Teologia Naturale e Scienza della Natura - CIAFIC · 2006. 12. 23. · Teologia Naturale e Scienza...

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Epistemología de las Ciencias. El valor de las ciencias, la filosofía y la teología (2005) CIAFIC Ediciones Teologia Naturale e Scienza della Natura G. M. Prosperi Il discorso teologico, il discorso filosofico e il discorso scientifico si svolgono ciascuno con una metodologia propria e su piani differenti. Volendo essere tutti discorsi razionali, tuttavia, volendo dare, sia pure da punti di vista differenti, risposte a domande che noi ci poniamo sul mondo nel quale viviamo e su noi stessi, non possono non avere punti di contatto, né essere totalmente estranei l’uno all’altro. In questa relazione, riprendendo in parte considerazioni svolte in incontri precedenti, io voglio presentare alcune mie reazioni come fisico a tesi classiche della teologia naturale, dire in che misura mi ritrovo in certi tipi di argomentazioni, in che misura colgo dei parallelismi con i procedimenti logici della mia disciplina e che tipo di accentuazioni mi sembrano oggi importanti. Per essere concreto, scelgo di fare questo con riferimento alle famose cinque vie di Tommaso d’Aquino. Intanto un commento sulla parola via. Usando questo termine Tommaso mi pare abbia inteso indicare che il suo tipo di argomentazione voleva mostrare una strada attraverso la quale si poteva giungere alle soglie del mistero di Dio, partendo dalla considerazione delle cose che ci circondano e dal nostro modo di accostarci ad esse nel tentativo di comprenderle. Al contrario di altri autori egli non parla di prove, né di dimostrazioni. Sulla stessa linea, io ritengo opportuno che il termine dimostrazione, al di là della sua origine etimologica, sia oggi Dipartimento di Fisica dell’Università di Milano; Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, sezione di Milano, Teologia Naturale e Scienza della Natura, Prof. G. M. Prosperi, pp.81-137 81

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  • Epistemología de las Ciencias. El valor de las ciencias, la filosofía y la teología (2005) CIAFIC Ediciones

    Teologia Naturale e Scienza della Natura

    G. M. Prosperi∗

    Il discorso teologico, il discorso filosofico e il discorso scientifico si svolgono ciascuno con una metodologia propria e su piani differenti. Volendo essere tutti discorsi razionali, tuttavia, volendo dare, sia pure da punti di vista differenti, risposte a domande che noi ci poniamo sul mondo nel quale viviamo e su noi stessi, non possono non avere punti di contatto, né essere totalmente estranei l’uno all’altro.

    In questa relazione, riprendendo in parte considerazioni svolte in incontri precedenti, io voglio presentare alcune mie reazioni come fisico a tesi classiche della teologia naturale, dire in che misura mi ritrovo in certi tipi di argomentazioni, in che misura colgo dei parallelismi con i procedimenti logici della mia disciplina e che tipo di accentuazioni mi sembrano oggi importanti. Per essere concreto, scelgo di fare questo con riferimento alle famose cinque vie di Tommaso d’Aquino.

    Intanto un commento sulla parola via. Usando questo termine Tommaso mi pare abbia inteso indicare che il suo tipo di argomentazione voleva mostrare una strada attraverso la quale si poteva giungere alle soglie del mistero di Dio, partendo dalla considerazione delle cose che ci circondano e dal nostro modo di accostarci ad esse nel tentativo di comprenderle. Al contrario di altri autori egli non parla di prove, né di dimostrazioni.

    Sulla stessa linea, io ritengo opportuno che il termine dimostrazione, al di là della sua origine etimologica, sia oggi

    ∗ Dipartimento di Fisica dell’Università di Milano; Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, sezione di Milano,

    Teologia Naturale e Scienza della Natura, Prof. G. M. Prosperi, pp.81-137 81

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    riservato, se non si vuol cadere in equivoci, al significato proprio che ad esso è attribuito nella Logica formale e, in particolare, nella Matematica; cioè come deduzione di certe conseguenze da un’insieme di proposizioni accettate come vere. Anche in questo senso più preciso, la dimostrazione ha un ruolo importante in tutti i discorsi razionali, nel senso che ha il compito di mostrare le connessioni e permettere di organizzare in un tutto coerente l’insieme delle proposizioni che costituiscono il corpo di una disciplina. Ma, mentre in una teoria matematica la scelta dei postulati di partenza è in certa misura arbitraria, condizionata solo dalla non contraddittorietà e dalla natura del problema che si vuole affrontare, nell’ambito delle Scienze della Natura, come nell’ambito filosofico e nell’ambito teologico, il problema si sposta proprio su quello dei fondamenti, cioè sulla validità dei presupposti, e questo, al di là delle differenze, richiede sempre un appello all’esperienza o comunque ad un qualche tipo di evidenza.

    Per tutte le discipline questa esperienza è innanzitutto, a monte, l’esperienza del vissuto di ognuno di noi, perché su questa si radica il senso del linguaggio naturale, che è alla base di qualunque linguaggio codificato. Nel caso della Filosofia o della Teologia naturale è da questa stessa esperienza soggettiva, in parte irripetibile, comunicabile solo nella misura in cui è possibile fare appello a qualcosa di comune con quanto vissuto da altri uomini, da cui parte sostanzialmente ogni successiva riflessione ed elaborazione. Nel caso della Scienze della Natura è l’esperimento inteso nel senso proprio del termine, come riproduzione artificiale di un certo fenomeno in condizioni in cui ne sia più favorevole l’osservazione; cioè in condizioni in cui se ne possa studiare la dipendenza dal mutare delle circostanze, secondo protocolli precisi, per stabilire se esso sia coerente o in contraddizione con certe ipotesi proposte in precedenza.

    In questo senso né le Scienze della Natura, né la Filosofia, né la Teologia possono mai giungere a dimostrare i loro asserti,

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    pur utilizzando certamente al loro interno ampi segmenti di dimostrazione. Quello su cui voglio insistere è che esse hanno fondamentalmente il carattere di chiavi di lettura di aspetti particolari o del tutto generali della realtà.

    Dal punto di vista logico un’ipotesi scientifica o una teoria scientifica che si basi su un insieme di ipotesi non può essere mai dimostrata, come ha con forza sottolineato Popper. Ciò perché nessun esperimento, fatto per verificarne una conseguenza, potrà mai garantire che non esistano altre conseguenze della stessa che un altro esperimento non avrebbe potuto smentire. Sappiamo quanto spesso circostanze del genere si siano verificate nella ricerca e come proprio queste abbiano spesso portato ai più grandi progressi nella conoscenza. Questo non significa, naturalmente, che nelle nostra comprensione del mondo che ci circonda noi non possiamo raggiungere, in un determinato ambito e su una data scala di osservazione, un alto grado di certezza. Quando certe nostre teorie, certi modelli interpretativi, hanno ottenuto un numero abbastanza alto di conferme in condizioni anche molto diverse, noi abbiamo piena confidenza nel loro valore almeno nel dato contesto. Li utilizziamo nelle applicazioni tecnologiche, affidiamo ad essi la nostra stessa vita in tante circostanze, come quando attraversiamo un ponte o saliamo su un aereo, progettati secondo le leggi della Meccanica, della Termodinamica, secondo le nostre conoscenze sul comportamento dei materiali. Si tratta tuttavia di quelle che i medioevali avrebbero chiamato certezze morali; non si tratta mai di qualcosa di cui abbiamo dato una dimostrazione nel senso tecnico di cui abbiamo parlato.

    Con le differenze del caso, un discorso simile a quello fatto per le scienze, mi pare si possa ripetere per molte delle affermazioni filosofiche o teologiche e questo assolutamente senza volerle sminuire. La differenza fondamentale sta nel fatto che per scelta metodologica sugli aspetti delle cose a cui rivolgere attenzione, le famose qualità primarie, misurabili e

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    matematizzabili, le scienze della natura acquistano un carattere pubblico; nel senso che le loro affermazioni sono in linea di principio controllabili da chiunque e non ci può essere entro certi limiti disparità di opinioni. La contropartita di questa apparente incontrovertibilità è però che queste scienze non possono, proprio per questa scelta, neppure porre, come ho più volte sottolineato, il problema della soggettività, dell’esperienza interiore di ciascuno di noi, che resta di fatto per noi il problema più importante. Proprio a questa esperienza soggettiva fanno invece in ultima analisi appello la Filosofia e la Teologia e chiedere che in questi ambiti un’unica chiave di lettura sia accettata da tutti, pretendere una risposta unanime, è credo puramente utopistico, anche quando non sia in discussione l’onestà intellettuale di ciascuno. Ogni argomentazione può essere solo rivolta a sollevare dei problemi, a invitare ciascuno a porsi di fronte ad essi e confrontarsi con le soluzioni proposte. Possiamo cercare di convincere, facendo cogliere il nostro punto di vista, ma nessuno argomento potrà essere assolutamente costrittivo. La risposta sarà sempre personale e dipenderà dal grado di comprensione, dalle esperienze particolari e dal distacco che ciascuno saprà raggiungere rispetto ad un suo modo di essere abituale. Questo non significa, tuttavia, che anche in questi ambiti noi non possiamo, magari per una via del tutto personale, raggiungere un alto grado di certezza.

    Resta comunque vero che in tutti questi casi l’uso del termine mostrare, fare cioè in ultima analisi appello ad un’esperienza, sembra più appropriato che quello di dimostrare, ed è in questa linea che cercherò di muovermi nelle pagine che seguono.

    Comincerò col richiamare schematicamente le cinque vie, le porrò a confronto con il modo di ragionare delle Scienze e in particolare della Fisica e con certi contenuti specifici, proporrò una prima riflessione critica soprattutto per quel che riguarda il controverso problema dell’esistenza di un ordine, tenterò delle conclusioni che vadano a quella che a me sembra la reale

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    radice del problema e delle difficoltà, almeno intellettuali, oggi incontrate nella strada verso Dio.

