"tempopieno" Gennaio-Giugno 2011

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Gennaio-Giugno 2011, n. 1-2 - Anno VI Spedizione in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1 comma 2, CNS BA intercultura dialoghi d’amore

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Rivista per la Scuola, a cura dell'Ufficio Scuola dell'Arcidiocesi di Bari-Bitonto

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tempopieno

Rivista per la Scuola

Anno VI (2011) n. 1-2

Direttore Responsabile Vincenzo Legrottaglie

Direttore Don Nicola Monterisi

Registrazione Tribunale di Bari Autorizzazione n. 50 del 19/09/2006

Redazione Anna Asimi Antonio Curci Letizia Indolfi Barbara Licciulli Angelo Lopez Francesca Romana Morgese Maria Raspatelli

Segretaria di Redazione Anna Asimi

Progetto Grafico Antonio Curci

Impaginazione Angelo Lopez

Stampa Pubblicità & Stampa Modugno (Ba)

Direzione e Redazione c/o Ufficio Scuola - Corso A. De Gasperi, 274/A 70125 Bari Tel. 080.5288415/6 Fax: 080.5690230 email: [email protected] www.arcidiocesibaribitonto.it

Sommario Don Nicola Monterisi tempopieno di... Dialoghi d’amore 4

Simona Atzori La scuola che vorrei... 6

Carlo De Nitti Un pedagogista meridionale e meri-dionalista: Gaetano Santomauro

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Francesco Sofia La creazione del “clima” nell’azione didattica

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DOSSIER: Intercultura, dialoghi d’amore

Card. Dionigi Tettamanzi Dall’ospitalità delle Scritture ad una società ospitale

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Pietro Polieri Multiculturalità ed intercultura 24

Luisa Santelli Beccegato Interculturalità e comunicazione 31

Maria Raspatelli Tra identità e riconoscimento 34

Ignazio Buttitta Lingua e dialettu 38

Ferdinando G. Menga Dal “pre-giudizio” al “pregiudizio” 39

Mons. Michele Lenoci Straniero ed emigrante nella Bibbia 42

Giuseppe Capozza Verso una Educazione Planetaria 46

Pietro Basso Sul riemergere del razzismo 48

Don Tonino Bello Preghiera a Cristo 50

Antonio Sciortino Lo straniero fonte di ricchezza per tutti noi

52

Marianna Pacucci Laicità e libertà religiosa 54

Angela Martiradonna Seconde generazioni: quale cittadi-nanza?

56

K. J. Boloyan Le condizioni e le prospettive per il dialogo islamo-cristiano

59

Angela Maria Rutigliano L’insegnamento della Religione nella scuola multietnica

61

Francesco Depalo Immigrazione: i numeri intorno a noi 63

Angelita Pascual La vita in Italia di un’immigrata 65

Taysir Hasan Nato in una terra “maledetta” definita “santa”

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Sommario Don Valentino

Campanella Quando il giorno della Pentecoste giunse, tutti erano insieme nello stes-so luogo

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A cura di Vincenzo Legrottaglie

Media del territorio 72

A cura di Anna Asimi Sullo scaffale 74

A cura di Anna Asimi Giunti in redazione 77

Gregorio di Nazianzo

Discorsi teologici 78

Grazia Ricciardi Il grande Buddha 79

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Credeteci. Il tema del dossier di questo numero della rivista non è stato scelto in conseguenza di

quanto da molte settimane sta succedendo in Libia, Tunisia e altre parti dell’Africa. Il giornale

non è strutturato per inseguire la cronaca. Non ne ha le attrezzature tecnologiche, non ha il

personale per far fronte all’emergenza, ma soprattutto non è nato e non vive per questo.

Avevamo scelto il tema dell’intercultura e della multiculturalità, come sempre, quale possibilità

di approfondimento da offrire alla nostra riflessione per poterne ricavare occasioni di crescita

per noi e per le persone, eventualmente, affidate alla nostra responsabilità educativa.

L’intercultura nasce allorché un numero consistente di diverse etnie si incontra. Via via che il

tempo è passato e la mescolanza delle etnie è diventata considerevole essa è divenuta oggetto di

studio da parte di specialisti, non solo sociologi. Oggi esistono, nelle nostre università, corsi di

laurea o seminari specifici che ne approfondiscono tutti gli aspetti. E tuttavia, come emerge da

tempopieno di… Dialoghi d’amore

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più di un intervento di quanti hanno contribuito alla realizzazione di questo nume-

ro,”intercultura”, “multicultura”, “identità”, “alterità” sono termini ancora indagati nel loro

significato più profondo.

Intanto l’intercultura è vista più come problema che come risorsa, dimenticando la forma vio-

lenta per cui è sorta. Violenta, sì. E i protagonisti/responsabili di tale violenza siamo noi euro-

pei. Nelle terre dell’Africa, dell’Asia, delle Americhe (soprattutto centrale e meridionale), perfi-

no dell’Australia abbiamo depredato tutto, perfino il bene più importante, più significativo, più

sacro: la lingua. Perché gli africani del Nord dovrebbero parlare francese, quelli del Sud – unita-

mente a moltissimi asiatici – inglese; perché lo spagnolo è la lingua più diffusa nelle Americhe,

perché il portoghese…? (vedi la bella poesia di Ignazio Buttitta a pg. 38 di questo numero)

L’Europa ha conquistato violentemente i territori di tutto il mondo e ne ha soggiogato per

secoli le popolazioni. Duole constatare, da noi, l’arroganza di chi afferma che, per ora, per re-

spingerli dall’Italia non è il caso di usare le armi. Sono posizioni avvilenti, che respingiamo con

convinzione.

Né crediamo a chi parla di tsunami riferendosi agli approdi a Lampedusa dei profughi tunisini,

libici e altri. Crediamo, al contrario, che questi sbarchi sono solo le prime innocue ondate di di-

sperati che vengono a riscuotere le cambiali non onorate dagli europei da secoli, ondate inoffen-

sive che si infrangono sulla battigia.

La storia degli ultimi decenni, a tal riguardo, non la stanno scrivendo i vari ministri degli Stati

europei che, a torto o a ragione, scrivono leggi e tentano di farle applicare più o meno rigorosa-

mente. La storia di questo periodo la stanno scrivendo, secondo noi, quanti lasciano la loro vita

nel Mediterraneo a Sud della Sicilia. E sono sempre più numerosi…

Perché ciò non accada vorremmo che l’intercultura diventi occasione di dialogo d’amore.

Come sempre ringraziamo quanti hanno reso possibile la pubblicazione di questo numero della

rivista, per qualunque parte di essa hanno inviato i propri contributi.

Buona lettura.

Don Nicola Monterisi

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La scuola che vorrei…

Il mio primo incontro con il mondo della scuo-la è stato all’asilo, non a tre anni, ma a quattro perché la mamma e il papà pensarono di aspet-tare che io fossi un po’ più grande e indipen-dente per affrontare con serenità questo impor-tante passo. L’accoglienza che riservarono al desiderio dei miei genitori di farmi entrare a

contatto con l’asilo non fu dei più esaltanti. La direttrice della scuola, una religiosa, comunicò a mia mamma che avrebbero dovuto fare una riunione per decidere se io avessi potuto fre-quentare l’asilo con gli altri bambini. Fortuna-tamente, la serenità dei miei genitori ci permise di vivere questo primo “esame” con molta na-

* Danzatrice e pittrice - (www.simonarte.com)

di Simona Atzori *

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turalezza e così non diventò un grande proble-ma per noi. Il verdetto fu positivo, per grande concessione (scusate la punta di ironia, ma con il senno di poi credo che sia legittima) e così il giorno di inizio delle lezioni ci fu dato il per-messo di entrare a pieno titolo nel mondo del-la scuola. Fu chiesto a mia madre di rimanere perché poteva risultare difficile “gestire” una bimba di quattro anni senza le braccia. Con il sorriso che ci ha sempre caratterizzato e che con fierezza ci portiamo dentro da allora, io e la mamma andammo all’appuntamento. La mia spontaneità di bambina serena mi portò a scoprire subito che all’asilo c’erano i colori e si disegnava, cosa che io amavo molto già da allora e non esitai a fare un disegno e a portar-lo subito all’insegnante. Il suo stupore fu gran-de e non finì quel giorno, perché al momento del pranzo, mia mamma fu sempre invitata a rimanere. Con tranquillità mi misi a mangiare con i miei piedini e anche ad imboccare un bimbo che faceva i capricci. Dopo poco, con la stessa insistenza con cui avevano chiesto a mia madre di rimanere, le comunicarono che pote-va tranquillamente tornare a casa e lasciarmi all’asilo. Credo che quel giorno molte persone impararono cose che forse prima non immagi-navano nemmeno. In fondo la scuola è un luogo dove si imparano tante cose, mi resi conto senza saperlo che a volte ad imparare non sono solo gli alunni, ma anche gli inse-gnanti. Lo imparai molto presto, senza nem-meno rendermene conto, ma è un concetto che mi sono portata dietro per tutto il corso dei miei studi e che mi fa pensare che nella scuola che vorrei, mi piacerebbe trovare insegnanti capaci non solo di insegnare ma anche di im-parare dai propri alunni. Le elementari furono un periodo che aiutò una bambina allegra e spensierata a crescere e ad imparare molte cose, grazie ad una straordina-ria maestra. Ho imparato l’unione di una clas-se e la collaborazione, che porta insieme a cre-scere non solo nell’ambito scolastico ma anche in quello umano. Un concetto, che crescendo poi, mi è un po’ venuto a mancare. Le medie e le superiori sono stati anni sicuramente più impegnativi dal punto di vista scolastico, ma anche nell’aspetto umano. Il periodo delle superiori lo ricordo come un

periodo davvero molto difficile, dove mi è venuto a mancare moltissimo il contatto emo-tivo e l’obiettivo comune di crescita. Sentivo crescere in me le mie capacità cognitive, ma non contemporaneamente a quell’aspetto più umano e personale della crescita. Ho sofferto molto per questo e ho fatto molta fatica ad inserirmi in un contesto in cui chi ero e cosa facevo al di fuori della scuola interessava po-co. Ora, penso invece che aiutare i ragazzi a crescere come uomini e come donne sia ugual-mente importante all’aspetto formativo. Mi capita molto spesso, come parte del mio lavo-ro, di condurre incontri motivazionali anche nelle scuole, di ogni ordine e grado, e incontro ragazzi di ogni età, con una straordinaria vo-glia di scoprire i diversi mondi che hanno den-tro e di sentirsi in qualche modo poco stimola-ti a farlo. Immagino una scuola che possa aiu-tare i ragazzi proprio a scoprire le loro attitu-dini e ad aiutarli a tirare fuori la loro unicità. Ricordo con quanta difficoltà veniva accolta e concepita la mia attitudine alle arti, la danza e la pittura. Sarebbe sicuramente stato più sem-plice potermi sentire libera di sperimentare le mie arti, invece di dovermi “barcamenare” tra scuola e passione. Dove la passione diventava un hobby che poteva minacciare la parte di-dattica, invece di venire valorizzato come par-te integrante del mio modo di esprimermi. Quando vado nelle scuole, però, mi rendo anche conto di quanti passi avanti si sono fatti anche in questo senso. Anche i miei incontri sono un esempio di come si stia andando nella direzione di voler stimolare i ragazzi a trovare una propria strada e una propria motivazione e a non lasciarsi abbattere dalle difficoltà. Quando incontro presidi ed insegnanti che tengono molto a questo messaggio sono molto felice di questo e penso che sia una strada im-portante da percorrere. Nel mio percorso didattico ho avuto la fortuna di frequentare l’università sia in Italia che all’estero e quest’esperienza mi ha davvero dato molto. Ho frequentato due anni Lingue e letterature straniere all’università Cattolica di Milano per poi trasferire i miei studi all’uni-versità Western Ontario in Canada dove mi sono laureata in Visual Arts nel 2001. Entram-be le esperienze sono state importanti sia da

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un punto di vista didattico che umano. Ho potuto anche vivere sulla mia pelle le differen-ze e benché la mia esperienza universitaria italiana sia stata piena di soddisfazioni, la mia esperienza canadese è stata per me fondamen-tale. Arrivata in Canada, ho pensato che, come tanti anni prima all’asilo, avrei dovuto ottenere un’approvazione per entrare all’università. A parte l’esame di inglese e l’iscrizione a loro non serviva altro. Ero uno studente come gli altri, non gli importava quante braccia avessi e da dove provenissi. Sono sincera, mi sono sen-tita libera da giudizi, sguardi e problemi im-posti a priori. E’ stato un punto di partenza fondamentale per la mia crescita nel mondo degli adulti. Anche la libertà di movimento, senza bar-riere architettoniche mi ha dato una forza e una grinta positiva che ancora mi porto dietro. La possibilità di vivere in un paese multiculturale è stato un altro grande insegnamento. Guardo la scuola di ora piena di persone provenienti da tante culture e con religioni diverse e rivedo i miei anni canadesi che mi hanno inse-gnato il rispetto per l’altro in tutti i sensi. Ho imparato, oltre ai miei studi, a vivere e a crescere insie-me agli altri, a comunicare la bel-lezza delle nostre diversità. Ho imparato il valore grande e im-portante della diversità dell’esse-re umano. Da questa esperienza mi sono accorta che nel mio per-corso scolastico avevo sempre cercato di sentirmi uguale agli altri. Volevo amalgamarmi più che potevo, e non ho mai sentito da parte degli insegnanti un aiuto a tirare fuori invece la mia unicità, di studente e di essere umano. Dalla mia esperienza canadese, sono tornata in Italia con la con-vinzione e la sicurezza che la mia diversità era invece la forza più

grande che io potessi avere. Ed è questo che cerco di dire ai ragazzi che incontro nelle scuo-le e ai loro insegnanti. L’insegnamento deve essere un percorso per crescere in tutti i sensi, per scoprire i propri talenti e anche le proprie debolezze, perché non è detto che quelle debo-lezze debbano essere per forza una negatività, anzi a volte è proprio da ciò che ci manca che possiamo trarre il meglio di noi. Cerco di co-municare l’importanza di credere che la cresci-ta interiore non può essere divisa dalla crescita didattica e viceversa. Cerco di trasmettere che da un insegnamento della positività può solo nascere altra positività e voglia di sentirsi mi-gliori in tutti i sensi.

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Riflettere su alcuni tra i numerosi spunti che la figura di pedagogista, meridionale e meridio-nalista, di Gaetano San-tomauro (1923-1976) offre a tutti coloro i quali vogliano com-prendere il dibattito pedagogico dei nostri anni sia nella dimensio-ne teoretica sia in quel-la storiografica è l’in-tenzione che le righe che seguono, pur nella loro brevità, hanno l’ambizione di non far fallire. Ripensare, a distanza di oltre trent’anni dalla sua morte prematura, all’itinerario teoretico attraverso il quale si è sviluppata la riflessione pedagogica di Santo-mauro non ha la sua ragione di essere soltanto nella volontà storiografica di studiare uno dei più illustri pedagogisti meridionali del ‘900, ma soprattutto nella rilettura criticamente so-stenuta delle tematiche da lui affrontate ancora attuali nella temperie culturale che vive la scuola di oggi. E’ questo l’interesse squisitamente teoretico che ha mosso chi scrive nell’avvicinarsi alla lettura del volume di Riccardo Pagano, Il pen-siero pedagogico di Gaetano Santomauro, edito nel 2008 dalla Casa Editrice La Scuola. I nuclei tematici intorno ai quali R. Pagano si sofferma sono: la pedagogia tra teoresi e storicità (cap. I), l’educazione morale (cap. II), la pedagogia sociale come pedagogia “impegnata” (cap. III), l’educazione ed il Mezzogiorno nel momento

di passaggio dalla civil-tà contadina a quella industriale (cap. IV). Ripensare questi temi del pensiero di Santo-mauro, mediante la co-struzione di un itinera-rio di ricerca all’interno delle sue opere, significa accostarsi al pensiero di un Maestro di ispirazio-ne meridionalista e per-sonalista: di un persona-lismo peculiare che «non è dogmatico ma neanche tendenzialmen-te scettico o relativista. E’ un personalismo rea-listico, che ha nella per-sona la misura delle cose e che nella persona ritrova il giusto equili-brio tra l’ansia del tra-

scendente ed il qui ed ora»1. Essi, per il Nostro, erano la scuola e la società meridionali della seconda metà del XX secolo ed il ruolo che la prima aveva il dovere di svolgere per il riscatto culturale, sociale, civile ed economico della seconda. Il suo impegno sociale in favore del Mezzogiorno fu costante ed accompagnò la sua riflessione teoretica e la sua azione pedagogica a tutto tondo: non a caso, fu vicino ad un altro grande pedagogista pugliese, Giovanni Modu-gno (1880 – 1957)2, ed intrattenne rapporti, anche epistolari con uno dei più grandi statisti che l’Italia abbia mai avuto, Aldo Moro3. Il lascito migliore della riflessione pedagogica di Santomauro, la cui prematura scomparsa ne ha impedito ulteriori sviluppi - l’eredità che lo fa essere nostro contemporaneo di uomini di scuola del Terzo Millennio - è, «la sua fiducia

Un pedagogista meridionale e meridionalista: Gaetano Santomauro

* Dirigente scolastico- Scuola Secondaria di I Grado “Giovanni Pascoli” - Bari

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di Carlo De Nitti *

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inconcussa nell’educa-zione e nel suo ruolo positivo e propulsivo nella socie-tà, la sua s p e r a n z a nell’educa-zione non in maniera fideistica né in forma i n g e n u a -mente otti-mistica, ma in forma consapevo-

le, responsabile, lucidamente ancorata al tem-po storico e alla condizione umana»4. Particolarmente interessante ed euristica è, a distanza di quasi cinquant’anni dalla sua pri-ma pubblicazione, in quest’ottica, la rilettura dell’opera principale della pur vasta produzio-ne scientifica del Nostro, Per una pedagogia in situazione (Brescia 1967, La Scuola), purché la si affronti utilizzandola come chiave di lettura critica e propositiva delle problematiche dell’oggi. «La pedagogia in situazione non è una pedago-gia relativistica (o nichilistica) che si smarrisce nella realtà o la ratifica, ma è una pedagogia ermeneutica, in quanto – spiega Pagano - assu-me il carattere, da un lato, ‘noetico’ perché sollecita la ricerca pedagogica a trovare i prin-cipi categoriali con i quali ‘leggere’, ‘spiegare’, ‘comprendere’ le cose, i fatti, le situazioni, e, dall’altro lato, storico-dialettico, perché spinge il pedagogista ad uscire dalle assolutizzazioni e a cercare mediazioni, a cogliere le reali possi-bilità di un processo educativo. E’ una pedago-gia forte nei suoi principi, ma pronta a mettersi in discussione quando avverte i limiti ed i ri-schi di una deriva integralista e fondamentali-sta. E’ una pedagogia che vuole operare nel mondo e con esso continuamente rinnovarsi”5. E’ la scommessa pedagogica di chi opera nella

scuola del XXI secolo: formare persone compe-tenti nell’umano significa educare «alla respon-sabilità, alla partecipazione, alla solidarietà, alla tolleranza, al rispetto della tradizione, all’inclusione contro l’esclusione, al dialogo, alla prossimità, al realismo, alla comprensione del sé storico»6. Negli anni ‘60/’70 del XX secolo, per Santo-mauro, praticare una pedagogia in situazione significava difendere le peculiarità valoriali della civiltà contadina pugliese e meridionale dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione spersonalizzante ed alienante. Non è difficile invenire nell’impegno mai disgiunto di ricerca teoretica e attività sociale da parte di Santo-mauro, - consegnato a volumi come Civiltà ed educazione nel mondo contadino meridionale (1959), Il senso di una pedagogia impegnata (1963) e Problemi educativi e programmazione nel Mezzo-giorno (1964) ed alle azioni per la scuola meri-dionale come Consulente tecnico dell’Ente Riforma e come membro della delegazione italiana presso l’UNESCO7 - i fondamenti teo-retici e sociali per l’impegno delle persone di scuola contro la spersonalizzazione di una so-cietà postindustriale, globalizzata, che tende ad omologare idee, comportamenti, usi, costumi, linguaggi, impoverendo o svellendo le tradi-zioni e modificando gli stili di vita degli uomi-ni, delle donne e dei bambini nella prospettiva sempre ‘allettante’ dell’incremento dei consu-mi, finalizzato alla produzione ed ad un profit-to spesso fuori controllo. Praticare oggi una pedagogia in situazione significa riconoscere nelle azioni concrete la dignità di ogni persona umana e determinare la necessità di elaborare e di definire itinerari operativi di “educazione compensativa”, di recupero delle situazioni di emarginazione. Tale riconoscimento è la cifra caratterizzante la cultura occidentale: la dignità dell’uomo defi-nisce il suo essere persona ed il fine dell’educa-zione di cui è protagonista. Per la scuola, non è possibile leggere, conoscere ed educare le varie condizioni umane se non nell’ottica dell’acco-glienza e della promozione di ogni persona, di tutti e di ciascuno, soprattutto di quelle con-trassegnate dall’emarginazione e dell’insucces-

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so, che non sono soltanto scolastici, ma anche e soprattutto sociali e civili, anche, se non soprat-tutto, per una serie di ragioni sociali, storiche, economiche e politiche, che non è, in questa sede, dato di indagare ed approfondire, nel Mezzogiorno d’Italia. Operare quotidianamen-te nella scuola sta a dire porre in essere ogni giorno la pedagogia impegnata in situazione, che non è né può diventare pedagogia della situazione. «Santomauro era però parimenti persuaso che il sapere pedagogico, se voleva salvare la sua fecondità storica, doveva evitare di scadere su posizioni parziali, arbitrarie e deformanti. In altri termini, solo attraverso una forte tensione critica, sarebbe stato possibile salvare una corretta tensione storico-esistenziale»8. La scoperta della dimensione compensativa dell’educazione nella scuola è abbastanza re-cente e riguarda tutti i “diversi”: gli svantag-giati, i diversamente abili, gli stranieri ma an-che i geni. Ogni persona, in quanto tale, è unica

ed irripetibile (individua substantia rationalis naturae, ricorda la tradizione tomistica): la cate-goria della diversità - e non della semplice dif-ferenza - consente alla scuola come comunità educante di valorizzarne ogni esperienza di vita, in un processo di reciproco arricchimento spirituale, foriero dell’estensione dei diritti di cittadinanza, delle opportunità formative e della valorizzazione delle intelligenze multiple, per dirla con Gardner. Ogni diversità arricchisce di esperienze e di valori la classe in cui sono inseriti alunni ‘diversi’ e la comunità scolastica tutta in un rapporto che non può che essere dialogico e di interazione: il rapporto tra alunni ‘diversi’ e totalità dei discenti può essere paragonato a quello, celeberrimo, della colomba con l’aria, di cui parla Kant. L’aria/classe comune, che pure oppone resistenza alle ali che la fendono, è indispensabile: senza di essa, nel vuoto, la co-lomba/allievo ‘diverso’ non potrebbe volare9. La personalizzazione del processo didattico,

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attraverso la valorizzazione delle attitudini e delle vocazioni della persona alunno, è la filo-sofia ispiratrice del processo riformatore: favo-rire la crescita della persona nel rispetto dei ritmi dell’età evolutiva, delle differenze e dell’identità di ciascuno, delle scelte educative delle famiglie nel quadro della cooperazione tra scuole e genitori. Tutti i documenti programmatici implementa-no, tanto come orizzonte valoriale quanto co-me concreta prassi di insegnamento, la filosofia della persona. Personalizzare l’insegnamento significa ‘curvarlo’ sulle necessità e sulle esi-genze di apprendimento di ogni singolo allie-vo; significa non progettare curricoli ma co-struire Piani di studio personalizzati, declinati sulle potenzialità effettive degli alunni in carne ed ossa, affidati alle ‘cure’ della singola équipe docente, in sinergia con le famiglie per rendere possi-bile il successo formativo di tutti, per ridur-re/rimuovere gli insuccessi e per promuove-re le eccellenze. Il ruolo della famiglia e delle sue scelte edu-cative è fonda-mentale per indirizzare le strategie delle scuole nella lettura del proprio contesto e nell’organizza-zione dei propri servizi, pensati nella previsio-ne di tempi eterocroni di apprendimento. Soltanto attraverso la personalizzazione dell’insegnamento è possibile per i discenti e per le loro famiglie essere protagonisti della vita e del governo delle istituzioni scolastiche e non esserne coinvolti soltanto come destinatari di offerte formative pensate da altri, secondo la filosofia della sussidiarietà orizzontale e verti-

cale. In quest’ottica, la risposta ai bisogni dei cittadini - i genitori ed i discenti delle istituzio-ni scolastiche - deve essere fornita dalle istitu-zioni e/o da enti ed associazioni a loro più vicine, al fine di avere tanto una maggiore effi-cacia quanto una migliore efficienza nell’eroga-zione e nella fruizione del servizio, evitando sprechi di risorse. Al fine di personalizzare gli apprendimenti, nelle scuole del primo ciclo di istruzione, è possibile creare le condizioni affinché si svilup-pino forme di sperimentazione fondate sull’im-parare facendo (learning by doing)10, mediante l’attivazione di laboratori (per gruppi di alunni della stessa classe, di classi diverse, parallele o in verticale). Essi consentono di superare il vecchio schema didattico lezione/verifica/lezione fondato sulla comunicazione logocen-

trica, per attin-gere ad una pratica della m e t o d o l o g i a educativa fon-data sul lavoro (l’etimo di labo-ratorium richia-ma il verbo l ab o ra r e ) e sull’esperienza, che stimolano negli alunni/e la socializzazio-ne e la relazio-nalità, le carat-teristiche tipi-che più proprie dell’essere per-

sona che si colloca nel mondo. I laboratori non sono soltanto uno spazio di-dattico diverso dall’aula tradizionale, ma una modalità di apprendimento fondata su dimen-sioni altre dell’insegnare, consente di consegui-re in modo efficace tanto gli obiettivi formativi quanto gli obiettivi specifici di apprendimento, afferenti il sapere (conoscenze), il saper fare (abilità), il saper essere (comportamenti e com-petenze) poiché essa promuove linguaggi plu-

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rimi e non soltanto quelli “dal collo in su”. Questa opzione teoretica per la laboratorialità colloca la prospettiva delle scuole del primo ciclo sulla medesima linea pedagogica e meto-dologica che, all’inizio del Novecento, era pro-posta in modo dirompente dall’attivismo peda-gogico: da Dewey, alle sorelle Agazzi, da Ma-ria Montessori a Claparède, da Freinet a De-croly (a cui Santomauro dedicò una monogra-fia nel 1964) nella direzione dell’ampliamento dell’offerta formativa e delle opportunità di apprendimento per i bambini, i ragazzi, i gio-vani ma anche gli adulti di tutte le età interes-sati a crescere, a migliorare se stessi ed a riqua-lificarsi in un mondo in continua trasformazio-ne. La personalizzazione ed il learning by doing devono avere il ruolo di stimolare tutta la so-cietà a riconoscere le finalità sociali ed i valori che persegue la scuola: è questa una tra le tante lezioni che la “voce” di Gaetano Santomauro può impartire alla scuola di oggi: «Saldamente ancorata ai principi ed al metodo della demo-crazia sostanziale, che trova il proprio cardine nel pieno riconoscimento del valore, della di-gnità, della libertà dei diritti dell’uomo, la scuola, da noi auspicata, dovrebbe rappresen-tare, nel contesto delle istituzioni e della dina-mica socioculturale, una ‘forza’ di pressione,

tendente ad ottenere un più ampio riconoscimen-to sociale delle finalità e dei valori che essa perse-gue ed una loro più at-tuosa e viva presenza nel tessuto connettivo delle singole istituzioni sociali, affinché queste, progre-dendo, riflettano sempre più autenticamente la loro essenziale misura umana»11.

1Riccardo Pagano, Il pen-siero pedagogico di Gaetano Santomauro, Brescia 2008, La Scuola, p. 6 2Sui rapporti tra Santo-

mauro e Modugno, si può vedere Gaetano San-tomauro, Giovanni Modugno attraverso gli inedi-ti, “Rassegna Pugliese”, 1969, 45 3La scuola materna statale, istituita ai sensi della L. 444 del 18.03.1968 - che consentì a tanti bambini che abitavano in piccoli comuni, so-prattutto dell’Italia meridionale, che non ave-vano la possibilità economica di finanziare le scuole comunali – nacque grazie all’impegno profuso da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri, Aldo Moro (Governo Moro III), d’intesa con il Ministro della P.I., on. Luigi Gui 4Riccardo Pagano, Op. cit., p. 14 5Riccardo Pagano, Op. cit., p. 134 6Riccardo Pagano, Op. cit., p. 140 7Cfr. Riccardo Pagano, Op. cit., pp. 145 – 157 8Luciano Pazzaglia, Sapere pedagogico e istanze della società nell’impegno di Gaetano Santomauro, “Quaderni del Dipartimento di Scienze Peda-gogiche e Didattiche”, VII, gennaio luglio 2002, 3, pp. 42-43 9Cfr. Giuseppe Bertagna, Sergio Govi, Marisa Pavone, POF, Autonomia delle scuole e offerta formativa, Brescia, 2001, La Scuola, p. 239 10“Omnia agenda agendo discantur” aveva scritto, nel XVII secolo, il grande pedagogista moravo Comenius 11Gaetano Santomauro Problemi educativi e pro-grammazione nel Mezzogiorno, Lecce 1964, Milel-la, pp. 166 - 167

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Premessa Il termine clima dal greco antico klino (piego, incli-no…) in senso figurato signifi-ca creare condi-zioni, atteggia-menti, situazio-ni mentali e morali declinan-dole secondo le necessità am-bientali. Nella relazione dialogica, so-prattutto in quella educativa della scuola, significa elaborazione di una si-tuazione di accomodamento derivante da infe-renze positive provocatrici di tranquillità psi-cologica. Tale ambience lo riconosciamo favorevole per-ché si instaurano situazioni in cui il soggetto non si avvale della sua capacità di sbarramento escludente, né di aggressività difensiva per autodifendersi, ma si espande. Soddisfazione emergente e profitto percepito: i due elementi indispensabili perché la persona impieghi le sue energie verso nuove esplora-zioni. Anche nel caso di insuccesso il soggetto si affida, perché ha fiducia negli interventi dell’adulto provocatore di positività. Il “clima favorevole” nell’azione educativa è quindi fondamentale per la realizzazione della positività. Positività naturale e positività professionale Relativamente alla gestione del clima c’è diffe-renza tra nucleo familiare e altre situazioni educative che ad esso si affiancano.

