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TEORIE DELLO SVILUPPO E DEL CICLO ECONOMICO - Sviluppo e ciclo economico nelle economie “di mercato” e “pianificate” - Teorie dello sviluppo e del ciclo: Torniamo ai classici” (Sylos Labini, 2004) - I “classici moderni”: Schumpeter. Keynes, Kuznets

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TEORIE DELLO SVILUPPO E

DEL CICLO ECONOMICO

- Sviluppo e ciclo economico nelle economie “di

mercato” e “pianificate”

- Teorie dello sviluppo e del ciclo: “Torniamo ai

classici” (Sylos Labini, 2004)

- I “classici moderni”: Schumpeter. Keynes, Kuznets

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I fenomeni dell’economia reale nel mondo moderno

I fenomeni che caratterizzano l’economia da oltre 200

anni, di cui l’economia marginalista o neoclassica

non spiega, se non marginalmente, le cause, sono:

1. costante spinta allo sviluppo (trend di crescita del

PIL totale e pro-capite) che si presenta con cicli di

prosperità, recessione, depressione (crisi) e ripresa;

2. disparità dello sviluppo tra paesi con estese sacche

di sottosviluppo presenti in varie parti del mondo;

3. disparità di reddito fra i gruppi sociali nei paesi

sviluppati e aumento della disparità in ogni paese

dopo un balzo in avanti dello sviluppo.

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I fenomeni dell’economia reale: 1. sviluppo e ciclo

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Sviluppo e ciclo economico: Italia 1700-1910

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Sviluppo e ciclo economico: Italia 1861-1913

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Sviluppo e ciclo economico: Italia 1953-2005

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Sviluppo e ciclo economico: URSS 1945 -1985 Dai tempi di Stalin ai giorni nostri, i meccanismi economici russi, al pari

di qualsiasi altra realtà sociale capitalistica, si sono espressi secondo i ritmi di accumulazione, dando vita al fenomeno che gli economisti borghesi definiscono il ciclo economico, ovvero il susseguirsi di fasi di espansione e periodi di crisi, di riprese economiche e di depressioni. In Russia, se prendiamo le mosse dalla situazione successiva alla fine della Seconda guerra mondiale, si ha l’apertura di un lungo ciclo di accumulazione favorito dalle pesanti distruzioni della guerra stessa. La ripresa economica durò un ventennio: gli indici in questo periodo erano tutti positivi: il tasso di crescita del Pil, gli investimenti; per la classe operaia russa che era costretta a vivere delle briciole del boom economico, ci fu un incremento dei beni di prima necessità del 60% rispetto al precedente periodo bellico. Niente di paragonabile al consumismo occidentale, ma cionondimeno la fase dell’espansione economica si produsse con rilievo e continuità. Ma già agli inizi degli anni Sessanta, il ciclo inverte la sua rotta, la recessione si presenta con forti aumenti dei beni di prima necessità quali carne, latte, zucchero, ecc. (leftcom: Urss dall’economia di piano all’economia di mercato)

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Sviluppo e ciclo economico: URSS 1945 -1985 Si incomincia a assistere al fenomeno delle file davanti a negozi pressoché

vuoti. Il mondo industriale fa registrare consistenti diminuzioni negli investimenti e nella produzione, mentre l’intero settore agricolo è talmente collassato da costringere i responsabili del piano e quelli politici ad iniziare l’importazione di grano dagli Stati Uniti. Nel quinquennio 1966-70, superate le maggiori conseguenze della crisi, l’economia russa si riassesta su livelli decenti. Un balzo in avanti dell’industria fu favorito dall’enorme sviluppo degli armamenti in senso stretto e delle attività militari in senso lato tra cui la ricerca spaziale. Ma già alla fine degli anni Settanta lo spettro della recessione, che ancora oggi travaglia le notti di Gorbaciov, ha ripreso a manifestarsi minacciosamente. Nel 1979-82 gli investimenti destinati allo sviluppo della sfera sociale cominciarono ad avvenire secondo il principio residuale e, nell’ambito del reddito nazionale e del bilancio statale, diminuì notevolmente l’aliquota dell’istruzione e della sanità. È necessario scendere nei meccanismi ciclici del processo di accumulazione dell’economia russa per analizzare le cause della profondissima crisi che ha investito con la Russia tutta l’Europa dell’Est. Come per tutti i regimi capitalistici le cause strutturali sono sempre le stesse anche se, e a questo riguardo il caso della economia pianificata è esemplare, non mancano vistose specificità nei tempi e soprattutto nei modi di esprimersi della crisi stessa. (leftcom)

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Sviluppo e ciclo economico: URSS 1945 -1985 È dalla vastissima crisi economica e dalle peculiari deficienze della economia di piano

che nasce la perestrojka. Nel 1985, quando Gorbaciov salì al potere in Russia, la situazione era così grave da mettere in forse gli equilibri politici interni e quelli alla periferia dell’impero, nell’Europa del patto di Varsavia e del Comecon. Nelle ambiziose prospettive di Gorbaciov la perestrojka significava ristrutturazione ad alto contenuto tecnologico, ricerca di adeguati capitali finanziari, reintroduzione della proprietà privata e della libera imprenditorialità, riforma del credito. Il programma della nuova leadership politica russa poneva il problema del superamento della crisi economica e del suo fardello politico, attraverso il passaggio dalla economia di piano a un’economia di mercato. La formulazione è imprecisa o impropria perché si sarebbe portati a pensare che nella Russia odierna non viga una economia orientata

verso il mercato, ovvero che non ci sia una produzione di merci. Questa economia è sempre esistita checché ne dicano i difensori del “socialismo” reale; solo che il mercato ha assunto nel quadro rigido del capitalismo di stato delle connotazioni particolari, prima fra tutte quella di rispondere in termini di quantità, qualità, prezzi e costi, ai programmi del Piano, alle esigenza cioè di una struttura di mercato monopolistica particolarmente concentratrice e centralizzatrice. Meglio sarebbe parlare di un passaggio da una economia a decisioni accentrate ad una economia a decisioni decentrate, all’interno della quale il mercato resta come elemento comune, anche se con caratteristiche e agibilità completamente diverse. (leftcom)

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I fenomeni dell’economia reale: 2. sviluppo e sottosviluppo