    Le cinque vie Schematicamente le cinque vie di Tommaso, che in parte

    riprendono argomentazioni di tipo aristotelico, possono essere espresse nel modo seguente.

    Prima via (dal mutamento): Tutto ciò che muta è mosso da altro. Se non si vuole cadere in un regresso all’infinito deve esistere un primo motore, un principio immutabile e necessario.

    Seconda via (dalla relazione di causa): Tutto ciò che è, è causato da altro. Questo implica una causa prima.

    Terza via (dalla contingenza): Tutto ciò che è possibile e potrebbe non essere richiede una ragione fuori di sé e quindi implica un ente che ha di per sé la propria necessità.

    Quarta via (dai gradi di perfezione): Nelle cose che ci circondano noi percepiamo dei diversi gradi di perfezione, delle gerarchie sul piano dell’essere e questo porta a concepire qualcosa che è causa dell’essere di tutte le cose e di ogni altra perfezione.

    Quinta via (dall’esistenza di una finalità): Nel mondo che ci circonda appare esistere un ordine e questo presuppone un essere intelligente da cui tutte le cose naturali sono dirette.

    Ogni via si compone di un’affermazione di carattere generale e di un’implicazione (se si vuole evitare un regresso all’infinito) e corrisponde ad un punto di vista diverso da cui noi possiamo guardare a Dio. Dio è conseguentemente pensato come l’eterno che tutto muove, la causa prima di tutte le cose, l’essere che ha in sé la propria necessità, l’assolutamente perfetto, la somma intelligenza che tutto ha creato.

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    Le cinque vie e la Scienza della Natura A partire soprattutto da Hume, poi con Kant, con l’idealismo,

    con le varie forme di positivismo o di scientismo, i presupposti delle vie di Tommaso sono stati rifiutati da molta parte del pensiero moderno e criticati da diversi punti di vista. Ogni riferimento ad una Metafisica è anzi spesso ritenuto privo di senso, o comunque irrilevante. Molte delle critiche più radicali sono visibilmente auto contraddittorie, perché spesso finiscono con l’usare nelle loro analisi quegli stessi principi che vorrebbero negare. La necessità di un ricupero di una qualche metafisica è perciò a volte venuta proprio dalla critica interna di alcune di queste correnti. Io non mi propongo qui, tuttavia, salvo qualche accenno indiretto, di entrare in discussioni di carattere filosofico generale. In questa come nella successiva sezione voglio, piuttosto, tentare di porre a confronto, gli assunti posti alla base delle vie con l’atteggiamento mentale spontaneo, di fronte ai problemi, dello studioso di Scienze della Natura; e in certo senso tentare di esemplificarli, interpretandoli in modo opportuno, proprio attraverso aspetti generali e contenuti specifici di quelle scienze.

    Veniamo alla prima via. Si può subito notare che il principio in essa enunciato è proprio quello che Aristotele poneva alla base dei suoi tentativi di interpretazione anche del movimento locale. E’ noto che secondo tale principio Aristotele riteneva che, per mantenere un corpo in movimento, fosse necessario esercitare su di esso un’azione continua e che la velocità del movimento dovesse essere proporzionale all’intensità dell’azione; per esempio la velocità di caduta di un corpo fosse proporzionale al suo peso. Sono note le difficoltà che questa formulazione incontrava nel considerare in particolare il problema del moto violento. Contraddicendo l’esperienza comune che l’aria, come qualsiasi altro fluido, esercita un’azione di freno su un corpo in movimento, Aristotele supponeva che fosse proprio il richiudersi di quella dietro di esso a mantenere in moto un corpo lanciato. Furono queste difficoltà che spinsero i tardo medioevali a

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    introdurre il concetto di impetus (che in qualche modo precorre i moderni concetti di energia e quantità di moto), come una qualità comunicata al corpo al momento del lancio che lo mantiene in movimento, e che viene gradualmente consumata proprio per vincere la resistenza dell’aria. E’ noto con quale determinazione la concezione aristotelica fosse combattuta da Galileo e come essa sia stata definitivamente superata con il principio d’inerzia da lui formulato e, in modo più completo, con l’enunciazione da parte di Newton leggi della Dinamica. Secondo queste ultime leggi lo stato naturale di un corpo non è quello della quiete ma quello del moto rettilineo uniforme, ed è necessaria un’azione, l’applicazione di una forza, per modificare tale stato. In termini moderni sembrerebbe che il principio usato da Aristotele debba necessariamente portare per la descrizione del moto ad un sistema di equazioni differenziali del primo ordine, mentre le leggi della Dinamica come formulate da Newton equivalgono ad un sistema di equazioni del secondo ordine. Secondo alcuni ciò dovrebbe necessariamente inficiare anche il principio invocato da Tommaso.

    E’ chiaro, tuttavia, che da questo punto di vista è sufficiente spostare l’attenzione dalla semplice considerazione della posizione di un corpo proprio a quella del suo stato di movimento, che richiede la specificazione oltre alle coordinate delle velocità o dei momenti, perché il sistema di equazioni diventi del primo ordine in un numero doppio di variabili; in perfetta coerenza proprio con le motivazioni del concetto originario di impetus. In concreto, si tratta di passare da una formulazione newtoniana o lagrangiana delle equazioni di moto ad una formulazione hamiltoniana. In realtà, a prescindere da questi aspetti formali, il senso profondo del principio aristotelico è che anche la semplice descrizione di un qualsiasi tipo di mutamento richiede l’assunzione di una dimensione atemporale. Rispondono, evidentemente, a questo criterio le stesse leggi della Meccanica, le equazioni di evoluzione di un campo o, più in generale, di un qualsiasi sistema di grandezze,

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    come quelle studiate dalla Termodinamica. Tali leggi o equazioni sono appunto supposte permanere nel tempo e solo in questo senso possono dar ragione del cambiamento. Esse svolgono in qualche modo proprio il ruolo del motore immobile, naturalmente non di quel primo motore di cui parlavano Aristotele e Tommaso, ma su questo mi propongo di ritornare più avanti.

    In apparente contraddizione con quanto detto sopra, alcuni autori (tra cui uno dei grandi della Meccanica Quantistica, P. A. M. Dirac) si sono domandati se alcune delle costanti più fondamentali che compaiono nelle nostre teorie non possano in realtà dipendere dal tempo. In quest’ordine di idee, di recente sono stati pubblicati risultati sulla struttura fina di alcune righe spettrali in quasar da noi molto lontani, che sembrerebbero proprio indicare che la costante α dell’Elettromagnetismo abbia avuto nel lontano passato un valore maggiore di quello attuale (α = 1/137,…).1

    1 Ricordiamo che per struttura fina dello spettro di un elemento s’intende il fatto che molte righe, che appaiono semplici se osservate con mezzi ordinari, risultano invece costituite da più righe molto vicine se osservate con un potere risolutivo maggiore. La separazione tra queste ultime righe è in molti casi esplicitamente calcolabile in funzione di α e permette, perciò, una misura accurata di tale grandezza. Ricordiamo ancora che i quasar sono oggetti celesti che rappresentano probabilmente delle galassie in formazione. La loro distanza, come quella delle galassie più lontane, si misura utilizzando la legge di Hubble, secondo cui la velocità di allontanamento di una galassia è proporzionale alla sua distanza, d = Hv. Tale legge, originariamente proposta su basi sperimentali, è in pieno accordo con le moderne teorie sulla espansione dell’universo. Essa può essere verificata e il valore della costante H misurato sulle galassie più vicine, per le quali esistono metodi indipendenti per la misura della distanza. Sono di questo tipo quelli basati sulla relazione tra il periodo di certe stelle pulsanti e la loro luminosità assoluta, che permette di ricondurre d al rapporto tra la luminosità osservata e quella presunta. La velocità di allontanamento v può essere, d’altra parte, misurata dallo spostamento verso il rosso per effetto Doppler delle righe spettrali caratteristiche di alcuni elementi e il valore di d immediatamente calcolato anche per oggetti lontani. Come è noto, la lunghezza d’onda della luce, come quella del suono, emessa da un oggetto in allontanamento o in avvicinamento, appare spostata verso valori più alti o, rispettivamente, più bassi in dipendenza della velocità.

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    Noi oggi possiamo osservare quasar la cui distanza può essere stimata anche dell’ordine dei 10 miliardi di anni luce. Ciò significa che noi osserviamo tali oggetti come erano 10 miliardi di anni fa e, se la separazione delle componenti di struttura fina di una certa riga spettrale appare superiore a quella attesa e osservata sulla Terra, siamo indotti a ritenere che 10 miliardi di anni fa il valore di α dovesse essere superiore a quello attuale. I 10 miliardi di anni vanno confrontati con l’età dell’universo, che è oggi valutata in circa 14 miliardi di anni, e rappresentano un’età molto più vicina di quella attuale al Big Bang o, meglio, al momento della ricombinazione (varie centinaia di migliaia di anni dopo); quando cioè gli elettroni hanno cominciato a combinarsi con i protoni e gli altri nuclei leggeri esistenti, si sono costituiti i primi atomi neutri e ha avuto inizio la formazione nell’universo delle strutture che noi oggi conosciamo. I risultati di cui abbiamo parlato corrispondono a sole due deviazioni standard dal valore normale e non sono perciò sufficientemente significativi. Anche se lo fossero, tuttavia, essi non cambierebbero in nulla la prospettiva che abbiamo presentato sopra, perché, se alcune costanti delle attuali teorie mutano, si pone immediatamente il problema di una teoria più fondamentale che spieghi questo mutamento.