Infatti, mentre nella famiglia l’affettività è prodotta dal legame natura-le, per cui è connaturata fin dall’inizio alla relazione geni-toriale, nelle altre situazioni, per la creazione del clima favo-revole, devono essere appron-tate iniziative specifiche pro-dotte con com-

petenza psicologica, secondo i risultati delle scienze della formazione. L’estraneità tra i soggetti e la pregiudiziale del mantenimento dell’oggettività, senza preferen-ze, è segno di un rapporto equilibrato nella diade e nel gruppo; e ciò è indispensabile affin-ché l’emotività, che si alimenta all’interno della rete relazionale, seppure empatica, non vanifi-chi la creazione del clima positivo. La positività agita Il clima favorevole, prodotto dalla relazione positiva, secondo i criteri della reciprocità, si realizza se sono stati rispettati alcuni canoni. a) Il conflitto agito e sorvegliato disponga all’auto-nomia La conflittualità nasce fin dai primi anni di vita, all’interno della relazione genitoriale pro-prio in quanto asimmetrica. L’opposizione è il giuoco di forza che dilata l’affermazione dell’i-dentità: i minori coinvolti si autoaffermano e così si dichiarano e si distinguono. Nell’adole-scenza l’opposizione assume ancora grande

La creazione del “clima” nell’azione didattica

* Pedagogista

di Francesco Sofia *

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importanza perché, con l’identificazione-del-sé, permette la definizione dell’identità di ge-nere. Se il “no” infantile è a fondamento del primo distacco e partecipa attivamente alla costituzio-ne della fisionomia personale, l’opposizione adolescenziale, dichiarata attraverso i conflitti, sottolinea e stabilizza l’indipendenza della coscienza-di-sé. Quindi ben venga il conflitto che conclama le differenze e prelude all’autonomia. Il conflitto governato domina e non mortifica la qualità delle differenze. Per questo è indispen-sabile che gli insegnanti abbiano cura di tale processo attraverso dinamiche opportune di gruppo, per l’educazione alla convivenza: così i minori avviano consapevolmente la ricerca del loro “senso”, poiché il proprio progetto non può idearsi senza la consapevolezza del sé; si tratta del preludio alla libertà personale e all’accettazione dell’altro. E’ la prima regola della convivenza pacifica, del clima di rispetto e di equilibrio. L’esperienza scolastica di con-fronto e di relazione, ove risultasse fallimenta-re, non preluderebbe ad una vita adulta co-sciente delle proprie positività verso se stessi e verso il mondo esterno. b) L’azione proiettiva disinneschi i traumi Si intende per “trauma” ogni alterazione dello stato psichico e mentale stabilizzata, provocata da input negativi. I conflitti non superati sono anch’essi una pro-vocazione di trauma. Se l’educatore non intercetta tale stato, che potrebbe manifestarsi con lo sbarramento o con l’autoesclusione oppure ancora con l’aggressi-vità, il processo educativo segnerebbe il passo provocando regressione. L’espansione psico-mentale dei soggetti non si verifica se urta contro ostacoli anche solo in-consci. Il ritardo negli apprendimenti, l’appli-cazione discontinua, la noia, il deficit di atten-zione ne sono segnali importanti. La demotivazione non è una scelta, è solo una conseguenza. Se agli effetti di un trauma si aggiungono giudizi negativi assoluti sul profit-to, senza che si indichino e si attivino itinerari risolutivi con soddisfazione, sarà conseguente

l’aggravarsi del fenomeno e la sua involuzione irreversibile. c) Impedire la soggezione Lo stato di soggezione non può confondersi con la timidezza, perché non è una caratteristi-ca temperamentale. Essa è passività causata solitamente dalla prevaricazione da parte di soggetti assoggettanti. Infatti, se alla prevari-cazione di A non si oppone il contrasto di B, quest’ultimo si accomoda, soggiace perché rinunzia all’autoaffermazione; potrebbe anche rimuovere la causa e autoconvincersi di essere incapace. Il silenzio, l’appartarsi, il non-intervento spesso sono il segno di una soggezione che si è stabi-lizzata. d) “No!” e “io!” preludono “sì!” e “noi!” Dalle due categorie infantili, governate e favo-rite nell’evoluzione dalla reciprocità, i soggetti si avviano verso la loro espansione. Così si assicura il superamento dell’autorefe-renzialità e dell’incapsulamento nel “barattolo identitario”. L’evoluzione, invece, si articola in un’ascesa che, partendo da A si estende verso E (livello più alto); processo che possiamo così schema-tizzare: E. espansione D. affettività - reciprocità

C. accoglimento delle differenze B. dinamica identitaria A. dialettica dell’affermazione Questa scala dell’affettività ascensionale, con una dinamica espansiva ascensionale dell’auto-nomia, consente il rispetto dell’alterità. Infatti il clima favorevole è impensabile senza il rappor-to equilibrato nella relazione. Come nel campo sociale e nei rapporti interna-zionali l’autonomia politica e la democrazia non si esportano, ma si conquistano con l’as-sunzione di responsabilità nell’esercizio della propria libertà, così, per i singoli la libertà, come espressione della pienezza-dell’essere, è frutto delle parole confrontate, dei tempi con-divisi, delle attenzioni reciproche e della positi-vità interscambiata. L’armonia dell’essere è il prodotto tra assonan-ze e dissonanze, armonia di voci plurime, di

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piano e forte, di lento e veloce, di andante e allegro, di moderato e solenne. Eppure l’autonomia non è la sostanza, ma la cornice entro cui la scena esistenziale non è la riproduzione ma la libertà originale, e la pro-fondità non è finzione prospettica. L’evoluzione dell’essere si attua nell’attesa propiziata dal clima di cui sono primi artefici gli educatori. Avranno la capacità di stupirsi? Se sperano, allora sì. Il clima si crea perché la libertà non è concessa ma viene riconosciuta nel suo farsi, nella proporzionalità tra il sé ed il mondo ad esso esterno. Entrare in classe abbandonando il pregiudizio: gli insegnanti generalmente vengono predispo-sti dal consiglio dei colleghi più anziani che bramano di “metterli in guardia”. Si tratta di entrare nell’aula come se ogni allie-vo sia solo, con nome e cognome, storia e atte-se. E poi sopraggiungano gli altri, uno ad uno: l’aula si popola. Ma è come se ci fosse un solo alunno davanti a te: lui e non altri, mentre la diade si moltiplica e diciamo pure che si molti-plica l’energia e la dinamica crea il clima favo-revole. Solo se c’è benessere mentale c’è ap-

prendimento. Queste riflessioni vorrebbero contribuire a fondare una filosofia dell’insegnamento con cui nutrire l’azione didattica. Essa crea i presup-posti della pedagogia della salute perché modifi-ca l’atteggiamento mentale verso la positività pregiudiziale dell’alunno. E’ la prospettiva da cui diventa più agevole individuare ed arginare il disagio, favorire la motivazione e la disponibilità dei soggetti affi-dati verso la novità. Da tale posizione di visua-le l’operazione di disincapsulazione degli indi-vidui diventa più facile. Un esempio chiarissimo lo possiamo desumere dai giudizi valutativi: se l’insegnante più che esprimere un voto (così si dice, e comunque così si è ritornati ad indicare!) in base agli erro-ri commessi e al loro numero (!), lo annota in base “alle cose giuste”, allora dimostrerebbe che la sua attenzione è davvero rivolta al pro-cesso positivo e non alla “caccia” all’errore. In conclusione il clima favorevole non è effetto dell’esteriorità ma dei convincimenti produt-tori di azioni e relazioni positive.

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Per gentile concessione dell’Autore, che rin-graziamo, pubblichiamo uno stralcio della lezione da lui tenuta nella Cattedrale di Vicen-za il 28 maggio 2010.

DALLA BIBBIA ALLA NOSTRA SOCIETA’ Vi è un’icona singolarmente evocativa da cui vorrei partire per questa mia riflessione sull’o-spitalità. Un’icona che illustra bene anche l’eti-mologia del nostro vocabolo ospite, che deriva da due radici delle lingue indoeuropee: la radi-ce hos/host ovvero «pellegrino, forestiero» e la radice pa-/pati cioè «sostenere, proteggere». L’ospite sarebbe dunque «colui che sostiene o dà da mangiare ai pellegrini, ai forestieri». L’ospitalità di Abramo L’icona biblica che ci svela il senso profondo e insieme originale e affascinante dell’ospitalità (secondo il disegno di Dio e quindi secondo la natura e il dinamismo stessi dell’uomo) si tro-va nel capitolo XVIII di Genesi, dove Abramo viene presentato nella sua generosità di ospite (Gen 18,1-8). Nell’ora più calda del giorno Abramo vede passare tre personaggi sconosciuti, che il narratore ci fa intuire essere un “signore” e due accompagnatori. Corre loro incontro, si prostra e li accoglie con tutte le premure nella sua tenda. Dal momento che i tre ac-consentono di fermarsi da lui, Abramo or-ganizza - da efficiente capo-famiglia – l’o-spitalità. […]. Dopo aver mangiato, il per-sonaggio – che rimane senza nome –, quasi come ricompensa dell’ospitalità ricevuta, fa questa promessa ad Abramo: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio». Quel figlio dovrà essere chiamato Isacco. Per questo il narra-tore annota che Sara, stando a origliare all’ingresso della tenda, essendo ormai

oltre l’età di partorire, sorride (“isaccheggia” dovremmo dire in italiano, coniando un neolo-gismo per richiamare in questo sorriso il nome stesso di Isacco). A questo punto il narratore lascia cadere ogni indugio e dà il nome a quel signore con i suoi due accompagnatori: è il Signore stesso, Ado-nài, che conferma ad Abramo: «Perché Sara ha riso (“isaccheggiato”) dicendo: “Potrò davvero partorire, mentre sono vecchia”? C’è qualche cosa d’impossibile per il Signore (Adonài)? Al tempo fissato tornerò da te tra un anno e Sara avrà un figlio». […] Vorrei rilevare come la singolarità e la bellezza della pagina di Genesi stanno proprio nell’in-contro, nella fusione di questi due motivi: l’o-spitalità e la promessa di un figlio, l’accoglien-za dell’altro e il dono che si riceve, come a dire che la “fecondità” (che possiamo intendere nel suo senso più vasto di vita e di pienezza di vita) è il frutto dell’ospitalità. I due motivi e il loro intrecciarsi – che peraltro sono presenti anche in non poche tradizioni extra-bibliche - avranno una singolare eco nel seguito della

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Dall’ospitalità delle Scritture ad una società ospitale

* Arcivescovo di Milano

di S.E. Dionigi Card. Tettamanzi *

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rivelazione biblica, giungendo sino alla loro straordinaria interpretazione cristologica: con l’ospitalità il discepolo – e in un certo senso ogni uomo – accoglie Cristo stesso. Così la pri-ma parte del racconto di Genesi, che presenta l’ospitalità di Abramo (vv.1-8), offre alla Lette-ra agli Ebrei questo spunto esortativo: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli» (Eb 13,2). Il midrāsh dice qualcosa di analogo, anno-tando che Abramo considerava il dovere dell’ospitalità più importante del dovere di accogliere la shekinà (ovvero la presenza di Dio stesso). E’ quanto afferma in modo sorpren-dente il Vangelo di Giovanni: «Chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato» (Gv 13,20). E, più in generale ma nello stesso tempo in maniera più significativa e stimolante, pren-dendo come esempio il “nulla” in cui era consi-derato il bambino piccolo nella cultura di quel tempo, il Vangelo di Marco afferma: «Chi acco-glie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9,37). […]Secondo il Vangelo l’accoglienza del fratello – in specie del fratello bisognoso di cibo e bevan-da, di vestito, di salute, di patria, di libertà, ecc. – è una specie di “sacramento”, ossia segno visibile e luogo vivo e concreto di accoglienza di Cristo stesso. E’ lo straordinario e inaudito messaggio che ci viene dalla parola stessa del Signore, che Matteo situa nel racconto del giu-dizio finale: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). «Questa pagina - scriveva papa Wojtyla (Novo millennio ineunte, n. 49) - non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo. Su questa pagina, non meno che sul versante dell’ortodossia, la Chiesa misura la sua fedeltà di Sposa di Cristo». L’ospitalità, l’accoglienza è questione di fede, e non sempli-cemente questione di carità! Possiamo riprendere la riflessione sull’acco-glienza del fratello spostando il nostro sguardo dal “frutto” che essa produce alla “radice” da

cui essa è generata e alimentata. In questo sen-so l’accoglienza dell’altro da parte del discepo-lo – anzi di ogni uomo - ha la sua radice prima e la sua stessa possibilità di realizzarsi nel fatto che Dio stesso - con la creazione e con il miste-ro del Verbo che si fa carne umana - “accoglie”, genera uno “spazio di ospitalità” nei riguardi del discepolo, dell’uomo: questi può accogliere l’altro perché lui stesso è stato e viene accolto da Dio! […] L’ospitalità nella sua anima biblica […] La Bibbia è un testo lontano millenni dal nostro tempo: quale attualità può rivendicare? E’ lontano il testo biblico non solo cronologica-mente, ma anche e non meno nelle forme della vita sociale e della sensibilità culturale: quale sintonia può esserci con noi? […] Non c’è dub-bio che i problemi umani - soprattutto sotto il profilo di una convivenza che necessita di leggi e di precise norme positive - non possono tro-vare nel testo sacro indicazioni specifiche e regolamenti immediatamente applicabili alle nostre situazioni storiche. Sono consapevole della vastità e della complessità del fenomeno dell’immigrazione oggi, che comprensibilmen-te genera non pochi problemi di ordine pubbli-co, di risorse, di integrazione… Mi domando: sta davvero qui il cuore della questione? Per la nostra società gli immigrati sono un problema solo perché sono troppi? Oppure ci fanno pau-ra in quanto “stranieri”? Confessiamolo: quanti italiani teniamo ai margini perché in qualche modo “stranieri”, diversi da noi? Penso ai ma-lati gravi - e tra loro a quelli che soffrono pato-logie psichiche -, ai carcerati, ai barboni, ai por-tatori di handicap, agli anziani… Circa queste persone la Bibbia ha una parola preziosa e ci aiuta ad andare alla radice: l’immigrato è per noi un problema perché è uno “straniero”! Una lettura più penetrante delle sacre Scritture ci sospinge nello spazio della coscienza morale, dell’ethos inteso come intenzionalità, sentimen-to, adesione alla verità e ai valori veramente e pienamente umani. E’ a questo livello più pro-fondo e più personale e personalizzante che ci rimandano le Scritture e così esse diventano, anche per noi oggi, un richiamo originale e forte alla “norma fondamentale”, quella che sta

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alla base di tutti i comportamenti di una ospi-talità che vuole e deve essere coerente con la persona umana. Ora possiamo dire, in termini estremamente sintetici, che questa norma ripo-sa: 1) sulla dignità personale di tutti gli esseri umani e di ciascuno di essi, dappertutto e sem-pre; 2) sulla relazionalità come DNA strutturale-dinamico-finalistico della persona, quale “io” aperto al “tu” nel duplice senso dell’essere “con” e “per” l’altro; 3) sulla moralità secondo le esigenze della giustizia e della carità. Una simile norma, che di per sé è conoscibile e riconoscibile dalla ragione e dalla libertà uma-ne, trova la sua illumina-zione compiu-ta nella rinno-vata lettura che proviene dalla rivela-zione biblica e dalla fede cristiana: la dignità perso-nale è quella propria della persona come “immagine di Dio”; la rela-zionalità in-terpersonale si radica e fruttifica sulla comu-nione che esiste in Dio, nel mistero della sua Unità e Trinità; la moralità è quella che riposa sulla “carità”, sulla partecipazione cioè me-diante lo Spirito all’amore stesso che Dio in Cristo ha per noi. […] Leggiamo nella Costitu-zione Gaudium et spes: «Dio, che ha cura pater-na di tutti, ha voluto che gli uomini formassero una sola famiglia e si trattassero tra loro con animo di fratelli… Perciò l’amore di Dio e del prossimo è il primo e più grande comanda-mento… Ciò si rivela di grande importanza per uomini sempre più dipendenti gli uni dagli altri e per un mondo che va sempre più verso l’unificazione. Anzi il Signore Gesù quando prega il Padre, perché ‘tutti siano uno, come anche noi siamo uno’ (Gv 17,21-22) mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’u-nione delle persone divine e l’unione dei figli

di Dio nella verità e nella carità. Questa simili-tudine manifesta che l’uomo il quale in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa, non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé» (n. 24). E’ con questa “anima” che siamo chiamati a costruire una società ospitale. L’appello che viene dalle Scritture – e in termini vivi e perso-nali dalla Parola di Dio – è rivolto a tutti, ai cristiani in primo luogo e ad ogni uomo. Si tratta di “onorare” questa “norma fondamenta-le” con le nostre decisioni, scelte e azioni coe-renti e in tal modo a forgiare dal di dentro la

società come società ospi-tale, ossia aperta, acco-gliente, di-sponibile al dono, armo-nica nelle d i v e r s i t à , capace di fraternità e di a m i c i z i a , solidale, civi-le, veramente e pienamente democratica (di tutti, a

cominciare dai più deboli e dagli “ultimi”): una vera “famiglia umana”, più precisamente uma-na e umanizzante. E’ questo il “sogno” di Dio. E’ questo il desiderio più profondo di ogni cuore. CHIAMATI A COSTRUIRE UNA SOCIETA’ OSPITALE Alla luce dei testi biblici vorrei ora approfondi-re alcuni aspetti che la condizione sociale con-temporanea e la cultura occidentale rischiano di oscurare, non tanto a livello personale, quanto piuttosto […] a livello di percezione collettiva. Abbiamo grande bisogno di essere positivamente invogliati a costruire una società nuova: una società veramente ospitale. […] Il migrante Come mai oggi non avviene più questo prodi-gio: che un viaggiatore che giunge da lontano, come Ulisse ai piedi di Nausicaa (Odissea VI, 201-222), si trasformi in un prossimo che ha

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bisogno di aiuto e per il quale si diventa subito ospiti, ovvero «sostegno dei forestieri»? Vi fu un tempo in cui il viaggiatore tormentato dalla sorte, il naufrago appeso ai resti di una imbarcazione, suscitava pietà, curiosità, acco-glienza… Per rimanere ancora nell’ambito del-le Scritture vorrei qui ricordare, tra gli altri, il tragico naufragio dell’apostolo Paolo e dei suoi compagni di viaggio, che si concluse con un gesto di grande ospitalità da parte della gente di Malta. Così leggiamo negli Atti degli Apo-stoli: «Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli abitanti ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attor-no a un fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia e faceva freddo».(At 28, 1-2) […]. Nella cultura antica, il forestiero e l’ospite di-ventavano subito un prossimo che ha bisogni concreti: dargli una mano voleva dire muovere subito le mani in suo aiuto. Il viaggiatore giun-geva sì da lontano, ma si trasformava subito in vicino: oggi questo “prodigio” non avviene più. Nell’antichità l’ospite non solo era accolto, ma addirittura diveniva qualcosa di superiore al cittadino normale. In una società quasi priva di mezzi di comunicazione, egli era anche un messaggero di un altro mondo e aveva sempre qualcosa da insegnare. Certo vi erano, anche nell’antichità, dei casi in cui lo spostamento di gente numerosa poteva dar luogo a difficoltà e conflitti: pensiamo anche solo al racconto bibli-co dell’insediamento di coloro che sarebbero diventati i padri d’Israele nel territorio occupa-to dai Cananei. Ma, nel complesso, una certa quantità di nomadi era considerata normale in tutte le terre. Anche l’Italia, guardando alla storia degli ultimi anni, fino a poco tempo fa accoglieva gli stranieri più da visitatori che da immigranti. La diversità destava stupore e permetteva di imparare qualcosa di nuovo. Incontrare un cinese o un indiano risvegliava curiosità più che diffidenza. Era un atteggia-mento comune tra la nostra gente, parte della nostra cultura, che non fu quasi per niente in-taccato dal breve periodo di colonialismo ita-liano (“Italiani, brava gente!”) e da quello an-cor più breve e meno condiviso del razzismo

fascista. Possiamo ora considerare, in particola-re, la figura del naufrago e il trattamento riser-vatogli in passato e oggi. «Lo stesso naufrago era un caso estremo di viaggiatore, colpito dal-la sorte. Nella tradizione europea, la guerra sul mare era crudele come tutte le guerre, ma fra i comandanti dei vascelli vittoriosi esisteva l’uso di non infierire sui naufraghi e, se possibile, di aiutarli. Questo storico patrimonio di umanità nella disumanità è sparito da poco. Con la Se-conda guerra mondiale, la nave che è riuscita ad affondare quella nemica, se può, si ferma ancora a controllare se ci sono sopravvissuti: non per raccoglierli, però, ma per mitragliarli. Oggi gli immigranti giungono per mare su imbarcazioni che sono praticamente relitti. Tuttavia, vengono sempre meno percepiti co-me viaggiatori e sempre più come invasori. Con la nuova immigrazione l’Occidente, che temeva di divenire apatico dopo la fine delle ideologie e la scomparsa del Muro di Berlino, ha scoperto il centro emotivo di una nuova politica e una ragione per edificare nuovi muri. Sempre più spesso, del resto, gli immigranti non sono come Ulisse, che si vergogna e dice che farà da solo: hanno richieste fin dal mo-mento dello sbarco». Muri vecchi e nuovi E’ davvero strano che il nostro tempo tecnolo-gico, tempo di viaggi interplanetari e di possi-bilità di comunicazione in un certo senso infini-ta, segni il primato delle spese legate all’immi-grazione per una realtà inventata ancor prima della scrittura: il muro. Sì, il muro! Il muro, che nell’antichità era costruito per difesa, oggi è costruito per circoscrivere e impedire l’accesso di coloro che abitano vicino. Così negli Stati Uniti, alla fine delle guerre contro le tribù autoctone, si costruirono riserve per rinchiudervi gli in-diani. Così, ancora, il nazismo cominciò la sua Endlösung «soluzione finale» contro gli ebrei, richiudendoli tutti nei ghetti. E lo stalinista Ulbricht cancellò il mondo capitalista dietro al muro di Berlino. E il Sudafrica sigillò i confini dell’apartheid con una barriera elettrificata ad alta tensione. E’ interessante che, mentre nel mondo di internet, nei social network non esi-stono barriere che impediscono l’incontro e la

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relazione virtuale tra persone di etnie e culture differenti, nel mondo reale si costruiscono dei muri per impedire ai vicini di incontrarsi. Se con un “click” un giovane italiano può stringere amicizia su Facebook con un coetaneo africano, dall’altra parte si impedisce a chi vuole guada-gnarsi onestamente da vivere di potersi appli-care al lavoro che sta oltre il confine, in quei paesi dove a tante occupazioni quasi nessuno vuole applicarsi. Il vallo di Adriano e la Gran-de Muraglia cinese avevano il compito di di-fendere l’Impero Romano e il Celeste Impero da invasioni militari. Molti muri che sono stati costruiti di recente proteggono invece dalle povertà altrui: cercano di trasformare in fortez-ze quelle che sono state chiamate le «frontiere più disuguali del mondo». Se per un breve periodo sembrano riuscire a tener lontano qualche immigrante illegale, col tempo irrigidi-scono proprio quella disuguaglianza economi-ca che è causa dell’immigrazione e presto por-teranno la sproporzione al collasso. I muri creano separazioni non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Non solo nella geografia, ma anche nella storia. Ma soprattutto il muro non solo “chiude fuori” il forestiero e il meno fortu-nato, il muro “chiude dentro” il privilegiato e lo condanna all’asfissia. Proprio come l’avaro, che muore d’inedia per non consumare a van-taggio di tutti e anche a vantaggio proprio quei

beni che possiede. Quanto è vero ciò che dice-va Hans Magnus Enzensberger (1929): «Quanto più un paese costruisce barriere per “difendere i propri valori”, tanto meno valori avrà da difendere». Distanza del prossimo, vicinanza del lontano Come sappiamo, per le società arcaiche era naturale la coesistenza di una dialettica tra il bene e il male, in quanto la interpretavano co-me una lotta intrinseca al mondo divino. […] «L’alternarsi di prossimità e distanza corri-sponde alla lotta tra il bene e male, binomio centrale in ogni religione. Le società arcaiche accettavano rassegnate la coesistenza dei due: solo in certe circostanze esorcizzavano il male col sacrificio o la cacciata di un capro. Di rego-la, solo il dio sapeva quanti, in quella società, erano gli uomini. Quali erano gli uomini. Quanto e perché erano diversi tra loro. Quali erano buoni e quali cattivi. Raramente gli uma-ni si prendevano il diritto di parlarne a suo nome. Il monoteismo per primo getta tutto il suo peso sulla bilancia per farla pendere dalla parte del bene. E, sapendo che la psiche co-struisce l’equazione io = bene, altro = male, si fa esigente: dice ai fedeli di non escludere l’al-tro come nemico, ma di includerlo come pros-simo» (L. Zoia, La morte del prossimo, p. 60). Gesù chiede di dilatare a tutti l’atteggiamento dell’inclusione e amplia questo principio sino

all’estremo. Infatti, a quel dottore della Legge che voleva giustificarsi: «E chi è mai il mio prossimo?», egli - dopo aver racconta-to la parabola del buon Samaritano -, conclude: «Sii tu il prossimo di chi incontri » (Lc 10,29-37). Così ai tempi di Gesù, così anche ai nostri giorni. Con gioia possiamo rilevare che sono molti quelli che - più o meno consapevoli, per motivazioni religiose o semplicemente filantro-piche (interessantissime al riguardo sono le parole di

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Cristo nel giorno del giudizio universale: cfr. Mt 25,31ss) - si impegnano nelle più diverse forme di aiuto per gli altri. C’è però il rischio di un fraintendimento nel no-stro modo di impegnarci per gli altri. Guardia-mo, ad esempio, a certi eventi lontani, su cui siamo informati dai mass media. Al momento siamo molto coinvolti e commossi per quanto stiamo ascoltando o vedendo e siamo disposti ad aiutare, anche concretamente, le sfortunate vittime di una qualche catastrofe. Ma la notizia diventa presto una semplice “informazione” e velocemente invecchia. Il punto allora è quello di mantenere “caldo” il coinvolgimento emoti-vo insieme al coraggio di decisioni morali ca-paci di trasformare la nostra vita nel quotidia-no. Si tratta di riconoscere nella persona viva che mi si fa incontro il prossimo da aiutare, al quale rivolgersi, farsi umanamente presenti con la disponibilità e a cui prestare concreta-mente aiuto. La tentazione cui siamo oggi esposti è quella di distanziare il prossimo ren-dendolo “lontano” e di avvicinare il lontano rendendolo “prossimo” solo emotivamente, fintanto che egli non diventi davvero un insop-portabile “vicino”. […] E’ perlomeno antistorico nel terzo millennio pensare di interrompere la libera comunicazio-ne e lo spostamento delle persone. I nostri gio-vani, viaggiando, arricchiscono la loro cultura e l’esperienza di vita, sempre più considerano il mondo loro casa. E noi oggi vogliamo co-struire argini al migrare delle persone? In par-ticolare i flussi di stranieri che bussano alle porte delle società occidentali sono mossi so-prattutto dalla povertà e dalla persecuzione politica. La loro condizione di debolezza mette noi in posizione di maggiore forza ed efficacia qualora decidessimo di impegnarci tutti - e tutti insieme - a governare responsabilmente il fenomeno. Spesso invece l’uso strumentale del problema, le politiche di corto respiro, la fatica a considerare questa realtà a livello globale impediscono un serio e risolutivo intervento. Cosa capiterà - provo ad immaginare - quando non saranno più gli immigrati poveri a bussare alle nostre porte? Cosa capiterà quando saran-no tra noi molti immigrati in condizione di “forza” (lavorativa, economica, culturale, scientifica…) e ci chiederanno di confrontarci

con loro? Corriamo il rischio di smarrirci nella nostra identità se - mossi dalla paura e chiusi in noi stessi nell’illusoria convinzione di essere protetti dalle barriere economiche, sociali e religiose che a fatica ci stiamo costruendo - non ci educhiamo al confronto, al dialogo, alla rela-zione profonda con lo “straniero”. E’ tempo di vivere sempre più le nostre radici cristiane: quando sono autenticamente nutrite dalla sapienza biblica - così come hanno mostrato a noi le divine Scritture - ci sospingono a vedere l’altro come risorsa e dono e ci rendono capaci di af-frontare anche i non piccoli problemi che ogni confronto porta con sé. Conclusione: “Il problema è anzitutto uma-no!” Desidero concludere queste mie riflessioni - che solo con spunti parziali hanno affrontato il problema della costruzione di una società ospi-tale – invitando all’ascolto di una duplice paro-la di papa Benedetto XVI. La prima si trova nell’enciclica sociale Caritas in veritate, in particolare al n. 62 interamente dedicato alle migrazioni come “fenomeno so-ciale di natura epocale”. Lascio a voi la lettura personale di un testo molto energico, coinvol-gente, profetico sui diversi aspetti delle migra-zioni nel mondo attuale. La seconda parola rientra nel breve discorso all’Angelus del 10 gennaio di quest’anno. Ricordando “il caso della condizione dei migranti, che cercano una vita migliore in paesi che hanno bisogno, per diversi motivi, della loro presenza”, il Santo Padre ci richiama ad alcune consapevolezze e responsabilità fondamentali: «Bisogna ripartire dal cuore del problema! Bisogna ripartire dal significato della persona! Un immigrato è un essere umano, differente per provenienza, cul-tura e tradizioni, ma è una persona da rispetta-re e con diritti e doveri, in particolare, nell’am-bito del lavoro, dove è più facile la tentazione dello sfruttamento, ma anche nell’ambito delle condizioni concrete di vita. La violenza non deve essere mai per nessuno la via per risolve-re le difficoltà. Il problema è anzitutto umano! Invito a guardare il volto dell’altro e a scoprire che egli ha un’anima, una storia e una vita e che Dio lo ama come ama me».

