economia solidale: basta prendere in considerazione le
scelte operative intraprese da alcune centrali d’importazione italiane. Se da un lato le
due maggiori ATOs nazionali, Ctm Altromercato e Commercio Alternativo, hanno
stabilito accordi commerciali con la GDO, dall’altro lato sono state espresse perplessità
nei confronti di questa strategia di distribuzione, come ha fatto la centrale 149 Didero L. (2006), “Un business dal Sud del mondo”, Largo Consumo, fascicolo 7/2006. 150 Impresa di api e agri coltori che gestiscono tutti i processi di produzione, dalla coltivazione, alla trasformazione e la distribuzione, di prodotti alimentari biologici in 14 paesi; i principali soci sono le cooperative Conapi (socio fondatore), Consorzio Libera Terra, Finoliva, La Cesenate, Oriza e Sin Fronteras (www.alcenero.it).
91
d’importazione Libero Mondo con un documento151 in cui prende le distanze dai canali
distributivi convenzionali e dalle aziende tradizionali che hanno convertito una o alcune
delle proprie filiere al rispetto dei criteri equosolidali: si puntualizza che questa non è
altro che una strategia di ethical trade, che ben si distingue dal fair trade, che implica
invece una conversione di tutta l’attività produttiva e distributiva, e non solo per alcuni
dei suoi prodotti.
Nella schiera dei sostenitori dell’allargamento dei canali distributivi per i prodotti
equosolidali si sono fatti sentire accademici e specialisti del settore economico, che
considerano la GDO come l’unico canale che in prospettiva può consentire volumi di
vendita apprezzabili e una crescita sicura.
Già nel 1997, Zanderighi segnalava che “è infatti lo sviluppo di una relazione
commerciale con la grande distribuzione organizzata che consente ai prodotti del CES
di uscire da una dimensione di mercato legata solo ai punti vendita tradizionali”152.
Un contributo più recente a sostegno dell’entrata della GDO nelle filiere dell’equo è
contenuto nell’indagine nazionale pubblicata nel 2006 da Barbetta153, nella quale
puntualizza alcune criticità del canale distributivo del CES costituito dalle BdM:
dall’analisi condotta nel documento del Centro di Ricerche sulla Cooperazione e sul
Non-profit dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, emerge il fatto che le
BdM sono per la maggior parte sottodimensionate, con una modesta redditività e
dimensioni patrimoniali ridotte che non consentono processi di espansione,
condannando questi punti vendita specializzati a un ruolo marginale e residuale nel
contesto locale della distribuzione commerciale in cui si inseriscono. Tutto questo
penalizza la funzione culturale che perseguono attraverso la sensibilizzazione alle
tematiche del CES e allo sviluppo dei paesi più arretrati; più in generale, la limitatezza
di questi punti vendita costituisce un ostacolo alla diffusione del CES in Italia, e di
conseguenza si riducono anche i possibili benefici dei produttori, rischiando di non
soddisfare quella domanda potenziale di prodotti etici, segnalata dalle recenti indagini di 151 Libero Mondo (2004), Dove va il commercio equo e solidale? Grande distribuzione e Botteghe del Mondo, supplemento di Tempi di fraternità, n. 8/2004, ottobre, consultabile nella sezione Documenti in http://www.liberomondo.it/. 152 Zanderighi L. (1997), “Offerta dei prodotti etici e grande distribuzione organizzata”, in Amatucci F. (a cura di), Il commercio… cit., p. 94. 153 Barbetta G. P. (2006), “Il commercio equo e solidale in Italia”, Università Cattolica del Sacro Cuore, Centro di ricerche sulla cooperazione e il non profit, Working paper n.3, Milano.
92
mercato. Per trovare una soluzione concreta, Barbetta punta l’attenzione sul
miglioramento della rete distributiva, riconoscendo una compatibilità tra i punti vendita
specializzati, come le BdM, e quelli della GDO: la vocazione per una funzione
culturale, testimoniata anche dalla natura giuridica delle Botteghe (per larga
maggioranza sono associazioni, forma giuridica inadatta allo svolgimento di attività
economiche significative), insieme alle iniziative di sensibilizzazione (fiere, mercatini
stagionali, presentazioni pubbliche, brevi corsi di formazione…) e la specializzazione
nella vendita di prodotti alternativi da quelli tradizionali, puntando sull’esotismo
dell’offerta d’arredamento e artigianato, possono costituire i punti forza che le
distinguono dalla grande distribuzione, che invece concentra l’assortimento di prodotti
equosolidali con referenze alimentari a largo consumo (caffè, zucchero, tè, cacao,
biscotti…), più vicini a quelli italiani, dando una maggiore visibilità e accessibilità ai
prodotti dell’economia solidale e consentendo anche l’affermarsi di una pratica
comparativa e quindi di un consumo più consapevole e critico.
