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1 Teorie dell’argomentazione Modulo 1: reductio ad absurdum a.a. 2012-3 primo semestre Richard Davies Indicazioni di lettura per frequentanti e per non-frequentanti

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Teorie dell’argomentazione

Modulo 1: reductio ad absurdum

a.a. 2012-3 primo semestre

Richard Davies

Indicazioni di lettura per frequentanti

e per non-frequentanti

2

Indice Introduzione

Obblighi per frequentanti e non-frequentanti 3

(1) Obblighi comuni 3

(2) Obblighi per i frequentanti 3

(3) Obblighi per i non-frequentanti 4

Seminario di supporto 4

Programma delle lezioni del semestre 6

Testi (in ordine cronologico)

Platone, Teeteto, 169-72 8

Platone, Parmenide, 130-33 13

Aristotele, Protrettico, fr. 2 20

Aristotele, Sull’interpretazione, ix 22

Aristotele, Metafisica, IV, iii-iv (fino a 1006a28) 26

Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 39-41 29

Sant’Agostino, Confessioni, XI, 12-18 33

Sant’Anselmo, Proslogion 2-4 39

San Tommaso, Somma Theologica, I, qu. 2 42

Renato Cartesio, Meditazioni, I-III 48

David Hume, Dialoghi sulla religione naturale, IV 74

F. Nietzsche, ‘Verità e bugie …’ 80

J.M’T.E M’Taggart, ‘L’irrealtà del tempo’ 92

Letture autonome

Percorsi di approfondimento 110

Strumenti di consultazione 112

Introduzioni generali alla filosofia 113

Prontuario per la stesura di una tesina 114

3

Introduzione

Obblighi per frequentanti e non-frequentanti

(1) Obblighi comuni, sia per i frequentanti che per i non-frequentanti (5 crediti formativi

universitari [CFU])

Tutti gli studenti del corso sono tenuti a familiarizzarsi con le prime tre parti (pp. 9-193)

di:

P.G. Odifreddi Il diavolo in cattedra. Einaudi, Torino, 2001 prime tre parti;

– gli studenti del corso 10617 sono tenuti a familiarizzarsi con tutti i capitoli inclusi quelli

contrassegnati dall’autore stesso un asterisco (*: capp. ix, x, xi, xiv, xv)

– gli studenti del corso 24099 possono permettersi di ommettere i capitoli ix, x, xi, xiv, xv

in quanto relativamente tecnici

E

i testi contenuti in questa dispensa a pp. 8-109

(2) Obblighi e modalità di esame per i frequentanti (5 CFU)

Per la frequenza effettiva si intende la presenza ad almeno due terzi delle lezioni del

modulo. L’esame orale verterà sugli argomenti discussi in aula in connessione con i testi di

cui sopra (‘Obblighi comuni’).

In aggiunta all’interrogazione prevista dalla legge, gli studenti hanno l’opzione di due

altre modalità di verifica, che possono concorrere alla valutazione finale.

La prima è un paper scritto a fine modulo. Questo è della durata di due ore e consiste in

una scelta di tre domande delle sei proposte riguardanti il contenuto delle lezioni.

La seconda modalità alternativa a disposizione dei frequentanti è l’elaborazione di una

tesina in 5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario per la stesura

di una tesina’, pp. 114-21). Gli studenti possono scegliere uno degli argomenti proposti per

i non-frequentanti (‘Percorsi di approfondimento’, pp. 110-12) o proporre un percorso

personale inerente ai temi del corso; in questo secondo caso è vivamente consigliato previo

accordo sulle letture e sul titolo con uno dei docenti del corso. Una tesina vale per 5

formativi crediti universitari (CFU).

4

(3) Obblighi e modalità di esame per i non-frequentanti (5 CFU)

I non-frequentanti devono leggere i testi di cui sopra (‘Obblighi comuni’) e preparare uno

degli approfondimenti proposti più sotto (‘Percorsi di approfondimento’, pp. 110-12). Per

la preparazione si intende una lettura accurata e riflessiva, mirata a sostenere

un’interrogazione orale sia sull’argomento scelto sia sui testi di base.

Come preparazione all’esame orale previsto dalla legge, i non-frequentanti possono

elaborare una tesina di 5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario

per la stesura di una tesina’ pp. 14-21) o su uno degli argomenti proposti tra i ‘Percorsi di

approfondimento’ o proponendo un progetto personale inerente ai temi del corso; in questo

secondo caso è vivamente consigliato previo accordo sulle letture e sul titolo con uno dei

docenti del corso. Una tesina vale 5 crediti formativi universitari (CFU)

Seminario di supporto: “Il guscio della filosofia”

30 ore: 3 ore la settimana nel primo semestre

A sostegno non solo del corso di Teorie dell’argomentazione dello stesso docente ma

anche di quelli dei professori Bottani (Filosofia teoretica) e Paternoster (Filosofia del

linguaggio), il laboratorio si prefigge di illustrare ed esaminare alcuni dei concetti e delle

tecniche basilari della logica formale e simbolica.

Mentre per Aristotele, la teoria del ragionamento (analitica) era uno strumento non solo

per la filosofia ma anche per le scienze più in generale, per gli antichi stoici, lo studio delle

argomentazioni (dialettica) stava alle altre discipline filosofiche (fisica ed etica) come il

guscio di un uovo sta all’albume e al tuorlo (vedi il testo di Diogene Laerzio più giù a pp.

29-32).

Partendo dagli elementi delle inferenze, come la distinzione tra premessa/e e conclusione,

si distinguono i vari rapporti che possono istaurarsi all’interno di un discorso

argomentativo, individuando ed esemplificando le tre grandi famiglie di deduzioni,

induzioni e abduzioni. Poiché le induzioni e le abduzioni non si prestano a trattamento

propriamente formale, la tradizione di studi logici ha dedicato loro relativamente poco

interesse, mentre le deduzioni, ossia i ragionamenti in cui, poste certe cose, qualcosa

d’altro ne consegue di necessità e in virtù di esse, sono state teorizzate in modo

sistematico. La nozione di ‘conseguire di necessità’, di ‘trasmettere la verità’ o di ‘validità’

sta, dunque, al cuore dell’elaborazione dei vari sistemi deduttivi. Questa nozione viene

esemplificata attraverso una riconstruzione della ‘analitica’ aristotelica, ossia la teoria del

sillogismo.

5

Anche se Aristotele stesso non la esplicita, il suo operato dipende da una distinzione tra le

costanti logiche e le variabili; nel suo caso, questa si esprime nella differenza tra termini

come ‘tutti’ e ‘qualche’ da un lato e i nomi di proprietà come ‘essere uomo’ e ‘essere

mortale’ dall’altro. Un sistema logico è formale nella misura in cui le sue costanti

determinano rapporti di inferenza valida a prescindere dalle sostituzioni delle variabili.

A partire degli ultimi decenni dell’Ottocento, la logica ha preso una svolta decisamente

simbolica, sostituendo per le espressioni del linguaggio ordinario, come ‘non’, ‘e’, ‘se’,

‘ogni’, ‘il/la’ ‘deve’ ecc., dei segni grafici di non immediata interpretabilità, ma con

definizioni molto precise e univoche. Tali simboli sono stati adottati nella filosofia di

stampo analitico, non solo per l’elaborazione di sistemi che generalizzano e integrano la

teoria del sillogismo aristotelica, ma anche per l’espressione di ragionamenti e tesi

propriamente filosofici. Nell’esporre e indagare questi sviluppi si discuterà anche la

questione di ‘traduzione’ tra linguaggi naturali e simbolismi artificiali.

Non essendo contemplati crediti formativi universitari per la frequenza del seminario, non

si prevede valutazione formale, ma gli studenti sono incoraggiati a partecipare attivamente

alla discussione e agli esercizi in classe.

Le discussioni si muovono da parti del testo del docente Gli oggetti della logica (Mimesis,

Milano, 2009) di cui stralci saranno messi a disposizione sul sito del corso.

Altre letture pertinenti

Francesco BERTO: Logica da zero a Gödel, Laterza, Bari-Roma, 2007 (capp. 1-3, con

esercizi a fine capitolo)

Andrea IACONA: L’argomentazione, Einaudi, Torino, 20102 (capp. 1 e 2, con esercizi a

fine sezione)

Dario PALLADINO: Corso di logica, Carocci, Roma, 2004 (con esercizi a fine capitolo)

Achille VARZI (et al.): Logica, McGraw-Hill, Milano, 2004 (capp. 1-7, con esercizi a fine

sezione)

6

Programma delle lezioni del semestre

lezione

Argomento trattato Testo di riferimento

1 Materiali e modalità del corso

– la logica come il “guscio della filosofia”

Diogene Laerzio, Vite,

VII, 39-41

2 Un ragionamento dilemmatico contro il non-

filosofare

Aristotele, Protrettico,

2

3 Due reductiones classiche in matematica

4 Il paradosso di Russell e l’insostenibilità della

nozione “ingenua” di classe o insieme

– pillole di autoreferenzialità

5 Si annidano paradossi anche all’interno delle

nozioni di linguaggio e verità?

Nietzsche, ‘Verità e

bugie...’

6 La metafora delle metafore e lo scivolo

relativista

Nietzsche, ‘Verità e

bugie...’

7 La dottrina di Protagora: ‘l’uomo è la misura di

tutte le cose’

Platone, Teeteto, 169-

72

8 Le risorse del relativismo

9 La sconfitta del relativismo per

autoconfutazione

Platone, Teeteto, 169-

72

10 Il posto del Principio di Non-Contraddizione

(PNC) nel pensiero aristotelico

Aristotele, Metafisica,

IV, iii

11 Varie formulazioni del PNC

12 La difesa “confutatoria” del PNC Aristotele, Metafisica,

IV, iv

13 Rapporti tra il PNC con la Legge del Terzo

Escluso (LTE)

14 Eccezioni alla LTE: vaghezza, passati remoti e

futuri contingenti?

Aristotele, Sull’

interpretazione, ix

15 Cosa sappiamo del passato e del futuro?

7

16 I tratti basilari della durata Agostino, Confessioni,

XI, 12-18

17 Due concezioni dei rapporti temporali:

tentativo di derivare un risultato da un dilemma

M’Taggart,

‘L’irrealtà...’

18 Tempo e cambiamento: perchè la B-Serie non

basta per la temporalità

M’Taggart,

‘L’irrealtà...’

19 Tempo e passaggio: obiezioni alla A-Serie M’Taggart,

‘L’irrealtà...’

20 Regressi all’infinito: viziosi e innocui

21 Il Ragionamento del Terzo Uomo Platone, Parmenide,

130-3

22 Può il mondo essere del tutto diverso da come

la concepiamo?

23 Ciò che si può revocare in dubbio e lo scivolo

scettico

Cartesio, Meditazioni,

I

24 Di cosa è capace il dèmone maligno? Cartesio, Meditazioni,

I

25 Il dèmone non può farmi dubitare della mia

propria esistenza

Cartesio, Meditazioni,

II

26 La negazione di Dio porta in contraddizione? Cartesio, Meditazioni,

III

27 Varie formulazioni del ragionamento

“ontologico”

Anselmo, Proslogion,

2-5

28 Dipendenze causali e modelli esplicativi Hume, Dialoghi, VII

29 Alcune vie per dimostrare l’esistenza di un Dio Tommaso, Somma, I,

2, 3

30 Sinossi delle tappe percorse

8

Platone di Atene (427-347 a.C.)

Teeteto lingua originale: greco

edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra, 1578

tr. it. G. Giardini, Bompiani, Milano, 2001

[Stephanus, vol. I, p. 169]

(Socrate sta discutendo la natura della scienza e prende in esame la dottrina di Protagora

secondo cui ‘l’uomo è misura di tutte le cose’)

La dottrina di Protagora1

SOCRATE: Per prima cosa, dunque, riesaminiamo il problema allo stesso punto di prima e

consideriamo se eravamo malcontenti, a ragione o a torto, biasimando il ragionamento

che presupponeva che ciascuno è autosufficiente a se stesso rispetto alla conoscenza.

Ma Protagora non convenne con noi che quanto alla conoscenza del meglio e del peggio

alcuni si distinguono di gran lunga e questi proprio sono i sapienti. Non è così?

TEODORO: Sì.

SOCRATE: Se dunque egli, essendo presente, ce lo avesse concesso, e non avessimo

invece dovuto ammetterlo noi, prendendo la sua difesa, non ci sarebbe affatto bisogno

di riprendere la questione per renderla consolidata. Ora, forse, qualcuno potrebbe

giudicarci senza diritto di fare questa ammissione in vece sua. Per questo motivo è cosa

migliore concordare in maniera più chiara su questo stesso problema. Infatti non è che

cambi poco se a cosa sta così o in maniera diversa.

TEODORO: È vero.

SOCRATE: Dunque [pag. 170] non con il concorso di altri, ma del suo ragionamento, nel

modo più breve, cerchiamo di comprendere quello che è il suo assenso.

TEODORO: Come?

SOCRATE: Così: dice egli che quel che pare a ciascuno questo anche è per colui al quale

pare? 1 I titoletti in grassetto non appaiono nel testo originale, ma sono una possibile guida per scandire le tappe del ragionamento

9

TEODORO: Lo dice, sì.

L’apparente esclusione dell’opinione falsa

SOCRATE: E dunque, Protagora, anche noi manifestiamo il pensiero di un uomo, o meglio

di tutti gli uomini, quando affermiamo che per certe questioni non c’è nessuno che non

consideri se stesso più sapiente degli altri, per altre questioni invece non stimi gli altri

migliori di sé, e che in mezzo a grandissimi pericoli, come quando sono esposti a guerre

e malattie, al mare in tempesta, come a degli dèi si tengono vicini a quelli che in

ciascuna di queste circostanze hanno il potere, perché sembrano loro dei salvatori,

mentre non sono diversi in altro da loro, se non per il sapere. E ogni condizione umana è

piena di persone alla ricerca dei maestri e comandanti o per sé o per altri esseri viventi,

o per iniziative che intendono compiere, ma lo è di individui che ritengono di essere

capaci di insegnare e di esserlo altrettanto a comandare. E in questi atteggiamenti cosa

diremo, se non che gli stessi uomini pensano che esista, in loro, sapienza e ignoranza?

TEODORO: Niente altro.

SOCRATE: Gli uomini dunque non considerano la sapienza vero pensiero e l’ignoranza

opinione falsa?

TEODORO: Ebbene?

Può Protagora contraddire qualcuno che lo contraddice?

SOCRATE: Dunque, Protagora, che ne faremo del tuo ragionamento? Diciamo dunque che

gli uomini nutrono talvolta opinioni vere e talvolta opinioni false? Da ambedue le

ipotesi ne viene che non sempre gli uomini nutrono opinioni vere, ma vere e false.

Considera infatti tu stesso, Teodoro, se qualcuno dei seguaci di Protagora, o tu stesso,

volessi affermare con forza che nessuno considera un altro ignorante e nutre pure false

opinioni?

TEODORO: Ma è incredibile, Socrate.

SOCRATE: Ma giunge a tal punto di necessità chi sostiene che l’uomo è misura di tutte le

cose.

TEODORO: E come?

SOCRATE: Ma quando tu dai un giudizio di per te stesso su una cosa, e poi manifesti a me

su quella stessa cosa il tuo parere, questo per te, secondo il ragionamento di Protagora,

sarà vero, ma per noi e tutti gli altri non è forse possibile divenire giudici, o dobbiamo

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sempre giudicare che tu hai opinioni vere? Oppure sono una infinità gli uomini che ogni

volta si contrastano pensandola all’opposto, ritenendo che tu giudichi e pensi il falso.

TEODORO: Ma, per Zeus, Socrate, sono ‘migliaia di migliaia’ gli uomini, come dice

Omero, che mi cagionano ogni sorta di difficoltà.

SOCRATE: E dunque, vuoi che diciamo che allora tu per te stesso, hai opinioni vere, ma

false per tutte queste migliaia di uomini?

TEODORO: Pare sia necessario a seguito di questo ragionamento.

SOCRATE: E cosa ne è per Protagora in persona? Se neppure Protagora avesse mai

creduto che l’uomo è misura di tutte le cose, né la maggioranza degli uomini, come del

resto non la pensano neppure, non sarebbe forse necessario che quella “verità” [pag.

171] che egli delineò non esistesse per nessuno? Se invece egli la credette realmente,

ma la maggioranza degli uomini non la crede, sai bene che quanto più numerosi sono

quelli a cui pare rispetto a quelli cui non pare, tanto più che essa non è rispetto a quelìa

che è.

TEODORO: È giocoforza se essa sarà a seconda di ciascuna opinione o non sarà.

La verità per il relativista della tesi anti-relativista

SOCRATE: C’è poi questo secondo punto che è ancor più simpatico: egli, Protagora,

rispetto alla sua opinione siccome ammette come vere anche tutte quelle che pensano gli

uomini, riconosce che sia vera l’opinione di quelli che la pensano in modo opposto al

suo e per il quale pensano che egli abbia affermato il falso.

TEODORO: Proprio così.

SOCRATE: E non concederà dunque che sia falsa la propria opinione, dal momento che

riconosce come vera quella di coloro che pensano che egli abbia sostenuto il falso?

TEODORO: Necessariamente.

SOCRATE: Ma questi altri non ammettono certo con se stessi di nutrire false opinioni.

TEODORO: Certamente no.

SOCRATE: Egli invece Protagora dal canto suo riconosce che sia vera anche questa

opinione in conseguenza di ciò che ha scritto.

TEODORO: Pare.

SOCRATE: Cominciando da tutti questi, dunque, fin dallo stesso Protagora, ci sarà un

dilemma: ancora più quando egli ammette, che chi va predicando il contrario di lui,

questo può nutrire una opinione vera, allora lo stesso Protagora dovrà concedere che né

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un cane, né il primo uomo che capita, sia misura neppure di una sola cosa che non abbia

imparato. Non è così?

TEODORO: È così.

SOCRATE: Dunque, siccome ci si trova a dubitare da parte di tutti, per nessuno la verità di

Protagora può essere vera, né per alcun altro, né per lui stesso.

TEODORO: Socrate, noi incalziamo anche troppo l’amico mio.

Conseguenze etico-politiche della dottrina di Protagora

SOCRATE: Forse, mio caro, ma non è chiaro se lo incalziamo correttamente. è probabile

però, che lui, dato che è più vecchio, sia anche più saggio di noi. E se di qui,

all’improvviso, balzasse fuori fino al collo, è molto probabile che molte cose avrebbe da

dire contro di me che vado disseminando frottole e contro di te che le accetti, poi,

calandosi giù di nuovo, se ne andrebbe via a gambe levate. Ma per noi, è necessario, io

penso, servirci di noi stessi, così come siamo e ribattere il nostro modo di pensare,

sempre alla stessa maniera. E, anche ora, cos’altro possiamo dire che chiunque

riconosce questo, cioè che uno è più sapiente di un altro, e un altro più ignorante?

TEODORO: A me pare così.

SOCRATE: E possiamo affermare anche che il ragionamento poggia soprattutto su questo

punto che noi abbozzammo, correndo in aiuto a Protagora, che la maggior parte delle

cose, le calde, le aride, le dolci e tutte le altre di questa sorta, quali sembrano, tali sono

anche per ciascuno. Ma se poi si conviene che in certe cose vi è una certa qual

differenza tra l’una e l’altra, come quello che è salutare e nocivo al nostro corpo,

Protagora dovrà pur concedere che non ogni donnetta, o ragazzotto, o animale sono in

grado di curare se stessi, conoscendo bene ciò che è giovevole alla loro salute, ma

proprio in queste faccende, se pure in altre mai, c’è differenza tra l’uno e l’altro.

TEODORO: A me pare così. [pag. 172]

SOCRATE: Parimenti nella sfera politica il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto, il santo e

il non santo, sono quali in ogni città, pensando che siano, pone nelle proprie leggi a suo

beneficio; ed in queste nessuno è più sapiente di un altro, né privato cittadino di

cittadino, né città di città. Ma nel porre una città provvedimenti di legge utili o non utili,

in questo caso Protagora, se in altri mai, concederà ancora una volta che esiste diversità

tra consigliere e consigliere, tra una città e l’altra nella loro valutazione del vero e non

avrà certo il coraggio di sostenere che quei provvedimenti che una città vara, ritenendoli

utili a sé, questi lo dovranno essere a tutti i costi. Ma a proposito di quello di cui

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parlavo, del giusto e dell’ingiusto, del santo e del non santo, chi segue Protagora si

ostina ad affermare che non c’è in natura nessuna di queste cose che abbia una sua

essenza, ma che la valutazione che si dà in comune diventa essa appunto vera, proprio

allora mentre pare valida e per tutto il tempo in cui lo pare. E quanti non abbiano in

maniera assoluta il ragionamento di Protagora, orientano la propria sapienza un presso a

poco così. Ma da un ragionamento, Teodoro, ci sopravviene un altro ragionamento e, da

uno più piccolo, un altro più grande.

13

Platone di Atene (427–347 a.C.)

Parmenide

lingua originale: greco

edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra, 1578

tr. it. M. Migliori e C. Moreschini, Rusconi, Milano 1994

Stephanus vol. III p. 130

(Socrate ha appena esposto la teoria secondo cui le cose somiglianti tra di loro si

assomigliano per partecipazione all’Idea di Somiglianza)

Esistono Idee di tutti gli oggetti?1

Pitodoro raccontava che, mentre Socrate parlava così, egli si aspettava a ogni osservazione

di vedere Parmenide e Zenone adirarsi; al contrario quelli prestavano grande attenzione a

Socrate e spesso, scambiandosi un’occhiata, sorridevano, come se fossero ammirati di lui.

Quando poi quello ebbe finito di parlare, Parmenide disse

«Socrate, sei degno di essere ammirato per lo slancio che metti nei discorsi. Ma dimmi:

tu davvero, per un tuo convincimento, le poni separate, come dici, da una parte le Idee in

sé, dall’altra le cose che di esse partecipano? E ti sembra veramente che ci sia una

somiglianza in sé separata da quella che è in noi, e che questo valga anche per l’unità, la

molteplicità e per tutte quelle determinazioni che hai ascoltato or ora da Zenone?».

«A me sembra di sì» disse Socrate.

«E anche per realtà come l’Idea in sé di giusto – chiese Parmenide – di bello, di buono e

così via?».

«Sì» rispose.

«E che anche l’Idea di uomo separata da noi e tutti quanti noi siamo, l’Idea in sé di

uomo o di fusa o di acqua?».

«Spesso mi sono trovato in difficoltà – rispose – a proposito di questi dati, se bisogna

considerarli come quelli precedenti o no».

«E allora, Socrate, sei incerto anche a proposito quelle realtà che sembrano ridicole,

come capelli, fango, sporcizia o altro, che è privo di importanza e valore, se cioè bisogna o

1 I titoletti in grassetto non sono nel testo originale, ma possono aiutare a scandire gli argomenti trattati.

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non bisogna ammettere per ognuna di queste un’Idea separata, diversa da quanta noi

trattiamo con le mani?».

«No! – ribatté Socrate –. Io credo invece che quel le cose che vediamo esistano così

come le vediamo mentre mi sembra un po’ assurdo credere che vi si una qualche Idea di

queste. In verità a volte mi ha turbato il pensiero se questo discorso non fosse applicabile a

tutte le realtà. Quando però mi sofferma su questa opinione, subito me ne allontano per il

timore di perdermi cadendo in un abisso senza fondo di chiacchiere. Allora, rifugiatomi tra

le realtà di cui prima dicevamo esistere le idee, lavoro impegnandomi su queste».

«Certo, Socrate, sei ancora giovane, – disse Parmenide – e la filosofia non ti ha ancora

preso come, a mi avviso, ti prenderà il giorno in cui non disprezzerai più nessuna di queste

realtà. Ora invece, a causa della tu età, tieni in considerazione le opinioni degli uomini»

Puo l’Idea essere separata da sé o divisa in parti?

«Ma dunque, rispondimi. Ti sembra, come dici, che vi siano alcune Idee, di cui tutte le

altre reali partecipano e da cui traggono il nome, per cui, a esempio, partecipando alla

somiglianza [p. 131] divengono simile alla grandezza grandi, alla giustizia ed alla bellezza

giuste e belle?».

«Certo» disse Socrate.

«Dunque, ciascuna realtà che partecipa, partecipa di tutta l’Idea o solo di una parte? O

c’è un qualche altro modo di partecipare diverso da questi due?».

«E come potrebbe esserci?» rispose.

«L’intera Idea ti pare dunque presente in ciascuno dei molti, rimanendo una, o come

altro?».

«In effetti, Parmenide, che cosa impedisce – disse Socrate – che sia una?».

«Sarà dunque una e identica nei molti, presente nella sua integrità nello stesso tempo in

realtà molteplici e separate: ma così sarà separata da se stessa»,

«Non è così – ribatté –. Basta che, come il giorno che, essendo uno e identico, è

presente contemporaneamente in molti luoghi e non è affatto separato da sé, così anche

ciascuna delle Idee sia una e identica nello stesso tempo in tutte le cose».

«Socrate – riprese –, tu poni tranquillamente una stessa unità insieme in più luoghi,

come se, avendo coperti con un velo molti uomini dicessi che è uno intero sui molti: non è

forse questo che volevi dire?»

«Può darsi» egli ammise.

«Il velo, dunque, sarà intero su ciascuno, o sarà una parte su uno e un’altra parte su un

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altro?».

«Una parte».

«Allora. Socrate, le Idee stesse sono divisibili e cose che ne partecipano partecipano di

una parte, e in ogni oggetto non ci sarà più un’intera Idea, ma una parte»,

«Così appare».

«Accetterai quindi, Socrate, di dire che l’Idea, che è una, sarà per noi veramente

divisibile e che sarà tuttavia una?».

«Assolutamente no» rispose.

«Osserva, infatti – disse –. Se dividi la grandezza stessa in parti e se ciascuna delle

molte cose grandi grande per una parte di grandezza più piccola del grandezza in sé, allora

tutto questo non apparirà assurdo?».

«Senz’altro» affermò.

«E allora ogni cosa, che riceva una parte piccola dell’uguaglianza, sarà uguale a

qualcosa d’altro per il possesso di una parte che è minore della stessa uguaglianza?».

«Impossibile».

«Ma supponiamo che qualcuno di noi abbia una parte della piccolezza: questa, in

quanto tale, sarà più grande della sua parte; così la piccolezza in sé sarà più grande. Inoltre,

se questa parte tolta alla piccolezza la aggiungiamo a qualcosa, questo diverti più piccolo

non più grande di prima».

«Questo non può avvenire» disse.

«Allora, secondo te, Socrate, come partecipano delle Idee le altre realtà, se non possono

partecipare né per una parte né per l’intero?».

«Per Zeus! – esclamò –. Non mi sembra facile de finirlo in qualche modo».

Può l’Idea essere infinitamente molteplice?

«E poi, che cosa pensi di quest’altro problema?».

«Quale?».

[p. 132] «Io credo che tu sia giunto a pensare l’Idea una e singola per un ragionamento

di questo tipo: quando ti sembra che vi sia una molteplicità di oggetti grandi, se li guardi

tutti insieme pare che una qualche Idea sia unica e identica in tutti ugualmente; così credi

che la grandezza sia una».

«E vero» disse.

«E se con l’anima guardi allo stesso modo tutte queste realtà, la stessa grandezza e le

altre cose grandi, non ti apparirà ancora una qualche grandezza, per la qual è necessario

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che tutte queste ti appaiano grandi»

«Sembrerebbe così».

«Emergerà cosi un’altra Idea di grandezza, accanto alla grandezza in sé e alle cose che

ne partecipano, e rispetto a tutte queste ancora un’altra, per la quale tutte saranno grandi.

Ma allora ogni Idea non sarà più una, ma infinita molteplicità»’.

Può l’Idea essere intesa come un pensiero?

«A meno che, Parmenide, – obiettò Socrate – ciascuna delle Idee non sia un pensiero e non

possa nascere in nessun altro luogo se non nelle nostre anime; così infatti sarebbe una e

singola e non potrebbe subire più le difficoltà che prima erano poste».

«E che? – disse –. Ciascuno di questi pensieri è Uno, ma è pensiero di nulla?».

«Ma questo è impossibile» rispose.

«Allora di qualcosa?».

«Sì».

«Qualcosa che è o che non è?».

«Di qualcosa che è».

«Non forse di qualcosa di unitario, che il pensiero pensa singolarmente presente in tutte

le cose, di cui costituisce una caratteristica comune?».

«Si».

«Allora, non sarà Idea questo, che è pensato come Uno, sempre identico in tutte le

cose?».

«Anche questa conclusione è necessaria».

«E allora? – riprese Parmenide –. Se dici che le altre cose partecipano delle Idee, non è

necessario che tu ammetta che ogni cosa è formata da pensieri e tutto pensa, oppure che

tutto è pensato ed è privo di pensiero?».

Può l’Idea essere intesa come modello?

«Ma, Parmenide, nemmeno questa – disse – è una soluzione logica, mentre mi sembra

preferibile assumere che le Idee stanno nella realtà come modelli e gli altri oggetti

assomigliano ad esse e sono copie. La partecipazione alle Idee delle altre cose non consiste

in altro che nell’essere fatte a immagine di quelle».

«Se dunque qualcosa assomiglia all’Idea – sostenne Parmenide – è possibile che questa

Idea non sia simile alla sua immagine, visto che essa le assomiglia? O c’è un qualche

espediente per cui il simile può non essere simile al simile?»

17

«Non c’è».

«Non è forse assolutamente necessario che il simile partecipi con il simile di un’Idea

identica per entrambi?».

«Necessario».

«Non è la stessa Idea in sé ciò per cui i simili, Partecipandone, sono simili?».

«Assolutamente».

«Allora, non è possibile che qualcosa sia simile all’Idea, né che l’Idea sia simile ad

altro, altrimenti sempre sorgerà oltre l’Idea una nuova Idea [p. 133] e, se anche questa sarà

simile a qualcosa, un’altra ancora, né mai finirà di aggiungersi una nuova Idea, se l’Idea è

simile a ciò che ne partecipa».

«È verissimo».

«Non è dunque per somiglianza che le altre realtà partecipano delle Idee, ma bisogna

cercare qualche altro modo di partecipazione».

«Così sembra».

«Vedi, Socrate – concluse –, quale difficoltà sorge se stabilisce che le Idee esistono

separare e in sé?».

«Certo».

Può l’uomo conoscere le Idee?

«Devi però sapere – disse – che, per così dire, non hai ancora colto quanto grave è la

difficoltà, se vorrai porre ciascuna Idea delle cose esistenti sempre come una e in qualche

modo distinta».

«Quale?» chiese.

«Ce ne sono molte e diverse tra loro – disse – ma la più grave è questa. Supponiamo che

qualcuno dica che non è possibile conoscere le Idee, se sono come noi diciamo debbano

essere. A chi sostiene queste affermazioni, nessuno potrebbe dimostrare che sbaglia, a

meno che non si tratti di un interlocutore dotato di molta esperienza, non privo di doti,

capace inoltre di seguire una dimostrazione complessa e dedotta laboriosamente da

premesse remote; in caso contrario sarebbe convincente la posizione di colui che sostiene

che le Idee sono inconoscibili».

«Perché, Parmenide?» domandò Socrate.

«Perché, Socrate, penso che chiunque creda, come te, all’esistenza in sé di una qualche

realtà per ciascun oggetto, dovrebbe riconoscere in primo luogo che nessuna di queste è in

noi».

18

«Infatti, altrimenti come potrebbe questa essere esistente in sé?» rispose Scierete.

«Dici bene. Dunque – riprese – anche le Idee, che sono quello che sono nelle loro

relazioni reciproche, hanno il loro essere in questo rapporto, ma non nelle relazioni con le

realtè, siano esse copie o qualche altra cosa, che sono presso di noi e di cui noi

partecipiamo dando a ciascuna il proprio nome. Queste realtà, poi, che sono presso di noi e

che hanno lo stesso nome di quelle, sono anch’esse quello che sono nella loro relazione

reciproca e non in relazione alle Idee, e traggono il nome da se stesse e non da quelle

Idee».

«In che senso?» chiese Socrate.

«In questo – rispose Parmenide –. Se uno di noi è padrone o servo, non è certo servo dei

padrone in sé di dò che è in sé padrone, né il padrone è padrone del servo in sé, di ciò che è

in sé servo, ma, essendo uomo, è l’uno o l’altro rispetto a un uomo. Invece l’essere padrone

in sé è ciò che è in relazione all’essere servo in sé, e a sua volta l’essere servo è tale in

relazione allo stesso essere padrone, mentre le cose che sono presso di noi non hanno alcun

potere su quelle né quelle sulle nostre. [p. 134] Ma, come dico, quelle sono in sé e in

rapporto a se stesse, come anche queste nostre in rapporto a loro stesse. O non capisci

quello che voglio dire?».

«Capisco perfettamente» disse Socrate.

«Dunque — riprese — anche la stessa scienza, quelli che è in quanto scienza, sarà

scienza di quella stessi verità che è in quanto verità?».

«Senz’altro».

«Invece ciascuna delle scienze, per quanto è in sé, sarà scienza di ciascuno degli esseri,

per quanto è ciascuno in sé, oppure no?».

«Sì».

«E la scienza presso di noi non sarà forse scienza della verità che è presso di noi, e

ciascuna delle scienze che sono presso di noi non sarà forse scienza d ciascuno degli esseri

che sono presso di noi?».

«Necessariamento».

«Ma le Idee in sé, come tu stesso ammetti, non sono né possono essere presso di noi».

«No, infatti».

«E gli stessi generi, nella loro singolarità, non sono forse conosciuti in qualche modo da

un’Idea in sé, quella di scienza?».

«Si».

«Che noi però non abbiamo».

19

«No».

«Quindi, nessuna delle Idee è conosciuta da noi, poiché non partecipiamo della scienza

in sé».

«Sembra di no».

«Sarà quindi inconoscibile per noi lo stesso bello in quanto è tale, e il bene e tutte quelle

che noi ammettiamo esistere come Idee in sé».

«Potrebbe essere vero».

Può Dio avere la scienza in sé e non conoscere la realtà umana?

«Guarda che c’è una conseguenza anche peggiore».

«Quale?».

«Se esiste l’Idea di scienza in sé, dovresti dire, o no, che è molto più perfetta della

scienza che è presso di noi, e lo stesso della bellezza e di tutte le altre realtà?».

«Sì».

«Dunque, se qualcun altro partecipa della scienza in sé. non pensi di dovere attribuire a

Dio più che ad ogni altro la scienza più perfetta?»

«Necessariamente».

«Allora, ti pare possibile che Dio, possedendo la scienza in sé, conosca le cose che sono

presso di noi?».

«Infatti, perché no?».

«Perché – disse Parmenide – abbiamo già ammesso, Socrate, che né quelle Idee hanno

sulle realtà presso di noi il loro potere, né queste su quelle, ma solo tra loro nel proprio

ambito».

«L’abbiamo ammesso, infatti».

«Dunque, se presso la Divinità è lo stesso potere assolute e la stessa scienza assoluta, né

il potere degli dèl dominerà su noi, né la loro scienza conoscerà noi o qualcosa presso di

noi. Analogamente noi non possiamo dominarli con il nostro potere e non conosciamo

nulla del divino con la nostra scienza; così anche quelli né sono i nostri padroni né

conoscono le cose umane, pur essendo dèi».

«Ma temo – ribatté Serrate – che sia un discorso ben strano, il privare la Divinità del

sapere».

20

Aristotele di Stagira (384-22 a.C)

Protreptico

lingua originale: greco

edizione di riferimento: W.D. Ross Aristotelis fragmenta selecta, Oxford, 1955

tr. it. G. Giannantoni, in Opere (4 voll.) a cura di G. Giannantoni, Laterza, Bari-Roma,

1973

Frammento 2 [= 2 Walzer; 51 Rose]

1. ALEX. APHROD. In Aristot. top. [C.A.G. II 2] p. 149, 9-17.

Vi sono casi nei quali, qualunque interpretazione sia assunta, è possibile, sulla base di essa,

confutare l’asserzione di partenza. Ad esempio, se uno dicesse che non si deve filosofare.

E poiché per filosofare si intende sia il ricercare proprio questo, e cioè se si deve filosofare

oppure no – come disse Aristotele nel Protreptico –, sia il seguire una teoria filosofica,

mostrando che l’una o l’altra di queste cose è propria dell’uomo, in ogni caso avremo

confutato l’asserzione di partenza. In questo caso è possibile provare l’asserzione di

partenza secondo l’una o l’altra delle due considerazioni, ma negli esempi prima citati non

è possibile né da tutte le considerazioni né o dall’una o dall’altra, bensì soltanto da una o

da più.