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Multiculturalità e intercultura L’urgenza di una riflessione critica e realistica

A leggere i manuali e i testi di pedagogia gene-rale e interculturale si rimane sorpresi non solo dalla precisione chirurgica con cui si definisce la differenza tra multiculturalità e intercultura, ma anche dalla straordinarietà della esposizio-ne linguistico-lessicale con cui viene espressa tale distinzione, per cui non si hanno dubbi che la realtà descritta e delineata possa essere di-versa da come viene raccontata scientificamen-te. E ciò perché l’idea che il pensiero accademi-co sia il luogo di deposito della verità è ormai diventata essa stessa una verità, affermata con quella stessa fermezza e sicurezza che caratte-rizza chi la professa. Nel caso specifico della multiculturalità e dell’intercultura, la questione assume dei tratti che sfiorano addirittura il paradossale, soprattutto se si guarda non tanto lontano alla sola realtà italiana del mese di marzo 2011, in cui le vicende del crocifisso e dell’immigrazione massicciamente tunisina e

p a r z i a l m e n t e libica hanno po-sto in evidenza la necessità urgente di operare una riflessione criti-ca, realistica e onesta circa il problema della convivenza di soggetti-persone appartenenti a culture differen-ti. Ma andiamo per gradi, par-tendo proprio dalla distinzione classica, propo-sta dalla pedago-gia intercultura-

le, tra multiculturalità e intercultura. La maggior parte degli studiosi del ramo peda-gogico tengono a sottolineare che il termine-concetto di ‘multiculturalità’ abbia una valenza prettamente descrittivo-trascrittiva, nel senso che serve solo a registrare la fattualità della pluralità delle culture conviventi in un medesi-mo territorio, come se il termine non fosse altro che una semplice, neutra e ‘secca’ fotografia della realtà così com’è, senza, come dire, ‘aggiunte’ di sorta. Insomma un concetto che è qualificato soprattutto dal suo proprio oggetto – la realtà pluri-culturale, intesa come dato incontestabile e incontrovertibile –, che, appa-rentemente, non dice nulla del soggetto che lo impiega, né delle sue intenzioni né dei suoi progetti di ‘risposta culturale’ e pedagogica a tale situazione di fatto. Inoltre i pedagogisti, per sottolineare una volta di più la neutra geli-dità descrittiva del termine ‘multiculturalità’,

* Docente di Storia della Filosofia Patristica presso la Facoltà Teologica Pugliese e di Storia e Filosofia nei licei

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di Pietro Polieri *

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sostengono che nella dimensione ‘multiculturale’ (e non certo in quella ‘interculturale’!) il rapporto culturale è di tipo oggettuale, estrinseco, cumulativo ed enciclo-pedico, cioè a dire che la relazione tra le cultu-re viene colta nella sua esteriorità a- o im-personale, caratterizzata da semplice giustap-posizione ‘matematica’ di singoli individui, e soprattutto nella sua equivoca staticità, che impedirebbe così di cogliere l’intrinseca dina-micità e inter-attività ‘travasiva’ che caratteriz-za evidentemente il rapporto tra le culture. Il termine ‘intercultura’, invece, che pure, a detta degli stessi pedagogisti, è debitore delle teorie descrittive multiculturali, indicherebbe la risposta educativa e il progetto pedagogico elaborati a fronte della complessità culturale delle società occidentali contemporanee, se-gnate dalla mescolanza e dall’ibridazione qua-li frutti inevitabili dei flussi migratori e dei processi di globalizzazione. ‘Intercultura’ è, tutt’al contrario di ‘multicultura(lità)’, quel concetto che, pur trovando origine nella realtà diversificata e plurale sulla quale intende agi-re produttivamente e proficuamente, non la considera come il suo oggetto privilegiato, che invece colloca nel progetto di convivenza che essa s’impegna ad articolare ed attuare nella società pluriculturale. Per cui, l’intercultura non solo dice moltissimo di chi la elabora, manifestandone le buone e ‘moralissime’ in-tenzioni costruttive, ma soprattutto è in grado di cogliere tutte quelle sfumature ‘dinamiche’ e ‘personali’ che alla multiculturalità invece sfuggono ‘costitutivamente’, ovvero per la sua implicita staticità descrittiva e per la sua pro-grammatica im-potenza/non-volontà proget-tuale. L’intercultura, inoltre, avrebbe il pregio, nel suo essere soggettuale, intrinseca, interatti-va ed epistemica, di sublimare l’aspetto dell’irriducibilità delle culture altre non solo all’oggettualità e all’impiegabilità come meri ‘appoggi’ per una ricerca neutra/neutrale non assiologica, ma soprattutto all’‘io’ (o al ‘sé’) di colui che ne parla e ne progetta la possibile strategia pedagogica di integrazione socio-culturale. In ultima istanza, l’intercultura offri-rebbe il vantaggio di far pensare la relazione

tra le culture come un continuo scambio e come interrelativa e reciproca crescita. Insomma la distanza tra multiculturalità e intercultura sarebbe la stessa di quella che intercorre tra il dire e il fare, tra coloro che si limitano ad una ‘semplice’ avalutativa narra-zione etnografico-sociale dell’altro, individua-to, così, nella sua anonimia (s-)oggettuale, e coloro che non si limitano alla trascrizione della pluralità culturale, ma si impegnano, a partire da alcuni principi morali che ricono-scono come universalmente condivisibili, a investirla di un progetto di convivenza civile, cosa che inaugurerebbe, contro ogni ‘purezza’ e oggettività senza volto della ricerca scientifi-ca come usualmente la si intende, la centralità della persona umana e la umanità della rela-zione paritetica tra gli uomini appartenenti a diverse culture. Eppure ritengo che sia possibile eccepire a questa ‘pedagogistica’ distinzione semantico-euristico-disciplinare tra multiculturalità e intercultura. Innanzitutto mostrando che la multiculturalità, oltre a testimoniare scientifi-camente della pluralità socio-culturale di fatto, è termine che, nelle intenzioni e nella prassi discorsiva di chi l’impiega – soprattutto antro-pologi e sociologi – non solo non ha mai tra-scurato l’umanità e la ‘personalità’ dei soggetti di cui parla (anche se è capitato molte volte il contrario, cosa cui si è immediatamente rispo-sto con un’auto-analisi critica e con tanti mea culpa pubblici e privati), ma ha sempre messo in risalto il carattere profondamente ‘relazionale’ e interattivo, e non meramente cumulativo e di tangenza, tra i protagonisti di tale processo storico-sociale. Inoltre attraverso il concetto di multiculturalità gli studiosi han-no veicolato un’idea importantissima, secondo cui il prefisso ‘multi-’, che è riconosciuto come imprescindibilmente legato a quello ‘inter-’ – nel senso che descriverebbe una ‘dinamica (e non una statica!) della relazione culturale –, caratterizza una pluralità non solo esterna alle singole configurazioni culturali, ma anche e soprattutto interna. Le culture umane, da che l’antropologia culturale ha cominciato l’opera di autoripensamento teoretico, metodologico e

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oggettuale, sono sempre più state intese come complessi antropici frutto di incroci e sovrap-posizioni di culture. Non frutti puri, che, diver-samente, impazzirebbero, non omogenee strut-ture che si riconoscono nella loro archetipica e mai alterata ‘medesimezza’ con sé, non comu-nità immaginariamente mono-culturali, ma formazioni pluritetiche e multipolari dal punto di vista culturale, cui progressivamente gli uo-mini che vi appartengono, per ragioni legate alla condivisione fisica di un territorio o alla frequentazione di un immaginario prodotto dalla loro costante interazione socio-simbolica, hanno conferito l’immagine di unità e di coe-sione, alla quale, nonostante tutto, ovvero no-nostante il processo di globalizzazione che in fondo non dovrebbe fare altro che richiamare la complessità genetica e di sviluppo intra-comunitaria, sembri contraddire tale vocazione uni-compositiva. Giusto per essere onesti intellettualmente, il termine ‘multiculturalità’, dunque, seppure ‘pare’ meramente descrittivo, in effetti deve essere considerato come l’esito sofferto di un travaglio scientifico che è allo stesso tempo un travaglio morale, dal momento che ha comportato il riconoscimento – che io definirei un traguardo storico per le scienze demoet-noantropologiche e sociologiche, oltre che per quella filosofica – del fatto che l’al-terità non abita solo l’esterno, ma anche l’interno di ciascuna cultura, e che ciò, dal punto di vista morale e pedago-gico, implica che

le società occidentali possano cominciare a prendere atto seriamente del concorso dell’alte-rità alla formazione dell’identità, e che l’alteri-tà, oltre a non essere solo un concetto e un og-getto di teoresi, è ciò/colui di cui faccio espe-rienza ‘dentro’ quella casa che io definisco ‘mia’, all’interno di quella dimensione nella quale io riconosco me come ‘me-stesso’ e in cui, in linea teorica, non dovrei e non avrei dovuto trovare altro che me-stesso. Per questo, data la complessità non solo della multi/interculturalità ad extra, ma anche di quella ad intra, le scienze antropologiche e sociali si sono aperte alla pluridisciplinarietà non occasional-mente, ma costitutivamente, nel senso che, ri-flettendo in sé le caratteristiche proprie dell’og-getto del loro interesse, hanno costruito la loro specifica e particolare identità euristico-disciplinare sull’intreccio, sempre molto attento e sorvegliato, tra diversi campi e settori scienti-fici. Non deve essere, infine, assolutamente taciuta l’altra più importante acquisizione delle scienze antropo-sociologiche grazie proprio all’impie-go, per nulla neutro e per niente meramente

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descrittivo, del termine/concetto ‘multiculturalità’. Esso, infatti, ha esplicitamen-te e implicitamente contribuito a far prendere confidenza con l’assunto – difficilissimo da accettare da parte soprattutto di quelle culture che si sono erte a sistemi culturali ineguagliabi-li e in grado addirittura di insegnare alle altre culture cosa significhi essere ‘civili’ e ‘democratici’ – secondo il quale le culture tra loro sono paritetiche, nel senso che intanto si può parlare ‘descrittivamente’ di multicultura-lità in quanto si dà per scontata (almeno in linea di principio, cosa non da poco) la posizio-ne su uno stesso piano delle culture che tra loro intessono scambi e relazioni. Multicultura-lità, dunque, a mio parere, è la testimonianza fondamentale e irriducibile, del riconoscimento che l’alterità di cui si pensa di poter parlare o su cui si intende costruire un progetto pedago-gico, è ‘sempre’ ‘pari’ a me. Dal canto suo, il termine/concetto di ‘intercultura’ è stato fortemente inflazionato e soprattutto, come rilevavo in principio di anali-si, eccessivamente celebrato come sinonimo di attività e di intenzionalità creativa e progettua-le, in senso civico e morale, da chi, come i pe-dagogisti, ne hanno fatto una sorta di – antro-pologico! – totem. Di cui, se non parli, e per di più in una determinata maniera, che sta diven-tando ormai classica, non solo non sei conside-rato un pedagogista, ma addirittura rischi di passare per razzista e per xenofobo. E’ chiaro che è doveroso riconoscere un valore effettivo all’intercultura nella determinazione dell’o-rientamento in senso democratico della forma-zione dei nostri studenti universitari e dei no-stri docenti, e nella educazione e sensibilizza-zione dei giovani tutti delle nostre ‘società’ occidentali. Ma è ormai impossibile non verifi-care se il contenuto dell’insegnamento scientifi-co e ‘morale’ presente nel termine ‘intercultura’ sia solo un espediente didattico, una sorta di luogo comune di cui ormai non si può fare a meno all’interno delle università, e se per caso non serva, in linea più generale, alle società che lo impiegano a nascondere tanto una reale in-clinazione ‘contro-interculturale’ quanto l’inca-pacità a realizzare un progetto così elevato e

impegnativo. Per questo vorrei, come annunciato, fare due brevi riferimenti, seguiti da due altrettanto stringate riflessioni – con le quali mi accingo a chiudere un articolo forse troppo più lungo di quanto richiesto -, con cui intendo mettere in evidenza che il più delle volte il termine ‘intercultura’, per come è concepito e diffuso dalla comunità dei pedagogisti (e degli studio-si, in genere, di relazioni tra culture), possa non avere effettivo riscontro nella realtà e come gran parte dei pedagogisti lo impieghi sola-mente come motivo dominante e autoricono-scitivo all’interno dei propri corsi universitari. L’arrivo sulle nostre coste da parte di profughi tunisini e libici e, qualche tempo prima, lo sca-tenamento del caso del crocifisso nelle aule scolastiche, con annesse pubblicazioni anti-cattoliche centrate sull’idea del compromesso culturale clerico-statuale evidenziato dalla de-finizione di ‘crocifisso di Stato’ utilizzata dallo storico Sergio Luzzatto, hanno attivato risposte culturali e sociali che non mi pare possano essere ben spiegate dalle analisi pedagogico-interculturali, ma piuttosto da analisi più pru-dentemente realistiche, in senso socio-culturale e politico. Mi spiego. Fino a che dell’altro si può parlare perché è già integrato nel ‘nostro’ tessuto sociale o perché il suo essere totalmente estraneo a me non si è ancora mostrato nella sua concretezza reale, attraverso l’occupazione di uno spazio che io ritengo ‘mio’ o attraverso la rivendicazione di un diritto umano o cultu-rale o religioso per mezzo della richiesta a me medesimo di un aiuto per la sua sopravviven-za, l’intercultura è una attività potremmo dire – senza che nessuno si senta ferito e offeso – ludica, di cui anche i meno periti possono fare esperienza. E’ un racconto interessante, sugge-stivo, coinvolgente, intellettualmente stimolan-te. Ma quando l’altro si presenta di fronte a me con tutta quella carica di alterità, che il più delle volte è contrassegnata da ostilità, conflit-tualità, risentimento o solamente disperazione e fame, mi si passi l’espressione poco ortodos-sa, l’intercultura si va proprio a far benedire! E con questo sostengo che tutti i discorsi di pro-gressisti e anche cattolici (e lo riconosco pro-

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prio da cattolico!) su quanto debba essere rea-lizzato a favore dei profughi o a favore dell’a-pertura alle altre culture e religioni, si inter-rompono quando il profugo, l’appartenente a un’altra cultura o un diversamente religioso cominciano a mettere in discussione tutto quel-lo che ho dato e continuo a dare sempre per scontato: l’inviolabilità della proprietà privata e l’inattaccabilità della mia cultura, per non parlare della mia religione. “Toglietemi tutto, ma non ciò che è mio!”. Il che si può tradurre con: “In definitiva non potete e non dovete to-gliermi nulla, tanto in termini materiali quanto in termini socio-culturali e simbolici”. L’altro ‘vero’ – quello che cioè non è solo il designato delle mie parole, di cui si può dire pur essendo questi ‘assente’, ma è quello che mi si presenta davanti agli occhi nella sua ‘carnalità effettuale esigente’ –, ponendosi al mio sguardo come colui che mi toglie spazio, il ‘mio’ spazio, mette a repentaglio la stabilità e la tenuta equilibrata della ‘mia’ società e della ‘mia’ cultura. E se – come sostiene il progetto interculturale – l’unica soluzione a tale proble-ma è insegnare alle culture in contatto (tra cui la ‘mia’) che in effetti quello tra loro è un profi-cuo scambio alla pari, che – cosa fondamentale – deve svolgersi all’interno di un quadro finali-stico orientato all’integrazione, il che significa, in qualunque modo, riduzione della cultura ospi-tata a quella ospitante, checché qualcuno voglia affermare che così non sia, allora si deve ammet-tere che l’intercultura insegna il contrario di ciò che predica. Insegna in pratica, sotto parole e con-cetti che esprimono l’appassionata e beata vi-sione di un intreccio complesso e di uno scam-bio articolato tra identità che si vorrebbero paritetiche e che in definitiva non lo sono, che l’altro - del quale parla (giustamente) come di un ente supremo e inviolabile nella sua irridu-cibilità a me stesso (proprio perché, a mio dire, è sempre rimasto a debita distanza, a distanza di sicurezza da chi ha imbastito su di lui splendide cattedrali concettuali e morali) –, deve imparare a stare al posto suo: o a casa sua, o, se proprio deve, a casa mia, ma alle regole della ‘mia’ cultura e della mia religione, anche se, in effet-ti, continuo imperterrito a parlare di scambio interculturale. Deve, in altre parole, non altera-

re quella omeostasi sociale, culturale e religiosa che caratterizza la mia società e che è in defini-tiva la condizione indispensabile del fatto che ne possa parlare come in quella maniera, così rispettosa e moralmente elevata, che connota la narrazione dell’altro in senso interculturale. Non nego di essermi più volte immaginato coloro che scrivono di intercultura, e non meno quelli che scrivono di ‘multicultura(lità)’, di apertura all’alterità e di comprensione dello straniero, proprio mentre sono intenti a elabo-rare le loro teorie al computer con tutti gli agi e i comfort del caso, con un bicchiere di spremu-ta sul tavolo lì accanto, semmai con un minimo di sottofondo di musica classica, con il cagnoli-no che scodinzola ad ogni loro sorriso e con la moglie o il marito che comunicano la loro usci-ta da casa per fare la spesa o per andare in pa-lestra, ad un certo punto brutalmente interrotti dall’irruzione violenta di qualcuno di quei profughi che cerca solo un pezzo di pane per il quale, però, sarebbe pronto a tutto, anche a compiere un gesto estremo perché disperato. Continuerebbero a scrivere dell’alterità così come se la sono immaginata fino ad allora? O come devono averne letto dai testi dei loro colleghi di cui ripetono a iosa i soliti clichés? Mi sono immaginato anche uomini di fede, che solitamente sono impegnati a diffondere, attra-verso la loro attività pastorale, la convinzione della necessità di aprire il cuore e le tasche allo straniero e al povero (ovvero un tipo di ‘altro’ interno, l’altro che non ha le mie stesse possibi-lità economiche) venire disturbati e assillati pesantemente dalle pressioni ‘materiali’ di costoro. Come si esprimerebbero? Cosa direb-bero, semmai, all’omelia del giorno dopo? E perché nessuno dei paladini della carità ha fino ad oggi, che io ne sappia, immaginato una stra-tegia organica e fattibile di intervento a favore dei profughi tunisini o libici? Perché nessuno di noi cattolici – o forse solo qualcuno – ha dichiarato aperte la porta di casa sua e la porta della chiesa? Perché siamo solo riusciti a dire ciò che è scontato e ovvio, ovvero che è neces-sario affrontare la questione dell’immigrazione e che sarebbe meglio che lo si facesse a livello europeo? In merito, poi, alla questione dell’esposizione

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del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche, nessuno dei pedagogisti interculturali e soprat-tutto nessuno di noi cattolici, compreso chi scrive questo articolo, impegnati nel dialogo interreligioso e nell’affermazione della parità tra tutti gli uomini e tra tutte le espressioni culturali e religiose, ha pensato che la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo a favore e a conferma dell’obbligatorietà dell’e-sposizione del simbolo cristiano fosse ingiusta e inopportuna. Anzi. Tutti noi – convintamente e straordinariamente multi- e inter-culturali – non solo abbiamo salutato tale sentenza con gioia, ma soprattutto abbiamo condiviso il fatto che essa legasse la sua decisione a ragioni ri-guardanti la difesa dell’identità culturale e storica delle nazioni. In ordine a ciò, e precisa-mente al principio di sussidiarietà affermato dalla sentenza, così si è espresso Bruno Forte sull’inserto culturale de Il Sole 24 Ore di domenica 20 marzo 2011: «Ogni paese della grande “casa europea” deve gode-re di un margine di discrezionalità ri-guardo al valore da attribuire ai simboli legati alla propria storia e alla propria identità nazionale, re-stando di conseguen-za libero di decidere circa il luogo della loro esposizione. Questo vale in particolare per i simboli religiosi […]. L’esposizione del Croci-fisso non è insomma indottrinamento o viola-zione dell’altrui libertà, ma espressione dell’iden-tità culturale e religiosa dei paesi di tradizione cri-stiana, che in maniera così rilevante hanno con-tribuito alla nascita dell’Unione Europea […] (tutti i corsivi sono miei)». Insomma: quando è in gioco la nostra particolare identità, culturale e religiosa, proprio quella che noi immaginiamo interculturalmente in relazione reciproca di scambio paritetico con tutte le altre – come ci piace tanto affermare su molteplici monografie, saggi e articoli –, non c’è intercultura che ten-

ga. Noi siamo noi, e gli altri sono gli altri, e co-me tali si devono comportare! Ovvero si devo-no ricordare che la voce di tutti quelli che si trovano nella posizione di ‘altri’ è sempre più debole di quella di coloro che si trovano nella posizione di ‘noi’! Cosa voglio dire con tutto ciò? Che l’intercultu-ra non ha ragione di esistere o di proporre la sua progettualità? Niente di tutto questo! Vo-glio solo affermare con forza che i discorsi, soprattutto italiani, di contenuto interculturale 1) non prendono nella dovuta considerazione il tasso di effettiva conflittualità che connota il rapporto reale tra le culture e tra le religioni e questo perché, innanzitutto, dell’altro coloro che ne parlano ‘interculturalmente’ hanno un’esperienza in molti, troppi casi, indiretta, anche quando l’altro è entrato o continua ad entrare in casa propria. Non può infatti consi-

derarsi un’esperienza diretta la sola presa d’atto mediatica che sul mio territorio siano sbarcati ‘gli altri’; 2) sono eccessi-vamente edulcorati, perché, non valutano la stridente frizione che effettualmente c o m p o r t a l a ‘materiale’, ‘carnale’ convivenza tra perso-ne che pensano, cre-

dono e vivono in maniera del tutto diversa; 3) propongono soluzioni di convivenza culturale che, pur fondate sulla parità dello scambio tra culture e tra religioni, non possono evitare, sia esplicitamente sia implicitamente, di conside-rare la propria cultura o la propria religione come quella dimensione cui, alla fine dei conti, l’altro si deve adeguare: l’altro, cioè, se vuole stare qui con me, deve accettare le leggi del mio paese, le regole non scritte della mia cultu-ra e la storica e tradizionale predominanza della mia religione – anche se io non gli chiedo di convertirsi ad essa, pur sperandolo! In fondo l’integrazione, come proposta interculturale, si sostanzia in quella speranza che l’altro, col

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passare del tempo e delle generazioni, assomigli sempre di più a me! O, se si vuole, pur rimanen-do quello che è, ovvero altro-da-me, capisca che quella che sta diventando ora casa sua, è sempre stata casa mia. L’intercultura, a mio pa-rere, non solo abbisogna di un bagno di ‘realismo’, ma soprattutto necessita di gettar via la maschera perbenistica e moralistica che ancora mi pare indossi, e non certo per scelta, ma solo per caso, cioè per quell’insieme di cir-costanze che hanno impedito agli ‘interculturali’ di ‘toccare’ l’altro, ma ancora di più, di trovarsi ad ‘essere toccati’ dall’altro, secondo forme che non è possibile siano previ-ste. L’altro dell’intercultura, oggetto di troppi discorsi di carattere teorico-speculativo, è pro-gressivamente diventato, proprio grazie a tali narrazioni astratte, ‘altro addirittura da se stes-so’, smaterializzato, ridotto ad un agnellino che egli non può essere, per il solo fatto che, alme-no nella mente o nell’immaginario di chi se lo trova a bussare a casa propria – cosa che pro-babilmente non è mai o ancora capitata a chi ne parla scientificamente – si configura come colui che mette o sta per mettere a rischio ‘me’ e tutto ciò che mi appartiene. Pensiero, questo, che – lo ribadisco – vorrei verificare se non balzerebbe nella testa anche dei più ortodossi pedagogisti interculturali! L’intercultura, di cui apprezzo e condivido le idee e i principi di fondo, deve però ammettere che ciò che in ter-mini pratici suggerisce o prescrive è sempre demandato ad altri. Come a dire: armiamoci e partite! Io teorizzo e voi ‘fate’. E mentre io mi rinchiudo nella mia torre d’avorio accademica a cercare di rendere attraente e appetibile l’in-tercultura per i miei corsi e a far sfoggio della mia apertura mentale e culturale, libera da condizionamenti di tipo identitaristico, cultu-ralistico e religionistico, casa mia rimane erme-ticamente chiusa a ‘quell’altro che viene da lontano’ che probabilmente è sporco e veicola malattie. E semmai, in sede pubblica, per appa-rire ancora un po’ più ‘interculturale’, ‘progressista’ e ‘alternativo’, demonizzo e con-danno pure quei centri di accoglienza che defi-

nisco come lager o campi di concentramento o internamento. Troppo facile, allora, ‘fare’ l’in-tercultura e ‘dirsi’ interculturali! Fino a che il nostro rapporto con una cultura altra continuerà ad essere filtrato e mediato dalle ideologie scientifiche e religiose (alcune ideologie scientifiche e religiose!) e finché il nostro contatto con l’altro sarà attutito dal cu-scinetto del turismo o della ricerca etnografica, grazie ai concetti di multiculturalità e di inter-cultura si riuscirà a parlare di un altro e di una relazione con lui che in realtà non esiste, anche se sarebbe auspicabile che esistesse nella forma in cui se ne scrive e parla. Multiculturalità e intercultura, per questo, a mio modesto parere, attendono ancora una più profonda e più disincantata analisi del loro rapporto con l’identità, o meglio con quella che l’antropologo Francesco Remotti ha definito con spregio l’‘ossessione identitaria’. Infatti l’identità, nonostante l’avversione nei suoi con-fronti di Remotti e di molti ‘pii’ e ‘puri di cuo-re’ divulgatori della buona novella della multi-culturalità e dei principi interculturali, è ancora ciò che determina, in tutte le forme in cui si presenta (cultura, etnia, religione, proprietà), la ‘verità’ intoglibile dell’uomo, di quello del pas-sato come di quello contemporaneo, pur globa-lizzato e progressisticamente democratico. Una verità – quella dell’identità, caratterizzata da conflittualità, resistenze e tensioni – che, come tutte quelle che riguardano l’uomo, colto nella sua storicità, può certo mutare e sicuramente non essere l’ultima e definitiva parola dell’uo-mo e sull’uomo, ma è quella con cui soprattut-to l’intercultura, ma anche la ‘multicultura’ devono giocoforza confrontarsi. Diversamente continueremo ad avere a che fare solo con una realtà costruita bellamente a tavolino piuttosto che con quella ‘vera’, amara, difficile, che ri-chiede che anche i ‘teorici’ diventino ‘pratici’, ovvero che quelli che si sporcano le mani solo dell’inchiostro delle loro penne per parlare di questo fantomatico ‘altro’, le usino finalmente per toccarlo, per farne cioè esperienza concreta. Forse per la prima volta.

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Il tema delle migrazioni è sempre più presente nelle analisi sociali e politiche nazionali e inter-nazionali. Interessarsi di questa dimensione significa comprendere una complessa e varia tipologia di movimenti di lungo periodo che, in modo differenziato nel corso dei secoli, han-no caratterizzato la storia dell’umanità1. Oggi la questione è ripresa spesso in termini allarmistici come se fossimo di fronte a un fe-nomeno del tutto nuovo e particolarmente pericoloso. «Chiarire le nozioni, screditare le parole intrin-seca men te vuote, defi-nire l’uso delle altre a t t r a v er s o analisi pre-cise, ecco un lavoro che... p o t r e b b e preservare delle vite u m a n e » 2 . Queste con-siderazioni di S. Weil mi sembra-no partico-l a r m e n t e significative nel trattare di diversità culturali. Sappiamo bene come il diverso, lo straniero susciti sentimenti di interesse e fascino o, mol-to più spesso, di paura e come le parole, le ‘narrazioni’ possano incentivare gli uni o gli altri. L’ascolto di telegiornali o una lettura di quoti-diani (purtroppo nel nostro Paese ancora mo-desta a vantaggio dell’informazione televisiva) permette facilmente di notare, nel trattare la

questione dello straniero, il ricorrere di termini quali ‘invasione’, ‘spostamenti biblici’, ‘catastrofe’. Termini che evocano con immedia-tezza dinamiche fortemente negative. E’ necessario rendersi conto di quale sia l’im-portanza di un certo modo di comunicare. «La nostra esperienza quotidiana e quanto abitualmente ci circonda e costituisce dall’in-terno il nostro tempo sociale, anche a uno sguardo disattento, si dimostrano ritmati dal dato della comunicazione. Tale dato, pertanto facilmente si presta a essere assunto come una

delle più efficaci cate-gorie inter-pretative del nostro tem-po, vero e proprio im-p e r a t i v o c a t e g o r i c o della moder-nità, per usa-re una bella espressione di Etrik Ne-veu: è l’idea di una socie-tà della co-

municazione».3

Tutto passa attraverso la comunicazione. Da qui la necessità di fare un lavoro particolar-mente attento nell’inviare messaggi e nel rice-verli mantenendo sempre un elevato livello di vigilanza nell’elaborarli e nell’interpretarli: interrogarsi su quali siano gli effettivi significa-ti che si intendono veicolare nei diversi contesti e comprendere la direzione di sviluppo che si propongono di perseguire.

Interculturalità e comunicazione

* Docente di Pedagogia interculturale - Dipartimento di Scienze pedagogiche e didattiche - Università degli Studi "A. Moro" - Bari

di Luisa Santelli Beccegato *

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Qual è il nostro obiettivo quando trattiamo di diversità sociali e culturali? Entrare in questa problematica in maniera approfondita, elabo-rare un’analisi dei processi multi e intercultu-rali (la differenza tra questi due termini è ben nota e passa da una lettura dell’esistente a una ricerca di nuovi e più ricchi equilibri) compor-ta infatti un’effettiva comprensione della perso-na e, quindi, un discorso non solo formale, di indagine critica, ma esplicitamente progettuale e costruttivo in quanto rivolto a individuare il costituirsi teorico e pratico della pari dignità nel singolo ma anche nell’umanità. E’ necessario affrontare la questione della mul-ti e interculturalità approfondendo sia la loro ragion d’essere, e quindi il senso che prospetta-no in una concezione dell’uomo «autenticamente umano»4, sia la richiesta di significati operativi in ordine a una possibilità di convivere, di un vivere insieme nella conti-guità spaziale e temporale degli individui e dei popoli. Sfida estremamente elevata e, purtroppo, anco-ra pericolosamente, tragicamente persa in tante parti del mondo. Condizione questa che, in luogo di demotivare e infiacchire l’impegno, è necessario sia vissuta come ulteriore incentiva-zione al grande lavoro da fare per sostenere i soggetti più deboli e in difficoltà come gli stra-nieri e gli stranieri poveri e soggetti a regimi totalitari in particolare. Cercare di convivere nel rispetto delle differen-ze significa aver compreso la basilarità della condizione umana e impegnarsi a un compor-tamento conseguente. Certo il percorso è lungo e lenta l’elaborazione di queste convinzioni sui piani culturali, sociali, etici, politici, giuridici, formativi. Molto il cammino ancora da realizzare e, so-prattutto, ritengo si debba prestare particolare attenzione a non scivolare nella retorica dell’in-terculturalità, rendendo questi discorsi superfi-cialmente ‘decorativi’. E’ necessario pertanto impegnarsi – nei vari contesti professionali, sociali e civili – per affermare e valorizzare il loro senso autenticamente liberatorio ed eman-cipativo5. Quali sono allora le cose ‘urgentemente’ da

fare? Le scelte sono culturali e, specificamente, politiche. Ricercare sempre il superiore interesse delle per-sone, stranieri e non, soprattutto quando si trovino in condizioni di debolezza e fragilità è un messaggio chiaro e basilare che emerge da diversi contesti di analisi e in particolare da quelli pedagogici ed educativi. Non è mai da considerare scontato e banale insistere su questi temi. E’ necessario invece continuare a diffondere una cultura in questa direzione, anche attraverso dibattiti e incontri di studio, ma soprattutto utilizzando i nuovi linguaggi della comunicazione informatici e telematici perché divengano attenta sollecita-zione per l’adozione di comportamenti indivi-duali e sociali e di scelte istituzionali. Una considerazione di base riguarda i limiti dati da una divisione del mondo in parti diver-se e, dopo averlo diviso, tutelare sempre la parte dei più forti. Dividere la società tra stra-nieri e autoctoni, tra cittadini e non intendendo questi come parti contrapposte è un modo di guardare alle dinamiche contemporanee denso di potenziali conflittualità. C’è da chiedersi se davvero, ancora oggi, in tempi di globalizzazione, la geografia, lo spa-zio abbia una sua implacabile forza. E’, questo, un problema aperto su cui sono centrate molte analisi, ma in ogni caso, qualunque siano le valutazioni in corso, sempre, ineliminabile, insuperabile è la forza del micro-contesto in cui ci muoviamo. Da qui le responsabilità di cia-scuno di noi nell’ambito dei nostri spazi esi-stenziali. Le società mutano più o meno in fretta, ma comunque sono dinamiche anche se la difesa delle tradizioni assume, in alcune parti del mondo, toni pesanti e il recupero di imposta-zioni del passato riemerge minaccioso. Un panorama differenziato, dunque, in movi-mento nel quale, in questi nostri anni, malgra-do le difficoltà emergenti e gli ostacoli che si frappongono per superare le discriminazioni, molti sono i soggetti singoli e collettivi, pub-blici e privati che portano avanti una visione di interazione e di coesione, che si impegnano per sostenere processi di fratellanza.