Alcuni specialisti e operatori del settore equo hanno mostrato una maggiore cautela
nel concepire l’interazione tra CES e GDO, e hanno voluto richiamare l’attenzione
soprattutto sulle conseguenze del coinvolgimento delle grandi aziende commerciali
nella sfera del CES, per via dei cambiamenti che implica nelle strutture produttive e
distributive: i fenomeni di contaminazione con il mercato tradizionale possono
rappresentare uno stimolo considerevole alla crescita dell’economia solidale per il forte
potere di contagio dei suoi principi (vedi conversione delle filiere prodotto ai criteri
CES da parte di alcune multinazionali) ma non bisogna distogliere l’attenzione
dall’obiettivo primario del commercio equo, ossia agire nell’interesse dei produttori per
il loro sviluppo economico e sociale. Per questo, alcuni hanno sollevato interrogativi
sulle ripercussioni generate dall’ottimizzazione delle filiere sia dal punto di vista della
quantità sia dell’efficienza dei processi di produzione, temendo delle forzature nei
confronti dei piccoli produttori spinti a produrre di più per soddisfare l’aumento di
domanda implicita nella crescita del CES. L’impatto dell’entrata della grande
distribuzione sulla struttura attuale del CES (filiere ibride) e la sua possibile interazione
diretta coi produttori (filiere imitative) potrà incidere sulle quantità necessarie per
sostenere gli approvvigionamenti e gli ordini, sui tempi necessari alla produzione e gli
standard dei prodotti che da un lato possono determinare una crescita qualitativa delle
capacità produttive dei gruppi di produttori, ma dall’altro lato instillare una politica
93
commerciale basata sui principi di produttività e efficienza che non sempre si sposa con
le qualità intrinseche del progetto di sviluppo alla base delle relazioni di scambio del
CES, o con gli obiettivi per i quali è stato immaginato e reso concreto154.
Al lato delle riflessioni relative all’espansione dei canali distributivi del CES, un
altro tema che ha suscitato vedute diverse è quello della certificazione, dal momento che
non vi è concordanza tra gli operatori italiani del CES su alcuni aspetti del processo di
certificazione condotti da parte di FLO, Fairtrade Labelling Organizations, per il rilascio
del marchio di garanzia Fairtrade, ragione per cui i prodotti delle ATOs storiche
italiane, come Ctm Altromercato, non fanno uso di questo marchio di garanzia e non
sono socie dell’organismo internazionale.
A livello europeo, divisioni simili si sono avute in seguito a un caso che ha suscitato
non poco clamore, non solo nella sfera del CES: si tratta della certificazione conferita
dall’organismo del marchio di garanzia inglese Fair Trade Foundation a una tipologia di
caffè istantaneo della multinazionale svizzera Nestlè nell’ottobre 2005155.
Concretamente, sugli scaffali dei supermercati britannici Tesco e Sainsbury’s oggi è
possibile trovare la miscela di caffè della Partners Blend – Nescafè con il marchio di
garanzia Fairtrade. Mettendo da parte la campagna di boicottaggio a cui è sottoposta
Nestlè per le continue violazioni del codice di condotta dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità per la produzione di latte in polvere, e le numerose denunce provenienti da
alcuni sindacati e movimenti sociali sulle condizioni di lavoro nelle filiere produttive
che riforniscono la multinazionale, il rilascio della certificazione solidale a un soggetto
commerciale totalmente estraneo e lontano alla realtà del CES ha aperto un dibattito,
tutt’oggi in corso. Gli operatori che vi hanno preso parte non si sono limitati ad
analizzare le ripercussioni che può avere l’entrata nella realtà del CES di un’impresa
transnazionale universalmente nota per il totale disinteresse a pratiche di responsabilità
sociale, ma si sono concentrati sulle procedure per il rilascio del marchio di garanzia a
società tradizionali: alcuni ritengono sufficiente limitarsi a controllare solo le filiere dei
prodotti per cui un’impresa industriale richiede la certificazione, altri riconoscono la
necessità di investigare tutte le filiere produttive dell’impresa che intende allargare la
154 Zoratti A. (2007), “Il commercio equo e solidale oltre la crisi di crescita. Prospettive future di un fenomeno in espanzione”, in Pepe C. (a cura di) Prodotti dal Sud del mondo… cit., p. 162. 155 BBC News (2005), “Nestlè launches fair trade coffe”, 7/10/2005, http://news.bbc.co.uk/go/pr/fr/-/1/hi/business/4318882.stm
94
propria gamma di prodotti con referenze equosolidali (tramite una o più filiere
imitative). In quest’ultima ipotesi, si ritiene corretto rilasciare la licenza d’uso del
marchio solo se l’impresa mantiene un comportamento etico in tutte le sue fasi
produttive e di trasformazione, e non solo nella filiera prodotto della referenza che
intende vendere come equa e solidale. In questo senso, è stata avanzata una proposta156
sottoscritta da Agices, Transfair Italia e Ctm Altromercato, per cui si ritiene
inappropriato decidere a priori sul rilascio della licenza d’uso del marchio di garanzia a
un’impresa industriale, ma si può concedere a fronte di un impegno da parte
dell’azienda di aumentare le relazioni con produttori dei PVS per una conversione
graduale delle sue filiere produttive ai criteri del CES, assumendo criteri di
responsabilità sociale per la sua intera attività.
