TEMPO PRESENTE 392-393 ago-set 2013

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N. 392-393 agosto-settembre 2013 euro 7,50 TEMPO PRESENTE g. cantarano a. cantelmi a. casu c.g. de michelis s. nasti g. pecora a.g. sabatini a. scarpellini c. vallauri LE ANIME DEI PARTITI * ANTIFEMMINISMO * TELEMORFOSI * DEMOCRAZIA DI MASSA * PARLA IL CAPO DELLO STATO * LETTURE Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2 legge 23 dicembre 1996, numero 662, Filiale di ROMA

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Rivista di cultura diretta da Angelo G. Sabatini

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N. 392-393 agosto-settembre 2013 euro 7,50

TEMPO PRESENTE

g. cantarano a. cantelmi a. casu c.g. de michelis s. nasti g. pecora a.g. sabatini a. scarpellini c. vallauri

LE ANIME DEI PARTITI*

ANTIFEMMINISMO*

TELEMORFOSI*

DEMOCRAZIA DI MASSA*

PARLA IL CAPO DELLO STATO*

LETTURE

Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2 legge 23 dicembre 1996, numero 662, Filiale di ROMA

CONSIGLIO DEI GARANTIhans ALBERT - Alain BESANçON - Enzo BETTIzA

Karl Dietrich BRAChER - Natalino IRTI - Bryan MAGEEPedrag MATVEjEVIC - Giovanni SARTORI

REDAzIONECoordinamento: Salvatore NASTI

Angelo ANGELONI - Paola BENIGNI - Matteo MONACO - Francesco RussoMarco SABATINI - Guido TRAVERSA - Andrea TORNESE - Sergio VENDITTI

GRAFICAAdriano MERLO

PROPRIETà: Tempo presente s.r.l. - Casella postale 394 - 00187 RomaAutorizzazione del Tribunale di Roma n. 17891 del 27 novembre 1979La collaborazione alla Rivista, in qualunque forma, è a titolo gratuito.

Direzione, redazione e amministrazione: Via A. Caroncini, 19 - 00197 Roma tel/fax 06/8078113

Stampa: Pittini Digital PrintViale Ippocrate, 65 - 00161 Roma (RM)

Prezzo dei fascicoli: Italia € 5,00; doppio € 7,50 - Estero € 6,50; doppio € 10,00Arretrati dell’anno precedente: il doppio

Abbonamento annuo: Italia € 25,00 - Estero € 44,00Abbonamento sostenitore € 100,00

L’abbonamento non disdetto entro il 30 novembre dell’anno a cui si riferisce si intende tacitamente rinnovato.

Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2, legge 23 dcembre 1996, n.662, Filiale di Roma

Chiuso in redazione il 31 ottobre 2013

DIRETTORE RESPONSABILEAngelo G. SABATINI

COMITATO EDITORIALEAlberto AGhEMO - Angelo AIRAGhI - Giuseppe CANTARANO

Antonio CASu - Girolamo COTRONEO - Teresa EMANuELEAlessandro FERRARA - Corrado OCONE - Gaetano PECORA

Luciano PELLICANI - Angelo G. SABATINI - Attilio SCARPELLINI

TEMPO PRESENTE

Rivista mensile di culturaN. 392-393 agosto - settembre 2013

PRIMA PAGINA

Giuseppe CaNtaRaNo, Le diverse anime dei partiti, p . 3

OSSERVATORIOCesare G. De Michelis, antifemminismo futurista tra italia e Russia, p. 6

attiLio sCaRpeLLiNi, telemorfosi. un romanzo italiano, p. 13

GaetaNo peCoRa, alle origini della democrazia di massa, p. 25

UOMINI E IDEE

Parla il CaPo dello Stato, Di tito LuCRezio Rizzo, p. 30

aNGeLo G. sabatiNi, il presidente saragat, p. 31

aNtoNio Casu, Francesco Cossiga. il tormento e l’estasi della passione politica, p. 33

LETTUREaNtoNio Casu - Nino mi chiamo. Fantabiografia del

piccolo antonio Gramsci, di Luca paulesu, p. 39auGusto CaNteLMi - Un economista eclettico, a cura di alberto Quadrio

Curzio e Claudia Rotondi, p. 40CaRLo VaLLauRi, Nella terra estrema. reportage sulla Calabria,

di Giovanni Russo, p. 41saLVatoRe Nasti - Ventotene. Un’isola di confino, di Filomena Gargiulo, p. 42CaRLo VaLLauRi - Politics e il nuovo socialismo, a cura di alberto Castelli, p. 45

saLVatoRe Nasti - Per l’italia, di Carmelo Lentino e Roberto Messina, p. 46

Che l’europa sia ormai il nostrodestino politico, non c’è più nessuno chelo mette in dubbio. tranne i soliti eincalliti demagoghi. Che per raccattareun pugno di voti, non esitano a lisciare ilpelo del populismo. auspicando fan-tasiose quanto improbabili fuori-uscite.perfino dalla moneta unica. L’euro-peizzazione dell’italia - diciamo purecosì - deve considerarsi, invece, unprocesso irreversibile. e deve riguardarecerto i mercati e la finanza. Ma anche leistituzioni, evidentemente. e la macchi-na burocratico-amministrativa. Nonché idiritti. individuali e collettivi.e i partiti? Non fanno altro – chi più