PRODOTTO LORDO MONDIALE: PLM TOTALE PLM PROCAPITE

Periodi Crescita % Crescita %

1951-1973 4.963 2.987

1973-1982 2.868 1.084

1982-1996 2.786 1.159

1996-2002 2.676 1.360

1974-2002 2.829 1.228

1951-2002 3.721 1.954

% PLM 1980 1985 1990 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002

Europa 25.66 24.20 23.86 23.05 22.56 22.28 22.35 22.10 21.89 21.68 21.36

Cina 3.42 4.87 5.94 9.34 9.83 10.27 10.79 11.16 11.52 12.10 12.67

Giappone 8.05 8.26 8.67 8.31 8.38 8.20 7.90 7.60 7.52 7.34 7.11

SEAsia 7.75 8 .60 10.13 12.25 12.58 12.63 12.12 12.37 12.53 12.62 12.84

NAmerica 23.41 23.73 23.27 23.34 23.22 23.28 23.66 23.80 23.62 23.21 23.12

Africa 5.73 5.38 5.15 4.91 4.96 4.97 5.02 5.03 5.01 5.08 5.10

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I fenomeni dell’economia reale: 2. sviluppo e sottosviluppo

ECONOMIA MONDIALE PIL % ∆% 05-10 POPOLAZIONE %

MONDO (2010) 62.910 miliardi $ 100,0 3,6 6,9 miliardi ab. 100,0

Paesi industrializzati 41.530 “ 66,0 1,1 15,0

G7 31.890 “ 50,7 0,7 10,8

Zona euro (16) 12.190 “ 19,4 0,8 4,8

Asia* 9.430 “ 15,0 9,2 52,3

America Latina 4.830 “ 7,7 4,0 8,3

Europa Centrorientale** 3.710 “ 5,9 3,7 6,7

Medio Oriente e N.Africa 2.360 “ 3,8 4,5 6.0

Africa subsahariana 1.060 “ 1,7 5,4 11,7

* Esclusi Corea sud, Giappone, Hong Kong, Singapore e Taiwan

** Inclusa Turchia

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I fenomeni dell’economia reale: 2. sviluppo e sottosviluppo

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I fenomeni dell’economia reale: 3. disparità di reddito

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I fenomeni dell’economia reale: 3. disparità di reddito

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I fenomeni dell’economia reale: 3. disparità di reddito

L’indice di Gini in alcuni paesi del mondo:

dai paesi meno equi ………….…….. ai paesi più equi Namibia 0,743 Italia 0,345 Germania 0,283

Botswana 0,610 USA 0,344 Francia 0,278

Haiti 0,595 Grecia 0,336 Finlandia 0,269

Angola 0,586 UK 0,324 Norvegia 0,258

Columbia 0,585 Irlanda 0,324 Olanda 0,255

Sudafrica 0,578 Australia 0,305 Svezia 0,250

Bolivia 0,572 Croazia 0,290 Giappone 0,249

Brasile 0,550 Bielorussia 0,288 Danimarca 0,247

Messico 0,526 Canada 0,285 Arzerbaigian 0,168

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Dalla teoria neoclassica alle teorie dello sviluppo

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Sylos Labini: «Torniamo ai classici», Laterza, 2004

«Viviamo in un’epoca di straordinarie innovazioni tecnologiche, organiz-zative e istituzionali; eppure la teoria economica dominante si fonda su assunzioni statiche, fuori dal tempo, che presuppongono strutture produttive e tecniche date. Il nucleo centrale è costituito dalle teorie dell’equilibrio economico generale, che è refrattaria allo sviluppo. Le innovazioni sono ignorate o in alcuni modelli [“di statica comparata”] sono introdotte con espedienti formali assumendo che le funzioni di produzione statiche si spostino per il cambiamento della tecnica. Ma le assunzioni sono le premesse di spiegazioni, non sono spiegazioni. Peggio: nel nostro caso sono introdotte per nascondere il carattere statico della teoria dominante. Perché si è creata una situazione che è poco definire paradossale? L’economia classica era intrinsecamente dinamica e (…) considerava lo sviluppo come il problema centrale. La svolta avvenne negli anni Settanta del secolo XIX con la rivoluzione detta marginalista. Alla svolta concorsero varie spinte. La prima: imitare le scienze sperimentali, in primo luogo la fisica, che usava ampiamente la matematica (…)»

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Sylos Labini: «Torniamo ai classici», Laterza, 2004

«La seconda: l’analisi classica si era arrestata per le difficoltà che erano

emerse per certi problemi irrisolti, come il problema ricardiano del

valore. La terza: il reddito individuale era cresciuto e nei paesi

progrediti superava il livello di sussistenza e la composizione dei

consumi diventava un problema di rilievo (rivoluzione marginalista).

(…) Nella rivoluzione industriale inglese si compì la gestazione del

capitalismo industriale moderno, che nasce quando si afferma social-

mente l’industria meccanica (…) Dopo la crescita di tale industria, che

dà l’avvio al settore degli investimenti, lo sviluppo diviene sempre più

vigoroso e assume un andamento ciclico, con l’alternarsi di fasi di

prosperità e di depressione. (…) Adam Smith, preceduto da importanti

economisti italiani del 700 (Galiani, Verri…) e francesi (fisiocrati che

egli conobbe di persona) attribuisce la priorità alla crescita del reddito

pro capite (…) A giudizio degli economisti del nostro tempo quel che i

classici hanno detto di utile si ritrova nella tradizione marginalista. È

una convinzione radicalmente sbagliata (…) »

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Sylos Labini: «Torniamo ai classici», Laterza, 2004

«(…) giacché è diversa la stessa impostazione: statica l’una, dinamica l’altra; e sono del tutto diversi gli obiettivi: nel primo caso individuare i punti di equilibrio dei prezzi e delle quantità prodotte e scambiate; nel secondo la spiegazione dello sviluppo e della produttività (…)»

«La produttività media del lavoro è data dal rapporto fra la quantità di prodotto e la quantità di lavoro (n° di lavoratori o ore lavorate): è una nozione che non fa sorgere problemi né in analisi statica né in analisi dinamica. I problemi sorgono con la produttività marginale, non ecce-pibile sotto l’aspetto matematico (derivata parziale), lo è sotto quello economico: il prodotto addizionale di un’ora di lavoro in più è la sua produttività marginale se gli altri fattori (macchine e materie prime) restano costanti. (…) L’aumento della produttività media è espresso in modo speculare dalla riduzione del coefficiente di lavoro impiegato per produrre un’unità di bene. (…) Le nuove tecniche si incorporano in macchine inventate dagli scienziati e/o perfezionate dai lavoratori (learning by doing): le prime sono innovazioni esogene al sistema economico; le seconde innovazioni endogene al sistema economico.»