Dalla sfera del CES, vi sono spesso forti dubbi e perplessità nei confronti delle
imprese commerciali che oggi dominano gli scambi: nel momento in cui si vedono
chiamate a scegliere tra i produttori più svantaggiati dal mercato tradizionale per
instaurare partnership commerciali, non si è certi che terranno conto più dei progetti di
alto valore sociale e ambientale rispetto alla loro efficienza e produttività.
Ma d’altro canto è sorprendente constatare che alcune grandi imprese transnazionali
hanno affiancato alle proprie politiche commerciali alcune strategie di diversificazione
dalla concorrenza orientate all’offerta di prodotti etici: fino a pochi anni fa, era
inconcepibile aspettarsi l’adozione dei principi basici della responsabilità sociale da
parte delle maggiori multinazionali che operano a livello mondiale, così come sarebbe
stato difficile vedere prodotti equosolidali in un supermercato.
Si tratta di cambiamenti molto incoraggianti, anche se per il momento modesti e
limitati ad alcuni esempi, ma che suscitano una speranza verso un progressivo
cambiamento delle regole produttive e commerciali che caratterizzano il modello
economico prevalente.
156 Jacomella G. (2006), “Caffè corretto al supermercato? Il mondo equo-solidale si divide”, Corriere della Sera, 31/10/2006.
95
96
Appendice 1. La carta italiana dei criteri del commercio equo e solidale (Agices, 1999)
PREAMBOLO La Carta Italiana dei Criteri del Commercio Equo e Solidale è il documento che definisce i valori e i
princìpi condivisi da tutte le organizzazioni di Commercio Equo e Solidale italiane. La Carta viene approvata nel 1999, ed è l’inizio di un percorso di confronto a livello nazionale tra le
organizzazioni di Commercio Equo e Solidale che negli anni si è andato sviluppando e approfondendo, fino a cogliere limiti e contraddizioni, frutti di un percorso molto partecipato, ma anche articolato, a volte contraddittorio. Da questo lungo confronto è emersa forte l’esigenza di una rivisitazione della Carta per adeguarla alla realtà di un Commercio Equo e Solidale che guarda al futuro, che costruisce nuove esperienze, per rispondere sia alle esigenze dei produttori ma anche a quelle dei consumatori consapevoli.
La nuova stesura della Carta, approvata nell’Assemblea dei Soci AGICES di Chioggia (aprile 2005), si colloca in stretta continuità con la precedente, riconosce il valore di un documento frutto di un lavoro ampio e partecipato. Essa ne preserva i princìpi, introducendo modifiche che non ne mutano lo spirito e i valori fondanti.
Il concetto di “filiera equa” è uno dei cardini che la Carta preserva e sui quali poggia. La prima Carta Italiana dei Criteri lo declinava riconoscendo due tipologie di organizzazioni di
Commercio Equo e Solidale: le Botteghe del Mondo e gli Importatori. La volontà di fotografare la naturale dinamicità del movimento, evitando definizioni ambigue senza
escludere a priori la possibilità che il Commercio Equo e Solidale possa trovare in futuro altre forme di espressione, ha portato alla decisione di fare un passo avanti. Protagoniste del movimento, secondo la nuova Carta Italiana dei Criteri, sono oggi le “organizzazioni di Commercio Equo e Solidale”.
Un'organizzazione di Commercio Equo e Solidale viene riconosciuta come tale in base al tipo di attività concreta che svolge, e non più per l’appartenenza nominale ad una tipologia di struttura.
Nessun criterio fondante per la tutela del valore della “filiera equa” è stato dunque rivisto e nessun principio condiviso dal movimento è stato privato del suo senso originario, tantomeno la centralità delle Botteghe del Mondo.
Il Commercio Equo e Solidale si è infatti sviluppato in modo orizzontale e capillare grazie alla rete delle Botteghe del Mondo. Il radicamento delle Botteghe del Mondo sul territorio, e le loro potenzialità di incidenza politica e culturale sono un patrimonio che il movimento, fin dal principio, valorizza come proprio e peculiare e si impegna ad accrescere.