chi meno – che inneggiare all’europa.anche con toni talvolta un po’ troppoesageratamente retorici. e tuttavia, laloro vita interna, i loro comportamentirestano contrassegnati da quella peg-giore italianità – colta lucidamente daLeopardi - che ha reso la nostra demo-crazia una vera e propria anomalia. altroche paese normale di cui parlava,qualche anno fa, Massimo D’alema.prendiamo il caso del pdl. Nelle ultimeelezioni ha perso ben sei milioni di voti.Ripeto: sei milioni di voti. tracollandodal trentasette al ventuno per cento.ebbene, in qualsiasi altro paese europeonormale il leader e il gruppo dirigente diquel partito non avrebbero esitato unminuto di più a dimettersi. e a spariredalla scena politica. in italia - nell’europea italia - invece

leader e gruppo dirigente non solorestano saldamente al timone di quelpartito. Ma governano il paese. Graziead un pd – che di voti ne ha persi solotre milioni e mezzo rispetto al 2008 -smarrito e senza uno straccio di lineapolitica. Che dopo lo streaming patetico dibersani con i rappresentanti del M5s, siè rivolto al Cavaliere. Con cui aveva del

resto governato. sostenendo il governoMonti. e contro cui aveva ingaggiatouna campagna elettorale finalmentenetta. e a tratti aspra. all’insegnadell’alternativa perentoria al berlusco-nismo. il pd di bersani ha ottenuto unquarto di voti in meno rispetto aVeltroni. e addirittura ha perso ben tremilioni rispetto ai voti fatti registrare daocchetto nel 1994.Diciamoci la verità. Nessun tipo di

“emergenza” può giustificare – e legit-timare – un’alleanza di governo simile.Cosiddetta di “larghe intese”. sarebbeinimmaginabile in europa. La GrosseKoalition tedesca? suvvia. La CDu –tanto per dire – non ha mai avuto unberlusconi tedesco come suo leader.allearsi con il diavolo, purché si metta insalvo il paese. Certo. Ma questo iperrealismo non mostra, per ora, attitudinisalvifiche. anzi. perfino il “compro-messo storico” è stato subdolamenteriesumato. per far digerire l’indigeribile.Ma allora si trattava di giganti. Viricordate di Moro e berlinguer? orainvece di nani, avrebbe detto qualcuno.e di qualche ballerina come suadentecontorno. un partito – il pd – che avrebbe dovu-

to, senza fare nulla, stravincere leelezioni e “non le ha vinte”, come si èdetto. un partito – il pd – che non èstato in grado di trovare uno straccio diaccordo parlamentare per eleggere ilpresidente della Repubblica. esponen-dosi al ridicolo. un partito – il pd – chedagli otto punti del “governo dicambiamento” proposti da bersani dopole elezioni, sommessamente china - conun pizzico di vergogna - la testa a ber-lusconi. Disponibilissimo a costituire ilgoverno con gli odiati “comunisti”. apatto che gettino alle ortiche quegli ottopunti. Detto fatto. Ricevuto ed eseguito.

PriMa PaGiNa

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Giuseppe CantaranoLe diverse anime dei partiti

Ma per fare insieme cosa? Quei pochiprovvedimenti varati sinora – tranne for-se quello sui beni culturali – difficil-mente possono giustificare un “compro-messo” tra programmi e visioni dellasocietà culturalmente e politicamenteinconciliabili. La verità è che il pd non è mai nato.

Come ripete spesso – e inascoltato –Massimo Cacciari. altro che errori dicomunicazione. o campagne elettoralinon azzeccate. e illudersi che il pros-simo congresso e l’individuazione di unleader – come il sindaco di FirenzeRenzi, ad esempio – possano magica-mente ricompattare il diviso gruppodirigente. e conferire finalmente unachiara identità politica al partito. beh,tutto questo non farebbe altro cheprotarne inesorabilmente l’agonia.Le due anime che convivono – for-

zatamente - nel pd non sono, politica-mente e culturalmente, compatibili.possono certo collaborare e sancirealleanze di governo. Ma non possonocoabitare nello stesso partito. e nonservono, certo, ulteriori controprove perdimostrarlo. prendiamo il “manifesto”di Fabrizio barca. Lucidamente protesoverso la costruzione di un grande partitosocialdemocratico europeo. struttural-mente e solidamente organizzato. e cheha nel mondo del lavoro e nel sindacatoil suo blocco sociale privilegiato diriferimento. Con la prospettiva diricomporre il frantumato e dispersoarcipelago dei post o ex comunisti. apartire da sel. ebbene, come si conciliaquesto disegno politico con il progettodi Renzi?si è mai visto, in europa, un partito che

si proclama di sinistra, ospitare al suointerno due culture politiche antitetiche?Quella socialdemocratica di barca – e diD’alema, di bersani, del candidato allasegreteria Cuperlo – e quella liberista ecattolico-popolare di Renzi? Che strizzal’occhio al popolo del Web e alla “societàliquida” teorizzata da bauman? e cheintercetterebbe consensi, diciamo così,moderati?