    Veniamo alla seconda via e alla relazione di causa. Questo concetto è evidentemente alla base di ogni tentativo di spiegazione. Di fronte ad una molteplicità di fenomeni la Fisica si pone sempre il problema di ricondurli ad un insieme di cause o ad un principio unitario. Tenta cioè di formulare delle ipotesi, da sottoporre a successiva verifica, che possano ridurre la varietà all’unità. E’ questo uno sforzo continuo che si attua attraverso tappe successive e costituisce il filo conduttore di tutta la ricerca. L’ideale a cui si tende è quello di una teoria sempre più comprensiva che possa dare ragione di tutti i fenomeni naturali. Qualcuno ha voluto chiamarla Teoria del Tutto e ci sono stati momenti in cui anche alcuni grandi scienziati hanno sperato che essa potesse essere a portata di mano. L’esperienza di ogni giorno è stata in realtà nella

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    direzione opposta. Ogni volta che si è creduto di aver fatto qualche passo importante nella comprensione dei fenomeni naturali, si è finito con l’aprire tutta una nuova classe di problemi prima insospettati e il traguardo è sembrato spingersi sempre più lontano. Almeno in linea di principio, tuttavia, la prospettiva resta e orienta i nostri sforzi.

    L’esigenza alla base della terza via è quella di una spiegazione necessaria, di una giustificazione che non consenta alternative. Essa è complementare a quella precedente di ricerca delle cause ed era largamente sentita nel pensiero greco che, almeno in molte delle sue più autorevoli espressioni, la riteneva essenziale al concetto stesso di spiegazione; al punto da ritenere, come abbiamo viso a proposito del movimento, che anche gli aspetti più particolari della realtà dovessero poter essere ricondotti a principi filosofici di carattere generale. E’ a partire dal XIII secolo che questo convincimento comincia ad essere posto in discussione, sia di fronte all’artificiosità e al carattere poco soddisfacente di molte di queste interpretazioni aprioristiche, sia di fronte al problema di una salvaguardia della libertà di Dio nella creazione, che l’idea di un mondo necessario sembrava porre in discussione. E’ così che viene progressivamente rivalutato il ricorso all’esperienza particolare; fino ad arrivare allo sviluppo consapevole di un metodo sperimentale, che si avrà con Galileo, e alla fiducia nel valore anche solo di segmenti particolari di spiegazione non necessariamente inquadrati in una visione complessiva. La suggestione di quell’atteggiamento mentale è rimasta tuttavia sempre così forte che, ancora nel secolo XVIII dopo Newton, Eulero si chiedeva se alle leggi della Meccanica dovesse essere attribuito il carattere della necessità o se esse potessero avere solo una giustificazione di tipo empirico. Nella Scienza di oggi quell’esigenza ricompare nello sforzo di semplificare, rendere più economici e naturali i postulati di base, fare sempre più appello a principi di carattere generale. Sono di questo tipo, ad esempio, i requisiti di

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    invarianza e di simmetria che sempre più si cerca di porre a fondamento delle teorie.

    L’idea dei gradi di perfezione, che informa quella che è in certo senso la più metafisica delle vie, non mi pare abbia molti punti di contatto con il modo di procedere della ricerca in Fisica, se non nella constatazione che esiste tra le teorie fisiche una sorta di gerarchia e una tendenza verso teorie sempre più fondamentali.

    Di grande rilievo, invece, sia per l’attenzione che ha ricevuto in passato e le discussioni a cui ha dato origine, sia per il legame anche con teorie specifiche e la molteplicità degli aspetti coinvolti, è l’affermazione dell’esistenza di un ordine, che sta alla base della quinta via. Dato il particolare interesse a questa voglio dedicare una sezione specifica.

    Il problema dell’esistenza di un ordine Un primo fondamentale argomento a riguardo viene

    dall’intelligibilità della natura, dalla nostra capacità di comprenderla con la ragione.

    Nella spiegazione dei fenomeni naturali noi abbiamo avuto grandi successi attraverso l’impiego di strumenti matematici molto astratti e complessi, abbiamo grande fiducia in tutti i procedimenti di tipo logico, siamo spesso fortemente guidati da criteri di semplicità e di carattere estetico. Si pensi in proposito al successo delle sintesi di Newton e di Maxwell, alla Teoria della Relatività Ristretta o Generale, alla costruzione della Teoria Quantistica.

    Concentriamoci a titolo d’esempio proprio sulla Teoria della Relatività. La Teoria della Relatività Ristretta, come è noto, è nata principalmente dall’intuizione che l’equivalenza di tutti i sistemi di riferimento in moto traslatorio uniforme, messa in risalto da Galileo, non potesse limitarsi alla sola Meccanica, ma dovesse essere estesa a tutte le leggi della natura e in particolare all’Elettromagnetismo. Vorrei notare, in proposito,

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    che, contrariamente al modo in cui spesso la materia viene presentata nei trattati, nel suo primo lavoro Einstein fa riferimento solo in modo generico e, quasi di sfuggita, a esperimenti tipo quello di Michelson o di Fizeau, che mettono in evidenza le gravi difficoltà esistenti sul problema della composizione della velocità della luce con quella dell’osservatore. A riguardo, per lui l’argomento estetico, il requisito di semplicità e l’intuizione teorica erano assolutamente prevalenti. E’ notevole, che proprio considerazioni molto generali, come l’analisi critica dei concetti di spazio e di tempo, abbiano permesso la deduzione di nuove equazioni di trasformazione (le trasformazioni dette di Lorentz), coerenti con il nuovo principio di relatività. Come queste equazioni abbiano poi portato a prevedere tutta una serie di fenomeni nuovi, apparentemente paradossali, il carattere limite della velocità della luce, la dilatazione dei tempi, l’equivalenza massa energia, che hanno avuto a posteriori conferme sperimentali anche terribilmente drammatiche.

    Un discorso simile vale per la Relatività Generale che, nata a sua volta dal desiderio di estendere il principio di relatività a sistemi di riferimento addirittura qualsiasi (in moto qualsiasi e necessariamente non rigidi), ha portato alla formulazione di una nuova Teoria della Gravitazione, a prevedere l’azione della gravità sulla luce, a spiegare discrepanze sottili nel moto dei pianeti e soprattutto ha aperto la strada a tutte le Teorie Cosmologiche odierne.

    Analoghi requisiti di semplicità e di estetica guidano oggi sistematicamente la ricerca in moltissimi campi, come quello della Teoria delle Particelle, e hanno condotto a eccezionali sviluppi e progressi della più grande importanza nella comprensione del mondo che ci circonda.

    Accanto a queste considerazioni di carattere generale, grande peso è stato dato in passato, fino a circa la metà del XIX secolo, alla constatazione della meravigliosa organizzazione dei viventi. In essi tutto appare finalizzato allo

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    svolgimento di particolari funzioni, all’adattamento a determinate condizioni di vita, a uno specifico ambiente e sembrerebbe inequivocabilmente la manifestazione di un’intelligenza. Questo senso di ammirazione dovrebbe poter solo crescere, quando dall’aspetto morfologico esterno, o dalla fisiologia macroscopica degli organi interni, si sposta l’attenzione sui meccanismi microscopici rivelatici dalla ricerca moderna, sull’architettura delle macromolecole (che rende possibile la conservazione e l’utilizzo dell’informazione, lo svolgimento di svariate funzioni di regolazione nella singola cellula e nell’intero organismo), sui processi di riproduzione, sviluppo e crescita di un nuovo individuo. Tutto ciò è talmente evidente, che nella Biologia la prima domanda che ci si pone di fronte all’individuazione di nuove strutture, di nuove molecole, di nuovi processi, è quella della loro funzione nell’interesse dell’organismo o della specie. Nell’ambito della disciplina, si è spesso parlato della validità, accanto al principio di causalità, di un qualche principio di finalità.

    Dopo Darwin, tuttavia, si è da molti voluto vedere nel progressivo costituirsi di apparati specifici, nello stabilirsi del perfetto adattamento all’ambiente delle varie specie e nella loro continua evoluzione, solo il risultato automatico del gioco di mutazioni casuali e della selezione naturale. Si è voluta esplicitamente escludere l’esistenza di un disegno.

    Considerazioni in qualche modo simili si possono ripetere per il principio antropico. Questo cosiddetto principio consiste in realtà, come è noto, nell’osservazione che ciò che ha reso possibile la vita, più precisamente ciò che ha reso possibile l’esistenza e il formarsi degli elementi indispensabili per essa, le proprietà e il costituirsi delle molecole complesse che sono alla sua base, è il valore molto particolare di certi parametri cosmologici e l’esistenza di un gioco di rapporti molto delicato tra alcune costanti fisiche fondamentali (come la carica elettrica dell’elettrone, la costante dell’interazione forte e le masse di alcune particelle fondamentali). Anche esso sembrerebbe

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    suggerire fortemente l’esistenza di un disegno. Anche in questo caso, tuttavia, è stato prodotto un notevole sforzo per costruire teorie che, se pur in parte motivate da ragioni di carattere fisico, servissero anche allo scopo, in alcuni casi esplicitamente dichiarato, di poter prescindere da un’interpretazione finalistica.

    Considerazioni critiche In questa sezione volevo ripercorrere le considerazioni di

    carattere più che altro illustrativo delle due precedenti dal punto di vista di un primo approfondimento critico.

    Con riferimento alle prime tre vie, prese ora nel loro insieme, ho detto in sostanza che le Scienze della Natura, la Fisica in particolare, tendono a costruire teorie sempre più comprensive e più generali che riducano ad unità una varietà sempre più grande di fenomeni. Ogni teoria, tuttavia, si presenta sempre aperta a nuove domande. Anche se si fosse effettivamente riusciti a costruire una qualche Teoria del Tutto, come nell’aspirazione di molti, ciò sarebbe sulla base di un certo numero di principi ipotetici da cui tutti i fenomeni dovrebbero poter essere dedotti. Non ci si potrebbe sottrarre alla domanda se sia possibile giustificare quei principi sulla base di altri più fondamentali, del perché i postulati debbano essere quelli e non altri.