La Bottega del Mondo, come spazio in cui esercitare il proprio diritto ad essere cittadini, come strumento di aggregazione, di incontro, scambio e coscientizzazione immerso nel tessuto urbano, come luogo fisico di contatto tra Nord e Sud del mondo, ha l'importanza e la responsabilità di essere uno spazio pubblico nel senso più ampio del termine. Nelle Botteghe del Mondo è possibile orientare azioni concrete e coraggiose per fini comuni, sviluppare linguaggi e pensieri nuovi, per comunicare e per dimostrare che i valori dominanti non sempre sono universalmente condivisi. Nella Bottega del Mondo, laboratorio di pace e di autosviluppo, di sobrietà dei consumi e di condivisione, si impara ad essere cittadini del mondo, democratici e solidali, e a contribuire al cambiamento concreto delle relazioni favorendo il lavoro “in rete”.
La presenza della Bottega del Mondo a livello locale assicura questa possibilità di partecipazione globale, svolgendo un ruolo insostituibile di trasmissione e di evoluzione dello spirito, dei princìpi e delle regole del Commercio Equo e Solidale che la Carta Italiana dei Criteri, negli articoli seguenti, definisce e custodisce.
ARTICOLO 1. Definizione del Commercio Equo e Solidale Il Commercio Equo e Solidale è un approccio alternativo al commercio convenzionale; esso
promuove giustizia sociale ed economica, sviluppo sostenibile, rispetto per le persone e per l’ambiente, attraverso il commercio, la crescita della consapevolezza dei consumatori, l’educazione, l’informazione e l’azione politica.
Il Commercio Equo e Solidale è una relazione paritaria fra tutti i soggetti coinvolti nella catena di commercializzazione: dai produttori ai consumatori.
ARTICOLO 2. Obiettivi del Commercio Equo e Solidale
97
1. Migliorare le condizioni di vita dei produttori aumentandone l’accesso al mercato, rafforzando le organizzazioni di produttori, pagando un prezzo migliore ed assicurando continuità nelle relazioni commerciali.
2. Promuovere opportunità di sviluppo per produttori svantaggiati, specialmente gruppi di donne e popolazioni indigene e proteggere i bambini dallo sfruttamento nel processo produttivo.
3. Divulgare informazioni sui meccanismi economici di sfruttamento, tramite la vendita di prodotti, favorendo e stimolando nei consumatori la crescita di un atteggiamento alternativo al modello economico dominante e la ricerca di nuovi modelli di sviluppo.
4. Organizzare rapporti commerciali e di lavoro senza fini di lucro e nel rispetto della dignità umana, aumentando la consapevolezza dei consumatori sugli effetti negativi che il commercio internazionale ha sui produttori, in maniera tale che possano esercitare il proprio potere di acquisto in maniera positiva.
5. Proteggere i diritti umani promuovendo giustizia sociale, sostenibilità ambientale, sicurezza economica.
6. Favorire la creazione di opportunità di lavoro a condizioni giuste tanto nei Paesi economicamente svantaggiati come in quelli economicamente sviluppati.
7. Favorire l'incontro fra consumatori critici e produttori dei Paesi economicamente meno sviluppati.
8. Sostenere l'autosviluppo economico e sociale. 9. Stimolare le istituzioni nazionali ed internazionali a compiere scelte economiche e
commerciali a difesa dei piccoli produttori, della stabilità economica e della tutela ambientale, effettuando campagne di informazione e pressione affinché cambino le regole e la pratica del commercio internazionale convenzionale.
10. Promuovere un uso equo e sostenibile delle risorse ambientali. ARTICOLO 3. Criteri generali adottati dalle organizzazioni di Commercio Equo e Solidale Le organizzazioni di Commercio Equo e Solidale si impegnano a condividere ed attuare, nel proprio
statuto o nella mission, nel materiale informativo prodotto e nelle azioni, la definizione e gli obiettivi del Commercio Equo e Solidale. In particolare si impegnano a:
1. Garantire condizioni di lavoro che rispettino i diritti dei lavoratori sanciti dalle convenzioni OIL.
2. Non ricorrere al lavoro infantile e a non sfruttare il lavoro minorile, agendo nel rispetto della Convenzione Internazionale sui diritti dell'Infanzia.
3. Pagare un prezzo equo che garantisca a tutte le organizzazioni coinvolte nella catena di commercializzazione un giusto guadagno; il prezzo equo per il produttore è il prezzo concordato con il produttore stesso sulla base del costo delle materie prime, del costo del lavoro locale, della retribuzione dignitosa e regolare per ogni singolo produttore.
4. Garantire ai lavoratori una giusta retribuzione per il lavoro svolto assicurando pari opportunità lavorative e salariali senza distinzioni di sesso, età, condizione sociale, religione, convinzioni politiche.
5. Rispettare l’ambiente e promuovere uno sviluppo sostenibile in tutte le fasi di produzione e commercializzazione, privilegiando e promuovendo produzioni biologiche, l'uso di materiali riciclabili, e processi produttivi e distributivi a basso impatto ambientale.
6. Adottare strutture organizzative democratiche e trasparenti in tutti gli aspetti dell’attività ed in cui sia garantita una partecipazione collettiva al processo decisionale.