si è mai vista, in europa, una sinistrache si affida, per ben due volte, al“governo del presidente”? e che accettisupinamente la sua “agenda di governo”dettata ad un parlamento plaudente eobbediente? si è mai vista, in europa,una sinistra che invece di occuparsi -seriamente e responsabilmente - dellacrisi che attanaglia il paese, della fratturache si è scavata tra mercato e democraziae di quella tra democrazia e rappre-sentanza, chiacchiera vanamente sulleprimarie? invece di interrogarsi sulla crescita

delle disuguaglianze - qui nel nostropaese e nel resto dell’occidente - il pd èpreoccupato delle modalità delle prima-rie. Come dovranno svolgersi? potràvotare al secondo turno chi non havotato al primo, non presentando unaragionevole giustificazione? potràcandidarsi alla presidenza del Consigliochi non ha partecipato alle primarie perla segreteria? Concretissimi, realissimiinterrogativi. Come concretissimi erealissimi sono quelli riguardanti lariformulazione dell’imu. o se si debbaaumentare o diminuire l’iva. Mentre leimprese continuano inesorabilmente achiudere. i disoccupati crescono. e igiovani rinunciano a studiare. e a cercareaddirittura lavoro. Concretissimi,realissimi interrogativi. Mentre il paesevolge drammaticamente al declino.Verso il naufragio. un naufragio – perparafrasare Hans blumenberg – che nonavrà spettatori. Che non avrà,certamente, il pd, come spettatore.Condannato a naufragare nel pelago chenon riesce a “dominare”.Come potrebbe culturalmente

dominarlo se – solo per fare qualcheesempio – la metà dei suoi elettori ha piùdi cinquantacinque anni? e più di unterzo oltre sessantacinque? Certo, laquestione generazionale non spiegatutto. tantomeno l’ultima sconfittaelettorale. Ma ci dice una cosa. Forse. ecioè, che il pd è un partito vecchio. se loconfrontiamo con il movimento dibeppe Grillo. il sessanta per cento degli

Giuseppe Cantarano

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elettori del M5s ha meno di quaran-tacinque anni. Ma ancor più sorprendente è un altro

dato. secondo una ricerca Demos, nel2008 soltanto il trentuno per cento deigiovani tra i diciotto e i ventinove anniha votato per il pd di Veltroni. Mentreben il quarantanove per cento ha sceltoberlusconi. ancor più clamoroso è ildato degli studenti. il quarantadue percento dei quali votò berlusconi. Mentresolo il trentasette per cento optò per lasinistra. un fenomeno in evidente eclamorosa controtendenza, rispetto aquanto avviene nel resto dell’europa. se il trend – come si dice – continuerà

ad essere questo, non è difficileprevedere che il peso del pd, nella poli-tica e nella società italiana, tenderà adessere sempre di più irrilevante. pre-cludendo alla sinistra ogni chance dicandidarsi al governo di questo paese.senza il supporto consociativo della

destra, evidentemente. basti pensare chedopo le dimissioni di bersani, il timone– si fa per dire – del partito è statoaffidato ad epifani. il quale è statosegretario di un sindacato – la Cgil – checonta cinque milioni e mezzo di iscritti.oltre tre milioni dei quali, però, sonopensionati. e - badate bene - non è undato trascurabile. Resta davvero difficileimmaginare che un partito di pensionatipossa ragionevolmente candidarsi algoverno del paese. Certo, serve ilricambio generazionale della leadership.al di là dell’impronta politico-culturaleche il futuro pd assumerà. Cattolico-liberal-democratica, alla Renzi, oppuresocialdemocratica alla barca – o alla Cu-perlo. Ma oltre al ricambio generazionaledella leadership è necessario il ricambiodella base elettorale. perché senza ilconsenso, senza i voti, non c’è futuro perquel che diventerà il pd. e non c’è futuroper la sinistra, soprattutto.

le diverse anime dei partiti

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L ’ e C o D e L L a s ta M paCon l’esperienza maturata in 90 anni di attività, legge e ritaglia articoli e notizie – su qualsiasinome o argomento di Vostro interesse – pubblicati da circa 100 quotidiani (e 100 loro edizionilocali), 600 settimanali, 30 quindicinali, 1200 bimestri e 1000 altre testate periodiche.

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La questione dell’atteggiamento neiconfronti della donna ha goduto di unanotevole fortuna nell’ambito degli studisul futurismo, sia a livello descrittivo-documentario che a livello critico, piùrecentemente grazie a silvia Contarini ilcui contributo, la femme futuriste. Mythes,modèles et représentations de la femme dans lathéorie et la littérature futuristes1, attesta, «iltragitto ondivago che va dalla ripulsa delfemminile al ritorno all’ordine e allarivalorizzazione della donna» (Lucasomigli). può essere non inutile mettere a

raffronto la misoginía futurista con lasua ricezione in Russia, nell’intento dipervenire -come nel riflesso d’unospecchio deformante- a una esegesi piùarticolata del prototipo italiano, stante ilfatto che su pochi argomenti ilmovimento marinettiano ha avutoposizioni contraddittorie quanto sultema dei ruoli di genere. all’origine dell’antifemminismo futu-

rista ci sono, ovviamente, le dichia-razioni del Primo manifesto di Marinetti(1909): al punto 9,«Noi vogliamo glorificare […] il

disprezzo della donna», e al punto 10:«Noi vogliamo […] combattere contro

il moralismo, il femminismo e controogni viltà opportunistica o utilitaria».in seguito Marinetti ha tematizzato più

volte l’assunto: cito per tutte laformulazione che ne offrì a Lucini inuna famosa lettera che questi pubblicònell’articolo Come ho sorpassato il futurismoe che fu subito nota in Russia grazie aLunačarskij2: «tu puoi stimare molto ledonne, e io coricarmici sopra come sudei materassi».più che favorevole al ‘libero amore’