    A questo punto possiamo però chiederci: è lecito e concepibile, come vorrebbe Tommaso, andare al di là di quello che riesce a dirci la Scienza, per arrivare a postulare un principio necessario, un principio veramente primo, autoesplicativo, che sia una risposta a tutte le domande e oltre cui non sia realmente possibile più interrogarsi? E’ chiaro che un tale principio o causa prima è per sé per noi inattingibile, proprio per la nostra natura di creature ed è questo nella sostanza il punto debole della famosa prova ontologica. Secondo Tommaso, per quel che capisco, noi potremmo, però, pensare di coglierlo in qualche misura come limite, come estrema estrapolazione, come causa proporzionata di tutte le

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    cose che cadono sotto la nostra esperienza e in questo senso le prime tre vie mi pare si ricolleghino alla quarta.

    Per chi non accetta l’idea di una trascendenza, ma ritiene che la Scienza colga delle connessioni reali e dia delle vere spiegazioni, quest’ultimo passo non è evidentemente legittimo. Ci si dovrebbe limitare a prendere atto delle risposte che la Scienza dà, che dovrebbero dirci semplicemente come il mondo è fatto, e non avrebbe senso porsi domande ulteriori. A questa obiezione credo di aver dato implicitamente risposta nella discussione finale. Ce n’è però un’altra apparentemente più fondamentale che vorrei affrontare qui. Tutta la discussione in sostanza è basata sul concetto di causa ed esistono, anche nel contesto scientifico, importanti correnti epistemologiche che pongono in discussione o ritengono ambigui proprio i concetti di causa e di realtà.

    Secondo tali correnti la spiegazione scientifica non consiste in una ricerca delle cause, ma semplicemente nella deduzione di certi risultati da certe proposizioni che solo in senso formale sono assunte come principi. Su questa linea era E. Mach che riteneva le teorie scientifiche giustificate solo da un criterio di economia. Ciò che interessava era il fatto empirico, la costruzione teorica era solo qualcosa che permetteva di sostituire pochi principi ad una lunga collezione di dati. Una posizione simile era anche quella dei neopositivisti che, assumendo un empirismo radicale e riferendosi in qualche modo a Hume, ponevano (semplificando) alla base di tutta la loro costruzione il principio di verificazione, secondo cui “il senso di una proposizione è dato dal metodo della sua verifica”. La stessa elaborazione matematica era vista come una pura tautologia.

    Questo tipo di interpretazione è in realtà contro l’atteggiamento spontaneo di ogni scienziato, che si pone di fronte ai problemi nella disposizione di chi vuole capire e non di chi vuole semplicemente avere delle regole per operare (come ad esempio, in certa misura, potrebbe essere il caso

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    dell’ingegnere). Il grande studioso dei fondamenti della Matematica A. N. Whitehead (La Scienza e il mondo moderno, trad. it. Boringhieri 1979) sosteneva in proposito che, se i fisici avessero preso Hume sul serio, la scienza moderna avrebbe avuto ben poco sviluppo; tanto fondata è essa, invece, su una fiducia sul potere conoscitivo della ragione e sul valore dello strumento matematico. Più banalmente osserviamo che, nel momento in cui confidiamo sulla capacità di previsione di una teoria sufficientemente confermata, è perché almeno implicitamente crediamo che essa non sia semplicemente il riassunto di quanto fino allora osservato, ma colga in qualche misura la realtà delle cose e possa, proprio per questo, essere usata per previsioni future.

    Un’altra obiezione al principio di causa è spesso sollevata appellandosi alla Teoria Quantistica che, essendo una teoria che permette previsioni solo statistiche, non soddisferebbe tale principio. Qui però siamo in presenza di un equivoco sull’uso delle parole. La Teoria Quantistica è non causale, sarebbe meglio dire non deterministica, solo nel senso che, qualunque informazione si abbia su un certo oggetto, non è possibile mai prevedere con certezza il risultato di un’ osservazione successiva fatta; essa fornisce solo la probabilità di trovare un risultato piuttosto che un altro. Il senso in cui sopra ho inteso la parola causa, invece, è quello di ragione, se si vuole ragione dell’essere di un certo oggetto, e ragione dell’essere in un certo modo. In questo senso, il termine è strettamente legato a quello di spiegazione e si applica alla Teoria Quantistica come a qualsiasi altra teoria; anzi, è la condizione perché abbia un qualsiasi senso parlare di teoria. Le proprietà ottiche di un certo atomo, quelle di reattività di una certa molecola, le proprietà meccaniche, elettriche, magnetiche di un certo metallo, trovano spiegazione in modelli microscopici che si fondano sulla Teoria Quantistica ed è a questo tipo di spiegazione che abbiamo fatto appello.

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    Voglio invece tornare sulla quinta via, cioè sull’argomento dell’ordine. A questo argomento lo stesso Kant pare riconoscesse un valore particolare, esso ha un particolare legame con il mio titolo e lo voglio in certo senso privilegiare.

    Sul problema generale dell’intelligibilità della Natura, mi piace intanto ricordare le espressioni di Einstein (che pure non aveva una fede in un Dio personale); espressioni, di fronte alla bellezza delle leggi della Natura e all’armonia che esse riflettono, che rasentano il misticismo. Egli dichiarava esplicitamente che la cosa che gli appariva più straordinaria della Natura era proprio il fatto che essa fosse intelligibile. Più importanti mi paiono, tuttavia, di nuovo le argomentazioni di Whitehead (loc. cit.), secondo il quale alla base di tutta la ricerca scientifica vi è necessariamente una fede almeno “implicita” nell’intelligibilità del mondo e nell’esistenza di un ordine, senza cui la ricerca stessa sarebbe impossibile e senza speranza. Egli sosteneva che alla radice di tale fede vi fosse l’idea ebraico cristiana di un Dio creatore di tutte le cose e che proprio questa fosse alla base di quel clima culturale che ha reso possibile in Europa, ed in Europa soltanto, la nascita della Scienza moderna.

    Ma passiamo al problema della vita, nel senso biologico del termine. Se guardiamo al perfetto adattamento al volo di un uccello, alla sua forma, alla struttura delle sue ossa e del suo scheletro, alla disposizione e allo sviluppo della sua muscolatura, tutto ci appare orientato a un fine. Un discorso simile può essere fatto per qualsiasi altra specie vivente, animale o vegetale, posta in una data nicchia ecologica, determinata sia da caratteristiche fisiche e climatiche, sia dall’esistenza di altre specie in equilibrio con quella considerata. Tutto questo è apparso per molto tempo come la chiara indicazione di un disegno. Con la teoria di Darwin, come ho detto, il discorso è almeno per molti aspetti cambiato.

    Come è noto tale teoria, nella sua rivisitazione attuale (la teoria sintetica dell’evoluzione), parte dall’osservazione che in

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    seno ad ogni specie si verificano saltuariamente delle mutazioni. Compaiono cioè individui con caratteri nuovi, diversi da quelli del genitore o dei genitori. Tali mutazioni sono dovute sostanzialmente ad errori statistici nella ricopiatura del DNA nel complesso meccanismo della riproduzione. Tra questi nuovi caratteri, in generale non favorevoli per la vita dell’individuo che li porta, sul lungo termine si affermerebbero quei pochi che invece ne facilitassero la sopravvivenza nello specifico ambiente (per esempio maggior mimetismo, resistenza alle condizioni climatiche, tipo di cibo utilizzabile), la rapidità di riproduzione, la difesa della prole. L’apparente finalizzazione della struttura del vivente e il suo straordinario adattamento, lungi dall’essere l’impronta di un disegno, sarebbero in quest’ottica il semplice risultato delle leggi del caso e della selezione. Si può ricordare in proposito il famoso libro di alcuni decenni fa Il caso e la necessità del premio Nobel J. Monod. Il termine necessità sta qui per le leggi e le strutture fisiche che sottendono tutto il processo e nel cui ambito il caso (le mutazioni occasionali) ha i suoi effetti. Nell’idea di Monod il ruolo del caso dovrebbe, però, prevalere su quello della necessità, cioè delle leggi fisiche.

    Si è tentato di estendere un tale modo di ragionare dalla spiegazione di come dai primi semplici organismi unicellulari si sia potuti giungere alla grande varietà ed estrema complessità delle forme di vita attuali a quello della stessa origine della vita, cioè di come da prime molecole inorganiche si sia potuti giungere alla formazione delle prime cellule. A partire da ipotesi sulla costituzione dell’atmosfera primitiva della Terra e delle forze in essa operanti (scariche elettriche dovute ai frequenti temporali, radiazione solare, attività vulcanica), si è cercato di capire come si siano potute formare le prime molecole organiche, in particolare i primi aminoacidi, e come per polimerizzazione di questi si siano originate le prime catene polipeptidiche. Sia pure con molta maggiore difficoltà, si è anche cercato di capire come si sia potuto arrivare ai primi acidi nucleici. Si è poi invocata una sorta di selezione prebiotica per

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    spiegare come, da catene casuali prive di significato, si siano potuti appunto selezionare quei sistemi di cooperazione altamente sofisticati tra acidi nucleici, proteine e altri tipi di molecole, nel contesto di appropriate strutture (membrane, strutture di protezione e di sostegno, reticolo endoplasmatico), che sono le cellule.