2. SCHOL. IN ARISTOT. An. pr. cod. Paris. 2064 f. 263 a.

Di tal genere è anche il ragionamento di Aristotele nel Protreptico: sia che si debba

filosofare, sia che non si debba filosofare, si deve filosofare; ma o si deve filosofare o non

si deve filosofare: dunque in ogni caso si deve filosofare.

3. OLYMPIOD. In Plat. Alcib. p. 144 Creuzer.

E Aristotele nel Protreptico disse che, sia che si debba filosofare, si deve filosofare; sia che

non si debba filosofare, si deve filosofare; ma allora in ogni caso si deve filosofare.

4. ELIAS In Porphyr. isag. [C.A.G. XVIII 1] p. 3, 17-23.

Oppure, come dice Aristotele nell’opera intitolata Protreptico, nella quale esorta i giovani

alla filosofia; dice dunque così: se si deve filosofare, si deve filosofare e se non si deve

filosofare, si deve filosofare: in ogni caso dunque si deve filosofare. Se infatti la filosofia

21

esiste, siamo certamente tenuti a filosofare, dal momento che essa esiste; se invece non

esiste, anche in questo caso siamo tenuti a cercare come mai la filosofia non esiste, e

cercando facciamo filosofia, dal momento che la ricerca è la causa e l’origine della

filosofia.

5. DAVID Prol. philos. [C.A.G. XVIII 2] p. 9, 2-12.

E Aristotele in un suo scritto protreptico, in cui esorta i giovani alla filosofia, dice che sia

nel caso che non si debba filosofare, si deve filosofare, sia nel caso che si debba filosofare,

si deve filosofare, e che quindi in ogni caso si deve filosofare. Ciò vuol dire che sia nel

caso in cui uno dica che non vi è filosofia, fa uso di dimostrazioni con le quali nega la

filosofia: e se fa uso di dimostrazioni, è chiaro che filosofeggia (la filosofia è infatti madre

delle dimostrazioni); sia nel caso che uno dica che vi è filosofia, ancora una volta

filosofeggia; si serve infatti di dimostrazioni, con le quali fa vedere che essa esiste. In ogni

caso dunque filosofeggia tanto colui che nega la filosofia quanto colui che non la nega;

l’uno e l’altro infatti fanno uso di dimostrazioni con le quali rendere credibile quel che

dicono; e se fanno uso di dimostrazioni è evidente che filosofeggiano: la filosofia è infatti

madre delle dimostrazioni.

6. LACTANT. Div. inst. III 16, 9.

L’Ortensio di Cicerone, disputando contro la filosofia, finisce per cadere in una

conclusione del tutto evidente, perché nel momento in cui asserisce che non si deve

filosofare, non di meno, all’apparenza, fa filosofia, perché è proprio del filosofo discutere

cosa si deve e cosa non si deve fare nella vita. Noi siamo immuni e liberi da questa accusa,

noi che facciamo alta stima della filosofia, perché è una scoperta della riflessione umana,

difendiamo la sapienza, perché è tradizione divina, e testimoniamo dell’opportunità che

tutti ne diventino partecipi.

7. CLEM. ALEX. Strom. VI, XVIII 162, 5.

E a me sembra che sia ben fondato il ragionamento: se si deve filosofare, si deve filosofare.

E questo ne consegue: ma anche se non si deve filosofare; nessuno infatti potrebbe avere

un’opinione di qualcosa se non sa prima questo: dunque bisogna filosofare.

22

Aristotele di Stagira (384-22 a.C)

Sull’interpretazione

lingua originale: greco

edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.

tr. it. G. Colli, in Opere (4 voll.) a cura di G. Giannantoni, Laterza, Bari-Roma, 1973)

Capitolo ix [Bekker pagina 18a]

Rispetto agli oggetti che sono e a quelli che sono stati, è dunque necessario che tra

l’affermazione e la negazione una risulti vera e l’altra invece falsa: si avrà sempre un

giudizio vero contrapposto ad un giudizio falso, sia riguardo agli oggetti universali,

presentati in forma universale, sia riguardo agli oggetti singolari, come già si è detto.

Riguardo invece agli oggetti universali, che non sono espressi in forma universale, ciò

non risulta necessario, ed in proposito si è pure parlato. D’altro canto, rispetto agli oggetti

singolari che saranno, le cose si presentano diversamente. In effetti, se tra affermazione e

negazione, in ogni caso, una dev’essere vera e l’altra invece falsa, risulta altresì necessario

che ogni determinazione appartenga oppure non appartenga ad un oggetto; di conseguenza,

quando una persona affermi che un oggetto sarà qualcosa ed un’altra neghi questa stessa

attribuzione, è chiaro che una delle due persone deve necessariamente dire la verità, se si

ammette che ogni affermazione sia vera oppure falsa. Entrambe le determinazioni non

potranno infatti appartenere simultaneamente a tali oggetti.

In realtà, se è vero [pag. 18b] dire che un oggetto è bianco, oppure che non è bianco,

esso sarà necessariamente bianco, oppure non sarà bianco, e d’altra parte, se un oggetto è

bianco, oppure non è bianco, era vero affermare oppure negare la cosa. Del pari, se la

determinazione non appartiene all’oggetto, chi l’attribuisce a questo dice il falso, e d’altro

canto, se chi attribuisce la determinazione all’oggetto dice il falso, la determinazione non

appartiene all’oggetto. In tal caso è dunque necessario che tra l’affermazione e la

negazione una risulti vera e l’altra invece falsa. Ed allora, nulla è né diviene per caso, o

secondo due possibilità indifferenti, e nulla potrà essere o non essere; tutte le cose risultano

piuttosto determinate per necessità, e non sussiste alcuna indifferenza tra due possibilità (in

effetti, la verità è detta o da chi afferma o da chi nega), poiché altrimenti qualcosa potrebbe

indifferentemente prodursi oppure non prodursi: ciò che può accadere in due modi

23

indifferenti non è infatti, né sarà, in una certa situazione piuttosto che nella situazione

contrapposta.

Oltre a ciò, se qualcosa è adesso bianco, era vero in precedenza dire che sarebbe poi

stato bianco; di conseguenza, è sempre stato vero dire rispetto a qualsivoglia oggetto

prodottosi, che sarebbe poi stato. E così, se è sempre stato vero dire che un oggetto era o

sarebbe poi stato, non è possibile che questo non fosse o che non fosse poi stato. Ciò che

non è possibile, d’altro canto, che non si sia prodotto, è impossibile che non si sia prodotto;

inoltre, ciò che è impossibile che non si sia prodotto, è necessario che si sia prodotto. Per

tutti gli oggetti che sarebbero poi stati, è dunque necessario che si siano prodotti. Di

conseguenza, nulla potrà essere secondo due possibilità indifferenti, o per caso: se un

qualcosa avvenisse infatti per caso, non sarebbe più determinato per necessità. Neppure

certo si può dire che vera non è né l’affermazione né la negazione, sostenendo ad esempio

che un qualcosa né sarà né non sarà. In tal caso risulterebbe anzitutto necessario che la

negazione non sia vera, quando l’affermazione è falsa, e che l’affeimazione non sia vera,

quando la negazione è falsa.

Oltre a ciò, se risulta vero il dire che un oggetto è bianco e grande, è allora necessario

che entrambe le determinazioni appartengano all’oggetto, e se d’altro canto è vero il dire

che tali determinazioni apparterranno domani all’oggetto, esse vi apparterranno domani

necessariamente. Se per contro domani un qualcosa né sarà né non sarà, ciò che può

accadere in due modi indifferenti – ad esempio una battaglia navale – non potrà realizzarsi:

si dovrebbe dire, in effetti, che la battaglia navale né si verifica né non si verifica.

Alle suddette conclusioni assurde, e ad altre consimili, si giunge dunque, se davvero si

vuol sostenere, a proposito di ogni affermazione e di ogni negazione – si riferiscano poi

queste ad oggetti universali, presentati in forma universale, oppure ad oggetti singolari –,

che uno dei due giudizi contrapposti è necessariamente vero, mentre l’altro è falso, e se si

vuoi dire che nulla tra ciò che diviene può sussistere in due modi indifferenti, ma che

piuttosto tutte le cose sono e divengono per necessità. In tal modo, non occorrerebbe più

che noi prendessimo delle decisioni, né che ci sforzassimo laboriosamente, con la

convinzione che compiendo una determinata azione si verificherà un determinato fatto, e

che non compiendo invece una determinata azione non si verificherà un determinato fatto.

Nulla impedisce, in effetti, che un uomo predica anche di diecimila anni la realtà di un

fatto, e che un altro uomo neghi tale affermazione; di conseguenza, si verificherà

necessariamente quella delle due cose, non importa quale, che già all’atto della predizione

era vero dire. Né certo ha alcuna importanza, che delle persone abbiano pronunciato o

24

meno due giudizi contraddittori: in realtà, è evidente che i fatti sono quelli che sono, anche

se un uomo non ha affermato qualcosa ed un altro uomo non l’ha negato. Non è infatti per

la circostanza di essere stato negato, oppure affermato, [pag. 19a] che un qualcosa sarà o

non sarà, e che un avvenimento si verificherà dopo diecimila anni, piuttosto che non in

qualsiasi altro momento di tempo.

Di conseguenza, se in ogni tempo la situazione delle cose ha fatto sì che fosse allora

vero esprimere l’affermazione oppure la negazione, era così già necessario che questo fatto

si sia prodotto, e tutto ciò che si è prodotto sia sempre in una situazione tale da prodursi per

necessità. Ciò infatti, di cui si è detto secondo verità che sarà, non è possibile che non si

produca; del pari, rispetto a ciò che si produce, è sempre stato vero dire che sarà.

Senza dubbio, bisogna ammettere che queste asserzioni risultano impossibili. Noi

vediamo infatti che gli eventi futuri prendono principio dalle deliberazioni e dalle azioni, e

che in linea generale agli oggetti che non sempre sono in atto tocca indifferentemente il

potere di essere o di non essere; per tali oggetti entrambe le cose sono possibili, sia l’essere

che il non essere, cosicché risultano possibili sia il divenire che il non divenire. E molti

oggetti si comportano evidentemente a questo modo; ad esempio, un determinato mantello

ha la possibilità di venir tagliato in due, eppure non sarà tagliato, ma si logorerà prima di

allora. Per tale mantello sussiste poi ugualmente la possibilità di non venir tagliato in due,

dato che esso non risulterebbe consunto in precedenza, se non fosse davvero in grado di

non essere tagliato in due. Di conseguenza, ciò si dirà pure di tutti gli altri aspetti del

divenire, cui va attribuito un cosiffatto potere.

E dunque evidente che non tutti gli oggetti sono o divengono per necessità; si deve dire,

piuttosto, che alcuni oggetti possono accadere indifferentemente in due modi, caso in cui

l’affermazione non risulta affatto più vera della negazione, e che a riguardo di altri oggetti

una delle due possibilità è preminente e si verifica con maggior frequenza, nonostante che

anche la seconda possibilità possa presentarsi, e non si verifichi allora la prima.

Che ciò che è sia, quando è, e che ciò che non è non sia, quando non è, risulta certo

necessario; non è però necessario che tutto ciò che è sia, né che tutto ciò che non è non sia.

In effetti, l’essere per necessità di tutto ciò che è, quando è, non equivale all’essere per

necessità, assolutamente, di tutto ciò che è. Similmente si dica per ciò che non è. Del pari,

lo stesso discorso vale per i giudizi contraddittori in proposito. Certo, per necessità ogni

oggetto è o non è, come pure, sarà o non sarà, ma non è davvero necessario dire una delle

due cose, separata dall’altra. Con ciò intendo dire, ad esempio, che necessariamente

domani vi sarà una battaglia navale, oppure non vi sarà, ma che non è tuttavia necessario

25

che domani vi sia una battaglia navale, né d’altra parte è necessario che domani non vi sia

una battaglia navale. Ciò che invece risulta necessario, è che domani avvenga o non

avvenga una battaglia navale.

Di conseguenza, dal momento che i discorsi sono veri analogamente a come lo sono gli

oggetti, è chiaro che a proposito di tutti gli oggetti, costituiti così da accadere

indifferentemente in due modi, secondo delle possibilità contrarie, anche la contraddizione

si comporterà necessariamente in maniera simile. E appunto ciò che avviene riguardo agli

oggetti che non sono sempre, oppure a quelli che non sempre non sono. In tali casi è infatti

necessario che una delle due parti della contraddizione sia vera e l’altra invece falsa, ma

non è tuttavia necessario che una determinata parte sia vera oppure falsa; sussiste piuttosto

un’indifferenza tra due possibilità, e quand’anche uno dei due casi risulti più vero, la verità

e la falsità non saranno tuttavia già decise sin da principio. Risulta chiaro, di conseguenza,

che non sempre [pag. 19b], riguardo ad un’affermazione e ad una negazione contrapposte,

sarà necessario che una di esse sia vera e l’altra invece falsa: in effetti, ciò che vale per gli

oggetti che sono non vale allo stesso modo per quelli che non sono ed hanno la possibilità

di essere o di non essere. Le cose stanno piuttosto come si è detto.

26

Aristotele di Stagira (384-22 a.C)

Metafisica lingua originale: greco

edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.

tr. it. G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1993

Libro IV (Γ), capitolo iii [Bekker pag. 1005a]

Dobbiamo dire, ora, se sia compito di un’unica scienza, oppure di scienze differenti,

studiare quelli che in matematica sono detti «assiomi» e anche la sostanza. Orbene, è

evidente che l’indagine di questi «assiomi» rientra nell’ambito di quell’unica scienza, cioè

della scienza del filosofo. Infatti essi valgono per tutti quanti gli esseri, e non sono

proprietà peculiari di qualche genere particolare di essere, ad esclusione degli altri. E tutti

quanti si servono di questi assiomi, perché essi sono propri dell’essere in quanto essere, e

ogni genere di realtà è essere. Ciascuno, però, si serve di essi nella misura in cui gli

conviene, ossia nella misura in cui si estende il genere intorno al quale vertono le sue

dimostrazioni. Di conseguenza, poiché è evidente che gli assiomi appartengono a tutte le

cose in quanto tutte sono esseri (l’essere è, infatti, ciò che è comune a tutto), competerà a

colui che studia l’essere in quanto essere anche lo studio di questi assiomi.

Per questa ragione, nessuno di coloro che si limitano all’indagine di una parte

dell’essere, si preoccupa di dire qualcosa intorno agli assiomi, se siano veri o no: non il

geometra e non il matematico. Ne parlarono, invece, alcuni fisici, ma ne parlarono a

ragione: infatti, essi ritenevano di essere i soli a fare indagine di tutta quanta la realtà e

dell’essere.

D’altra parte, poiché c’è qualcuno che è ancora al di sopra del fisico (infatti la natura è

solamente un genere dell’essere), ebbene, a costui che studia l’universale e la sostanza

prima, competerà anche lo studio degli assiomi. [pag. 1005b] La fisica è, sì, una sapienza,

ma non è la prima sapienza.

Per quanto riguarda, poi, i tentativi, fatti da alcuni di coloro che trattano della verità, di

determinare a quale condizione si debba accogliere qualcosa come vero, bisogna dire che

27

essi nascono dall’ignoranza degli Analitici; perciò, occorre che i miei uditori abbiano una

preliminare conoscenza delle cose dette negli Analitici, e non che le ricerchino mentre

ascoltano queste lezioni.

È evidente, dunque, che è compito del filosofo e di colui che specula intorno alla

sostanza tutta e alla natura di essa, far indagine anche intorno ai principi dei sillogismi.

Colui che, in qualsiasi genere di cose, possiede la conoscenza più elevata, deve essere in

grado di dire quali sono i principi più sicuri dell’oggetto di cui fa indagine; di conseguenza,

anche colui che possiede la conoscenza degli esseri io in quanto esseri, deve poter dire

quali sono i principi più sicuri di tutti gli esseri. Costui è il filosofo. E il principio più

sicuro di tutti è quello intorno al quale è impossibile cadere in errore: questo principio deve

essere il principio più noto (infatti, tutti cadono in errore circa le cose che non sono note) e

deve essere un principio non ipotetico. Infatti, quel principio che di necessità deve

possedere colui che voglia conoscere qualsivoglia cosa non può essere una pura ipotesi, e

ciò che necessariamente deve conoscere chi voglia conoscere qualsivoglia cosa deve già

essere posseduto prima che si apprenda qualsiasi cosa. E evidente, dunque, che questo

principio è il più sicuro di tutti.

Dopo quanto si è detto, dobbiamo precisare quale esso sia. È impossibile che la stessa

cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso

rispetto (e si aggiungano pure anche tutte le altre determinazioni che si possono

aggiungere, al fine di evitare difficoltà di indole dialettica ). E questo il più sicuro di tutti i

princìpi: esso, infatti, possiede quei caratteri sopra precisati. Infatti, è impossibile a

chicchessia di credere che una stessa cosa sia e non sia, come, secondo alcuni, avrebbe

detto Eraclito. In effetti, non è necessario che uno ammetta veramente tutto ciò che dice. E

se non è possibile che i contrari sussistano insieme in un identico soggetto (e si aggiungano

a questa premessa le precisazioni solite), e se un’opinione che è in contraddizione con

un’altra è il contrario di questa, è evidente che è impossibile, ad un tempo, che la stessa

persona ammetta veramente che una stessa cosa esista e, anche, che non esista: infatti, chi

si ingannasse su questo punto, avrebbe ad un tempo opinioni contraddittorie. Pertanto, tutti

coloro che dimostrano qualcosa si rifanno a questa nozione ultima, perché essa, per sua

natura, costituisce il principio di tutti gli altri assiomi.

.

Capitolo iv

Ci sono alcuni, come abbiamo detto, i quali affermano che la stessa cosa può essere e non

essere, e, anche, che in questo modo si può pensare. [pag. 1006a] Ragionano in tale modo

28

anche molti dei filosofi naturalisti. Noi, invece, abbiamo stabilito che è impossibile che una

cosa, nello stesso tempo, sia e non sia; e, in base a questa impossibilità, abbiamo mostrato

che questo è il più sicuro di tutti i principi.

Ora, alcuni ritengono, per ignoranza, che anche questo principio debba essere

dimostrato: infatti, è ignoranza il non sapere di quali cose si debba ricercare una

dimostrazione e di quali, invece, non si debba ricercare. Infatti, in generale, è impossibile

che ci sia dimostrazione di tutto: in tal caso si procederebbe all’infinito, e in questo modo,

per conseguenza, non ci sarebbe affatto dimostrazione. Se, dunque, di alcune cose non si

deve ricercare una dimostrazione, io essi non potrebbero, certo, indicare altro principio che

più di questo non abbia bisogno di dimostrazione.

Tuttavia, anche per questo principio, si può dimostrare l’impossibilità in parola, per via

dí confutazione: a patto, però, che l’avversario dica qualcosa. Se, invece, l’avversario non

dice nulla, allora è ridicolo cercare una argomentazione da opporre contro chi non dice

nulla, in quanto, appunto, non dice nulla: costui, in quanto tale, sarebbe simile ad un

vegetale. E la differenza fra la dimostrazione per via di confutazione e la dimostrazione

vera e propria consiste in questo: che, se uno volesse dimostrare, cadrebbe palesemente in

una petizione di principio; invece, se causa di questo fosse un altro, allora si tratterebbe di

confutazione e non di dimostrazione.

Il punto di partenza, in tutti questi casi, non consiste nell’esigere che l’avversario dica

che qualcosa o è, oppure che non è (egli, infatti, potrebbe subito obiettare che questo è già

un ammettere ciò che si vuol provare) ma che dica qualcosa che abbia un significato e per

lui e per gli altri; e questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non facesse

questo, costui non potrebbe in alcun modo discorrere, né con sé medesimo né con altri; se,

invece, l’avversario concede questo, allora sarà possibile una dimostrazione. Infatti, in tal

caso, ci sarà già qualcosa di determinato. E responsabile della petizione di principio non

sarà colui che dimostra, ma colui che provoca la dimostrazione: e in effetti, proprio per

distruggere il ragionamento, quegli si avvale di un ragionamento.

Inoltre, chi ha concesso questo, ha concesso che c’è qualcosa di vero anche

indipendentemente dalla dimostrazione.

29

Diogene Laerzio (prima metà III sec. d.C.)

Le vite dei filosofi lingua originale: greco

edizione di riferimento: H. Frobenius, Basilea, 1533

tr. it. M. Gigante, TEA, Milano, 1991

Libro VII (Vita di Zenone di Cizio, fondatore dello stoicismo)

[36] Dei molti discepoli di Zenone uno dei più famosi fu Perseo figlio di Demetrio nato

a Cizio, che secondo alcuni fu alunno ed amico, secondo altri uno dei domestici mandatigli

da Antigono per il servizio bibliografico: egli era stato istruttore di Alcioneo, figlio di

Antigono. Una volta Antigono volle metterlo alla prova e gli fece annunziare la falsa

notizia che i suoi campi erano stati saccheggiati dai nemici. Perseo divenne scuro in volto e

Antigono: «Vedi? La ricchezza non è cosa indifferente».

Gli si attribuiscono le seguenti opere: Del regno, La costituzione degli Spartani, Delle

nozze, Dell’empietà, Tieste, Degli amori, Protrettici, Diatribe <in quattro libri>, Aneddoti,

in quattro libri; Commentari, Sulle « Leggi» di Platone, in sette libri.

[37] Altri discepoli illustri furono: Aristone figlio di Milziade, nato a Chio, che

introdusse la dottrina dell’indifferenza. Erillo di Calcedonia che definì fine la scienza.

Dionisio detto l’Apostata che si fece sostenitore della teoria edonistica, perché per la sua

grave malattia agli occhi non ebbe più la forza di affermare che il dolore è cosa

indifferente. Dionisio era nato ad Eraclea. Sfro del Bosforo. Cleante figlio di Fania nato ad

Asso che fu successore nello scolarcato. Zenone era solito paragonarlo a quelle tavolette

spalmate di dura cera su cui è faticoso scrivere, ma che conservano a lungo quel che v’è

stato scritto. Sfero fu poi alunno di Cleante, dopo la morte di Zenone; e di lui parleremo

nella seguente Vita di Cleante.

[38] Ippoboto cataloga fra i suoi alunni anche Filonide di Tebe Callippo di Corinto,

Posidonio di Alessandria, Atenodoro di Soli, Zenone di Sidone.

In questa Vita di Zenone mi è parso opportuno dare un resoconto generale di tutta

insieme la dottrina stoica, per il fatto che Zenone fu il fondatore della scuola stoica.

Abbiamo già dato la lista dei suoi numerosi scritti, in cui parlò come nessun altro stoico.

Le opinioni comuni a tutti gli Stoici sono queste: esponiamole sommariamente, attuando il

medesimo solito criterio che abbiamo applicato agli altri filosofi. Gli Stoici dividono la

filosofia in tre parti: Fisica, Etica, Logica.

30

[39] Questa distinzione fece per primo Zenone di Cizio nel libro Sulla Logica, poi

Crisippo nel primo libro Sulla Logica e nel primo libro Sulla Fisica e Apollodoro l’Efelo

nel primo libro dell’Introduzione alla dottrina ed Eudromo nell’Esposizione dei principi

elementari di Etica e Diogene di Babilonia e Posidonio.

Queste parti Apollodoro chiama luoghi, Crisippo ed Eudromo specie, altri chiamano

generi.

[40] Gli Stoici paragonano la filosofia ad un essere vivente: alle ossa ed ai nervi

corrisponde la Logica, alle parti carnose l’Etica, all’anima la Fisica. Oppure la paragonano

ad un uovo: la parte esterna, il guscio (ektos), è la Logica, la parte seguente, l’albume, è

l’Etica, la parte più interna (esotatos), il tuorlo, è la Fisica. Oppure la paragonano ad un

fertile campo: la siepe esterna è la Logica, il frutto è l’Etica, la terra o gli alberi la Fisica.

Oppure la paragonano ad una città ben munita di mura e razionalmente amministrata. E

nessuna parte è separata dall’altra, come pur dicono alcuni Stoici, ma sono tutte piuttosto

strettamente congiunte fra loro. Anche l’insegnamento veniva trasmesso congiuntamente e

non separatamente. Altri danno il primo posto alla Logica, il secondo alla Fisica, il terzo

all’Etica: tra costoro è Zenone nel libro Sulla Logica, oltre a Crisippo, Archedemo ed

Eudromo.

[41] Diogene di Tolemaide a sua volta comincia dall’Etica, Apollodoro pone al secondo

posto l’Etica, Panezio e Posidonio cominciano dalla Fisica, come afferma Fania, discepolo

di Posidono, nel primo libro delle Lezioni di Posidonio. Cleante poi distingue sei parti:

Dialettica, Retorica, Etica, Politica, Fisica, Teologia. Altri riferiscono questa partizione non

alla Logica, ma alla stessa filosofia. Così per esempio Zenone di Tarso. Alcuni distinguono

la parte logica del sistema in due scienze: Retorica e Dialettica; altri le attribuiscono

l’ufficio di definire e di fornire canoni e criteri; altri tuttavia le eliminano l’officio della

definizione.

[42] Si servono dei canoni e criteri per trovare la verità perché in essa stabiliscono le

regole per la distinzione delle rappresentazioni, ed analogamente si servono delle

definizioni per riconoscere la verità, perché la realtà si apprende per mezzo di concetti.

Definiscono la Retorica la scienza di dire bene su argomenti pianamente ed unitariamente

esposti, e la Dialettica la scienza di discutere rettamente su argomenti per domanda e

risposta. Perciò danno anche quest’altra definizione: la scienza di ciò che è vero e di ciò

che è falso, e di ciò che non è né vero né falso.

Dividono la Retorica in tre parti: deliberativa, forense, encomiastica

31

[43] La Retorica è costituita dai seguenti elementi: invenzione degli argomenti, loro

espressione in parole, loro disposizione e viva rappresentazione. Costituiscono il discorso

retorico le seguenti parti: il proemio, la narrazione dei fatti, la confutazione della parte

avversa e l’epilogo.

La Dialettica abbraccia due campi: l’uno delle cose significate e l’altro dell’espressione

o parola.

Il campo delle cose significate comprende da una parte la dottrina della loro viva

rappresentazione e dall’altra la dottrina degli elementi che la costituiscono, proposizioni

enunciate sia indipendenti sia semplici predicati, e termini simili attivi o passivi, generi e

specie, e così pure parole, tropi, sillogismi e sofismi determinati dal linguaggio o

dall’argomento.

[44] Le varie specie di sofismi sono: il mentitore, il veritiero, il negante, il sorite e

simili a questo, il mancante, l’insolubile, il concludente, il velato, il cornuto, l’utide (il

nessuno), il mietitore.

Abbiamo or ora detto che l’altro particolare campo della Dialettica riguarda la dottrina

della lingua stessa. Questa dottrina si occupa della parola rappresentata in lettere, studia

quali siano le parti del discorso e tratta del solecismo, del barbarismo, della dizione

poetica, delle anfibolie, dell’eufonia e della musica e, secondo alcuni, anche delle

definizioni, delle divisioni e degli stili.

[45] Gli Stoici affermano che è straordinariamente utile lo studio della teoria dei

sillogismi. Questa insegna il metodo dimostrativo, che molto contribuisce alla

formulazione corretta dei giudizi, alla loro disposizione e al loro ricordo, ed insegna altresì

a possedere con salda sicurezza le cognizioni scientifiche.

Il ragionamento stesso consiste di premesse e conclusione: il sillogismo è un

ragionamento conclusivo fondato su questi elementi. La dimostrazione è un ragionamento

che per mezzo di nozioni più chiare spiega nozioni meno chiare su ogni argomento.

La rappresentazione è un’impressione nell’anima: è qui adottato in senso traslato un

termine proprio in quanto propriamente l’impressione è l’effetto delle impronte che

l’anello col sigillo imprime nella cera.

[46] Di rappresentazioni ve ne sono due: l’una (comprensiva) che coglie

immediatamente la realtà, l’altra (non comprensiva) che coglie la realtà con scarsa o

nessuna distinzione. La prima, che essi definiscono criterio della realtà, è determinata

dall’esistente , conforme all’esistente stesso ed è impressa e stampata nell’anima. L’altra

32

non è determinata dall’esistente oppure se procede dall’esistente non è determinata

conforme all’esistente stesso: non è quindi né chiara né distinta.

Essi dicono che la Dialettica stessa è necessaria ed è una virtù che abbraccia altre virtù

speciali o particolari: la tempestività ci insegna con scientifica sicurezza il momento in cui

dobbiamo dare o negare il nostro assenso; la cautela è la forza della ragione contro la

semplice verisimiglianza, così da non cedere ad essa; [47] l’inconfutabilità è il vigore nel

ragionamento così da non lasciarci trarre da esso al contrario; la serietà o assenza di

leggerezza è la capacità di riportare le rappresentazioni alla retta ragione.

La stessa scienza essi definiscono o una comprensione sicura (apprensione) oppure una

facoltà di ricevere le rappresentazioni, che non può essere scossa dalla ragione. Solo con lo

studio della Dialettica il sapiente potrà ragionare senza cadere in errore: infatti per mezzo

della Dialettica si distingue il vero dal falso e si discerne ciò che è persuasivo da ciò che è

espresso ambiguamente. Inoltre senza la Dialettica non è possibile interrogare e rispondere

metodicamente.

[48] La precipitosa temerità nelle affermazioni estende il suo effetto anche su ciò che

accade nella realtà, sì che coloro che non hanno rappresentazioni bene disciplinate cadono

nel disordine e nell’irriflessione. Non altrimenti il sapiente apparirà acuto e perspicace e

soprattutto abile nelle argomentazioni. Ché è proprio del sapiente rettamente parlare e

rettamente pensare, discutere le questioni proposte e rispondere alle domande: tutti questi

requisiti possiede chi è scaltrito nella Dialettica.

Questi sommariamente esposti sono i princìpi fondamentali della logica stoica.

33

Sant’Agostino di Ippona (354-430)

Confessioni (396-8) lingua originale: latino

edizione di riferimento: i padri Maurini, Parigi, 1679-1700

tr. it. C. Vitali, Rizzoli, Milano, 1999

Libro XI

Capitolo xii: IDDIO PRIMA DELLA CREAZIONE

Ed eccomi a rispondere a chi domanda: «Che cosa faceva Iddio prima di creare il cielo e la

terra?». Non darò la risposta di quel tale che, per eludere con un motto di spirito la

difficoltà della domanda, disse: «Preparava l’inferno per coloro che vogliono scrutare il

cielo».

Altra cosa è comprendere, altra cosa scherzare. Non è dunque quella la mia risposta.

Preferirei dire: «Non so», se non so, al cavarmela con un motto che metta in ridicolo chi fa

una domanda profonda e dia lode a chi dà una risposta sbagliata.

Invece, affermo che Tu, o nostro Iddio, sei il creatore di tutta quanta la creazione: e se

con le parole cielo e terra si intende tutto ciò che è stato creato, affermo francamente:

«Prima di creare il cielo e la terra, Iddio non faceva nulla». Se avesse fatto qualche cosa,

che cosa poteva essere se non una creatura? E almeno avessi io la stessa certezza delle altre

nozioni che sarei contento di conoscere, come ho la certezza che prima della creazione non

esisteva alcuna creatura!

Capitolo xiii: IL TEMPO È NELL’ORDINE DELLE COSE CREATE

Se poi qualcuno, leggiero di mente, vuol risalire a ritroso le immagini dei tempi, e si

maraviglia che Tu, Dio onnipotente, onnicreante, onnireggente, artefice del cielo e della

terra, ti sii astenuto per secoli innumerevoli dal por mano ad un’opera così grandiosa, apra

bene gli occhi e si convinca che la sua maraviglia manca di base.

Donde avrebbero potuto incominciare a scorrere quegli innumerevoli secoli, che Tu non

avresti fatto, Tu, autore e principio di tutti i secoli? Potevan forse esistere tempi non creati

da Te? Come avrebbero potuto passare se non erano mai esistiti?

Se dunque sei Tu l’artefice di tutti i tempi, se esistettero tempi prima della creazione del

cielo e della terra, come sí può dire che eri inoperoso? Proprio quei tempi Tu li avevi

creati, né potevano passare tempi prima che Tu li avessi fatti. Se poi prima del cielo e della

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terra il tempo non esisteva, a qual titolo si domanda che cosa facevi allora? Non esistendo

il tempo, non esisteva nemmeno un «allora».

E nemmeno si può dire che Tu precedi i tempi nel tempo: ché non avresti preceduto tutti

i tempi. Invece, precedi tutto il passato nell’immensità della eternità sempre presente,

domini tutto il futuro, il quale appunto perché futuro, appena arrivato, sarà passato: ma «Tu

rimani lo stesso, i tuoi anni non avranno fine». Essi non vanno, non vengono: questi nostri

vanno e vengono, perché vengano tutti. Gli anni tuoi sono tutti in un punto perché

immobili, né quelli che passano sono spinti via dai sopravvenienti, perché non passano: i

nostri saranno tutti quando non saranno più. Gli anni tuoi sono un giorno solo, e il tuo

giorno non è l’ogni giorno, ma l’oggi, perché il tuo oggi non si annulla nel domani, come

non succede ad un ieri. Il tuo oggi è l’eternità, e quindi coeterno generasti colui a cui hai

detto: «Io ti ho generato oggi». Tu hai creato tutti i tempi e tutti li precedi: non si può

parlar--.: di tempo quando il tempo non esisteva.

Capitolo xiv: NATURA DEL TEMPO

Non si può dunque parlare di un tempo in cui Tu sia rimasto inoperoso, perché il tempo

l’hai creato Tu: e non si può parlare di tempi coeterni con Te, perché Tu permani, ed essi,

se permanessero, non sarebbero più tempi. Che cosa è infatti il tempo? Chi potrebbe darne

una breve e facile definizione? Chi ne capirà tanto, almeno con il pensiero, da poterne poi

far parola? Ed invece, vi ha una nozione più familiare, più nota, nel parlare comune, del

tempo? Certo, quando ne parliamo, sappiamo che cosa intendiamo, e lo sappiamo anche

quando ne sentiamo parlare gli altri.

Che cosa è, allora, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi

me ne chiede, non lo so: eppure posso affermare con sicurezza di sapere che se nulla

passasse, non esisterebbe un passato; se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe un futuro:

se nulla esistesse, non vi sarebbe un presente.

Passato e futuro: ma codesti due tempi in che senso esistono, dal momento che il

passato non esiste più, che il futuro non esiste ancora? E il presente, alla sua volta, se

rimanesse sempre presente e non tramontasse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità.

Se dunque il presente, perché sia tempo, deve tramontare nel passato, in che senso si può

dire che esiste, se sua condizione all’esistenza è quella di cessare dall’esistere; se cioè non

possiamo dire che in tanto il tempo esiste in quanto tende a non esistere?

Capitolo xv: MISURAZIONE DEL TEMPO

35

Con tutto ciò, noi parliamo di tempo lungo e di tempo breve, ma sempre riguardo al

passato e al futuro. Così, per esempio, diciamo lungo un tempo passato da cento anni;

come diciamo lungo un tempo futuro che sarà fra cento anni: breve tempo passato, diremo,

quello di dieci giorni fa, e così per il futuro. Ma come può essere lungo o breve quello che

non è? Il passato non è più, il futuro non è ancora. Non si dica più dunque: «È lungo»; ma

si dica: «Fu lungo», per il passato, e: «Sarà lungo», per il futuro.

O mio Signore e mia luce, anche qui, forse, la tua verità si fa beffe dell’uomo? Un

tempo passato, che diciamo lungo, fu lungo quando era già passato o quando era ancora

presente? perché non poteva essere lungo se non in quanto esisteva qualche cosa che

potesse essere lunga: ma il passato, come tale, non esisteva; non poteva dunque essere

lungo.

Non è, quindi, esatto dire: «Quel tempo passato fu lungo», non trovandosi in esso niente

che fosse suscettibile di essere lungo. Una volta passato, non è più. Dovremmo dire invece:

«fu lungo quel tempo presente», poiché era lungo solo in quanto presente. Non era ancora

passato al non essere; c’era possibilità che fosse lungo: ma una volta passato, cessò di

essere lungo, avendo cessato di esistere.

Vediamo un po’ ora, o anima umana, se possa essere lungo il tempo presente; hai

ricevuto infatti il potere di sentire e di misurare la durata. Che cosa mi risponderai? Cento

anni presenti son forse un tempo lungo? Esamina prima se possano essere presenti cento

anni. Se sta passando il primo di essi, questo è presente, ma gli altri novantanove sono

futuri, dunque non esistono ancora; se si tratta dell’anno numero due, uno è passato, il

secondo è presente, tutti gli altri futuri. Così è per tutti gli anni intermedi; qualunque tu

prenda, da una parte stanno quelli passati, dall’altra i futuri. Dunque cento anni non

possono essere presenti.