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Teoria neoclassica: progresso tecnico, un assunto non spiegato che non spiega lo sviluppo economico

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Teoria neoclassica: modello epidemico, assunto non spiegato che non spiega la diffusione dello sviluppo

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Dal progresso tecnico all’innovazione tramite la conoscenza

Il concetto di “spirale

della conoscenza” di

Nonaka è usato per

spiegare le innovazioni

che sono realizzate

nei distretti industriali,

grazie all’attività dei

cosiddetti “integratori

versatili” (Becattini) ma

vale in generale per ogni

forma di apprendimento

pratico (learnig by doing,

by using, by monitoring)

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Dalla progresso tecnico all’innovazione

Fasi del progresso tecnico:

PRODUZIONE (del sistema scientifico-tecnologico)

DIFFUSIONE (per divulgazione o socializzazione)

ADOZIONE (da parte di imprese, tecnici e operai)

INNOVAZIONE = PRODUZIONE → DIFFUSIONE →

→ ADOZIONE DEL PROGRESSO TECNICO *

* L’innovazione non è la scoperta degli scienziati o la

creazione di prototipi dei tecnologi, ma la concreta

adozione di novità nella produzione e nel consumo.

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Sviluppo e ciclo economico secondo Schumpeter

La teoria descrive la vita economica come se tendesse verso uno stato di

equilibrio e in base a questa tendenza determina i prezzi e le quantità

dei beni, considerandola come adattamento alle circostanze date. La

teoria descrive la vita economica come un ciclo che si rinnova ogni

anno nello stesso modo ma la vita economica presenta mutamenti,

che non sempre sono continui e rappresentabili nel ciclo ad esempio

il passaggio dalla diligenza alla ferrovia. Il solo accrescimento della

economia aumento della ricchezza non è un processo di sviluppo. Lo

sviluppo è un fenomeno speciale che non si verifica tra i fenomeni del

ciclo o della tendenza all'equilibrio: è il cambiamento dell'orbita in cui

si compie il ciclo, in contrapposto al movimento del ciclo; è la rottura

dello stato di equilibrio in contrapposto al processo verso l'equilibrio.

Non tutti i cambiamenti sono 'sviluppo' ma solo quelli che sorgono

spontaneamente dall’economia e si presentano in modo discontinuo

(…)

(Schumpeter, La teoria dello sviluppo economico, 1924, Collana degli Economisti)

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Sviluppo e ciclo economico secondo Schumpeter

Le innovazioni in economia non avvengono in modo che prima sorgono i bisogni nei consumatori spontaneamente e poi dalla pressione dei bisogni è impresso l’indirizzo all'apparato produttivo ma si presentano come nuovi bisogni stimolati dalla produzione. Ogni produzione è una combinazione di cose e di forze. Produrre diversamente significa combinare diversamente. Una nuova produzione attuata con incessanti e piccole modifiche, è fenomeno di cambiamento che fa parte del ciclo e non dello sviluppo.

L'effettuazione di nuove combinazioni costituisce la forma e il contenuto dello sviluppo. Si hanno cinque casi di innovazione: 1) produzione di nuovo bene o di nuova qualità di un bene ignota ai consumatori; 2) introduzione di nuovo metodo di produzione ignoto all'industria; 3) apertura di nuovo mercato per l'industria; 4) conquista 'ex novo' di nuova fonte di materie prime o materie semilavorate; 5) attuazione di nuova organizzazione (....) Per lo più accade che nuove combinazioni non prendano subito il posto delle vecchie ma restino accanto alle vecchie che sono incapaci di compiere il nuovo passo, cioè di accedere alle innovazioni che si presentano (...)

(Schumpeter, La teoria dello sviluppo economico, 1924, Collana degli Economisti)

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Sviluppo e ciclo economico secondo Schumpeter

Una nuova combinazione sottrae i mezzi di produzione necessari alle combinazioni esistenti (...) Il problema non si pone nel ciclo perché le imprese hanno i mezzi di produzione o se li procurano con ricavato di produzioni precedenti oppure con denaro a prestito. La formazione del prestito spetta ai capitalisti: il sistema capitalistico consiste nell'obbligare l'economia lungo nuove vie impiegandone i mezzi i capitali accumulati per nuovi scopi. Il sistema capitalistico del credito è sorto per finanziare le nuove combinazioni creando depositi e concedendo il credito di circolazione alle imprese nel ciclo. Ma di dove provengono le somme occorrenti, se chi vuol effettuare nuove combinazioni non ne è già in possesso?

Di solito si crede da un accrescimento annuo del risparmio. E ciò non è negabile. Però non si deve partire dal risparmio, poiché la sua altezza dipende dai risultati privato-economici dello sviluppo in corso. La parte più grande dei capitali occorrenti per le innovazioni non deriva da attività risparmiatrici ma dai risultati dell’effettuazione delle nuove combinazioni nelle quali risiede la fonte dei futuri profitti (...)

(Schumpeter, La teoria dello sviluppo economico, 1924, Collana degli Economisti)

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Sviluppo e ciclo economico secondo Schumpeter

Un momento fondamentale dell’analisi dello sviluppo è la funzione dell'imprenditore. Chiamiamo impresa l'effettuazione di nuove combinazioni, sia l'incorporazione di queste nelle aziende e imprenditori i soggetti la cui funzione consiste nell’esecuzione delle nuove combinazioni di cui sono l'elemento attivo. Sono nozioni più larghe e più strette di quelle comuni: più larghe perché sono imprenditori non solo i soggetti dell'economia di scambio ma anche tutti coloro che adempiono alla funzione di imprenditore, siano impiegati di un’impresa come direttori o procuratori, persone giuridicamente estranee all’impresa, o persone che alle imprese sono legati in occasione di nuove formazioni, come i finanzieri, i fondatori, i periti; le nozioni sono più ristrette perché non sono imprenditori tutti i soggetti normalmente detti imprenditori: contadini, artigiani, fabbricanti, industriali, commercianti non sono in quanto tali imprenditori: fare l'imprenditore non è una professione né uno stato durevole e gli imprenditori sono una classe solo nel senso di gruppo sociale ma non come ‘classe’ che partecipa alla lotta di classe (…)

(Schumpeter, La teoria dello sviluppo economico, 1924, Collana degli Economisti)

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Sviluppo e ciclo economico secondo Schumpeter

Fare nuove combinazioni è funzione speciale. Mentre nel ciclo senza sviluppo il soggetto economico agisce subito e con sicurezza perché conosce il proprio campo di azione, ciò non accade quando vi siano compiti non abituali. Nel ciclo normale bastano il proprio giudizio e la propria esperienza, ma davanti al nuovo occorre una guida... si va con la corrente mentre si sta nel ciclo, si procede contro quando se ne vuol mutare il corso (il contadino dispone del suo vitello con la stessa astuzia e mancanza di riguardo del borsista che manipola un pacchetto di azioni, ma questo vale dove innumerevoli casi abbiano determinato attraverso un lavorio di secoli le forme tradizionali della condotta economica e abbiano annientato ciò che è inadatto, per in cui l'astuzia di decenni sembra essere l'astuzia del singolo). Fare delle nuove combinazioni è funzione e privilegio di pochi. Gli imprenditori sono tipi speciali e speciale è il problema del loro operare. Le funzioni dell'inventore e dell'imprenditore non coincidono: l'imprenditore non è il creatore intellettuale delle nuove combinazioni; l'inventore non è imprenditore.