7. Coinvolgere produttori di base, volontari e lavoratori nelle decisioni che li riguardano. 8. Reinvestire gli utili nell’attività produttiva e/o a beneficio sociale dei lavoratori (p.e. fondi
sociali). 9. Garantire un flusso di informazioni multidirezionale che consenta di conoscere le modalità di
lavoro, le strategie politiche e commerciali ed il contesto socio-economico di ogni organizzazione.
10. Promuovere azioni informative, educative e politiche sul Commercio Equo e Solidale, sui rapporti fra i Paesi svantaggiati da un punto di vista economico e i Paesi economicamente sviluppati e sulle tematiche collegate.
11. Garantire rapporti commerciali diretti e continuativi, evitando forme di intermediazione speculativa, escludendo costrizioni e/o imposizioni reciproche e consentendo una migliore conoscenza reciproca.
98
12. Privilegiare progetti che promuovono il miglioramento della condizione delle categorie più deboli.
13. Valorizzare e privilegiare i prodotti artigianali espressioni delle basi culturali, sociali e religiose locali perché portatori di informazioni e base per uno scambio culturale.
14. Cooperare, riconoscendosi reciprocamente, ad azioni comuni e a favorire momenti di scambio e di condivisione, privilegiando le finalità comuni rispetto agli interessi particolari. Per evitare azioni che indeboliscano il Commercio Equo e Solidale si impegnano, inoltre, in caso di controversie, a fare un percorso di confronto e di dialogo, eventualmente con l'aiuto di un facilitatore.
15. Garantire relazioni commerciali libere e trasparenti, promuovendo processi di sviluppo e coordinandosi nello spirito dell’art. 3.14.
16. Garantire trasparenza nella gestione economica con particolare attenzione alle retribuzioni. ARTICOLO 4. Produttori ed Esportatori
4.1 Produttori I Produttori sono organizzazioni di produzione e commercializzazione di artigianato ed alimentari che
condividono gli obiettivi del Commercio Equo e Solidale e rispettano i criteri elencati nel Capitolo 3 di questa Carta.
I Produttori devono: 1. Perseguire logiche di autosviluppo e di autonomia delle popolazioni locali. 2. Evitare una dipendenza economica verso l’esportazione, a scapito della produzione per il
mercato locale 3. Evitare di esportare prodotti alimentari e materie prime scarseggianti o di manufatti con
queste ottenuti 4. Favorire l’uso di materie prime locali 5. Garantire la qualità del prodotto
Qualora i produttori non siano in grado di esportare direttamente possono servirsi di organizzazioni di esportazione.
4.2 Esportatori Gli Esportatori sono organizzazioni che acquistano principalmente dai produttori come specificati
all'art.4.1, e vendono prevalentemente a organizzazioni di Commercio Equo e Solidale; essi condividono gli obiettivi del Commercio Equo e Solidale e rispettano i criteri elencati nel Capitolo 3 di questa Carta.
Gli esportatori devono: 1. Assicurarsi che i princìpi del Commercio Equo e Solidale siano conosciuti dai produttori e
lavorare con questi per applicarli 2. Fornire supporto alle organizzazioni di produzione: formazione, consulenza, ricerche di
mercato, sviluppo dei prodotti, feedback sui prodotti e sul mercato 3. Dare ai produttori, se da questi richiesto, il pre-finanziamento della merce o altre forme di
credito equo o microcredito 4. Fornire informazioni sui prodotti e sui produttori e sui prezzi pagati ai produttori 5. Garantire rapporti di continuità con i produttori
ARTICOLO 5. Organizzazioni italiane di Commercio Equo e Solidale Le Organizzazioni italiane di Commercio Equo e Solidale commercializzano prevalentemente prodotti
del Commercio Equo e Solidale di organizzazioni di produzione e/o di esportazione e/o di altre organizzazioni di Commercio Equo e Solidale.
Il ricorso a fornitori esterni al circuito del Commercio Equo e Solidale deve essere funzionale agli scopi sociali, e agli obiettivi del Commercio Equo e Solidale stesso.
Le organizzazioni italiane condividono gli obiettivi del Commercio Equo e Solidale, rispettano i criteri elencati nel Capitolo 3 di questa Carta.
Le Organizzazioni italiane devono: 1. Promuovere iniziative di economia solidale al meglio delle proprie possibilità. 2. Sostenere le campagne di sensibilizzazione e pressione, condotte a livello nazionale ed
internazionale, volte a realizzare gli obiettivi del Commercio Equo e Solidale 3. Essere senza fini di lucro. 4. Inserire, appena possibile, personale stipendiato all’interno della struttura, garantendo
un'adeguata formazione.