Vedi un po’ se almeno dell’anno in corso si possa dire che è presente. Se siamo nel

primo mese, tutti gli altri sono futuri; se nel secondo, il primo è nel passato, tutti gli altri

nel futuro. Neanche dell’anno che sta passando si può dire che è tutto presente: se non è

presente tutto, l’anno non è presente. I suoi mesi sono dodici, e ciascuno di essi mentre è in

corso è presente; gli altri sono passati o futuri.

Del resto, nemmeno quando sta passando, si può dire di un mese che è presente:

presente è un giorno; se è il primo, futuri gli altri, se l’ultimo, passati gli altri; se

intermedio, tra passati e futuri.

Ed ecco: quel tempo presente, il solo a cui possa convenire il termine di «lungo», è

ridotto alla durata di una sola giornata. Ma sottoponiamo ad esame anche questa, perché

36

neanche di un giorno si può dire’ che sia presente tutto. Esso è formato, tra giorno e notte,

di ventiquattro ore: per la prima tutte le altre sono future, per l’ultima tutte le altre sono

passate, per l’intermedia un po’ sono passate, un po’ future. Ed anche l’ora si svolge in

istanti fuggitivi; quello volato via è passato, quello che gli resta è futuro. Se possiamo farci

un’idea del tempo, quel solo punto si può chiamare presente che non si può più suddividere

in particelle, per quanto piccolissime: ma anche quel punto trasvola così rapido dal futuro

al passato, da non avere estensione alcuna di durata. Ché, se l’avesse, sarebbe divisibile in

passato e in futuro: il presente invece non ammette estensione.

Dove è, allora, un tempo che si possa chiamare lungo? Il futuro, forse? Ma per esso noi

usiamo tale espressione, perché non esiste ancora ciò che può essere lungo: diciamo,

invece: «Sarà lungo». Quando sarà lungo? Quando sarà ancora futuro? No, perché non

esiste ancora quello che dovrebbe essere «lungo». O quando dal futuro — che non è ancora

— ha incominciato e sia diventato presente? Da quanto si è detto sopra, il presente

proclama di non poter essere un tempo lungo.

Capitolo xvi: SI PUÒ MISURARE SOLTANTO IL PRESENTE

Eppure, Signore, noi possiamo distinguere gli intervalli dei tempi e paragonarli tra loro; e

diciamo che alcuni sono più lunghi, altri più brevi. Misuriamo pure quanto questo o quel

tempo sia più lungo o più breve: e rispondiamo che quello è il doppio o il triplo, questo

semplice o tanto quanto quello. Ma noi possiamo misurare il tempo che passa, e lo

misuriamo per la percezione che ne abbiamo. Ora, chi può misurare il passato, che non

esiste più, o il futuro che non esiste ancora? A meno che uno osi affermare che si può

percepire e misurare il non esistente. Dunque si può aver la percezione e misurare il tempo

quando sta passando, ma quando è passato non è possibile, perché non esiste.

Capitolo xvii: PASSATO E FUTURO ESISTONO

Ed ora, qui, o Padre, non affermo, vado cercando:, o mio Dio, assistimi, sorreggimi.

C’è chi voglia dimostrarmi che non esistono tre forme del tempo, come abbiamo

imparato da fanciulli e come abbiamo insegnato ai fanciulli, e cioè il passato, il presente, il

futuro, ma che solo il presente sia tempo, poiché gli altri due non esistono? O forse

esistono anch’essi, e il tempo, quando da futuro diventa presente esce da qualche occulto

recesso, per ritirarsi in qualche occulto recesso quando da presente diventa passato? E

quelli che hanno preannunziato avvenimenti futuri dove li videro se non esistevano ancora?

Quello che non c’è, non si può certo vedere. E quelli che narrano avvenimenti passati non

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racconterebbero cose vere, se non le vedessero con la loro mente: e non potrebbero

assolutamente essere viste, se non esistessero.

Esistono dunque anche il passato e il futuro.

Capitolo xviii: CONOSCENZA DEL PASSATO E DEL FUTURO

Permettimi di approfondire alquanto le mie ricerche, o Signore, mia speranza; fa’ che in

questo mio proposito io non mi lasci sviare.

Se futuro e passato esistono, vorrei sapere dove hanno sede. Se per ora non ci riesco, so

però che, dovunque siano, non vi sono come futuro e passato, ma come presente; perché se

anche là sono come futuro o come passato, o non vi sono ancora o non vi sono più. Quindi,

dovunque siano, comunque siano non vi sono che in forma di presente. Però, quando si

raccontano avvenimenti passati veri, non si tiran fuori dalla memoria gli avvenimenti in se

stessi, ma espressioni formate dalle loro immagini che si sono impresse a guisa di orme

nell’animo per mezzo dei sensi. Così, la mia fanciullezza non esiste più se non in un tempo

passato, che non esiste più; ma, quando la rievoco e ne parlo, io ne vedo l’immagine nel

presente, perché essa è ancora nella mia memoria.

Devo invece confessare, o mio Dio, che proprio non so se nella predizione del futuro, il

fenomeno si svolga nello stesso modo; se, cioè, le immagini delle cose non ancora esistenti

siano presentate come già tali. So tuttavia che noi di solito pensiamo prima a nostre azioni

future; che codesta anticipazione di pensiero è presente, mentre l’azione premeditata non

esiste ancora, perché futura: quando invece vi ci saremo applicati e realizzeremo quanto

avevamo pensato, quell’azione non sarà più futura, allora, ma presente.

In qualunque modo avvenga codesto arcano presentimento del futuro, è certo che non si

può vedere se non quello che esiste. Ma ciò che esiste è il presente, non il futuro. Perciò

quando si dice che si vede il futuro, non si vede il futuro in se stesso, che non esiste ancora,

ma si vedono forse cause o indizi suoi, già esistenti; non il futuro, dunque, ma il presente

appare alla nostra vista, e grazie ad esso possono venire preannunziate cose future,

concepite con lo spirito: forme concepite che già esistono, e chi predice il futuro le

intravede come presenti.

Mi aiuterò con un esempio, scelto fra i tanti.

Io vedo l’aurora: preannuncio il levar del sole: ciò che vedo è presente, ciò che

preannuncio è futuro; non il sole è futuro: esso esiste già; ma il suo sorgere, che è futuro;

sorgere però che io, se non ne avessi l’immagine nell’animo, non potrei certo predire. Ma

nemmeno l’aurora che vedo in cielo è il sorgere del sole, quantunque lo preceda, e

38

nemmeno lo è l’immagine del mio animo: ambedue sono visti nel presente perché si possa

preannunciare, il futuro. Il futuro dunque non c’è ancora; se non c’è ancora, non esiste; se

non esiste, non si può assolutamente vedere; ma si può preannunciarlo dai segni presenti

che già esistono e si possono vedere.

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Sant’Anselmo (1033-1109)

Proslogion (1077-8) lingua originale. latino

edizione di riferimento: F.S. Schmitt, Seckau, 1938

tr. it. I. Sciuto, Rusconi, Milano, 2001

Proemio

Dopo aver pubblicato, per le pressanti preghiere di alcuni confratelli, un opuscolo come

esempio di meditazione sulla razionalità della fede, mettendomi nella posizione di chi,

ragionando silenziosamente dentro di sé, ricerca ciò che non conosce, considerando che

quell’opuscolo era costruito con la concatenazione di molti argomenti, ho cominciato a

chiedermi se per caso fosse possibile trovare un argomento unico, tale che per essere

dimostrato non avesse bisogno di altro, ma solo di se stesse e che fosse da solo sufficiente

a stabilire che Dio esiste veramente, che è il sommo bene di nessun altro bisognoso e di cui

tutte le cose hanno bisogno per essere e per ben-essere, e tutto ciò che crediamo della

divina sostanza.

Rivolgevo spesso e con impegno il mio pensiero su questo punto e talvolta mi sembrava

di poter già afferrare quanto cercavo, talvolta invece sfuggiva del tutto all’acume della mia

mente; alla fine, privo di speranza, volli cessare la ricerca di una cosa che sembrava

impossibile trovare. Ma quando volevo escludere completamente da me quel pensiero,

affinché non impedisse alla mia mente, occupandola inutilmente, di impegnarsi in altri

pensieri nei quali potessi fare progressi, proprio allora quel pensiero cominciò sempre più

ad imporsi, con una certa importunità, a me che non lo volevo e lo respingevo. Mentre

dunque, un giorno, fortemente mi affaticavo nel resistere alla sua insistenza, nel conflitto

stesso dei pensieri mi si presentò ciò di cui avevo disperato, sì da farmi applicare con

passione a quel pensiero che mi ero preoccupato di respingere.

Ritenendo poi che quanto gioivo di avere trovato, se fosse stato scritto, sarebbe piaciuto

a qualche lettore, su questo e su altri argomenti ho scritto il seguente opuscolo, mettendomi

nella posizione di chi tenta di innalzare la sua mente a contemplare Dio e cerca di

comprendere ciò che crede. E poiché giudicavo che né questo opuscolo né quello che sopra

ho ricordato fossero degni del nome di libro o di portare il nome dell’autore, ma pensavo

tuttavia che non si dovessero pubblicare senza un titolo qualsiasi col quale invitassero alla

lettura, in qualche modo, colui nelle cui mani fossero pervenuti, diedi a ciascuno il suo

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titolo, chiamando il primo Esempio di meditazione sulla ragione della fede e il successivo

La fede che cerca l’intelletto.

Ma quando l’uno e l’altro erano già stati trascritti da molti con questi titoli, molti mi

sollecitarono (specialmente il reverendo arcivescovo di Lione, di nome Ugo, legato

apostolico in Gallia, che me l’ordinò con autorità apostolica») a scrivere il mio nome su di

essi. Per fare ciò più adeguatamente, ho dunque intitolato il primo opuscolo Monologion,

cioè soliloquio, e questo invece Proslogion, cioè colloquio.

Parte prima DIMOSTRAZIONE DELL’ESISTENZA DI DIO

-–ooOoo–-

2. Dio esiste veramente.

Dunque, o Signore, tu che dai l’intelligenza alla fede, concedimi di comprendere, per

quanto sai che mi possa giovare, che tu esisti come crediamo e che sei quello che noi

crediamo.

E davvero noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non si possa pensare nulla di più

grande. O forse non vi è una tale natura, perché «disse l’insipiente in cuor suo: Dio non

esiste»? Ma certamente quel medesimo insipiente, quando ascolta ciò che dico, cioè

«qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande», comprende ciò che ode; e ciò che

comprende è nel suo intelletto, anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro,

infatti, è che una cosa sia nell’intelletto, e altro è intendere che quella cosa esista. Quando

il pittore, infatti, prima pensa a ciò che sta per fare, ha certamente nell’intelletto ciò che

ancora non ha fatto, ma non intende ancora che questo esista. Quando invece lo ha già

dipinto, non solo ha nell’intelletto ciò che ha già fatto, ma intende anche che esso esista.

Anche l’insipiente, dunque, deve convenire che, almeno nell’intelletto, vi sia qualcosa di

cui non si può pensare nulla di più grande, perché quando sente questa espressione la

intende, e tutto ciò che si intende è nell’intelletto.

Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare qualcosa di più grande non può essere nel

solo intelletto. Se infatti è almeno nel solo intelletto, si può pensare che esista anche nella

realtà, il che è maggiore. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore è nel solo

intelletto, quello stesso di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il

maggiore. Ma evidentemente questo non può essere. Dunque ciò di cui non si può pensare

il maggiore esiste, senza dubbio, sia nell’intelletto sia nella realtà.

3. Non si può pensare che Dio non esista.

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Tutto ciò è talmente vero, che non si può neppure pensare che Dio non esista. Infatti si può

pensare che vi sia qualcosa di cui non si possa pensare che non esiste; e questo è maggiore

di ciò che si può pensare non esistente. Quindi, se ciò di cui non si può pensare il maggiore

può essere pensato non esistente, quello stesso di cui non si può pensare il maggiore non è

ciò di cui non si può pensare il maggiore; ma questo è contraddittorion. Dunque ciò di cui

non si può pensare il maggiore esiste così veramente che non si può neppure pensare non

esistente.

E questo sei tu, Signore Dio nostro. Dunque tu esisti così veramente, Signore Dio mio,

che non puoi neppure essere pensato non esistente. E giustamente. Se infatti una qualche

mente potesse pensare qualcosa migliore di te, la creatura si eleverebbe al di sopra del

Creatore e sarebbe giudice del Creatore; il che sarebbe grandemente assurdo. In verità, di

tutto ciò che è, all’infuori di te solo, si può pensare che non sia. Tu solo dunque hai l’essere

nel modo più vero, e perciò massimo, rispetto a tutte le cose, perché qualsiasi altra cosa

non è in modo così vero e, quindi, ha un essere minore. Perché dunque «l’insipiente ha

detto in cuor suo: Dio non esiste», quando è così evidente ad una mente razionale che tu

sei più di tutte le cose? Per quale motivo, se non perché è stolto e insipiente?

4. In che modo l’insipiente ha detto in cuor suo ciò che non si può pensare.

Ma in quale modo l’insipiente ha detto in cuor suo ciò che non ha potuto pensare, o in che

modo non ha potuto pensare ciò che ha detto in cuor suo, dato che è la stessa cosa dire nel

cuore e pensare? Se poi veramente, anzi poiché veramente sia lo pensò perché lo disse in

cuor suo, sia non lo disse in cuor suo perché non poteva pensarlo, non in un modo soltanto

si dice nel cuore o si pensa qualcosa. In un modo, infatti, una cosa è pensata quando si

pensa la parola che la significa; in un altro modo, quando si comprende ciò che la cosa è.

Nel primo modo, pertanto, si può pensare che Dio non sia, ma nel secondo assolutamente

no. Perciò nessuno, il quale comprenda ciò che Dio è, può pensare che Dio non esista,

sebbene dica in cuor suo queste parole, non dando loro alcun significato o dandogliene uno

estraneo. Dio, infatti, è ciò di cui non si può pensare il maggiore. Chi comprende bene

questo, comprende certamente che egli esiste in modo tale che neppure nel pensiero può

non essere. Chi dunque comprende che Dio è così, non può pensare che egli non esista.

Ti ringrazio, buon Signore, ti ringrazio perché ciò che prima ho creduto per un tuo

dono, ora per la tua illuminazione lo comprendo in modo tale che, se non volessi credere

che tu esisti, non potrei non comprenderlo.

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S. Tommaso d’Aquino (1225-74)

Somma teologica (1265-73) lingua originale: latino

edizione di riferimento: ‘Leonina’ emendata dalle Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1988

tr. it., i padri domenicani italiani (34 voll.), ESD, Bologna, 1984

Parte I, Questione 2

Proemio

Lo scopo principale della sacra dottrina è quello di far conoscere Dio, e non soltanto in se stesso, ma

anche in quanto è principio e fine delle cose, e specialmente della creatura ragionevole, come appare

dal già detto; nell'intento di esporre questa dottrina, noi tratteremo: I - di Dio (I Parte); II - del

movimento della creatura razionale verso Dio (II Parte, divisa in I-II e II-II); III - del Cristo, il quale,

in quanto uomo, è per noi via per ascendere a Dio (III Parte). L'indagine intorno a Dio comprenderà

tre parti. Considereremo: primo, le questioni spettanti alla divina Essenza; secondo, quelle riguardanti

la distinzione delle Persone; terzo, quelle che riguardano la derivazione delle creature da Dio. Intorno

all'Essenza divina poi dobbiamo considerare: 1. Se Dio esista; 2. Come egli sia o meglio come non

sia; 3. Dobbiamo studiare le cose spettanti alla sua operazione, cioè la scienza, la volontà e la

potenza. Sul primo membro di questa divisione si pongono tre quesiti: 1. Se sia di per sé evidente che

Dio esiste; 2. Se sia dimostrabile; 3. Se Dio esista.

Articolo 1 Se sia di per sé evidente che Dio esiste

SEMBRA che sia di per sé evidente che Dio esiste. Infatti: 1. Noi diciamo evidenti di per sé quelle

cose, delle quali abbiamo naturalmente insita la cognizione, com'è dei primi principi. Ora, come

assicura il Damasceno "la conoscenza dell'esistenza di Dio è in tutti naturalmente insita". Quindi

l'esistenza di Dio è di per sé evidente.

2. Evidente di per sé è ciò che subito s'intende, appena ne abbiamo percepito i termini; e questo

Aristotele lo attribuisce ai primi principi della dimostrazione: conoscendo infatti che cosa è il tutto e

che cosa è la parte, subito s'intende che il tutto è maggiore della sua parte. Ora, inteso che cosa

significhi la parola Dio, all'istante si capisce che Dio esiste. Si indica infatti con questo nome un

essere di cui non si può indicare uno maggiore: ora è maggiore ciò che esiste al tempo stesso nella

mente e nella realtà che quanto esiste soltanto nella mente: onde, siccome appena si è inteso questo

nome Dio, subito viene alla nostra mente (di concepire) la sua esistenza, ne segue che esista anche

nella realtà. Dunque che Dio esista è di per sé evidente.

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3. È di per sé evidente che esiste la verità; perché chi nega esistere la verità, ammette che esiste una

verità; infatti se la verità non esiste sarà vero che la verità non esiste. Ma se vi è qualche cosa di

vero, bisogna che esista la verità. Ora, Iddio è la Verità. "Io sono la via, la verità e la vita". Dunque

che Dio esista è di per sé evidente.

IN CONTRARIO: Nessuno può pensare l'opposto di ciò che è di per sé evidente, come spiega

Aristotele riguardo ai primi principi della dimostrazione. Ora, si può pensare l'opposto

dell'enunciato: Dio esiste, secondo il detto del Salmo: "Lo stolto dice in cuor suo "Iddio non c'è"".

Dunque che Dio esista non è di per sé evidente.

RISPONDO: Una cosa può essere di per sé evidente in due maniere: primo, in se stessa, ma non per

noi; secondo, in se stessa e anche per noi. E invero, una proposizione è di per sé evidente dal fatto

che il predicato è incluso nella nozione del soggetto, come questa: l'uomo é un animale; infatti

animale fa parte della nozione stessa di uomo. Se dunque è a tutti nota la natura del predicato e del

soggetto, la proposizione risultante sarà per tutti evidente, come avviene nei primi principi di

dimostrazione, i cui termini sono nozioni comuni che nessuno può ignorare, come ente e non ente, il

tutto e la parte, ecc. Ma se per qualcuno rimane sconosciuta la natura del predicato e del soggetto, la

proposizione sarà evidente in se stessa, non già per coloro che ignorano il predicato ed il soggetto

della proposizione. E così accade, come nota Boezio, che alcuni concetti sono comuni ed evidenti

solo per i dotti, questo, p. es.: "le cose immateriali non occupano uno spazio". Dico dunque che

questa proposizione Dio esiste in se stessa è di per sé evidente, perché il predicato s'identifica col

soggetto; Dio infatti, come vedremo in seguito, è il suo stesso essere: ma siccome noi ignoriamo

l'essenza di Dio, per noi non è evidente, ma necessita di essere dimostrata per mezzo di quelle cose

che sono a noi più note, ancorché di per sé siano meno evidenti, cioè mediante gli effetti.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. È vero che noi abbiamo da natura una conoscenza generale

e confusa dell'esistenza di Dio, in quanto cioè Dio è la felicità dell'uomo; perché l'uomo desidera

naturalmente la felicità, e quel che naturalmente desidera, anche naturalmente conosce. Ma questo

non è propriamente un conoscere che Dio esiste, come non è conoscere Pietro il vedere che qualcuno

viene, sebbene chi viene sia proprio Pietro: molti infatti pensano che il bene perfetto dell'uomo, la

felicità, consista nelle ricchezze, altri nei piaceri, altri in qualche altra cosa.

2. Può anche darsi che colui che sente questa parola Dio non capisca che si vuol significare con essa

un essere di cui non si può pensare il maggiore, dal momento che alcuni hanno creduto che Dio

fosse corpo. Ma dato pure che tutti col termine Dio intendano significare quello che si dice, cioè un

essere di cui non si può pensare il maggiore, da ciò non segue però la persuasione che l'essere

espresso da tale nome esista nella realtà delle cose; ma soltanto nella percezione dell'intelletto. Né si

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può arguire che esista nella realtà se prima non si ammette che nella realtà vi è una cosa di cui non si

può pensare una maggiore: ciò che non si concede da coloro che dicono che Dio non esiste.

3. Che esista la verità in generale è di per sé evidente; ma che vi sia una prima Verità non è per noi

altrettanto evidente.

Articolo 2 Se [l’esistenza di Dio] sia dimostrabile

SEMBRA non sia dimostrabile che Dio esiste. Infatti: 1. Che Dio esista è un articolo di fede.

Ora, le cose di fede non si possono dimostrare, perché la dimostrazione ingenera la scienza,

mentre la fede è soltanto delle cose non evidenti, come assicura l'Apostolo. Dunque non si può

dimostrare che Dio esiste.

2. Il termine medio di una dimostrazione si desume dalla natura del soggetto. Ora, di Dio noi non

possiamo sapere quello che è, ma solo quello che non è, come nota il Damasceno. Dunque non

possiamo dimostrare che Dio esiste.

3. Se si potesse dimostrare che Dio esiste, ciò non sarebbe che mediante i suoi effetti. Ma questi

effetti non sono a lui proporzionati, essendo egli infinito, ed essi finiti; infatti tra il finito e

l'infinito non vi è proporzione. Non potendosi allora dimostrare una causa mediante un effetto

sproporzionato, ne segue che non si possa dimostrare l'esistenza di Dio.

IN CONTRARIO: Dice l'Apostolo: "le perfezioni invisibili di Dio comprendendosi dalle cose

fatte, si rendono visibili", Ora, questo non avverrebbe, se mediante le cose create non si potesse

dimostrare l'esistenza di Dio; poiché la prima cosa che bisogna conoscere intorno ad un dato

soggetto è se esso esista.

RISPONDO: Vi è una duplice dimostrazione: L'una, procede dalla (cognizione della) causa, ed è

chiamata propter quid, e questa muove da ciò che di suo ha una priorità ontologica. L'altra, parte

dagli effetti ed è chiamata dimostrazione quia, e muove da cose che hanno una priorità soltanto

rispetto a noi: ogni volta che un effetto ci è più noto della sua causa, ci serviamo di esso per

conoscere la causa. Da qualunque effetto poi si può dimostrare l'esistenza della sua causa (purché

gli effetti siano per noi più noti della causa); perché dipendendo ogni effetto dalla sua causa,

posto l'effetto è necessario che preesista la causa. Dunque l'esistenza di Dio, non essendo rispetto

a noi evidente, si può dimostrare per mezzo degli effetti da noi conosciuti.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'esistenza di Dio ed altre verità che riguardo a Dio si

possono conoscere con la ragione naturale, non sono, al dire di S. Paolo, articoli di fede, ma

preliminari agli articoli di fede: difatti la fede presuppone la cognizione naturale, come la grazia

presuppone la natura, come (in generale) la perfezione presuppone il perfettibile. Però nulla

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impedisce che una cosa, la quale è di suo oggetto di dimostrazione e di scienza, sia accettata

come oggetto di fede da chi non arriva a capirne la dimostrazione.

2. Quando si vuol dimostrare una causa mediante l'effetto, è necessario servirsi dell'effetto in

luogo della definizione (o natura) della causa, per dimostrare che questa esiste; e ciò vale

specialmente nei riguardi di Dio. Per provare infatti che una cosa esiste, è necessario prendere

per termine medio la sua definizione nominale, non già la definizione reale, poiché la questione

riguardo all'essenza di una cosa viene dopo quella riguardante la sua esistenza. Ora, i nomi di

Dio provengono dai suoi effetti, come vedremo in seguito: perciò nel dimostrare l'esistenza di

Dio mediante gli effetti, possiamo prendere per termine medio quello che significa il nome Dio.

3. Da effetti non proporzionati alla causa non si può avere di questa una cognizione perfetta;

tuttavia da qualsiasi effetto noi possiamo avere manifestamente la dimostrazione che la causa

esiste, come si è detto. E così dagli effetti di Dio si può dimostrare che Dio esiste, sebbene non si

possa avere per mezzo di essi una conoscenza perfetta della di lui essenza

Articolo 3 Se Dio esista

SEMBRA che Dio non esista. Infatti: 1. Se di due contrari uno è infinito, l'altro resta

completamente distrutto. Ora, nel nome Dio s'intende affermato un bene infinito. Dunque, se

Dio esistesse, non dovrebbe esserci più il male. Viceversa nel mondo c'è il male. Dunque Dio

non esiste.

2. Ciò che può essere compiuto da un ristretto numero di cause, non si vede perché debba

compiersi da cause più numerose. Ora tutti i fenomeni che avvengono nel mondo, potrebbero

essere prodotti da altre cause, nella supposizione che Dio non esistesse: poiché quelli naturali si

riportano, come a loro principio, alla natura, quelli volontari, alla ragione o volontà umana.

Nessuna necessità, quindi, dell'esistenza di Dio.

IN CONTRARIO: Nell'Esodo si dice, in persona di Dio: "Io sono Colui che è".

RISPONDO: Che Dio esista si può provare per cinque vie. La prima e la più evidente è quella

che si desume dal moto. È certo infatti e consta dai sensi, che in questo mondo alcune cose si

muovono. Ora, tutto ciò che si muove è mosso da un altro. Infatti, niente si trasmuta che non sia

potenziale rispetto al termine del movimento; mentre chi muove, muove in quanto è in atto.

Perché muovere non altro significa che trarre qualche cosa dalla potenza all'atto; e niente può

essere ridotto dalla potenza all'atto se non mediante un essere che è già in atto. P. es., il fuoco

che è caldo attualmente rende caldo in atto il legno, che era caldo soltanto potenzialmente, e

così lo muove e lo altera. Ma non è possibile che una stessa cosa sia simultaneamente e sotto lo

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stesso aspetto in atto ed in potenza: lo può essere soltanto sotto diversi rapporti: così ciò che è

caldo in atto non può essere insieme caldo in potenza, ma è insieme freddo in potenza. È

dunque impossibile che sotto il medesimo aspetto una cosa sia al tempo stesso movente e

mossa, cioè che muova se stessa. È dunque necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da

un altro. Se dunque l'essere che muove è anch'esso soggetto a movimento, bisogna che sia

mosso da un altro, e questo da un terzo e così via. Ora, non si può in tal modo procedere

all'infinito, perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, e di conseguenza nessun altro

motore, perché i motori intermedi non muovono se non in quanto sono mossi dal primo motore,

come il bastone non muove se non in quanto è mosso dalla mano. Dunque è necessario arrivare

ad un primo motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio. La seconda

via parte dalla nozione di causa efficiente. Troviamo nel mondo sensibile che vi è un ordine tra

le cause efficienti, ma non si trova, ed è impossibile, che una cosa sia causa efficiente di se

medesima; ché altrimenti sarebbe prima di se stessa, cosa inconcepibile. Ora, un processo

all'infinito nelle cause efficienti è assurdo. Perché in tutte le cause efficienti concatenate la

prima è causa dell'intermedia, e l'intermedia è causa dell'ultima, siano molte le intermedie o una

sola; ora, eliminata la causa è tolto anche l'effetto: se dunque nell'ordine delle cause efficienti

non vi fosse una prima causa, non vi sarebbe neppure l'ultima, né l'intermedia. Ma procedere

all'infinito nelle cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa efficiente; e così non

avremo neppure l'effetto ultimo, né le cause intermedie: ciò che evidentemente è falso. Dunque

bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio. La terza via è presa dal

possibile (o contingente) e dal necessario, ed è questa. Tra le cose noi ne troviamo di quelle che

possono essere e non essere; infatti alcune cose nascono e finiscono, il che vuol dire che

possono essere e non essere. Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre

state, perché ciò che può non essere, un tempo non esisteva. Se dunque tutte le cose (esistenti in

natura sono tali che) possono non esistere, in un dato momento niente ci fu nella realtà. Ma se

questo è vero, anche ora non esisterebbe niente, perché ciò che non esiste, non comincia ad

esistere se non per qualche cosa che è. Dunque, se non c'era ente alcuno, è impossibile che

qualche cosa cominciasse ad esistere, e così anche ora non ci sarebbe niente, il che è

evidentemente falso. Dunque non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà

vi sia qualche cosa di necessario. Ora, tutto ciò che è necessario, o ha la causa della sua

necessità in altro essere oppure no. D'altra parte, negli enti necessari che hanno altrove la causa

della loro necessità, non si può procedere all'infinito, come neppure nelle cause efficienti

secondo che si è dimostrato. Dunque bisogna concludere all'esistenza di un essere che sia di per

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sé necessario, e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E

questo tutti dicono Dio. La quarta via si prende dai gradi che si riscontrano nelle cose. È un

fatto che nelle cose si trova il bene, il vero, il nobile e altre simili perfezioni in un grado

maggiore o minore. Ma il grado maggiore o minore si attribuisce alle diverse cose secondo che

esse si accostano di più o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto; così più caldo è ciò che

maggiormente si accosta al sommamente caldo. Vi è dunque un qualche cosa che è vero al

sommo, ottimo e nobilissimo, e di conseguenza qualche cosa che è il supremo ente; perché,

come dice Aristotele, ciò che è massimo in quanto vero, è tale anche in quanto ente. Ora, ciò

che è massimo in un dato genere, è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, come il fuoco,

caldo al massimo, è cagione di ogni calore, come dice il medesimo Aristotele. Dunque vi è

qualche cosa che per tutti gli enti è causa dell'essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E

questo chiamiamo Dio. La quinta via si desume dal governo delle cose. Noi vediamo che

alcune cose, le quali sono prive di conoscenza, cioè i corpi fisici, operano per un fine, come

appare dal fatto che esse operano sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la

perfezione: donde appare che non a caso, ma per una predisposizione raggiungono il loro fine.

Ora, ciò che è privo d'intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere

conoscitivo e intelligente, come la freccia dall'arciere. Vi è dunque un qualche essere

intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine: e quest'essere chiamiamo

Dio.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Come dice S. Agostino: "Dio, essendo sommamente

buono, non permetterebbe in nessun modo che nelle sue opere ci fosse del male, se non fosse

tanto potente e tanto buono, da saper trarre il bene anche dal male". Sicché appartiene

all'infinita bontà di Dio il permettere che vi siano dei mali per trarne dei beni.

2. Certo, la natura ha le sue operazioni, ma siccome le compie per un fine determinato sotto la

direzione di un agente superiore, è necessario che siano attribuite anche a Dio, come a loro

prima causa. Similmente gli atti del libero arbitrio devono essere ricondotti ad una causa più

alta della ragione e della volontà umana, perché queste sono mutevoli e defettibili, e tutto ciò

che è mutevole e tutto ciò che può venir meno, deve essere ricondotto a una causa prima

immutabile e di per sé necessaria, come si è dimostrato.

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Renato Cartesio (1596-1650)

Meditazioni di prima filosofia (1641) lingua originale: latino

edizione di riferimento: C. Adam e P. Tannery (12 voll.), Paris, 1897-1913

tr. it. basata su A. Tilgher (1928)

SINOSSI DELLE SEI MEDITAZIONI CHE SEGUONO

Nella prima, espongo le ragioni per le quali possiamo dubitare generalmente di tutte le

cose, e particolarmente delle cose materiali, almeno fino a che non avremo altri fondamenti

nelle scienze, che quelli che abbiamo avuti fin qui. Ora, l’utilità di un dubbio così generale,

benché non appaia manifesta a prima vista, tuttavia è grandissima in questo, che quel

dubbio ci libera da ogni sorta di pregiudizi, e ci prepara un cammino facilissimo per

assuefare il nostro spirito a distaccarsi dai sensi; ed infine, grazie ad esso, non potremo più

avere alcun altro dubbio su quel che scopriremo in appresso esser vero.

Nella seconda, lo spirito che, usando della sua propria libertà, suppone che tutte le

cose, della cui esistenza è possibile anche il minimo dubbio, non esistano, riconosce

essere assolutamente impossibile che, frattanto, non esista egli stesso. Ed anche ciò è

di una grandissima utilità, poiché per questo mezzo egli distingue facilmente le cose

che appartengono a lui, cioè alla natura intellettuale, e quelle che appartengono al

corpo. Ma poiché può accadere che alcuni attendano da me in quel luogo delle ragioni

per provare l’immortalità dell’anima, io credo doverli adesso avvertire che, avendo

cercato di non scrivere niente in questo trattato, di cui non avessi delle dimostrazioni

esattissime, mi sono visto obbligato a seguire un ordine simile a quello di cui si

servono i geometri, e cioè a premettere tutte le cose, dalle quali dipende la

proposizione che si cerca, prima di concluder qualcosa. Ora, la prima e principale

cosa che si richiede per conoscere l’immortalità dell’anima, è di formarne un concetto

chiaro e lucido, e interamente distinto da tutti i concetti che si possono avere del

corpo: il che è stato fatto in quel luogo. Ho richiesto, oltre ciò, di sapere che tutte le

cose che noi concepiamo chiaramente e distintamente sono vere, secondo che noi le

concepiamo: e questo non ha potuto essere provato prima della quarta Meditazione.

Di più, bisogna avere un concetto distinto della natura corporea, il quale si forma in

parte nella seconda, in parte nella quinta e sesta Meditazione. Ed infine si deve

concludere da tutto ciò, che le cose che concepiamo chiaramente e distintamente

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come sostanze differenti, quali lo spirito e il corpo, sono in effetto delle sostanze

diverse, e realmente distinte le une dalle altre: e questo si conclude nella sesta

Meditazione. Ed in questa stessa Meditazione ciò si conferma anche per il fatto che

noi non concepiamo nessun corpo se non come divisibile, mentre lo spirito, o l’anima

dell’uomo, non si può concepire che come indivisibile: ed in effetti non possiamo

concepire la metà dl nessun’anima, come invece possiamo fare del più piccolo di tutti

i corpi, si che le loro nature: non sono solamente riconosciute come diverse, ma

anche, in certo snodo, come contrarie. Ora è necessario si sappia che io non mi sono

impegnato a dirne di più nel presente trattato, sia perché ciò basta a mostrare

chiaramente che dalla corruzione del corpo non segue la morte dell’anima, e così a

dare agli uomini la speranza di una seconda vita dopo la morte; sia anche perché le

premesse, dalle quali si può conchiudere l’immortalità dell’anima, dipendono dalla

spiegazione di tutta la Fisica. In primo luogo, per sapere che generalmente tutte le

sostanze, cioè tutte le cose che non possono esistere senza essere create da Dio, sono

di per natura incorruttibili, e non possono mai cessare di essere, se non sono ridotte a

niente da quello stesso Dio, che voglia negare per il suo concorso ordinario. Ed in

séguito, affinché si noti che il corpo, preso in generale, è una sostanza, e per questa

ragione anch’esso non perisce; ma che il corpo umano, in quanto differisce dagli altri

corpi, non è formato e composto che da una configurazione di membra e di altri simili

accidenti, e l’anima umana, al contrario, non è composta di nessun accidente, ma è

una pura sostanza. Poiché, sebbene tutti i suoi accidenti si cangino, e, per esempio,

essa concepisca certe cose, ne voglia altre, ne senta altre ecc. è sempre tuttavia la

medesima anima: mentre il corpo umano non è più lo stesso, per ciò solo che la figura

di alcune delle sue parti si trova cambiata. Dal che segue che il corpo umano può

facilmente perire, ma che lo spirito, o l’anima dell’uomo (cose che io non distinguo),

è immortale di sua natura.

Nella terza Meditazione, mi sembra di avere spiegato abbastanza lungamente il

principale argomento di cui mi servo per provare l’esistenza di Dio. Tuttavia, affinché

lo spirito del lettore si potesse più facilmente astrarre dai sensi, non ho voluto

servirmi in quel luogo di nessuna comparazione tratta dalle cose corporee, sì che

forse vi sono rimaste molte oscurità, le quali, come spero, saranno interamente

spiegate nelle risposte da me fatte alle obbiezioni, che poi mi sono state proposte.

Così, per esempio, è assai difficile intendere come l’idea di un essere sovranamente

perfetto, la quale si trova in noi, contenga tanta realtà oggettiva, cioè partecipi per

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rappresentazione a tanti gradi di essere e di perfezione da dover necessariamente

venire (la una causa sovranamente perfetta. Ma io l’ho spiegato in quelle risposte con

la comparazione di una macchina assai ingegnosa, l’idea della quale si trovi nello

spirito di qualche operaio; poiché, come l’artificio oggettivo di questa idea deve avere

qualche causa, e cioè la scienza dell’operaio o di qualche altro dal quale egli l’abbia

appresa, è egualmente impossibile che l’idea di Dio, che è in noi, non abbia per causa

Dio stesso.