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Certo, i processi non sono lineari, in molte si-tuazioni sono fragili e minacciati, ma in ogni caso sono presenti, testimoniati dalla vitalità, creatività, l’immaginazione di tante persone particolarmente impegnate per superare osta-coli di ogni tipo e cercare di promuovere un effettivo cambiamento culturale. Le tensioni tra una visione interculturale, che avverte la necessità di riconoscere a ogni essere umano la sua dignità e il diritto alla vita, e un approccio gerarchizzato che vuole chiudere spazi e frontiere (alle persone, non certo al de-naro e alle merci) sono molto forti. E’ necessa-rio essere consapevoli di quanto alti siano i costi psicologici, culturali, morali per persegui-re un disegno innovativo. Il linguaggio dell’intercultura è il linguaggio del presente e, ancor più, del futuro. La comu-nicazione costitui-sce una variabile-chiave nella dina-mica delle società in cambiamento. Ascoltando, co-municando, con-dividendo propo-ste e decisioni: il dialogo preventivo in luogo delle guerre preventive è l’unico modo per raggiungere risul-tati duraturi. I processi formativi vanno in questa direzione: la cultura è educativa quando è cultura di con-vivenza e di pace. Portare avanti progetti edu-cativi contrassegnati da un diffuso rispetto della persona e, quindi, da uno speculare rifiu-to della violenza è il modo più chiaramente costruttivo per affrontare il futuro. La violenza è un male che continua a “infettare” il mondo. «Pochi Paesi possono essere garantiti da una futura marea di violen-za generata da intolleranza, libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo politico e religioso»6. Investire in educazione è la scelta

più importante da fare nella prospettiva della convivenza, della cooperazione, della solidarie-tà. Una società conviviale non c’è ancora, forse non ci sarà mai, ma bisogna continuare a lavo-rare per non perdere il senso di questo itinera-rio possibile e cercare di rendere gli orizzonti sempre più larghi. E’ un mondo in movimento, sempre più consa-pevole delle proprie possibilità, di cambiamen-to, impegnato ad ampliare i propri ambiti di scelta. Le parole di O. Pamuk, Nobel per la letteratu-ra, ci possono aiutare a tracciare un futuro po-sitivo nella consapevolezza che nessuna cosa è semplice e identica a un’altra e che è l’incontro delle diversità che genera nuova bellezza:

«Due cose diverse, unendosi, creano una meraviglia»7. E’ nella direzione dell’incontro che in molti cerchiamo d’andare. Dobbiamo impara-re a comunicarlo sempre più e sem-pre meglio con la passione e la capar-bietà necessarie per portare avanti una così complessa av-ventura.

1G. Gozzini, Le migrazioni di ieri e di oggi. Una storia comparata, Mondatori, Milano 2008 2S. Weil, Non rifacciamo la guerra di Troia (1937), in Sulla guerra (a cura di D. Zazzi), Pratiche editrice, Milano 1988, p. 57 3P.C. Rivoltella, Teorie della comunicazione, La Scuola, Brescia 2001, p. 15 4M. Buber, L’io e il tu, trad. it., Bonomi, Bologna 1991 5E. Resta, Il diritto fraterno, Laterza, Bari 2002 6P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p. 25 7O. Pamuk, Kar, Einaudi, Milano 2007

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Dopo aver abbandonato, nel secolo scorso, la ribalta del mondo intellettuale, il tema dell’i-dentità ritorna oggi a porsi all’attenzione in modo sempre più insistente. Il concetto di identità è infatti riemerso da mol-te parti, da che, nell’ultimo quarto del Nove-cento, le identità storiche e culturali sono rie-merse con veemenza sulla scena pubblica. Si presentano alcuni interrogativi come, ad esem-pio, quale possa essere il senso dell’identità di fronte a prospettive di globalizzazione. La nozione di identità è stata spesso oggetto di trattazione sia nelle scienze sociali sia nel lin-guaggio politico, anche se a volte in modo im-proprio. Nella metafisica classica, identità indi-ca ciò che è uguale a se stesso (A = A). Facendo riferimento al concetto classico di identità e non–contraddizione, l’identità è sola con se stessa ed è tenuta rigorosamente separata dall’alterità (non-A); l’alterità è fuori ed è defi-nita solo in termini negativi. Ciò non vuol dire che l’alterità non esista, ma implica sul piano logico un netto allentamento, una inequivoca-bile separazione da ciò che è A. Ma se questo concetto vale per la metafisica, nella realtà non ci si può attendere che una persona o un grup-po sociale funzioni secondo un freddo schema logico. Lo stesso Hegel, del resto, intendeva la “identità” sostanziale come una tautologia, cioè una verità così ovvia da non dare alcuna informazione. «La compenetrazione di identità e alterità è, per Hegel, la sigla della verità com-pleta» (F. Remotti, L’ossessione identitaria, Later-za, Roma-Bari, 2010, p.87). L’identità dell’individuo è una costruzione sociale, il prodotto di relazioni intersoggettive. Questo non denota che l’individualità non in-cluda un suo principio di irriducibilità alla socialità, di singolarità rispetto a qualsiasi tipo di mediazione sociale. Se così fosse, l’identità sociale e collettiva sarebbe unica. D’altronde l’identità di un individuo non si può costruire

solo sulla base del principio di specificità. A questa specificità propria di ogni individuo si deve necessariamente unire la consapevolezza del sé. Per dirla con Hegel l’ “in sé” deve farsi “per sé” cioè esige una mediazione che faccia prendere coscienza del proprio sé immediato. Per poter mediare questa conoscenza del sé occorre realizzare un momento di “oggettivazione”: l’individuo deve poter trova-re se stesso di fronte a sé. L’individuo si mani-festa e si afferra nell’espressione visibile dell’altro da sé. Ogni relazione di riconosci-mento trova la propria origine in questa corri-spondenza. Secondo Hegel l’identità non ha nulla a che fare con la realtà. E’ il prodotto dell’intelletto che con il suo immobilismo classificatorio lo rende estraneo dalla realtà. Solo la ragione comprende le relazioni dinamiche e profonde del reale: «Nella ragione la separazione lascia il posto all’implicazione: se nell’intelletto A e non A si escludono e si respingono reciprocamente, nella ragione A e non A si attraggono e si fon-dono per dare luogo ad un’altra realtà. L’alteri-tà si insinua nell’identità e, divenendone una dimensione sostanziale e irrinunciabile, la di-strugge. Altro che identità irrinunciabile! Se-guendo Hegel è l’alterità la dimensione a cui non si può rinunciare: l’alterazione conferisce il

Tra identità e riconoscimento

* Docente di Religione cattolica - Circolo Didattico “Japigia II” - Bari

di Maria Raspatelli *

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senso alla realtà, la direzione del suo movi-mento» (cf. Remotti, p.88). L’individuo instau-ra un rapporto di riconoscimento dell’altro per il desiderio di autoconservazione di fronte ad un’alterità incombente. Per fare ciò non basta la negazione dell’altro, occorre piuttosto il rico-noscimento da parte dell’altro della propria identità. Riconoscere l’altro, degno di ricono-scermi è l’impronta di una relazione simmetri-ca e reciproca. Il riconoscimento edifica i sog-getti, li fa affiorare vicendevolmente e li inizia non nella loro identità, ma nella intrinseca rela-zione del sé con l’alterità. Il presupposto per ogni riconoscimento del sé è, dunque, nell’essere disposti ad accreditare l’altro da sé. L’oggettivazione qui operata è duplice: non è una semplice relazione esterna al soggetto, ma si considera la relazione stessa come il momento costitutivo dell’identità di entrambi i soggetti che chiedono riconoscimen-to. Grazie al riconoscimento assicurato dall’altro, il soggetto può far uscire la percezione di sé dall’astrattezza, attribuirgli il carattere della conoscenza reale e condurlo alla consapevolez-za in modo da farsi autocoscienza. In questa dinamica però l’altro è diventato parte della mia identità. La relazione del riconoscimento è l’atto nel quale consiste la reciproca attribuzio-ne di dignità. Il rispetto per me stesso penetra nella considerazione che io porto nei confronti di chi mi ha riconosciuto. E’ una azione mora-le! In questo movimento non figura un posto per l’identità. Le relazioni “reali” e “pratiche”, mediante cui per Hegel si realizza il riconosci-mento, escludono l’affermazione dell’identità. Riconoscimento e identità sono caratterizzate da una differente impostazione di base. Secon-do la logica dell’identità, la sostanza delle enti-tà è prioritaria rispetto alla relazione. Prima ci sono A, B, C e solo successivamente può esiste-re una relazione. Nella logica del riconosci-mento, la relazione è di per sé la fonte della costruzione dei soggetti; il “noi” sociale si co-struisce non prima ma mediante e in maniera imprescindibile dalla relazione. Il riconosci-mento è fortemente legato alla reciprocità (cf. Remotti, p.91).

Il dibattito sull’identità, come abbiamo già avu-to modo di valutare, è quanto mai attuale, non solo in ambito filosofico, ma anche antropolo-gico, scientifico, psicologico e religioso perché le implicazioni pratiche di queste idee investo-no la vita quotidiana e la convivenza all’inter-no di società eterogenee. Per questo motivo vorrei spostare l’asse della riflessione sul piano della teoria politica. Prenderò in esame due delle concezioni politiche che vanno oggi per la maggiore cioè i liberals e i communitarians. Per-ciò farò riferimento al testo Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento di C. Taylor e H. Ha-bermas rispettivamente comunitarista e libera-le. Taylor parte dal presupposto che l’identità di una persona e quindi il suo riconoscimento da parte degli altri membri della società non sia soltanto un atto esteriore o di rispetto, ma una necessità fondamentale dell’individuo, un bi-sogno essenziale dell’uomo. L’uomo, poi, non si appaga di essere riconosciuto come un essere umano universale, ma reclama il riconoscimen-to della sua unicità in quanto uomo e in quanto uomo appartenente a un popolo in particolare, ad una comunità specifica. L’identità, dunque, si organizza in modo isolato, ma poi la si pat-teggia continuamente con uno stile dialogico nelle relazioni e nelle reciprocità in cui ci si trova quotidianamente. I comunitaristi, dun-que, chiedono il riconoscimento delle differen-ze culturali e sociali delle varie comunità; una politica, cioè, che garantisca e promuova le specificità di ogni gruppo sociale, differenze che spesso sono state tralasciate se non addirit-tura annesse e normalizzate in una cultura egemone, propugnatrice di una uniformità superiore e maggioritaria. Riassumendo, dun-que, il rispetto e la salvaguardia della differen-za è necessario per il riconoscimento della di-gnità e dell’identità umane. Dalla parte dei liberals, Habermas riprende gli argomenti del liberalismo rawlsiano rispon-dendo alle teorie di Taylor. Secondo Habermas la posizione di Taylor e dei comunitaristi non risolve il problema. Il riconoscimento di bene-fici alle minoranze genera altre minoranze di-versificate, poiché è limitativo nei confronti di

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coloro che, pur vivendo negli identici spazi occupati dalle minoranze privilegiate, non si riconoscono nei loro modelli culturali. Secondo Habermas, il riconoscimento dei diritti indivi-duali così come è stato elaborato dalla cultura europea, comporta l’opportunità da parte dell’individuo di qualificare la propria identità nel dialogo con la propria e le altre culture. L’Europa democratica e liberale è virtualmente il punto di confronto e di pacifica convivenza tra comunità culturali eterogenee. Attraverso il riconoscimento dei diritti individuali, il libera-lismo include il riconoscimento di tutte le iden-tità culturali. Il completo soddisfacimento del programma liberale, dunque, imposta spontaneamente il riconoscimento di ciascuna identità/differenza. In questa aspettativa lo Stato che deve es-sere minimo e neutra-le sostiene proprio attraverso la sua in-differenza la plausibi-lità da parte dell’indi-viduo di scelta tra eventuali modelli culturali differenti. La replica più convin-cente che Habermas avanza a Taylor è che favorire le comunità minoritarie con politiche specifiche comporta considerarle al pari di specie in via di estinzio-ne. A ben vedere, le due teorie difettano entrambe: se da una parte è interessante l’obiezione che Habermas muove a Taylor, dall’altra è alquan-to equivoco il riconoscimento delle identità che Habermas indica; non è a caso che utilizzi l’e-spressione “multiculturalismo” nella descrizio-ne della società liberale. Un termine che denota coesistenza ma non evidentemente reciprocità. In una società multiculturale non c’è spazio di dialogo tra le varie minoranze e in una cultura che non comunica, non c’è neppure riconosci-

mento, comunicazione del sé attraverso l’altro. In tal modo vengono a mancare i presupposti che consentono all’individuo di procedere da una cultura ad un’altra, tale da comporre in modo più compiuto ma anche intraprendente, dilatato, e non dottrinario la propria identità. Un’identità che non può più evidentemente strutturarsi come identità inalterabile, ordinata una volta per tutte, perfino da realtà esterne. L’identità dell’uomo contemporaneo non può più porsi nei termini di un’identità statica, im-mobile, sempre uguale a se stessa così come per secoli è stata definita, quanto sempre più nei termini di riconoscimento flessibile dell’al-

tro individuale e col-lettivo. Un tempo l’identità individuale veniva a coincidere con l’identità sociale, costruita esternamen-te al singolo. Essa era rimpiazzata da un reticolo invariabile di significati che guida-vano l’individuo per tutta la vita. Erano società per lo più sta-tiche, chiuse ma ben definibili. L’idea che le caratterizzava era quella della prevedi-bilità ma, anche in un certo senso, della con-tinuità e di una sicu-

rezza che garantiva a chi ne faceva parte un certo appagamento. In una società così conce-pita si costruiva una rete stabile e significativa cui la persona si appellava inconsciamente, sia nel rapporto con se stesso, sia in quello del sé con gli altri. Nel nostro presente storico è venuta meno quell’eterogenea unicità del centro che dava significato. E’, del resto, una società oggi ana-cronistica e inconcepibile e non priva di effetti collaterali. La società contemporanea ci pone di fronte ad un’infinità di stimoli, a volte anche tra di loro contraddittori, davanti ai quali il soggetto si trova sguarnito degli strumenti e

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dei mezzi necessari per operare una scelta. Occorre allora alleggerire il concetto di identi-tà, formare un soggetto capace di strutturare la propria idea del sé in costante riferimento alle altre culture. L’individuo contemporaneo “deve” necessariamente attenuare i vincoli con la propria comunità naturale, che non vuol dire ignorare o rinnegare le proprie radici e la pro-pria cultura, ma non vuole essere nemmeno l’offerta di un nuovo modello identitario stabi-le da accogliere. Occorre inoltre considerare che l’identità culturale non può e non deve essere concepita nei termini della chiusura e dell’isolamento, perché questo determina ine-luttabilmente un aumento del tasso di violenza all’interno della società. L’assolutizzazione del concetto di identità conduce a logiche di inclu-sione/esclusione che consegnano alla violenza e alla fine del dialogo interculturale la società, perché «l’identità può anche uccidere e uccide-re con trasporto» (A.K.Sen, Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari 2006, p.3). Lo straniamento e lo iato tra sé e la società, l’anomia e la para-dossale necessità di estrema diversificazione, cioè reti sempre più fitte e non intersoggettive come sub-culture, contro-culture e gruppi de-vianti sono il risultato del mancato riconosci-mento del sé personale in relazione al sé in rapporto con gli altri. Le culture e le civiltà si sono composte espe-rendo ibridazioni e scambi culturali di molte-plice provenienza; esse sono punti di raccordo in una rete di traffici storico-culturali. Per questo motivo parlare d’identità oggi è divenuto problematico. E lo è ancora di più da quando si è cominciato a parlare a sproposito dell’ “identità”. Quando cioè sono fallite molte ideologie e molte filosofie che propugnavano una visione universale del mondo e senza di-stinzioni tra persone; le persone hanno reagito cercando pretesti per rifiutare di riconoscere in un altro essere umano il proprio simile, e l’uso della parola “identità” ne è l’esempio migliore (cf. Remotti, 2010). La parola identità spacca le società in tanti pic-coli gruppi che non riescono a negoziare nulla, perché dichiarare che una caratteristica fa parte della propria identità significa ritenerla irri-nunciabile ed immodificabile; significa anche

rifiutarsi di confrontarla e di discuterla. Nessu-no può rinunciare alla richiesta di riconosci-mento personale e sociale, senza il quale ver-rebbe messa in pericolo la sua stessa sopravvi-venza sociale; ma tale richiesta può essere po-sta senza necessariamente tirare in ballo l’iden-tità. La richiesta del riconoscimento è meno perentoria, più disponibile agli accordi; è una richiesta che apre la via ad una serie di aspetti, diritti, problematiche molteplici e dinamici. Le richieste identitarie, di contro, si configurano sempre più in termini di assolutezza storica, di perentorietà sociale, che di fatto sottrae il sog-getto alle “minacce” dell’alterazione che ven-gono dallo spazio, dal tempo, dagli immigrati, dagli stessi propri discendenti. Sempre più l’idendità si pone in termini indiscutibili! Infine vorrei concludere con il già citato Re-motti: «L’ossessione per l’identità è “ciò che rimane”, una volta che sia stata smantellata la cultura della convivenza con la sua intrinseca valorizzazione della molteplicità dell’alterità e persino dell’alterazione. […] In un mondo fatto soltanto di “noi” e nel quale le relazioni tra i “noi” sono soltanto dominate dal perseguimen-to dei propri interessi, la logica dell’identità trova la propria giustificazione, il proprio fon-damento, il proprio trionfo, la sua piena realiz-zazione. E’, infatti, un mondo strapieno di be-ni, di merci, di ricchezza (per lo meno in alcune sue parti), e desolatamente povero di relazioni e di progetti di convivenza: e soprattutto è un mondo in cui il futuro – perseguendo ottusa-mente la logica dell’identità – non potrà fornire altro che scontri e sopraffazioni». I gruppi so-ciali, oggi, dovrebbero lottare non per l’“identità”, ma per il “riconoscimento”, che come abbiamo visto prima è qualcosa di molto più duttile, pragmatico e morale. L’identità tende a correggere il noi in un’unità, in un Io, e gli altri in nemici, in soggetti che rappresenta-no un pericolo per il solo fatto di essere “altri”. Ma abbiamo proprio bisogno dell’identità? Forse sarebbe adeguato adoperarsi maggior-mente sulla consapevolezza dell’incompletez-za. Si potrebbe aspirare a valutare il senso dell’incompletezza e, quindi, l’apertura verso l’alterità, sì da poter realizzare una conoscenza del noi/altri rinnovato e costruttivo.

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U n populu m ittitilu a catina spughiatilu attuppatici a vucca è ancora libiru .

L ivatici u travagghiu u passaportu a tavula unnu m ancia u lettu unnu dorm i, è ancora riccu.

U n populu diventa poviru e servu quannu ci arrubbanu a lingua addutata di patri: è persu pi sem pri.

D iventa poviru e servu quannu i paroli non figghianu paroli e si m ancianu tra d’iddi. M i nn’addugnu ora, m entri accordu la chitarra du dialettu ca perdi na corda lu jornu.

M entre arripezzu a tila cam uluta ca tissiru i nostri avi cu lana di pecuri siciliani.

E sugnu poviru: haiu i dinari e non li pozzu spènniri; i giuelli e non li pozzu rigalari; u cantu nta gaggia cu l’ali tagghiati. U n poviru c’addatta nte m inni strippi da m atri putativa, chi u chiam a figghiu pi nciuria.

N uàtri l’avevam u a m atri, nni l’arrubbaru; aveva i m inni a funtana di latti e ci vìppiru tutti, ora ci sputanu. N ni ristò a vuci d’idda, a cadenza, a nota vascia du sonu e du lam entu: chissi non nni ponnu rubari. N on nni ponnu rubari, m a ristam u poviri e orfani u stissu . Ignazio Buttitta

Lingua e dialettu

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Per affrontare il tema dello stereotipo vorrei partire con una breve digressione, o meglio da una premessa che, a tutta prima, potrebbe sem-brare non cogliere immediatamente il proble-ma in questione. Ed invece, non appena ci si intrattiene adeguatamente con essa, si potrebbe addirittura scoprire che tutto, forse, si gioca proprio nella capacità di accoglierla e abitarla, imparando magari a mantenerne la decisività estrema. La premessa è la seguente: che una conoscenza, in generale, ed una possibilità di relazioni so-ciali e (inter-)culturali, in particolare, possano darsi come esperienze prive di pregiudizio è una condizione non solo impossibile, ma anche non auspicabile. Ciò è stato mostrato, in diversi modi e con differenti accentuazioni, soprattut-to nel panorama del pensiero contemporaneo,

da autori quali Hus-serl, Heideg-ger, Gada-mer, Ri-coeur. La presenza ed operativi tà di un tale inevi tabi l e “ p r e -g i u d i z i o ” , cioè – alla lettera – di un giudizio presupposto, è dovuto al semplice – ma non per questo meno fondamenta-

le – fatto che ogni rapporto che i soggetti costi-tuiscono tra di loro e col mondo si articola sem-pre in contesti ontologici, culturali e sociali già dati, che formano così questi stessi soggetti fin dall’inizio, tracciandone l’orizzonte stesso di vita. La possibilità di liberarsi di tali presuppo-sti, perciò, non soltanto risulta impossibile, ma nemmeno desiderabile, poiché dietro suddetti contesti concreti di mondo (qualora fosse pos-sibile qualcosa come il giungere dietro le quin-te di un contesto) si troverebbe sì forse un sog-getto libero da ogni presupposto, ma allo stes-so tempo inevitabilmente vuoto, cioè depurato da ogni significato vitale. Al riguardo, Husserl parla di un mondo-della-vita che precede cia-scun soggetto e in cui si dà tutta quella serie di orizzonti di senso che ne rendono possibile l’esperienza. Heidegger si riferisce, a sua volta,

Dal “pre-giudizio” al “pregiudizio” Lo scivoloso crinale fra l’ascolto dell’altro

e il suo stereotipo

* Docente - Institut für Ethik, Evangelisch-Theologische Fakultät, Universität Tübingen

di Ferdinando G. Menga *

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ad un essere-gettato nel mondo e nelle condi-zioni che quest’ultimo detta quale istanza esi-stenziale insuperabile per ogni esserci indivi-duale. Sempre sulla stessa linea, Gadamer ap-profondisce il concetto di un necessario pre-giudizio ermeneutico, da cui parte ogni inter-pretazione; pre-giudizio dovuto al fatto che ogni individuo è già sempre inserito in una sfera contestuale di significati e relazioni storici sulla base della quale ciò che viene interpretato è necessariamente filtrato. Per cui, la possibilità di una conoscenza interpretativa pura e priva di presupposti è un’impresa esclusa per princi-pio. Per quanto riguarda, infine, Ricoeur, l’im-possibilità di una conoscenza pienamente tra-sparente è vanificata dal fatto stesso che ogni soggetto concreto è essenzialmente parte vi-vente di trame testuali e narrative (di carattere sociale, culturale, istituzionale), le quali costi-tuiscono già sempre la sua sfera di possibilità di vita. Ora, se ho insistito fin dall’inizio sulla premes-sa di un siffatto rimando ad una insuperabile necessità del presupposto è perché ciò detiene una rilevanza estrema proprio nel contesto del discorso che ci riguarda da vicino, ovvero il discorso interculturale. Una tale premessa, in effetti, segnala il fatto che ogni conoscenza e relazione con ordini culturali altri non può assolutamente aver luogo in una modalità pri-va di pre-giudizi. Di nuovo, una tale modalità sarebbe tale da svolgersi, alla fine, in luoghi asettici e virtuali, il che non corrisponde in alcun modo alla nostra esperienza concreta e quotidiana. Gli incontri culturali, al contrario, avvengono sempre a partire da luoghi concreti, ovvero da ordini sociali e storici, i quali sono costituiti da un determinato corredo di signifi-cati, credenze e visioni del mondo. In tal senso, ogni cultura che incontra un’altra cultura – per dirla in modo molto semplificato – lo fa sempre a partire da un luogo determinato e sulla base di significati di partenza determinati. Sulla base di questi significati di partenza, una cultu-ra si costruisce interpretazioni tradizionali ed iterate di altre culture ed ordini di mondo. Av-viene così che, per esempio, gli italiani si costi-tuiscono un certo concetto di questo o quest’al-

tro popolo e viceversa. A questo punto, tuttavia, si pone la spinosa questione: il fatto che i pre-giudizi siano inevi-tabili vuol per caso dire che gli stereotipi stessi alla fine siano ineludibili? A tutta prima, po-trebbe sembrare proprio di sì, visto che uno stereotipo può essere considerato una forma cristallizzata di un pre-giudizio, che una deter-minata cultura si dà di un’altra nel tempo. Sen-nonché, le cose non stanno esattamente così. Proprio in tal senso vorrei, ricalcando i termini del titolo, porre la seguente tesi: che i “pre-giudizi” siano inevitabili non equivale affatto a dire che lo debbano essere anche i “pregiudizi”. In altri termini, l’ineludibilità di una conoscenza priva di presupposti non im-plica affatto che tali presupposizioni debbano sclerotizzarsi. Anzi, a ben guardare, la logica che soggiace alla necessità del presupposto suggerisce proprio il contrario, ovvero un’ine-vitabile fluidità storica. Se ci chiediamo, infatti, il motivo per cui i pre-supposti sono necessari, giungiamo presto a quella condizione che la modernità ci ha inse-gnato fin dai suoi albori, secondo la quale l’im-prescindibilità di punti di partenza contestuali e storici altro non indica se non il fatto che noi, non potendo partire da e possedere verità in-concusse, siamo rimessi sempre a significati culturali limitati e parziali. Il che vuol dire, al contempo, che tali significati, per loro natura, non essendo verità sacrosante, possono essere modificati non appena interviene qualcosa che li metta in discussione. In tal senso, il pre-giudizio, proprio in quanto necessità di parten-za di carattere contingente e non meta-storico o puramente metafisico, è esposto già sempre alla possibilità di alterarsi. E’ esattamente que-sto carattere costitutivo che gli impedisce di trasformarsi, cristallizzandosi, in un pregiudi-zio stereotipato. Pertanto, nel momento in cui interviene uno stereotipo si è già tradita la ne-cessaria forma sociale, storica e contingente di cui si nutre la vera natura del pre-giudizio. Infatti, mentre il pregiudizio, data la sua costi-tutività storica, obbedisce alla logica dell’“è così, ma potrebbe essere anche altrimenti”, lo stereotipo obbedisce alla logica dell’“è così per

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natura” o anche dell’“è sempre stato così e così sarà sempre”. Questa logica ultima, applicata al teatro degli incontri interculturali, non soltanto risulta es-sere epistemologicamente scorretta, visto che non c’è affatto un qualcosa come un comporta-mento culturale tale da rivelarsi “così e basta”, “così in sé e per sé”; un comportamento si rive-la, invece, sempre in una certa modalità deter-minata e contingente proprio in base alle parti che, nello specifico, sono in gioco. In tal senso, la lingua cinese o araba non è tale da essere incomprensibile in sé, ma è sempre più o meno (in-)comprensibile in relazione a chi formula un tale giudizio. Dicevamo, la logica dello ste-reotipo non solo è epistemologicamente inso-stenibile, ma anche deleteria e pericolosa, poi-ché il “così e basta” applicato alla cultura altra rappresenta una forma di giudizio sull’altro, il quale presume di sapere qualcosa dell’altro, senza però averlo mai lasciato parlare. Ascoltare l’altro o la cultura altra, invece, po-trebbe portare a comprendere che il loro oriz-zonte di vita è molto più complesso e sfaccetta-to di quanto presumiamo di sapere. Ed è pro-prio la pratica di un tale ascolto che, peraltro, ci conduce ad interrogare sempre di nuovo la tenuta stessa dei nostri pre-giudizi nei loro c o n f r on t i . Ma non solo. Ascol-tare l’altro p o t r e b b e , inoltre, scal-fire le no-stre stesse invetera te certezze su noi stessi e, così, potreb-be portare a p r o ie t ta r e nuove pos-sibilità di e s i s t e n z a per i nostri m e d e s i m i orizzonti di

vita. In fondo, la storia ci ha insegnato che nuo-ve possibilità di vita per noi stessi ci sono ve-nute quasi sempre attraverso l’incontro con l’altro, il distinto, l’estraneo. Ad ogni modo, se le due appena citate prospet-tive di un tale ascolto dell’altro ci sembrano troppo pretenziose e difficilmente perseguibili, ci sarebbe comunque un’altra e più semplice ragione per cui trarre profitto da una pratica dell’ascolto dell’altro, evitando di mettergli noi stessi le parole in bocca. Un tale ascolto, in ef-fetti, ci potrebbe per lo meno risparmiare l’ine-vitabile imbarazzo di fronte a quelli che po-tremmo chiamare sorprendenti ed inaspettati comportamenti dell’altro: come, ad esempio, quello concernente oggigiorno alcune compa-gini culturali in cui soffia forte il vento di un’a-spirazione alla libertà democratica, che fino all’altro giorno sembrava invece ad esse irrime-diabilmente preclusa. Si tratta per caso di un miracolo? Ma se non è tale, dove eravamo mentre si componeva un tale racconto di liber-tà? Forse eravamo semplicemente troppo im-pegnati col nostro racconto stereotipato sugli altri. Avremmo fatto meglio a prestare invece ascolto agli altri, o meglio ad intessere un rac-conto a partire dagli altri.