(vagheggiato nel Manifesto del partitofuturista, 1918), è difficile non definire‘maschilista’ un atteggiamento del genere;il quale si espresse con le Mépris de lafemme4 fino al libello Come si seducono ledonne (Firenze, 1917) e al romanzol’alcova d’acciaio (Milano 1921).Ma siccome nei decenni successivi

Marinetti diverrà marito premuroso dibenedetta Cappa e padre affettuoso (ditre figlie femmine!), la letteraturaapologetica ha intrapreso l’arduocompito di spiegare che in fondo stavascherzando, e che anzi con le sue tiratesulla donna egli intendeva perseguire la‘liberazione’ della medesima dalleconsuetudini sociali che ne avevanolimitato sin lí l’emancipazione. CosìGiordano bruno Guerri, nel suo Filippotommaso Marinetti. invenzioni, avven-ture epassioni di un rivoluzionario5, scrive adesempio (p. 86):«La polemica marinettiana non

coinvolge la donna in quanto tale, mauna precisa immagine stereotipata efatale che pullulava nella società e nellaletteratura rosa»; anzi (p. 87):«l’antifemminismo futurista era una

provocazione artistica, l’ennesimasfaccettatura dell’opposizione globale alpassatismo […]. Marinetti, in linea con ipresupposti radicali e libertari della suarivoluzione, affronta tra i primi in italia iltema dell’emancipazione femminile».a riprova del fatto che nel futurismo

c’era spazio (eccome!) anche per ledonne, vengono di solito allegate le nu-merose e talora eccellenti artiste che sisono realizzate nell’ambito delmovimento futurista, sia in italia che inRussia. a cominciare (in italia) dalla mo-glie di Marinetti, benedetta, per prose-

oSSerVatorio

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Cesare G. de Michelisantifemminismo futurista

tra italia e Russia

guire con molte artiste russe (Gon-čarova, Guro, Večorka, Rozanova), edanche con alcune ‘russe’ personalmentelegate a qualche futurista italiano (pensoad esempio a aleksandra ekster, che aparigi s’incontrò con ardengo soffici),ovvero che vissero stabilmente in italia,come eva Kühn amendola che fu perqualche tempo futurista col nomemarinettiano di “Magamal” (su di essa-col nome di ‘adela Kun’- Mira otasevićha scritto anche un romanzo epistolare). all’‘altra metà del cielo’ futurista sono

state dedicate nell’anno centenarioampie ricognizioni, da Giancarlo Carpi(Futuriste, Roma 2009), da ValentinaMosco (donna e futurismo, fra virilismo eriscatto, Firenze 2009) e dalla stessaassieme a sandro Rogari (le amazzoni delFuturismo, Firenze 2009).La rilevante presenza di protagoniste

nella storia del futurismo ha spesso fattoda sostituto fattuale alla discussionesull’anti-femminismo, ovvero è servitada dimostrazione ellittica del fatto che ilmovimento in quanto tale fossetutt’altro che misogino. Ma proprio ilnodo ‘teorico’ dell’atteggiamento futu-rista nei confronti della donna, inparticolare considerato nella sua evo-luzione diacronica, è quello che èrimasto un po’ in ombra.il quadro offerto dalle proposizioni del

Manifesto va intanto completato con lavoce di una delle protagoniste, annaJeanne Valentine Marianne Desglans deCessiat-Vercell (1875-1953), la pronipotedi Lamartine nota come “Valentine desaint point” che, col Manifesto della donnafuturista (1912) e il successivo Manifestofuturista della lussuria (1913) propose una‘superfemmina’ di stampo virile che sirealizza nella soddisfazione dei sensi(terza variante del modello descrittodalla Contarini: “la maîtresse stupide etsensuelle, la compagne héroïque attendant sonhomme à la maison, la femme virile qui se doitd’être l’égale de l’homme, la femme réceptacle etsource de tous dangers”). scriveva la saint-point:«La lussuria è una forza […]. La donna,

che colle sue lagrime e il suo

sentimentalismo ritiene l’uomo ai suoipiedi, è inferiore alla prostituta chespinge il suo maschio a conservare pervanagloria col revolver in pugno la suaspavalda dominazione sui bassifondidella città».il suo discorso c’entra qui non solo e

non tanto perché fu per un certo tempol’amante di Marinetti e nemmenoperché, accanto ad apollinaire, fu unodei rari casi di ‘futurismo francese’;quanto perché la ricezione delle sue tesiha innescato una curiosa serie diequivoci che hanno lasciato il segno - siain Russia che, di riflesso, in italia -sull’idea futurista della donna.i manifesti di Valentine de saint-point

vennero tradotti in russo nelle antologiedi Genrich tasteven7, Michail engel’-gardt8 e Vadim Šeršenevič9: nel suosaggio de Marinetti à Maiakovski(Fribourg 1942) Graziella Lehrmann siavvalse della versione del primo,attribuendo a lui le reboantidichiarazioni della saint-point:«un adepte enthousiaste de Marinetti […],