Nella quarta, è provato che le cose che noi concepiamo chiaramente e distintamente

sono tutte vere; ed insieme è spiegato in che consista la ragione dell’errore o falsità:

ciò che deve necessariamente essere saputo, tanto per confermare le verità precedenti,

quanto per meglio intendere quelle che seguono. Ma tuttavia è d’uopo notare che in

quel luogo io non tratto in nessun modo del peccato, e cioè dell’errore che si commette

nella ricerca del bene e del male, ma solo di quello che si produce nel giudizio e nel

discernimento del vero e del falso; e che non intendo parlare delle cose che appartengono

alla fede, o alla condotta della vita, ma solo di quelle che riguardano le verità speculative,

conosciute con l’aiuto del solo lume naturale.

Nella quinta, oltre ad essere spiegata la natura corporea presa in generale, l’esistenza di

Dio è ancora dimostrata da nuove ragioni, nelle quali tuttavia si possono trovare alcune

difficoltà, che saranno risolte nelle risposte alle obbiezioni che mi sono state fatte; e così a

scopre in qual modo è vero che la certezza stessa delle dimostrazioni geometriche dipende

dalla conoscenza di un Dio.

Infine, nella sesta, distinguo l’azione dell’intelletto da quella dell’immaginazione e

descrivo i caratteri di questa distinzione. Mostro che l’anima dell’uomo è realmente

distinta dal corpo, e tuttavia gli è così strettamente congiunta ed unita, che quasi compone

una sola cosa con lui. Tutti gli errori che procedono dai sensi sono esposti, con i mezzi di

evitarli. Ed infine porto tutte le ragioni, dalle quali si può concludere l’esistenza delle cose

materiali: non che io le giudichi molto utili per provare ciò che esse provano, cioè che vi è

un mondo, che gli uomini hanno dei corpi, ed altre cose simili, che non sono mai state

messe in dubbio da nessun uomo di buon senso; ma perché considerandole da vicino, si

viene a conoscere che esse non sono così ferme, né così evidenti come quelle che ci

conducono alla conoscenza di Dio e della nostra anima; di guisa che queste sono le più

certe e le più evidenti che possano cadere sotto la conoscenza dello spirito umano. Ed è

tutto quello che ho voluto provare in queste sei meditazioni, il che è causa che io ometta

qui molte altre questioni, di cui ho anche parlato occasionalmente in questo trattato.

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PRIMA MEDITAZIONE

DELLE COSE CHE SI POSSONO REVOCARE IN DUBBIO

Già da qualche tempo mi sono accorto che, fin dai miei primi anni, avevo accolto come

vere una quantità di false opinioni, onde ciò che in appresso ho fondato sopra princìpi così

mal sicuri, non poteva essere che assai dubbio ed incerto; di guisa che m’era d’uopo

prendere seriamente una volta in vita mia a disfarmi di tutte le opinioni ricevute fino allora

in mia credenza, per cominciare tutto di nuovo dalle fondamenta, se volevo stabilire

qualche cosa di fermo e di durevole nelle scienze. Ma poiché quest’impresa mi sembrava

grandissima, ho atteso di aver raggiunto un’età così matura, che non potessi sperarne dopo

di essa un’altra più adatta; il che mi ha fatto rimandare così a lungo, che, ormai, crederei di

commettere un errore, se impiegassi ancora a deliberare il tempo che mi resta per agire.

Ora, dunque, che il mio spirito, è libero da ogni cura, e che mi son procurato un riposo

sicuro in una pacifica solitudine, mi applicherò seriamente e con libertà a una distruzione

generale di tutte le mie antiche opinioni. E non sarà necessario, per arrivare a questo,

provare che esse sono tutte false, della qual cosa, forse, non verrei mai a capo; ma in

quanto la ragione mi persuade già che io non debbo meno accuratamente trattenermi dal

prestar fede alle cose che non sono interamente certe e indubitabili, che a quelle le quali ci

appaiono manifestamente false, il menomo motivo di dubbio che troverò basterà per

farmele tutte rifiutare. E perciò non v’è bisogno che io le esamini ognuna in particolare, il

che richiederebbe un lavoro infinito; ma, poiché la rovina delle fondamenta trascina

necessariamente con sé il resto dell’edificio, io attaccherò dapprima i princìpi sui quali

tutte le mie antiche opinioni erano poggiate.

Tutto ciò che ho ammesso fino ad ora come il sapere più vero e sicuro, l’ho appreso dai

sensi, o per mezzo dei sensi: ora, ho qualche volta provato che questi sensi erano

ingannatori, ed è regola di prudenza non fidarsi mai interamente di quelli che ci hanno una

volta ingannati.

Ma, benché i sensi c’ingannino qualche volta, riguardo alle cose molto minute e molto

lontane, se ne incontrano forse molte altre, delle quali non si può ragionevolmente

dubitare, benché noi le conosciamo per mezzo loro: per esempio, che io sono qui, seduto

accanto al fuoco, vestito d’una veste da carnera, con questa carta fra le mani; ed altre cose

di questa natura. E come potrei io negare che queste mani e questo corpo sono miei ? a

meno che, forse, non mi paragoni a quegl’insensati, il cervello dei quali è talmente turbato

ed offuscato dai neri vapori della bile, che asseriscono costantemente di essere dei re,

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mentre sono dei pezzenti; di essere vestiti d’oro e di porpora, mentre sono nudi affatto; o

s’immaginano di essere delle brocche, o d’avere un corpo di vetro. Ma costoro sono pazzi;

ed io non sarei da meno, se mi regolassi sul loro esempio.

Tuttavia debbo qui considerare che sono uomo, e che per conseguenza, ho l’abitudine di

dormire e di rappresentarmi nei sogni le stesse cose, e alcune volte delle meno verosimili

ancora, che quegl’insensati quando vegliano. Quante volte m’è accaduto di sognare, la

notte, che io ero in questo luogo, che ero vestito, che ero presso il fuoco, benché stessi

spogliato dentro il mio letto? È vero che ora mi sembra che non è con occhi addormentati

che io guardo questa carta, che questa testa che io muovo non è punto assopita, che

consapevolmente di deliberato proposito io stendo questa mano e la sento: ciò che accade

nel sonno non sembra certo chiaro e distinto come tutto questo. Ma, pensandoci

accuratamente, mi ricordo d’essere stato spesso ingannato, mentre dormivo, da simili

illusioni. E arrestandomi su questo pensiero, vedo così manifestamente che non vi sono

indizi concludenti, né segni abbastanza certi per cui sia possibile distinguere nettamente la

veglia dal sonno, che ne sono tutto stupito; ed il mio stupore è tale da esser quasi capace di

persuadermi che io dormo.

Supponiamo, dunque, ora, che noi siamo addormentati, e che tutte queste particolarità,

cioè che apriamo gli occhi, moviamo la testa, stendiamo le mani, e simili, non siano se non

delle false illusioni; e pensiamo che forse le nostre mani e tutto il nostro corpo non siano

quali noi li vediamo. Tuttavia bisogna almeno confessare che le cose, le quali ci sono

rappresentate nel sonno, sono come dei quadri e delle pitture, che non possono essere

formate se non a somiglianza di qualche cosa di reale e di vero; e che così, almeno, queste

cose generali, cioè degli occhi, una testa, delle mani, e tutto il resto del corpo, non sono

cose immaginarie, ma vere ed esistenti. E, a dir vero, gli stessi pittori, anche quando si

sforzano con il maggior artificio di rappresentare Sirene e Satiri in forme bizzarre e

straordinarie, non possono tuttavia attribuire loro forme e nature interamente nuove, ma

fanno soltanto una certa mescolanza e composizione delle membra di diversi animali;

ovvero, se per avventura la loro immaginazione è abbastanza stravagante da inventare

qualche cosa di così nuovo, che mai noi non abbiamo visto niente di simile, in modo tale

che la loro opera ci rappresenti una cosa puramente finta ed assolutamente falsa, certo

almeno i colori di cui la compongono debbono, essi, essere veri.

E per la stessa ragione, benché queste cose generali, cioè degli occhi, una testa, delle

mani, e simili, possano essere immaginarie, bisogna tuttavia confessare che vi sono cose

ancora più semplici e più universali, le quali sono vere ed esistenti; dalla mescolanza delle

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quali, né più né meno che dalla mescolanza di alcuni colori veri, tutte queste immagini

delle cose, che risiedono nel nostro pensiero, siano esse vere e reali, siano finte e

fantastiche, sono formate. Di questo genere di cose è la natura corporea in generale e la sua

estensione; e così pure la figura delle cose estese, la loro quantità o grandezza, e il loro

numero; come anche il luogo dove esse sono, il tempo che misura la loro durata, e simili.

Per questo, forse, noi non concluderemo male, se diremo che la fisica, l’astronomia, la

medicina e tutte le altre scienze, che dipendono dalla considerazione delle cose composte,

sono assai dubbie ed incerte; ma che l’aritmetica, la geometria e le altre scienze di questo

tipo, le quali non trattano se non di cose semplicissime e generalissime, senza darsi troppo

pensiero se esistano o meno in natura, contengono qualche cosa di certo e d’indubitabile.

Perché, sia che io vegli o che dorma, due e tre uniti insieme formeranno sempre il numero

cinque, ed il quadrato non avrà mai più di quattro lati; e non sembra possibile che delle

verità così manifeste possano essere sospettate di falsità o d’incertezza.

Tuttavia è da lungo tempo che ho nel mio spirito una certa opinione, secondo la quale vi

è un Dio che può tutto, e da cui io sono stato creato e prodotto così come sono. Ora, chi

può assicurarmi che questo Dio non abbia fatto in modo che non vi sia nessuna terra,

nessun cielo, nessun corpo esteso, nessuna figura, nessuna grandezza, nessun luogo, e che,

tuttavia, io senta tutte queste cose, e tutto ciò mi sembri esistere non diversamente da come

lo vedo? Ed inoltre, come io giudico qualche volta che gli altri s’ingannino anche nelle

cose che credono di sapere con la maggior certezza, può essere che Egli abbia voluto che

io m’inganni tutte le volte che fo l’addizione di due e di tre, o che enumero i lati di un

quadrato, o che giudico di qualche altra cosa ancora più facile, se può immaginarsi cosa

più facile di questa. Ma forse Dio non ha voluto che io fossi ingannato in tal guisa, perché

di lui si dice che è sovranamente buono. Tuttavia, se ripugna alla sua bontà l’avermi fatto

tale che io m’inganni sempre, sembrerebbe esserle contrario anche il permettere che io

m’inganni qualche volta; e tuttavia io non posso mettere in dubbio che egli lo permetta.

Vi saranno forse qui delle persone, che preferirebbero negare l’esistenza di un Dio così

potente, piuttosto che credere incerte tutte le altre cose. Ma per adesso non resistiamo loro,

e supponiamo, in loro favore, che tutto ciò che è detto qui di Dio sia una favola. Tuttavia,

in qualunque maniera essi suppongano che io sia pervenuto allo stato e all’essere che

possiedo, sia che l’attribuiscano a qualche destino o fatalità, sia che lo riferiscano al caso,

sia che sostengano che ciò accade per un continuo concatenamento e legame delle cose, è

certo che, poiché errare ed ingannarsi è una specie d’imperfezione, quanto meno potente

sarà l’autore che essi attribuiranno alla mia origine, tanto più probabile sarà che io sia

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talmente imperfetto da ingannarmi sempre. Alle quali ragioni io non ho certo nulla da

rispondere, ma sono costretto a confessare che, di tutte le opinioni che avevo altra volta

accolte come vere, non ve n’è una della quale non possa ora dubitare, non già per

inconsideratezza o leggerezza, ma per ragioni fortissime e maturamente considerate: di

guisa che è necessario che io arresti e sospenda oramai il mio giudizio su questi pensieri, e

che non dia loro più credito di quel che darei a cose, che mi paressero evidentemente false,

se desidero di trovare alcunché di costante e di sicuro nelle scienze.

Ma non basta aver fatto queste osservazioni, bisogna che io prenda anche cura di

ricordarmene; perché quelle antiche e ordinarie opinioni mi ritornano ancora spesso nel

pensiero, poiché il lungo e familiare uso dà loro il diritto di occupare il mio spirito contro il

mio volere, e di rendersi quasi padrone della mia credenza. Ed io non mi disabituerò mai di

aderire loro e di aver confidenza in esse, finché le considererò quali sono in effetti, cioè in

qualche modo dubbie, come testé ho mostrato, e tuttavia probabilissime, di guisa che si ha

molto più ragione di credervi che di negarle. Ecco perché io penso di farne un uso più

prudente, se, prendendo un partito contrario, impiego tutte le mie cure ad ingannare me

stesso, fingendo che tutti questi pensieri siano falsi e immaginari; finché, avendo talmente

posto in. equilibrio i miei pregiudizi, che essi non possano fare inclinare il mio parere più

da un lato che da un altro, il mio giudizio non sia più oramai dominato da cattivi usi e

distolto dal retto cammino che può condurlo alla conoscenza della verità. Io sono sicuro,

infatti, che non può esserci pericolo né errore in questa via, e che non saprei oggi conceder

troppo alla mia diffidenza, poiché ora non si tratta d’agire, ma solo di meditare e di

conoscere.

Io supporrò, dunque, che vi sia, non già un vero Dio, che è fonte sovrana di verità, ma un

certo cattivo genio [genium aliquem malignum], non meno astuto e ingannatore che

possente, che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo,

l’aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che

illusioni e inganni, di cui egli si serve per sorprendere la mia credulità. Considererò me

stesso come privo affatto di mani, di occhi, di carne, di sangue, come non avente alcun

senso, pur credendo falsamente di aver tutte queste cose. Io resterò ostinatamente attaccato

a questo pensiero; se, con questo mezzo, non e in mio potere di pervenire alla conoscenza

di verità alcuna, almeno è in mio potere di sospendere il mio giudizio. Ecco perché baderò

accuratamente a non accogliere alcuna falsità, e preparerò così bene il mio spirito a tutte le

astuzie di questo grande ingannatore, che, per potente ed astuto ch’egli sia, non mi potrà

mai imporre nulla.

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Ma questo disegno è penoso e laborioso, ed una certa pigrizia mi riporta insensibilmente

nel corso della mia vita ordinaria. E a quel modo che uno schiavo, il quale godeva in sogno

d’una libertà immaginaria, quando comincia a sospettare che la sua libertà non è che un

sogno, teme d’essere risvegliato, e cospira con quelle illusioni piacevoli, per esserne più

lungamente ingannato, così io ricado insensibilmente da me stesso nelle mie antiche

opinioni, ed ho paura di risvegliarmi da quest’assopimento, per tema che le veglie

laboriose che succederebbero alla tranquillità di questo riposo, invece di portarmi qualche

luce e qualche rischiaramento nella conoscenza della verità, non abbiano ad essere

insufficienti per illuminare le tenebre delle difficoltà che sono state agitate testé.

SECONDA MEDITAZIONE

DELLA NATURA DELLO SPIRITO UMANO E CHE QUESTO È PIÙ FACILE A

CONOSCERSI CHE IL CORPO

La meditazione che feci ieri mi ha riempito lo spirito di tanti dubbi, che, oramai, non è più

in mio potere dimenticarli. E tuttavia non vedo in qual maniera potrò risolverli; come se

tutt’a un tratto fossi caduto in un’acqua profondissima, sono talmente sorpreso, che non

posso né poggiare i piedi sul fondo, né nuotare per sostenermi alla superficie. Nondimeno

io mi sforzerò, e seguirò da capo la stessa via in cui ero entrato ieri, allontanandomi da

tutto quello in cui potrò immaginare il menomo dubbio, proprio come farei se lo

riconoscessi assolutamente falso; e continuerò sempre per questo cammino, fino a che non

abbia incontrato qualche cosa di certo, o almeno, se altro non m’è possibile, fino a che

abbia appreso con tutta certezza che al mondo non v’è nulla di certo.

Archimede, per togliere il globo terrestre dal suo posto e trasportarlo altrove, domandava

un sol punto fisso ed immobile. Così io avrò diritto di concepire alte speranze, se sarò

abbastanza fortunato da trovare solo una cosa, che sia certa e indubitabile.

Io suppongo, dunque, che tutte le cose che vedo siano false; mi pongo bene in mente che

nulla c’è mai stato di tutto ciò che la mia memoria, riempita di menzogne, mi rappresenta;

penso di non aver senso alcuno; credo che il corpo, la figura, l’estensione, il movimento ed

il luogo non siano che finzioni [chimeræ] del mio spirito. Che cosa, dunque, potrà essere

reputato vero ? Forse niente altro, se non che non v’è nulla al mondo di certo.

Ma che ne so io se non vi sia qualche altra cosa, oltre a quelle che testé ho giudicato

incerte, della quale non si possa avere il menomo dubbio? Non v’è forse qualche Dio, o

qualche altra potenza, che mi mette nello spirito questi pensieri? Ciò non è necessario,

perché forse io sono capace di produrli da me. Ed io stesso, almeno, sono forse qualche

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cosa? Ma ho già negato di avere alcun senso ed alcun corpo. Esito, tuttavia; che cosa,

infatti, segue di là? Sono io talmente dipendente dal corpo e dai sensi, da non poter esistere

senza di essi? Ma mi sono convinto che non vi era proprio niente nel mondo, che non vi

era né cielo, né terra, né spiriti, né corpi; non mi sono, dunque, io, in pari tempo, persuaso

che non esistevo ? No, certo; io esistevo senza dubbio, se mi sono convinto di qualcosa, o

se solamente ho pensato qualcosa. Ma vi è un non so quale ingannatore potentissimo e

astutissimo, che impiega ogni suo sforzo nell’ingannarmi sempre. Non v’è dunque dubbio

che io esisto, s’egli m’inganna; e m’inganni fin che vorrà, egli non saprà mai fare che io

non sia nulla, fino a che penserò di essere qualche cosa. Di modo che, dopo avervi ben

pensato, ed avere accuratamente esaminato tutto, bisogna infine concludere, e tener fermo,

che questa proposizione: lo sono, io esisto, è necessariamente vera tutte le volte che la

pronuncio, o che la concepisco nel mio spirito.

Ma io non conosco ancora abbastanza chiaramente ciò che sono, io che sono certo di

essere; di guisa che, oramai, bisogna che badi con la massima accuratezza a non prendere

imprudentemente qualche altra cosa per me, e così a non ingannarmi in questa conoscenza

che io sostengo essere più certa e più evidente di tutte quelle che ho avuto in precedenza.

Ecco perché io considererò da capo ciò che credevo che esistesse prima che entrassi in

questi ultimi pensieri; e dalle mie antiche opinioni toglierò tutto quel che può essere

combattuto con le ragioni da me sopra allegate, sì che resti solo ciò che è interamente

indubitabile. Che cosa, dunque, ho io creduto dapprima di essere? Senza difficoltà, ho

pensato di essere un uomo. Ma che cosa è un uomo? Dirò che è un animale ragionevole?

No di certo: perché bisognerebbe, dopo, ricercare che cosa è animale, e che cosa è

ragionevole, e così, da una sola questione, cadremmo insensibilmente in un’infinità di altre

più difficili ed avviluppate, ed io non vorrei abusare del poco tempo ed agio che mi resta,

impiegandolo a sbrogliare simili sottigliezze. Ma mi arresterò piuttosto a considerare qui i

pensieri, che nascevano prima da se stessi nel mio spirito, e che non mi erano ispirati che

dalla mia sola natura, quando mi consacravo alla considerazione del mio essere. Io mi

consideravo dapprima come avente un viso, delle mani, delle braccia, e tutta questa

macchina composta d’ossa e di carne, così come essa appare in un cadavere: macchina che

io designavo con il nome di corpo. Io consideravo, oltre a ciò, che mi nutrivo, che

camminavo, che sentivo e che pensavo: e riportavo tutte queste azioni all’anima; ma non

mi fermavo a pensare che cosa fosse quest’anima, oppure, se mi ci fermavo, immaginavo

che essa fosse qualcosa di estremamente rado e sottile, come un vento, una fiamma, o

un’aria delicatissima, insinuata e diffusa nelle parti più grossolane di me. Per ciò che

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riguardava il corpo, non dubitavo per nulla della sua natura; perché pensavo di conoscerla

molto distintamente, e, se avessi voluto spiegarla secondo le nozioni che ne avevo, l’avrei

descritta in questa maniera: per corpo intendo tutto ciò che può esser determinato in

qualche figura; che può- essere compreso in qualche luogo, e riempire uno spazio in

maniera tale, che ogni altro corpo ne sia escluso; che può essere sentito o col tatto, o con la

vista, o con l’udito, o col gusto, o con l’odorato; che può essere mosso in più maniere, non

da se stesso, ma da qualcosa di estraneo, da cui sia toccato e di cui riceva l’impressione.

Poiché non credevo in alcun modo che si dovesse attribuire alla natura corporea il

privilegio d’avere in sé la potenza di muoversi, di sentire e di pensare; al contrario, mi

stupivo piuttosto di vedere che simili facoltà si trovassero in certi corpi.

Ma io, chi sono io, ora che suppongo che vi è qualcuno, che è estremamente potente e,

se oso dirlo, malizioso e astuto, che impiega tutte le sue forze e tutta la sua abilità ad

ingannarmi? Posso io esser sicuro di avere la più piccola di tutte le cose, che sopra ho

attribuito alla natura corporea? Io mi fermo a pensarvi con attenzione, percorro e ripercorro

tutte queste cose nel mio spirito, e non ne incontro alcuna, che possa dire essere in me. Non

v’è bisogno che mi fermi a enumerarle. Passiamo, dunque, agli attributi dell’anima, e

vediamo se ve ne sono alcuni, che siano in me. I primi sono di nutrirmi e camminare; ma

se è vero che io non ho corpo, è vero anche che non posso camminare né nutrirmi. Un altro

attributo è il sentire; ma, egualmente, non si può sentire senza il corpo: senza contare che

ho creduto talvolta di sentire parecchie cose durante il sonno, che al mio risveglio ho

riconosciuto non aver sentito di fatto. Un altro è il pensare; ed io trovo qui che il pensiero è

attributo che m’appartiene: esso solo non può essere distaccato da me: io sono, io esisto:

questo è certo; ma per quanto tempo? Invero, per tanto tempo per quanto penso; perché

forse mi potrebbe accadere, se cessassi di pensare, di cessare in pari tempo d’essere o

d’esistere. Io non ammetto adesso nulla che non sia necessariamente vero: io non sono,

dunque, per parlar con precisione, se non una cosa che pensa, e cioè uno spirito, un

intelletto o una ragione, i quali sono termini il cui significato m’era per lo innanzi ignoto.

Ora, io sono una cosa vera, e veramente esistente; ma quale cosa? L’ho detto: una cosa che

pensa. E che altro? Ecciterò ancora la mia immaginazione per ricercare se non sia qualcosa

di più. Io non sono quest’unione di membra che si chiama il corpo umano; io non sono

un’aria sottile e penetrante, diffusa in tutte queste membra; io non sono un vento, un soffio,

un vapore, e nulla di tutto ciò che posso fingere e immaginare, poiché ho supposto che

tutto ciò non fosse niente; eppure, senza cambiare questa supposizione, io continuo a

essere certo che sono qualcosa.

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Ma egualmente può accadere che queste stesse cose, che io suppongo non esistere,

poiché mi sono sconosciute, non siano di fatto differenti da quel me, che io conosco. Io

non ne so niente; per ora non discuto di ciò; io non posso dare il mio giudizio che sulle

cose che mi sono note: io ho riconosciuto di esistere, e ricerco chi sono io, io che ho

riconosciuto di esistere. Ora è certissimo che questa nozione e conoscenza di me stesso,

così precisamente presa, non dipende dalle cose, l’esistenza delle quali non mi è ancora

nota, ‘né, per conseguenza, ed a più forte ragione, da alcuna di quelle: che sono finte ed

inventate dall’immaginazione. Ed anche questi termini di fingere ed immaginare mi

avvertono del mio errore: io fingerei in effetti, se immaginassi di essere qualcosa, poiché

immaginare non è se non contemplare la figura o l’immagine d’una cosa corporea. Ora io

so con certezza di esistere, e, a un tempo, che tutte quelle immagini, e in generale tutte le

cose che si riferiscono alla natura del corpo, possono non essere altro che sogni o chimere.

In conseguenza di che, vedo chiaramente che avrei tanto poco ragione dicendo: - io

ecciterò la mia immaginazione per conoscere più distintamente chi sono –, che se dicessi: –

io sono adesso sveglio, e percepisco qualcosa di reale e di vero; ma, poiché non la

percepisco ancora abbastanza nettamente, m’addormenterò a bella posta, affinché i miei

sogni mi rappresentino quella stessa cosa con maggior verità cd evidenza. E, così

riconosco con certezza, che nulla di tutto ciò che posso comprendere per mezzo

dell’immaginazione appartiene a quella conoscenza che ho di me stesso, e che è necessario

richiamare e distogliere il proprio spirito da questa maniera di concepire, affinché possa

esso stesso riconoscere con la massima distinzione la sua natura.

Ma che cosa, dunque, sono io? Una cosa che pensa. E che cos’è una cosa che pensa? È

una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che

immagina anche, e che sente. Certo non è poco, se tutte queste cose appartengono alla mia

natura. Ma perché non vi apparterrebbero esse? Non sono io ancora quel medesimo, che

dubito quasi di tutto, che, nondimeno, intendo e concepisco certe cose, che assicuro ed

affermo quelle sole esser vere, che nego tutte le altre, che voglio e desidero conoscerne di

più, che non voglio essere ingannato, che immagino molte cose, qualche volta anche contro

la mia volontà; che molte cose sento come se mi venissero attraverso gli organi del corpo?

V’è qualcosa in tutto ciò che non sia tanto vero, quanto è certo che io sono ed esisto,

quand’anche dormissi sempre, e colui che m’ha dato l’essere si servisse di tutte le sue forze

per ingannarmi? V’è anche alcuno di questi attributi, che possa essere distinto dal mio

pensiero, o del quale si possa dire che esso è separato da me stesso? Poiché è di per sé così

evidente che sono io che dubito, che intendo e che desidero, che non v’è qui bisogno di

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aggiunger nulla per spiegarlo. E con eguale certezza io ho la facoltà d’immaginare; poiché

sebbene possa accadere (come ho supposto in precedenza) che le cose che immagino non

siano vere, tuttavia questa facoltà d’immaginare non cessa d’essere realmente in me, e fa

parte del mio pensiero. Infine io sono lo stesso che sente, cioè che riceve e conosce le cose

come per mezzo degli organi dei sensi, poiché di fatto vedo la luce, odo il rumore, sento il

calore. Ma mi si dirà che queste apparenze sono false e che io dormo. Sia pure; tuttavia è

certissimo almeno che mi sembra di vedere, di udire, di scaldarmi; e questo è propriamente

quel che in me si chiama sentire, e che, preso così precisamente, non è null’altro che

pensare. Da tutto ciò comincio a conoscere chi sono, con un po’ più di luce e di

distinzione.

Ma non posso trattenermi dal credere che le cose corporee, le immagini delle quali si

formano per mezzo del mio pensiero, e che cadono sotto i sensi, non siano conosciute più

distintamente di quella non so qual parte di me stesso, che non cade sotto l’immaginazione:

benché, in effetti, sia una cosa molto strana che cose che io trovo dubbie e lontane, siano

più chiaramente e più facilmente conosciute da me di quelle che sono vere e certe, e che

appartengono alla mia propria natura. Ma io vedo bene di che si tratta: il mio spirito si

compiace di smarrirsi, e non può contenersi ancora nei giusti limiti della verità.

Abbandoniamogli, dunque, ancora una volta le briglie, affinché, venendo dopo a

ritrargliele dolcemente ed a proposito, possiamo più facilmente regolarlo e condurlo.

Cominciamo dalla considerazione delle cose più comuni, e che noi crediamo di

comprendere nel modo più distinto, cioè i corpi che tocchiamo e vediamo. lo non intendo

parlare dei corpi in generale, perché queste nozioni generali sono d’ordinario più confuse,

ma di qualche corpo in particolare. Prendiamo, per esempio, questo pezzo di cera, che è

stato proprio ora estratto dall’alveare: esso non ha perduto ancora la dolcezza del miele che

conteneva, serba ancora qualcosa dell’odore dei fiori, dai quali è stato raccolto; il suo

colore, la sua figura, la sua grandezza sono manifesti; è duro, è freddo, lo si tocca, e, se lo

colpite, darà qualche suono. Infine, tutte le cose che possono distintamente far conoscere

un corpo, s’incontrano in questo.

Ma ecco che, mentre io parlo, lo si avvicina al fuoco: quel che vi restava di sapore esala,

l’odore svanisce, il colore si cangia, la figura si perde, la grandezza aumenta, diventa

liquido, si riscalda, a mala pena si può toccarlo, e benché lo si batta, non renderà più alcun

suono. Ma la cera stessa resta dopo questo cambiamento? Bisogna confessare ch’essa

resta; e nessuno può negarlo. Che cosa è, dunque, ciò che si conosceva con tanta

distinzione in questo pezzo di cera? Certo non può esser niente di quel che vi ho notato per

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mezzo dei sensi, poiché tutte le cose che cadevano sotto il gusto o l’odorato o la vista o il

tatto o l’udito si trovano cambiate, e tuttavia la cera stessa resta. Forse era ciò che io penso

ora: la cera cioè non era né quella dolcezza del miele, né quel piacevole odore dei fiori, né

quella bianchezza, né quella figura, né quel suono, ma solamente un corpo, che poco prima

mi appariva sotto queste forme, e che adesso si presenta sotto altre. Ma, parlando con

precisione, che cosa è ciò che immagino, quando la concepisco in questa maniera?

Consideriamolo attentamente, e, allontanando tutte le cose che non appartengono alla cera,

vediamo quanto resta. Certo non resta altro che qualcosa di esteso, di flessibile, di

mutevole. Ora, che cosa vuol dire: flessibile e mutevole? Non significa forse che io

immagino che questa cera, essendo rotonda, è capace di divenir quadrata, e di passare dal

quadrato in una figura triangolare? No di certo, non è questo, poiché io la concepisco

capace di ricevere un’infinità di simili cambiamenti, e non saprei, tuttavia, percorrere

quest’infinità con la mia immaginazione; e, per conseguenza, questo concetto che ho della

cera non si ottiene per mezzo della facoltà d’immaginare.

Ma che cos’è questa estensione ? Non è, essa pure, sconosciuta, poiché nella cera che si

fonde aumenta, e si trova ad essere ancora più grande quando è interamente fusa, e molto

più grande ancora, quando il calore aumenta di più? Né io concepirei chiaramente e

secondo verità che cosa è la cera, sé non pensassi ch’essa è capace di ricevere maggior

numero di variazioni, secondo l’estensione, di quel che io non abbia mai immaginato.

Bisogna, dunque, che ammetta che con l’immaginazione non saprei concepire che cosa sia

questa cera, e che non v’è se non il mio intelletto che la concepisca: io dico questo pezzo di

cera in particolare, poiché, per la cera in generale, la cosa è ancor più evidente. Ora, qual’è

questa cera, che non può essere concepita se non dall’intelletto o dallo spirito? Certo è la

stessa che io vedo, tocco, immagino, e la stessa che conoscevo fin da principio. Ma, e

questo è da notare, la percezione, o l’azione per mezzo della quale la si percepisce, non è

una visione, né un contatto, né un’immaginazione, e non è mai stata tale, benché per lo

innanzi così sembrasse, ma solamente una visione della mente [solius mentis inspectio], la

quale può esser imperfetta e confusa, come era prima, oppure chiara e distinta, com’è

adesso, secondo che la mia attenzione si porti più o meno verso le cose che sono in essa, e

di cui essa è composta.

Tuttavia non saprei troppo meravigliarmi, quando considero quanto il mio spirito sia

debole ed incline a scivolare insensibilmente nell’errore. Poiché, sebbene senza parlare io

consideri tutto ciò in me stesso, le parole, tuttavia, m’arrestano, e sono quasi ingannato dai

termini del linguaggio ordinario; noi diciamo infatti di vedere proprio la cera, se ci è

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presentata, e non già di giudicare che essa c’è, inferendolo dal colore e dalla figura: donde

quasi concluderei che si conosce la cera per mezzo della visione degli occhi, e non per la

sola ispezione dello spirito, se per caso non guardassi da una finestra degli uomini che

passano nella strada, alla vista dei quali non manco di dire che vedo degli uomini, proprio

come dico di veder della cera. E, tuttavia, che vedo io da questa finestra, se non dei

cappelli e dei mantelli, che potrebbero coprir degli spettri o degli uomini finti, mossi solo

per mezzo di molle? Ma io giudico che sono veri uomini, e così comprendo per mezzo

della sola facoltà di giudicare, che risiede nel mio spirito, ciò che credevo di vedere con i

miei occhi.

Un uomo che cerca di elevare la sua conoscenza al di là del comune, deve aver vergogna

di trarre delle occasioni di dubbio dalle forme e dai termini di parlare del volgo; io

preferisco passar oltre, e considerare se concepivo con maggior evidenza e perfezione la

cera, quando l’ho dapprima percepita ed ho creduto conoscerla per mezzo dei sensi

esteriori, o almeno del senso comune, come lo chiamano, e cioè della facoltà

immaginativa, di quel che non la concepisca adesso, dopo avere più esattamente esaminato

ciò che essa è, ed in quale maniera può essere conosciuta. Certo, sarebbe ridicolo mettere

ciò in dubbio. Poiché che cosa vi era in quella prima percezione, che fosse distinto ed

evidente, e che non potesse cadere in egual guisa sotto il senso del più piccolo fra gli

animali? Ma quand’io distinguo la cera dalle sue forme esteriori, e, come se le avessi tolto i

suoi vestimenti, la considero tutta nuda, certo, benché si possa ancora incontrare qualche

errore nel mio giudizio, non la posso concepire in questa maniera se non con mente umana.

Ma, infine, che dire di questa mente, e cioè di me stesso? Poiché fin qui non ammetto in

me altra cosa che uno spirito. Che pronunzierò io, dico, di me, che sembro concepire con

tanta distinzione questo pezzo di cera? Non conosco io me stesso, non solamente con

molto maggior verità e certezza, ma ancora con molto maggior distinzione e nettezza ?

Poiché, se io giudico che la cera è, o esiste, dal fatto ch’io la vedo, certo dal fatto ch’io la

vedo segue molto più evidentemente ch’io sono, o che esisto io stesso. Poiché può essere

che ciò che io vedo non sia in effetti cera; può anche accadere ch’io non abbia neppure

degli occhi per vedere alcuna cosa; ma non è possibile che, quando io vedo, o (ciò che non

distinguo più) quando penso di vedere, io che penso non sia qualche cosa. Egualmente, se

io giudico che la cera esiste dal fatto che la tocco, ne seguirà ancora la stessa cosa, e cioè

che io sono; e se io traggo quel giudizio dal fatto che la mia immaginazione me ne

persuade, o da qualunque altra causa, concluderò sempre la stessa cosa. E ciò che ho notato

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qui della cera, si può applicare a tutte le altre cose che mi sono esteriori, e che si trovano

fuori di me.

Ora, se la nozione e la conoscenza della cera sembra essere più netta e più distinta, dopo

clic essa è stata scoperta non solamente dalla vista o dal tatto, ma anche da molte altre

cause, con quanto maggior evidenza, distinzione e nettezza non debbo io conoscere me

stesso, poiché tutte le ragioni che servono a conoscere ed a concepire la natura della cera, o

di qualche altro corpo, provano molto più facilmente ed evidentemente la natura del mio

spirito ? E nello spirito stesso si trovano ancora tante altre cose, capaci di contribuire a

spiegarne la natura, che quelle dipendenti dal corpo, non meritano quasi d’essere

enumerate.

Ma, infine, eccomi insensibilmente ritornato dove volevo; poiché, siccome adesso

conosco che, a parlar propriamente, noi non concepiamo i corpi se non per mezzo della

facoltà d’intendere che è in noi, e non per l’immaginazione, né per i sensi; e che non li

conosciamo pel fatto che li vediamo o li tocchiamo, ma solamente pel fatto che li

concepiamo per mezzo del pensiero, io conosco evidentemente che non v’è nulla che mi

sia più facile a conoscere del mio spirito. Ma, poiché è quasi impossibile disfarsi così

prontamente di un’antica opinione, sarà bene che mi fermi un poco su questo punto,

affinché, con la lunghezza della mia meditazione, imprima più profondamente nella mia

memoria questa nuova conoscenza.

TERZA MEDITAZIONE

DI DIO, CHE ESISTA

Ora chiuderò gli occhi, turerò le orecchie, escluderò tutti i sensi ed eliminerò dal mio

pensiero anche tutte le immagini delle cose corporee. Poiché questo si può fare a stento,

quanto meno non ne terrò nessun conto, come se fossero vuote e false. Parlando solo con

me e guardando più in profondità, cercherò di rendermi poco a poco più noto e familiare a

me stesso. Io sono una cosa che pensa, cioè che dubita, afferma, nega, comprende poche

cose e molte ne ignora, vuole, disvuole, ed immagina anche, e sente. Come infatti ho

notato prima, sebbene quello che sento ed immagino fuori di me forse non sia nulla,

tuttavia sono certo che quei modi di pensare — che, essendo solo dei modi di pensare,

chiamo sensazioni e immaginazioni — sono in me.