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Uno dei problemi più angustianti e urgenti della società moderna, e anche dei cristiani di oggi, è costituito dal fenomeno di tanti migranti, rifu-giati ed esuli che sono sradicati, per decisione libera o forzata, dalla loro patria. Si tratta di un fenomeno antico, di cui la Bibbia offre una copiosa testimonianza fino a farne diventare il simbolo più eloquente della condizione dei cri-stiani, «stranieri e pellegrini su questa terra» (Eb 11,13). La Bibbia riguardo agli stranieri assume un duplice atteggiamento, positivo e negativo. Si potrebbe parlare di una sorta di “doppio regi-stro” in cui collocare le tipologie dei testi biblici sullo straniero. Nel primo registro emergono i punti di vista ispirati a diffidenza e sospetto,

ostilità e disagio: sono i modelli dello straniero oppressore, corruttore e strumento inconsape-vole del castigo divino. Nel secondo, si ritrova-no sguardi più positivi, capaci di promuovere un’apertura all’altro: si riconosce qui la tipolo-gia dello straniero come prossimo, come ospi-te, o addirittura come modello da imitare. Questa doppia ottica – negativa e positiva –appare anche dal vocabolario che contrassegna l’area semantica e linguistica che caratterizza nell’AT la figura e lo statuto dello “straniero”. Per indicare lo straniero o il forestiero la Bibbia ebraica fa ricorso a tre aree linguistiche fondamen-tali: zar, che indica lo straniero in senso etnico e politico, in particolare i popoli stranieri pericolosi e ostili dai quali Israele si sente minacciato e dai

Straniero ed emigrante nella Bibbia

* Biblista - Direttore Ufficio per la Scuola - Diocesi di Andria, Minervino, Canosa

di mons. Michele Lenoci *

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quali, per salvaguardare la propria fede monotei-stica, si difende affermando la propria separatezza; nekàr, che indica lo straniero occasionale, che si trova momentaneamente in mezzo al popolo per motivi di viaggio, di commercio, ecc., una sorta di “pendolare”, come per esempio il viandante o il commerciante; infine gher, che per lo più è lo stra-niero il quale, a causa di necessità politiche o economiche, è stato costretto ad abbandonare la propria terra e si è stabilito in Israele, assumendo lo status di “straniero residente”. E’ proprio alla figura del gher che la Scrittura dedica particolare attenzione. E’ significativo e degno di nota che la prima volta che nella Bibbia appare un riferimento all'estraneita’ legata al risiedere in mezzo a popolazioni diverse dalla propria, lo si abbia con la figura di Abramo, il primo a cui la Scrit-tura attribuisce la condizione di forestiero, il primo a essere straniero (cf Gen 23,4). Dopo di lui anche i patriarchi saranno stranieri tra le genti, poi Israele sarà straniero in Egitto, infine vi sarà chi sarà straniero in Israele. Nella Bibbia, quindi, la riflessione e lo svilup-po del tema della considerazione dello stranie-ro passano attraverso questa triplice scansione: dall’esperienza di Abramo a quella di Israele in Egitto, per giungere, da ultimo, a parlare di forestieri che abitano in mezzo al popolo ebrai-co. Legislazione sugli stranieri nell’AT L’AT ha elaborato un vero e proprio “diritto dell’immigrato”, sviluppatosi in epoche diffe-renti, con disposizioni che abbracciano una molteplicità di ambiti esistenziali, e dai quali risulta che la preoccupazione per gli stranieri immigrati divenne un elemento strutturante della società israelitica. I decreti a favore degli immigrati e dei profughi si segnalano all’inter-no di tutta la legislazione veterotestamentaria per chiarezza e determinazione e costituiscono veramente un modello ispiratore, fecondo an-cora oggi, per un’etica teologica dell’accoglien-za dell’altro e dello straniero. Le misure che regolano il comportamento dei figli d’Israele nei confronti degli immigrati sono scaglionate nei tre principali complessi legislativi veterotestamentari: il Codice dell’Al-

leanza (Es 20,22�23,33), il Deuteronomio, il Codice di Santità (Lv 17�26). Attraverso di essi, successivi anche cronologi-camente, si nota un’evoluzione della posizione del gher nella società israelitica: - il Codice dell’Alleanza pone questo straniero che risiede all’interno di Israele sotto la prote-zione di JHWH (cf Es 22,20-24; 23,9.12); - il Deuteronomio, accostandolo alle figure dell’orfano e della vedova, gli accorda un trat-tamento e una protezione speciali (cf Dt 14,21; 16,11-12.14; 14,28-29; 27,19; soprattutto Dt 10,17-19, unico passo in cui Israele è esortato ad amare qualcun altro oltre a Dio; 27,19); - il Codice di Santità lo rende praticamente un membro della comunità dei figli d’Israele (cf Lv 19,33-34). Alla base di questa legislazione ci sono due motivazioni teologiche fondamentali: - la fede nel Dio creatore: Gen 1,26ss afferma che “immagine” di Dio è Adam cioè l’uomo, tutti gli uomini. Ad Adam � cioè ad ogni uomo - è data la stessa dignità, lo stesso diritto di godere delle cose del mondo e, soprattutto, lo stesso potere di governarle. «E così i diritti di ogni uomo sono semplicemente radicati nel suo essere uomo. Diritti di creazione, non di storia. Diritti che discendono da Dio, non salgono dall’uomo. Il percorso è teologico, non filosofi-co. E’ l’essere uomo che fonda i diritti, non la cittadinanza, o altra appartenenza. E la dignità dell’uomo è gratuita: un dono prima che un diritto» (B. Maggioni); - la memoria dell’esperienza egiziana, che arriva a determinare come «normante» l’atteggiamento di protezione e di accoglienza verso l’immigra-to. Coloro a cui sono rivolte queste leggi sono infatti i discendenti di coloro che avevano vis-suto in prima persona l’esperienza dell’oppres-sione in Egitto. In questo modo la memoria dell’evento storico diventa legge e la legge sociale si configura come il memoriale della storia passata. Questi complessi legislativi na-scono dunque da una cultura “anamnestica”, è la cultura della memoria che sta alla base di una cultura dell’ospitalità e dell’accoglienza. Nel Nuovo Testamento Il Nuovo Testamento si inserisce nella cultura

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religiosa e sociale dell’Antico Testamento, ma con una novità: l’evento “Gesù Cristo”, che imprime al nostro tema una svolta decisiva, la cui originalità essenziale può essere riassunta nell’affermazione: «Ero straniero e mi avete ospi-tato» (Mt 25,35). La rivelazione cristiana confessa come verità centrale l’incarnazione. Ora in alcuni testi fon-damentali del NT l’incarnazione viene presen-tata come una “autoespropriazione” di Dio, Dio che esce, si allontana, si aliena da se stesso e si riveste della natura umana: Dio si fa stra-niero a se stesso. La “stranierità” diventa cate-goria di rivela-zione (cf Gv 1,14; Fil 2,5-8 e i testi cosiddetti “paradossali” dell’incarnazio-ne e della re-denzione: il ricco che si fa povero (2 Cor 8,9); il Figlio che entra nella “carne di pecca-to” (Rom 8,3); il Figlio che di-venta maledet-to (Gal 3,13); l’Innocente che diventa peccato (2 Cor 5,21); ecc. Il Verbo incar-nato che si è fatto straniero con la sua incarnazione, ci ha anche lasciato un magistero prezioso sul tema dell’accoglienza e della solidarietà verso lo straniero sia con il suo comportamento (cf Mc 7,24-30; Mt 15,21-28; Lc 9,51-56; Lc 17,11-19; ecc.) che con il suo inse-gnamento (cf Lc 10,30-37): Gesù � libero sia da schemi negativi precostituiti sia da romantiche idealizzazioni � vede nello straniero, come in ogni altro uomo, una persona portatrice di valori e non soltanto di bisogni: un uomo da cui imparare, non solo un povero da aiutare.

Oltre questi testi, non possiamo non ricordare la grande lezione matteana del giudizio finale (Mt 25,31-46). Gesù, nel ruolo di giudice, sotto-pone all’esame definitivo tutta l’umanità; e la materia d’esame è il comportamento reciproco verso alcune categorie di bisognosi (gli affama-ti, gli assetati, i carcerati, gli ammalati, gli spo-gliati) tra cui ci sono anche gli stranieri. Per quattro volte ricorre questo leitmotiv: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare, ero straniero e mi avete accolto». «Ma Signore quand’è che avevi fame e ti abbiamo visto? Quand’è che ti abbiamo visto straniero e non ti

abbiamo accol-to?». Per dire l’acco-glienza Gesù ricorre a un verbo (sunago) per spiegare che non si tratta del semplice esercizio di un’opera di misericordia. Si tratta, invece, di un’accoglien-za fatta di par-t e c i p a z i o n e , condivisione, integrazione e i n t e r a z i o n e : l’altro – soprat-tutto nel caso dello straniero – non ha biso-gno soltanto di

essere accudito, ma necessita di essere ricono-sciuto, tutelato e rispettato nella sua dignità di persona umana, magari ospitato nella stessa casa, unito ai gruppi dei fratelli. Non quindi solo l’aiuto, ma proprio l’accoglienza. Oggi accogliere lo straniero significa fargli spa-zio nella propria città, nelle proprie leggi, nella propria casa, nel proprio tempo e nel giro delle proprie amicizie. L’ospitalità è dunque molto diversa dalla bene-ficenza: la prima coinvolge e crea un legame, la

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seconda si accontenta di un gesto. E c’è di più: il forestiero da accogliere è nel contempo il prossimo da trattare come se stessi e il Signore da servire con tutto il cuore: in lui è annidata la presenza di Cristo: «Ogni volta che l’avete fatto a uno di questi l’avete fatto a me». Il Dio che si è fatto straniero per farci cittadini di Dio è il Dio che resta ancora straniero dentro l’affamato, l’assetato, lo straniero per chia-marci alla solidarietà dello sfamare, del disse-tare, dell’accogliere. Gesù non ha abolito le diversità razziali o politiche; non ha costruito un solo impero monolitico a livello mondiale. Ma chi crede in Lui e vuol vivere come Lui riconosce in ogni uomo una creatura di Dio, dunque un fra-tello. La chiesa è infatti la famiglia dei figli di Dio, per i quali continuano ad esserci stranieri, emigranti, esuli, ma per i quali la superiore giustizia del Regno dei cieli (Mt 5,20) svela l’incompiutezza e la insufficienza di ogni realizzazione umana sia politica sia sociale. I cristiani non hanno, come tali, i mezzi politi-ci e sociali per risolvere i gravi e angosciosi problemi della migrazione, ma sia dalla tradi-zione ebraica sia soprattutto dalla fede in Gesù attingono la regola di condotta così formulata da Paolo: «Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo accolse voi, per la gloria di Dio» (Rm 15,7). Il cristiano è tenuto quindi ad essere «premuroso nella ospitali-tà» (Rm 12,13): questo dove-re di essere ospitali (philoxenos,� amico degli stra-nieri) riguarda tutti i cristiani, dal vescovo (1 Tm 3,2; Tt 1,8) alla vedova (1Tm 5,10). La Lettera agli Ebrei pone l’uno accanto all’altro l’amore fraterno e l’ospitalità, «praticando la quale alcuni hanno accolto degli angeli senza saperlo» (13,2): l’amore fraterno è la carità comunita-ria, l’ospitalità è l’accoglienza

dello sconosciuto. Come conclusione e sintesi di questa riflessione vorrei citare un testo particolarmente stimolan-te del Card. Martini. «Di fronte alla scoperta di responsabilità sempre più immediate e dirette in atteggiamenti razzistici che invadono la nostra vita quotidiana, traiamo dall’annuncio biblico non solo l’imperativo urgente a rompe-re ogni complicità, ma veniamo pure attirati con grande forza a fare nostra l’utopia di una fraternità multirazziale che l’amore evangelico e le circostanze dei tempi disegna-no davanti a noi. Gli stranieri che invadono le nostre città sono un prezioso segno dei tempi che ci sveglia e ci interroga. Essi non sono una presenza fastidiosa, inopportuna e, ancor me-no, la causa di una decadenza che prepara un futuro minaccioso; non sono insomma una maledizione ma rappresentano una chance anche per il rinnovamento della nostra vita. Sta a noi scegliere se questa invasione sarà pacifica o conflittuale, se la nostra sprovvedutezza o intolleranza scateneranno una intolleranza religiosa o politica ancora più terribile. Sta a noi insomma impegnarci a preparare nella genero-sità e nell’accoglienza una via di condivisione con chi è povero o diverso verso un futuro comune».

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Verso una Educazione Planetaria Il pensiero di Edgar Morin

Il pensiero complesso Ogni conoscenza è frutto di analisi e sintesi, di separazioni e connessioni, di contestualizzazio-ni e globalizzazioni, di diversità ed unità; tutti questi processi danno vita al cosiddetto “pensiero complesso”. Per collegare tra loro gli innumerevoli saperi occorre che l’individuo possieda principi organizzatori del pensiero; però, come sappiamo, la cultura contempora-nea si sviluppa attraverso due vie, nettamente separate: quella umanistica e quella scientifica. La sfida epocale, dunque, è mettere fine alla separazione tra le due culture: mentre, infatti,

le Scienze Matematiche permettono di inserire la condizione umana nell’ambito cosmologico, le Scienze Letterarie permettono di studiare in modo pluridimensionale la condizione umana. Come è agevole notare, entrambe le culture si occupano di studiare la “condizione uma-na” (data dall’interazione dialogica tra coscien-za e cultura, pulsione e ragione, autonomia e appartenenza sociale, razionalità e mito). Per riuscire a sintetizzarle in modo corretto occorre che il pensiero sia in grado di operare interconnessioni tra le parti e il tutto. Ecco per-ché il “buon pensiero” non ha come guida la riduzione, bensì la complessità: la nostra luci-dità, insomma, dipende dalla complessità del modo di organizzare le nostre idee. La prima nozione umana evidente è la comune cosciente consapevolezza della identità terrestre; attra-verso la coscienza antropologica riconosciamo l’unità nella diversità, la coscienza ecologica fa sì che riconosciamo la necessità della convivialità tra gli esseri, la coscienza civica promuove il senso di responsabilità e solidarietà, infine la coscienza dialogica permette di criticarci fra noi, di autocriticarci e di comprenderci gli uni gli altri. L’educazione planetaria Un modo di pensare capace di interconnettere conoscenze separate è, dunque, anche capace di promuovere un’etica di solidarietà tra uma-ni. Un pensiero capace di non rinchiudersi nel particolare ma di concepire l’insieme è adatto, inoltre, a favorire il senso di responsabilità e di cittadinanza: la formazione al pensiero complesso

* Dirigente scolastico - Scuola Secondaria di I Grado “Azzarita-De Filippo” - Bari

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di Giuseppe Capozza *

Edgar Morin, direttore del Centro Nazionale delle Ricerche Sociali di Parigi, è responsabile del Progetto Educativo dell’Unesco. Il suo pensiero filosofico, incentrato sul concetto di “complessità”, descrive in modo acuto ed originale la nostra epoca. In gioventù ha militato nella Resistenza francese. E’ autore di un testo di notevole spessore pedagogico: La testa ben fatta(Ed. Raffaello Cortina, 2000). I suoi lavori più recenti sono pubblicati dalla Casa Editrice Erickson di Trento.

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ha, dunque, conseguenze etiche. L’indifferenza, l’egocentrismo, l’etnocentrismo e il sociocentri-smo pongono ostacoli alla comprensione, per-ché ci situano al centro del mondo e considera-no secondario, insignificante ed ostile tutto ciò che ci è estraneo o lontano. Siamo innanzitutto cittadini della Terra, come già Kant affermava: «La finitezza geografica della Terra impone ai suoi abitanti un principio di ospitalità universa-le». Ed invero mai come oggi il genere umano ha bisogno di maturare una solidarietà planeta-ria, soprattutto in considerazione del fatto che la Terra è una patria in pericolo, dal momento che la specie umana conduce la sua esistenza sotto la minaccia del disastro ecologico! La so-luzione è civilizzare ciascuno di noi. L’educa-zione deve spiegare il concetto di Terra-Patria rafforzando l’apprendimento di una condizio-ne civica terrena che implica il riconoscimento del nostro legame con la biosfera, partendo dall’appartenenza, in quanto cittadini, alla Na-zione, all’Unione Europea e alla Terra. A tal proposito Morin afferma che «non può esservi progresso nelle relazioni fra individui, fra nazioni, fra culture senza reciproche com-prensioni. Per comprendere l’importanza vitale della comprensione occorre riformare le menta-lità: la qual cosa richiede, necessariamente, una riforma dell’educazione». La scuola dovrebbe essere il luogo di apprendimento del dibattito argomentato, delle regole necessarie alla di-scussione, della importanza di comprendere il pensiero altrui, esercitare l’ascolto e rispettare le voci minoritarie; in questo modo, l’apprendi-mento della comprensione svolge un ruolo fondamentale nell’apprendimento della pratica democratica. L’obiettivo di questa che potrem-mo definire educazione planetaria è quello di educare perché nasca una società-mondo. La principale sfida dell’educazione planetaria consiste, dunque, nel comprendere l’avventura di una umanità alla ricerca, come Odisseo, del proprio destino. L’incertezza e l’errore Morin non nasconde le difficoltà di una simile riforma epocale, anzi ne indica due; la prima consiste nella incertezza della conoscenza, in quanto limitata per natura e definizione. Scopo

dell’educazione, allora non è trasmettere im-probabili conoscenze, bensì imparare ad affron-tare l’incertezza. Morin distingue due tipi di incertezze: quella cognitiva (la conoscenza non è riproduzione del reale ma traduzione, ricostru-zione, interpretazione e crisi di esso) e quella storica (il susseguirsi caotico di creazioni e di-struzioni, progressi e arretramenti è la prova che lo sviluppo storico dell’umanità non è gui-dato dal miglioramento progressivo della con-dizione umana). Eppure, sapere di vivere in un mondo incerto non significa dover rassegnarsi allo scetticismo, bensì è uno stimolo a conte-stualizzare e globalizzare allo stesso tempo il pensiero. Morin elenca, a questo proposito, sei principi di speranza: non è la speranza che fa vivere, è l’esistenza che crea la speranza che permette di vivere; le grandi trasformazioni erano impensabili prima di verificarsi; tutti gli eventi felici erano a priori improbabili; trasfor-ma il sottosuolo prima della superficie; quando un pericolo aumenta, aumentano anche le pro-babilità di salvezza; l’educazione planetaria lotta per la salvaguardia dell’umanità. Insomma, se è pur vero che è l’incertezza a farci compagnia, è la speranza che funge da stimolo ad affrontarla e superarla. La seconda difficoltà riguarda l’errore: la nostra mente, tesa a selezionare i ricordi vantaggiosi e a cancellare quelli sfavorevoli, non solo cerca di resistere alle argomentazioni avverse ma al contempo, presa com’è a verificare e criticare, spesso finisce col mortificare l’affettività. Strategia e scelta Così come Pascal collegava la coscienza dell’in-certezza alla consapevolezza di una “scommessa” , Morin parla di strategia e scelta: la prima raccoglie le informazioni e la seconda le esamina tenendo conto della loro complessi-tà, delle modifiche in corso d’azione e dei cam-biamenti agenti sul contesto. In questa ottica, diviene delicato il ruolo dell’insegnamento, che ha il compito di trasmettere non solo contenuti, abilità e nozioni ma soprattutto strategie per la vita; per far questo, però, occorre che l’inse-gnante sia dotato di competenza, arte e tecnica. Proprio perché la sua missione suppone tempo, fede e amore, è elevata e difficile.

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* Professore di Teorie sociologiche all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove dirige il Master sull’immigrazione.

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Che in Italia e in tutta Europa siano in crescita, da un po’ di anni, discriminazioni e razzismo ai danni delle popolazioni immigrate, mi sem-bra una di quelle affermazioni auto-evidenti, che non c’è bisogno di dimostrare. A farlo ci sarebbe l’imbarazzo della scelta da quante so-no le azioni, le disposizioni e le rappresentazio-ni simboliche attraverso cui le popolazioni e i lavoratori immigrati in quanto tali, per ciò che sono e non per quel che fanno, vengono discri-minati e inferiorizzati, fatti oggetto di disprez-zo e di odio. L’opinione più diffusa è che ad alimentare que-sta ascesa del razzismo siano le classi popolari, con le loro paure, la loro ignoranza, il loro egoismo. Di questo incontenibile, acceso razzi-smo popolare i governanti sarebbero invece i virtuosi moderatori. La mia convinzione è, francamente, opposta: le discriminazioni raz-ziali e il razzismo dei nostri giorni, come peral-tro quello dei secoli passati (non dimentichia-mo che gli stati europei hanno dietro di sé cin-quecento anni di feroce colonialismo), non sal-gono dal basso verso l’alto della piramide so-ciale e del potere, scendono dall’alto verso il basso, dagli apparati statali, dai governi, dai parla-menti legiferanti verso le classi popolari e lavo-ratrici autoctone. La recente vicenda di Lampedusa può esser presa, sotto questo profilo, a vero e proprio caso di studio. Da un lato ministri e governato-ri di regioni impegnati nella nobile gara a trat-tare i rifugiati di guerra e gli emigranti da Tu-nisia e Libia come untori da respingere imme-diatamente indietro, da tenere fuori dai propri territori o da confinare in quarantena, da un lato chi parla perfino di “liberazione” dell’iso-la…, una “liberazione” da festeggiare con la costruzione di un casinò, nota fonte di libertà e benessere; dall’altro una popolazione che, per

quanto esasperata dai disagi e dai danni mate-riali subiti, è la sola a mostrare, almeno in alcu-ne sue componenti, un certo grado di umana comprensione per chi approda sull’isola, la sola a essere capace di gesti di solidarietà (penso, ad esempio, al gruppo di donne isolane che porta piccoli doni a Feketre, la giovane mamma eritrea che ha appena partorito suo figlio Yeabsera in un barcone). Trattati come untori, importatori nelle società occidentali di ogni sorta di mali, dalla crimina-lità alla droga, dalla violenza alla prostituzio-ne, mali da cui invece queste sarebbero per loro natura aliene; raffigurati dai mezzi di co-municazione di massa come degli attentatori alla nostra “identità”, alla nostra cultura, alle nostre donne (e ai nostri uomini), alla nostra razza; gli immigrati e le immigrate sono in realtà, per l’Italia e per l’Europa, una risorsa demografica e lavorativa fondamentale non solo in quanto forza di lavoro a basso costo impie-gata, ormai, in ogni settore della produzione di beni e di servizi, ma anche in quanto portatori di una capacità di cura, di attenzione alle per-sone che nelle società occidentali si è andata largamente smarrendo. Di loro, dei loro mu-scoli, dei loro nervi, delle loro competenze, dei loro cuori, le economie e le famiglie europee hanno un bisogno vitale e, in prospettiva, cre-scente. Ma allora perché questa inesausta semi-na di razzismo istituzionale? La risposta, da leggere a contrario, è nella felice espressione di un poeta svizzero (si riferiva in quel frangente ad immigrati italiani, tra l’altro): «Abbiamo chiamato braccia, sono arrivati uo-mini». La valanga di stereotipi negativi e di provvedimenti discriminatori nei confronti delle genti immigrate (in Italia l’ultimo in ordi-ne di tempo è stato quello, davvero ripugnan-te, contro i figli degl’immigrati “clandestini”)

Sul riemergere del razzismo

di Pietro Basso�*

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serve a farne, selettivamente, ovvero discrimi-nando tra gli stessi immigrati per tenerli divisi, dei pariah, e al tempo stesso i capri espiatori di un malessere sociale, tanto materiale quanto morale, crescente nella stessa popolazione au-toctona comune. La nostra società sta polarizzandosi ad una velocità inattesa, con una esponenziale acutiz-zazione della precarietà lavorativa ed esisten-ziale per le nuove generazioni. Molti giovani, e anche meno giovani, iniziano a sentirsi immi-grati nella propria terra di nascita ed è questo disagio che le autorità istituzionali intendono esorcizzare, e nello stesso tempo deviare, of-frendogli come bersaglio le genti immigrate, obbligate ad emigrare dai propri paesi da cause di fondo che, in un modo o nell’altro, ricondu-cono sempre a rapporti diseguali all’interno dei quali sono i paesi ricchi a dettare legge. “Aiutiamoli a casa loro”, suona un motto assai ricorrente… se non fosse che a casa “loro” a comandare ci siamo, e spesso da secoli, “noi”, paesi ricchi che quella casa l’abbiamo in lungo e in largo saccheggiata rendendola inospitale… In Italia, in Francia, in Gran Bretagna, in Ger-mania e da ultimo anche in Svezia le politiche di stato contro gli immigrati (attenzione: non contro l’immigrazione, che è invece quanto mai necessaria) si nutrono di specifiche campagne contro i “clandestini” ed i rom, gli islamici (veri o presunti) e i richiedenti asilo, contro le nazionalità designate volta a volta quali le più indesi-derate, contro il multicultu-ralismo, ma il senso globale che da queste singole cam-pagne emerge è quello di un’irriducibile alterità, di un irriducibile antagoni-smo tra “noi” e “loro”, che avvelena insieme la vita delle genti immigrate e la nostra. Si tratta di un falso antagoni-smo non solo sul piano del-la cultura, poiché ogni au-tentica cultura è di per sé

intercultura e non c’è nulla di più fecondo dell’incontro tra culture, dell’interculturalità che è una delle più vive fonti di ricchezza della storia umana. Si tratta di un falso antagonismo anche sul piano della vita sociale e individuale e lo dimostra, pur tra mille incomprensioni, attriti, conflitti, astii, la realtà di un diffuso in-treccio, e perfino di una progressiva simbiosi (questo il termine forte usato in un rapporto della Caritas) tra le popolazioni ed i lavoratori autoctoni e le popolazioni ed i lavoratori immi-grati/e. Un intreccio e una “simbiosi” che sono nutriti da necessità e aspirazioni comuni a tutti gli esseri umani. Non mi illudo sulla linearità di questo processo storico: il passato ci ammonisce a riguardo, e ci fa pensare che sarà faticoso, doloroso, con pas-saggi drammatici, se non tragici. Ma questa è davvero l’epoca delle migrazioni; l’epoca in cui il mondo, pur con tutte le sue estreme disugua-glianze, è diventato uno; l’epoca dell’indecifra-bile mescolanza delle “razze” e delle culture; e per quanto gli stati nazionali, già superati e ridicolizzati in ambito economico dalle potenze dell’economia globale, facciano la faccia feroce; per quanti rimpatri, sgomberi, retate, espulsio-ni, intimazioni, divieti, stigmatizzazioni, discri-minazioni, vogliano il nostro governo, i gover-natori, i sindaci e quant’altri deliberare e dif-fondere; questa violenza istituzionale mi appa-re, sul piano storico, perdente.

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[… ] E ora, vogliam o chiedere perdono se, com e Chiesa, qualche volta abbiam o disatteso il tuo stile: soprattutto, quando non abbiam o testim oniato la reciprocità. A bbiam o giudicato i “barbari” costituzionalm ente incapaci di poterci offrire qualcosa che noi non avessim o già. A bbiam o rifiutato il baratto con le cu lture altre. A bbiam o trascurato la trattativa col diverso. C i è sfuggito di m ente quel vocabolo, di sapore volutam ente m ercantile, con cui un’antifona della liturgia ha l’audacia di designare il m istero dell’Incarnazione: “Com m ercium ”. Scam bio, cioè. “A dm irabile”, per giunta. A bbiam o voluto, insom m a, dare soltanto. Senza ricevere nulla, per non contam inare la nostra aristocrazia puritana. C i siam o dim enticati che il dono unilaterale

Preghiera a Cristo del Servo di Dio don Tonino Bello

(Il testo che pubblichiamo è tratto da Preghiera a Cristo composta da don Tonino nel 1992 a con-clusione della Settimana di Studi “Fede e Cultura” tenutasi presso il Pontificio Seminario Regio-nale a Molfetta)

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e’ la form a più sottile di potere. C i siam o illusi che per essere m issionari fosse sufficiente esportare battesim i e teologia e civiltà. E , m entre i conquistatori, le cu i spade non abbiam o avuto sufficiente coraggio di m aledire, im portavano oro e ricchezze, noi com e Chiesa non abbiam o saputo im portare neppure un frustolo d’anim a dopo averne data tanta della nostra. D el resto, com e si potevano im portare nella vecchia E uropa brandelli d’anim a d’oltre oceano, dal m om ento che c’è voluta una B olla solenne del Papa Paolo III del 1537 per dirim ere la questione se gli indigeni am ericani fossero veri esseri um ani? C i sfiora un brivido di stupore quando leggiam o alcuni passaggi di quel docum ento, “Sublim is D eus”, che pure, S ignore, testim onia il coraggio del tuo V icario di allora: “Il nem ico del genere um ano, che si oppone sem pre alle buone opere per m andare gli uom ini alla rovina, escogitò un m ezzo m ai sentito prim a d’ora, col quale im pedire la predicazione della Parola di D io per la salvezza delle genti: egli ispirò i suoi seguaci i quali, per com piacerlo, non esitarono a dichiarare che gli Indiani dell’O vest e del Sud, e gli altri popoli di cu i siam o recentem ente venuti a conoscenza, devono essere trattati com e m uti anim ali creati per servirci, col pretesto che essi sono incapaci di ricevere la fede cattolica… N oi, tuttavia, che, sebbene indegni, esercitiam o sulla terra il potere di N ostro S ignore, riteniam o che gli Indiani sono veri uom ini, e che sono capaci non solo di ricevere la fede cattolica, m a, da quel che ci risu lta, desiderano ardentem ente riceverla… ” [… ]

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Lo straniero fonte di ricchezza per tutti noi

* Direttore di Famiglia Cristiana

di Antonio Sciortino *

Anche se non ce ne siamo accorti a tempo e ci siamo lasciati trovare impreparati, al momento attuale non siamo più nella condizione di poter scegliere se volere o no una società multicultu-rale, multietnica e multireli-giosa. Perché lo è già nei fatti e nella realtà. Oggi in Italia vivono quasi sei mi-lioni di stranieri. Il proble-ma, semmai, è come voglia-mo affrontare questo fenomeno migratorio, diventato massiccio in questi ultimi anni. La “politica dello struzzo”, cioè far finta che gli immigrati non esistano o, peggio, sollecitare una “chiamata alle armi” per sbarrare loro il passo, con qualsiasi mezzo, è un’illusione. An-zi, un terribile boomerang, che ci ritornerà ad-dosso. Certo, gli stranieri pongono problemi, sono una “scomodità”, come ricorda il diretto-re della Caritas nazionale, don Vittorio Nozza. Ma sono una “scomodità” che se bene gestita e governata, si tramuta subito in una grande risorsa. Una risorsa di cui l’Italia non può più fare a meno. In ogni settore della propria vita sociale ed economica: dall’assistenza ai nostri anziani e persone con disabilità all’agricoltura, dalle fabbriche agli ospedali. Anche la stessa Chiesa italiana conta molto sul contributo del clero proveniente dall’America latina, dall’Africa e dall’Asia. Eppure, un tempo, dall’Italia sono partiti migliaia di missionari per ogni angolo più sperduto del mondo. Se dalla sera al mattino sparissero dal nostro territorio tutti gli stranieri (come qualcuno vorrebbe e si augurerebbe), l’Italia sarebbe davvero in ginocchio. Non starebbe in piedi un

solo istante. Non dimenti-chiamo, a maggior ragione in tempi di grave crisi eco-nomica, che il lavoro degli stranieri in Italia rappresen-ta il dieci per cento della ricchezza nazionale, il co-siddetto Pil (Prodotto inter-no lordo). E che le pensioni dei nostri anziani sono pa-gate, in parte, dai contributi dei lavoratori stranieri. In questo, essendo popolazio-

ne molto giovane, contribuiscono più di quan-to ricevono in cambio. Ma, per un Paese vecchio come l’Italia, con il tasso di natalità più basso al mondo, gli immi-grati sono anche una risorsa demografica. Se non si inverte questa tendenza di “gelo demo-grafico” (che i vescovi italiani hanno definito “suicidio demografico”), il Paese non avrà fu-turo né speranza. I bambini stranieri di secon-da o terza generazione sono già i “nuovi italia-ni”, anche se hanno il colore della pelle diversa o un credo religioso differente dal nostro. Sono nati in Italia, parlano perfettamente la nostra lingua e anche i dialetti locali, amano il nostro Paese e vogliono che il loro futuro sia in questa terra. E, soprattutto, i loro genitori, già integra-ti e con un lavoro, pagano regolarmente le tas-se e contribuiscono al benessere dell’Italia. Solo una politica miope stenta a riconoscere a questi “nuovi italiani” la cittadinanza, che po-tranno avere solo al compimento del diciottesi-mo anno d’età. E dopo aver dimostrato di ave-re un lavoro. Altrove, in altri Stati, basta nasce-re sul suolo nazionale per avere, automatica-mente, la cittadinanza. Il futuro del nostro Pae-se andrà programmato non a prescindere dagli stranieri che vivono in mezzo a noi, ma a parti-

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re dalla loro presenza. Giovanni Paolo II, che nella sua vita ha incar-nato sempre una concezione positiva dei rap-porti tra i popoli, ricordava: «L’esperienza in-segna che quando una nazione ha il coraggio di aprirsi alle migrazioni, viene premiata da un accresciuto benessere, da un solido rinnova-mento sociale e da una vigorosa spinta verso inediti traguardi economici ed umani». L’Italia, un tempo Paese di emigrazione, è ora terra di immigrazione. Negli anni, abbiamo mandato nel mondo quasi trenta milioni di nostri connazionali. E oggi abbiamo più di cinque milioni di italiani all’estero. Quando i nostri parenti sono immigrati, spesso sono entrati da clandestini in altre nazioni. Non sempre sono stati bene accolti. E, al tempo stes-so, non sempre hanno fatto onore alla nostra patria. Ancora oggi, la parola italiana più diffu-sa al mondo è “mafia”. Oggi, però, abbiamo perso la memoria di que-sto nostro passato. La storia non ci ha insegna-to nulla, se ancora facciamo patire agli stranieri quello che i nostri connazionali hanno subito all’estero. Perché, ad esempio, rendiamo il ri-congiungimento familiare così difficile, quasi fosse una corsa ad ostacoli? Eppure, uno stra-niero con famiglia più difficilmente delinque. E più facilmente garantisce la sicurezza e l’inte-grazione. Che è più facile sui banchi di scuola che nelle aule del Parlamento, perché i bambini non hanno gli stessi pregiudizi degli adulti o dei politici. Oggi non possiamo più fare a meno delle brac-cia degli stranieri, ma non vorremmo averli tra i piedi. Li sfruttiamo perché ci servono, ma fatichiamo a riconoscere i loro diritti, la loro storia, le loro tradizioni. Benedetto XVI, nella sua ultima enciclica Caritas in veritate, ci ricorda che il fenomeno migratorio si può affrontare positivamente se partiamo da un concetto sem-plice e basilare: quello di persona. Sono perso-ne come noi, con stessi diritti e doveri. Diritti universali e inalienabili, che sono propri della persona umana prima ancora di appartenere a una nazione o all’altra.