    Ricordiamo che nel funzionamento di una cellula intervengono un numero molto elevato di proteine, che svolgono compiti molto diversi; agiscono come catalizzatori nelle moltissime reazioni chimiche che si svolgono all’interno del protoplasma, sovrintendono a tutte le operazioni svolte dagli acidi nucleici, costituiscono le strutture che controllano i flussi di ioni e di altre sostanze attraverso le membrane, agiscono da messaggeri tra le varie cellule. Gli acidi nucleici, a loro volta, conservano attraverso la successione delle loro basi la memoria della struttura di ciascuna singola proteina (caratteristica dell’individuo o della specie), sovrintendono alla sintesi delle stesse, contengono in qualche forma il programma dell’ontogenesi, cioè il programma di formazione e di articolazione di ogni singolo individuo. Le proteine sono, come è noto, catene di aminoacidi, caratterizzate primariamente dalla successione di questi ultimi. Poiché tali catene sono formate tipicamente da almeno qualche centinaio di termini ed intervengono in esse 20 aminoacidi distinti, è possibile qualcosa almeno dell’ordine di 20100 ≈ 10130 catene distinte, di cui solo una piccolissima parte ha un qualche significato per la vita. Se dalle proteine si passa alla struttura degli acidi nucleici, preposta, come abbiamo detto, alla conservazione di tutta l’informazione necessaria al funzionamento della cellula o dell’individuo pluricellulare, troviamo che la catena del DNA dei più semplici virus è formata da almeno un migliaio di basi, mentre quella dell’uomo raggiunge i 6 miliardi di basi. Essendo quattro le basi azotate distinte, abbiamo che anche solo al livello di un virus esisterebbero 41000 ≈ 10600 diverse possibilità. E’ chiaro a questo punto l’enorme ammontare di informazione contenuto nella più semplice cellula e quanto sia difficile

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    concepire un meccanismo attraverso cui essa si sia potuta spontaneamente costituire, sia pure a partire da una combinazione particolarmente fortunata di circostanze. Si ritiene,inoltre, oggi che la Terra si sia formata al livello di sfera di magma fluido circa 4,5 miliardi di anni fa, le prime tracce di organismi unicellulari si trovano d’altra parte su rocce datate a 3,8 miliardi di anni. Tenuto conto del tempo necessario per il raffreddamento, restano al massimo per la suddetta evoluzione prebiotica alcune centinaia di milioni di anni. Questo tempo è dell’ordine della metà di quello che è stato concretamente necessario per l’evoluzione dei pluricellulari (comparsi circa 700 milioni di anni fa), è già breve rispetto ai tempi di evoluzione dai primi unicellulari a quelli attuali; sembrerebbe a priori comunque del tutto insufficiente per il costituirsi di una qualsiasi protocellula da prime piccole molecole organiche.

    La strategia che si è finora tentato di seguire per superare la difficoltà è quella di immaginare un’accumulazione di informazione per passi successivi. L’idea base è, sostanzialmente, che il primo, magari casuale, costituirsi di strutture autoreplicantisi molto semplici abbia progressivamente indotto la creazione di strutture sempre più grandi e più complesse. Quando però si cerca di dare a questa intuizione un corpo più consistente, si tenta cioè di formulare modelli concreti, le difficoltà divengono enormi. Rimando alla mia relazione dello scorso anno per qualche maggiore dettaglio. Mi limiterò a dire che tutto sembrerebbe svolgersi contro le ordinarie leggi fisiche di probabilità. Può darsi che progressi importanti possano venire dagli studi più recenti sulle strutture mesoscopiche, cioè su strutture di dimensione intermedia tra quella degli atomi o delle più semplici molecole e gli ordinari sistemi macroscopici a carattere ripetitivo (gas, liquidi, cristalli), come pure da una migliore comprensione di fenomeni non lineari che portano alla creazione di forme. In questa ottica, potrebbero anche rivelarsi rilevanti, alcuni tentativi, suggeriti da problemi di interpretazione della Teoria Quantistica, rivolti alla costruzione di nuove teorie che riproducano la Teoria

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    Quantistica attuale per sistemi di un piccolo numero di particelle, ma contengano in modo intrinseco un livello classico per i sistemi macroscopici2. Ripeto però che nulla di realmente convincente mi pare esista fino a questo momento.

    Qualunque possa essere una soluzione futura del problema, sembra evidente che le specifiche proprietà delle macromolecole complesse siano essenziali. Appare quindi determinante in primo luogo la forma delle leggi fisiche e in particolare, come abbiamo detto, il rapporto esistente tra i valori delle costanti fondamentali e quello di alcuni parametri cosmologici. Sono queste leggi e queste circostanze che rendono le strutture su cui la vita si basa semplicemente possibili, che determinano la natura e la frequenza delle mutazioni casuali, il grado di stabilità dell’informazione accumulata, l’efficacia di una successiva selezione. La posizione di Monod di privilegio del ruolo del caso va perciò comunque rovesciata a favore della necessità. In questo senso si esprime, ad esempio, il premio Nobel tedesco M. Eigen, che ha proposto forse uno dei più significativi modelli (anche se non esente da gravi difficoltà) per tentare di giustificare l’origine della vita sulla base delle leggi fisiche oggi conosciute, e la maggior parte degli studiosi più recenti. E’ questo il senso del titolo “Né per caso, né per disegno” che la studiosa israeliana I. Fry, per posizione filosofica contraria all’idea di un disegno, ha voluto dare al capitolo conclusivo di un suo recente libro

    2 Per l’interpretazione dell’attuale Teoria Quantistica si richiede necessariamente, secondo Bohr, la considerazione di due livelli. La Teoria Quantistica fornisce la probabilità che certi esperimenti fatti sui suoi oggetti (particelle, atomi, sistemi di atomi) diano certi risultati, prescindendo da ogni tentativo di modelli intuitivi. Le condizioni di esperienza, le apparecchiature sperimentali, i risultati vanno però descritti secondo i concetti della Fisica Classica, in termini di grandezze di significato immediato, che hanno istante per istante un valore determinato, indipendentemente dalla esplicita considerazione di un’osservazione. I due livelli non sono incompatibili, nel senso che, sotto certe approssimazioni, dall’applicazione della Teoria Quantistica a sistemi di molte particelle si possono riottenere equazioni di tipo classico; ma restano concettualmente distinti e non riducibili l’uno all’altro.

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    divulgativo sull’argomento (L’origine della vita sulla terra, trad. it., Garzanti 2000).

    Riguardo al problema nel suo insieme, a me pare invece che, se si sposta l’attenzione dall’interpretazione dei singoli passi o dei singoli processi al quadro generale costituito dalle leggi fisiche (che hanno reso la comparsa di quelle strutture e di quegli organismi possibile e, forse, addirittura necessaria), il suggerimento dell’esistenza di una finalità e di un disegno si riproponga in tutta la sua forza. Questo almeno per chi non sia chiuso pregiudizialmente ad ogni idea sull’esistenza del trascendente.

    Veniamo al principio antropico. Anche qui la spontanea interpretazione teleologica viene posta in discussione con argomenti concettualmente analoghi a quelli che in Biologia fanno appello alla teoria di Darwin. Il punto di partenza, in questo caso, sono alcune teorie cosmologiche, che genericamente si possono far rientrare nella classe delle teorie inflazionarie e sono state in parte semplicemente create per rispondere a problematiche fisiche, ma sono in parte anche dichiaratamente rivolte a superare proprio un’interpretazione finalistica.

    Una prima problematica riguarda i già ricordati parametri cosmologici. Perché si siano potute formare le galassie, le stelle, i pianeti e perché questi abbiano potuto durare il tempo necessario perché la vita potesse comunque svilupparsi, l’espansione dell’universo deve essere durata un tempo sufficientemente lungo e deve essere stata sufficientemente lenta. Per ragioni teoriche, sappiamo che una prima condizione perché queste circostanze potessero verificarsi è che il parametro Ω = ρ /ρc definito come il rapporto tra densità media ρ della materia, o meglio dell’energia3, presente nell’Universo e

    3 Si ricordi che la massa di un corpo secondo equivale ad un’energia data dalla relazione di Einstein , per questo userò spesso nel seguito le due espressioni in forma intercambiabile.

    2mcE =

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    un certo valore critico ρc sia prossimo a 1. Più precisamente, un secondo dopo il Big Bang Ω - 1 doveva essere di un ordine di grandezza non superiore a 10 −18. Il valore di ρc, come quelli di ρ e di Ω, dipendono dalla costante di gravitazione e dalle condizioni iniziali dell’Universo (cioè dal valore della costante di Huble) subito dopo il Big Bang e variano col tempo. Persistono nel tempo, però, e corrispondono a due immagini opposte dell’intero universo le tre condizioni Ω < 1, Ω = 1 e Ω > 1.

    Nella prima ipotesi Ω < 1 l’universo risulterebbe aperto e infinitamente esteso, l’espansione, sia pure rallentando, proseguirebbe indefinitamente e l’universo stesso si disperderebbe progressivamente. Un’immagine bidimensionale, come ho detto altre volte, potrebbe essere quella di un iperboloide (una superficie appunto infinitamente estesa) i cui assi crescano indefinitamente. Nella terza ipotesi Ω > 1 l’universo sarebbe chiuso e di estensione finita, esso non avrebbe un’energia sufficiente per disperdersi contro le forze gravitazionali, l’espansione proseguirebbe fino al raggiungimento di una dimensione massima e sarebbe seguita da una fase di contrazione e dal collasso verso un Big Crunch. Un’immagine bidimensionale sarebbe quella di una sfera il cui raggio crescesse fino al raggiungimento di un valore massimo per poi cominciare a diminuire. Nel caso intermedio Ω = 1, infine, l’Universo sarebbe ancora aperto e si espanderebbe indefinitamente con una velocità, però, più piccola di quella di tutti gli altri casi di universo aperto. L’immagine sarebbe quella di un semplice piano le cui dimensioni però aumentassero continuamente.

    Perché l’universo non si disperdesse o richiudesse troppo rapidamente era appunto necessario che Ω si mantenesse, comunque, molto vicino ad 1. Recenti misure sulle anisotropie della radiazione di fondo a microonde dell’Universo, le cui caratteristiche possono essere messe in relazione con Ω, hanno fornito per questa grandezza il valore Ω = 1,02 ± 0,04. E’ notevole che tale risultato corrisponda ad un valore differente

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    da 1 addirittura per qualcosa dell’ordine di 10 −24 ad un secondo e a 10 −56 a 10 −35 secondi dopo il Big Bang.