écrivait […] ces mots fidèles aux doctrines dumaître: “la dépravation est une force…”» etc., dando inizio a una serie di distorsioni,

innescate da alfredo Galletti che ne ilNovecento (1951) riprendeva la stessafrase attribuita a tasteven dallatraduzione francese di Grjaduščij Cham(l’avénement du Cham, 1922) di Dm.Merežkovskij; cosí, da Curzia Ferrari(Poesia futurista e marxismo10) a benjaminGoriély (le avanguardie letterarie ineuropa11) si è diffusa l’idea di un’animaslava più ‘peccaminosa’ di quellaoccidentale, riservando a quest’ultima leosservazioni futuriste originarie. Ma,seguendo pedissequamente laLehrmann, perfino Marinetti (nellememorie di Una sensibilità italiana nata inegitto [1944]12) attribuí al suo anfitrionee traduttore le parole dell’amica pariginad’un tempo:«tasteven […] è il mio più misterioso

invitante e impresario […] e scrive unarticolo parlando di me “la depravazionefuturista è una forza…”» etc.tasteven non aveva mai discettato di

antifemminismo futurista tra italia e russia

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‘depravazione’ né di intrecci da bordello;e dieci anni dopo Ja. el’sberg - noto an-cora come Šapirštejn-Lers13 - cadde in-vece nell’equivoco opposto, di attribuirequelle parole allo stesso Marinetti:«L’intensa attività vitale [dell’impe-

rialista] richiede il massimo di distra-zione, e lui non cerca di nascondere ilsuo harem: “la lussuria – scrive Marinetti– concepita fuor di ogni concetto moralee come elemento essenziale deldinamismo della vita, è una forza“».Durante la famosa tournée in Russia

(febbraio 1914), Marinetti condensò iltema ‘della donna’ in formule cherisuonarono più volte tra interviste e

dichiarazioni ai giornali. ad esempio,intervistato dal “Rannee utro” (Mosca,28. i. 1914) dichiarò:«Noi rifiutiamo la donna moderna, col

suo amore piccante e rammollito. Ladonna d’oggi ama gli accessori dell’amore - il lusso e la mollezza - più dell’amore in sé. ecco perché noi riteniamodeleteria l’influenza d’una donna delgenere. in nome della lotta creatrice, innome dell’eroismo e del coraggio, noifuturisti abbiamo un atteggiamentonegativo nei confronti della donna»;e in un’altra intervista, alle “birževye

vedomosti” (pietroburgo, 1. ii. 1914),specificò:«abbasso le donne! abbasso

l'anacronistico ‘cherchez la femme!’ La

donna d'oggi ama solo il lusso, gliaccessori dell’amore, non l'amore in sé».Certo, non gli dispiacque la

disponibilità delle signore russe cheincontrò durante il suo soggiorno, etrent’anni dopo ricorda14:«-o festoso seducentissimo mio

passato di gloria letteraria artistica a pie-troburgo e a Mosca aiuto aiuto soc-corrimi risorgendo e ricostruendoti nellatua palpitante vita con le febbrili smaniedi tante braccia femminili ed erano tuttebelle quelle donne accese di languore evoluttà al sentire il mio genio irruenteimporre una formidabile invincibileitalianità».

Commentando a Mosca il compor-tamento delle donne russe, aveva anchedichiarato al quotidiano “Nov’” (Mosca,12. ii. 1914):«Le nostre donne, a Roma, sono assai più

modeste della donna russa, più sottomesseai pregiudizi. Da voi, russi, l’emancipazionedella donna procede in modo senzaconfronto più veloce che in italia».Gentili parole di circostanza, o eco -sia

pur vago- delle prospettive prefiguratealla ‘questione femminile’ in Russia?Certo è che la polemica marinettiana siesprimeva lí nel contesto di unatradizione culturale che da un buonmezzo secolo (sia pure limitatamenteagli ambienti urbani e progressisti) avevaelaborato una visione della donna

Cesare G. de Michelis

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assolutamente sovversiva. si pensi a Čtodelat’ (1863) di N. Černyševskij, la cuieroina, Vera pavlovna, «piacerebbe assaipoco a noi meridionali che abbiamosempre amato nella donna la soavità»,come scrisse G. b. arnaudo nel suosaggio sul Nichilismo (torino 1879), unodei primi in europa dedicati almovimento radicale russo. e si tengaconto che, nello stesso 1909 in cuiappariva il manifesto futurista, apparveanche uno dei testi fondanti delfemminismo nel XX secolo, il volumeSocial’nye osnovy ženskogo voprosa dialeksandra Kollontaj. a ciò si potrebbeaggiungere la forma assunta dall’auto-affermazione di alcune scrittrici russeche inclinavano verso un ‘proto-femminismo’ maschileggiante, assu-mendo pseudonimi e pose maschili: giàNadežda Chvoščinskaja aveva pubbli-cato con lo pseudonimo di “V.Krestovskij” un romanzo sull’eman-cipazione femminile, Bol’šaja Medvedica(1865-8); e zinaida Gippius, all’inizio delXX secolo, firmava i suoi articolipubblicistici come “anton Krajnyj”,mostrandosi - dice Daniela Di sorapresentando in traduzione italiana unodei suoi racconti più famosi, l’eternofemminino15 - «alfiere di una nuovasessualità, in cui i confini fra maschile efemminile si confondono».per tornare al futurismo, va intanto

fermata l’attenzione sul fatto che nelleformulazioni del primo manifestol’antifemminismo marinettiano sisdoppia nel “disprezzo della donna” daun lato, e nell’avversione al “femmi-nismo” dall’altro. e non è la stessa cosa.il primo -il più ovvio- è anche il più

facile da riportare ai canoni della belleépoque. scriveva “panda”, presentando ilManifesto ai russi (“Večer”, 8. iii. 1909): «Ma chi, sui 15-17 anni, non ha

disprezzato le donne e non s’è vantatodella forza del proprio pugno?»;e M. osorgin, riferendo della serata al