Spesso, trasformiamo gli immigrati in “capro espiatorio” di tanti nostri malesseri sociali. Sulla pelle di questi “poveri cristi”, venuti sulle nostre terre per trovare un futuro migliore per sé e le proprie famiglie, fuggendo da guerre, carestie e persecuzioni, lucriamo consensi elet-torali e politici. Complici i mezzi di informa-zione che alimentano insicurezze e paure nei confronti degli stranieri. E rafforzano, nell’opi-nione pubblica, stereotipi e pregiudizi. E cioè, che gli stranieri portano via il lavoro ai nostri connazionali o che sono tutti delinquenti. Nul-la di vero. O, per lo meno, non secondo la per-cezione della gente. Le ricerche della Caritas ci dicono, invece, che delinquono tanto quanto i nostri connazionali. E che gli stranieri, in gene-re, fanno lavori che i nostri giovani non voglio-no più fare. Un’informazione sempre al negativo sugli im-migrati alimenta forme di xenofobia, se non atti di vero e proprio razzismo. La cronaca dei giornali, ogni volta che autore di un delitto è uno straniero, ci ha abituati a un’enfatizzazio-ne che genera sentimenti ostili verso lo stranie-ro. Poco si parla, invece, delle realtà di vera integrazione. Che pur esistono, ma di cui gior-nali e Tv poco parlano. Un esempio per tutti è la comunità maghrebina di Mazara del Vallo che, da anni, convive pacificamente con quella locale, con un continuo scambio di esperienze e incontri. Quanto all’accoglienza, la Chiesa può svolgere un ruolo fondamentale. Nella Chiesa nessuno è straniero, ed essa non è straniera a nessuno. I cristiani saranno giudicati non sui loro atti di culto, ma sulle opere di misericordia: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dissetato, carcerato e siete venuti e visitarmi, ero forestiero e mi avete accolto…». Co-me ci ricorda l’evangelista Matteo al capitolo 25. Anche le ultime tragiche vicende della guerra in Libia e dei tanti profughi che si river-sano sulle nostre sponde, vanno affrontate con spirito di umanità e di accoglienza solidale. Con civiltà e spirito cristiano, perché anche noi siamo stati “forestieri”.

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Laicità e libertà religiosa

* Sociologa – Docente di Religione cattolica - Liceo Scientifico “G. Salvemini” - Bari

di Marianna Pacucci *

Laicità e libertà: due termini di grande sugge-stione culturale, ma soprattutto esigenze con-naturate ad ogni essere umano e che dovrebbe-ro diventare esperienza corrente in ogni esi-stenza; spesso, però, questa duplice invocazio-ne viene smentita e tradita da una realtà sociale che punta più sull’omologazione che sull’au-tenticità. Anche se non sempre viene rimarcato nella riflessione antropologica e sociologica, la per-sona nasce laica e pian piano conquista la pro-pria libertà proprio grazie a questa caratteristi-ca innata. Laicità è, infatti, la capacità di porsi delle do-mande senza avere la pretesa di avere già a disposizione una risposta unica ed esaustiva. Ciò vale in tutti i territori dell’esperienza uma-na, dalla politica all’economia, dalla cultura alla scienza, dall’etica alla religione. E proprio in quest’ultimo ambito l’esperienza della laicità e quella della libertà trovano la più feconda possibilità di comprensione e realizzazione, anche se molti pensano esattamente il contra-rio. Alcune considerazioni sono fondamentali in

questa riflessione. La prima consiste nella messa a fuo-co degli obiettivi peculiari di ogni processo educati-vo: primo fra tutti, lo sviluppo di un’autentica auto-nomia di pensiero, a cui deve essere orientato qualsiasi intervento di carat-tere pedagogico. Chi non viene aiu-

tato ad aver cura della propria interiorità e messo nelle condizioni di imparare a ragionare con la propria testa, a vivere il dubbio come elemento fecondo di ricerca, ad accettare il confronto con le differenze come terreno vitale di crescita, difficilmente potrà accedere all’oriz-zonte della libertà, né tanto meno potrà essere paladino di una sana laicità, che è il contrario di ogni dogmatismo. Quest’attenzione, peraltro, oggi è più necessa-ria che mai, se teniamo presente che la raziona-lità spesso di manifesta con caratteristiche ben diverse dalla ragionevolezza ed inquina molti ambiti della convivenza umana, amplificando le opinioni e i luoghi comuni fino a renderli convinzioni condivise acriticamente e solida-mente radicate sul piano dei comportamenti quotidiani. Può la dimensione religiosa rispondere a que-sto bisogno di sincera interrogazione sul senso della vita? Possono le religioni offrire prospet-tive e indicazioni che contribuiscano a liberare la ricerca di senso dalle strettoie di un fideismo che chiede obbedienza piuttosto che riflessio-ne? E’ sicuramente questo un banco di prova

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della plausibilità e della credibilità delle grandi fedi storiche. Una seconda considerazione che consente di legare l’esperienza della libertà e quella della laicità, riguarda il complesso e multiforme di-namismo dell’identità. Le radici dell’io sono sempre più inaridite dall’assenza del tu, perce-pito come estraneo piuttosto che come alterità. In questa condizione, la costruzione dell’identi-tà appare impervia e condannata alla clonazio-ne di modi di pensiero e di azione trasferiti di peso come prodotto di una soggettività solita-ria e incapace di dialogo, di accoglienza, di solidarietà nella ricerca di una verità che ap-partiene a tutti e nello stesso tempo non si la-scia monopolizzare da nessuno. Non è un caso che questo sia un tempo storico nel quale i relativismi si trasformano spesso in assolutismi e le minoranze hanno la pretesa di colonizzare i sentimenti e i valori sedimentati nelle comunità, ma incrinati o dismessi dalla diffusa mancanza di manutenzione dei giaci-menti di senso che rendono vivibile l’esistenza umana. E può apparire paradossale, ma non lo è, che la tentazione dei particolarismi finisca col generare nuove e sempre più problemati-che forme di conformismo. Anche in riferimento a questa dimensione le religioni sono chiamate a un’importante verifi-ca: quando non v’è dialogo all’interno di una comunità credente e non vi è paziente e attento ascolto della realtà circostante, con le sue pro-vocazioni culturali ed esistenziali, sarebbe bene riflettere attentamente sulla coerenza con cui vengono avanzate proposte impegnative per la vita di ciascuno e di tutti. Ma il banco di prova più interessante è dato dal modo in cui laici e credenti esprimono oggi la propria disponibilità a costruire un rinnova-to rapporto con il futuro. Laicità e libertà costi-tuiscono un atteggiamento critico nella media-zione fra tradizione e innovazione e possono offrire e mettere in circolazione una metodolo-gia dell’approccio all’inedito che tenga al ripa-ro da un uso strumentale con il tempo, genera-tore di un senso della cittadinanza e di un im-pegno difensivo nei confronti del presente, chiuso alle provocazioni delle profezie sociali, pauroso nei confronti dei cambiamenti, diso-rientato nella gestione delle transizioni cultura-

li. C’è bisogno, oggi, anche all’interno delle diver-se comunità religiose di un approccio al futuro che sia libero da pregiudizi e determinismi, lungimirante nella decodifica dei segni dei tempi, sapiente nella conversione degli eventi in avventi, equilibrato nella capacità di ricono-scere e selezionare, all’interno della vita socia-le, ciò che è fondamentale e irrinunciabile per la dignità dell’uomo, al di là delle mode mo-mentanee e degli aspetti effimeri dell’esistenza. In questo itinerario, che inevitabilmente è com-plesso e multiforme, incerto e laborioso, la laicità e la libertà diventano una garanzia per l’espressione di ogni identità, ma anche per il rispetto dei punti di vista e dei vissuti capaci di rivelare pienamente l’inviolabilità della perso-na umana, di ogni uomo e di tutti gli uomini, senza ‘se’ e senza ‘ma’ derivanti dalle apparte-nenze, dalle biografie, dalle esperienze che segnano la quotidianità. La laicità e la libertà possono, inoltre, illumina-re il valore della prossimità, che è alla base di una cordiale condivisione della ricerca di Dio presso tutte le religioni. Sono, concretamente, il riferimento portante per un’inculturazione della fede che affida al miglioramento della qualità della vita di tutti il criterio di verifica delle verità credute e praticate. Sono, infine, il territorio comune di una passio-ne per l’uomo e per la sua educabilità e aiutano le religioni a porsi reciprocamente in un’etica di fiducia che nasce dalla disponibilità e com-petenza di ciascuna fede nel rendere ragione di quel che viene proposto come itinerario di pie-nezza della vita e di salvezza. Laicità e libertà sono le caratteristiche portanti di chi vive la propria identità religiosa in modo intelligente, dimostrando di saper rendere ra-gione della propria speranza e di poter affron-tare le questioni fondamentali dell’esistenza in modo propositivo e nello stesso tempo autore-vole. Se spesso è difficile rintracciare nel nostro tem-po testimoni credibili della fede, forse è pro-prio perché manca una cultura della reciproci-tà, che non vanifica l’adesione ad una religio-ne, ma al contrario la autentica, consentendo una forte e concreta efficacia educativa.

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Successivamente alla caduta del muro di Berli-no, nel 1989, l’Italia ha visto cambiare profon-damente il proprio volto attraverso l’intensifi-carsi del fenomeno migratorio, un fenomeno già incontrato negli anni precedenti, ma con numeri decisamente ridotti e caratteristiche diverse. Un fenomeno complesso, in continua trasfor-mazione che vede procedere in parallelo situa-zioni drasticamente diverse, ma accomunate dal progetto di migliorare le proprie condizioni di vita, in alcuni casi salvarla. Da una parte abbiamo un’immigrazione ormai in Italia da più di vent’anni, dall’altra abbiamo, nuova-mente, l’immigrazione che sfida il mare e cerca di raggiungere, oggi, l’Italia per sfuggire da situazioni di persecuzioni e guerre. Si parla di contesti, storie, provenienze e anche di generazioni differenti. In Italia si pone, infat-ti, in modo sempre più urgente la questione delle seconde generazioni1. Uno dei nodi ancora particolarmente insidiosi è quello che permane intorno alla questione dei minori, molti non sono nemmeno più minori, che sono nati in Italia da genitori stranieri e, per tale ragione, vengono considerati e definiti stra-nieri dalla legge italiana basata sul principio dello ius sanguinis, il quale riconosce la cittadi-nanza secondo principi restrittivi alla sola co-munità dei discendenti. Persone che non posso-no essere riconosciute “immigrate” perché non hanno conosciuto tale esperienza, sono sempre vissute in Italia, hanno sempre parlato la lingua italiana e frequentato la scuola italiana, ma prive della cittadinanza del paese in cui sono nate. In Italia, infatti, la normativa sulla cittadinanza è retta essenzialmente dalla legge n.91 del 1992 e, per un immigrato, le possibilità di acquisire lo status di cittadino si riducono a due: tramite matrimonio con un italiano o italiana (art.5) o

per residenza continuativa dopo dieci anni trascorsi sul territorio nazionale (art.9). Una terza possibilità interviene quando uno stranie-ro nato e residente in Italia in modo ininterrotto e legale fino alla maggiore età, chiede di ottene-re la cittadinanza (secondo i dati Istat il 42% rimane senza cittadinanza italiana).2 Secondo le rilevazioni del Dossier Statistico Im-migrazione 2010 Caritas/Migrantes elaborate su fonti Istat, su 932.675 (22% sul totale nazionale) minori residenti al 31 dicembre 2009, quelli nati in Italia sono 572.720 (13,5% sul totale, percen-tuale che viene superata in molte regioni del Nord).3 E’ un dato importante, non ancora paragonabi-le con quelli che interessano altre nazioni euro-pee, ma in aumento. Il numero e la sua crescita comunicano che l’immigrazione in Italia sta diventando una realtà sempre più strutturale, un progetto a lungo termine e non una tappa di passaggio. La costruzione di un nucleo familia-re è uno dei più significativi indicatori di stabi-lità nonostante gli ostacoli e la lentezza dei pro-cessi di integrazione. Occorre, allora, che oltre a supportare impegni politici di riconoscimento della cittadinanza, si assuma la consapevolezza della crescita del fenomeno e ci si interroghi sui cambiamenti e sulle trasformazioni che ogni contesto, soprat-tutto educativo, deve maturare per superare atteggiamenti e comportamenti dettati dal pre-giudizio. La cittadinanza scolastica: conoscenze, com-petenze e precise scelte Tra i contesti educativi maggiormente interes-sati e interrogati dal fenomeno migratorio tro-viamo la scuola. Crocevia di popoli, lingue e religioni, forse più di altri spazi fisici e virtuali, la scuola ha dovuto rispondere alle questioni poste dall’immigrazione fin dai primi sbarchi e, al di là di alcuni aspetti critici tuttora presenti,

Seconde generazioni: quale cittadinanza?

* Esperta in Pedagogia interculturale

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di Angela Martiradonna *

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bisogna ammettere che molti passi in avanti sono stati realizzati e l’interesse e lo sforzo per arrivare a costruire una società interculturale sono stati rilevanti. Oggi la scuola italiana si ritrova, però, di fronte a un ulteriore cambiamento caratterizzato non solo dall’aumento di presenze di minori stra-nieri nelle classi delle scuole superiori di secon-do grado, ma anche dall’aumento di minori stranieri nati in Italia in ogni ordine e grado. Secondo le rilevazioni del Dossier Statistico Immigrazione 2010 Caritas/Migrantes elabora-te su dati dell’Ufficio Studi e Programmazione del Miur, il 39,1% degli studenti definiti stra-nieri (263.524 su 673.592) è nato in Italia; in media ogni dieci iscritti stranieri quattro sono di seconda generazione, rapporto che sale a quasi cinque su dieci nella scuo-la primaria fino a diventare di quasi otto su dieci nella scuo-la dell’infanzia. «Il dato dovreb-be indurre a convincersi che non più o non solo di immi-grazione si può parlare, ma che siamo di fronte a una ridefini-zione della stessa società italiana».4 Le alunne e gli alunni stranieri nati in Italia rappresentano il risultato di un lungo processo e pongono una nuova sfida. Ma possiamo defi-nire “nuova” tale sfida? Pensare e progettare in termini interculturali non significa formulare un prontuario di fronte a ogni nuova (reale o apparente) situazione, ma significa sviluppare competenze trasversali e costruire strumenti che non possono essere brevettati a seconda della specifica variabile. Variano i contenuti, gli spazi, i tempi, la scelta di uno strumento piuttosto che un altro, ma non si può pensare di iniziare dal punto zero tutte le volte che interviene un cambiamento. Se così fosse, significherebbe che l’ottica dell’e-

mergenza non è stata superata e che, in fondo, scelte etiche e politiche precise non sono state fatte. Conoscenze (studio, approfondimento, ricerca di differenti fonti d’informazione), com-petenze (didattiche, metodologiche, pedagogi-che ed educative) e scelte (superamento di pre-giudizi e stereotipi, garanzia e riconoscimento dei diritti, rispetto della reciproca diversità) costituiscono il canovaccio di qualsiasi propo-sta in termini interculturali, anzi, in termini educativi. Riconosciuto ciò, è possibile, allora, ricostruire qualche riflessione e avanzare proposte. Una prima riflessione invita a porre una certa attenzione sul fatto che quando si parla di mi-nori stranieri, compresi quelli nati in Italia, si parla soprattutto di “minori” e, quindi, molti

comportamenti andrebbero prima di tutto analizzati attra-verso la variabi-le “età”, incro-ciata successi-vamente con la variabile “cittadinanza”. Risulta errato, infatti, motiva-re, giustificare e far risalire qual-siasi reazione o fenomeno alla

componente culturale. Diventa importante, invece, comprendere i fattori che contribuisco-no alla costruzione di una identità che si forma a cavallo tra differenti culture e nel suo svilup-po cerca un equilibrio che si allontani sia dalla negazione delle origini, sia dal ripiegamento su esse. Spesso lo sforzo per mantenere tale equi-librio non è supportato dalla famiglia che inter-preta il processo di integrazione come un tradi-mento e un allontanamento verso la società ospitante. Il conflitto con la famiglia d’origine crea in molti casi una perdita di autorevolezza educativa da parte dei genitori. Ciò risulta più evidente e problematico in età adolescenziale, età in cui il senso di insicurezza e il timore dell’esclusione sono più accentuati.

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Detto questo, si può tornare a porre l’attenzio-ne sulle dinamiche multiculturali e richiamare alcune scelte e metodologie che la scuola deve fare proprie confermando sempre più l’impe-gno verso la multiculturalità. La prima conferma deve arrivare dalla dimo-strazione di una consapevolezza ormai impro-crastinabile: l’educazione interculturale non è esterna alla didattica, deve essere inserita nella curricolarità, è rivolta a tutti e non può essere richiamata soltanto di fronte alla presenza di alunne e alunni stranieri. L’interculturalità deve caratterizzare le diverse materie e disci-pline senza costituire l’eccezionalità, l’interven-to a margine. Segue l’impegno per realizzare un lavoro di rete, senza deleghe e sovrapposi-zioni, in cui la scuola possa superare l’isola-mento e inserirsi pienamente nel territorio in cui opera.5 Diventa difficile, però, realizzare tutto questo se non si riconosce che il termine “interculturalità” racchiude imprescindibili riferimenti al rispetto dell’altra persona in quanto tale, un rispetto che tenga necessaria-mente conto della reciprocità del concetto di diversità e alterità6 e sappia ammettere l’esi-genza di prendere in considerazione la molte-plicità delle prospettive e dei punti di vista. «Le seconde generazioni rappresentano la car-tina di tornasole dell’efficacia del processo di integrazione, poiché lavorare con esse signifi-ca, di fatto, lavorare per tutta la cittadinanza».7 1Secondo la Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 1984 si considerano migranti del-la seconda generazione i figli di immigrati: nati nel paese in cui sono emigrati i genitori, emi-grati insieme ai genitori; minori che hanno raggiunto i genitori a seguito del ricongiungi-mento familiare o comunque in un periodo successivo a quello di emigrazione di uno o di entrambi i genitori 2Cfr. L. Gaffuri, Immigrazione e cittadinanza: una questione aperta, in Caritas/Migrantes, Dossier Statistico Immigrazione 2010, Idos, Roma 2010, p.129 3Cfr. R. Ricucci, I minori stranieri: il futuro che è già realtà, in Caritas/Migrantes, Dossier Statisti-co Immigrazione 2010, Idos, Roma 2010, p.176.

4G. Demaio, Dalla scuola all’università: i percorsi degli studenti stranieri, in Caritas/Migrantes, Dossier Statistico Immigrazione 2010, Idos, Roma 2010, p.191 5Secondo la ricerca MIPEX III (Migrant Integra-tion Policy Index) realizzata dal British Council e il Migration Policy Group con la partnership della Fondazione ISMU prendendo in esame dati, leggi, documenti disponibili al 31 maggio 2010 in 31 paesi (UE, Norvegia, Svizzera, Cana-da e Stati Uniti d’America), le politiche in atto non rispondono, in generale, ai bisogni delle nuove generazioni di studenti stranieri; sono poche le scuole dei 31 paesi coinvolti che han-no programmi effettivamente destinati a soste-nere studenti, docenti e famiglie con bisogni speciali. Alcuni paesi (Nord Europa, USA e Canada) ottengono però punteggi più elevati. L’Italia si colloca al 19° posto su 31 paesi (comunque leggermente al di sopra della me-dia UE). Adattare i sistemi di istruzione alla diversità costituisce una sfida per l’Europa e soprattutto per i nuovi paesi di immigrazione come l’Italia. Gli immigrati sotto i 18 anni han-no diritto di frequentare le scuole ma le loro esigenze sono, in generale, viste come proble-mi. A parte alcuni progetti, il sistema di istru-zione italiano non sostiene attivamente nuove opportunità e un’istruzione interculturale 6Vedi P. Ricoeur, Se stesso come un altro, Jaca Book, Milano 1993 7R. Ricucci, I minori stranieri: il futuro che è già realtà, in Caritas/Migrantes, Dossier Statistico Immigrazione 2010, Idos, Roma 2010, p.177 Bibliografia e sitografia essenziali Caritas/Migrantes, Dossier Statistico Immigra-zione 2010, Idos, Roma 2010 G. Gilardoni, Somiglianze e differenze: l’integra-zione delle nuove generazioni nella società multiet-nica, FrancoAngeli, Milano 2008 A. Martiradonna, Frontiere e confini. Questioni aperte sull’immigrazione in Italia e in Puglia, Stilo, Bari 2010 P. Ricoeur, Se stesso come un altro, Jaca Book, Milano 1993 www.secondegenerazioni.it www.mipex.eu

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Le condizioni e le prospettive per il dialogo islamo-cristiano

* Docente di Lingua e letteratura araba - Università di Lecce

di K. J. Boloyan *

In una società multicultura-le come la nostra, il dialogo inter-religioso non è più una scelta, bensì è una necessità

per la convivenza. La convivenza è possibile se c’è dialogo e come conseguenza si comincia ad accettare, capire, approfondire e scoprire. Molti anni fa il Vaticano II aveva già costatato tale verità, è stato un punto di svolta per il rin-novamento e miglioramento del dialogo isla-mo-cristiano partendo dalla consapevolezza reciproca dei propri errori. «Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuo-vere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà»1. Restando fedele allo spirito della Nostra Aetate Papa Giovanni Paolo II diceva: «E’ mio ardente desiderio che i capi religiosi e i teologi, musul-mani e cristiani, presentino le nostre due gran-di comunità religiose, come comunità che stan-no in un rispettabile dialogo e non mai più come comunità in conflitto. E’ importante che i musulmani e i cristiani continuino ad esplorare insieme le questioni filosofiche e teologiche, per arrivare ad una conoscenza molto più og-gettiva e universale delle credenze religiose di ogni parte dei due interlocutori. Una migliore conoscenza ci porta sicuramente, a livello pra-tico, a trovare dei metodi nuovi per presentare

le nostre due religioni non in opposizione l’una con l’altra, come fu nel passato, ma in collabo-razione per il bene della famiglia umana... Il dialogo interreligioso è molto effettivo quan-do nasce da un’esperienza del vivere insieme giorno per giorno, con la medesima comunità e cultura... Per tutto il tempo in cui i musulmani e i cristia-ni hanno offeso gli uni gli altri, abbiamo biso-gno di chiedere perdono dall’Altissimo Dio, e di offrire l’uno all’altro il perdono»2. Così come anche il Corano afferma: «Chiama gli uomini alla Via del Signore, con saggi am-monimenti e buoni, e discuti con loro nel modo migliore che il tuo Signore meglio di chiunque altro conosce chi dalla sua via si allontana, meglio di chiunque conosce i diritti»3. «… E non disputate con la Gente del Libro altro che nel modo migliore, eccetto quelli di loro che sono iniqui e dite: “Noi crediamo in quel che è stato rivelato a noi e in quel che è stato rivelato a voi e il nostro e il vostro Dio non sono che un Dio solo”»4. La lectio magistralis Fede, ragione e università - Ricordi e riflessioni, tenuta il 12 settem-bre 2006 dal papa Benedetto XVI presso l’Università di Ratisbona durante il suo viaggio in Baviera, rappresenta un intervento del pon-tefice sul tema dei rapporti tra fede e ragione, di importante rilievo sul piano culturale e teologico cattolico. Il discorso papale ha causato violente reazioni nel mondo islami-co, soprattutto a causa di una cita-z i o n e del l ’ imperatore b i z a n t i -no Manuele II

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Paleologo, tratta da un suo scritto sulla guerra santa, redatto probabilmente tra il 1394 e il 1402: oltre a numerose proteste di piazza sono stati infatti assaltati e incendiati diversi luoghi di culto cristiani. Nel settembre 2006, dopo il discorso di Bene-detto XVI a Ratisbona, il dialogo tra islam e cristianesimo sembrava messo male. I musul-mani, compreso i più moderati, si erano inter-rogati su quella che percepivano come una rottura dopo le iniziative di dialogo prese da Giovanni Paolo II. E, tra i cattolici, c’era chi parlava di un cambia-mento di rotta. Proprio in seguito al discorso di Regensburg (12 settembre 2006), trentotto sag-gi islamici hanno mandato una prima lettera a commento (13 ottobre 2006) e un anno dopo una seconda lettera (sottoscritta da centotren-totto saggi, diventati intanto duecentosedici) per cercare un terreno comune di collaborazio-ne fra cristiani e musulmani. A sua volta, il 19 novembre 2006, Benedetto XVI ha risposto alla Lettera dei centotrentotto aprendo a una possibile collaborazione su di-versi campi. Ai nostri giorni tenuto conto delle difficoltà, il Papa riprende il problema su basi nuove. Pur restando fedele allo spirito della Nostra Aetate, incoraggiando a proseguire l’opera, inscrive il dialogo in una prospettiva diversa, mettendo l’accento su: il dialogo delle culture e la libertà di coscienza e di pratica religiosa. Da studi dedicati alla questione del dialogo islamo-cristiano si evince che secondo alcuni studiosi esso segue la sua strada, nonostante la difficoltà e fanatismi che da sempre e in ogni dove hanno ostacolato, ma per altri il dialogo è un “monologo” perché mancano i veri ele-menti costitutivi dello scambio quali l’ugua-glianza tra le due parti nella propensione al dialogo e un’autorità o una rappresentanza islamica permanente per il dialogo; inoltre, l’iniziativa o l’invio costante al dialogo, sembra essere una necessità avvertita solo da una delle parti. Allo stato attuale è come se il dialogo non fosse ancora cominciato, ovvero è come se non aves-se dato ancora i suoi frutti e nonostante esista-no centri e istituti che hanno teso al suo miglio-ramento e sviluppo utilizzando tutti i mezzi,

esso sembra essere sempre uguale, anche se espresso con parole differenti in momenti stori-ci diversi. Sebbene siano passati tanti anni da quando la Chiesa ha invitato a rinnovare il dialogo, alcuni studiosi continuano a interrogarsi sulle possi-bilità del dialogo: da Caspar, che nel 1976 pub-blicava un articolo dove poneva la domanda: E’ possibile il dialogo tra musulmani e cristiani?5, a Cardini che nel 1994 intitola il suo libro Noi e l’islam: un incontro possibile?6 a Borrmans, che nel 1999 ha scritto: E’ possibile oggi che i musul-mani e i cristiani parlino e collaborino tra di loro?7 Fino ad arrivare ai nostri giorni dove ci sono diversi studi che descrivono la difficoltà del dialogo islamo-cristiano. Qual è allora il motivo del punto interrogativo che nonostante il passare degli anni compare nei titoli degli studi sul dialogo? E’ un espe-diente giornalistico per attirare l’attenzione del lettore? Oppure fa semplicemente parte dello stile del-lo scrittore? O non è questo né quello? La terza ipotesi è la più verosimile: è lo stile di chi è esperto della materia e che proprio per questo, conosce le difficoltà del dialogo, le spiega e le giustifica in modo obiettivo, propo-nendo alla fine di perseverare nel dialogo at-traverso la preghiera, la pazienza e la speranza che si giunga ad un risultato. Noi abbiamo fiducia nel dialogo costruito sulla volontà e sul desiderio di tutti coloro che ap-partengono alle due parti, sulla fede, la scienza e la responsabilità, in un clima di imparzialità e di rispetto reciproco.