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5. Valorizzare e formare i volontari e garantire loro la partecipazione ai processi decisionali. 6. Rendere disponibile alle organizzazioni di Commercio Equo e Solidale, impegnandosi alla
trasparenza, l'accesso alle informazioni riguardanti le proprie attività (commerciali e culturali)
7. Avviare e mantenere contatti diretti con esperienze marginali di autosviluppo, sia in loco che nei Paesi economicamente svantaggiati al fine di stabilire una sorta di gemellaggio equosolidale, con ogni mezzo idoneo a permettere la conoscenza di luoghi, persone, modalità di vita e di produzione che possano associarsi ai concetti con cui si definisce il Commercio Equo e Solidale.
Nell’attività di acquisto e di importazione le Organizzazioni italiane di Commercio Equo e Solidale devono:
1. Offrire ai produttori, se da essi richiesto, il pre-finanziamento della merce, e favorire altre forme di credito equo o microcredito, qualora non esistano in loco possibilità di accesso a crediti
2. Promuovere, anche attraverso la collaborazione reciproca, rapporti di continuità, per mantenere un clima di autentico scambio, per favorire una maggiore stabilità per gli sbocchi di mercato dei produttori, e per permettere un effettivo miglioramento delle condizioni di vita sul breve/medio/lungo periodo.
3. Fornire supporto alle organizzazioni di produzione ed esportazione: formazione, consulenze, ricerche di mercato, sviluppo di prodotti, feedback sui prodotti e sul mercato
4. Assicurarsi che i principi del Commercio Equo e Solidale siano conosciuti e condivisi dai produttori e lavorare con questi per applicarli
5. Favorire, laddove sussistano le condizioni, la lavorazione dei prodotti presso le organizzazioni di produttori e/o privilegiare l’acquisto o l’importazione di prodotti la cui lavorazione avviene anche parzialmente nei paesi di origine dei produttori
6. Dare possibilità alle altre organizzazioni di Commercio Equo e Solidale di fare viaggi di conoscenza presso i produttori (e viceversa), rispettando i criteri del Turismo responsabile espressi nel documento "Turismo responsabile: Carta d'identità per viaggi sostenibili"
7. Privilegiare i fornitori esterni al circuito del Commercio Equo e Solidale fra quelli organizzati in strutture no-profit, con finalità sociali e con gestione trasparente e democratica e che abbiano prodotti eco-compatibili e culturali. Non intraprendere relazioni commerciali con aziende che, con certezza, violino i diritti umani e dei lavoratori
Nell’attività di vendita le Organizzazioni italiane di Commercio Equo e Solidale devono: 1. Fornire ai consumatori tutto il materiale informativo disponibile, comprese le schede del
prezzo trasparente 2. Mantenersi costantemente informate sui prodotti che vengono venduti, verificando che
vengano rispettati i criteri del Commercio Equo e Solidale 3. Garantire ai consumatori sia in caso di distribuzione diretta che di distribuzione attraverso
soggetti esterni, informazioni relative al Commercio Equo e Solidale, ai gruppi produttori che hanno realizzato il prodotto o fornito le materie prime, alla rete delle organizzazioni di Commercio Equo e Solidale ed uno schema di prezzo trasparente, che fornisca almeno le seguenti informazioni: prezzo FOB pagato al fornitore, costo di gestione, importazione e trasporto, margine per la vendita. Tali informazioni possono essere indicate in percentuale od in valore assoluto, per singolo prodotto o per categoria di prodotti, o per paese di provenienza, o per gruppo di produttori.
In caso di vendita all’ingrosso:
1. Vendere prevalentemente alle organizzazioni di Commercio Equo e Solidale, ai canali di economia solidale, e/o di solidarietà sociale, gruppi di autoconsumo e/o gruppi informali di solidarietà
2. Fornire alle organizzazioni di Commercio Equo e Solidale informazioni sui prodotti e sui produttori attraverso schede informative che contengano il prezzo trasparente dei prodotti ed essere disponibili a fornire la documentazione di supporto
ARTICOLO 6. Prodotti trasformati
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I prodotti trasformati sono tutti quei prodotti non riconducibili ad un’unica materia prima: biscotti, cioccolata, dolciumi, ecc.
1. I prodotto trasformati possono essere definiti in etichetta “prodotti di Commercio Equo e Solidale” solo se almeno il 50% del costo franco trasformatore delle materie prime o il 50% del peso delle materie prime è di Commercio Equo e Solidale
2. L'elaborazione dei prodotti trasformati, laddove ne esistano le condizioni, dovrebbe avvenire nei Paesi d'origine.
3. La trasformazione deve essere effettuata da soggetti dell'economia solidale o comunque da cooperative o imprese che non siano in contrasto con i principi del Commercio Equo e Solidale.
4. I prodotti trasformati devono riportare in etichetta la dicitura: "Totale ingredienti del Commercio Equo e Solidale: %"
5. Nei prodotti trasformati, la scelta degli altri ingredienti rispetto a quelli del Commercio Equo e Solidale deve ispirarsi ai criteri esposti all'art.3.5 di questa Carta.