(Schumpeter, La teoria dello sviluppo economico, 1924, Collana degli Economisti)

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Sviluppo e ciclo economico secondo Schumpeter

L'imprenditore non si chiede se il suo sforzo promette un super consumo

adeguato: poco si cura dei frutti edonistici; crea senza riposo perché

non ne può fare a meno; né vive per godere dell'acquistato. Sotto il

quadro dell'imprenditore sta il motto 'plus ultra'. Il motivo della

condotta del nostro eroe è il sogno e la volontà di fondare un impero

privato anche se non una dinastia.

Vi è la volontà del vincitore, la volontà di lottare o il valore del successo

solo per il successo, perché la vita economica è di per sé priva di ogni

interesse; l'azione economica è uno sport e vi sono gare finanziarie più

dure del pugilato; v’è infine il piacere di creare: così l'imprenditore

muta l'economia nazionale e corre rischi senza posa, perché ama il

mutamento ed il rischio e perché ha innanzi a sé difficoltà con cui

cimentarsi. Solo per alcuni motivi la proprietà privata è un fattore

essenziale del risultato e dell’efficacia dell'impresa (perché è un modo

con il quale si possono misurare la vittoria e il successo dell’impresa).

(Schumpeter, La teoria dello sviluppo economico, 1924, Collana degli Economisti)

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Sviluppo e ciclo economico secondo Schumpeter

L'apparizione “a onde” degli imprenditori è l'unica causa dei periodi di rialzo. Le crisi sono punti di svolta dello sviluppo economico (...) Siamo partiti dalle crisi per arrivare ad un problema primario: la prosperità e la depressione. Quali sono le cause di questi fenomeni? (…) La risposta è il fatto che l'effettuazione di nuove combinazioni non avviene in modo uniforme nel tempo ma le nuove combinazioni appaiono in “sciami” perché nuove combinazioni non sorgono dalle vecchie e non si pongono subito al loro posto, ma stanno loro accanto e in concorrenza; l'apparizione delle domande degli imprenditori significa nuova potenza di acquisto che dispiega un'onda secondaria di rialzo, che si estende a tutta l'economia come veicolo della prosperità generale: una nuova potenza di acquisto passa ai produttori di mezzi di produzione, agli operai e avanza nei canali della vita economica (se i beni di consumo sono venduti se ne ordinano altri al dettagliante; se si produce con profitto e l'anticipazione speculativa, da sintomo di prosperità, diventa fattore decisivo di prosperità).

(Schumpeter, La teoria dello sviluppo economico, 1924, Collana degli Economisti)

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Keynes: la “fine del laissez-faire” «Nelle mani di Locke e Hume le dottrine (della libertà) originavano l’individualismo.

“Il solo disturbo che domanda la virtù”, disse Hume “è il calcolo esatto e la costante

preferenza per la maggiore felicità”. Bentham raggiungeva lo stesso risultato con la

ragione pura. Non vi è alcun motivo razionale, egli sostiene, per preferire la felicità

di un individuo a quella di qualsiasi altro. Quindi la massima felicità del maggior

numero è l’unico scopo razionale di condotta. In tal modo egli prende l’utilità da

Hume ma dimentica il cinico corollario di quel saggio: “non è contrario alla ragione

preferire la distruzione del mondo intero a un graffio al mio dito”. (…) All’idea di

un’armonia divina fra il vantaggio privato e il bene pubblico dettero una base

scientifica gli economisti (fisiocrati). (…) L’individualismo dei filosofi politici

conduceva al laissez-faire. L’armonia divina o scientifica fra l’interesse privato e

l’interesse pubblico conduceva al laissez-faire. Ma, soprattutto, l’inettitudine dei

pubblici amministratori indirizzavano l’uomo pratico in favore del laissez-faire. (…)

Ma i darwinisti potevano offrire un risultato ancora migliore: la libera concorrenza

aveva fatto l’uomo. Il principio della sopravivernza del più idoneo poteva essere

considerato come una vasta generalizzazione dell’economia ricardiana. Alla luce di

questa vasta sintesi le interferenze socialiste diventavano non solo inefficaci ma

empie, in quanto volte a ritardare il movimento ascendente del possente sviluppo

(…) » (Keynes, 1926, La fine del laissez-faire).

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Keynes: la “fine del laissez-faire” «Non si trova l’espressione laissez-faire negli scritti di Adam Smith (che) era un libero

scambista (…) ma il suo atteggiamento nei riguardi dell’atto di navigazione mostra

che egli non era un dogmatico. (…) In realtà dobbiamo arrivare alle ultime opere di

Bentham - il quale non era affatto un economista - per scoprire la regola del laissez-

faire (…) al servizio della filosofia utilitaristica. (…) Cairnes nel 1870 fu forse il

primo economista che lanciò un attacco frontale al laissez-faire. “La massima del

laissez-faire”, egli dichiarò, “non ha alcuna base scientifica, ma è tutt’al più una

semplice e comoda regola pratica.” (…) Gli economisti, come altri scienziati, hanno

scelto l’ipotesi dalla quale partono e che essi offrono ai novizi perché è la più

semplice e non perché sia la più vicina ai fatti. (…) Ma i principi del laissez-faire

hanno avuto altri alleati oltre ai testi economici . Si deve riconoscere che essi sono

stati confermati nelle menti di sani pensatori e del pubblico ragionevole dalla

misera qualità delle proposte contrarie, il protezionismo da una parte e il socialismo

marxista dall’altra. (…) il protezionismo è almeno plausibile (…) ma il socialismo

marxista deve sempre rimanere un portento per gli storici del pensiero come una

dottrina così illogica e stupida possa avere esercitato un’influenza così potente e

durevole sulle menti degli uomini e, attraverso questi, sugli eventi della storia. (…)

Io critico il socialismo di stato dottrinario (…) perché non afferra il significato di

quanto accade realmente. (…) » (Keynes, 1926, La fine del laissez faire).