Lirico di Milano (ljudi buduščego, in“Russkie vedomosti”, 12. ii. 1910),chiosava:«tutt’altra accoglienza attende la sua

propaganda del disprezzo della donna. -Viva le donne!, replica sdegnato tutto ilteatro, e i fischi delle locomotivediventano fischi e basta. L’oratore ècostretto pertanto a spiegare che “ifuturisti non temono i fischi, temonosoltanto i facili segni d’approvazione”.stavolta la prodezza futurista suscita inugual misura fischi e applausi calorosi.tuttavia il disprezzo della donna,proclamato dal fondatore del futurismoitaliano, gli si rivolta letteralmente sullatesta, già priva di capigliatura. Leallusioni esplicite, ad alta voce, nonfiniscono più…»16,il poeta Valerij briusov (che era stato

ospite di “poesia”, 7-9, 1909), nel 1914vi vedeva anzi un punto di sostanzialedifferenza tra il futurismo in italia e inRussia:«in una cosa però si sono distinti

nettamente dagli italiani, i nostri futuristirussi: nella loro idea dell’amore e delladonna. Com’è noto, la scuola diMarinetti va predicando il ‘boicottaggio’della donna. i poeti russi si sono rivelatitroppo romantici per farlo. Nei loroversi l’amore è restato, anche se cercanodi conferirgli in ogni modo unasfumatura da cocottes. alcuni riconosconoperfino d’avere istinti tutt’altro chefuturisti, quando [come scriveŠeršenevič] “le sussurrerò Mia cara”»17.Cosí il prezrenie k ženščine (‘disprezzo

della donna’ o mépris de la femme) entrasenza sforzo nel dibattito russo suMarinetti e il futurismo. Diverso è il casodel ‘femminismo’ che, sull’onda lungadelle idee di Hubertine auclair (1882),ibridate col ‘suffragismo’ di emmmelinepankhurst (1903), malgrado i precedentirussi sopra ricordati, restò indigesto.all’epoca, il neologismo (feminizm) era direcente importazione in Russia, non erastato ancora metabolizzato. engel’gardtlo omette nella sua traduzione delManifesto, mentre nel suo articoloGalopom, vperëd! (in “Vestnik znanija”, V,1914) Romual’da baudouin de Cour-tenay lo rende con “feticismo” («protivfetišizma»). in seguito, la nozione stessadel femminismo sarà avversata in uRss

antifemminismo futurista tra italia e russia

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per motivi ideologici (“Movimentoborghese per la parità nei diritti delledonne con gli uomini, nel quadro dellostato borghese”), riscuotendo l’ironicodisprezzo di Maksim Gor’kij (in Žizn’Klima Samgina, 1925-35):«il femminismo, il suffragismo, caro

mio, sono trovate dei poveri di spirito».

‘Femminismo’ e ‘suffragette’ nonstavano tanto bene neanche a Marinetti,che se ne era potuto fare un’ideaall’epoca del viaggio a Londra (1910),quando le sue incerte parole disolidarietà non vennero affattoapprezzate dal pubblico femminile, forseper la nota d’ironia che vi risonava. se inContro l’amore e il parlamentarismo (1915)difendeva sí «il diritto delle suffragette»ma nel contempo compiangeva «il loroentusiasmo infantile pel misero eridicolo diritto al voto», a posteriori,nelle memorie stese nel 1944 (Suffragette eindian docks, in Una sensibilità italiana natain egitto), ironizzava apertamente su «lesuffragette armate di palle di piombo».il femminismo, del resto, fu avversato

subito dalla ‘brutale donna futurista’,Valentine de saint-point, che nelManifesto della donna futurista (1912)dichiarò esplicitamente:«Ma niente Femminismo. il

Femminismo è un errore politico. ilFemminismo è un errore cerebrale delladonna, un errore che il suo istintoriconoscerà. Non bisogna dare alladonna nessuno dei diritti reclamati dallefemministe. accordarglieli nonporterebbe a nessuno dei disordiniauspicati dai Futuristi».Che cosa ha importato l’antifem-

minismo futurista italo-francese nellasua ricezione da parte dei futuristi russi?il tema – essenzialmente nella variantedel ‘disprezzo della donna’ – ha riscossoeffettivamente poco successo, e nondico solo in poeti come severjanin oŠeršenevič (o pasternak, o aseev), maanche in Majakovskij, «il cui gigantismocostitutivo si esplica nei temi d’amore.passioni grandi, non passioncelle daputtaniere e pennacchino» (a. M.