    A quest’ultimo proposito va anche ricordato che, nonostante l’esistenza al momento attuale di forti addensamenti di materia in corrispondenza delle varie strutture presenti nell’Universo (pianeti, stelle, galassie, ammassi di galassie, superammassi), su larga scala l’universo appare omogeneo. Se cioè immaginiamo di suddividere quella parte di universo che noi riusciamo ad osservare in enormi celle di lato dell’ordine dei 600 milioni di anni luce, troviamo che la quantità di materia all’interno di ciascuna di tali celle è costante. D’altra parte, una volta discesa la temperatura media dell’universo al disotto del valore di ricombinazione e cessata l’azione di sostegno della radiazione, ogni disomogeneità nella distribuzione della materia ha teso ad esaltarsi per effetto dell’attrazione gravitazionale, dando luogo al collasso di masse di materia su se stesse e alla formazione delle varie strutture. Come conseguenza le disomogeneità esistenti all’interno delle singole celle possono essere ricondotte a fluttuazioni molto piccole attorno ad un valore molto uniforme della densità ρ nelle fasi iniziali della storia dell’universo. Una misura di queste fluttuazioni è data da quella delle anisotropie del fondo a microonde di cui abbiamo parlato.

    Ricordiamo che, secondo il modello cosmologico standard, alcune centinaia di migliaia di anni dopo il Big Bang l’universo si trovava nella fase detta di dominio della radiazione, in cui le particelle più pesanti erano tutte decadute o si erano annichilate con le rispettive antiparticelle. Sopravvivevano solo elettroni, protoni e un certo numero di nuclei più leggeri. Questi ultimi (in grande prevalenza nuclei di elio) costituivano il 25% della materia complessiva ed erano il risultato di una nucleosintesi primordiale tra protoni e un certo residuo di neutroni. La maggior parte dell’energia era però posseduta dalla radiazione ed esisteva circa un protone o un neutrone per ogni miliardo di fotoni. Quando la temperatura media dell’universo è scesa sotto

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    alcune decine di migliaia di gradi, i pochi protoni e nuclei leggeri esistenti hanno cominciato a combinarsi con gli elettroni per formare atomi neutri (fenomeno della ricombinazione); la materia e la radiazione hanno cessato di interagire in maniera apprezzabile e hanno continuato a evolvere indipendentemente. Col proseguire dell’espansione la radiazione si è raffreddata sino agli attuali 2,7° assoluti e costituisce quello che oggi noi chiamiamo il fondo a microonde. Questo fondo riflette tuttavia, con le sue disomogeneità, le originarie fluttuazioni di densità che a quel momento esistevano nell’universo e la loro misura appare congruente con l’attuale distribuzione della materia.

    La grande uniformità che, come abbiamo detto, si osserva nella distribuzione della materia e dell’energia è molto sorprendente, perché riguarda parti dell’universo che apparentemente non sono mai state in contatto tra di loro. Poiché secondo la Teoria della Relatività Ristretta la velocità della luce è una velocità limite, che non può essere superata da alcun segnale fisico, due oggetti celesti che si trovino diametralmente opposti rispetto a noi e ad una distanza di 10 miliardi di anni luce ciascuno, si trovano tra loro ad una distanza di 20 miliardi di anni luce e perciò non dovrebbero aver potuto esercitare tra di loro alcuna azione reciproca durante i 14 miliardi di anni di vita dell’Universo. Essi sono cioè come si dice fuori dall’orizzonte l’uno dell’altro. Il fatto che la densità di materia in tali regioni sia la medesima è perciò sorprendente. Una circostanza di questo tipo potrebbe naturalmente essere semplicemente attribuita a speciali condizioni iniziali nella storia dell’universo. Essa appare tuttavia così singolare, che si è cercato di costruire della teorie che spiegassero l’originarsi di una tale uniformità, come pure il valore di Ω così vicino ad 1 e quello delle fluttuazioni di densità, a partire da condizioni iniziali del tutto generiche. E’ stata creata così una classe di modelli detti inflazionari, che si muovono nel contesto della Relatività Generale, e la cui caratteristica principale è di supporre che subito dopo il Big Bang si sia avuta una fase di espansione

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    molto rapida che ha portato all’allontanamento di regioni dello spazio che originariamente erano in contatto.

    Tra queste teorie ve n’è un’ulteriore sottoclasse che ammettono l’esistenza accanto al nostro universo di moltissimi altri universi, intrinsecamente non osservabili, con caratteristiche tra loro molto diverse. Tra questi universi la vita avrebbe potuto svilupparsi solo in quelli, rarissimi, in cui si fossero verificate quelle particolarissime circostanze di cui abbiamo parlato. E’ solo in questi, evidentemente, che potrebbero essere presenti esseri coscienti e questo spiegherebbe perché noi dobbiamo necessariamente osservare quelle particolarissime circostanze nel nostro stesso universo.

    Alcune teorie si ispirano ai tentativi di creare una teoria unificata di tutte le particelle che vanno sotto il nome di GUT (Grand Unified Theories). Si suppone che esista un insieme di campi fondamentali che soddisfano ad un certo gruppo di simmetria interna (il termine simmetria interna è usato per contrapposizione con le ordinarie proprietà di invarianza sotto trasformazioni di coordinate spazio-temporali, che sono dette di simmetria esterna). Si sceglie l’interazione tra tali campi in modo che esista uno stato detto di falso vuoto, corrispondente a valori nulli di tutti i campi e perfettamente simmetrico rispetto sia al gruppo interno che al gruppo esterno, ma a cui non compete il minimo valore dell’energia. Che esista, invece, un’altra intera classe di stati, associati al minimo assoluto dell’energia e detti di vero vuoto, che sono ancora simmetrici rispetto alla simmetria esterna, ma singolarmente violano (rompono) la simmetria interna e corrispondono a valori diversi da zero per alcuni campi detti scalari (campi che restano invarianti sotto le trasformazioni spazio temporali). Una illustrazione meccanica di come questo sia possibile è offerta dal caso di una pallina sul fondo di una bottiglia di vino di forma tradizionale, sopraelevato al centro e più basso sul cerchio di appoggio. Chiamata r la distanza della pallina dall’asse della bottiglia ed r0 il raggio del cerchio d’appoggio, esiste un'unica

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    posizione della pallina che sia simmetrica rispetto all’asse, la posizione centrale corrispondente a r = 0 ( r svolge in questo modello il ruolo del campo scalare), ma questa non è la posizione di minima energia. Sono posizioni di minima energia tutte quelle che corrispondono al cerchio di appoggio, r = r0 ≠ 0 e direzioni qualsiasi. Queste ultime si trasformano l’una nell’altra per rotazione attorno all’asse, ma non sono singolarmente invarianti.

    In una Teoria di Campo l’energia si suppone distribuita nello spazio ed espressa da una certa densità di energia funzione dei campi. Proprietà del tipo descritto hanno perciò carattere locale. Se quindi si suppone l’esistenza di un superuniverso infinitamente esteso, originariamente ovunque in uno stato di falso vuoto, secondo la Teoria Quantistica, è plausibile che transizioni dallo stato di falso vuoto ad uno stato di vero vuoto si possano verificare con probabilità finita, in modo differenziato, all’interno di regioni più o meno estese. L’energia liberata dalla transizione porterebbe allora alla creazione, all’interno di ciascuna di tali regioni, di particelle di massa non nulla e la connessa rottura della simmetria determinerebbe il costituirsi di uno spettro di masse e una differenziazione nei valori delle costanti d’interazione. Si avrebbe inoltre la costituzione, rispetto al vero vuoto, di uno stato di altissima concentrazione di energia e di materia, che simulerebbe le condizioni esistenti nel Big Bang del modello standard. In seno al superuniverso si verificherebbero cioè continuamente dei Big Bang locali, ciascuno dei quali darebbe luogo alla formazione di un diverso universo. Scegliendo in maniera opportuna l’espressione della densità di energia, si può anche fare in modo che al suddetto Big Bang possa seguire una fase inflazionaria. A seconda delle modalità di questi Big Bang si originerebbero in tal modo universi con parametri cosmologici caso per caso diversi e noi, come ho detto, non potremmo che trovarci in un universo in cui tali parametri avessero il valore appropriato per la vita. Lo stato di vero vuoto alla base dei vari universi sarebbe naturalmente caso per caso diverso. Nei modelli più semplici però, come

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    quello che abbiamo illustrato con la pallina sul fondo della bottiglia, tali stati sarebbero tutti equivalenti e quindi le proprietà generali, i rapporti tra le masse o le costanti di accoppiamento, sarebbero sempre i medesimi. In questo modo, quindi, si potrebbe risolvere il problema dei valori dei parametri cosmologici, ma non quello dei rapporti tra le costanti fondamentali. Per gruppi di simmetria interna più complessi si possono, tuttavia, costruire delle densità di energia con più classi di minimi, concepire più patern di rottura della simmetria e quindi la possibilità di un certo numero di rapporti diversi tra le costanti. Questo potrebbe suggerire anche la possibilità, pur di complicare sufficientemente il gruppo, di ottenere una gamma praticamente infinita di possibilità tra cui di nuovo dovrebbero esistere quelle del tipo richiesto.

    Un primo commento su questi modelli a molti universi potrebbe essere che, in realtà, noi non abbiamo a tutt’oggi neppure una soddisfacente teoria di grande unificazione. Cioè una teoria veramente unificata, fondata su un gruppo di simmetria attraverso una rottura del quale si possa ricostruire l’attuale modello standard delle particelle e la legata fenomenologia. Tra le varie proposte molto parziali, nessuna è esente da difficoltà, alcune possono essere escluse, nessuna ha avuto fino a questo momento conferma. Tanto maggiori sono quindi le difficoltà di formulare sulle basi indicate una teoria che abbia un minimo di sostegno sperimentale. Non si può, inoltre, considerare risolto il problema di una conciliazione della Relatività Generale e della Teoria della Gravitazione di Einstein con la Teoria Quantistica, nonostante gli sforzi profusi nella cosiddetta Teoria delle corde. Esistono, poi, serie difficoltà concettuali nell’applicare, come si vorrebbe, la Teoria Quantistica all’intero universo. Quest’ultima è infatti, secondo l’interpretazione comunemente accettata, ancora sostanzialmente una teoria a doppio livello 4.