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Keynes: la “fine del laissez-faire” « (…) Vengo poi a un criterio di agenda che è particolarmente rilevante per ciò che è

urgente e deisiderabile fare nel prossimo futuro. Dobbiamo tendere a separare quei

servizi che sono tecnicamente sociali da quelli che sono tecnicamente individuali.

L’azione più importante dello stato si riferisce non a quelle attività che gli individui

privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio di azione

degli individui, a quelle decisioni che nessuno compie se non vengono compiute

dallo stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno

già, e non farlo un po’ meglio e un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si

fa del tutto. Molti dei maggiori mali economici del nostro tempo sono frutto del

rischio, dell’incertezza e dell’ignoranza (come) la disoccupazione dei lavoratori o la

delusione di ragionevoli aspettative commerciali. Tuttavia la cura è al di fuori

dell’operato degli individui; può essere nell’interesse degli individui perfino di

aggravare il male. Credo che il rimedio per tali cose si debba cercare in parte nel

controllo deliberato della moneta e del credito da parte di un’istituzione centrale e in

parte nella raccolta e nella distribuzione su vasta scala di dati riferentesi alla

situazione economica (…) Il secondo esempio si riferisce a risparmio e investimenti

(…) non credo che questi argomenti debbano lasciarsi interamente all’arbitrio del

giudizio privato e dei profitti privati (…) Il terzo esempio concerne la popolazione

(…) ogni paese ha bisogno di una ponderata politica nazionale circa quale volume di

popolazione (…) sia più opportuna.» (Keynes, 1926, La fine del laissez faire).

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Keynes: la “fine del capitalismo individualistico”

«Il capitalismo decadente, internazionale ma individualistico, nelle cui mani ci siamo

trovati dopo la guerra non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è

giusto, non è virtuoso, - e non mantiene quel che ha promesso; ma quando ci

domandiamo che cosa possiamo mettere al suo posto, siamo estremamente perplessi.

L'internazionalismo economico dei liberisti dell‘800 supponeva che il mondo intero

fosse, o fosse per essere, organizzato sulle basi del capitalismo privato in regime di

concorrenza e libertà. Ma oggi un paese dopo l'altro abbandona questi presupposti.

La Russia è ancora nel suo esperimento particolare ma non è più sola nell'abbandono

dei vecchi presupposti. L'Italia, l'Irlanda, la Germania hanno posto gli occhi, o li

stanno ponendo, su nuove forme di economia politica. Persino paesi come

Inghilterra e Stati Uniti, che ancora si uniformano par excellence al vecchio

modello, cercano sotto la superficie un nuovo ordine economico. Ma una volta che

ci siamo permessi di disubbidire al criterio dell'utile contabile, noi abbiamo

cominciato a cambiare la nostra civiltà. È lo Stato, piuttosto che l'individuo, che

bisogna che cambi i suoi criteri. Ora, se le funzioni e gli scopi dello Stato devono

essere di tanto allargati, le decisioni riguardo a ciò che deve essere prodotto nel

paese e ciò che dovrà essere ottenuto in cambio dall'estero, dovranno essere fra le

più importanti della sua politica.» (Keynes, 1933, Autarchia Economica).

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Keynes: “teoria generale dell’occupazione” «Si crede spesso che la lotta per i salari monetari fra individui e fra gruppi determini il

livello generale dei salari reali. Siccome la mobilità dei lavoratori è imperfetta e i

salari non tendono a una precisa uguaglianza fra i vantaggi netti di occupazioni

diverse, qualunque individuo o gruppo di individui che accetti una riduzione del suo

salario monetario rispetto ad altri, soffrirà una diminuzione relativa del salario reale

e questo è per lui motivo sufficiente per opporsi a tale riduzione. (…) La lotta per i

salari monetari influisce sulla distribuzione del salario reale complessivo fra i

diversi gruppi di lavoratori. (..) Una coalizione da parte di un gruppo di lavoratori ha

l’effetto di difendere il loro salario reale relativo. Il livello generale dei salari reali

dipende dalle altre forze del sistema economico. È quindi una fortuna che i

lavoratori, per quanto inconsciamente, siano per istinto economisti più razionali di

quelli della scuola classica, in quanto oppongono resistenza a riduzioni di salari

monetari (…) mentre non oppongono resistenza a riduzioni dei salari reali che siano

connessi con aumenti dell’occupazione complessiva e lascino invariati i salari

monetari. (…) Ogni sindacato dei lavoratori opporrà resistenza alla riduzione dei

salari monetari. Ma a nessun sindacato verrà in mente di mettersi in sciopero ogni

qual volta si verifichi un aumento del costo della vita e non creano gli ostacoli a un

aumento dell’occupazione complessiva, loro attribuito dalla scuola classica.»

(Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, 1936).

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Keynes: “teoria generale dell’occupazione” «La nostra teoria può delinearsi come segue. Quando l’occupazione aumenta, aumenta

il reddito reale complessivo. La psicologia della collettività è tale che quando

aumenta il reddito reale complessivo, aumenta il consumo complessivo ma non tanto

quanto il reddito. Quindi gli imprenditori sosterrebbero una perdita se destinassero

per intero la maggiore occupazione a soddisfare la maggiore domanda per i consumi

immediati. Per mantenere un dato volume di occupazione occorre quindi che sia

realizzato un volume di investimento corrente, sufficiente ad assorbire l’eccedenza

della produzione totale sull’importo che la collettività decide di consumare quando

l’occupazione è a un livello dato. In mancanza di questo ammontare di investimento

i ricavi degli imprenditori saranno inferiori a quanto è necessario per indurli a

offrire qual dato volume di occupazione. Ne segue quindi che data quella che

chiameremo propensione al consumo della collettività, il livello di equilibrio della

occupazione dipenderà dall’ammontare dell’investimento corrente. L’ammontare

del’investimento dipenderà a sua volta da quello che chiameremo l’incentivo ad

investire e vedremo che l’incentivo a investire dipende dalla relazione fra la scheda

dell’efficienza marginale del capitale e l’insieme dei tassi di interesse su prestiti di

scadenze e rischi diversi. Data la propensione al consumo e dato il flusso degli

investimenti esisterà un solo livello di occupazione compatibile con l’equilibrio.»