101
Appendice 2. La carta d’Identità delle Botteghe (Associazione Botteghe del Mondo, 2004)
La Bottega del Mondo si andrà sempre più identificando come un soggetto dell'economia "no profit"
all'interno del sistema del C.E.S., dove le proposte fatte al consumatore sono di carattere complessivo in quanto non si limitano alla vendita dei prodotti provenienti dal sud del mondo, ma propongono un modello di sviluppo alternativo all'attuale sistema economico che prevede proposte quali ad esempio il RISPARMIO ALTERNATIVO, i VIAGGI, le ASSICURAZIONI e quant'altro la fantasia e le nostre capacità saranno in grado di realizzare. La Bottega del Mondo si configurerà pertanto come il "terminale" di una proposta complessiva e come riferimento fondamentale per lo sviluppo di quanto sopra detto.
CRITERI IDEALI
1. La Bottega dovrà rispettare in tutto il proprio agire (e quindi in tutti i prodotti commercializzati) i criteri guida del C.E.S.: GIUSTIZIA, SVILUPPO, LAVORO, AMBIENTE.
2. Essa dovrà sottolineare nei confronti dei consumatori quel carattere di TRASPARENZA che contraddistingue il commercio equo rispetto al mercato tradizionale con particolare attenzione alla struttura organizzativa e alle informazioni da mettere a disposizione.
3. Acquistare prodotti facendo riferimento ai criteri EFTA di valutazione e quindi alle considerazioni dei comitati progetto. È auspicabile che ogni BdM riesca a realizzare uno o più progetti nel sud del mondo: sia per quanto riguarda l'importazione sia per il coinvolgimento diretto su più realtà possibili.
4. Informare i consumatori che frequentano la Bottega sulle tematiche del C.E.S. e sul rapporto Nord-Sud, nonché su tematiche collegate: giustizia, ambiente, sviluppo sostenibile, pace, economia sociale e solidale. Partecipare a tutte le iniziative di confronto all'interno del movimento è imprescindibile per una informazione adeguata. Essere una struttura NO-PROFIT, Associazione o Cooperativa i cui utili non possano essere distribuiti tra i soci, ma vengano esclusivamente reinvestiti con le seguenti priorità: a) struttura del C.E.S.; b) informazione-formazione; c) progetti nel sud del mondo.
5. Promuoverà come sopra detto tutte quelle iniziative a sostegno di un progetto di economia solidale che vanno dalla tutela delle Botteghe stesse, al risparmio etico e quant'altro il movimento sarà in grado di realizzare e sviluppare e che in questo momento non è ancora presente.
CRITERI ORGANIZZATIVI
1. Le BdM, strutture associative e cooperative, cercheranno di garantire al proprio interno la più ampia apertura alle realtà affini presenti nel territorio; modalità decisionali trasparenti e democratiche che devono essere caratteristiche di base di ogni BdM.
2. I punti vendita dovranno essere in regola con le autorizzazioni richieste localmente. 3. La BdM sceglie di commercializzare prevalentemente prodotti provenienti dal sud del mondo,
importati sia direttamente che attraverso le centrali di importazione del C.E.S. nazionali. 4. Se una BdM inizia un rapporto diretto di importazione da un progetto non seguito da alcuna
centrale nazionale, al momento in cui la produzione diventasse tale da rifornire più Botteghe o l'intero territorio nazionale, ed i prodotti risultassero idonei al mercato, la BdM può chiedere che il progetto venga gestito dalla centrale di riferimento. In questo caso la BdM proponente - oltre a mantenere i rapporti a livello di "affidamento" del Progetto (scambi interpersonali, lettere, azioni di sostegno, visite, ecc.) - potrà decidere se continuare anche l'importazione diretta per i propri punti vendita.
5. La BdM potrà inserire in assortimento prodotti non del C.E.S. che siano coerenti con i requisiti generali richiesti e che provengano preferibilmente da cooperative sociali, ma si impegna a mantenere la priorità dei prodotti C.E.S. (es. casi di sovrapposizione tra prodotti C.E.S. e non C.E.S.).
6. Le BdM sono impegnate a mantenere i prezzi di vendita al pubblico uguali su tutto il territorio nazionale per confermare quella scelta di trasparenza del prezzo che rimane una delle scelte fondamentali del C.E.S. in Italia. Sarà preoccupazione importante per le BdM mettere a disposizione dei consumatori tutto il materiale informativo generale e specifico (che le centrali
102
d'importazione sono tenute a procurare), preoccupandosi di verificarne e controllarne il contenuto e l'aggiornamento.