Ripellino18): altro che il “materasso” dicui menava vanto Marinetti! Qualcheaccenno alla ‘questione femminile’ – nelsenso della emancipazione – è rin-tracciabile in Velimir Chlebnikov(osvoboždennaja ženščina. Černyj Jar ), masolo con riferimento ai suoi interessi‘orientali’, persiani («in generale - scri-veva Chlebnikov - i popoli dell’orientesono popoli del dominio dell’uomo sulladonna»), senza alcuna relazione con iltema futurista. il quale invece compare atutto tondo in aleksej Kručenych, ma informa tale che probabilmente nonavrebbe trovato conforto nei suoicolleghi italiani. La lingua, solo la lingua(voskresenie slova): tutto si concentra lí, peril fondatore e teorico della zaum’(linguaggio “de l’autre côté de l’intelligence”,come propose di rendere il’ja zdanevičin una lettera ad ardengo soffici del196220). in un libretto di ‘autoscrittura’,Vzorval’ (1913), tra parolacce russe edespressioni in false lingue straniere,compare la seguente dichiarazione:«per brutale disprezzo della donna e dei

bambini21, nella nostra lingua ci sarà soloil genere maschile» specificando conmotivazioni pseudo-ideologiche inrevoljucija i jazyk (rivoluzione e lingua,1922):«la riduzione delle parole al genere

maschile conferisce alla lingua virilità,concisione e asprezza sonora, cosa checorrisponde pienamente allo spirito dellinguaggio rivoluzionario».Dalle parole ai fatti: in Pobeda nad

solncem (1913): «a quanto pare, l’unicaopera al mondo in cui non vi sia nessunruolo femminile», scrive M. boehmignella Postfazione alla traduzione ita-liana22), il ‘viaggiatore in tutti i secoli’canta una canzone da cui il femminile eil neutro scompaiono:

ozer spitMnogo pyliPotop… Smotrivsë stalo mužskimozer tverže železane ver´ staroj mere.

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Come gli scrisse pasternak, «se si portaall’incandescenza più fanatica l’asser-zione del contenuto della forma, bisognadire che tu sei il più contenutista di tutti»(Vzamen predislovija23). Ma, nella Russiasovietica, gli anni Venti non sono anni incui si apprezzi la difesa delle veduterivoluzionarie con la lingua ‘trasmentale’(zaumnyj: “ultra-intellettiva”, perseguire zdane-vič), priva difemminile eneu-tro; e l’ulti-ma difesa dellamisoginia mari-nettiana spettaal ‘trockista’ Ni-kolaj Gorlov(Futurizm i revo-ljucija. Poezijafuturistov, Mo-skva 1924), cheripercorre ovviluoghi comunideclinati secon-do il marxismopiù vieto che an-ticipano le mo-derne forme a-p o l o g e t i c h e ,confondendoinoltre il “fem-minismo” con la“femminilità”:«L’antifemmi-

nismo di Mari-netti ha la stessaorigine [dell’estetica della guerra]. perstrano che possa parere, il suo punto dipartenza è una tendenza rivolu-zionaria[…]. per Marinetti il principio ‘fem-minile’ è un principio d’inerzia. per lui ladonna è l’anello di congiunzione tra icimiteri del passato (i musei) e il tipo divita che si conforma a quelle anticaglie(opportunismo e utilitarismo). e bi-sogna riconoscere che, nelle forme divita organizzate dalla proprietà privata, èproprio cosí. La donna, estraniata dallavita sociale, chiusa nella scatoletta dellafamiglia, la donna che sta con tutto il suo

orizzonte nel guscio d’una chiocciola, èdivenuta il sostegno d’un costume re-trogrado e fatiscente, in odio a ogni rivo-luzionario. Marinetti non tollera un co-stume del genere e si scaglia contro ladonna come contro la sentinella che lodifende, senza capire che si tratta d’unasentinella asservita, che è stata messa

di guardia a[quella] formadi vita dal suoeterno e onni-potente padro-ne, la proprietàprivata»24. Non credo

che, se avessepotuto cono-scere queltesto, Marinet-ti ne sarebberimasto con-tento. Forsenel 1914, chis-sà; ma nel1923 Marinettiaveva sposatobenedetta inuna chiesacattolica25 eassieme all’an-ticlericalismostava svapo-rando anche lasua misoginiamilitante; e il1924 è l’annodel Congresso

futurista di Milano col quale il mari-nettismo imboccava la via della ‘mummi-ficazione’ entro l’ordine fascista26 cheesaltava sempre più decisamente la don-na ‘fattrice’, lasciando la virilità agliuomini.Non è che le cose siano poi andate me-

glio nella Russia sovietica: dalle posizionidel “libero amore” («al raggiungimentodei 18 anni di età, ogni ragazza non spo-sata è obbligata a registrarsi all’ufficiodell’amore libero presso il commis-sariato della sicurezza sociale»), che - alpari del primo manifesto cubofuturista -