Con queste poche parole ho passato in rassegna tutto quello che so realmente, o almeno

quello che ho avvertito di conoscere fino a questo momento. Ora osserverò con maggiore

diligenza se, fino ad ora, per caso vi siano altre cose presso di me che non ho ancora

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scorto. Sono certo di essere una cosa che pensa. Forse dunque so anche che cosa è richiesto

per essere certo di qualche cosa? In questa prima conoscenza, dunque, non vi è null'altro

fuorché una chiara e distinta percezione di ciò che affermo; e questa certo non basterebbe

per rendermi sicuro della verità della cosa, se mai mi potesse accadere che fosse falso ciò

che pure abbia percepito in maniera così chiara e distinta; e quindi già mi sembra di poter

stabilire, come regola generale, che è vero tutto ciò che concepisco in maniera molto chiara

e distinta.

Eppure ho prima ammesso come del tutto certe e manifeste delle cose che mi sono reso

conto essere dubbie. E quali sono state dunque queste cose? Certo la terra, il cielo, gli astri

e tutte le altre cose di cui mi appropriavo per mezzo dei sensi. Che cosa dunque percepivo

chiaramente di queste cose? Che le idee di tali cose, o piuttosto i pensieri, si aggiravano

nella mia mente. Ma neppure ora metto in dubbio che quelle idee siano in me. Era però

qualcosa di diverso quello che affermavo, e che anche per la consuetudine delle mie

convinzioni ritenevo di scorgere chiaramente, ma che in realtà non percepivo; e cioè che vi

fossero delle cose fuori di me dalle quali procedevano queste idee, cose in tutto simili a

loro. Era in questo che mi sbagliavo. Se poi il mio giudizio era giusto, di sicuro ciò non mi

accadeva per la forza della mia percezione.

E che? quando riguardo all’oggetto dell'aritmetica o della geometria consideravo

qualcosa sicuramente molto semplice e facile, come che due più tre fanno cinque, o cose

simili, forse non le intuivo in maniera sufficientemente netta da poter affermare che fossero

vere? Evidentemente ho giudicato di non poter dubitare di ciò solo perché mi veniva in

mente che un qualche Dio avesse potuto instillare in me una tale natura da poter essere

ingannato anche riguardo a ciò che sembrava assolutamente manifesto. Ma ogni qual volta

mi viene in mente questa opinione prima concepita sulla somma potenza di Dio, non posso

non ammettere che, se solo lo volesse, sarebbe facile per lui fare in modo che io cada in

errore anche in ciò che ritengo di intuire con gli occhi della mente nella maniera più nitida.

Ogni volta che mi volgo a quelle cose che ritengo di percepire con grande chiarezza, sono

persuaso da esse in maniera così evidente che spontaneamente mi trovo ad affermare ad

alta voce e con sicurezza: “Mi inganni pure chi può, tuttavia non farà mai in modo tale che

io non sia nulla, finché penso di essere qualcosa; o che un giorno si possa dire che non

sono mai esistito, mentre è vero che io sono; o forse anche che due più tre siano più o

meno di cinque, o cose simili, cose che vedo chiaramente non poter essere diversamente da

come le concepisco”. E certo mentre non ho alcun motivo per considerare che vi sia un

qualche Dio ingannatore, e ancora non so nemmeno con sufficiente certezza se vi sia un

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qualche Dio, per dubitare ho un motivo assai tenue e, per così dire, metafisico, che dipende

soltanto da quella opinione. Perché venga eliminata anche quella, non appena si presenterà

l'occasione, devo esaminare se Dio esista, e, se esiste, se possa essere un ingannatore;

senza avere una conoscenza certa di ciò, infatti, non mi sembra di poter essere

completamente certo di nessun’altra cosa.

Ma ora l'ordine delle argomentazioni sembra esigere che, per cominciare, io distribuisca

tutti i miei pensieri in generi determinati prima di ricercare in quali risieda propriamente la

verità o la falsità. Alcuni di questi pensieri sono come delle immagini di cose alle quali

sole conviene propriamente il nome di idea, come quando penso un uomo, una chimera, il

cielo, un angelo o Dio; altri poi hanno anche altre forme: quando esprimo un atto di

volontà, quando temo, quando affermo, quando nego, sempre concepisco una qualche cosa

come soggetto del mio pensiero. Col pensiero, però, abbraccio anche qualcosa che va al di

là della mera corrispondenza. Tra questi pensieri alcuni si chiamano atti di volontà, altri

affezioni e altri giudizi.

Per quanto poi riguarda le idee, se saranno viste solo per se stesse e non le riferirò a

qualcos'altro, non possono essere propriamente false perché, sia che immagini una capra o

una chimera, non è meno vero che immagino l'una come l'altra. In effetti non vi è da

temere nessuna falsità nella volontà o nelle affezioni giacché, quantunque io possa

desiderare cose malvage o cose che non esistono, tuttavia non può non essere vero che io le

desidero. E quindi rimangono solo i giudizi, nei quali mi devo guardare dallo sbagliare.

D’altronde l'errore più rilevante e più frequente che si possa trovare in essi consiste in

questo, che io giudichi le idee che sono in me simili o conformi a cose poste fuori di me.

Infatti, se considerassi le stesse idee soltanto come modalità del mio pensiero e non le

riferissi a null'altro, a stento potrebbero darmi una qualche occasione di errare.

Tra queste idee poi alcune sembrano innate, altre avventizie, altre poi prodotte da me

stesso; infatti mi sembra di non poter trarre da altro se non proprio dalla mia natura il

comprendere cosa sia una cosa, cosa sia la verità, cosa sia il pensiero: che adesso io oda un

rumore, che io veda il sole o avverta il calore del fuoco, finora ho ritenuto che questo

derivasse da alcune cose poste fuori di me. Quanto poi alle sirene, agli ippogrifi e cose

simili, esse sono raffigurate da me stesso. Forse posso anche stimarle tutte avventizie, o

tutte innate, o tutte inventate da me; non ho ancora visto chiaramente la loro vera origine.

Ma qui bisogna investigare soprattutto su quelle idee che considero desunte da cose

esistenti fuori di me: quale ragionamento mi induce a considerare tali idee corrispondenti a

queste cose? Certo in primo luogo mi sembra che la natura mi insegni così. Inoltre constato

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che esse non dipendono dalla mia volontà, né da me stesso. Spesso infatti esse mi si

presentano anche contro la mia volontà: per esempio sento il calore sia che lo voglia sia

che non lo voglia, e quindi ritengo che quella sensazione o idea di calore giunga a me da

una cosa diversa da me, cioè dal calore del fuoco vicino al quale sono seduto. Niente è più

ovvio di questo: io giudico che è questa cosa e non qualcos'altro a immettere in me qualche

cosa che le somiglia.

Vedrò ora se queste ragioni sono sufficientemente sicure. Quando affermo di essere

ammaestrato dalla natura, in questo modo comprendo di essere portato a crederlo solo da

un impeto spontaneo, e non che mi sia mostrato come vero da un qualche lume naturale.

Ora queste due cose sono in grande contrasto tra loro, infatti tutto ciò che mi viene

mostrato da un qualche lume naturale – ad esempio il fatto che proprio perché dubito ne

consegue che io sono, e simili – in nessun modo può essere dubbio, perché non ci può

essere nessun'altra facoltà nella quale possa confidare come in questo lume, e che possa

mostrare che tutte queste cose non sono vere; ma quanto alle inclinazioni naturali, già da

gran tempo ho giudicato più volte che sono stato spinto da esse alla scelta peggiore quando

si trattava di scegliere il bene, e non ho motivo di fidarmi ancora di esse in qualche altra

cosa.

Quindi, sebbene quelle idee non dipendano dalla mia volontà, non è evidente che esse

necessariamente procedano da cose poste fuori di me. Come infatti quelle inclinazioni di

cui parlavo poco fa, sebbene siano in me, tuttavia appaiono diverse dalla mia volontà, così

forse in me c’è anche una qualche altra facoltà non ancora da me abbastanza conosciuta,

che provoca queste idee, come fino ad ora è sempre sembrato che esse si formino in me

mentre sogno, e del tutto al di fuori di ogni contributo delle cose esterne.

Infine queste idee, per quanto procedano da cose diverse da me, non debbono essere

necessariamente simili a questi oggetti. Ché anzi, in molti casi mi sembra di aver rilevato

punti di vista molto diversi: ad esempio trovo in me due diverse idee di "sole", una come

derivata dai sensi, che più di ogni altra deve essere annoverata tra le idee che ritengo

avventizie, e che mi fa apparire il sole molto piccolo; un'altra desunta dai principi

dell'astronomia, cioè derivata da alcune nozioni che sono innate in me (o da me prodotte in

qualche altro modo) e che me lo fanno sembrare alquanto più grande della terra. Certo, non

possono essere tutte e due equiparabili a quel medesimo sole che esiste fuori di me, e la

ragione mi persuade che proprio quella che sembra essere derivata direttamente è la più

difforme.

Tutto questo dimostra che sinora non in base ad un giudizio sicuro, ma soltanto per un

66

qualche cieco impulso, ho creduto che esistano alcune cose diverse da me, che facciano

sorgere in me delle idee o la loro immagine attraverso gli organi di senso, o in qualche

altro modo.

Ma mi viene ora in mente un'altra via per ricercare se alcune delle cose di cui sono in

me le idee esistono fuori di me. Finché queste idee sono soltanto delle modalità di

pensiero, non riconosco alcuna disuguaglianza tra di loro, e mi sembrano procedere tutte

allo stesso modo; ma in quanto l'una mi rappresenta una cosa, l'altra un'altra, è chiaro che

esse sono tra di loro molto diverse. Senza alcun dubbio, infatti, quelle che mi

rappresentano delle sostanze sono qualcosa di più e, per così dire, hanno in sé più realtà

oggettiva di quelle che rappresentano solo delle modalità o accidenti. Di nuovo quell’idea

attraverso la quale concepisco un qualche sommo Dio, eterno, infinito, onnisciente,

onnipotente e creatore di tutte le cose che esistono fuori di lui, quell’idea dico, ha

certamente in sé più realtà oggettiva di quelle per mezzo delle quali vengono rappresentate

le sostanze finite.

Già secondo il lume naturale è chiaro che nella causa efficiente e totale ci deve essere

almeno tanto quanto si riscontra nel suo effetto. Infatti l'effetto da dove mai potrebbe

prendere la sua realtà, se non dalla causa? E la causa come potrebbe dargli questa realtà, se

non l'avesse in sé? Da ciò dunque consegue che nulla può essere generato dal nulla, e

neppure che ciò che è più perfetto, cioè che ha più realtà in sé, può derivare da ciò che è

meno perfetto. Questo non solo è evidentemente vero riguardo a quegli effetti la cui realtà

è attuale o formale, ma anche riguardo a quelle idee in cui si considera soltanto la realtà

oggettiva. Ad esempio una pietra che prima non esisteva non può cominciare ad esistere

ora, se non è prodotta da qualcosa in cui vi sia tutto quello che formalmente o

eminentemente è già nella pietra; né il calore può essere immesso in un soggetto che prima

non era caldo se non da una cosa che sia di un ordine almeno tanto perfetto come è il

calore, e così il resto. Inoltre non vi può essere in me un’idea di calore o di pietra, se non è

posta in me da qualche causa nella quale almeno vi sia tanta realtà quanta ne concepisco

nel calore o in una pietra. Infatti, per quanto questa causa non trasfonda niente della sua

realtà attuale o formale nella mia idea, bisogna ritenere non che questa causa sia meno

reale, ma che la natura della stessa idea debba essere tale da non esigere in sé nessun'altra

realtà formale oltre a quella che viene tratta dal mio pensiero, di cui è una modalità.

Quanto poi al fatto che questa idea contenga l’una o l’altra realtà oggettiva, ciò

sicuramente lo deve derivare da qualche causa nella quale come minimo vi sia tanto di

realtà formale quanto essa ne contiene di oggettiva. Se infatti ammettiamo che nell'idea si

67

trova qualcosa che non è nella causa, questo "qualcosa" lo deriverebbe dal nulla. Eppure,

per quanto sia imperfetto questo modo di essere per cui la cosa esiste oggettivamente

nell'intelletto per mezzo dell'idea, tuttavia sicuramente è qualcosa, e quindi non può

derivare dal nulla. Non debbo nemmeno pretendere che, siccome la realtà che considero

nelle mie idee è soltanto oggettiva, non sia necessario che la stessa realtà sia formalmente

nelle cause di queste idee: deve bastarmi che si trovi in esse anche oggettivamente. Infatti

come questo modo d’essere oggettivo appartiene alle idee secondo la loro natura, così il

modo d’essere formale appartiene alle cause delle idee, almeno alle prime e alle più

importanti, secondo la loro natura. E sebbene forse un’idea possa nascere da un'altra,

tuttavia qui non si dà un processo all'infinito, ma si deve giungere a qualche prima idea la

cui causa abbia la forza di un archetipo in cui ogni realtà che si trova nell'idea solo

oggettivamente, vi sia contenuta anche formalmente. Cosicché per il lume naturale mi è

chiarissimo che le idee sono in me come immagini che possono facilmente decadere dalla

perfezione delle cose dalle quali sono desunte, ma certo non possono contenere qualcosa di

più grande e di più perfetto.

Quanto più a lungo e con quanta maggiore curiosità esamino tutte queste cose, con tanta

maggiore chiarezza e distinzione riconosco che sono vere. Ma quale conclusione posso

trarre da tutto ciò? Certo se la realtà oggettiva di qualcuna delle mie idee è tale che io sia

certo che essa non è in me né formalmente né eminentemente (di modo che io non posso

esserne la causa), da ciò necessariamente consegue che io non sono solo nel mondo, ma

che esiste anche qualche altra cosa che è la causa di questa idea. Se invece non si trova in

me nessuna idea che abbia tali caratteristiche, non avrò certamente nessun argomento che

mi renda certo dell'esistenza di qualcosa al di là di me. Ho infatti esaminato con somma

diligenza tutto, e non ho potuto trovare fino ad ora null'altro.

Tra le mie idee poi, all'infuori di quella che mi rappresenta a me stesso, riguardo alla

quale qui non vi può essere nessuna difficoltà, un'altra è quella che rappresenta Dio, altre

che rappresentano le cose corporee e inanimate, gli angeli, gli animali, ed infine altre che

rappresentano altri uomini simili a me.

Quanto alle idee che rappresentano altri uomini, o animali, o angeli, comprendo

chiaramente che possono essere composte da quelle che ho di me stesso, delle cose

corporee e di Dio, e questo avverrebbe anche se nel mondo non vi fossero altri uomini oltre

a me, né animali, né angeli.

Quanto poi alle idee delle cose corporee, non si trova nulla in esse di così grande rilievo

da non sembrare che possano derivare da me stesso; ed infatti qualora osservi con

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maggiore profondità ed consideri le singole idee nel modo in cui ieri ho esaminato l'idea

della cera, mi accorgo che vi sono solo pochi aspetti che in esse percepisco in maniera

chiara e distinta: cioè la grandezza – estensione in lunghezza, larghezza e profondità; la

figura, che nasce dal limite di questa estensione; il luogo, che i corpi aventi diverse figure

occupano l'uno rispetto all'altro, ed il moto, cioè la mutazione di questo luogo; ad esse si

possono aggiungere la sostanza, la durata ed il numero; il resto poi, come la luce, i colori, i

suoni, gli odori, i sapori, il caldo e il freddo, e le altre qualità sottoposte al tatto non sono

contenute nel mio pensiero se non in maniera molto confusa ed oscura, cosicché ignoro

addirittura se siano vere o false, cioè se le idee, che ho di esse, siano idee di alcune cose o

di non-cose. Sebbene infatti abbia fatto notare poco fa che la falsità propriamente detta, o

formale, non si può trovare se non nei giudizi, c'è tuttavia sicuramente una qualche altra

falsità materiale nelle idee, quando rappresentano ciò che non esiste come se fosse

qualcosa; così, ad esempio, le idee che ho del calore e del freddo sono tanto poco chiare e

distinte, che da esse non posso sapere se il freddo sia soltanto una privazione di calore, o il

caldo una privazione del freddo, o se ambedue siano una qualità reale, o nessuna delle due.

Dal momento che non ci può essere idea se non delle cose, seppure è vero che il freddo

non è null'altro che privazione di calore, ben a ragione sarà giudicata falsa l'idea che me lo

rappresenta come qualcosa di reale e positivo,e questo vale anche per le altre idee.

Non è necessario che assegni a queste idee un autore diverso da me; infatti, se anche

sono false, e cioè non rappresentano alcuna cosa, per il lume naturale mi è noto che

derivano dal nulla; cioè che sono in me perché manca qualcosa alla mia natura, non del

tutto perfetta; se poi sono vere, poiché tuttavia mi rappresentano così poco di realtà, che

non possono nemmeno essere distinte da ciò che non esiste, non vedo perché non possano

essere generate da me stesso.

Quanto alle cose che sono chiare e distinte nelle idee relative alla realtà corporea, mi

sembra che alcune posso averle derivate dall'idea di me stesso, cioè la sostanza, la durata, il

numero e se ve ne sono altre di uguale tipo. Quando penso infatti che la pietra è una

sostanza – ossia una cosa che è adatta ad esistere di per sé – e anche io sono una sostanza,

sebbene comprenda che io sono una cosa che pensa e non una cosa estesa, mentre la pietra

è una cosa estesa e che non pensa, e quindi che massima è la diversità tra l'uno e l'altro

concetto, tuttavia sembrano appartenere al tipo della sostanza. Allo stesso modo, quando

comprendo che ora esisto, e mi ricordo di essere esistito anche prima per un certo tempo;

quando ho vari pensieri dei quali comprendo il numero, acquisisco [45] le idee di durata e

di numero, che poi posso applicare a qualsiasi altra cosa. Tutte le altre cose poi dalle quali

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sono formate le idee della realtà corporea, cioè l'estensione, la figura, il luogo ed il moto,

non sono contenute formalmente in me, dal momento che io non sono nient'altro che una

cosa che pensa; ma poiché esse sono soltanto alcune modalità della sostanza, ed io sono

una sostanza, sembra che possano essere contenute in me eminentemente.

E quindi rimane la sola idea di Dio, nella quale si deve considerare se vi sia qualcosa

che non abbia potuto procedere da me. Col nome di Dio intendo una sostanza infinita,

indipendente, sommamente intelligente, sommamente potente, dalla quale sia io stesso, sia

ogni altra cosa esistente – se pure c'è qualcos'altro – siamo stati creati. Tutte queste cose

sono tali che, quanto più diligentemente le esamino, tanto meno mi sembrano partire da me

solo. E quindi in base a ciò che si è detto prima si deve necessariamente concludere che

Dio esiste.

Sebbene certo vi sia in me l'idea di una sostanza per il fatto stesso che sono una

sostanza, tuttavia non potrebbe esserci l'idea di una sostanza infinita, dal momento che

sono finito, se non derivasse da qualche sostanza realmente infinita.

Né debbo ritenere di concepire l'infinito non per mezzo della sua vera idea, ma soltanto

dalla negazione del finito, come percepisco la quiete e le tenebre attraverso la negazione

del moto e della luce; al contrario, comprendo chiaramente che vi è più realtà nella

sostanza infinita che in quella finita, e quindi in un certo senso la comprensione

dell'infinito in me viene prima del finito, cioè quella di Dio prima di quella di me stesso. In

quale modo infatti potrei comprendere di dubitare, di desiderare, cioè avvertire che mi

manca qualcosa, e capire che io non sono del tutto perfetto, se non ci fosse in me l'idea di

un ente più perfetto, dal cui confronto potrei avvertire i miei difetti?

Non si può nemmeno dire che questa idea di Dio sia forse falsa materialmente e che

perciò possa procedere dal nulla, come poco fa ho constatato circa le idee di calore e di

freddo, e simili; al contrario, essendo al massimo grado chiara e distinta, ed avendo più

realtà oggettiva di alcun'altra, nessuna è più vera di per sé stessa, né esiste nessuna nella

quale si trovi un minore sospetto di falsità. Questa idea di un ente sommamente perfetto ed

infinito – affermo – è vera al massimo grado; anche se si può immaginare che quest'ente

non esista, tuttavia non si può immaginare che l'idea di esso non mi rappresenti niente di

reale, come ho detto prima dell'idea del freddo. È anche sommamente chiara e distinta;

infatti tutto ciò che concepisco in maniera chiara e distinta, che è reale e vero, e che

comporta in sé una qualche perfezione, è tutto contenuto in essa. Non vi è poi un ostacolo

nel fatto che io non comprenda l'infinito, o che in Dio vi siano altre cose innumerevoli, che

non posso comprendere, e forse nemmeno raggiungere in nessun modo col pensiero; fa

70

parte infatti della natura dell'infinito il non poter essere compreso da me, che sono finito. È

sufficiente che io comprenda proprio questa cosa, e la giudichi,: che tutte le cose che

concepisco in maniera chiara, e che comprendono – questo io so – in sé qualche

perfezione, ed anche forse altre innumerevoli perfezioni che ignoro, o formalmente o

eminentemente si trovano in Dio, perché l'idea che ho di lui sia la più vera, la più chiara e

distinta di tutte quelle che sono in me.

Ma forse io sono qualcosa di più grande di quello che io stesso comprendo, e tutte

quelle perfezioni che attribuisco a Dio, in qualche modo sono in me in potenza, anche se

non si sprigionano e non si manifestano in atto. Infatti provo la sensazione che già la mia

conoscenza a poco a poco si ingrandisce; né vedo quale ostacolo vi sia al fatto che più e

più cresca all'infinito, e neanche perché, essendo così aumentata la mia conoscenza, non

possa col suo aiuto raggiungere tutte le altre perfezioni di Dio; né infine perché la potenza

che permette di raggiungere queste perfezioni, se già è in me, non basti a produrne l'idea.

Eppure nessuna di queste ipotesi è valida. In primo luogo, sebbene sia vero che la mia

conoscenza aumenti gradatamente, e che vi siano in me molte cose in potenza che non

sono ancora in atto, tuttavia nessuna di esse riguarda l'idea di Dio, nella quale certo nulla in

nessun modo è in potenza; ed infatti questa stessa cosa, cioè aumentare gradatamente, è

una prova certissima di imperfezione. Inoltre, sebbene la mia conoscenza aumenti sempre e

sempre più, tuttavia comprendo che mai diventerà infinita in atto, perché non arriverà mai

a tal punto che non sia capace di un maggiore accrescimento; invece giudico che Dio sia

così infinito nell'atto, che nulla si possa aggiungere alla sua perfezione. Infine comprendo

che l'essere oggettivo di una idea non deriva da un solo essere in potenza, che propriamente

parlando non è nulla, ma può essere prodotta solo da un essere attuale o formale.

Sicuramente non vi è qualcosa in tutte queste cose, che, per chi le esamini

diligentemente, non sia manifesto per lume naturale; ma poiché, quando sono meno

attento, e le immagini delle cose sensibili rendono cieco l'acume della mente, non mi

ricordo così facilmente perché l'idea di un ente più perfetto di me necessariamente proceda

da qualche ente che sia realmente più perfetto e mi piace ricercare più in profondità se io

stesso che ho quell'idea potrei esistere, anche se non esistesse in alcun modo tale ente.

Da chi dunque derivo il mio essere? Da me evidentemente, o dai miei genitori, o da

qualsivoglia altra causa meno perfetta di Dio; infatti non si può pensare o immaginare

qualcosa di più perfetto o anche di ugualmente perfetto.

Eppure, se dipendessi da me, non dubiterei, né proverei desideri, né in ogni modo mi

mancherebbe qualcosa; infatti mi darei tutte le perfezioni delle quali è in me qualche idea,

71

e così per me stesso sarei Dio. Né debbo ritenere che forse sia più difficile acquisire ciò

che mi manca, piuttosto che ciò che è già in me. Al contrario è chiaro quanto sia stato di

gran lunga più difficile che io, cioè una cosa o una sostanza pensante, sia emerso dal nulla,

piuttosto che abbia acquisito le conoscenze di molte cose che ignoro, le quali sono soltanto

accidenti di questa sostanza. Certo, se avessi potuto derivare da me quella cosa che è la più

importante, non mi sarei privato certamente di quelle cose che si possono avere più

facilmente, e neppure alcun'altra cosa tra quelle che comprendo trovarsi nell'idea di Dio;

poiché certo nessun'altra cosa mi sembra più difficile a realizzarsi. Se poi alcune cose

fossero più difficili a farsi, certo mi sembrerebbero anche più difficili, se pure derivassi da

me le altre qualità che possiedo, poiché proverei sicuramente che in esse trova il suo limite

la mia potenza.

E non sfuggo la forza di questi ragionamenti, se suppongo di essere sempre stato come

sono ora, come se da questo ne conseguisse che non si deve ricercare nessun autore della

mia esistenza. Ogni tempo della vita può essere diviso in parti innumerevoli, delle quali

ciascuna non dipende in nessun modo dalle altre. Quindi dal fatto che poco fa io sia esistito

non ne consegue che debba esistere ora, se non perché qualche causa mi crei quasi di

nuovo in questo momento, cioè mi conservi. È chiarissimo infatti, per chi sta attento alla

natura del tempo, che c'è bisogno assolutamente della stessa forza e azione per conservare

qualsiasi sostanza per i singoli momenti nei quali dura, che sarebbe necessaria per crearla

di nuovo, se non esistesse ancora; in maniera tale che il fatto che la conservazione

differisca dalla creazione solo in base al nostro modo di pensare, è anche una delle cose

che sono manifeste secondo il lume naturale.

Ora devo interrogare me stesso, se io abbia una qualche forza per la quale possa fare in

modo che tra poco possa essere quello che sono già ora; infatti dal momento che non sono

altro che una cosa che pensa, o almeno poiché ora tratto soltanto di quella parte di me che è

una cosa che pensa, se una qualche forza di tal genere fosse in me, sarei conscio di ciò al di

fuori di ogni dubbio. Ma sono sicuro che non ve ne è nessuna, e da questo comprendo nella

maniera più evidente che debbo dipendere da qualche ente diverso da me.

Ma forse quell'ente non è Dio, e sono stato fatto o dai miei genitori, o da qualsiasi altra

causa meno perfetta di Dio. Eppure, come ho già detto, è chiarissimo che almeno tanta

realtà vi deve essere nella causa quanta c'è nell'effetto; e quindi dal momento che sono una

cosa che pensa, e che ho in me una qualche idea di Dio, qualunque causa infine venga

attribuita alla mia natura, debbo ammettere che anche essa sia una cosa pensante, e che

abbia l'idea di tutte le perfezioni che attribuisco a Dio. Di nuovo quindi si può investigare

72

riguardo ad essa, se sia causata da se stessa o da un'altra causa. Se è causata da sé, è

evidente da ciò che abbiamo detto che essa stessa è Dio, poiché certo, dal momento che ha

la capacità di esistere di per se stessa, al di fuori di ogni dubbio ha anche la forza di

possedere in atto tutte le perfezioni di cui ha in sé l'idea, cioè tutte quelle che concepisco

essere in Dio. Qualora poi derivi da un'altra, di nuovo allo stesso modo si investigherà su

quest'altra, qualora derivi da sé, o da un'altra causa, finché alla fine si giunga alla causa

ultima, che sarà Dio.

Infatti è abbastanza evidente che qui non si può verificare nessun progresso all'infinito,

soprattutto per il fatto che non tratto qui soltanto della causa che un tempo mi ha prodotto,

ma soprattutto anche di quella che nel tempo presente mi conserva.

E non si può immaginare che per caso delle cause parziali abbiano concorso a produrmi,

e dall'una abbia preso l'idea di una delle perfezioni che attribuisco a Dio, da un'altra l'idea

di un'altra, cosicché certo tutte quelle perfezioni si trovino in qualche altro luogo

dell'universo, ma non tutte congiunte insieme in un solo essere, che sia Dio. Infatti al

contrario l'unità, la semplicità, o piuttosto la inseparabilità di tutte quelle cose che sono in

Dio, è una delle massime perfezioni che considero essere in lui. Né certo l'idea di questa

unità di tutte le sue perfezioni potè essere posta in me da una causa diversa da quella da cui

non abbia parimenti avuto anche le idee delle altre perfezioni. Né infatti avrebbe potuto

fare in modo che le comprendessi insieme congiunte ed inseparabili, se non avesse fatto

nello stesso tempo in modo che potessi capire quali esse siano.

Quanto poi ai genitori, sebbene siano tutte vere quelle cose che mai abbia potuto

pensare di loro, tuttavia certo essi non mi conservano, né in nessun modo mi hanno fatto,

in quanto cosa pensante; ma hanno posto soltanto delle disposizioni in quella materia in cui

ho giudicato che fossi inserito io, cioè la mente: quando parlo di me, intendo proprio essa.

Quindi non vi può essere nessuna difficoltà a questo riguardo; ma bisogna ad ogni modo

concludere che per il solo fatto che esisto, e che una qualche idea di un essere perfettissimo

è in me, cioè l'idea di Dio, si può dimostrare in maniera evidentissima che anche Dio

esiste.

Rimane solo da esaminare in quale modo abbia ricevuto questa idea da Dio; ed infatti

non l'ho derivata dai sensi, né mai mi è venuta senza che me lo aspettassi, come sogliono

venire le idee delle cose sensibili, quando queste cose si presentano agli organi esterni dei

sensi, o sembrano venire in mente; non è creatura della mia mente, ed infatti non è in mio

potere togliervi né aggiungervi assolutamente alcuna cosa; e quindi non può che essermi

innata, allo stesso modo che è innata in me l'idea di me stesso.

73

Certo non c'è da stupirsi che Dio, creandomi, mi abbia immesso quell'idea, perché fosse

come un sigillo impresso dall'artefice alla sua opera; e neanche è necessario che quel

modello sia qualcosa di diverso dalla stessa opera. Ma per il solo fatto che Dio mi ha

creato, è fortemente credibile che io in qualche modo sia stato fatto ad immagine e

somiglianza di lui, e che quella somiglianza in cui è contenuta l'idea di Dio, sia compresa

da me attraverso la stessa facoltà, con la quale io concepisco me stesso; cioè, mentre

rivolgo l'acutezza della mente verso me stesso, non solo comprendo di essere una cosa

incompleta e che dipende da un altro, e una cosa che aspira senza fine a cose via via più

grandi e migliori; ma nello stesso tempo anche comprendo che colui dal quale dipendo ha

in sé queste qualità più grandi non in maniera indefinita e soltanto in potenza, ma in realtà

le ha in sé in maniera infinita e quindi è Dio. E tutta la forza dell'argomento consiste in

questo, che mi rendo conto che non può accadere che io esista con una natura tale quale

sono, e cioè con in me l'idea di Dio, se Dio non esistesse in realtà, Dio, dico, quello stesso

di cui è in me l'idea, cioè colui che ha tutte quelle perfezioni, che io non posso

comprendere, ma posso in qualunque modo raggiungere col pensiero, e che non è passibile

di nessun difetto. Da tutte queste considerazioni è evidente che egli non può essere fallace;

ed infatti è manifesto in base al lume naturale che ogni frode ed inganno dipende da

qualche difetto.

Ma prima di esaminare ciò con maggiore diligenza, e nello stesso tempo di fare ricerche

su altre verità che possono essere desunte da ciò, mi piace qui per un certo tempo fermarmi

nella contemplazione dello stesso Dio, considerare nel mio intimo i suoi attributi, e

guardare, ammirare e adorare la bellezza di questa immensa luce, perquanto lo possa

sopportare l'acume del mio ingegno che si offusca. Come infatti crediamo per fede che la

somma felicità dell'altra vita consista in questa sola contemplazione della divina maestà,

così anche sperimentiamo di poter ricevere il massimo piacere, del quale siamo capaci in

questa vita, dalla stessa contemplazione, sebbene molto meno perfetta.

74

David Hume (1711-76)

Dialoghi sulla religione naturale (postumo 1779)

lingua originale: inglese

edizione di riferimento: N. Kemp Smith, Indianapolis, 1980

tr. it., A Attanasio, Einaudi, Torino, 1997

Parte quarta

Mi sembra strano, disse CLEANTE, che voi DEMEA, cosi sincero nella difesa della religione,

siate qui a sostenere la natura misteriosa e incomprensibile della Divinità, e a insistere con tanta

forza sul fatto che essa non somigli in alcun modo alle creature umane. Sono subito pronto ad

ammettere che la Divinità possiede molti poteri e attributi che rimangono per noi incomprensibili.

Ma se le nostre idee, sia pure nei loro limiti, non sono giuste, adeguate e corrispondenti alla sua

reale natura, allora non saprei proprio cosa ci sia ancora da discutere su questo argomento. Può il

nome avere una importanza cosi rilevante, se non vi si associa alcun significato? O, come possono

i MISTICI, che sostengono l'assoluta incomprensibilità della Divinità, distinguersi dagli scettici o

dagli atei, che affermano che la causa prima del Tutto è sconosciuta e inintelligibile? La

temerarietà di costoro deve essere molto grande se, dopo aver respinto la creazione prodotta da

una mente, e intendo una mente simile a quella umana (perché non ne conosco altre), pretendano

poi di indicare con certezza altre cause specifiche e intelligibili. E la loro coscienza deve essere

veramente molto scrupolosa, se rifiutano di chiamare Dio o Divinità la causa universale

sconosciuta, per poi attribuire a questa tanti elogi sublimi e epiteti privi di significato, quanti vi

piacerà richiedere.

Chi poteva immaginare, rispose DEMEA, che CLEANTE, il calmo filosofo CLEANTE,

avrebbe tentato di confutare i suoi avversari dando a ognuno di loro un soprannome e che, simile

ai volgari bigotti e inquisitori del nostro tempo, avrebbe fatto ricorso a invettive e declamazioni,

invece che al ragionamento? Non si rende conto che questi argomenti gli si possono facilmente

ritorcere contro, e che l'appellativo di antropomorfista è odioso e implica tante conseguenze

pericolose, proprio come l'epiteto di mistico di cui ci ha onorato? Riflettete CLEANTE su ciò che

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asserite, quando rappresentate la Divinità simile alla mente e all'intelligenza umane. Cosa è

l'anima dell'uomo? Un insieme di varie facoltà, passioni, sentimenti, idee, unite certo in un unico

io o persona, e tuttavia distinti l'un l'altro. Quando essa ragiona, le idee, che sono gli elementi del

suo discorso, si dispongono in una certa forma o ordine, che non resta immutato neanche un

momento, perché immediatamente dà luogo a un'altra combinazione. Nuove opinioni, nuove

passioni, nuove affezioni, nuovi sentimenti emergono, c questi continuamente diversificano la

scena mentale e vi producono la più grande varietà e la pii rapida successione immaginabile.

Come è compatibile questo con quella perfetta immutabilità e semplicità che tutti i teisti autentici

attribuiscono alla Divinità? Con uno stesso atto, dicono, essa vede il passato, il presente, e il

futuro. Il suo amore e il suo odio, la sua misericordia e la sua giustizia sono un'unica operazione. E

un intero in ogni punto dello spazio, ed è compiuta in ogni momento della sua durata. Nessuna

successione, nessun cambiamento, nessuna acquisizione, né diminuzione. Ciò che essa è non

implica alcuna ombra di distinzione o diversità. E cosa è in questo attimo lo è sempre stata e

sempre lo sarà, senza alcun nuovo giudizio, sentimento o operazione. Sta fissa in un unico,

semplice, perfetto stato, né può mai dirsi, se non impropriamente, che questo suo atto è differente

da quell'altro, o che questo giudizio' o idea sono stati formati di recente e daranno luogo, mediante

successione, a qualche altro differente giudizio o idea.

Posso ammettere facilmente, disse CLEANTE, che quelli che sostengono la perfetta semplicità

dell'Essere supremo, nel significato esteso in cui voi l'avete spiegata, sono totalmente mistici e

imputabili di tutte le conseguenze che ho tratto dalle loro opinioni. Essi sono, in una parola, atei

senza saperlo. Perché, sebbene si ammetta che la Divinità possegga attributi di cui noi non

abbiamo comprensione, tuttavia non dovremmo mai riferire ad essa alcun attributo che sia

assolutamente incompatibile con quella natura intelligente, che le è essenziale. Una mente, i cui

atti, sentimenti e idee non siano distinti e successivi, pienamente semplice e totalmente

immutabile, è una mente che non ha pensiero, né ragione, né volontà, né sentimento, né amore, né

odio. In una parola non è affatto una mente. È un abuso di termini dare ad essa questo appellativo

e allo stesso modo potremmo parlare di estensione limitata senza figura o di numero senza

composizione.