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Keynes: “teoria generale dell’occupazione” 1. In un dato stato della tecnica, delle risorse e dei costi, il reddito sia

monetario che reale dipende dal volume di occupazione N:Y=φ (N);

2. La relazione fra reddito della collettività e la spesa prevedibile di

questa in consumi dipenderà dalle caratteristiche psicologiche della

collettività stessa, che chiameremo propensione al consumo (χ);

3. La quantità di lavoratori N che gli imprenditori decidono di occupare

dipende dalla somma di due quantità: la spesa prevedibile della

collettività in consumi (C) e il prevedibile ammontare che destinerà a

nuovi investimenti (I); C + I è la domanda effettiva (o aggregata);

4. Poiché C + I = Y = φ (N) è la funzione di offerta complessiva (o

aggregata) e C = χ (N) è la funzione di consumo dipendente dalla

propensione al consumo, ne deriva che φ (N) - χ (N) = I;

5. Il volume di occupazione dipende I) dalla funzione di offerta aggre-

gata φ, II) dalla propensione al consumo χ e III) dall’investimento.

Questa è l’essenza della teoria generale dell’occupazione.

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Keynes: “teoria generale dell’occupazione” Y = prodotto nazionale lordo

C = consumi; I = investimenti

G = spesa pubblica;

X = export; Z = import

Y = C + I + G + X - Z

Y + Z = offerta aggregata

C+I+ G + X = domanda aggregata

Equilibrio di piena occupazione:

Yp = C + I (per G, X e Z=0)

Equilibrio di sottoccupazione:

Y0 < Yp = deficienza di PNL

Np–N0 = disoccupazione involontaria

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Keynes: “teoria generale dell’occupazione” Quando l’occupazione aumenta, C aumenterà ma non tanto quanto Y,

poiché quando il reddito aumenta aumenterà anche il consumo, ma in

misura inferiore. La chiave del nostro problema pratico risiede in

questa legge psicologica; poiché da essa deriva che quanto maggiore è

il volume dell’occupazione, tanto maggiore sarà il divario fra il prezzo

complessivo di offerta della produzione ad essa corrispondente Y e la

somma C che gli imprenditori possono prevedere di ricavare dalla

spesa dei consumatori. Quindi se la propensione al consumo rimane

invariata, l’occupazione non può crescere se nello stesso tempo I non

aumenta in misura tale da colmare il divario crescente fra Y e C. Così

il sistema economico può trovarsi in equilibrio stabile con N ad un

livello inferiore alla piena occupazione. Se la propensione al consumo

e il flusso di nuovi investimenti sono tali da creare una domanda di

lavoro insufficiente il livello effettivo dell’occupazione non raggiunge

l’offerta di lavoro potenzialmente disponibile al salario vigente.

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Keynes: “teoria generale dell’occupazione” Questa analisi ci offre una spiegazione del paradosso della povertà in

mezzo all’abbondanza: basta un’insufficienza della domanda effettiva

(aggregata) perché l’incremento dell’occupazione sia arrestato prima

di raggiungere il livello di piena occupazione (e) tanto più ricca è la

collettività tanto maggiore tenderà a essere il divario fra la produzione

effettiva e quella potenziale. (…) Se in una collettività potenzialmente

ricca l’incentivo a investire è debole, essa sarà costretta, per effetto del

principio della domanda effettiva, e nonostante la sua potenziale

ricchezza, a ridurre la propria produzione effettiva (...) Ma vi è ancora

di peggio. Non soltanto la propensione marginale al consumo è più

debole in una collettività ricca, ma siccome il capitale già accumulato

è maggiore, vi saranno possibilità meno attraenti di investimenti

ulteriori, a meno che il tasso di interesse discenda rapidamente; la qual

cosa ci conduce alla teoria del tasso di interesse e alle ragioni per cui

esso non discende automaticamente (e così) scopriremo che la moneta

rappresenta una parte essenziale della nostra teoria dell’interesse.

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Keynes: “moltiplicatore dell’investimento” Il concetto del moltiplicatore venne introdotto per la prima volta da Kahn

nell’articolo The relation of Home Investment to Unemployment. Il suo ragionamento riposava sulla nozione (…) che la propensione al consumo svolga un’azione per stimolare o ritardare l’investimento: la variazione del volume di occupazione sarà funzione della variazione netta degli investimenti. Essendo ∆ Y = ∆ C + ∆ I possiamo scrivere ∆ Y = k ∆ I dove (1 – 1/k) è la propensione marginale al consumo e k è il moltiplicatore dell’investimento; si può dimostrare che χ=(1–1/k): se k = 1/(1–χ), k (1–χ) = 1, k – k χ = 1, k χ = (1 – k) e χ = (1 – 1/k).

Il moltiplicatore di Kahn si può chiamare moltiplicatore dell’occupazione (k’) e è diverso dal nostro (k) perché misura il rapporto fra incremento dell’occupazione totale e incremento dell’occupazione primaria nelle attività di investimento. Se la collettività consuma 9/10 di incremento di reddito, il moltiplicatore sarà 10 e l’occupazione suscitata mediante opere pubbliche sarà dieci volte l’occupazione primaria offerta dalle opere pubbliche. (Keynes, Teoria generale dell’occupazione, 1936)

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Keynes: “moltiplicatore dell’investimento” Y = C + I

C = C0 + χ Y

χ propensione marginale al

consumo (χ <1)

per C0 = 0, C = χ Y

Y = χ .Y + I → Y – χ Y = I

∆ Y (1 – χ) = ∆ I

∆ Y = ∆ I . 1 / (1 – χ)

1 “moltiplicatore del

(1- χ) nuovo investimento”

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Keynes: “moltiplicatore dell’investimento”

Y = k I

Per far sì che il reddito reale coincida con il reddito potenziale (Y0 = Yp), si devono incrementare gli investimenti, componente flessibile della domanda aggregata. L’investimento dipende dalle opportunità di innovazione e dai tassi di interesse richiesto dal sistema bancario (cresce con nuove opportunità e cala al crescere dei tassi)

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Keynes: “liquidità” per transazioni e speculativa Sia M1 la quantità di moneta detenuta per soddisfare il motivo delle

transazioni e quello precauzionale e M2 quella detenuta per soddisfare

il motivo speculativo. Corrispondentemente a queste due quantità si

hanno due funzioni di liquidità, L1 e L2. L1 dipende dal livello del

reddito, mentre L2 dipende dalla relazione fra il tasso di interesse e lo

stato delle aspettative. Quindi:

M = M1 + M2 = L1 (Y) + L2 (r)