7. La BdM s'impegna a garantire un'apertura settimanale di almeno 20 ore. 8. Nella convinzione che i produttori del sud del mondo auspicano la realizzazione di un mercato
alternativo che garantisca prezzi dignitosi per i propri prodotti si ritiene importante che le BdM promuovano più sforzi possibili per realizzare tale intento attraverso una maggiore professionalizzazione delle Botteghe stesse da affiancare all'impegno dei volontari, che deve essere qualificato, formato e valorizzato, e, qualora il fatturato lo permetta, si auspica l'inserimento di una persona retribuita, con riferimento al contratto collettivo del settore commercio, almeno a tempo parziale.
9. La BdM è tenuta a coordinarsi con le altre realtà del C.E.S. presenti sul territorio uniformando le modalità di vendita, evitando forme di concorrenza sleale.
ALCUNE INDICAZIONI PER LA VENDITA DEI PRODOTTI NON C.E.S.
Quanto segue esprime la tensione di chi ha collaborato alla stesura del documento veso un'immagine coordinata delle BdM anche nei settori del non C.E.S.; riteniamo infatti che l'obiettivo da raggiungere sia quello di fidelizzare il consumatore che sceglierà le BdM sapendo di trovarvi SEMPRE prodotti che rispondono a determinati requisiti comuni.
1. La BdM dovrà preoccuparsi di conoscere l'origine dei prodotti commercializzati (la fase di produzione). Ogni BdM avrà inoltre cura di verificare che i prodotti non abbiano nessuna implicazione negativa con i Paesi del sud del mondo.
2. La BdM avrà cura di scegliere i fornitori dei prodotti non C.E.S. facendo riferimento alle seguenti priorità: a) strutture no-profit (o terzo settore); b) strutture con finalità sociali; c) strutture con gestione trasparente e democratica; d) prodotti eco-compatibili o culturali.
Il presente documento è stato approvato in questa forma dall'Assemblea soci dell'Associazione
103
Appendice 3. La torta della GD italiana al 2007: quote percentuali dei principali gruppi
6,18%
7,22%
9,37%
7,88%
3,94%
19,64%
18,87%
2,94%
0 5 10 15 20 25
COOP (Coop Italia, IlGigante, Sigma)
CENTRALE CONAD(Conad, Margherita,
Interdis, Rewe,E.Leclerc)
CARREFOUR
AUCHAN (Sma, Cityper,Simply)
SELEX
ESSELUNGA
SISA
FINIPER
Fonte: La Repubblica, Imprese&Mercati del 31/01/2007
104
Appendice 4. Graduatoria delle prime 30 imprese europee della GDO per volume di vendite nel 2004
105
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o AICCON, Associazione Italiana per la promozione della Cultura della Cooperazione e del Non Profit – Università degli studi di Bologna, sede di Forlì
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o Centro di ricerche sulla cooperazione e il non profit – Università Cattolica del Sacro Cuore
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o Centro Studi Philanthropy – Università degli studi di Bologna, sede di Forlì
http://www.philanthropy-centrostudi.it/
o CERGAS, Centro di Ricerche sulla Gestione dell’Assistenza Sanitaria e Sociale – Università Bocconi di Milano
http://portale.unibocconi.it/wps/wcm/connect/Centro_CERGASit/Home
o CRISES, Centro di Ricerca sulle innovazioni sociali http://www.crises.uqam.ca/
o ECONOMETICA, Centro Interuniversitario per l’Etica economica e la Responsabilità Sociale d’Impresa
http://www.econometica.it/
o EMES, Emergence des entreprises sociales en Europe http://www.emes.net/
o Grameen Bank www.grameen-info.org
o Osservatorio Nazionale del Commercio – Ministero dello Sviluppo Economico
http://www.sviluppoeconomico.gov.it/osservatori/commercio/index.htm
o RILESS, Red de Investigadores Latinoamericanos sobre Economía Social y Solidária
http://www.riless.org/
o Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” – Master “Lavorare nel non profit”
www.uniurb.it/masternonprofit/
o Università degli Studi di Roma Tor Vergata – Facoltà di Economia www.economia.uniroma2.it/
Organismi internazionali
o OXFAM International http://www.oxfam.org/
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o UNCTAD, United Nations Conference on Trade and Development http://www.unctad.org/
Altre fonti per raccolta materiale informativo
o Altreconomia http://www.altreconomia.it/
o Attac Italia http://italia.attac.org/
o BBC News http://www.bbc.co.uk/
o Centro Nuovo Modello di Sviluppo http://www.cnms.it/
o Corriere della Sera http://www.corriere.it/
o Equonomia http://www.equonomia.it/
o Infocommercio http://www.infocommercio.it/
o La Repubblica http://www.repubblica.it/
o Largo Consumo http://www.largoconsumo.it/
o Nielsen http://it.nielsen.com/site/index.shtml
o Rete Nazionale di Collegamento dei Gruppi d’Acquisto Solidale http://www.retegas.org/
o Wikipedia http://www.wikipedia.org/