Vi prego, disse FILONE, di considerare contro chi state inveendo. Voi state onorando

dell'appellativo di ateo quasi tutti i teologi seri e ortodossi che hanno trattato tali argomenti, e alla

fine vi troverete ad essere, in base alla vostra stima, l'unico teista attendibile nel mondo. Ma se gli

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idolatri sono atei, se, come credo sia giusto, si può dire la stessa cosa per i teologi Cristiani, cosa

succede dell'argomento, tanto celebrato, che fa derivare l'esistenza di Dio dal consenso universale

dell'umanità?

Ma so che non vi fate molto influenzare da nomi e autorità, e quindi tenterò di mostrarvi, un po'

più distintamente, gli inconvenienti di quell'antropomorfismo che avete abbracciato, e vi proverò

che non ha fondamento supporre un piano del mondo che si formi nella mente divina, consistente

di idee distinte, differentemente composte, allo stesso modo in cui un architetto forma nella sua

testa il piano di una casa che intende realizzare.

Confesso che non è facile vedere cosa si possa guadagnare da questa supposizione, se

giudichiamo la materia mediante ragione o mediante esperienza. Saremmo sempre costretti a

risalire all'indietro per poter trovare la causa di quella causa che voi definite soddisfacente e

conclusiva.

Se la ragione (intendo l'astratta ragione derivata da indagini a priori) non è allo stesso modo

muta riguardo a tutti i problemi relativi alla causa e all'effetto, almeno potrà osare affermare che

un mondo mentale, o universo di idee, richiede una causa tanto quanto il mondo materiale, o

universo di oggetti, e se ha una disposizione simile, allora deve richiedere una causa simile.

Perché in questo caso dovrebbe esserci una diversa conclusione o inferenza? Da un punto di vista

astratto, i due casi sono del tutto simili, e non c'è difficoltà derivante da una congettura, che non

sia comune all'altra.

Ancora, se vogliamo necessariamente forzare l'esperienza a pronunciare qualche verdetto anche

in ambiti al di fuori della sua sfera, essa, a questo proposito, non potrebbe percepire alcuna

differenza materiale tra i due tipi di mondi, in quanto li trova governati da principi simili,

dipendenti nelle loro operazioni da una eguale varietà di cause. Abbiamo esempi in miniatura di

entrambi questi mondi. La nostra mente assomiglia all'uno, una pianta o un corpo animale all'altro.

Lasciamo quindi che l'esperienza giudichi da questi esempi. Niente appare più problematico, per

quanto riguarda le sue cause, del pensiero. E, poiché queste cause non operano mai in due persone

allo stesso modo, non troveremo mai due persone che pensano esattamente allo stesso modo. E, in

verità, anche la stessa persona non pensa mai in modo esattamente uguale in due differenti periodi

di tempo. Una differenza di età, di condizione fisica, di condizione meteorologica, di

alimentazione, di compagnia, di letture, di passioni: uno di questi particolari, o altri più minuti, è

sufficiente ad alterare il preciso meccanismo del pensiero, e comunicare ad esso movimenti e

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operazioni molto differenti. Per quanto possiamo giudicare, i corpi di animali e piante non sono

più problematici nei loro movimenti, o dipendenti da una più grande varietà di cause, o da una più

accurata concordanza di origini e principi.

Come potremmo allora essere soddisfatti riguardo alla causa di quell'Essere che supponete

Autore della natura o, secondo il vostro sistema di antropomorfismo, riguardo alla causa del

mondo ideale entro cui far risalire il mondo materiale? Non abbiamo forse la stessa ragione nel far

risalire quel mondo ideale a un altro mondo ideale ovvero a un nuovo principio intelligente? Ma se

ci fermiamo qui e non andiamo avanti, perché siamo arrivati fin qui? Perché allora non fermarsi al

mondo materiale ? Come essere soddisfatti senza procedere in infinitum? E dopo tutto, quale

soddisfazione c'è in questa progressione infinita ? Ricordiamoci la storia del filosofo INDIANO e

del suo elefante. Niente sarebbe piú pertinente al nostro caso. Se il mondo materiale poggia su un

mondo ideale ad esso simile, il mondo ideale deve poggiare su qualche altro, e cosi di seguito,

senza fine. Sarebbe meglio, quindi, non guardare mai al di là del presente mondo materiale. Se

supponiamo che esso contiene in sé il principio del suo ordine, noi in realtà stiamo asserendo che

esso è Dio. Prima si arriva a quell'Essere divino e meglio è. Quando oltrepassate di un sol passo il

sistema terreno voi suscitate solo un'ansia di sapere che non è mai possibile soddisfare.

Dire che le differenti idee che compongono la ragione dell'Essere supremo trovano un ordine da

se stesse, e per loro propria natura, è in realtà parlare senza dare alcun significato preciso alle

parole. Se un significato c'è, allora mi piacerebbe sapere perché non sarebbe sensato dire che le

parti del mondo materiale trovano un ordine da se stesse, e per loro propria natura? Può una delle

due opinioni essere intelligibile, mentre l'altra non lo è?

In verità abbiamo esperienza di idee che si ordinano da se stesse, senza alcuna causa

conosciuta. Ma sono certo che molto piú ampia è la nostra esperienza di questo fenomeno nella

materia, ad esempio in tutti i casi di generazione e vegetazione, dove l'accurata analisi delle cause

supera ogni comprensione umana. Sperimentiamo anche sistemi particolari di pensiero e di

materia senza ordine, la pazzia, come esempio del primo tipo, la corruzione, come esempio del

secondo. Perché allora dovremmo pensare che l'ordine è più essenziale al pensiero che alla

materia? E se l'ordine richiede una causa nel pensiero come nella materia, che cosa ci si guadagna

con il vostro sistema, facendo risalire l'universo degli oggetti ad un universo di idee ad esso

simile? Facendo il primo passo, saremmo costretti ad andare avanti sempre. Sarebbe quindi saggio

limitare tutte le nostre ricerche al mondo presente, senza guardare oltre. Nessuna soddisfazione si

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potrà mai ottenere da speculazioni che cosi tanto eccedono i limiti ristretti dell'intelletto umano.

Voi sapete, CLEANTE, che era consuetudine dei PERIPATETICI, quando si chiedeva la causa

di un fenomeno qualsiasi, far ricorso alle facoltà o qualità occulte e dire, per esempio, che il pane

nutre per le sue facoltà nutritive, e la senna purga per le sue facoltà purgative. Ma si è scoperto che

quel sotterfugio non era altro che un travestimento di ignoranza, e che quei filosofi, benché meno

ingegnosi, dicevano in realtà la stessa cosa degli scettici, o della gente comune, che confessavano

apertamente di non conoscere la causa di questi fenomeni. Allo stesso modo, quando si chiede

quale causa produce l'ordine nelle idee dell'Essere supremo, quale ragione potete voi

antropomorfisti attribuire se non una facoltà razionale, che è la natura della Divinità? Ma, il

motivo per cui una simile risposta non fornisce una spiegazione esauriente dell'ordine del mondo,

senza ricorrere ad alcun Creatore intelligente, come voi sostenete, sarebbe difficile da determinare.

C'è solo da dire che tale è la natura degli oggetti materiali e che essi sono tutti originariamente

dotati di una facoltà di ordine e proporzione. Ma queste sono solo strade più colte e ricercate per

confessare la nostra ignoranza, dal momento che l'una ipotesi non ha un reale vantaggio sull'altra,

se noti per essere molto più conforme ai pregiudizi della gente comune.

Avete illustrato questo argomento con grande enfasi, rispose CLEANTE, e non sembrate capire

quanto facile sia rispondervi. Anche nella vita comune, FILONE, se attribuisco una causa ad un

evento, c'è qualche obiezione al fatto di non poter attribuire una causa a quella causa, e non poter

dare risposte a ogni nuovo problema che incessantemente può porsi? A quali filosofi potrebbero

sottostare ad una regola così rigida? Filosofi che confessano che le cause ultime sono totalmente

sconosciute, e che sono consapevoli che i più sofisticati principi ai quali fanno risalire i fenomeni

sono, anche per loro, tanto inesplicabili quanto questi fenomeni stessi lo sono per la gente comune.

L'ordine e la disposizione della natura, la precisa rispondenza delle cause finali, l'utilità e la

funzione manifesta in ogni parte e organo, tutto ciò indica a chiare lettere una causa o un Autore

intelligente. I cicli e la terra uniti nella stessa testimonianza. L'intero coro della natura eleva un

inno di lodi al suo Creatore. Solo voi, o quasi, disturbate questa generale armonia. Ponete dubbi

astrusi, cavilli e obiezioni. Mi Chiedete quale sia la causa di questa causa? Non la conosco, non

me ne preoccupo, non mi riguarda. lo ho trovato una Divinità e fermo qui la mia indagine. Vadano

oltre i piú saggi o i più intraprendenti.

Non ho la pretesa di essere né l'uno né l'altro, rispose FILONE, e per questa ragione non avrei

dovuto forse tentare di andare tanto avanti, specialmente perché so di dovermi accontentare di una

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risposta che avrebbe potuto soddisfarmi fin dall'inizio, senza preoccupazioni ulteriori. Se debbo

restare nella più completa ignoranza delle cause, senza poter assolutamente dare spiegazione di

nulla, non considererò mai un vantaggio mettere da parte, per un momento, una difficoltà che

anche voi riconoscete mi si dovrà ripresentare subito dopo in tutta la sua forza. I naturalisti, in

verità molto giustamente, spiegano effetti particolari con cause piú generali, anche se queste cause

generali rimangono alla fine del tutto inesplicabili. Ma sicuramente mai hanno ritenuto

soddisfacente spiegare un effetto particolare con una causa particolare di cui non si possa dar

conto pila dell'effetto stesso. Un sistema ideale, che si dispone da sé r, senza un precedente

disegno, non è per nulla più spiegabile di un sistema materiale che consegua il suo ordine nello

stesso modo, né ci sono più difficoltà nell'ultima ipotesi di quante ce ne siano nella prima.

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Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900)

Su verità e menzogna in senso extramorale (1873) lingua originale: tedesco

edizione di riferimento: G. Colli e M. Montinari, Monaco, 1988

tr. it. G. Colli, Adelphi, Milano, 1970

1

In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una

volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e

più menzognero della «storia del mondo»: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi

respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. – Qualcuno

potrebbe inventare una favola di questo genere, ma non riuscirebbe tuttavia a illustrare

sufficientemente quanto misero, spettrale, fugace, privo di scopo e arbitrario sia il comportamento

dell’intelletto umano entro la natura. Vi furono eternità in cui esso non esisteva; quando per lui

tutto sarà nuovamente finito, non sarà avvenuto nulla di notevole. Per quell’intelletto, difatti, non

esiste una missione ulteriore che conduca al di là della vita umana. Esso piuttosto è umano, e

soltanto chi lo possiede e lo produce può considerarlo tanto pateticamente, come se i cardini del

mondo ruotassero su di lui. Se noi riuscissimo a intenderci con la zanzara, apprenderemmo che

anch’essa nuota attraverso l’aria con questo pathos e si sente il centro – che vola – di questo

mondo. Non vi è nulla di abbastanza spregevole e scadente nella natura, che con un piccolo e

leggero alito di quella forza del conoscere non si gonfi senz’altro come un otre. E come ogni

facchino vuole avere i suoi ammiratori, così il più orgoglioso fra gli uomini, il filosofo, crede che

da tutti i lati gli occhi dell’universo siano rivolti telescopicamente sul suo agire e sul suo pensare.

È degno di nota che tutto ciò sia prodotto dall’intelletto, il quale è concesso – unicamente come

aiuto –agli esseri più infelici, più delicati e più transitori, allo scopo di trattenerli per un minuto

nell’esistenza, onde essi altrimenti, senza quell’aggiunta, avrebbero ogni motivo di sfuggire tanto

rapidamente quanto il figlio di Lessing. Quell’alterigia connessa col conoscere e col sentire,

sospesa come nebbia abbagliante dinanzi agli occhi e ai sensi degli uomini, li inganna dunque sul

valore dell’esistenza, portando in sé la più lusinghevole valutazione riguardo al conoscere. Il suo

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effetto più universale è l’inganno, ma anche gli effetti più particolari portano in sé qualcosa del

medesimo carattere.

L’intelletto, come mezzo per conservare l’individuo, spiega le sue forze principali nella

finzione. Questa infatti è il mezzo con cui gli individui più deboli e meno robusti si conservano, in

quanto a essi è preclusa una lotta per l’esistenza da condursi con le corna o con gli aspri morsi

degli animali feroci. Nell’uomo quest’arte della finzione raggiunge il suo culmine: qui l’illudere,

l’adulare, il mentire e l’ingannare, il parlar male di qualcuno in sua assenza, il rappresentare, il

vivere in uno splendore preso a prestito, il mascherarsi, le convenzioni che nascondono, il far la

commedia dinanzi agli altri e a se stessi, in breve il continuo svolazzare attorno alla fiamma della

vanità costituisce a tal punto la regola e la legge, che nulla, si può dire, è più incomprensibile del

fatto che fra gli uomini possa sorgere un impulso onesto e puro verso la verità. Essi sono

profondamente immersi nelle illusioni e nelle immagini del sogno, il loro occhio scivola sulla

superficie delle cose, vedendo «forme», il loro sentimento non conduce mai alla verità, ma si

accontenta di ricevere stimoli e, per così dire, di accarezzare con un giuoco tattile il dorso delle

cose. Oltre a ciò, di notte l’uomo si lascia ingannare nel sogno, per tutta la vita, senza che il suo

sentimento morale cerchi mai di impedire ciò; devono invece esistere uomini che con la forza di

volontà hanno eliminato il russare. In senso proprio, che cosa sa l’uomo su se stesso? Forse che,

una volta tanto, egli sarebbe capace di percepire compiutamente se stesso, quasi si trovasse posto

in una vetrina illuminata? Forse che la natura non gli nasconde quasi tutto, persino riguardo al suo

corpo, per confinarlo e racchiuderlo in un’orgogliosa e fantasmagorica coscienza, lontano

dall’intreccio delle sue viscere, dal rapido flusso del suo sangue, dai complicati fremiti delle sue

fibre? La natura ha gettato via la chiave, e guai alla fatale curiosità che una volta riesca a guardare

attraverso una fessura dalla cella della coscienza, in fuori e in basso, e che un giorno abbia il

presentimento che l’uomo sta sospeso nei suoi sogni su qualcosa di spietato, avido, insaziabile e,

per così dire, sul dorso di una tigre. In una tale costellazione, da quale parte del mondo sorgerà

mai l’impulso verso la verità?

In quanto l’individuo, di fronte ad altri individui, vuole conservarsi, esso utilizza per lo più

l’intelletto, in uno stato naturale delle cose, soltanto per la finzione: ma poiché al tempo stesso

l’uomo, per bisogno o per noia, vuole esistere socialmente come in un gregge, egli è spinto a

concludere la pace, e tende a far scomparire dal suo mondo almeno il più rozzo bellum omnium

contra omnes. Questo trattato di pace porta in sé qualcosa che si presenta come il primo passo per

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raggiungere quell’enigmatico impulso alla verità. A questo punto viene fissato ciò che in seguito

dovrà essere la «verità»; in altre parole, viene scoperta una designazione delle cose uniformemente

valida e vincolante, e la legislazione del linguaggio fornisce altresì le prime leggi della verità.

Sorge qui infatti, per la prima volta, il contrasto tra verità e menzogna. Il mentitore adopera le

designazioni valide, le parole, per fare apparire come reale ciò che non è reale. Egli dice per

esempio: «io sono ricco», mentre per il suo stato la designazione esatta sarebbe proprio «povero».

Egli fa cattivo uso delle salde convenzioni, scambiando arbitrariamente, o addirittura invertendo i

nomi. Quando egli fa questo in modo egoistico, che può d’altronde recare danno, la società non si

fiderà più di lui e così lo escluderà da sé. Nel far ciò gli uomini cercano di evitare, non tanto

l’essere ingannati, quanto l’essere danneggiati dall’inganno: anche su questo piano essi in fondo

non odiano l’inganno, bensì le conseguenze brutte e ostili di certe specie di inganni. In tale senso

limitato, l’uomo vuole soltanto la verità: egli desidera le conseguenze piacevoli – che preservano

la vita – della verità, è indifferente di fronte alla conoscenza pura, priva di conseguenze, mentre è

disposto addirittura ostilmente verso le verità forse dannose e distruttive. Oltre a ciò come stanno

le cose rispetto alle suddette convenzioni del linguaggio? Sono forse prodotti della conoscenza,

del senso della verità, forse che le designazioni e le cose si sovrappongono? Il linguaggio è dunque

l’espressione adeguata di tutte le realtà?

Solo attraverso l’oblio l’uomo può giungere a credere di possedere una «verità» nel grado sopra

designato. Quando egli non si accontenta della verità in forma di tautologia, ossia non si appaga di

gusci vuoti, baratterà sempre verità e illusioni. Che cos’è una parola? Il riflesso in suoni di uno

stimolo nervoso. Ma il concludere da uno stimolo nervoso a una causa fuori di noi è già il risultato

di una applicazione falsa e ingiustificata del principio di ragione. Se nella genesi del linguaggio la

verità fosse risultata decisiva, se nelle designazioni fosse stato decisivo unicamente il punto di

vista della certezza, come potremmo ancora dire: la pietra è dura, quasi che «duro» ci fosse noto

anche altrimenti, e non soltanto come uno stimolo del tutto soggettivo? Noi dividiamo le cose in

generi, designiamo l’albero come maschile e la pianta come femminile: quali trasposizioni

arbitrarie! Che distacco dal canone della certezza! Noi parliamo di un «serpente»: la designazione

non riguarda altro se non la tortuosità, e potrebbe quindi spettare altresì al verme. Quali

delimitazioni arbitrarie, quali preferenze unilaterali, accordate ora all’una ora all’altra proprietà di

una cosa! Le diverse lingue, poste l’una accanto all’altra, mostrano che nelle parole non ha mai

importanza la verità, né un’espressione adeguata. In caso contrario non esisterebbero infatti così

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tante lingue. La «cosa in sé» (la verità pura e priva di conseguenze consisterebbe appunto in ciò) è

d’altronde del tutto inafferrabile per colui che costruisce il linguaggio, e non è affatto degna per lui

di essere ricercata. Egli designa soltanto le relazioni delle cose con gli uomini e ricorre all’aiuto

delle più ardite metafore per esprimere tali relazioni. Uno stimolo nervoso, trasferito anzitutto in

un’immagine: prima metafora. L’immagine è poi plasmata in un suono: seconda metafora. Ogni

volta si ha un cambiamento completo della sfera, un passaggio a una sfera del tutto differente e

nuova. Si può immaginare un uomo che sia completamente sordo e non abbia mai avuto una

sensazione del suono e della musica: allo stesso modo che costui, per esempio, si meraviglia di

fronte alle figure acustiche di Chladni, disegnate sulla sabbia, trova le loro cause nelle vibrazioni

della corda ed è disposto a giurare di sapere ormai che cosa sia ciò che gli uomini chiamano

«suono», così avviene a tutti noi riguardo al linguaggio. Noi crediamo di sapere qualcosa sulle

cose stesse, quando parliamo di alberi, di colori, di neve e di fiori, eppure non possediamo nulla se

non metafore delle cose che non corrispondono affatto alle essenze originarie. Come il suono si

presenta in quanto figura nella sabbia, così l’enigmatico x della cosa in sé ora si presenta come

stimolo nervoso, ora come immagine, ora infine come suono. In ogni caso il sorgere della lingua

non segue un procedimento logico, e l’intero materiale su cui e con cui più tardi lavorerà e

costruirà l’uomo della verità, l’indagatore, il filosofo, proviene, se non da una Nefelococcigia,

certo però non dall’essenza delle cose.

Soffermiamoci ancora particolarmente sulla formazione dei concetti. Ogni parola diventa

senz’altro un concetto, per il fatto che essa non è destinata a servire eventualmente per ricordare

l’esperienza primitiva, non ripetuta e perfettamente individualizzata, ma deve adattarsi al tempo

stesso a innumerevoli casi più o meno simili, cioè – a rigore – mai uguali, e quindi a casi

semplicemente disuguali. Ogni concetto sorge con l’equiparazione di ciò che non è uguale. Se è

certo che una foglia non è mai perfettamente uguale a un’altra, altrettanto certo è che il concetto di

foglia si forma mediante un arbitrario lasciar cadere queste differenze individuali, mediante un

dimenticare l’elemento discriminante, e suscita poi la rappresentazione che nella natura, all’infuori

delle foglie, esiste un qualcosa che è «foglia», quasi una forma primordiale, sul modello della

quale sarebbero tessute, disegnate, circoscritte, colorate, increspate, dipinte – ma da mani

maldestre – tutte le foglie, in modo tale che nessun esemplare risulterebbe corretto e attendibile in

quanto copia fedele della forma originale. Noi chiamiamo un uomo «onesto». Perché costui si è

comportato oggi così onestamente? – domandiamo. La nostra risposta è di solito: a causa della sua

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onestà. L’onestà! Ciò significa nuovamente: la foglia è la causa delle foglie. Non sappiamo

assolutamente nulla di una qualità essenziale che si chiami l’onestà; e conosciamo invece

numerose azioni individuali, e quindi disuguali, che noi equipariamo tra loro, lasciando cadere ciò

che vi è di disuguale, e che allora designiamo come azioni oneste. Partendo da esse formuliamo

infine una qualitas occulta, con il nome: l’onestà.

Il trascurare ciò che vi è di individuale e di reale ci fornisce il concetto, allo stesso modo che ci

fornisce la forma, mentre la natura non conosce invece nessuna forma e nessun concetto, e quindi

neppure alcun genere, ma soltanto una x, per noi inattingibile e indefinibile. Altresì la nostra

antitesi tra individuo e genere è infatti antropomorfica e non sgorga dall’essenza delle cose, anche

se non osiamo dire che tale antitesi non corrisponde a tale essenza. Questa sarebbe infatti

un’asserzione dogmatica, e come tale altrettanto indimostrabile quanto la sua contraria.

Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in

breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che

sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e

vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si

sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e

che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete. Sinora noi non

sappiamo onde derivi l’impulso verso la verità; sinora infatti abbiamo inteso parlare soltanto

dell’obbligo imposto dalla società per la sua esistenza: essere veritieri, cioè servirsi delle metafore

usuali. L’espressione morale di ciò è dunque la seguente: sinora abbiamo inteso parlare soltanto

dell’obbligo di mentire secondo una salda convenzione, ossia di mentire come si conviene a una

moltitudine, in uno stile vincolante per tutti. Senza dubbio l’uomo si dimentica che le cose stanno

a questo modo; egli mente dunque nella maniera suddetta, incoscientemente e per una abitudine

secolare, giungendo al sentimento della verità proprio attraverso questa incoscienza, proprio

attraverso questo oblio. Con il sentimento di essere obbligati a designare una cosa come rossa,

un’altra come fredda, una terza come muta, si risveglia un sentimento morale riferentesi alla

verità. Fondandosi sul contrasto dell’uomo menzognero, di cui nessuno si fida e che tutti evitano,

l’uomo dimostra a se stesso che la verità è degna di rispetto e di fiducia, e altresì utile. Come

essere razionale, egli pone ora il suo agire sotto il controllo delle astrazioni; non ammette più di

essere trascinato dalle impressioni istantanee e dalle intuizioni, generalizza tutte queste

impressioni, traendone concetti scoloriti e tiepidi, per aggiogare a essi il carro della sua vita e della

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sua azione. Tutto ciò che distingue l’uomo dall’animale dipende da questa capacità di sminuire le

metafore intuitive in schemi, cioè di risolvere un’immagine in un concetto. Nel campo di quegli

schemi è possibile cioè qualcosa che non potrebbe mai riuscire sotto il dominio delle prime

impressioni intuitive: costruire un ordine piramidale, suddiviso secondo caste e gradi, creare un

nuovo mondo di leggi, di privilegi, di subordinazioni, di delimitazioni, che si contrapponga ormai

all’altro mondo intuitivo delle prime impressioni come qualcosa di più solido, di più generale, di

più noto, di più umano, e quindi come l’elemento regolatore e imperativo. Mentre ogni metafora

intuitiva è individuale e risulta senza pari, sapendo perciò sempre sfuggire a ogni registrazione, la

grande costruzione dei concetti mostra invece la rigida regolarità di un colombario romano e

manifesta nella logica quel rigore e quella freddezza che sono propri della matematica. Chi è

ispirato da questa freddezza difficilmente crederà che il concetto – osseo come un dado, spostabile

e munito di otto vertici come questo – sussista unicamente come il residuo di una metafora, e che

l’illusione del trasferimento artistico di uno stimolo nervoso in immagini, se non è la madre, sia

tuttavia l’antenata di ogni concetto. In questo concettuale giuoco di dadi si chiama peraltro

«verità» il servirsi di ogni dado secondo la sua designazione, il contare con esattezza i punti

segnati su ogni faccia, il costruire rubriche giuste e il non turbare mai l’ordinamento di caste e la

serie gerarchica delle classi. Come i Romani e gli Etruschi dividevano il cielo con rigide linee

matematiche e in ciascuna di queste caselle, come in un templum, relegavano un dio, così ogni

popolo trova sopra di sé un siffatto ciclo concettuale suddiviso matematicamente, e per esigenze

della verità intende il ricercare ogni dio concettuale unicamente nella sua sfera. Senza dubbio si

può a questo proposito ammirare l’uomo come un potente genio costruttivo, che riesce – su mobili

fondamenta, e per così dire, sull’acqua corrente – a elevare una cupola concettuale infinitamente

complicata; certo, per raggiungere una stabilità su siffatte fondamenta, occorrerà una costruzione

fatta di ragnatele, tanto tenue da non essere trascinata via dalle onde e tanto solida da non essere

spazzata via al soffiare di ogni vento. Come genio costruttivo, l’uomo si innalza a questo modo al

di sopra delle api: queste costruiscono con la cera che raccolgono ricavandola dalla natura, mentre

l’uomo costruisce con la materia assai più tenue dei concetti che egli deve fabbricarsi da sé. In ciò

egli è degno di grande ammirazione, non già tuttavia a causa del suo impulso verso la verità e la

conoscenza pura delle cose. Se qualcuno nasconde qualcosa dietro un cespuglio, se lo ricerca

nuovamente là e ve lo ritrova, in questa ricerca e in questa scoperta non vi è molto da lodare:

eppure le cose stanno a questo modo riguardo alla ricerca e alla scoperta della «verità», entro il

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territorio della ragione. Se io formulo la definizione del mammifero, e in seguito, vedendo un

cammello, dichiaro: «ecco un mammifero», in tal caso viene portata alla luce senza dubbio una

verità, ma quest’ultima ha un valore limitato, a mio avviso; è completamente antropomorfica e

non contiene neppure un solo elemento che sia «vero in sé», reale e universalmente valido, a

prescindere dall’uomo. L’indagatore di queste verità in fondo cerca soltanto la metamorfosi del

mondo nell’uomo, si sforza di comprendere il mondo come una cosa umana e nel caso migliore

riesce a raggiungere il sentimento di una assimilazione. Allo stesso modo in cui l’astrologo

considerava le stelle al servizio degli uomini e in collegamento con la loro felicità e con i loro

dolori, così un tale indagatore considera il mondo intero come connesso con l’uomo, come l’eco

infinitamente ripercossa di un suono originario, cioè dell’uomo, come il riflesso moltiplicato di

un’immagine primordiale, cioè dell’uomo. Il suo metodo considera l’uomo come misura di tutte le

cose: nel far ciò tuttavia egli parte da un errore iniziale, credere cioè che egli abbia queste cose

immediatamente dinanzi a sé, come oggetti puri. Egli dimentica così che le metafore originarie

dell’intuizione sono pur sempre metafore, e le prende per le cose stesse.

Solo quando l’uomo dimentica quel primitivo mondo di metafore, solo quando la massa

originaria di immagini – che sgorgano con ardente fluidità dalla primordiale facoltà della fantasia

umana – si indurisce e irrigidisce, solo quando si crede, con una fede invincibile, che questo sole,

questa finestra, questo tavolo siano verità in sé: in breve, solo quando l’uomo dimentica se stesso

in quanto soggetto, e precisamente in quanto soggetto artisticamente creativo, solo allora egli può

vivere con una certa calma, sicurezza e coerenza. Se egli potesse uscire soltanto per un attimo

dalle mura segregatrici di questa fede, la sua «autocoscienza» si dissolverebbe allora d’un tratto.

Già gli costa molta fatica l’ammettere che l’insetto o l’uccello percepiscono un mondo del tutto

differente da quello umano, e che la questione di determinare quale delle due percezioni del

mondo sia la più giusta è del tutto priva di senso, poiché una misura in proposito dovrebbe essere

stabilita in base al criterio della percezione esatta, cioè in base a un criterio che non esiste. In

generale poi la percezione esatta – il che significherebbe l’espressione adeguata di un oggetto nel

soggetto – mi sembra un’assurdità contraddittoria: in effetti tra due sfere assolutamente diverse,

quali sono il soggetto e l’oggetto, non esiste alcuna causalità, alcuna esattezza, alcuna espressione,

ma tutt’al più un rapporto estetico, intendo dire una trasposizione allusiva, una traduzione

balbettata in una lingua del tutto straniera, il che richiederebbe in ogni caso una sfera intermedia e

una capacità intermedia che fossero capaci di poetare e di inventare liberamente. La parola

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apparenza contiene molte tentazioni, e perciò la evito per quanto è possibile: non è infatti vero che

l’essenza delle cose appaia nel mondo empirico. Un pittore, cui manchino le mani e che voglia

esprimere con il canto l’immagine che gli sta di fronte, lascerà indovinare, con questo scambio di

sfere, più di quanto il mondo empirico non lasci indovinare riguardo all’essenza delle cose.

Persino il rapporto tra uno stimolo nervoso e l’immagine prodotta non è in sé affatto necessario:

ma quando la medesima immagine viene prodotta milioni di volte e viene trasmessa

ereditariamente attraverso molte generazioni umane, apparendo infine a tutta quanta l’umanità

ogni volta come conseguenza della medesima occasione, essa in conclusione acquista per l’uomo

il medesimo significato che le spetterebbe se fosse l’unica immagine necessaria, e se quel rapporto

fra l’originario stimolo nervoso e l’immagine prodotta fosse un rigido rapporto di causalità. Allo

stesso modo un sogno, eternamente ripetuto, sarebbe sentito e giudicato interamente come realtà.

Ma l’indurirsi e, l’irrigidirsi di una metafora non offre assolutamente alcuna garanzia per la

necessità e per l’autorità esclusiva di questa metafora.

Ogni uomo cui tali considerazioni siano familiari ha senza dubbio sentito una profonda

diffidenza verso ogni idealismo cosiffatto, ogni volta che egli si sia convinto con grande chiarezza

dell’eterno rigore, dell’onnipresenza e dell’infallibilità delle leggi naturali. Egli è giunto alla

seguente conclusione: in questo campo – sin dove possiamo giungere, verso l’altezza del mondo

telescopico e verso la profondità del mondo microscopico – tutto è sicuro, costruito, infinito,

conforme a leggi e senza lacune; la scienza potrà eternamente scavare questi pozzi con successo, e

tutto ciò che sarà trovato risulterà concordante e non contraddittorio. Tutto ciò assomiglia davvero

poco a un prodotto della fantasia: se tale fosse il caso, difatti, da qualche parte dovrebbe trasparire

l’illusione e l’irrealtà. Invece occorre dire: se ciascuno di noi, per sé, avesse una differente

sensazione, se noi stessi potessimo percepire ora come uccelli, ora come vermi, ora come piante,

oppure se uno di noi vedesse il medesimo stimolo come rosso e un altro lo vedesse come azzurro,

se un terzo udisse addirittura tale stimolo come suono, nessuno potrebbe allora parlare di una tale

regolarità della natura, ma la intenderebbe unicamente come una creazione estremamente

soggettiva. Oltre a ciò, che cos’è per noi, in generale, una legge della natura? Essa ci è nota non

già in sé, bensì soltanto nei suoi effetti, cioè nelle sue relazioni con altre leggi naturali, che a loro

volta ci sono note soltanto come somme di relazioni. Tutte queste relazioni rimandano perciò

sempre l’una all’altra, e nella loro essenza risultano per noi perfettamente incomprensibili: in tutto

ciò ci è realmente noto soltanto quello che noi stessi aggiungiamo, il tempo, lo spazio, ossia

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rapporti di successione e numeri. Peraltro l’intero elemento miracoloso –proprio quello che

ammiriamo nelle leggi naturali –che esige una nostra spiegazione e potrebbe indurci a diffidare

dell’idealismo consiste proprio unicamente nel rigore matematico e nell’inviolabilità delle

rappresentazioni di tempo e spazio. Queste, tuttavia, noi le produciamo in noi, traendole da noi

stessi con quella necessità con cui il ragno tesse la sua tela ; se siamo costretti a comprendere tutte

le cose unicamente in base a queste forme, non c’è allora più da meravigliarci che in tutte le cose

noi possiamo appunto comprendere, propriamente, soltanto queste forme: tutte quante debbono

infatti portare in sé le leggi del numero e il numero è appunto l’elemento più stupefacente che

esista nelle cose. Ogni conformità a leggi, la quale ci fa talmente impressione nel corso degli astri

e nei processi chimici, coincide in fondo con quelle proprietà che noi stessi introduciamo nelle

cose, cosicché siamo noi che facciamo impressione a noi stessi. Da ciò risulta senza dubbio che

quella formazione artistica di metafore, con cui comincia in noi ogni sensazione, presuppone già

quelle forme, ossia viene compiuta in esse; è soltanto la salda permanenza di- queste forme

originarie, che può spiegare la possibilità della susseguente costituzione, in base alle metafore

stesse, dell’edificio dei concetti. Tale edificio è infatti un’imitazione dei rapporti temporali,

spaziali e numerici sul terreno delle metafore.

2

Alla costruzione dei concetti lavora originariamente, come abbiamo visto, il linguaggio, e in

epoche posteriori la scienza. Come l’ape costruisce le sue celle e al tempo stesso le riempie di

miele, così la scienza lavora incessantemente a quel grande colombario dei concetti – cimitero

delle intuizioni – costruisce in quell’edificio piani nuovi e più alti, consolida, ripulisce, rinnova le

antiche celle, e soprattutto si sforza di riempire quella costruzione a scomparti, innalzata a un

livello eccelso, e di ordinarvi l’intero mondo empirico, ossia il mondo antropomorfico. Se già

l’uomo di azione lega la sua vita alla ragione e ai concetti razionali, per non essere trascinato via

dalla corrente e per non perdersi, all’indagatore poi spetta addirittura di costruire la sua capanna a

ridosso della torre della scienza, per poter contribuire alla sua edificazione e per poter trovare egli

stesso un riparo ai piedi del baluardo già costruito. E di protezione egli ha bisogno, poiché

esistono forze terribili che premono continuamente su di lui, contrapponendo alla «verità»

scientifica altre «verità» di natura del tutto diversa e munite dei più svariati stemmi.

89

Quell’impulso a formare metafore, quell’impulso fondamentale dell’uomo da cui non si può

prescindere neppure per un istante, poiché in tal mòdo si prescinderebbe dall’uomo stesso, risulta

in verità non già represso, ma a stento ammansito, dal fatto che con i suoi prodotti evanescenti, i

concetti, sia stato costruito per lui un nuovo mondo, regolare e rigido, come roccaforte. Tale

impulso si cerca allora un nuovo campo di azione, un altro alveo per la sua corrente, e trova tutto

ciò nel mito, e in generale nell’arte. Confonde continuamente le rubriche e gli scomparti dei

concetti, presentando nuove trasposizioni, metafore, metonimie; continuamente svela il desiderio

di dare al mondo sussistente dell’uomo desto una figura così variopinta, irregolare, priva di

conseguenze, incoerente, eccitante ed eternamente nuova, quale è data dal mondo del sogno. In sé,

anzi, l’uomo desto trae una chiara convinzione di essere sveglio unicamente dalla rigida e regolare

ragnatela dei concetti, e talvolta è portato a credere di sognare, appunto perché quella ragnatela

concettuale in certe occasioni viene strappata dall’arte. Pascal ha ragione quando sostiene che, se

ogni notte ci si presentasse il medesimo sogno, noi ci occuperemmo altrettanto di esso quanto

delle cose che vediamo ogni-giorno: «se un artigiano fosse sicuro di sognare ogni notte, per dodici

ore filate, di essere re, io credo allora» dice Pascal «che egli sarebbe altrettanto felice quanto un re

che sognasse tutte le notti, per dodici ore, di essere un artigiano». La veglia di un popolo – per

esempio degli antichi Greci – ispirato miticamente risulta, a causa dei miracoli continuamente

operanti quali sono accolti dal mito, realmente più simile al sogno che non alla veglia del

pensatore scientificamente disincantato. Quando ogni albero può avere l’occasione di parlare,

nascondendo una ninfa, quando sotto la figura di un toro un dio può trascinar via le vergini,

quando la stessa dea Atena viene vista improvvisamente, su un bel cocchio, attraversare le piazze

di Atene in compagnia di Pisistrato – e tutto ciò è creduto dai buoni Ateniesi – allora in ogni

momento tutto è possibile, come nel sogno, e tutta la natura si agita attorno all’uomo, quasi fosse

unicamente una mascherata degli dèi, contenti di fare uno scherzo all’uomo con ogni specie di

metamorfosi ingannevoli.