1Nostra Aetate n.3 (Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane) 2Papa Giovanni Paolo II, Discorso tenuto nella Grande Moschea Omayyade di Damasco, il 6 maggio, 2001 3Cor XVI, 125 4Cor XXIX, 46 5R. Caspar, Islam According to Vatican II in En-counter 21 (1976) 6F. Cardini, Noi e l'Islam. Un incontro possibile?, Laterza, Bari 1994 7M. Borrmans, Guidelines for Dialogue between Christians and Muslims, Paulist Press, New York 1999

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L’insegnamento della Religione nella scuola multietnica

* Docente di Religione cattolica - Scuola Secondaria di I Grado "G. Verga" - Bari

di Angela Maria Rutigliano *

Il fenomeno migratorio affonda le proprie radi-ci nella storia del continente europeo, ma è negli ultimi anni che, nel nostro Paese, esso ha subito un mutamento sia quantitativo sia qua-litativo. I processi migratori e la conseguente necessità di trovare nuove forme di convivenza, destina-ti tra l’altro ad accrescersi perché legati a pro-fondi sommovimenti che attraversano, scom-pongono e ricompongono popoli, culture e stati, rivelano concretamente lo spessore dei problemi attuali e le gravi ingiustizie di cui sono spesso espressione; essi sollecitano intelli-genza ed equilibrio per una loro risoluzione, coerente con la sempre più diffusa dottrina dei diritti umani. A quest’ultima occorre riferirsi, per elaborare una cultura dell’accoglienza. Le nuove generazioni maturano e studiano in questo nuovo clima. Il cambiamento, quindi, investe i contenuti da insegnare e i quadri di riferimento con cui interpretarli e trasmetter-li. La scuola, importante punto di riferimento e al tempo stesso crocevia di problemi nella so-cietà, è chiamata in causa sia come ambiente direttamente investito da questi problemi, sia come fattore strategico capace di affrontarli e di concorrere a risolverli in termini di consape-volezza critica e di formazione delle coscienze.

Si chiede alla scuola di assumere la dimensione del sempre più stretto intrecciarsi e condizio-narsi a vicenda dei problemi relativi al mondo reale ed al mondo dell’uomo e di fornire strumenti conoscitivi adeguati. Alla scuola viene chiesto di gestire il disorien-tamento di chi arriva da un paese diverso, ac-cogliendolo senza negare le sue radici culturali e modificando, di conseguenza, il modello edu-cativo in senso interculturale piuttosto che secondo una logica multiculturale. La differen-za non è solo terminologica, ma fa riferimento a due diversi modi di gestire l’integrazione: l’uno basato sulla conoscenza reciproca e lo scambio, l’altro, sulla coesistenza nel rispetto della diversità. Si chiede in particolare alla scuola di dotare le nuove generazioni di strumenti per combatte-re, sul piano intellettuale, culturale, etico, reli-gioso e psicologico, quegli stereotipi che esa-sperano i conflitti ed allontanano le speranze di pace. Ed è in questo quadro che si colloca a pieno titolo l’insegnamento della Religione cattolica. La nostra religione cristiano-cattolica, pur es-sendo la religione più diffusa nel mondo, è solo una parte della più vasta realtà religiosa che interessa gli uomini. La Chiesa, poi, «nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle altre reli-gioni»1, come afferma il Concilio, e quindi la loro conoscenza ci aiuterà a cogliere un raggio di quella verità che esse riflettono e che illumi-na gli uomini di ogni tempo. Nel suo specifico l’insegnamento della Religio-ne cattolica è in dialogo con le diverse confes-sioni di fede cristiane e le altre religioni e trova un equilibrio fruttuoso fra specificità confessio-nale e apertura interreligiosa. L’elemento fondante di ogni cultura è la reli-gione. Perciò se compito della scuola è quello

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di attrezzare i giovani a vivere nel pluralismo culturale, ne consegue che essa deve far aprire gli occhi non solo sulla religione cristiana che è alla base della cultura occidentale, ma anche sulle altre tradizioni religiose, a cominciare da quelle con cui si entra ormai a contatto quoti-diano. Con queste culture diverse occorre saper dialo-gare, altrimenti ci saranno il sospetto e l’intol-leranza. L’insegnamento della Religione cattolica non è una lezione di catechismo a scuola, il catechi-smo si svolge in altra sede e in altro modo ma, in base al Concordato, è un insegnamento di storia e di cultura della religione cristiana e cattolica, dei valori e delle radici cristiane. E’ un dialogo culturale con elementi storici, filo-sofici e artistici che favoriscono la qualità e la profondità della proposta. L’insegnante di Re-ligione cattolica è una persona di cultura che sa offrire stimoli e provocazioni per un apprendi-mento/insegnamento significativo. Deve essere un’espressione viva della scuola: non solo nella scuola, anche della scuola. Il significato che ha l’insegnamento della religio-ne in una scuola multietnica, multiculturale e multi religiosa è quello di promuovere il reci-proco accogliersi tra i giovani nella conoscenza e nel rispetto, quale base di una vera integra-zione sociale, senza che alcuno debba ignorare o tradire la propria identità. Tale insegnamen-to, in una scuola multietnica, dovrebbe essere come nel quadro di Marc Chagall2 Il violinista celeste, una meravigliosa finestra aperta, su di sé, sul mondo, sulle domande più importanti… così capiterà che un “violinista celeste” entrerà con la sua musica, la sua gioia, la sua speranza, la sua verità … Il sogno di una verità che può risplendere, se cercata con pazienza, insieme: «La verità è co-me un’immensa vetrata caduta a terra in mille pezzi. La gente si precipita, si china, ne prende un frammento e brandendolo come arma, di-chiara: “Ho in mano la verità!” Bisognerebbe, invece, raccogliere con pazienza tutti i pezzi, saldarli con l’amicizia e, alla fine, la verità ri-splenderà»3. Questo dovrebbe essere il leit-motiv alla base di un insegnamento di religione in una società multietnica e come diceva un famoso teologo

come Urs von Balthasar, il quale aveva coniato una definizione suggestiva per cercare la verità insieme a tutti i popoli di etnie e religioni di-verse: «La verità è sinfonica»4. E’ solo nell’in-treccio delle varie note, dei suoni e delle voci che essa si svela. Così come anche Gandhi comparava la verità al diamante: uno, eppur con molte facce che non si possono tutte vedere con un colpo d’oc-chio ma richiedono il paziente circuito attorno ad esse. Ritroviamo, nel nostro insegnamento, il rispet-to per la porzione di verità che ciascuno custo-disce, un rispetto che nasce dall’amore e che dovrebbe riuscire a ricomporre la vetrata mira-bile della Verità. Gli studenti con l’aiuto dell’insegnante devono sempre cercare la verità e tener sempre desto “l’interrogativo”. Amare la domanda, amare la potenza del domandare, non smettere di cerca-re la risposta … Come ci ha insegnato s. Agostino5: «Cerchiamo come cercano coloro che devono trovare e tro-viamo come trovano coloro che devono ancora cercare». Pertanto considerando quanto già esposto, l’insegnamento della religione in un società multietnica è un servizio educativo e culturale offerto a tutti coloro che sono disposti a consi-derare i grandi problemi dell’uomo e della cultura e a riconoscere in essi il ruolo costrutti-vo e insopprimibile della religione; e possono essere coinvolti tutti coloro che sono disponi-bili a conoscere e a confrontarsi serenamente e criticamente con il messaggio e i valori della religione cattolica. 1Nostra Aetate n.2( Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane) 2Marc Chagall ( 1887 – 1985) pittore russo di origine ebrea 3Jean Sullivan(1914-1980) scrittore sacerdote francese, studioso di filosofia, appassionato di cinema, autore di libri intensi come i Matinales (da cui la citazione) 4Urs von Balthasar (1905 – 1988), La verità è sinfonica (1972) Jaca Book, Milano 1974, Nuova Ed. 1991 5Agostino d’Ippona (354-430) De Trinitate, Li-bro IX, 1.7

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Immigrazione: i numeri intorno a noi

* Operatore sociale Ufficio immigrati - Prefettura di Bari

di Francesco Depalo *

Il nostro Paese è stato sempre interessato, per oltre un secolo, da fenomeni di emigrazione verso le regioni più ricche e sviluppate del mondo, tanto che oggi si parla di “un’altra Italia” fuori dai nostri confini nazionali. Per-tanto si è trovato impreparato allorquando, alla fine degli anni ’80, è divenuto meta di immi-grazione di persone che fuggivano dal loro paese perché perseguitate o giungevano sulle nostre coste, soprattutto quelle pugliesi, a se-guito di crisi politico-istituzionali (Albania), guerre (ex-Jugoslavia, Kossovo, Eri-trea), persecu-zioni (popolazioni curde). La prima legge che è interve-nuta a regolare il tema dell’im-migrazione risale proprio al 1990 (legge Martelli), com-posta da pochi articoli e si occupava prevalen-temente dei rifugiati politici; nel 1998 è entrata in vigore la legge n. 40, detta Turco-Napolitano, che ha organicamente disciplinato la materia, specificando procedure di ingresso, diritti e doveri delle persone straniere, preve-dendo, a seguito di ulteriori integrazioni nor-mative, anche l’avvio di organismi, come il Consiglio Territoriale per l’Immigrazione, isti-tuito presso ogni Prefettura.

Tale organismo collegiale rappresentativo ha il compito di monitorare in sede locale la presen-za degli stranieri, nonché di promuovere ed implementare a livello provinciale la capacità di integrare i flussi migratori. A tale scopo può proporre ed assumere azioni mirate di integrazione socio-produttiva e cultu-rale anche predisponendo proposte progettua-li da finanziarsi mediante il “Programma Ge-nerale Solidarietà e gestione dei flussi migrato-

ri”. Il CTI può in sintesi far per-v e n i r e a l “centro” utili proposte che emergono a livello provin-ciale. Quest’ultimo è stato costituito presso la Prefet-tura di Bari nel 2000, e ha orga-nizzato i propri lavori in quat-tro Commissio-ni tematiche (Accoglienza,

Sanità, Lavoro ed Istruzione). Successivamen-te, anche a seguito di interventi legislativi (legge Bossi-Fini del 2002 e successive modifi-cazioni), presso il Consiglio Territoriale di Bari sono stati istituiti due ulteriori tavoli tematici: uno relativo al dialogo interreligioso ed uno che si occupa del fenomeno della tratta di esse-ri umani; infine è stata recentemente istituita la Sezione minori del CTI. Nel corso dell’anno 2010 non si sono eviden-

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ziati sostanziali scostamenti rispetto alla situa-zione evidenziata nel rapporto riferito all’anno 2009; nella prima metà dell’anno si è verificato un minor afflusso di extracomunitari irregolari, come costantemente comunicato al Diparti-mento Libertà Civili e Immigrazione. Non si è però, di conseguenza, avvertita una minor pressione nella città di Bari esercitata dai tanti extracomunitari dimessi a seguito di notifica dell’esito dell’audizione e/o la Commissione Territoriale. Questi ultimi, come già evidenzia-to in passato e tranne che in pochi casi, non trovando sistemazione nell’ambito del “Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati”, rimangono nel capoluogo di provin-cia alla ricerca di sistemazione alloggiativa, nonché alla ricerca di un lavoro. Nel 2010 il Consiglio Territoriale per l’Immi-grazione (in seduta plenaria) ha esaminato ed espresso pareri su progetti presentati da Enti pubblici e privati in relazione a bandi di finan-ziamento nazionali ed europei riferiti a perso-ne straniere presenti sul nostro territorio. Inoltre il Consiglio ha analizzato, in appositi incontri, tematiche relative agli aspetti sanitari della vita degli immigrati, ai minori stranieri non accompagnati, presentando anche il rap-porto 2010 di Save the Children e alle ultime novità legislative inerenti il rilascio del permes-so di soggiorno CE per lunga durata e le proce-dure connesse al decreto flussi anno 2010. La legge del 2002, detta Bossi-Fini, per facilita-re il rapporto tra i cittadini e la pubblica ammi-nistrazione, ha previsto l’istituzione, presso ogni Prefettura, anche dello Sportello Unico per l’Immigrazione. Quest’Ufficio ha il compi-to di istruire presso un’unica sede le pratiche di prima assunzione dei lavoratori stranieri e quelle relative ai ricongiungimenti familiari tra cittadini stranieri presenti sul territorio nazio-nale e i loro congiunti residenti nel paese di origine. Tale modalità operativa ha consentito agli inte-ressati di interloquire con un solo attore istitu-zionale (prima erano interessati uffici dislocati in luoghi diversi) permettendo una più celere istruttoria delle singole istanze presentate. Attualmente l’Ufficio è impegnato prevalente-mente nel disbrigo delle pratiche relative all’in-gresso di persone straniere sul territorio nazio-

nale il cui numero viene indicato in appositi decreti (detti Decreti Flussi) emanati periodi-camente dal Governo centrale. Ciò consente a persone provenienti da paesi extra-europei di giungere in Italia e stipulare un regolare con-tratto di lavoro di tipo stagionale (della durata massima di nove mesi), a tempo determinato o indeterminato. Negli ultimi anni si è riscontrato un aumento di lavoratori stranieri provenienti dall’Est eu-ropeo (Romania, Bulgaria), anche se resta alta la richiesta di manodopera albanese. Negli ultimi tre anni si riscontra un aumento significativo delle richieste per l’assunzione di lavoratrici georgiane nell’ambito del lavoro domestico, soprattutto con mansioni di badan-ti, tanto che nell’ultimo decreto flussi 2010 so-no state oltre 700 le domande per lavoratrici georgiane su un totale di 1400 quote assegnate alla nostra provincia nello stesso ambito lavo-rativo. Le richieste di ricongiungimento familiare (oltre 550 nel 2010) appaiono stabili negli ulti-mi anni, con una prevalenza di istanze presen-tate da cittadini albanesi, storicamente presenti da più anni sul nostro territorio. Risultano in aumento le richieste presentate da persone straniere che hanno regolarizzato la loro posi-zione lavorativa negli ultimi due anni e che vedono prevalentemente coniugi e figli, resi-denti nei paesi di origine, come destinatari delle stesse. Le domande di ricongiungimento familiare rappresentano uno degli indici di verifica dell’integrazione degli stranieri nel nostro ter-ritorio in quanto permette, a coloro che da tem-po sono presenti nelle nostre realtà urbane, di consolidare il loro progetto migratorio, realiz-zando l’unità familiare che facilita il rapporto con l’ambiente sociale soprattutto in presenza di figli. Infatti è in costante aumento la presen-za di minori stranieri inseriti nelle scuole pub-bliche della nostra Regione, passati dai 10.589 dell’anno scolastico 2007/2008 ai 12.469 di quello 2009/2010. Si evidenzia, infine, che l’Area Immigrazione della Prefettura di Bari supervisiona, con conti-nuità e collaborazione, le procedure e le attività che vengono realizzate all’interno dei Centri per gli immigrati di competenza statale.�

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La vita in Italia di un’immigrata

* Mediatrice linguistico-culturale

di Angelita Pascual *

Il mio nome è Angelita Pascual. Sono arrivata dalle Filippine trentadue anni fa, esattamente il 19 aprile del 1979 già con un contratto di lavo-ro. Avevo ventisei anni allora. Era molto più facile ottenere un contratto di lavoro, allora, bastava andare all’ufficio di lavoro nelle Filip-pine, fare la domanda di lavoro con la chiama-ta diretta, consegnare una foto e compilare un foglio con i dati personali e gli stessi venivano mandati all’Ufficio di Lavoro in Italia dove i futuri datori di lavoro, da quelle foto e dati personali, sceglievano le persone che volevano assumere come lavoratore. Adesso sono sposa-ta, disoccupata e faccio la casalinga. Voglio raccontarvi della mia vita dal mio arri-vo in Italia. Avevo cominciato a lavorare pro-prio al centro della città di Reggio Calabria, dove sono approdata, naturalmente, con il con-

tratto di lavoro come collaboratrice domestica convivente presso due sorelle anziane. Non conoscevo ancora la lingua per cui comunicavo con loro tramite gesti oppure parlavo con loro in lingua spagnola e anche con l’aiuto del voca-bolario. Non avevo difficoltà a comunicare con loro perché erano due insegnanti in pensione tant’è vero che mi insegnavano anche la gram-matica della lingua italiana. In tre mesi sapevo già parlare la lingua. L’unica difficoltà che ave-vo era il lavoro: non essendo abituata a fare questo tipo di lavoro avevo sempre la febbre dovuta alla stanchezza; quando ero nel mio Paese ho sempre studiato e dopo il diploma di segreteria legale ho sempre lavorato come ste-nodattilografa prima nell’ufficio dell’Avvoca-tura Generale delle Forze Armate delle Filippi-ne per trasferirmi alla Corte di Prima Istanza (in Italia: Corte d’Assise). Lavorando alla Corte di Prima Istanza ho potuto continuare gli studi all’università e ottenere il diploma universita-rio in Scienze politiche. Comunque, torniamo alla mia vita in Italia. Anche se non ho avuto difficoltà ad inserirmi nella famiglia dove lavoravo, non mi permette-vano di uscire e frequentare i miei connaziona-li. Sette mesi dopo decisi di lasciare il lavoro e trasferirmi a Bari dove vi lavorava un’amica e compagna nel viaggio dalle Filippine all’Italia. A Bari ho lavorato presso una famiglia di quat-tro persone: due ragazzi, la signora e il signore. La casa che si trova un po’ fuori della città è molto grande perché è una villa a due piani con un giardino con il prato stile inglese. Ave-vo la stanza grande, il bagno tutto per me e un salottino. Anche qui non ho avuto difficoltà ad inserirmi. La signora mi aiutava molto nelle faccende di casa. Durante i giorni delle uscite la signora mi accompagnava fino a Bari per poi

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venirmi anche a prendere al ritorno. A quei tempi si usciva mezza giornata il giovedì e mezza giornata la domenica, così anche negli altri giorni festivi. Qui ho lavorato per tre anni. Anche se mi trovavo bene con questa famiglia ho lasciato lo stesso il lavoro perché ho consta-tato che il signore non mi versava i contributi. Andai a vivere, quindi, dalle suore di Maria Immacolata che si trovano in Corso De Gaspe-ri. Queste suore le ho conosciute nel febbraio del 1980. Grazie a loro ho potuto conoscere i miei diritti e doveri ed inserirmi meglio nella società, frequentare le associazioni di volonta-riato e le associazio-ni di categoria. Nel 1980 fui eletta pre-sidente provinciale d e l l ’ A P I C o l f (Associazione Pro-fessionale Italiana Collaboratori Fami-liari) e successiva-mente fui anche eletta consigliere nazionale della stessa Associazione nel 1986. Comun-que, anche se avevo questo incarico, non avevo lo sti-pendio per cui non ho smesso di lavorare come collaboratrice domestica. Nel centro della Città ho trovato un lavoro presso una famiglia composta da quattro per-sone. La casa era molto grande anche se in un condominio. Qui il lavoro era molto faticoso perché oltre a pulire la casa, lavavo i panni, li stiravo, dovevo badare ai due bambini: il ma-schio aveva tre anni e mezzo e la femmina ave-va sette mesi e dovevo anche cucinare. Mi sve-gliavo alle sei di mattina e iniziavo il lavoro alle sette, preparavo la colazione dei signori e la portavo in camera da letto. Dopo di che, cucinavo il cibo per il bambino da portare all’a-silo, preparavo lo zaino, poi lo vestivo e lo ac-compagnavo fino al portone quando suonava il pulmino che veniva a prenderlo. Appena con-segnato il bambino, era la volta dei signori. Dovevo preparare il vestito che si doveva met-tere il signore: la camicia, i pantaloni, la giacca,

i calzini e la cravatta, metterli sul letto, pulire le loro scarpe. Quando se ne erano andati via perché lavoravano tutti e due, era la volta di affrontare le faccende di casa: pulire, lavare la biancheria, cucinare e accudire la bambina che, naturalmente rimaneva con me. A pranzo mangiavamo tutti insieme allo stesso tavolo. Devo dire che non avevo mai il tempo di ripo-sare perché finito di pranzare dovevo mettere a posto la sala da pranzo e la cucina. Una volta finito il lavoro in cucina, era di nuovo l’orario che i signori uscivano per andare al loro lavo-ro, lasciavano con me i due bambini. Il più

grande tornava dall’asilo alle sedici e trenta, lo facevo dormire, poi stiravo la roba. Verso le sette di sera, facevo mangiare i due bambini, li lavavo, li vestivo per la notte. Dormivo con la bambina nella sua stanza. Quan-do i signori usciva-no la sera metteva-mo il lettino del bambino nella stan-za dove dormivo

con la bambina. Gli leggevo delle fiabe per farlo addormentare. Ho lavorato per questa famiglia per otto anni. Lasciato il posto di lavoro, senza perdere mai il contatto con loro però, mi sono trasferita al nord dell’Italia, precisamente a Bologna, per guadagnare di più. Tramite le amiche che vi abitavano già, ho trovato un lavoro presso una signora anziana. Era come se la signora fosse sola nella vita perché il figlio era sempre in giro per il mondo. Tornava a casa solo per starci due o tre giorni dopo mesi di lontananza, poi partiva di nuovo. Qui lavoravamo in tre, tutte filippine. Il mio compito era: cucinare, andare a fare la spesa e fare da compagnia alla signora. Era un lavoro per niente faticoso però dopo un anno ho deciso di ritornare a Bari per-ché non sopportavo il clima di Bologna, molto umido sia d’estate che d’inverno. Ho ricontattato la mia precedente signora e le

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ho chiesto se avesse potuto trovarmi un lavoro. Voleva che io tornassi nella sua famiglia, ma, per correttezza verso la ragazza che mi aveva sostituito, non ho accettato la proposta. Mi hanno mandato, allora, a lavorare presso degli amici, una famiglia composta da quattro perso-ne: marito e moglie e due figliolette di dodici e sette anni. In questa nuova famiglia lavoravo solo dalle nove alle sedici, in modo da poter frequentare la scuola serale, caso mai. Andavo a dormire da loro solamente il sabato sera e nelle serate in cui i signori uscivano con gli amici. Anche in questa nuova famiglia mi so-no trovata bene. La signora mi permetteva anche di uscire dal lavoro anzitempo per poter frequentare la scuola. Mi ero iscritta, allora, alla scuola media inferiore e dopo il diploma ci fu l’emergenza immigrazione in Puglia perché c’erano gli sbarchi degli albanesi. Per questo, il Governo aveva indetto un corso di formazione per mediatori linguistico-culturali, che ho avu-to l’opportunità di frequentare. Dopo che il corso era finito, un’associazione di volontariato mi ha contattato per chiedermi se avessi voluto fare la mediatrice linguistico-culturale presso uno sportello che avevano aperto al Comune di Corato. Ho subito accettato la proposta di lavo-ro senza, però, lasciare il mio posto di lavoro quale collaboratrice domestica. Andavo a Co-rato due volte la settimana: il martedì e il giovedì po-meriggio e lo sportello di mediazione è durato per due anni. L’anno dopo la chiusura dello sportello di Corato hanno aperto uno sportello di mediazione al Comune di Terlizzi e fui c o n t a t t a t a

dalla stessa associazione che mi aveva assunto anche lì per la mediazione culturale. Passavano degli anni e le figlie dei miei datori di lavoro erano cresciute e si erano trasferite a Roma per motivi di studio. Dopo dodici anni durante i quali avevo lavorato presso questa famiglia mi sono sposata con uno di Bari. I signori sono venuti a testimoniare al mio matrimonio. Do-po il matrimonio ho lasciato il lavoro per dedi-carmi alla famiglia. Comunque, da quando ho frequentato il corso di formazione per mediato-ri culturali indetto dalla Regione Puglia nel 2005 ho sempre lavorato come mediatrice cul-turale soprattutto nell’inserimento dei bambini immigrati nelle scuole e nei progetti di inter-cultura sempre nelle scuole. Così ho affrontato la vita di un’immigrata, re-golare, ma altrettanto con molta difficoltà, lon-tano da casa. Anche nella mia vita matrimonia-le ho avuto e tutt’ora ho molta difficoltà per via della differenza di cultura. Quest’esperienza di vita mi ha fatto maturare tanto e sono diventa-ta più responsabile; ringrazio Dio che veglia sempre su di me e mi guida in tutto quello che faccio e nelle decisioni che prendo. Devo dire che stando sempre vicino a Dio, riesco ad af-frontare le difficoltà della vita con serenità, pazienza e col sorriso.

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Sono nato in un piccolo villaggio di campagna nella Provincia di Qalqilia. Vengo da una terra che, da quando ero piccolo consideravo, e con-sidero ancora, una “terra maledetta”. Ma sono maledettamente attaccato a questa terra. Amo questa terra, fa parte di me così come io faccio parte di essa. Ho sofferto, e soffro ancora, a causa della mia appartenenza ad essa. A volte mi chiedo se avessi avuto la possibilità di na-scere in un Paese a mia scelta, quale paese avrei scelto. La Palestina! Sono un palestinese nato e cresciuto in una terra definita santa. Il mio pri-mo ricordo di infanzia sono le bombe, la guer-ra, la fuga e le grida. Era il 1967. Non avevo

ancora compiuto i quattro anni. Ricordo che la mia famiglia ed altre stavano scappando verso la Giordania, quando ad un certo punto mio padre si fermò e convinse mia madre e gli altri a non lasciare la Palestina. Pochi minuti dopo il radio giornale annunciò la caduta della West Bank. Dopo ci siamo ritrovati in una grotta. Qui, ricordo che piangevo per la fame, e mia madre mi dava qualcosa che subito sputavo. Ancora non so cosa era! Mi ricordo il ritorno al villaggio, la casa distrutta, la nuova piccola casa senza bagno. I soldati che vengono dentro casa e buttano tutto in cerca non so di che e che portano via mio padre. I nostri pianti e la pau-

Nato in una “terra maledetta” definita “santa”

* Presidente dell’Associazione Abusuan - Bari

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di Taysir Hasan *

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ra. Per andare a scuola bisognava passare davanti ai soldati. Il loro divertimento era prenderci a calci. Il nostro gioco preferito era raccogliere le uova marce, e chi aveva preso più botte, le doveva lanciare contro i soldati. Che fragore e che puz-za! La mattina dopo, di nuovo calci. E così tutti i giorni. Nell’81 mi diplomai al liceo scientifico. Volevo fare l’ingegnere. All’inizio non pensavo ad un Paese preciso dove fare l’università, l’impor-tante per me era potermi iscrivere alla facoltà di ingegneria. Dato che in Palestina non c’era la facoltà che volevo, (a parte il fatto che le uni-versità erano quasi sempre chiuse), ho pen-sato alla Giorda-nia dove mi tra-sferii per scoprire che un palestine-se deve avere cinque voti in più rispetto ad un cittadino giorda-no (puro). E così ero escluso da tutte le facoltà scientifiche. Cominciai a valutare altri paesi arabi, ma c’era sempre un problema. L’Egitto all’epoca aveva pessimi rapporti con l’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), e di conse-guenza le università erano chiuse ai palestine-si. Chi andava in Siria avrebbe avuto problemi con le autorità israeliane al suo ritorno. Interro-gatori e arresti amministrativi (cioè, ti arresta-no senza nemmeno dirti qual è l’accusa). Tutti i Paesi arabi, o non volevano i palestinesi, o era-no “amici” dell’Olp e quindi nemici di Israele. La stessa cosa per i paesi dell’Ex Unione Sovie-tica. E così allargai il mio sguardo all’Europa e scel-si l’Italia perché economicamente era più con-veniente. Arrivai il 20 ottobre 1981. A Perugia, ho studiato la lingua italiana e mi sono iscritto alla facoltà di ingegneria. La prima difficoltà

era trovare una casa. Non era un problema essere “stranieri”, Perugia è abituata a loro, ma in quel periodo si aveva “paura” dei palestine-si. Nell’87 con lo scoppio la prima Intifada mi trovai senza soldi. Mio padre non poteva man-tenermi gli studi. La gente non lavorava più a causa del continuo coprifuoco e degli scioperi. Non si poteva raggiungere il mercato per ven-dere le verdure e la frutta che mio padre colti-vava. Ho dovuto lavorare per mantenermi in manie-ra autonoma. Nel frattempo ero fermo con gli esami. Poi, rendendomi conto che lavorare e

studiare ingegne-ria era molto diffi-cile decisi di cam-biare facoltà e scelsi informatica a Bari. Era il 1989. La mia esperienza giornalistica nac-que dal desiderio e soprattutto dal bisogno di raccon-tare e di spiegare cosa vuol dire essere palestinese, cosa significa l’oc-

cupazione. Il non poter piantare un albero sen-za il permesso delle autorità militari, il non poter avere la corrente elettrica e l’acqua. I po-sti di blocco e il coprifuoco tutti i giorni dopo il tramonto o come si vive invece quando il co-prifuoco è ventiquattro ore su ventiquattro e dura giorni e giorni, dove sei prigioniero in casa tua e non puoi nemmeno affacciarti alla finestra. Insomma, come si vive quando non disponi della tua vita. E così a Perugia iniziai a collaborare con Italia Radio–Umbria, dove facevo una trasmissione settimanale (radio intifada) sulla vita palestine-se. Quando venni a Bari ho cominciato a colla-borare (e poco dopo sono stato assunto) con una tv locale dove iniziai con Palestina in fiam-me, e poi iniziai a dedicarmi completamente al mio nuovo lavoro: il giornalista. Alla fine del 1994 l’emittente è stata venduta

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Dossier

con il conseguente licenziamento dei dipen-denti. E così insieme ad alcuni amici, immigrati e italiani, abbiamo fondato il Centro intercultu-rale Abusuan. ABUSUAN è un luogo di incontro tra culture e tradizioni di paesi diversi. Le sue molteplici attività nascono dall’intenzione di dare luogo ad una società nuova e ad un linguaggio capaci di esprimere, costruire e significare le nuove e diverse forme della convivenza e interetnicità. Promuovendo conferenze, concerti, spettacoli, incontri letterari e cinematografici, attività di-dattiche e formative, Abusuan si pone, tra i suoi principali obiettivi, quello di informare e di conoscere le realtà di altri popoli, le culture, le storie e i conflitti che le/ci attraversano. Abusuan si pone punto di riferimento per ser-vizi di informazione e formazione nel campo delle migrazioni internazionali. Il suo fine è promuovere l’integrazione, la risoluzione dei conflitti tramite la cooperazione e la sensibiliz-zazione ai diritti umani, valorizzando i prodot-ti dell’intercultura. E’ per questo che Abusuan svolge le sue attivi-tà in due principali direzioni: da un lato il lavo-ro nell’ambito della conoscenza e dell’informa-zione: la promozione delle culture attraverso l’organizzazione di festival interetnici di musi-ca, cinema e teatro (festival Soulmakossa, Bala-fon film, e festa dei popoli, e Bari in jazz); dall’altro il lavoro nell’ambito della formazione e della scuola: organizzazione di corsi di for-mazione e di aggiornamento per docenti ed operatori culturali, attività di educazione al decentra-mento cognitivo, laboratori di analisi e di critica della comunica-zione mass-mediatica. Le attività del Centro sono rivolte a tutti coloro che operano nel campo della cooperazione sociale, al mondo del volontariato, alle amministrazioni locali, agli assi-stenti sociali, agli educatori, ai docenti, agli studenti, ai migranti e nascono dalla cooperazione. Nel quadro di una strategia com-plessiva volta a sostenere l’inte-

grazione sociale e culturale dei cittadini immi-grati, perseguita anche attraverso la ricerca di sinergie fra le diverse componenti istituzionali che operano sul territorio, il centro Abu-suan ha aderito ad una iniziativa promossa dalla Prefettura di Bari, in tema di intercultura-lità, sottoscrivendo nel gennaio 2005 insieme con altri soggetti pubblici e privati – tra questi la Regione Puglia, la Provincia di Bari, il Co-mune di Bari e l’Università degli Studi di Bari -un protocollo di intesa mirante a promuovere da parte dei comuni della provincia di Bari l’attivazione di centri interculturali quali luo-ghi di scambio e di confronto rivolti tanto ai cittadini nativi quanto ai cittadini immigrati. Abusuan ha istituito nella propria sede lo Sportello per l’integrazione socio sanitaria e culturale degli immigrati secondo i parametri del regolamento regionale n.4 del 2007. Essere palestinese migrante è stata una espe-rienza molto particolare. Molte volte mi senti-vo privilegiato. Quando incontro delle persone che ti dicono “siamo a fianco del popolo pale-stinese”, “non è giusto che continuate a vivere sotto l’occupazione”, ecc... Nel 2002 mi sono sposato con una cittadina barese, e mi sono ormai stabilito definitiva-mente a Bari. Anche se orami ho la cittadinan-za italiana, e mi sento più italiano che palesti-n e s e , a n c o r a v e n g o c o n s i d e r a t o “Extracomunitario” a cui chiedere se ho il per-messo di soggiorno.