La relazione delle variazioni di M rispetto ad Y dipende dal mondo in cui

si verificano le variazioni di M. (Se) le variazioni di M sono dovute

all’emissione di carta moneta da parte del governo per far fronte alle

sue spese correnti (anche in questo caso) la nuova moneta affluisce

come reddito di qualcuno. Tuttavia il nuovo livello di reddito non si

manterrà abbastanza alto affinché M1 assorba tutto l’aumento di M:

una certa parte della moneta troverà sbocco nell’acquisto di titoli fino

a quando r è disceso tanto da provocare un aumento della grandezza

di M2 e nello stesso tempo da stimolare un aumento di Y (…)

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Keynes: “liquidità” per transazioni e speculativa (…) di ampiezza tale che la nuova moneta sia assorbita o in M2 o in quel

M1 che corrisponde all’aumento di Y causato dalla discesa di r. (…) la stessa cosa nel caso in cui la nuova moneta possa venir emessa solo mediante un miglioramento delle condizioni del credito da parte delle banche. (…) una variazione di M opererà variando r e una variazione di r porterà a un nuovo equilibrio variando in parte M2 e in parte Y e quindi M1. La ripartizione dell’incremento di moneta fra M1 e M2 in una nuova posizione di equilibrio dipenderà dalla rispondenza del reddito a un incremento dell’investimento (…) infine vi è la questione della relazione fra M2 e r: l’incertezza quanto all’andamento futuro del tasso di interesse è l’unica spiegazione intellegibile di preferenza per la liquidità che induce a detenere la quantità M2 di moneta. Ne segue che una data quantità M2 non avrà relazione quantitativa con un dato tasso di interesse r: ma ci sono due ragioni per supporre che una discesa di r implicherà l’aumento di M2: un ribasso di r riduce il tasso di mercato “sicuro” e quindi accresce il rischio della non-liquidità; il ribasso di r riduce i guadagni ottenibili dalla non-liquidità che sono un premio di assicurazione che riducono il rischio di perdite in c/capitale.

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Keynes: la “trappola della liquidità” L = liquidità

L1 = liquidità per investimenti

L2 = liquidità per speculazioni

L = L1 + L2

L1 = f (Y) (L1 funzione di Y)

L2 = L (r) (L2 funzione del tasso

di interesse)

Se r diminuisce la liquidità si

indirizza alla speculazione

che assorbe le disponibilità

prima rivolte a investimenti

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Keynes: equilibrio macroeconomico vs sviluppo

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Sviluppo e ciclo economico secondo Keynes Se supponiamo (…) che il moltiplicatore dell’occupazione sia uguale al

moltiplicatore dell’investimento, applicando questo all’incremento (o al decremento) dell’investimento provocato da vari fattori (parità fra efficienza marginale del capitale e tasso di interesse, nella fiducia che non prevalga l’atteggiamento psicologico per la liquidità; aumento del consumo nella previsione di aumento di reddito e di risparmio, residuo della propensione al consumo) si ha la variazione dell’occupazione. Un incremento o decremento dell’occupazione fa innalzare o ridurre la preferenza per la liquidità e aumentare la domanda di moneta. La posizione di equilibrio è influenzata da queste e altre ripercussioni.

Una caratteristica preminente del sistema economico è che pur essendo soggetto a ampie fluttuazioni della produzione e dell’occupazione non è violentemente instabile. Il sistema rimane in una condizione cronica di attività inferiore al normale per un periodo notevole senza tendenza precisa verso la ripresa o la rovina totale. Sull’esaurimento di tali fluttuazioni è fondata la teoria dei cicli economici, aventi fasi regolari. (Keynes, 1936).

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Keynes: la spesa pubblica antidoto alla stagnazione

La teoria precedente è moderatamente conservatrice nelle conseguenze che implica; mentre indica l’importanza vitale di stabilire controlli centrali in materie ora lasciate all’iniziativa individuale, non tocca molti altri campi di attività. Lo Stato deve esercitare un’influenza direttiva circa la propensione al consumo in parte con il suo sistema di imposizione fiscale, in parte fissando il tasso di interesse e in parte, forse, in altri modi. Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per farci avvicinare alla piena occupazione, sebbene ciò non escluda ogni sorta di espedienti e di compromessi con i quali la pubblica autorità possa collaborare con l’iniziativa privata. Ma oltre a questo aspetto non si vede nessun’altra necessità di un sistema di socialismo di stato che abbracci la maggior parte della vita economica della collettività. Non è importante che si assuma la proprietà dei mezzi di produzione. Se lo Stato è in grado di determinare l’ammontare complessivo delle risorse destinata a accrescere i mezzi di produzione e il loro tasso base di remunerazione esso avrà compito quanto è necessario. (Keynes, 1936).

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Limiti dell’effetto moltiplicatore della spesa pubblica

Aumento di spesa pubblica senza un parallelo aumento

del prelievo fiscale:

Y = k G

(se gli investimenti privati non si attivano, si applica a

G l’effetto moltiplicatore k, applicabile a I)

Aumento di spesa pubblica con parallelo aumento del

prelievo fiscale (t = % di pressione fiscale):

Y = 1/1- k (1-t) G = 1/ 1- k + k . t) G

L’effetto moltiplicatore della spesa pubblica si riduce

tanto di più quanto più alta è la pressione fiscale.

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SCHUMPETER: CRISI DEL CAPITALISMO INDIVIDUALE

CAPITALISMO E MONOPOLIO:

LA CONCORRENZA TRA CAPITALISTI FINISCE COL PRENDERE

LA FORMA DI CONCORRENZA FRA MONOPOLISTI I QUALI

RESTANO GLI UNICI IMPRENDITORI IN GRADO DI AZIONI

ANTICICLICHE IN FASE DI RECESSIONE, NON RIDUCENDO I

PREZZI MA LE QUANTITA’ PRODOTTE.

PROFITTO E INNOVAZIONE:

L’MPRESA MONOPOLISTICA GODE DI PROFITTI DA INVESTIRE

NELLE DIVISIONI RICERCA & SVILUPPO, RIUNENDO IN SE’ I

DUE MOTORI DELLO SVILUPPO: LA RICERCA SCIENTIFICA

E TECNOLOGICA E LA CAPACITA’ MANAGERIALE ATTA AD

INTRODURRE LE INNOVAZIONI DI PRODOTTO/PROCESSO IN

GRADO DI RIATTIVARE UNA NUOVA FASE DI PROSPERITA’.

Schumpeter J., Capitalismo, socialismo e democrazia, 1942

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SCHUMPETER: CRISI DEL CAPITALISMO INDIVIDUALE

CAUSE DELLA CRISI:

• obsolescenza della funzione imprenditoriale e ruolo

crescente della tecnocrazia e del management;

• declino della funzione storica della borghesia che è

sostituita dal capitalismo manageriale;

• fine delle libere contrattazioni dei salari con nuove

forme di concertazione sindacati-imprese-governi;

• concertazione anche per richiedere l’intervento dello

stato per stimolare la ripresa della fase ascendente

del ciclo con la spesa pubblica e le forme di welfare. •

Schumpeter J., Capitalismo, socialismo e democrazia, 1942

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Kuznets: una “teoria” dello sviluppo?