L’uomo stesso peraltro ha un’invincibile tendenza a lasciarsi ingannare ed è come incantato di

felicità, quando il rapsodo gli racconta come vere delle favole epiche, o quando nel dramma

l’attore fa la parte del re in modo ancora più regale di quanto sia mostrato dalla realtà. L’intelletto,

maestro di finzione, è libero e sottratto al suo normale servizio da schiavo, sintanto che può

ingannare senza recare danno, e celebra allora i suoi Saturnali. In nessun’altra occasione esso è più

esuberante, più ricco, più orgoglioso, più abile e più audace: con gusto creativo mescola le

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metafore e sposta i confini dell’astrazione, cosicché per esempio designa il fiume come la mobile

strada che porta l’uomo là dove di solito egli giunge camminando. Esso ha ormai gettato via da sé

il segno della soggezione: un tempo preoccupato, con triste operosità, di mostrare la via e gli

strumenti a un povero individuo che ha un ardente desiderio di vivere, un tempo pronto a rapinare

e a predare come lo è un servo per il suo padrone, ora invece è divenuto padrone e può cancellare

dal suo volto l’espressione della miseria. Tutto ciò che fa adesso, a confronto con le sue azioni

precedenti, porta in sé il segno della finzione, così come ciò che aveva fatto in precedenza portava

in sé il segno della caricatura.

Ora copia la vita umana, ma la prende come una cosa buona e sembra davvero contentarsi di

essa. Quella enorme impalcatura e travatura di concetti, aggrappandosi alla quale il misero uomo

riesce a salvarsi lungo la sua vita, costituisce, per l’intelletto divenuto libero, soltanto un’armatura

e un trastullo per i suoi audaci artifici. E se manda in frantumi tutto ciò, se lo mescola, lo

ricompone ironicamente, accoppiando le cose più estranee e separando le cose più affini, con ciò

esso fa vedere di non aver bisogno di quei ripieghi della miseria e di essere ormai guidato, non già

da concetti, bensì da intuizioni. Non esiste una strada regolare, che partendo da queste intuizioni

conduca nella terra degli schemi spettrali, delle astrazioni: la parola non è fatta per le intuizioni, e

l’uomo ammutolisce quando si trova dinanzi a esse, oppure parla unicamente con metafore

proibite e con inauditi accozzamenti di concetti, per adeguarsi creativamente – almeno con la

distruzione e la derisione delle vecchie barriere concettuali – all’impressione della possente

intuizione attuale.

Vi sono epoche in cui l’uomo razionale e l’uomo intuitivo stanno l’uno accanto all’altro, il

primo con la paura dell’intuizione, il secondo con il disprezzo per l’astrazione. Quest’ultimo è

altrettanto non razionale, quanto il primo è non artistico. Entrambi desiderano di dominare sulla

vita: l’uomo razionale, in quanto sa affrontare i più importanti e i più impellenti bisogni con la

previdenza, la prudenza e la regolarità; l’uomo intuitivo, in quanto non vede – come «eroe

supremamente giocondo» – quei bisogni e considera come reale soltanto la vita trasformata dalla

finzione in parvenza e in bellezza. Se l’uomo intuitivo – come è avvenuto nell’antica Grecia – sa

usare le sue armi più vittoriosamente e più potentemente dell’avversario, può configurarsi, in caso

favorevole, una civiltà e può fondarsi il dominio dell’arte sulla vita: quella finzione, quel

rinnegamento della miseria, quello splendore delle intuizioni metaforiche, e in generale

quell’immediatezza dell’inganno accompagnano tutte le manifestazioni di una siffatta vita. Né

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l’abitazione, né l’andatura, né l’abbigliamento, né l’orcio d’argilla lasciano scorgere di essere stati

inventati da un bisogno impellente. Sembra quasi che attraverso tutte queste cose debba esprimersi

una sublime felicità, una serenità olimpica, e per così dire un giocare con ciò che è serio. Mentre

l’uomo guidato dai concetti e dalle astrazioni non riesce per mezzo loro che a respingere

l’infelicità, senza riuscire egli stesso a procurarsi la felicità dalle sue astrazioni, mentre cioè egli si

sforza per quanto è possibile di liberarsi dal dolore, l’uomo intuitivo invece, ergendosi in mezzo a

una civiltà, raccoglie dalle sue intuizioni, oltre che una difesa dal male, un’illuminazione, un

rasserenamento, una redenzione, che affluiscono incessantemente. Senza dubbio egli soffre più

violentemente, quando soffre: egli soffre anzi più spesso, poiché non sa imparare dall’esperienza e

cade sempre di nuovo nel medesimo pozzo in cui era caduto una volta. Nel dolore poi è tanto

irrazionale quanto nella felicità: egli grida forte e non trova consolazione. Quanto diverso è il

comportamento, di fronte a un’eguale sventura, dell’uomo stoico, ammaestrato dall’esperienza, il

quale si domina con l’aiuto dei concetti! Lui, che altrimenti cerca soltanto la rettitudine, la verità,

la libertà dagli inganni e la difesa dalle sorprese seducenti, ora invece, nella sventura, mette in

mostra il capolavoro della dissimulazione, come quell’altro aveva fatto nella felicità: egli non

rivela un volto umano mobile e vibrante, ma per cosa dire una maschera, con un dignitoso

equilibrio nei tratti; egli non grida e non cambia nemmeno la sua voce. Se un nuvolone

temporalesco si rovescia su di lui, egli si avvolge nel suo mantello e se ne va a lento passo sotto il

temporale.

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John M’Taggart Ellis M’Taggart (1866-1925)

‘L’irrealtà del tempo’ (1908) lingua originale: inglese

prima pubblicazione nella rivista Mind

tr. it. L. Cimino, Rizzoli, Milano, 2006

Senza dubbio sembra del tutto paradossale affermare che il tempo sia irreale e che tutte le

asserzioni che implicano la sua realtà siano errate. Asserzioni del genere comportano un

allontanamento dall'atteggiamento naturale del genere umano molto maggiore di quelle che

affermano l'irrealtà dello spazio o l'irrealtà della materia. Una frattura così decisiva con

l'atteggiamento naturale non è facile da accettare. Eppure, in ogni epoca, la credenza nell'irrealtà

del tempo si è dimostrata straordinariamente attraente.

Nella filosofia e nella religione orientali tale dottrina è d'importanza cardinale. E in

Occidente, dove filosofia e religione sono meno strettamente connesse, la medesima dottrina si

ripropone di continuo fra filosofi e teologi. La teologia non si è mai tenuta separata a lungo dal

misticismo e quasi tutte le forme di misticismo negano la realtà del tempo. In filosofia, inoltre, il

tempo viene considerato irreale da Spinoza, Kant, Hegel e Schopenhauer. Nella filosofia attuale

le due correnti più importanti (escludendo quelle finora meramente critiche) sono quelle che si

riallacciano a Hegel e al sig. Bradley. Ed entrambe rifiutano la realtà del tempo. Non si può

negare che tale consenso sia estremamente significativo – e non lo è meno perché queste dottrine

assumono forme molto diverse e sono sostenute da argomenti molto diversi.

Io credo che il tempo sia irreale. Ma lo credo per motivi che non sono stati utilizzati, penso,

da nessuno dei filosofi menzionati. La proposta è allora quella di spiegare tali motivi nel presente

articolo.

Le posizioni nel tempo, per come il tempo ci appare prima facie, sono distinte in due modi.

Ciascuna posizione è Prima di qualcuna e Dopo qualcuna delle altre posizioni. E ogni posizione

è o Presente, o Passata, o Futura. Le distinzioni della prima delle due classi sono permanenti,

mentre quelle della seconda non lo sono. Se M è per caso prima di N, lo è per sempre. Ma un

evento che è ora presente, era futuro e sarà passato.

Poiché sono permanenti, si potrebbe ritenere che le distinzioni della prima classe siano più

oggettive, e più essenziali alla natura del tempo. Io credo invece che questo sia un errore, e che la

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distinzione fra passato, presente e futuro sia tanto essenziale al tempo quanto la distinzione fra

prima e dopo, mentre in un certo senso, come vedremo, essa può essere considerata ancor più

fondamentale della distinzione fra prima e dopo. Ed è proprio perché la distinzione fra passato,

presente e futuro mi sembra essenziale al tempo che considero il tempo irreale.

Per brevità chiamerò “serie A” la serie di posizioni che vanno dal passato remoto, attraverso

il passato più prossimo, al presente, e dal presente, al futuro prossimo e al futuro più remoto. La

serie di posizioni che va dal prima al dopo la chiamerò “serie B”. I contenuti delle posizioni nel

tempo vengono detti “eventi”. Si pensa che i contenuti di una singola posizione debbano essere

propriamente considerati una pluralità di eventi (credo comunque che essi possano essere

considerati altrettanto correttamente, anche se non più correttamente, un solo evento. Tale

prospettiva non è universalmente accettata e non è necessaria al mio argomento). Una posizione

nel tempo viene chiamata un momento.

La prima questione da considerare è se sia la serie A sia la serie B siano o meno entrambe

essenziali alla realtà del tempo. Ed è chiaro, tanto per cominciare, che noi non osserviamo mai il

tempo se non come costituente entrambe le serie. Noi percepiamo gli eventi nel tempo come

presenti, e sono questi gli unici eventi a essere direttamente percepiti. Tutti gli altri eventi nel

tempo che, attraverso la memoria o l'inferenza, crediamo reali, sono considerati passati o futuri –

quelli prima del presente sono passati e quelli dopo il presente sono futuri. Gli eventi del tempo

perciò, in quanto osservati da noi, formano sia una serie A sia una serie B.

È tuttavia possibile che ciò sia qualcosa di meramente soggettivo. Può essere che la

distinzione introdotta dalla serie A fra posizioni nel tempo – la distinzione fra passato, presente e

futuro – sia semplicemente una costante illusione delle nostre menti e che la reale natura del

tempo contenga solo la distinzione relativa alla serie B – la distinzione fra prima e dopo. In tal

caso noi non potremmo percepire il tempo com'è in realtà, anche se potremmo essere in grado di

pensarlo come è in realtà.

Questa non è una prospettiva molto comune, anche se ha trovato i suoi fautori. Io credo,

d'altro canto, che essa non sia sostenibile poiché, come ho detto prima, a me sembra che la serie

A sia essenziale alla natura del tempo e che qualsiasi difficoltà relativa al modo di considerare la

realtà della serie A sia una difficoltà altrettanto relativa alla considerazione della realtà del

tempo.

Suppongo si ammetta universalmente che il tempo implica il mutamento. Una cosa

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particolare, in effetti, può esistere, senza mutare, per una qualsiasi quantità di tempo. Ma quando

ci chiediamo cosa intendiamo nel dire che ci sono stati diversi momenti di tempo, o una certa

durata di tempo, in cui la cosa è rimasta la stessa, ci accorgiamo di intendere che essa è rimasta

la stessa mentre altre cose mutavano. Un universo in cui non mutasse nulla (inclusi i pensieri

degli esseri coscienti al suo interno) sarebbe un universo senza tempo.

Se allora una serie B senza una serie A può costituire il tempo, il mutamento deve essere

possibile senza una serie A. Supponiamo che la distinzione fra passato, presente e futuro non

riguardi la realtà. Può allora il mutamento riguardare la realtà? Che cos'è che muta?

Potremmo dire, in un tempo che formasse una serie B ma non una serie A, che il mutamento

consisterebbe nel fatto che un evento cessa di essere un evento mentre un altro evento comincia a

essere un evento? Se così fosse, avremmo certamente un mutamento.

Ma ciò è impossibile. Un evento non può mai cessare di essere un evento. Esso non può

uscire dalla serie temporale in cui è. Nel caso in cui N sia prima di O e dopo M, esso sarà sempre

prima di O ed è sempre stato dopo M, poiché le relazioni prima e dopo sono permanenti. E

poiché, secondo l'ipotesi attuale, il tempo è costituito solo dalla serie B, N avrà sempre e ha

sempre avuto una posizione in una serie temporale1. Vale a dire: sarà sempre ed è sempre stato

un evento, e non può cominciare o cessare di essere un evento.

O forse diremo che un evento M si fonde con un altro evento N mentre preserva una certa

identità grazie a un elemento che non muta, cosicché possiamo non solo dire che M è cessato e N

è cominciato, ma che è M a essere diventato N? Eppure le stesse difficoltà si ripresentano. M e N

possono avere un elemento in comune ma essi non sono lo stesso evento, altrimenti non vi

sarebbe mutamento. Se quindi M mutasse in N a un certo momento allora, in tale momento, M

avrebbe cessato di essere M, e N avrebbe cominciato a essere N. Ma si è visto che nessun evento

può cessare di essere, o cominciare a essere, se stesso, poiché come tale non può cessare di avere

un posto nella serie B. Un evento non può quindi mutare in un altro.

E neppure è possibile cercare il mutamento nei momenti numericamente differenti del tempo

assoluto, posto che tali momenti esistano. Lo stesso argomento varrà anche in tal caso. Ciascuno

1 È ugualmente vero, sebbene non interessi l'ipotesi che stiamo considerando, che qualsiasi cosa, una volta stata in

una serie A, vi è per sempre. Se una delle determinazioni passato, presente, futuro può mai riguardare N, allora una di

esse l'ha sempre riguardata e la riguarderà per sempre, anche se, naturalmente, non sempre la stessa.

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di questi momenti avrebbe il suo posto in una serie B poiché sarebbe prima o dopo ciascuno

degli altri. E poiché la serie B indica relazioni permanenti, nessun momento potrebbe cessare di

essere, né potrebbe diventare, un altro momento.

Poiché, quindi, ciò che si presenta nel tempo non comincia mai o cessa di essere, o di essere

se stesso, e poiché, ancora, se deve esserci mutamento, deve essere mutamento di ciò che occorre

nel tempo (l'atemporale non muta mai), la mia proposta è che rimanga una sola alternativa. Il

mutamento deve accadere a eventi di natura tale che il presentarsi di tali mutamenti non

impedisca agli eventi di essere eventi, gli stessi eventi, prima e dopo il mutamento.

Ora, quali sono le caratteristiche di un evento che possono mutare ma permettono che l'evento

sia lo stesso evento? (Uso la parola «caratteristica» come termine generale per includere sia le

qualità che l'evento possiede, sia le relazioni di cui è un termine – o piuttosto il fatto che un

evento è un termine di queste relazioni.) A me sembra che vi sia una sola classe con tali

caratteristiche – vale a dire quella in cui la determinazione dell'evento in questione avviene

attraverso i termini della serie A.

Si prenda un evento – ad esempio la morte della Regina Anna – e si consideri quale

mutamento può aver luogo nelle sue caratteristiche. Che sia una morte, che sia la morte di Anna

Stuart, che abbia tali cause, che abbia tali effetti – ogni caratteristica di tal genere non muta mai.

«Prima che le stelle ben si vedessero fra loro» l'evento in questione era la morte di una Regina

inglese. All'ultimo momento del tempo – se il tempo ha un ultimo momento – l'evento in

questione sarà ancora la morte di una Regina inglese. E in ogni rispetto tranne uno esso è

ugualmente privo di mutamento. Eppure in un rispetto esso muta. È cominciato con l'essere un

evento futuro. In ogni momento è divenuto un evento del futuro più prossimo. Alla fine è stato

presente. Poi è divenuto passato e tale lo rimarrà per sempre, sebbene in ogni momento diventi

sempre più passato.

Sembra quindi si sia costretti a concludere che ogni mutamento è solo un mutamento delle

caratteristiche assegnate agli eventi dalla loro presenza in una serie A, siano tali caratteristiche

qualità o relazioni.

Se tali caratteristiche fossero qualità allora gli eventi, dobbiamo ammettere, non sarebbero

sempre gli stessi, poiché un evento le cui qualità varino non è, naturalmente, del tutto lo stesso.

Ma anche se le caratteristiche fossero relazioni gli eventi non sarebbero del tutto gli stessi, se

appunto – come credo –la relazione di X con Y implica in X l'esistenza della qualità della sua

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relazione a Y2. Allora ci troveremmo di fronte alla seguente alternativa. Potremmo ammettere

che gli eventi mutino realmente la propria natura rispetto a tali caratteristiche, sebbene non

rispetto ad altre. Non vedo alcuna difficoltà ad ammetterlo. In tal modo metteremmo le

determinazioni della serie A in una posizione del tutto unica fra le caratteristiche degli eventi, ma

in effetti in ogni teoria esse rappresenterebbero caratteristiche del tutto uniche. Si è soliti dire, ad

esempio, che un evento passato non muta mai, ma io non vedo perché non dovremmo invece dire

«che un evento passato muta solo secondo un rispetto - quello per cui esso è più lontano dal

presente di quanto non fosse prima». Per quanto comunque non veda alcuna intrinseca difficoltà

in tale prospettiva, non è questa l'alternativa che considero definitivamente vera. Poiché se, come

credo, il tempo è irreale, l'ammissione che un evento nel tempo muti rispetto alla sua posizione

nella serie A non implica che qualcosa realmente muti.

Senza la serie A, allora, non vi sarebbe mutamento, e ne segue che la serie B, per sé, non è

sufficiente perché vi sia il tempo, dato che questo implica il mutamento.

La serie B d'altro canto non può che esistere come serie temporale poiché prima e dopo, le

distinzioni di cui è composta, sono chiaramente determinazioni temporali. Ne segue così che non

vi può essere serie B laddove non vi sia serie A, dato che dove non c'è serie A non c'è tempo.

Ma da ciò non segue che, se sottraiamo le determinazioni della serie A dal tempo, non rimane

affatto alcuna serie. Una serie del genere c'è – una serie di reciproche relazioni permanenti di

quelle realtà che nel tempo sono eventi – ed è la combinazione di questa serie con le

determinazioni A che dà il tempo. Questa ulteriore serie – chiamiamola “serie C” – non è però

temporale, perché non implica alcun mutamento bensì solo un ordine. Gli eventi hanno un

ordine. Essi sono, ad esempio, nell’ordine M, N, O, P. E non sono quindi nell’ordine M, O, N, P

o O, N, M, P o in qualsiasi altro ordine possibile. Ma il fatto che abbiano tale ordine non implica

vi sia alcun mutamento più di quanto questo sia implicato dall’ordine delle lettere dell’alfabeto, o

da quello dei Pari dell’albo parlamentare. Le realtà che ci appaiono come eventi possono quindi

formare tale serie senza aver titolo al nome di eventi, dato che questo nome viene dato solo alle

2 Non sto affermando, come ha fatto Lotze, che una relazione fra X e Y consiste di una qualità in X e di una

qualità in Y — teoria questa che considero del tutto indifendibile. Io affermo che una relazione Z fra X e Y implica

l'esistenza in X della qualità «avere la relazione Z con Y», tale che una differenza di relazioni implica sempre una

differenza di qualità, e che il mutamento di relazioni implica sempre un mutamento di qualità.

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realtà che sono in una serie temporale. Solamente quando intervengono mutamento e tempo le

relazioni di questa serie C diventano le relazioni prima e dopo, divenendo così una serie B.

Per la genesi di una serie B e del tempo si richiede comunque qualcosa di più che la semplice

serie C e il fatto del mutamento. Il mutamento deve essere infatti in una particolare direzione. E

la serie C, mentre determina l’ordine, non determina la direzione. Se la serie C procede come M,

N, O, P, allora la serie B, dal prima al dopo, non può procedere come M, O, N, P, o M, P, O, N o

in qualche modo diverso da i seguenti due: essa può procedere o come M, N, O, P (così che M è

il primo e P l’ultimo) o altrimenti come P, O, N, M (così che P è il primo e N l’ultimo). E non

c’è nulla o nella serie C o nel fatto del mutamento a determinare in quale direzione procedere.

Una serie che non sia temporale non ha una sua propria direzione sebbene abbia un ordine. Se

prendiamo la serie dei numeri naturali, non possiamo mettere il 17 fra il 21 e il 26. Ma ci

manteniamo nella serie se andiamo dal 17, passando per il 21, al 26, oppure se andiamo dal 26,

passando per il 21, al 17. La prima direzione ci sembra più naturale perché questa serie ha solo

un limite, ed è in genere più conveniente avere il limite all’inizio piuttosto che alla sua

conclusione. Ma ci manteniamo all’interno della serie anche se contiamo all’indietro.

Ancora, nella serie di categorie della dialettica hegeliana, la serie ci impedisce di porre l’Idea

Assoluta fra l’Essere e la Causalità. Ma ci permette o di andare dall’Essere, attraverso la

Causalità, all’Idea Assoluta, o dall’Idea Assoluta, attraverso la Causalità, all’Essere. La prima è,

secondo Hegel, l’ordine della prova, ed è quindi in genere l’ordine più conveniente da elencare.

Ma se fosse utile elencare in direzione inversa, noi staremmo comunque rispettando la serie.

Una serie non temporale, allora, non possiede una direzione in se stessa, sebbene una persona

che la consideri possa assumere i termini in una o nell’altra direzione, a seconda di quanto le

convenga fare. Come, analogamente, una persona che contempli un ordine temporale può

contemplarlo in entrambe le direzioni. Posso seguire l’ordine degli eventi dalla Magna Charta

alla Legge per la Riforma Elettorale o da quest’ultima alla Magna Charta. Ma nell’avere a che

fare con serie temporali non abbiamo semplicemente a che fare con un mutamento nella

considerazione esterna della serie, bensì con un mutamento che appartiène alla serie stessa. E

questo mutamento possiede una sua propria direzione. La Magna Charta è venuta prima della

Legge per la Riforma Elettorale, mentre quest’ultima non è venuta prima della Magna Charta.

Perciò, accanto alla serie C e al mutamento – affinché si dia il tempo – occorre che il

mutamento sia in una direzione e non in un’altra. A questo punto possiamo notare che la serie A,

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assieme alla C, è sufficiente perché vi sia il tempo. Per ottenere infatti il mutamento, il

mutamento in una determinata direzione, è sufficiente che una posizione nella serie C sia

Presente, ad esclusione di tutte le altre, e che tale caratteristica dell’essere presente passi lungo la

serie in modo tale che tutte le posizioni situate da un lato del Presente sono state presenti, e tutte

quelle situate dall’altro lato di esso sa ranno presenti. Quella che è stata presente è Passata, e

quella che sarà presente è Futura3. Così, alla precedente conclusione per cui non vi può es- sere

tempo a meno che la serie A non sia vera del reale, possiamo aggiungere l’ulteriore conclusione

che, per costituire una serie temporale, non si richiedono altri elementi oltre la serie A e la serie

C.

Possiamo riassumere le relazioni che le tre serie stabiliscono nei confronti del tempo come

segue: la serie A e la serie B sono ugualmente essenziali al tempo, che deve essere distinto sia

come passato, presente e futuro sia come prima e dopo. Ma le due serie non sono ugualmente

fondamentali. Quelle della serie A sono distinzioni ultime. Non possiamo spiegare cosa si

intende per passato, presente e futuro. Possiamo, in qualche misura, descriverli, ma non definirli.

Possiamo solo mostrare il loro significato attraverso esempi. «La tua colazione di questa mattina

– possiamo dire a chi ci interroghi – è passata; questa conversazione è presente; la tua cena di

questa sera è futura.» Non possiamo fare di più.

La serie B, d’altro canto, non è una serie ultima. Poiché data una serie C di relazioni

permanenti fra termini che non è temporale, e che non è quindi una serie B, e dato l’ulteriore

fatto che i termini di questa serie C formano anche una serie A, ne risulta che i termini della serie

C diventano una serie B, con quelli che sono collocati all’inizio, nella direzione che va dal

passato al futuro, posti prima di quelli più remoti in direzione del futuro.

La serie C, d’altro canto, è una serie ultima come la serie A. Non possiamo derivarla da

nient’altro. Che le unità di tempo formino appunto una serie le cui relazioni sono permanenti è

un fatto tanto ultimo quanto quello che ciascuna delle unità sia presente, passata o futura. E

questo fatto ultimo è essenziale al tempo. Poiché si è ammesso che è essenziale al tempo che

ciascun suo momento sia o prima o dopo ogni altro momento; e queste relazioni sono

permanenti. E questa serie – la serie B – non può derivare solo dalla serie A. Solo quando la serie

3 Implicando un circolo vizioso, tale resoconto della natura della serie A non è valido, poiché usa «è stato» e «sarà» per spiegare Passato e Futuro. D’altro canto, come cercherò di mostrare più avanti, il circolo vizioso è inevitabile quando abbiamo a che fare con la serie A e costituisce la ragione per cui dobbiamo rifiutarla.

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A, che fornisce mutamento e direzione, si combina con la serie C, che fornisce la permanenza,

può sorgere la serie B.

Ora, solo una parte delle conclusioni appena raggiunte è necessaria allo scopo generale del

presente lavoro. Io sto cercando di basare l’irrealtà del tempo non sul fatto che la serie A sia più

fondamentale della serie B, ma sul fatto che essa sia tanto essenziale quanto la serie B – che le

distinzioni di passato, presente e futuro siano essenziali al tempo e che, se tali distinzioni non

sono mai vere della realtà, allora la realtà non è nel tempo.

Tale prospettiva, vera o falsa che sia, non ha nulla di sorprendente. Abbiamo prima notato che

il tempo, per come lo percepiamo, presenta sempre tali distinzioni. E in generale si è pensato che

questa sia una caratteristica reale del tempo e non un’illusione dovuta al modo in cui lo

percepiamo. La maggior parte dei filosofi, creda o meno che il tempo appartenga veramente alla

realtà, ha considerato le distinzioni della serie A essenziali ad esso.

Quando è stata sostenuta la prospettiva opposta ciò è di solito avvenuto, credo, perché si è

ritenuto (correttamente, come cercherò di mostrare più avanti) che le distinzioni di passato,

presente e futuro non possono essere vere del reale e che, di conseguenza, se si vuole salvare la

realtà del tempo, si deve mostrare che gli sono inessenziali. Tale presupposto, si è pensato, è

appunto a favore della realtà del tempo, ed esso motiverebbe il nostro rifiuto della serie A come

inessenziale al tempo. Il fatto è che si tratta naturalmente solo di un presupposto. Se l’analisi del

tempo rivela che, rimuovendo la serie A, questo viene meno, tale linea argomentativa non è più

percorribile e l’irrealtà della serie A implica l’irrealtà del tempo.

Io ho tentato di mostrare che l’eliminazione della serie A annienta effettivamente il tempo. Vi

sono comunque due obiezioni a questa teoria che dobbiamo ora considerare.

La prima ha a che fare con quelle serie temporali che non sono realmente esistenti ma che

falsamente si crede lo siano, oppure che si immaginano esistenti. Si prendano ad esempio le

avventure di Don Chisciotte. La serie che le riguarda, si sostiene, non è una serie A. In questo

momento non posso giudicare se sia passata, presente o futura. In realtà so che non è nessuna

delle tre. Ciononostante, si afferma, è certamente una serie B. L’avventura dei galeotti, ad

esempio, è successiva all’avventura dei mulini a vento. E una serie B implica il tempo. La

conclusione che se ne trae è che la serie A non è essenziale al tempo.

Ritengo che la risposta a tale obiezione sia la seguente. Il tempo appartiene solo all’esistente.

Se una realtà è nel tempo, ciò implica che la realtà in questione esiste. E questo, immagino, viene

100

universalmente ammesso. Ci si può chiedere se tutto ciò che esiste sia nel tempo o anche se

qualcosa realmente esistente sia nel tempo, ma non si nega certo che, se qualcosa è nel tempo,

questa deve esistere.

Ora, cosa esiste nelle avventure di Don Chisciotte? Nulla. Poiché la storia è immaginaria. Gli

atti della mente di Cervantes quando ha inventato la storia, gli atti della mia mente quando penso

ad essa sono esistenti. Ma questi formano allora parte di una serie A. L’invenzione della vicenda

da parte di Cervantes è nel passato. Il mio pensiero della storia è nel passato, nel presente e –

confido – nel futuro.

Le avventure di Don Chisciotte possono comunque essere credute storiche da un bambino. E

nel leggerle, con uno sforzo dell’immaginazione, io stesso posso considerarle come se fossero

realmente accadute. In tal caso le avventure sarebbero credute esistenti o immaginate esistenti.

Ma allora le si crederebbero poste in una serie A o si immaginerebbero in una serie A. Il

bambino che le crede storiche crederà siano accadute nel passato. Se le immagino allora

esistenti, le immaginerò avvenute nel passato. Analogamente, chi credesse che gli eventi riportati

in News From Nowhere di Morris esistano, o li immaginasse esistenti, crederebbe che esistono

nel futuro o li immaginerebbe esistenti nel futuro. Collocare l’oggetto della nostra credenza o

immaginazione nel presente, nel passato o nel futuro dipenderà dalle caratteristiche di tale

oggetto. Ma in qualche luogo della nostra serie A esso verrà comunque collocato.

La risposta all’obiezione è allora che, nella misura in cui una cosa è nel tempo, essa è nella

serie A. Se è realmente nel tempo è realmente nella serie A. Se è creduta nel tempo, si crede sia

nella serie A. Se è immaginata nel tempo, si immagina sia nella serie A.

La seconda obiezione poggia sulla possibilità, discussa dal sig. Bradley, che nella realtà vi

siano molteplici serie temporali indipendenti. Per il sig. Bradley, a dire il vero, il tempo è solo

apparenza. Il tempo reale non c’è affatto e quindi non ci sono molteplici serie temporali. Ma

l’ipotesi è qui che nel reale vi siano molteplici, reali e indipendenti serie temporali.

L’obiezione, penso, è che le serie temporali sarebbero tutte reali, mentre la distinzione fra

passato, presente e futuro avrebbe significato solo all’interno di ciascuna serie e non potrebbe

quindi essere assunta come reale in senso ultimo. Vi sarebbero, ad esempio, molti presenti. Ora,

naturalmente, molti punti del tempo possono essere presenti (ciascun punto in ciascuna serie

temporale s presente una volta), ma essi devono essere presenti successivamente. E i presenti

delle diverse serie temporali non sarebbero successivi poiché non sarebbero nella stessa serie

101

temporale (né sarebbero simultanei, poiché questo implicherebbe ugualmente il loro essere nello

stesso tempo. Essi non starebbero in alcun tipo di relazione temporale). E presenti differenti, a

meno che non siano successivi, non potrebbero essere reali. Così le differenti serie temporali che

sono reali dovrebbero essere in grado di esistere indipendentemente dalla distinzione fra passato,

presente e futuro.

Io non posso comunque considerare valida tale obiezione. Certamente, in tal caso, nessun

presente sarebbe il presente – esso sarebbe solo il presente di un certo aspetto dell’universo. Ma

allora il tempo non sarebbe il tempo – sarebbe solo il tempo di un certo aspetto dell’universo.

Sarebbe senza dubbio una serie temporale reale, ma non vedo perché il presente sarebbe meno

reale del tempo.

Naturalmente non sto affermando che nell’esistenza di molteplici serie A distinte non vi sia

contraddizione. La mia tesi principale è che l’esistenza di qualsiasi serie A implica una

contraddizione. Quanto sto affermando è che, supposto che vi possa essere una qualsiasi serie A,

non vedo nessuna ulteriore difficoltà inclusa nel fatto che vi siano molteplici serie del genere fra

loro indipendenti, e non vedo quindi alcuna incompatibilità fra l’essenzialità della serie A al

tempo e l’esistenza di molti tempi distinti.

Dobbiamo inoltre ricordare che la teoria della pluralità delle serie temporali è una mera

ipotesi. Non è mai stata data alcuna ragione perché si debba credere nella loro esistenza. Si è solo

detto che non c’è alcuna ragione perché non si debba crederlo e che quindi esse possono esistere.

Ma se la loro esistenza dovesse essere incompatibile con qualcos’altro di cui si dà prova

evidente, allora ci sarebbe una ragione per non dover credere nella loro esistenza. Ora si dà,

come ho cercato di mostrare, una prova evidente per credere che la serie A è essenziale al tempo.

Supposto quindi che sia vero che l’esistenza di una pluralità sia incompatibile con l’essenzialità

della serie A al tempo (cosa che, per le ragioni sopra mostrate, nego), è appunto l’ipotesi della

pluralità dei tempi che dovrebbe essere rifiutata e non la nostra conclusione riguardo alla serie A.

Passo ora alla seconda parte del mio compito. Essendo riuscito a provare, come credo, che

non ci può essere alcun tempo senza una serie A, rimane da provare che la serie A non può

esistere e che quindi non può esistere il tempo. Ciò implicherebbe che il tempo non è affatto

reale, poiché si ammette che l’unico modo in cui esso può essere reale è esistendo.

I termini della serie A sono caratteristiche di eventi. Degli eventi noi diciamo che sono

passati, presenti o futuri. Se momenti del tempo sono assunti come realtà separate diciamo

102

quindi di questi che sono passati, presenti o futuri. Una caratteristica può essere o una relazione o

una qualità. Ora, sia che si assuma i termini della serie A come relazioni di eventi (prospettiva

che a me sembra più ragionevole) sia che li si assuma come qualità di eventi, mi sembra che essi

implichino una contraddizione.

Supponiamo anzitutto che essi siano relazioni. In tal caso solo un termine di ciascuna

relazione può essere un evento o un momento. L’altro termine deve essere qualcosa al di fuori

della serie temporale4 poiché quelle della serie A sono relazioni mutevoli e la relazione che

ciascun termine di una serie temporale ha con l’altro non muta. Due eventi occupano esattamente

le stesse posizioni nella serie temporale, l’uno in relazione all’altro, un milione di anni prima che

abbiano luogo, mentre ciascuno ha luogo, e quando sono da un milione di anni nel passato. E il

medesimo è vero della relazione reciproca fra momenti. Ancora, se i momenti del tempo devono

essere distinti quali realtà separate dagli eventi che accadono in essi, la relazione fra un evento e

un momento non varia. Ogni evento è nel medesimo momento nel futuro, nel presente e nel

passato.

Le relazioni che formano la serie A, allora, devono essere relazioni di eventi e momenti

rispetto a qualcosa che non è esso stesso nella serie temporale. Cosa sia questo qualcosa può

essere difficile a dirsi. Tralasciando comunque questo punto, si fa avanti un’ancor più evidente

difficoltà.

Passato, presente e futuro sono determinazioni reciprocamente incompatibili. Ogni evento

deve essere l’una o l’altra determinazione ma nessun evento può essere più di una di esse. Ciò è

essenziale al significato dei termini. Se non fosse così la serie A sarebbe insufficiente, combinata

alla serie C, a darci come risultato il tempo. Perché il tempo, come abbiamo visto, implica il

mutamento, e l’unico mutamento che si può avere è quello che va dal futuro al presente e dal

presente al passato.

Le caratteristiche sono quindi incompatibili. Eppure ciascun evento le possiede tutte. Se M è

passato, è stato presente e futuro. Se è futuro, sarà presente e passato. Se è presente, è stato

futuro e sarà passato. Tutti e tre i termini incompatibili sono predicabili di ciascun evento, cosa

ovviamente incoerente con il loro essere incompatibili e con il loro produrre il mutamento.

4 C’è chi ha sostenuto che il presente sia tutto ciò che è simultaneo all’asserzione del suo esser presente, che il futuro sia qualunque cosa è successiva all’asserzione del suo esser futura e che il passato sia qualunque cosa precedente l’asserzione del suo essere passata. Ma tale teoria implica che il tempo esiste indipendentemente dalla serie A ed è incompatibile con i risultati già raggiunti.

103

Sembra che tutto questo possa essere facilmente spiegato. E in effetti è stato impossibile

enunciare la difficoltà senza quasi fornire la spiegazione, dato che il nostro linguaggio possiede

forme verbali per il presente, il passato e il futuro, e non possiede nessuna forma che sia comune

a tutte e tre. Non è mai vero, così procede la risposta, che M è presente, passato e futuro. Esso è

presente, sarà passato ed è stato futuro. O è passato ed è stato futuro e presente oppure, ancora, è

futuro e sarà presente e passato. Tali caratteristiche sono incompatibili solo quando sono

simultanee, e il fatto che ciascun termine le possiede tutte in successione non entra affatto in

contraddizione con tale incompatibilità.