    4 La teoria non descrive, come ho detto, un oggetto intrinsecamente ma fornisce solo la probabilità che un esperimento su di esso dia un certo risultato. Essa fa, perciò,

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    Anche ammesso che tutte le difficoltà possano essere superate e che si sia disposti ad accettare modelli così fantasiosi e la grave violazione del criterio del rasoio di Ockham che essi comportano, è chiaro, dagli stessi cenni sommari che ho fatto, quanto strutturata debba essere una teoria di questo tipo. Mi pare quindi che, per quel che qui interessa, possiamo integralmente ripetere quanto detto a proposito dell’origine della vita o dell’evoluzione secondo lo schema darwiniano. La meraviglia di fronte ad un mondo così costituito non può essere inferiore rispetto a quella che si prova di fronte alla semplice enunciazione di un principio antropico e chi sia minimamente aperto al soprannaturale difficilmente può sottrarsi alla convinzione di essere di fronte ad un disegno.

    Vorrei notare invece che un punto centrale nella ricerca di Dio è che Dio è persona. A noi non interessa tanto arrivare ad un principio unico di tutto ciò che esiste ma è fondamentale che tale principio sia una persona. Questo aspetto nella prospettiva di Tommaso emerge in forma esplicita nella convinzione che solo un’intelligenza possa essere a fondamento dell’ordine e in forma implicita nel fatto che esso deve essere causa proporzionata a tutto ciò che esiste e quindi fondamento della persona umana. Emerge anche nella linea dei gradini di perfezione, se si sia disposti ad accettare che la persona sia qualcosa di superiore all’essere inanimato, ma non mi pare che esso riceva nell’insieme la dovuta enfasi. Come diceva E. Agazzi ad un convegno di qualche decina di anni fa tenuto a Rio de Janeiro, Tommaso parla in un contesto culturale in cui l’idea di Dio è generalmente accettata. Mi sembra invece importante per l’oggi osservare che il limite vero delle Scienze della Natura sia nell’impossibilità di accedere nel loro contesto al problema della soggettività, alla comprensione del cosciente di sé. Qualunque cosa si tenti a volte di affermare in ambito materialista, questo limite compare già in modo ovvio a livello necessariamente riferimento ad un osservatore e quindi ad una parte dell’Universo che non è inclusa nella trattazione (v. nota 3).

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    fondazionale. Per costruire il suo proprio linguaggio, le sue convenzioni, precisare i suoi protocolli la Fisica deve fare, come ho detto, uso del linguaggio naturale e questo è per sé indefinibile e deve fare necessariamente appello all’esperienza del vissuto. Più in generale questa impossibilità di accedere alla nostra soggettività, viene dalla stessa scelta costitutiva, che pure ne rappresenta la forza, di restringersi alla considerazione delle sole qualità primarie che non le permette di andare oltre la terza persona.

    Alla radice del problema Riassumendo, abbiamo detto che le risposte che le Scienze

    della Natura possono dare a domande sul mondo che ci circonda sono sempre risposte aperte a nuove domande. Abbiamo detto che l’intelligibilità stessa della Natura, la possibilità di comprendere il mondo che ci circonda con la nostra ragione, aspetti più particolari che su di esso ci rivelano la Biologia e la Cosmologia, suggeriscono fortemente l’idea di un disegno e quindi di un’intelligenza. Ho cercato di mostrare che obiezioni a questa interpretazione, portate sulla base della teoria dell’evoluzione o delle teorie inflazionarie, non hanno consistenza. Ho sostenuto che esistono problemi al di là della portata delle scienze e tra questi primo fra tutti quello della nostra soggettività.

    Come ho detto nell’introduzione, non credo che da queste premesse si possa giungere all’idea di un Dio personale per via puramente logica, come forse qualcuno vorrebbe. In questo senso le vie di Tommaso, come altre argomentazioni consimili, vanno considerate appunto vie, non possono essere intese come delle dimostrazioni costrittive nel senso preciso che ho ricordato. L’appello ad un Dio personale può essere però proposto come chiave di lettura, come risposta alle fondamentali domande di cui abbiamo parlato. Esso può essere riguardato come una risposta ai problemi sollevati nello stesso senso in cui una teoria scientifica è proposta (e mai può essere

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    provata) come esplicativa di un certo insieme di fatti che cadono sotto la nostra esperienza. Con questa importante differenza tuttavia, una teoria scientifica, anche sufficientemente confermata, può essere considerata praticamente definitiva solo in un certo ambito e ad una certa scala di osservazione. Essa può essere, però, sempre superata da una teoria più comprensiva e almeno in questo senso è sempre riformabile. L’appello ad un Dio personale non pare avere alternative, almeno di fronte al problema che ho indicato della nostra interiorità. Nessuna altra risposta è stata mai data e nessuna, almeno alla nostra intelligenza, appare concepibile. Chi la rifiuta sembra condannato a dover lasciare inevitabilmente proprio le domande più fondamentali che ci riguardano senza possibilità di risposta.

    Ma ritorniamo a Tommaso e a quello che io considero il vero limite del suo percorso, per lo meno un limite per noi, un limite che viene dalla nostra sensibilità moderna e dall’ambiente culturale in cui siamo chiamati a vivere. Il Dio che noi vogliamo raggiungere non è semplicemente la causa prima o l’essere sussistente che viene dalle prime tre vie, ma è il Dio personale che ci rivela la scrittura, il Dio che noi preghiamo, in cui confidiamo. Questo fondamentale concetto è implicito, come ho detto, nella quarta via di Tommaso, nella generica idea che l’intelligenza sia qualcosa di più della pura natura inorganica, che l’intelligenza dell’uomo sia di più della semplice intelligenza animale. Lo è nella quinta via, che conduce ad un essere intelligente creatore di tutte le cose. Lo è infine nell’idea che la causa prima è all’origine anche delle nostre persone. Nonostante tutto questo, non mi pare, ripeto, abbia in Tommaso l’enfasi che avrebbe dovuto. Ed è proprio questo concetto, io ritengo, il solo veramente decisivo nel nostro cammino razionale verso Dio, il solo che possa realmente fare breccia su chi è in un atteggiamento di ricerca e su cui si possa giocare una scelta di vita.

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    Contrariamente a quanto sostenuto da neurofisiologi, anche di notevole valore, ma di impostazione materialista (ho citato il caso di F. H. Crick, potrei citare anche quello di qualche mio compatriota), a me pare assolutamente chiaro, come ho detto altre volte, che il problema del cosciente di sé, della nostra interiorità, della nostra identità personale e quindi della nostra origine, del nostro destino, non possa intrinsecamente trovare soluzione, non possa neppure essere affrontato nel contesto delle Scienze della Natura. Senza ripetere in dettaglio argomenti su cui appunto sono tornato più volte, riassumerò la mia posizione ripetendo che queste Scienze conoscono solo la terza persona, non c’è in esse posto per la prima. La descrizione che esse danno del funzionamento del nostro sistema nervoso, del nostro corpo e dei processi che in esso si verificano, non differisce sostanzialmente da quella che darebbero nel caso di un automa, di qualcosa in cui tutto avviene in modo automatico e non c’è posto per una coscienza. Noi invece abbiamo una percezione di noi stessi come qualcosa di singolare, di irripetibile, di irriducibile ad altro; qualcosa certamente di strettamente connesso con il nostro essere fisico, ma allo stesso tempo di totalmente distinto da esso.

    Quando parlo di una malattia, di un qualche problema che affligge una qualche parte del mio corpo, ne parlo come di un oggetto terzo, assolutamente con gli stessi termini ed in qualche misura con lo stesso distacco che impiegherei per la stessa malattia, lo stesso problema che riguardi un’altra persona. Quando parlo della mia sensibilità, della mia gioia, della mia sofferenza, parlo di qualcosa che avverto come veramente mio. Non ha alcuna importanza, da questo punto di vista, che tali sentimenti mi appaiano poi estrinsecamente legati all’attivazione di certe parti del mio cervello. Nello stesso momento, d’altra parte, in cui colgo la mia irripetibilità, la mia irriducibilità, avverto anche la mia precarietà. Non sono sempre stato, mi vedo esposto ad eventi che sono fuori dal mio controllo, non so quale sarà il mio futuro, anche se ho una

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    limitata capacità di influenzarlo. Ho coscienza allo stesso tempo di non poter essere un semplice scherzo del caso, anzi una tale espressione quando applicata al mio stesso essere mi appare priva di senso.

    La sola risposta che possiamo trovare nella nostra cultura alle grandi domande che più ci interessano, chi siamo? d’onde veniamo? e dove andiamo?; e ancora al problema di un fondamento per tutte le cose, dell’intelligibilità del mondo che ci circonda e del riconoscimento di un ordine, è l’appello ad un Dio personale. Si può sostenere che non ha senso porsi domande al di qua di quelle a cui si può rispondere nell’ambito e con i metodi delle Scienze; si possono tentare scappatoie che permettano di eludere il naturale riconoscimento dell’esistenza nelle cose di un ordine; si può persino sostenere che, quando abbiamo capito dal punto di vista fisico-chimico i meccanismi che operano nel nostro cervello, abbiamo capito tutto nell’uomo. Non ci possiamo opporre con strumenti puramente logici a questi atteggiamenti, se prima non ci siamo messi d’accordo su affermazioni condivise. Quello che certamente possiamo affermare, però, è che, per porsi con coerenza in quest’ultima prospettiva, è necessario censurare tutta una serie di domande e tra le domande, che sono destinate a restare senza risposta, sono proprio quelle che più ci interessano, quelle che riguardano noi stessi.

    Ma ritorniamo all’idea di un Dio personale. Esiste realmente una tale idea? quale è il suo contenuto? Credo che questa sia veramente, anche se forse raramente è espressa in questo modo, la principale difficoltà che tanti incontrano in un percorso verso Dio. E credo che qui la risposta più convincente possa venire solo dalla nostra esperienza interiore e, in ultima analisi, solo dall’apertura della mente e del cuore; in una parola, solo da un dono e solo dalla fede, che però a tutti è proposta.