Non ci eravamo proposti tanto di offrire una rassegna completa di fatti empirici quanto di esaminare le analogie e le discordanze in materia di sviluppo economico nel corso degli ultimi due secoli per indicare gli elementi di cui tener conto una eventuale teoria dello sviluppo:

1. sviluppo demografico: ci troviamo di fronte a due difficoltà: discesa del tasso di mortalità; declino del tasso di natalità a lungo termine;

2. aumento dello stock di conoscenze: alla base della enorme crescita demografica e economica degli ultimi due secoli sta l’accumulazione delle conoscenze empiriche derivate dal lavoro nelle scienze naturali e base di trasformazioni strutturali dell’industria e della distribuzione del prodotto fra consumo e formazione del capitale;

3. adattamento interno al potenziale di sviluppo: la teoria economica (…) ha avuto la funzione di mostrare come un fenomeno sociale sia il risultato di una serie di atti individuali (…) il contributo maggiore della scuola fisiocratica, riconosciuta fondatrice dell’economia moderna, è il tableau économique (…) e gli aspetti caratteristici della

(Kuznets, Sviluppo economico e struttura, 1965)

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Kuznets: una “teoria” dello sviluppo?

(…) analisi economica sono schemi di riproduzione e domanda/offerta.

Ci sono profonde differenze tra la visione dello sviluppo di Smith

come processo determinato dalla espansione del mercato che genera

ulteriore divisione del lavoro e di concorrenza fra imprenditori e la

visione di Malthus e Ricardo, per i quali la pressione demografica

avrebbe reso gli imprenditori impotenti di fronte a un progressivo

ristagno, o di Marx che vedeva i capitalisti una classe storica costretta

dall’inevitabile contrazione del tasso di surplus alla distruzione dei

concorrenti e alla crescita del proletariato, o di Schumpeter che

considera gli imprenditori un’élite di innovatori capaci di vincere al

resistenza al nuovo dei tradizionalisti (…) in proposito è illuminante

che i concetti teorici citati siano riconducibili a situazioni storiche

diverse (impostazione razionalista in Smith, richiami eroico-elitari in

Schumpeter) perché le trasformazioni tecnologiche e i sistemi bancari

per il loro finanziamento erano appena in embrione ai tempi di Smith.

(Kuznets, Sviluppo economico e struttura, 1965)

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Kuznets: una “teoria” dello sviluppo?

Se la teoria dell’adattamento interno deve valutare i fattori che giocano sia negli elementi dinamici, che danno la spinta originaria, sia nella risposta volente o nolente di tutti i gruppi sociali la procedura più conveniente consiste nel seguire esplicitamente in tutti i suoi aspetti la sequenza delle modifiche strutturali che accompagnano lo sviluppo economico. Lo studio dei dati empirici rivela la relativa persistenza e uniformità delle modifiche: industrializzazione, urbanesimo, crescenti dimensioni dell’impresa, maggiore spersonalizzazione organizzativa, modifiche nella distribuzione quantitativa del reddito fra consumo e formazione del capitale, mutata funzione dello stato, tendenze quanti-qualitative della forza lavoro, evoluzione delle istituzioni finanziarie, trasformazioni di lungo periodo della struttura produttiva (riduzione dell’agricoltura, crescita e poi riduzione dell’industria, crescita del terziario). Una stretta connessione fra tasso di sviluppo economico e modifiche strutturali può essere un importante anello nella ricerca causale dello sviluppo economico moderno (…)

4. rapporti esterni delle unità nazionali

5. interrelazioni (Kuznets, Sviluppo economico e struttura, 1965)

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Kuznets: i caratteri del sottosviluppo

- Reddito pro capite inferiore al reddito pro capite dei paesi sviluppati prima del loro decollo industriale

- Reddito per unità lavorativa molto basso a causa della scarsa produttività del lavoro in agricoltura

- Non ci sono settori tecnologicamente avanzati che possano assorbire l’eccedenza di lavoratori agricoli

- Fra i ceti sociali esistono forti disparità di reddito

- Prevale nettamente il consumo sul risparmio

- Le istituzioni politiche (dominate da gruppi familistici o tribali) sono avverse ai cambiamenti sociali connessi allo sviluppo economico.

-

(Kuznets, Sviluppo economico e struttura, 1965)

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Lewis: il “modello dualistico” del sottosviluppo:

Per il modello dualistico il profitto dei capitali investiti nei paesi sotto- sviluppati è reinvestito nei paesi sviluppati dove esistono opportunità di investimento in nuove tecnologie produttive e/o organizzative che si presume diano profitti più alti e/o più garantiti di quelli ottenibili dagli investimenti nei paesi più arretrati (soggetti a rischi di varia natura).

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Kuznets: disparità di reddito nei paesi sviluppati

Lo sviluppo è un processo

sequenziale sbilanciato: non

beneficia tutti allo stesso

tempo; all’inizio, il processo

di sviluppo favorisce alcuni

gruppi sociali e altri gruppi

raggiungono pari condizioni

in un secondo tempo.

In fase iniziale di sviluppo la

disuguaglianza cresce ma,

quando i suoi benefici sono

distribuiti più capillarmente,

tende a diminuire.

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Kuznets: disparità di reddito nei paesi sviluppati

L’ipotesi di Kuznets è sottoposta a test con risultati contraddittori. La maggior parte dei test rifiuta l’ipotesi; la versione dinamica del modello di Kuznets mostra che una crescita rapida porta a disparità indipendentemente dal livello iniziale medio di reddito pro capite. Osservando la transizione economica in Europa dell’est e in Asia centrale si hanno risultati contraddittori: da un lato si è trovata significativa correlazione negativa tra crescita economica e modifica della disuguaglianza; dall’altro in paesi a rapida crescita (Iran, Taiwan, Sud Corea) la disparità è diminuita e in altri (Messico, Panama) è aumentata: in alcuni paesi in via di sviluppo (India, Perù, Filippine) la crescita del PIL è accompagnata dal peggioramento della quota di reddito del 40% della popolazione a minore reddito, mentre in altri (Sri Lanka, Colombia, Costa Rica) interventi specifici hanno fatto aumentare il reddito della frazione della popolazione a più basso reddito.

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Kuznets: disparità di reddito nei paesi sviluppati