Questa spiegazione, però, implica un circolo vizioso. Dato che essa assume l’esistenza del

tempo per rendere ragione del modo in cui i momenti sono passati, presenti e futuri. Il tempo

dev’essere allora presupposto per rendere ragione della serie A. Ma si è già visto che la serie A

deve essere assunta per rendere ragione del tempo. Ne consegue che la serie A deve essere

presupposta per render ragione della serie A. E questo è chiaramente un circolo vizioso.

È insomma accaduto quanto segue – per risolvere la difficoltà per cui il mio scrivere tale

articolo ha le caratteristiche del passato, presente e futuro, diciamo che esso è presente, è stato

futuro e sarà passato. Ma «è stato» si distingue da «è» solo nell’essere un’esistenza nel passato e

non nel presente, mentre «sarà» si distingue da entrambi solo nell’essere un’esistenza nel futuro.

La nostra affermazione si riduce quindi a questo – che l’evento in questione è presente nel

presente, futuro nel passato, passato nel futuro. Ed è chiaro che c’è un circolo vizioso nel tentare

di assegnare le caratteristiche di presente, futuro e passato utilizzando come criterio le

caratteristiche di presente, passato e futuro.

La difficoltà può essere presentata in altro modo, un modo in cui la fallacia si rivela come

serie infinita viziosa anziché come circolo vizioso. Se evitiamo l’incompatibilità delle tre

caratteristiche asserendo che M è presente, è stato futuro e sarà passato, stiamo costruendo una

seconda serie A in cui cade la prima allo stesso modo in cui gli eventi cadono all’interno della

prima. Ora, si può certo dubitare che sia possibile assegnare un qualsiasi significato intelligibile

all’asserzione che il tempo è nel tempo. A ogni modo, comunque, la seconda serie A incontrerà

la stessa difficoltà della prima, difficoltà che può essere a sua volta rimossa ponendo al suo

interno una terza serie A. Lo stesso principio porrà la terza all’interno di una quarta, e così via

senza fine. Non ci si può mai liberare della contraddizione poiché, nell’atto di rimuoverla da ciò

che dev’essere spiegato, la si riproduce nuovamente nella spiegazione. Cosicché la spiegazione

104

non è valida.

Così, se della realtà si afferma la serie A considerandola come serie di relazioni, sorge una

contraddizione. Si potrebbe forse allora assumere la serie come serie di qualità, ottenendo con

ciò un risultato migliore? Si danno forse tre qualità - l’essere futuro, l’esser presente e l’esser

passato –, con gli eventi che cambiano di continuo la prima con la seconda e la seconda con la

terza?

A me sembra che ci sia ben poco da dire assumendo che i mutamenti della serie A sono

mutamenti di qualità. Senza dubbio la mia anticipazione di un’esperienza M, l’esperienza stessa

e la memoria dell’esperienza sono tre stati che possiedono qualità differenti. Ma non sono l’M

futuro, l’M presente e l’M passato a possedere queste tre differenti qualità. Le qualità sono

possedute da tre eventi distinti – l’anticipazione di M, la stessa esperienza M e la memoria di M,

ciascuno dei quali è a sua volta futuro, presente e passato. Ciò quindi non fornisce alcun

sostegno all’idea che i mutamenti della serie A sono mutamenti di qualità.

Non abbiamo comunque bisogno di procedere ulteriormente in tale questione. Se le

caratteristiche della serie A fossero qualità sorgerebbe infatti la stessa difficoltà riguardante le

relazioni. Come prima, infatti, esse non sono compatibili e, come prima, ciascun evento le

possiede tutte. E questo può essere spiegato, come prima, dicendo che ciascun evento le possiede

successivamente, commettendo così la stessa fallacia commessa nel caso precedente5.

Siamo allora giunti alla conclusione che l’applicazione della serie A alla realtà implica una

contraddizione e che quindi la serie A non può essere detta vera del reale. E poiché il tempo

implica la serie A, ne consegue che il tempo non può essere vero della realtà. Ogniqualvolta

giudichiamo che qualcosa esiste nel tempo siamo in errore. E ogniqualvolta percepiamo qualcosa

come esistente nel tempo – l’unico modo in cui mai percepiamo le cose – la percepiamo più o

5 Spesso si è soliti presentare il tempo attraverso la metafora del movimento spaziale. Ma si tratta di un movimento che deve andare dal passato al futuro o dal futuro al passato? Se si assume che la serie A è formata da qualità sarà naturale considerarlo come movimento dal passato al futuro, poiché la qualità dell’essere presente è appartenuta a stati presenti e apparterrà a stati futuri. Se invece si assume che è formata da relazioni è possibile considerare il movi mento in entrambe le direzioni, poiché entrambi i termini relati possono essere considerati in movimento. Se si assume che gli eventi si muovono attraverso il punto fisso dell’essere presente, il movimento è dal futuro al passato, poiché gli eventi futuri sono quelli che non hanno ancora passato il punto mentre i passati sono quelli che lo hanno passato. Se l’esser presente è assunto come punto in movimento successivamente relato a ciascuno degli eventi in serie, il movimento è dal passato al futuro. Così diciamo che gli eventi provengono dal futuro, ma diciamo anche che noi stessi ci muoviamo verso il futuro. Ciascun uomo si identifica infatti soprattutto con il suo stato presente, rispetto al suo futuro e al suo passato, poiché il presente è l’unico di cui abbia diretta esperienza. E così il sé, se lo si rappresenta in movimento, viene rappresentato in moto, assieme al punto dell’esser presente, lungo la corrente di eventi dal passato al futuro.

105

meno come realmente non è.

Dobbiamo considerare una possibile obiezione. La ragione per cui rifiutiamo il tempo, si

potrebbe dire, è che il tempo non può essere spiegato senza assumere il tempo. Ma questo non

potrebbe allora dimostrare non che il tempo non è effettivo, ma che è qualcosa di ultimo? Poiché

è impossibile ad esempio spiegare bontà e verità senza introdurre il termine da spiegare quale

parte della spiegazione, noi respingiamo la spiegazione come invalida. Ma non per questo

respingiamo la nozione perché erronea, accettandola come qualcosa di ultimo che, se non

ammette spiegazione, neppure la richiede.

Il fatto è che tale argomento non è applicabile al caso in questione. Una idea può valere per la

realtà sebbene non ammetta una spiegazione valida. Ma non può valere per la realtà se la sua

applicazione a quest’ultima implica una contraddizione. Ma noi abbiamo cominciato rilevando

che una tale contraddizione nel caso del tempo c’è – che le caratteristiche della serie A sono

mutuamente incompatibili e che tuttavia sono tutte vere di ciascun termine. A meno che questa

contraddizione non venga eliminata, occorre quindi respingere come errata l’idea del tempo. È

stato appunto per eliminare tale contraddizione che è stata proposta la spiegazione per cui le

caratteristiche appartengono al tempo in modo successivo. Fallita tale spiegazione perché

circolare, la contraddizione è rimasta ineliminata e l’idea del tempo dev’essere quindi rifiutata

non perché non possa essere spiegata, ma perché è la contraddizione a non poter essere

eliminata.

Se valido, quanto detto costituisce una ragione idonea per rifiutare il tempo. Possiamo

comunque aggiungere un’ulteriore considerazione. Il tempo, come visto, sta e cade con la serie

A. Ora, anche se ignoriamo la contraddizione appena scoperta nell’applicazione della serie A al

reale, c’è mai stata una qualsiasi ragione evidente del perché dovremmo supporre che la serie A

varrebbe per la realtà?

Per quale ragione crediamo che gli eventi debbano essere distinti in passati, presenti e futuri?

Io ritengo che tale credenza sorga da distinzioni interne alla nostra esperienza.

In ogni momento in cui ho certe percezioni ho anche memoria di certe altre percezioni ed

anticipazione di altre ancora. La stessa percezione diretta è uno stato mentale qualitativamente

differente dalla memoria o dall’anticipazione di percezioni. Su ciò si basa la credenza che la

stessa percezione abbia una certa caratteristica quando la ho, sostituita da altre caratteristiche

quando ne ho memoria o anticipazione – caratteristiche che sono chiamate esser presente, essere

106

passato ed essere futuro. Acquisitane l’idea, noi applichiamo tali caratteristiche ad altri eventi.

Tutto ciò che è simultaneo alla percezione diretta che ho ora, viene chiamato presente, e si ritiene

anche che non ci sarebbe presente se nessuno avesse affatto una percezione diretta.

Analogamente, atti simultanei a percezioni ricordate o anticipate sono considerati passati o

futuri, e la considerazione viene poi estesa nuovamente a eventi che non sono simultanei ad

alcuna percezione che ora ricordo o anticipo. Ma l’origine della nostra credenza nell’intera

distinzione sta nella distinzione fra percezioni e anticipazioni o memorie di percezioni.

Una percezione diretta è presente quando la ho, e altrettanto presente è ciò che è simultaneo a

essa. In primo luogo tale distinzione implica un circolo poiché le parole «quando la ho» possono

solo significare «quando è presente». Ma se noi omettessimo tali parole la definizione sarebbe

falsa, dal momento che io ho molti stati direttamente presenti alla coscienza in tempi differenti e

che non possono quindi essere tutte presenti se non successivamente. Questa è d’altro canto la

contraddizione fondamentale della serie A già considerata. Il punto che desidero considerare ora

è comunque diverso.

Le percezioni dirette che ho ora, sono quelle che ora cadono nel mio «presente manifesto». Di

quelle che sono al di là di esso posso avere solo memoria o anticipazione. Ora, il presente

manifesto varia nella durata a seconda delle circostanze, e può essere differente per due persone

nel medesimo intervallo temporale. L’evento M può essere sia simultaneo alla percezione Q di

X, sia alla percezione R di Y. Può essere che, a un certo momento, Q cessi di essere parte del

presente manifesto di X. M sarà quindi in quel momento passato. Ma nello stesso momento R

può essere ancora parte del presente manifesto di Y. M sarà quindi presente nello stesso

momento in cui esso è passato.

Ma ciò è impossibile. È pur vero che se la serie A fosse qualcosa di meramente soggettivo

non vi sarebbe alcuna difficoltà. Potremmo in tal caso dire che M era passato per X e presente

per Y, proprio come si potrebbe dire che era piacevole per X e doloroso per Y. Ma noi stiamo

considerando tentativi di assumere il tempo come reale, come qualcosa che appartiene alla stessa

realtà e non solo alle nostre credenze su di essa, e le cose possono stare in tal modo solo se anche

la serie A vale per la realtà. Ma se vale per la realtà, allora in qualsiasi momento M dev’essere o

presente o passato. Non può essere entrambi.

Il presente attraverso il quale gli eventi passano realmente, allora, non può essere determinato

come simultaneo al presente manifesto. Esso deve avere una durata fissata come fatto ultimo.

107

Tale durata non può essere la stessa di tutti i presenti manifesti, poiché tutti i presenti manifesti

non hanno la medesima durata. E quindi un evento può essere passato quando lo esperisco

presente, o presente quando lo esperisco passato. La durata del presente oggettivo può essere la

millesima parte di un secondo. O può essere un secolo, e l’ascesa al trono di Giorgio IV e di

Edoardo VII può essere parte dello stesso presente. Che ragione abbiamo allora di credere

all’esistenza di un tale presente, che certamente non osserviamo essere presente e non ha alcuna

relazione con quello che effettivamente osserviamo esser presente?

Se evitiamo tali difficoltà adottando la prospettiva, a volte assunta, che il presente nella serie

A non consiste di una durata finita ma è invece un mero punto che separa il futuro dal passato,

andremo incontro ad altre serie difficoltà. Perché in tal caso il tempo oggettivo in cui sono gli

eventi sarà qualcosa di completamente differente dal tempo in cui noi li percepiamo. Il tempo in

cui li percepiamo ha un presente di durata finita variabile che quindi, con il futuro e il passato, è

diviso in tre durate. Il tempo oggettivo ha solo due durate, separate da un presente che con il

presente dell’esperienza ha in comune solo il nome, appunto perché non è una durata ma un

punto. Ma cosa, nella nostra esperienza, offre la minima ragione per credere a un tempo del

genere?

Sembra così che, dopo tutto, la negazione della realtà del tempo non sia poi tanto paradossale.

Viene detta paradossale perché ci è sembrato contraddicesse la nostra esperienza in modo tanto

radicale – costringendoci a considerare non più di un’illusione quello che, prima facie, sembra

farci conoscere la realtà. Ma ora vediamo che la nostra esperienza del tempo –centrata com’è sul

presente manifesto – non sarebbe meno illusoria se vi fosse un tempo reale in cui esistono le

realtà che esperiamo. Il presente manifesto delle nostre osservazioni –variando come varia da te

a me – non può corrispondere al presente degli eventi osservati. Di conseguenza il passato e il

futuro delle nostre osservazioni non possono corrispondere al passato e al futuro degli eventi

osservati. Secondo entrambe le ipotesi – sia che si assuma il tempo come reale sia che lo si

assuma irreale – tutto viene osservato in un presente manifesto, ma nulla, neppure le stesse

osservazioni, possono mai essere in un presente manifesto. E in tal caso non vedo come

l’esperienza venga considerata molto più illusoria nel dire che nulla è mai nel presente che non

dicendo che ogni cosa passa attraverso un presente del tutto differente.

La nostra conclusione è allora che né il tempo nella sua totalità, né la serie A e la serie B,

esistono realmente. La serie A è stata rifiutata per la sua incoerenza. E il suo rifiuto implica il

108

rifiuto della serie B. D’altro canto non è stata trovata alcuna contraddizione nella serie C, dalla

invalidità della serie A non segue la sua mancanza di validità.

È perciò possibile che le realtà che percepiamo come eventi in una serie temporale formino

realmente una serie atemporale. È anche possibile, secondo il percorso sinora compiuto, che esse

non formino tale serie e che esse quindi non costituiscano una serie più di quanto siano

temporali. Io penso comunque –per quanto non abbia qui lo spazio sufficiente per approfondire

la questione – che la prima delle due prospettive, secondo cui appunto tali realtà formano

effettivamente una serie C, sia la più probabile.

Se ciò dovesse essere vero, ne seguirebbe che nella nostra percezione di tali realtà quali

eventi nel tempo vi è sia qualche verità sia qualche errore. Nonostante l’ingannevole forma del

tempo, noi afferriamo alcune delle loro vere relazioni. Se diciamo che gli eventi M e N sono

simultanei, diciamo che essi occupano la stessa posizione nella serie temporale. E vi sarà una

qualche verità in ciò, perché le realtà che percepiamo come M e N occupano effettivamente la

stessa posizione in una serie, per quanto non si tratti di una serie temporale.

Ancora, se asseriamo che gli eventi M, N, O sono tutti in tempi differenti, e che sono in tale

ordine, affermiamo che essi occupano posizioni differenti nella serie temporale, e che la

posizione di N è tra la posizione di M e quella di O. E sarà vero che le realtà che vediamo come

eventi saranno in una serie, sebbene non temporale, che la loro posizione in questa sarà

differente e che la posizione della realtà che percepiamo quale evento N sarà tra le posizioni

delle realtà che percepiamo come eventi M e O.

Adottando tale prospettiva il risultato sarà sin qui simile a quello raggiunto da Hegel anziché

da Kant. Hegel considerò infatti l’ordine delle serie temporali come una riflessione, per quanto

alterata, di qualcosa appartenente alla reale natura della realtà atemporale, mentre Kant non

sembra aver considerato la possibilità che una qualunque cosa nella natura del noumeno

corrisponda all’ordine temporale che appare nel fenomeno.

La questione dell’esistenza o meno di una oggettiva serie C dev’essere comunque lasciata a

una futura discussione. Molte altre domande si impongono, tutte inevitabilmente sollecitate dalla

negazione della realtà del tempo. Se c’è una serie C del genere accennato, le posizioni in essa

sono semplicemente fatti ultimi o sono determinate dalla varia misura in cui gli oggetti che

occupano tali posizioni possiedono una qualità a tutti comune? E se è così, qual è questa qualità,

ed è una maggiore misura del suo possesso che determina l’apparire delle cose come successive

109

e una minore misura che le fa apparire anteriori, o è vero l’inverso? Può essere che le nostre

speranze e paure per l’universo debbano la loro conferma o il loro rifiuto alla soluzione di tali

questioni.

E ancora, la serie delle apparenze nel tempo è di lunghezza finita o infinita? E come

dobbiamo trattare l’apparenza stessa? Se riduciamo tempo e mutamento ad apparenza, non

saranno allora ridotti a un’apparenza che muta e che è nel tempo, e non sarà allora il tempo dopo

tutto reale? Questa è senza dubbio una questione importante a cui spero di poter offrire, dopo

quanto qui detto, una risposta soddisfacente.

110

Letture autonome

Nota: nella misura del possibile, tutti i libri e articoli segnalati sono a disposizione o nella

biblioteca di Facoltà in Sant’Agostino o presso la Biblioteca Civica «Angelo Maj» in Piazza

Vecchia. In caso di difficoltà, si contatti il docente.

Percorsi di approfondimento per i non-frequentanti

Oltre ai testi indicati nell’‘Introduzione’ sotto la voce ‘Obblighi comuni’ (p. 3), ai non-

frequentanti è richiesto l’approfondimento di un tema a scelta inerente ai testi di base. In

questa sezione, indichiamo alcune letture pertinenti ad alcuni degli argomenti appropriati a

tale scopo. Per quanto riguarda i temi più storici sono indicate delle letture dette ‘primarie’,

che richiedono attento e dettagliato scrutinio, e su cui quelle ‘secondarie’ offrono commento e

inquadramento.

Studenti intenzionati a proporre un percorso personale devono comunque leggere il

materiale di obbligo comune e, in base ad esso, consultare con il docente del corso prima di

procedere all’elaborazione della loro alternativa.

1. Il problema della conoscenza e la natura dello scetticismo

(a) Lo scetticismo antico (che cos’è un ‘tropo’ e come produce sospensione del giudizio?)

Testo primario: Sesto Empirico Schizzi pirroniani, libro I, capitoli i–xiii (= §§1-35) (qualsiasi

edizione o traduzione)

Testi secondari:

M. L. Chiesara, Storia dello scetticismo greco, Einaudi, Torino, 2003, pp. vii-xii e 159-201;

E. Spinelli, ‘L’antico intrecciarsi degli scetticismi’ in M. De Caro, E. Spinelli (a cura di)

Scetticismo, Carocci, Roma, 2007, pp. 17-38.

(b) Lo scetticismo nel mondo moderno (possiamo dubitare l’esistenza del mondo fisico?)

Testo primario: Cartesio Meditazioni metafisiche, I: testo nella dispensa

Testi secondari:

R. Popkin, Storia dello scetticismo, (1960), Il mulino, Bologna, 1995 cap. II e IX-X;

111

E. Scribano, Guida alla lettura delle Meditazioni metafisiche di Descartes, Laterza Bari-

Roma, 1997, pp. 3-58.

Anche pertinenti:

R. Nozick, Spiegazioni filosofiche, (1981), Il saggiatore, Milano 1987, cap. 3, § II;

H. Putnam, Ragione, Verità e Storia (1981), Il saggiatore, Milano, 1985, cap. 1.

2. La legge di contraddizione

(a) Si può fondare la nozione stessa di verità?)

Testo primario: il testo tratto dal libro IV della Metafisica di Aristotele nella dispensa

Testi secondari:

J. Lukasiewicz, Del principio di contraddizione in Aristotele, (1910), Quodlibet, Macerata,

2003;

T.H. Irwin, I princìpi primi di Aristotele, (1988), Vita e pensiero, Milano, 1988, pp. 225-47;

F: Berto, Teorie dell’assurdo, Carocci, Roma, 2006, pp. 21-46.

(b) L’attrattiva del relativismo (può tutto essere relativo?)

Testi primari: il brano dal Teeteto di Platone e il saggio ‘Verità e Menzogna’ di Nietzsche,

entrambi nella dispensa

Testi secondari:

A. Schopenhauer, L’arte di ottenere ragione, (1830/1), Adelphi, Milano, 1991, pp. 13-71;

G. Romeyer Dherbey, I sofisti, (1995), Xenia, Milano, 2000, pp. 5-23;

J.R. Searle, Occidente e multiculturalismo (1995), Sole24Ore, Milano, 2008, pp. 21-77.

3. Tempo e causalità

(a) La realtà del tempo (può il tempo essere solo un’apparenza?)

Testo primario: J. M’T. E. M’Taggart, ‘L’irrealtà del tempo’, testo nella dispensa)

Testi secondari:

L. Cimmino, ‘Introduzione’ a McTaggart, L’irrealtà del tempo, Rizzoli, Milano, 2006;

112

M. Dummett, ‘Una difesa della prova di McTaggart’ (1960) nel suo Verità e altri enigmi

(1978) Il saggiatore, Milano, 1996;

R. Campaner, ‘Tempo e serie temporali: il dibattito analitico contemporaneo sulla filosofia del

tempo, Rivista di filosofia, 95 (2004)

(b) Il tempo in rapporto al fatalismo (se il futuro è fisso dall’eternità, che scelta ho?)

Testi primari: il capitolo dal Sull’interpretazione di Aristotele e i capitoli delle Confessioni di

Sant’Agostino, entrambi nella dispensa

Testi secondari:

G. Ryle, Dilemmi, (1954) Ubaldini, Roma 1986, lezione II;

M. De Caro, Il libero arbitrio, Laterza, Bari-Roma, 2004, pp. 3-86 (discute sia determinismo

che fatalismo)

Film utili per l’esemplificazione del fatalismo.

The Butterfly Effect, regia di P. Howitt, (1997)

Final Destination, regia di J. Wong (2000)

Sliding Doors, regia di E. Bress e J.M. Gruber (2004);

Donnie Darko, regia di R. Kelly (2004)

Strumenti di consultazione (anche per la stesura di una tesina)

Il materiale indicato in questa sezione non è obbligatorio per gli scopi del corso, ma può essere

utile per chi voglia orientarsi nella filosofia e costruirsi un percorso proprio.

Gli studenti che hanno fatto filosofia alle superiori avranno studiato un manuale che può,

nei migliori dei casi (e quindi non tutti), offrire spunti bibliografici per approfondimento. Tra

questi possiamo segnalare:

N. Abbagnano, G. Fornero, Itinerari di filosofia: protagonisti, testi, temi e laboratori, Paravia,

Torino, 2002 (e poi rielaborato quasi annualmente per motivi grettamente economici).

Anche dello stesso Abbagnano sono:

Storia della filosofia, (8 voll) iniziata nel 1946 e ripubblicata dalla TEA, Torino, in edizione

economica nel 1995;

e il suo dizionario dei concetti filosofici esposti nel loro sviluppo storico:

Dizionario di filosofia (1960), UTET, Torino, 1993.

113

Fornero, in collaborazione con Salvatore Tassinari ed altri, ha aggiornato gli ultimi volumi

della Storia fondata da Abbagnano e ha prodotto

Le filosofie del novecento (2 voll.), Mondadori, Milano, 2002, in edizione economica dal

2004.

Altri dizionari, quali

Dizionario di filosofia (2° ed. 1993) a cura di G. Vattimo (et al.), Garzanti, Milano, 1999; e

Dizionario di filosofia, (1960) a cura di D.G. Runes, Mondadori, Milano, 1972,

forniscono informazioni anche su individui, scuole e movimenti oltre a definizioni di termini

tecnici. Per notizie su singole opere, con un breve riassunto e indicazioni sulla disponibilità di

versioni italiane, vedi

Dizionario delle opere filosofiche, (1988) a cura di F. Volpi, Mondadori, Milano, 2000.

Va notato che l’uso esteso di materiale desunto/copiato da queste fonti è facilmente

riscontrabile, e conta come plagio (vedi sotto ‘Originalità’ nel ‘Prontuario’ a p. 115).

Introduzioni generali alla filosofia

A differenza dei manuali italiani, che privilegiano lo sviluppo storico (o dossografico) della

disciplina, esiste un approccio alternativo, e dominante nel mondo anglofono, che inizia con ‘i

problemi’. Tra questi a disposizione in italiano, segnaliamo:

B. Russell, I problemi della filosofia, (1912), Feltrinelli, Milano, 1959 (un – forse il – classico

del genere);

R. Popkin e A. Stroll, Filosofia per tutti, (1993) Net, Milano, 2003;

S. Law e D. Postgate, Filosofia per tutti, (2000) Fabbri, Milano, 2001 (un libro che si

pubblicizza come ‘per tutte le età’, perché illustrato con vignette)

S. Blackburn, Pensa, (1999), Il Saggiatore, Milano, 2001;

N. Warburton, Il primo libro di filosofia, (1991), Einaudi Torino, 1998; e

T. Nagel, Una brevissima introduzione alla filosofia, Il saggiatore, Milano 1996

Dello stesso Nagel sono i saggi un po’ più impegnativi, ma altrettanto stimolanti raccolti in,

T. Nagel, Questioni mortali, (1979), Il Saggiatore, Milano, 1986.

114

Prontuario per la stesura di una tesina

Valore

Una tesina vale 5 crediti formativi universitari (CFU).

Presentazione

La tesina va redatta dallo studente stesso in lingua italiana in unica copia dattiloscritta e

consegnata con almeno quindici giorni di anticipo rispetto alla data dell’appello in cui si vuole

sostenere l’esame relativo al corso.

La rilegatura della tesina è a scelta dello studente: qualsiasi metodo (dal graffetto alla

rilegatura come brossura) è accettato purché assicuri l’integrità del testo.

La pagina di copertina, che non conta come pagina del lavoro, deve contenere le seguenti

informazioni:

cognome e nome dello studente;

numero di matricola;

titolo del lavoro;

il titolo del modulo per cui viene presentato (con codice);

numero arrotondato delle parole; e

data prevista della sessione di esame.

Se la tesina è articolata in paragrafi o sezioni, un sommario o indice può apparire insieme al

materiale di titolo e non venir contato nel totale del lavoro.

Conteggio delle parole

L’indicazione (p. 4 sopra) di lunghezza di ‘5-10 pagine’ si traduce nella realtà come segue.

Una pagina è un foglio di carta A4. Il testo va stampato in spazio 1,5 o 2 in un font

leggibile di almeno 12 pt con margini di intorno ai 2,5 centimetri in alto e basso e su entrambi

i lati (di più a sinistra se richiesto dalla rilegatura).

Con queste dimensioni, il numero delle battute a pagine è approssimativamente 2,000, e il

numero delle parole intorno alle 400. Quindi, il totale dello scritto va dalle 10,000 battute

(2,000 parole) alle 20,000 battute (4,000 parole); ogni programma di word processing ha la

115

capacità di contare i caratteri e le parole; chi redige il lavoro con una macchina da scrivere

manuale può stimare il totale in base ad una campione del testo.

Come già detto, la pagina di copertina è esclusa dal conteggio. In modo simile, la lista di

letture e altri rimandi, che si trova in fonda al testo, non va contato. Tuttavia, le note sono

incluse.

Originalità

Come insieme, il testo esprime il pensiero del suo autore e non va copiato o parafrasato da

qualsiasi altra fonte senza le dovute indicazioni, pena il reato (non solo accademico e morale,

ma anche legale) di plagio.

La punizione accademica per plagio varia dall’insufficienza in caso di una tesina molto

vicina a un testo pubblicato alla riduzione del voto nonostante la sua apparente qualità. Lo

studente è sempre libero di contestare un’accusa di plagio, così come il docente è libero di

sostenerla. Se lo studente non è disposto ad accettare la valutazione del docente, può sostenere

l’esame con un altro membro della commissione d’esame.

Citazioni

La parafrasi è lecita quando chi scrive estrae il succo o la parte pertinente di un altro testo e dà

un’indicazione del punto da dove viene. La citazione è la prassi di prendere in prestito le

parole esatte di un altro testo e di riconoscerne la proprietà.

Esempio di parafasi1:

Nel capitolo XXVIII del suo libro, Beccaria osserva come la pena di morte non sia efficace

come deterrente. Questo ragionamento dipende ...

Il rimando è sufficientemente preciso per gli scopi: la deterrenza è oggetto del intero

capitolo in questione e sappiamo che il libro è Dei delitti e delle pene. La parafrasi non riporta

le parole esatte del testo originale: la parola ‘efficace’ appare nel capitolo citato; la parola

‘deterrente’ non ci appare, ma è utile come riassunto.

1 Gli esempi vengono presentati attorniati da una ‘scatola’ allo scopo di distinguerli dai commenti che se ne fanno. Questa prassi NON è da copiare nella stesura della tesina.

116

Esempio di citazione:

Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno

scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di

servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte

contro i delitti’15. Questo ragionamento dipende ...

Notiamo una serie di aspetti di questa operazione.

Primo, le parole citate vanno messe tra virgolette; queste possono essere singole (‘...’),

doppie (“...”) o a lisca di pesce («...»).

Secondo, sono le parole esatte così come appaiono nel libro da cui si cita. L’iniziale ‘n’

nella citazione corrisponde all’inizio di una frase e quindi, nell’originale è in maiuscolo. Ma,

nella citazione, appare in mezzo a una frase; quindi l’ingerenza tipografica va segnalata con

parentesi, preferibilmente, per distinguerli da parentesi già presenti nel testo, quelle quadre ([ e

]) o increspate ({ e }); se una parte della frase beccariana, ad esempio da ‘divenuto’ a ‘che è il

freno’, è da tralasciare, inseriamo tre punti di sospensione tra parentesi quadre (o increspate)

per indicare l’omissione ([…] o {…}). Se vogliamo enfatizzare una parola o una frase, si usa

corsivo (sottolineatura per chi non dispone di una stampante a getto d’inchiostro o laser) e si

aggiunge in nota ‘corsivo nostro’; qualora il testo citato contenga un’enfasi, si aggiunge

‘corsivo originale’.

Terzo, questo è un brano relativamente lungo e, di solito, quelli di oltre 30 parole vanno

messi con un rientro di mezzo centimetro al margine sinistro con una riga bianca prima e dopo

e senza virgolette. Quindi, se si tolgono le parole come sopra, il risultato sarebbe:

Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno

scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che [...] è il freno più

forte contro i delitti’15. Questo ragionamento dipende...

Mentre, con testo intero, si ha:

117

Beccaria osserva come,

[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e

stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa

colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti15.

Questo ragionamento dipende...

Quarto, c’è un rimando ad una nota (‘15’). Tutti i programmi di word processing sono in

grado di generare automaticamente note a piè di pagina; chi non dispone di tali attrezzature

può raccogliere le note in fondo al testo, numerate in sequenza.

Note

Le note a piè di pagine raccolgono i dati bibliografici e di solito appaiono (automaticamente)

in un corpo due punti più piccolo di quello del testo. Si scoraggia l’uso delle note per

commenti ulteriori: o la controversia è rilevante e deve trovare il suo posto nello sviluppo del

ragionamento all’interno del testo, o non è rilevante e va soppressa.

I dati bibliografici si presentano, nei limiti del possibile, uniformamente. Per gli scopi del

corso, ci sono tre categorie di materiale a stampa da prendere in considerazione: (i) testi

primari (ii) altri libri; e (iii) articoli da riviste e miscellanee (volumi che raccolgono scritti di

più autori). Siti internet vengono citati riportando l’URL.

(i) Per la maggior parte dei testi classici esiste già un sistema di riferimento standardizzato.

Ad esempio, la paginazione, con quadrante o colonna pagine, più le righe, di Platone risale

all’edizione dello Stephanus (Henri Estienne) in tre volumi del 1578, e di Aristotele a quella di

Bekker del 1831-6. Questi sistemi, consolidati e utilizzati da tutti commentatori, vengono

riportati in quasi tutte le edizioni e traduzioni moderne, e sono da privilegiare rispetto alla

numerazione delle pagine del testo che si ha in mano. Testi, come L’etica di Spinoza, che sono

suddivisi in piccole sezioni, o, come il Sulla natura delle cose di Lucrezio, che sono articolati

in libri e hanno righe numerate, possono essere citati con i numeri forniti nel testo. È

comunque da segnalare quale edizione o traduzione è stata adottata.

(ii) I rimandi a libri vanno organizzati nell’ordine:

autore;

118

titolo in corsivo;

nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi;

nel caso, nome/i del/i curatore/traduttore/i;

casa editrice;

città di pubblicazione;

anno di pubblicazione; e

pagina/e.

Per la nota alla citazione fatta sopra, questo risulta come segue:

15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965,

pp. 63-4.

Se la successiva citazione è alla stessa opera, il rimando può prendere la forma o

16 Beccaria, op. cit., p. 64.

togliendo l’iniziale dell’autore già citato (‘op. cit.’ significa ‘opera citata’) o

16 Op. cit., p. 64.

Se due citazioni di seguito fanno riferimento alla stessa pagina, possono apparire così:

8 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, p.

62.

9 Loc. cit..

oppure

9 Ibid..

119

Dove ‘loc. cit.’ significa ‘luogo citato’ e ‘ibid.’ (o l’italiano ‘ivi’) significa ‘lo stesso posto nel

testo’. Se, dopo aver citato un’altra fonte, si ritorna a un testo già citato, si può avere una

sequenza di questo genere:

15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965,

pp. 63-4.

16 C. Cantù, Beccaria e il diritto penale, Sansoni, Firenze, 1862, p. 12.

17 Beccaria, op. cit., p. 65.

O, invece di ‘op. cit.’, un titolo abbreviato (‘Dei delitti’) può servire come indicazione utile a

chi legge.

(iii) I rimandi ad articoli vanno organizzati nell’ordine:

autore;

titolo del articolo tra virgolette;

nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi;

titolo della rivista o miscellanea in corsivo (o tra virgolette a lisca di pesce: questa

forma è normale solo in Italia);

nel caso di una miscellanea, nome del curatore;

nel caso di una miscellanea, casa editrice;

nel caso di una miscellanea, città di pubblicazione;

nel caso di una rivista, l’anno e il numero;

anno di pubblicazione (nel caso di una rivista, messo tra parentesi); e

pagina/e.

Esempio di un rimando in nota ad un articolo di rivista:

2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, Rivista di Storia della Filosofia,

XLI, (1986), p. 14.

120

che era poi ripubblicato in una collezione degli interventi della stessa studiosa:

2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), nel suo Filosofia e scienza

nel pensiero ellenistico, Bibliopolis, Napoli, 1991, p. 153.

Supponiamo anche (in questo caso, fantasiosamente) che, come un ‘pezzo da antologia’, lo

stesso saggio viene raccolto in una miscellanea; in quel caso il rimando avrebbe la seguente

forma:

2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), in Logica ellenistica, a cura

di A.M. Ioppolo, Laterza, Bari-Roma, 2014, p. 97.

Per un articolo pubblicato per la prima volta in una miscellanea, in questo caso gli atti di un

convegno, si ha:

3 C. Natali, ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele:

Perché la metafisica, a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp. 190-

1.

Bibliografia

In fondo alla tesina, cominciando su una nuova pagina, va messa una lista dei testi citati e

effettivamente consultati. Oltre alle letture indicate (ai frequentanti) o obbligatorie (per i non-

frequentanti), tutto l’altro materiale utilizzato nella stesura della tesina va elencato: ricerche

bibliografiche intraprendenti sono viste di buon occhio. Come già detto, l’elenco bibliografico

è escluso dal conteggio delle parole.

L’ordine della lista è quello alfabetico per l’iniziale del cognome dell’autore. E il formato

corrisponde a quello delle note con poche varianti:

(i) nel caso di un testo che ha il proprio sistema di rimandi, come Platone e Aristotele,

l’edizione o traduzione usata va citata con indicazioni del tipo di pubblicazione; se si citano

più di un testo, tutti vanno elencati;

121

(ii) il cognome dell’autore viene prima del nome o iniziale per osservare l’ordine alfabetico;

(iii) non si ripete il nome dello stesso autore che viene citato più di una volta, ma per il

secondo testo si mette un trattino sulla nuova riga;

(iv) nel caso di un’opera in più volumi, si indica il numero di volumi tra parentesi prima della

casa editrice;

(v) nel caso di un articolo, le pagine di inizio e di fine;

(vi) per motivi puramente estetici, si mette un rientro (di mezzo centimetro = 18pt) sulle righe

successive se il rimando si estende su più di una riga.

Così, abbiamo, ad esempio,

Aristotele, Etica Nicomachea, trad. it. con testo greco a fronte, a cura di G. Reale, Rusconi,

Milano, 1992.

–– Etica Nicomachea, trad. it. A. Plebe in vol. III di Opere, a cura di G. Giannantoni, (4

volumi), Laterza, Bari-Roma, 1973.

–– Metafisica, trad. it. con testo greco a fronte, a cura di G. Reale, (3 volumi), Vita e pensiero,

Milano, 1993.

Berti, E., Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari-Roma, 1992.

Jaeger, W., ‘Genesi e ricorso dell’ideale filosofico della vita’, (1928), appendice al suo

Aristotele, (1923) trad. it. A. Calogero, Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 557-617.

Natali, C., ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele:

Perché la metafisicsa, a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp.

187-214.