    Il Dio delle prime tre vie è il principio dell’essere, la causa prima, l’essere sussistente, Colui che non può non essere. In questo senso, se noi potessimo cogliere pienamente il senso di

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    queste espressioni, non avremmo più bisogno di alcun altro argomento. Per questo molti hanno affermato che tutte le prove si riducono alla prova ontologica. Quest’ultima però, come abbiamo detto, non è riconosciuta valida, proprio perché noi non possiamo cogliere pienamente l’essere sussistente. Su questa linea sono, se ho ben capito, le antinomie di Kant, che lo spingono ad escludere il problema dall’ambito della ragion pura, per riproporlo in quello della ragion pratica. Su questa linea è mi pare B. Russell quando, chiedendosi se sia dimostrabile l’esistenza di almeno un ente, afferma che l’unica prova possibile, se fosse valida, sarebbe la prova ontologica, ma che questa non è valida perché non avrebbe senso parlare dell’esistenza di qualcosa che non si è descritto, ma solo nominato.

    Il problema si complica se vogliamo parlare del Dio personale. Ho detto che ogni persona è singolare, unica e irripetibile, ma in questo senso è da noi percepita anche come particolare e se stessa proprio in quanto distinta da altre. Ma allora in che senso può essere persona la causa prima di tutte le cose, l’essere che tutto abbraccia?

    La risposta, oltre che in Tommaso, è nel libro della Sapienza (…”dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si riconosce l’autore”. Sap 13,5), nella lettera di S. Paolo ai Romani e in S. Agostino. Noi giungiamo al creatore di tutte le cose per analogia da tutte le cose che sono. Dio è causa di tutto ciò che esiste ed è da ciò che esiste, e anche dalla percezione di qualcosa che è al di là di tutto ciò che è pensabile, che lo possiamo in qualche misura comprendere. E’ questo mi pare, di nuovo, il senso della quarta via. Dio in particolare è persona in senso analogico, è distinto da tutte le altre persone, ma non è una persona tra le tante, è invece persona, se così ci si può esprimere, in un senso che supera ed eccelle tutte le altre.

    Ma al di là di queste considerazioni astratte, ciò che più conta è che Dio è il Dio di cui abbiamo esperienza. E’ il Dio che si

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    rivela all’interno di ciascuno di noi, il Dio con cui mi pongo in comunicazione nella preghiera, il Dio a cui mi rivolgo, il Dio di cui mi metto in ascolto, il Dio che mi parla. E’ il Dio di cui ci parla la Scrittura attraverso le sue immagini ed i suoi antromorfismi, è il Dio dei profeti, che acquista spessore attraverso la sua presenza nella storia degli uomini, attraverso le prospettive verso cui li indirizza. E’ il Dio che si fa a noi vicino e si rende a noi comprensibile in Gesù Cristo, il Dio del discorso della montagna, il Dio che ci ama, che vuol essere riamato, che vuole che amiamo i nostri fratelli, che illumina di senso tutte le cose.

    E’ infine il Dio che vuol essere accolto nella fede. E la fede non è il riconoscimento astratto di una verità o di un insieme di verità, ma è adesione ad una persona, è accettare di porsi nel piano della creazione, accettare il disegno che Lui ha per noi, facendosi umili di fronte al mistero. L’essenza della fede non sta nel nostro grado di comprensione delle cose, ma nell’apertura e nella disponibilità verso la verità, nella tensione verso di essa. Credo che molte persone che, pur vivendo nell’oscurità di fronte al problema di Dio, sono onestamente in ricerca, siano più vicine a Lui di tanti di noi che magari lo riconoscono per tradizione, ma non sono pronti a compromettere la loro vita.

    E’ attraverso questa esperienza, nelle misura in cui ci è donata, ma anche in quella in cui sappiamo accoglierla, che la risposta ai problemi posti dalla nostra esistenza, dall’esistenza del mondo e da quella esigenza di senso senza cui non c’è speranza, che la nostra risposta acquista consistenza e spessore.

    In questa prospettiva mi pare particolarmente significativo un brano di Anthony Bloom sulla preghiera che mi è capitato di leggere di recente, ed è con questo che voglio concludere:

    “La preghiera è ricerca di Dio, incontro con Dio, e andare oltre quest’incontro nella comunione. E’ dunque un’attività, uno stato e anche una situazione; e si tratta di situarsi sia rispetto a Dio che

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    riguardo al creato. Essa sorge dalla presa d’atto che il mondo in cui viviamo non è semplicemente bidimensionale, imbrigliato in categorie come tempo e spazio, un piatto mondo nel quale si può incontrare solo la superficie delle cose. La preghiera nasce dalla scoperta che il mondo possiede profondità, che non siamo circondati da realtà visibili, ma siamo immersi e penetrati dall’invisibile. E questo mondo invisibile è al tempo stesso la presenza di Dio, realtà suprema e sublime, e la nostra verità più profonda. L’incontro è centrale nella preghiera. E’ la categoria basilare della rivelazione, perché la rivelazione stessa è incontro con un Dio che ci offre una visione nuova del mondo. Ogni cosa è incontro, nella Scrittura come nella vita. Incontro personale e universale, unico ed esemplare. C’è sempre un duplice aspetto in questo: incontro con Dio e in lui con tutto il creato, incontro con l’uomo nelle sue profondità radicate nella volontà creatrice di Dio, tesa al compimento, quando Dio sarà tutto in tutti. Questo incontro è personale perché ciascuno di noi deve farne personalmente l’esperienza: non è possibile viverlo per interposta persona. Ci appartiene ma al tempo stesso possiede un significato universale perché va oltre il nostro io superficiale e limitato.”

    Diálogo - Prof. Brenci: Rispondere a questa domanda perché della insorgenza della vita è impossibile per la scienza che forse può dire qualcosa sul come e sul quando già impliciti nella funzione degli elementi necessari all vivente e alle sue strutture e funzione. In seconda battuta penserei all'aspetto metabolico della vita, agli scambi con l’ambiente in cui il vivente opera e alle elaborazioni che permettono al vivente di mantenere in atto le proprie strutture e le proprie funzioni. Infine penserei alle forme di memorizzazione di tutto questo, cioè, al programma di quella forma di vita. Sicuramente la vita ha un aspetto “informazione”, memoria di determinate forme anche quelle iniziali, e di attuazione di questa informazione, complicata dal fatto che ogni vita si realizza in un determinato ambiente e che la vita, almeno per l'aspetto esterno controllabile, sembra essere una serie di scambi che può essere mediata sia da una informazione sia, direttamente da caratteristiche chimiche strutturali. Il problema della membrana, per esempio, e la formazione delle membrane rigide ha comportato -la modificazione degli ambienti e la matrice della formazione della unità della vita-.

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    Questo comporta il problema che dovrebbero esistere molecole con duplicità di funzione. All'inizio devono essersi formate quindi strutture che hanno permesso sia di registrare l'informazione che di attuare l'informazione registrata. Studiando le molecole che registrano l'informazione, una sola molecola può avere questa duplice funzione, ed è il tRNA, cioè, quella molecola che legge da una parte uno specifico aminoacido e dall'altra la memoria trascritta nel "messenger" dell'informazione registrata nel DNA nucleare.

    Forse la formazione del tRNA come adattatore degli A.A. e quindi come memoria delle proteine giunge ad un livello più evoluto del vivente. Probabilmente le prime strutture a doppia funzione metabolica e informatica sono state dei precursori del tRNA e quindi sia esatto fissare questo come momento iniziale della storia del vivente. Inoltre ad attrarre l’attenzione su possibili precursori del tRNA è il fatto che uno dei due alfabeti utilizzati dal tRNA non è basato sui soliti codoni anzi è molto diverso e suggerisce che anche i codici hanno avuto una loro evoluzione. Perché vogliamo limitare l'evoluzione alle strutture informatiche complesse che oggi osserviamo. Può darsi che siano esistite delle forme di vita primitive con codici simili a quello tRNA=Amino Acido e nessuno ci dice se prima non siano esistiti altri codici della vita e magari molecole con la doppia funzione, sia metabolica che di informazione?

    Noi siamo presuntuosi e quando troviamo qualcosa pensiamo che quel qualcosa sia universale e permanente nella storia della vita.

    Hai detto: ci restano poche centinaia di milioni di anni ma l´evoluzione non ha mai avuto velocità costante. Alcuni problemi sono stati risolti in brevissimo tempo, ma, prendiamo per esempio la mutazione fondamentale che ha portato alla formazione degli animali pluricellulari, si pensa sia avvenuta dopo un congruo numero di miliardi di anni e cioè due e mezzo dopo l’insorgere della vita sulla terra. - Prof. Prosperi: I pluricellulari?... - Prof. Brenci: I pluricellulari e la loro ottimizzazione impiegano qualcosa di più di un miliardo di anni per giungere ai primati, ma, l'ottimizzazione della successione delle monocellulari: protoforme, procarioti, eucarioti ci è costata e durata due miliardi e qualche cosa di anni. Ad ogni modo, a un certo momento sicuramente i pluricellulari sono venuti fuori, noi ne siamo un esempio evoluto ma siamo comparsi, come dice Padre Coyne, nell'ultimo minuto della giornata della vita.

    Chi ci dice che passando dai procarioti agli eucarioti non ci sia stata una mutazione genomica? Tracce ne sono in un procariota l’informazione

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    scritta su una molecolina di DNA immersa nel citoplasma mentre nell'eucariota compare un ulteriore membrana che conserva e modula l'informazione e per analogia è da supporre che i primi passi dell'evoluzione siano partiti da protoforme molto semplici che hanno impiegato tempi molto lunghi e nella lunga strada della complessizzazione, come sembra dimostrare la incapacità dell’uomo di identificare le molecole che avrebbero avuto la doppia funzione informativa e metabolica, e di problemi ce ne sono molti, e possono solo essere supposti ma non risolti. Si possono supporre tranquillamente sacche anisotrope, brodi accelerati, membrane rigide, duplicazioni molecolari, ma difficile resta determinare la successioni delle forme in questo periodo.

    Oggi ad esempio uno degli argomenti più dibattuti è propr