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Gli stranieri che invadono le nostre città sono un prezioso segno dei tempi, che ci sveglia e ci interroga. Giovanni Crisostomo in una omelia pronunciata nel giorno di Pentecoste ha affer-mato: «Eccoci, oggi, arrivati alla pienezza di tutti i beni, eccoci giunti alla metropoli delle solennità». E’ infatti il dono dello Spirito a trasformare il mondo. La babele ove pur parlando la stessa lingua e avendo solo il massimo profitto come progetto comune ha le ore contate! Lo Spirito sta costruendo la nuova Ge-rusalemme dove trionfa l’unità perduta senza l’annullamento delle dif-ferenze. Non possiamo soffocare il vento né im-prigionare il fuoco. E’ urgente imparare la lin-gua dello Spirito che ci permetta di comprendere ed ascoltare più che ele-vare steccati di parte. Il

riconoscimento dell’essere io straniero per l’altro mi spinge alla scoperta dell’esigenza umana radicale che è Cristo. Più che teorici della con-vivenza pacifica e promotori della salvaguar-dia etnica, la Pentecoste ci rimanda ad una umanità che vinca la paura e che spalanchi le porte chiuse perché ci trascina dentro il mistero di Cristo. Vieni Spirito, vieni!

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L’angolo della

spiritualità

a cura di

don Valentino Campanella

Quando il giorno della Pentecoste giunse, tutti erano insieme nello stesso luogo (At 2)

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Quando e perché nasce Radio Amicizia? Radio Amicizia nasce come emittente parroc-chiale a Polignano nel 1986 per volere del com-pianto parroco don Pietro Ferrara. Nel 1994 mons. Domenico Padovano, vescovo della dio-cesi di Conversano-Monopoli, supportato da un gruppo di laici già impegnati nel mondo della radiofonia privata, decide di creare una rete che faccia da supporto alle altre radio par-rocchiali presenti in zona. Si decide così il pas-saggio di Radio Amicizia da radio parrocchiale a rete diocesana, completando la copertura del territorio con l’acquisto di altre frequenze. Il 24 aprile del 1994 va in onda la prima diretta ra-diofonica dagli studi di Conversano, presso il Seminario vescovile, dove tuttora è allocata la sede di Radio Amicizia. Da dove trasmette e in quali comuni attual-mente è diffuso il segnale? Come dicevo la sede e gli studi radiofonici sono presso il Seminario vescovile di Conver-sano in Via Dei Paolotti, 2. I paesi in cui si può ascoltare Radio Amicizia sono: Conversano, Monopoli, Polignano, Fasano, Cisternino, Ca-stellana, Rutigliano, Turi, Alberobello, Noci. Per ogni paese è disponibile una diversa fre-quenza che si può facilmente agganciare auto-maticamente grazie al sistema RDS. Inoltre si può ascoltare da ogni parte del mondo in strea-ming sul sito internet www.radioamicizia.com. Com’è costituito il palinsesto e quanto i vostri programmi contribuiscono alla diffusione del messaggio cristiano? Il nostro palinsesto contiene programmi auto-prodotti dal nostro team che solitamente vanno in onda in diretta la mattina dalle 11.00 alle 13.00 e nel pomeriggio dalle 17.00 alle 20.00. Si tratta di programmi d’informazione culturale e religiosa. Grazie alla collaborazione con il Li-

ceo Scientifico “Sante Simone” di Conversano da oltre dieci anni va in onda il mercoledì “Il brufolo radioattivo”, un programma di infor-mazione per i giovani fatta dai giovani, in cui trovano spazio notizie a carattere scientifico, buoni eventi e informazione scolastica. Ogni primo martedì del mese il nostro Vescovo risponde in diretta ad alcune domande riguar-danti la vita della Diocesi, ma anche questioni di fede e di attualità religiosa. Il venerdì è dedi-cato alla lectio divina condotta da don Michele Petruzzi, padre spirituale del Seminario vesco-vile diocesano. Ogni giorno, inoltre, dalla catte-drale di Conversano va in onda la recita del rosario e la Santa Messa: un momento atteso e molto seguito non solo da malati e anziani. Tutta la programmazione di Radio Amicizia è finalizzata alla diffusione del messaggio e della cultura cristiana con riferimento particolare alla Chiesa locale, di cui si trasmettono in diret-ta gli eventi più importanti: convegni, celebra-zioni di ordinazione sacerdotale, messe crisma-li, ecc... Nei radiogiornali c’è ancora spazio per le buone notizie? Ogni giorno ci sforziamo di trovarne. Per i nostri notiziari a carattere nazionale ci affidia-mo alla professionalità della News Press, l’a-genzia d’informazione vicina alla Conferenza Episcopale Italiana. Per le notizie a carattere locale facciamo riferimento ad un gruppo di collaboratori presenti nella Diocesi. Per scelta editoriale non riportiamo notizie di cronaca nera locale, cerchiamo notizie che solitamente non trovano spazio nei vari notiziari delle emittenti commerciali. La radio vive soprattutto di musica. Quanto le scelte musicali dell’emittente educano il gu-sto degli ascoltatori?

Media del territorio a cura di Vincenzo Legrottaglie

La rubrica vuole esplorare i mass media presenti sul nostro territorio regionale, conoscerne le origini, la diffusione, la gente che vi lavora, il modo in cui parlano all’uomo dell’uomo e della sua vita, il loro interesse (se c’è) nei confronti dell’educazione in generale, del mondo della scuola in particolare.

Intervista ad Anna Pellegrini (Responsabile della programmazione di Radio Amicizia InBlu rete radiofonica della diocesi di Conversano-Monopoli)

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Anche in campo musicale la nostra emittente ha adottato uno stile molto chiaro, ben consa-pevoli che attraverso la musica si può “educare” e non solo in riferimento ai gusti musicali. Per questo la playlist di Radio Amici-zia è altamente curata ed attinge al meglio della produzione italiana ed internazionale. Nostra peculiarità è proporre “brani musicali” con testi mai offensivi e provocatori. Irradiamo generi musicali e ritmi non ossessivi o alienanti. Musica che edifica: Pop, Country, Soul, Jazz, Word music, Christian music. Non inseriamo brani da discoteca non melodi-ca (progressive, hard). Non inseriamo Hard Rock e Metal provocatorio o anticristiano. Non inseriamo Hip-Hop ossessivo e dissacran-te. Escludiamo nella colonna sonora di RA gruppi o artisti che hanno usato la provocazio-ne, l’espediente occulto (messaggi subliminali, ecc.), l’invito palese o mascherato all’uso di droga, violenza, o satanismo per scalare le classifiche. Abbiamo ritenuto di congelare, fin dalla prima ora, brani, autori e gruppi che offendono il credo cristiano e le religioni in genere. Cerchiamo sempre di proporre artisti musical-mente validi a prescindere dalla promozione che viene fatta loro dalle case discografiche, che molto spesso tengono conto più della spet-

tacolarizzazione dello stile di vita dell’artista piuttosto che del suo effettivo valore musicale. Cosa pensa del fenomeno Lady Gaga? Come spesso accade nel mondo della musica, quando un artista dal discreto talento canoro e musicale, viene adottato da un entourage che crea su di lui un personaggio dai gusti eccen-trici e trasgressivi e gli fa dire delle cose altret-tanto trasgressive dal punto di vista culturale e sociale ecco che nascono i fenomeni. La sto-ria della musica ne è piena, ora è il momento di Lady Gaga; quando chi le sta intorno avrà sfruttato a pieno tutte le possibilità espressive, traendone il massimo guadagno, lascerà che il fenomeno si esaurisca. Nel frattempo si deve sperare che lo stile di vita proposto da tali fenomeni resti nell’ambito dello spettacolo e non diventi modello per tutti gli inconsapevoli spettatori. Quanti tra speaker, dj e giornalisti si sono formati nella vostra emittente? In questi anni molti giovani hanno collaborato con noi anche se nessuno ha intrapreso la stra-da professionale del giornalista, del dj o dello speaker a tempo pieno. L’esperienza in radio resta comunque un importante momento di crescita per i giovani, un’esperienza in grado di offrire competenze comunicative spendibili in ogni campo lavorativo e sociale.

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G. Savagnone, Maestri di umanità alla scuola di Cri-sto. Per una pastorale che educhi gli educatori, Citta-della Editrice, Assisi 2010, pp. 151, € 11,80

Il libro si propone di tradurre in termini concreti il tema educativo, su cui sono incentrati gli Orientamenti pastorali della CEI per il prossimo decennio. Utilizzando le indicazioni contenute in quest’ultimo documento, e inseren-dole nel contesto offerto dagli altri testi del Ma-gistero – dal Concilio alle encicliche di Benedet-to XVI, dagli Orientamenti per lo scorso decennio agli Atti del Convegno di Verona –, si vogliono evidenziare alcune piste su cui la comunità cri-stiana può procedere per far fronte all’ “emergenza” e viverla come una “sfida”, gravi-da di insidie ma anche di opportunità e di spe-ranza. In questa prospettiva, partendo dal “piano nobile” dei principi condivisi, vengono individuate cinque “piaghe” che, al “piano ter-ra” della pastorale ordinaria, rendono oggi pro-blematica, di fatto, la formazione degli educatori (genitori, docenti, catechisti), sottolineando co-me proprio queste “ferite” si debbano trasfor-mare in “feritoie”, varchi aperti, fonti di luce, attraverso cui parrocchie, gruppi ecclesiali, dio-cesi possono riscoprire e rivitalizzare la loro vocazione di comunità educanti. Questo richie-de la riscoperta di una fede che superi la scissio-ne, oggi diffusa, tra una pratica cristiana rituali-stica, all’interno del tempio, e una vita quotidia-na ispirata a criteri tutt’altro che evangelici; il recupero di una speranza coraggiosamente proiettata verso il futuro e impegnata a costruir-lo, non solo nella propria esistenza personale, ma anche a livello politico e sociale; la pratica di una carità appassionata, che coinvolga tutte le sfere, anche psico-fisiche, dell’essere umano e si coniughi con lo slancio del desiderio. Insieme a questa rilettura delle tre virtù teologali, un’effi-cace educazione degli educatori richiede l’effet-

tiva pratica, al di là della retorica, di una effetti-va comunione, e un “alleggerimento” delle pe-santezze organizzative e burocratiche che a vol-te impediscono, nelle nostre comunità, di vedere i volti e di testimoniare la libertà dello Spirito. (a cura dell’Editore) G. Capozza, Amici d’infanzia. Saggi di narrativa per ragazzi (Collana I libri di Alice 9), Levante editori, Bari 2010, pp. 223, € 20,00

Chi sono gli amici d’infanzia? I libri per bambini, gli autori che li hanno scritti, le storie in essi raccontate. Cosa fa di un testo un’opera “per” ragazzi? Come fare educazione “alla” lettura e “della” lettura? Come formare lettori critici? Lo studio

dell’Autore risponde a queste e ad altre doman-de inerenti il mondo della letteratura giovanile, l’approccio ai libri da parte dei ragazzi, l’inter-vento degli adulti perché i ragazzi si appassioni-no alla lettura. Il volume presenta, nella prima parte, i dati sulla produzione editoriale per bambini e ragazzi ricavati da riviste specializzate quali Liber, Il pepe verde, Andersen, Pagine giovani e da associazioni che hanno posto attenzione all’editoria per ra-gazzi quali Hamelin, il Gruppo per la letteratura giovanile e L’aquilone. Dalla lettura dei dati risulta un grosso divario tra la lettura e la pub-blicazione di libri: si legge sempre meno, si pub-blica moltissimo; risulta, inoltre preoccupante la relazione giovani-lettura in Italia: pochi leggono molto e molti leggono pochissimo o nulla nono-stante proliferino iniziative promosse da biblio-teche, case editrici, associazioni culturali, libre-rie, ecc. Conclude la prima parte la presentazio-ne del progetto Amico Libro. La seconda parte presenta i classici per ragazzi. Dopo una pre-messa che sottolinea «quanto pesi la tradizione meridionale sul patrimonio fiabistico italiano»

Sullo scaffale

a cura di Anna Asimi

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l’Autore si sofferma su tre testi – Favole Pugliesi di M. Triggiani, Fiabe di Terra di Bari di D. Gian-cane, Fiabe dell’Alto Salento di C. Rodía – met-tendo in luce i pregi di fiabe e favole in essi raccolte, analizzandone tipi e motivi, ponendo-le in relazione con la tradizione popolare uni-versale. Segue l’analisi di un «immortale classi-co della letteratura per l’infanzia», Peter Pan, sviluppata nei percorsi favolistico, antropologi-co e psicologico. Ancora, abbiamo l’individua-zione di alcuni indicatori entro cui muoversi per una lettura di Harry Potter. Chiude la se-conda parte uno sguardo alle opere di Isabel Allende e Neil Gaiman. La terza parte è dedi-cata alla narrativa illustrata, da A. Spiegelman a M. Satrapi a J. Taniguchi fino alle “rivisitazioni” di alcuni classici per ragazzi. La quarta parte si occupa della narrativa psicolo-gica di M. Sunderland e di quella eversiva di J. Zipes. P. Polieri, Dio è tollerante? Il cristiane-simo di fronte alla pluralità delle reli-gioni e alla sfida etica globale, Stilo Edi-trice, Bari 2010, pp. 395, € 35,00

Il cristianesimo ha incontrato nella sua storia qualche difficol-tà a rapportarsi alle altre reli-gioni e a riconoscerne il valore salvifico e veritativo. Si è passa-ti da una posizione di esclusivi-smo – le altre religioni non sono detentrici della verità e non hanno potere salvifico – ad una

di inclusivismo – le altre religioni contengono semi di verità e verrà un tempo in cui si ricono-sceranno nel cristianesimo – ad una di plurali-smo teologico – le religioni godono di una cer-ta parità –. Proprio con il pluralismo teologico inizia il cammino dell’Autore con autori – alcu-ni – che hanno affrontato il rapporto cristiane-simo-altre religioni; dei loro scritti il Polieri fa un’analisi ampia, articolata, dettagliata e una critica spietata, pungente, tuttavia molto co-struttiva – egli stesso afferma che demolisce per costruire –. Il libro consta di tre capitoli. Il primo – Dalla religione alle religioni. Il ‘paradigma pluralista’ al vaglio della ragione storico-culturale –

presenta la teologia pluralista, particolarmente nelle declinazioni di F. Teixeira e di J. M. Vigil, ne elenca le debolezze e la assume come punto di partenza per poter avviare la costruzione di un pensiero religioso che davvero riconosca la parità di ogni religione. Il secondo capitolo – Verità contro alterità? Un nodo problematico radi-cale – fa comprendere bene come il cristianesi-mo innesti il tema dell’alterità religiosa su quello della verità. Sotto esame Giovanni Paolo II con la sua Fides et ratio; J. Werbick che pone in relazione verità e libertà; A. T. Queiruga, il quale sostiene che tutte le religioni sono vere in teoria, ma di fatto non lo sono. Il terzo capitolo – Il dialogo ‘responsabile’ tra le religioni. Una que-stione di ‘pratica’ globale (su Paul F. Knitter) – espone la posizione di Knitter: questi sposta il discorso su Dio dopo il discorso dull’uomo, accosta, infatti, il tema della pluralità delle reli-gioni alla sfida etico-pratica che la sofferenza degli uomini e dello stesso pianeta Terra lan-ciano alle religioni tutte. Il libro si presenta come un’ottima provocazio-ne al pensiero, al dialogo, al dibattito sul plura-lismo religioso e come un canovaccio per una seria riflessione sulla necessità dell’esistenza delle religioni, ciascuna con la propria identità, e della relazione tra le religioni. P. Basso (a cura di), Razzismo di stato. Stati Uniti, Europa, Italia (Collana La Società), Franco Angeli, Milano 2010, pp. 630, € 38,00

Migrazione. Nessun altro feno-meno oggi è così globale: una massa di gente disperata che sfugge le guerre e la fame, sfida deserti e mari per giungere alla “terra promessa” e realizzare il sogno di ricominciare a vivere. Ma “la terra promessa” non li vuole: non vuole quelli che arri-

veranno, non vuole quelli che sono appena arrivati, vorrebbe ricacciare quelli che già cal-pestano il suo suolo. Il vento del razzismo, presente a tutte le latitu-dini del mondo, comincia a soffiare forte in Occidente agitando le popolazioni autoctone:

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questo almeno è ciò che appare. In realtà, so-stengono gli Autori del libro, il fenomeno cui noi assistiamo è da definirsi razzismo istituzio-nale. Leggi speciali, politiche contro “clandestini” e richiedenti asilo, persecuzioni contro i rom, islamofobia, guerra ai latino-americani sono le varie declinazioni del razzi-smo di stato in Occidente (Stati Uniti, Germa-nia, Gran Bretagna, Francia, Svizzera, Italia) di cui gli Autori fanno una puntuale analisi e presentano ricca e aggiornata documentazione. Le cause del razzismo di stato sono da ricon-dursi alla crisi del capitalismo e all’eccessivo costo del lavoro da una parte e dall’altra alla fine del primato statunitense in ogni ambito, da quello politico a quello monetario, da quello tecnologico a quello culturale e all’ascesa in tutti questi ambiti di Cina, India, Oriente e alcuni paesi del Sud del mondo. «La lunga marcia dei popoli e dei lavoratori delle ex-colonie e – per altro verso – dei “rispettivi” capitalismi impaurisce (comprensibilmente) le élites occidentali e le spinge sempre più a con-siderare le genti immigrate negli Stati Uniti e in Europa occidentale come le quinte colonne di questa marcia, da tenere sotto stretta osserva-zione e severo controllo» militare, poliziesco, amministrativo, sociale. All’orizzonte si profila uno scontro di culture e civiltà. Ma si coltiva una speranza: che genti con diversa identità, nazionalità, religione, colore della pelle viven-do e lavorando fianco a fianco scoprano il valo-re della solidarietà; che le società occidentali si trasformino finalmente in società multirazziali, multinazionali, multiculturali. A. Matteo, La prima generazione incre-dula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2010 , pp. 114 , € 10 ,0 0

Un quadro dai mille colori, defi-niti e riconoscibili, un vivaio ric-chissimo di informazioni sui gio-vani e sulle realtà che abitano o non abitano, sui rapporti che stabiliscono o non stabiliscono con i diversi soggetti con cui en-trano a contatto.

I giovani, quelli nati dopo il 1981, quelli che hanno un’età compresa tra i 18 e i 29 anni. Quali caratteristiche definiscono il modo di porsi dei giovani nei confronti della realtà? L’Autore definisce i giovani invisibili, increduli, inquieti. Invisibili. I giovani non si vedono più. I giovani, che già nel nome portano tutta la carica della novità e l’energia e la forza – fisica, riprodutti-va, intellettiva – che hanno dentro sono am-malati di invisibilità in ogni ambito della vita pubblica – politica, sindacato, Chiesa –. La causa di questa invisibilità si individua in tre dati: si è allungata la vita media degli italia-ni, i giovani sono sempre meno (oggi costitui-scono 1/6 della società), l’intera società si di-sinteressa di questa fascia d’età confinata nelle università, disoccupata, dal lavoro precario. E gli adulti? La società italiana è in mano alla generazione nata tra il 1946 e il 1964. Questi adulti vivono il mito della giovinezza, voglio-no mantenersi – a tutti i costi – giovani e quan-to costa! Desiderio contro natura che li rende “portatori sani di tristezza”. Le ricadute sui giovani sono deleterie. Increduli. I giovani (18-29) sono estranei ad ogni forma di religiosità; il dio che hanno visto, toccato, udito, respirato fin da bambini è il dio della giovinezza. Il Dio di Gesù Cristo non c’entra con la loro vita. Inquieti. I giovani, però, portano dentro anche un’inquietudine positiva: hanno il desiderio di stare insieme, l’amicizia è il primo valore per loro e, ancora, sono amanti della natura, fanno volontariato, hanno la musica in testa, segno che cercano la gioia e la festa. Nelle intenzioni dell’Autore il libro è rivolto a vescovi e preti, ma la fascia dei destinatari si può allargare a tutti gli adulti che intendano guardarsi allo specchio e recuperare la verità del nome che portano.

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D. Ianes, H. Demo e F. Zam-botti, Gli insegnanti e l’integra-zione. Atteggiamenti, opinioni e pratiche (Collana I Mattoncini), Erickson, Gardolo (TN) 2010, pp. 246, € 10,00 Cosa pensano gli insegnanti dell’integrazione scolastica

degli alunni con disabilità? Quali metodologie didattiche adoperano all’interno e al di fuori della classe? Quali sinergie si creano tra genito-ri, insegnanti e specialisti? Quali i rapporti tra i bambini con disabilità e il resto della classe? Il libro presenta l’elaborazione dei dati della se-conda fase di una ricerca promossa dalla libera Università di Bolzano sull’integrazione scola-stica degli alunni con disabilità. Questa fase analizza il punto di vista degli insegnanti; una prima fase ha dato la parola alle famiglie; una terza fase, in corso, sta raccogliendo le opinioni degli alunni con disabilità.

F. Mormando, I bambini ad altissimo potenziale intellettivo. Guida per insegnanti e genitori (Collana Guide per l’educa-zione), Erickson, Gardolo (TN) 2011, pp. 115, € 18,00 Bambini superdotati: già all’età di due o tre anni leggo-

no, sono ipersensibili, empatici, elaborano temi complessi quali la vita, la morte, l’ingiustizia. Ma le loro attitudini sono un problema fra i banchi di scuola: si annoiano, si distraggono, quindi disturbano o si isolano. Il libro, rivolto ad insegnanti e genitori, propone attività prati-che di apprendimento e di arricchimento.

L. Tuffanelli e D. Ianes, La gestione della classe. Autorap-presentazione, autocontrollo, comunicazione e progettualità (Collana Guide per l’educa-zione), Erickson, Gardolo (TN) 2011, pp. 223, € 20,00 Il testo presenta un argomen-

to complesso e controverso afferente al mondo

della scuola: la “gestione” della classe. La ma-teria è trattata in forma di dialogo tra tre do-centi e analizzata da particolari prospettive: l’autorappresentazione professionale, l’auto-controllo, la comunicazione, la progettualità, la gestione, la materia di insegnamento, la valuta-zione e le relazioni.

R. Quaglia e C. Longobardi, Il colloquio didattico. Comunicazione e relazione efficace con le famiglie degli alunni (Collana Guide per l’educazione), Erickson, Gardo-lo (TN) 2011, pp. 129, € 18,50 Il colloquio didattico è una grande opportunità per costrui-

re un’alleanza didattica scuola-famiglia. L’o-biettivo centrale è «il confronto delle conoscen-ze degli interlocutori sull’allievo». Il testo è rivolto ai genitori che con il colloquio possono imparare a guardare al figlio come “allievo” e quindi conoscerne competenze e interessi; agli insegnanti che possono imparare a guardare all’allievo come ad un bambino/ragazzo/giovane con una sua storia.

I. Grazzani Gavazzi, V. Orna-ghi e C. Antoniotti, La compe-tenza emotiva dei bambini. Propo-ste psicoeducative per le scuole dell’infanzia e primaria (Collana Guide per l’educazione), Erick-son, Gardolo (TN) 2011, pp. 169, € 19,00

Le emozioni hanno un ruolo centrale nella vita delle persone, sono ciò che ci rende umani. Il libro soddisfa il bisogno e il desiderio di educa-tori e insegnanti di conoscere in profondità il significato e la funzione delle emozioni. Ad una prima parte di inquadramento teorico di psicologia delle emozioni segue una serie di proposte di educazione alle emozioni da utiliz-zare con bambini dai tre ai sette anni.

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Giunti in redazione a cura di Anna Asimi

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Comprendere Dio è difficile, ma parlare di lui è addirittura impossibile, come disse un filosofo greco parlando di Dio: affermazione non scioc-ca, a mio parere, che serve a mostrare di aver compreso quanto sia difficile parlarne, e che evita ogni confutazione proprio a causa della inesprimibilità di Dio. Al contrario, io penso che parlare di Dio è impossibile e comprender-lo è ancora più impossibile. Ché quello che si è pensato, la parola potrebbe fors’anche manife-starlo, se non adeguatamente, comunque in modo oscuro, a colui che non sia completamen-te malato nell’udito e stolto nell’intelligenza. Ma il comprendere con il nostro intelletto una sostanza così grande è assolutamente impossi-bile e irraggiungibile, non solo per quelli di spirito insonnolito e che badano solo a quello che è a terra, ma anche per quelli che sono mol-to grandi e amano Dio; è impossibile, senza distinzione, a tutta la natura creata, a tutti quel-li davanti ai quali si addensa questa caligine e ai quali questo spesso elemento carnale fa osta-colo alla conoscenza della verità. E non so nem-meno se sia possibile alle sostanze intellettuali che vivono più in alto di noi, le quali, grazie alla loro vicinanza a Dio e al loro essere illumi-nate da tutta quanta la luce divina, potrebbero anche essere rischiarate, se non in modo totale, almeno in modo più perfetto e più netto di quanto non siamo noi, chi più chi meno, in rela-zione alla loro posizione. Questo problema, dunque, rimanga dove si trova: quello che, invece, ci riguarda, non è solamente «la pace di Dio», che «è al di sopra di ogni intelligenza» e di ogni comprensione, e

non solamente quello che è stato riservato ai giusti nelle promesse, cioè quei beni che occhio non può vedere né orecchio udire né intelletto contemplare (se non un poco); e non è l’esatta conoscenza della creazione (anche di questa, infatti, tu puoi possedere – convincitene – sola-mente le ombre, allorquando tu senti dire: «vedrò i cieli, opere delle tue dita, la luna e le stelle» e la immobile razionalità che si trova in quelle sostanze; ché ora tu non vedi, ma un giorno vedrai): va molto più oltre di queste sostanze, il nostro argomento; una natura inaf-ferrabile e incomprensibile – quanto sto dicen-do non si riferisce alla sua esistenza, ma alla sua essenza. Ché «la nostra predicazione» non «è vana» né «stolta è la nostra fede», né questa è la dottrina che noi professiamo: non conside-rare la nostra sincerità un principio di irreligio-sità o di malvagità, e non ti inorgoglire per il solo fatto che noi ammettiamo la nostra igno-ranza. Ché l’essere convinti dell’esistenza di una cosa è ben diverso dal sapere che cosa essa sia.

Gregorio di Nazianzo Discorsi teologici. Orazione 28,4-5

[Testo tratto da Lieggi, Jean Paul, La cetra di Cristo. Le motivazioni teologi-che della poesia di Gregorio di Nazian-zo, Herder Editrice, Roma 2009, pp. 165-166.170]

a cura di Anna Asimi

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Rientrato a Parigi nel 1871 dopo cinque anni di mare come cadetto della marina, Paul Gauguin si impiegò presso un agente di cambio e cominciò la sua attività di “pittore della domenica”. Qualche anno dopo espo-neva con gli impressionisti e, seguendo la sua vocazione, abbandonava il suo impiego. Ma i problemi materiali e familiari comincia-rono ad aggravarsi e in lui crebbe il deside-rio di evadere. Visse a Tahiti e nelle Isole Marchesi e proprio durante uno dei viaggi di ritorno nella Polinesia francese egli si fer-mò ad Aukland, nel 1895, dove poté ammi-rare la statua di un Tiki neozelandese, un intaglio in pietra che rappresentava il guer-riero maori Pukaki seduto con le gambe in-crociate mentre reggeva tra le mani i suoi due figli abbracciati. Nel 1899 Gauguin di-pinge il “Grande Buddha”, nel quale la scul-tura in secondo piano pare proprio la ripresa dell’idolo neozelandese che qui, però, risulta come un assemblaggio di elementi diversi. In quel periodo era diffuso il motivo dell’Androgino e l’artista ne era affascinato. Il dipinto in questione si compone di più livel-li, su diversi piani: in basso a destra, una cagna allatta i suoi piccoli, subito dietro, in primo piano, due donne stanno sedute e alle loro spalle troneggia la grande statua. Anco-ra oltre, più a destra, due donne in piedi reggono sulla testa delle ceste contenenti del pane, mentre a sinistra della statua, su un piano ulteriore del dipinto, si intravede un’ultima cena. Un’apertura sul fondo, dall’altra parte, mostra la luna semi nascosta dalle nuvole. Si possono individuare nume-

rose interrelazioni tra i diversi piani del di-pinto, in particolare tra i riferimenti al miste-ro eucaristico e quelli relativi alla religione maori: la cagna che allatta e le donne in pri-mo piano rimanderebbero alle funzioni fem-minili del ciclo della vita, richiamate anche dalla luna sullo sfondo. Gauguin, rifiutando la dottrina della transustanziazione, inter-preta in chiave simbolica l’eucaristia: il pane “come se fosse” la carne e il vino “come se fosse” il sangue di Cristo alluderebbero alle qualità morali e spirituali di Cristo, che ven-gono irradiate a coloro i quali si comunica-no. Nel dipinto, che riunisce in un’unica scena l’Ultima Cena e il motivo dell’Andro-gino, vi si possono individuare due percorsi legati al simbolismo sacramentale. L’uno a un livello più primitivo e ancestrale, evoca il ciclo di nascita e morte attraverso gli animali e le donne, il tutto trasceso nella statua della divinità che è simbolo del raggiungimento dell’unità della coscienza. Il secondo percor-so ha inizio con l’immagine delle donne che portano il pane, nutrimento per il corpo, così come l’eucaristia, la cui istituzione è raffigu-rata più a sinistra, lo è per lo spirito. Dall’al-tra parte del dipinto, la luna che si alza in cielo è assimilata, per esempio, da Victor Hugo, che Gauguin amava molto, all’eleva-zione dell’ostia nel tempio. I culti etnici, evo-cati dal “Grande Buddha”, contribuiscono ad arricchire il pantheon della religione dell’Umanità, riconoscendo il rituale dell’eu-caristia quale sacrificio universale che è do-no dell’uomo all’uomo e simbolo dell’unità della creazione in Dio.

* Olio su tela, cm. 134 x 95, Mosca, Museo Puškin

In quarta di copertina

Paul Gauguin (Parigi 1848 – Isole Marchesi 1903) “Il grande Buddha” (1899) *

di Grazia Ricciardi

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