antifemminismo futurista tra italia e russia

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Note1 paris 2006.2 “La Voce”, n. 15, 10. iV. 1913.3 a. Lunačarskij, Marinetti e lucini, trad. it. in C.G. De Michelis, l’avanguardia trasversale, Marsilio,Venezia 2009.4 Raccolto ne le futurisme, paris 1911.5 Mondolibri, Milano 2009.6 Magamal, beograd 1995; a. parmeggiani ne hatradotto alcune pagine nell’antologia [M.Mitrović ed.] Sul mare brillavano vasti silenzi -immagini di trieste nella letteratura serba, trieste2004.7 Futurizm. Na puti k novomu somvolizmu, 1914;alcuni brani in C. G. De Michelis, op.. cit...8 prefazione a Marinetti, Futuriuzm, s.-pb. 1914;alcuni brani in C. G. De Michelis, op.. cit..9 Manifesty ital’janskogo futurizma, M. 1914. 10 ed. Contra, Milano 1966.11 trad. it. Feltrinelli, Milano 1967.12 a cura di L. De Maria, Mondadori, Milano1969.13 obščestvennyj smysl russkogo literaturnogofuturizma, Moskva 1922; trad. parziale in C. G.De Michelis, op. cit.14 in originalità russa di masse distanze radiocuori[1944], Voland, Roma 1996.15 Roma 1993.16 trad. it. in C. G. De Michelis, op. cit.; lysina

significa ovviamente “glande”.17 trad. it. in C. G. De Michelis, op. cit.18 Majakovskij ride, Majakovskij piange, ne l’artedella fuga, Guida, Napoli 1987.19 in “Krasnyj voin”, 1921; ried. in “RusskajaMysl’”, n° 4118, 1996.20 iliazd, lettre à ardengo Soffici. 50 années defuturisme russe, in Carnet de l’iliazd club 2, paris1992.21 Come in altre lingue, in russo “bambino“(ditja) è neutro.22 Doria di Cassano Jonio, 1996.23 in a. Kručenych, Kalendar’, Moskva 1926,trad. it. in Quintessenza, Marsilio, Venezia 1990.24 trad. it. in C. G. De Michelis, op. cit.25 La madre di benedetta, amalia Cipollini, eradi famiglia valdese; incontrando zdanevič aparigi nel 1923, gli disse che “erano sposati solocivilmente” (iliazd, lettre à a. Soffici [1962], inCarnet de l’iliazd club, 2, paris 1992, p. 34).26 u. Carpi, Bolscevismo immaginista, Liguori,Napoli 1981.27 a. Kollontaj, Semja i komminističeskoegosudarstvo, Moskva 1918; trad. it. in W. Giusti,documenti intorno alla rivoluzione russa, ispi,Milano 1940, p. 105.28 in un articolo per “sovetskaja ženščina”, cit.in C. Carpinelli, donne e famiglia nella russiasovietica, F. angeli, Milano 1998, p. 65.

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identificavano in puškin e nella suatat’jana l’avversario da battere, si passònel giro di quindici anni a unarivalutazione della solida famiglia‘comunista’ con il suo bravo ruolo delladonna-lavoratrice.se nel 1918 aleksandra Kollontaj

scriveva che «al posto della precedentefamiglia, si svilupperà una nuova formadi rapporti tra l’uomo e la donna: l’unio-ne cameratesca e cordiale di due mem-bri della società comunistica, liberi e in-

dipendenti»27, al tempo di stalin le teoriea favore dell’ amore libero vennero deci-samente combattute, non c’era più nes-sun ‘futurismo’ che tenesse: nel 1948magnificava le conquiste femminilidell’uRss, che consentivano alle donne«di assolvere la loro naturale vocazione:essere madri, educatrici dei figli, padronedi casa». una posizione, commenta C.Carpinelli, che «certamente stonava contutto il suo pensiero politicoprecedente»28.

Nel mondo realmente rovesciato, il vero è unmomento del falso (Guy Debord)

Finalmente vivere servirà a qualcosa!Nel 2008 il regista Fabrizio arcuri

lavora all’allestimento uno spettacoloche si intitola one day e il cui sottotitolosuona, in modo piuttosto sintomatico,“finalmente vivere servirà a qualcosa”.L’idea di uno spettacolo destinato aricoprire un’intera giornata ha qualcosadi borgesiano, ricorda quella cartografiache nel testo dello scrittore argentinoL’artefice (1960) si sovrappone con taleprecisione ai contorni e all’estensionedel mondo reale dal metterlo dram-maticamente in discussione. e’ un’ideache farà strada anche a partire dalfallimento produttivo del progetto che,invece di affossarlo, ne rilancia il sensoin modo altrettanto leggendario,trasformandolo in un riferimentovirtuale che moltiplica il suo potere sulmondo: il libro , con la drammaturgiaelaborata da Magdalena barile sulla basedelle improvvisazioni degli attoridell’accademia degli artefatti, divienecosì la sua giusta fine o il suo giustoinizio. L’affresco epico-grottesco imma-ginato a suo tempo da arcuri eravisivamente ispirato a una gigantografiadell’artista cinese Wang Qingsong chesarebbe poi stata esposta al palazzo delleesposizioni di Roma per la mostra“Cina XXi secolo”. dormitory è un’im-magine gremita e concentrazionaria,rappresenta la Cina contemporaneacome un immenso dormitorio, unalveare di letti sovrapposti e comunicanti

dove decine di personaggi, ciascunonella sua cella, affrontano la propria vitain modo diverso, ma condividendo laristrettezza dello stesso spazio. e’ unametafora della globalizzazione calata inun mondo in cui tutti, come dice ilsociologo ulrich beck, “sono chiamati arispondere con soluzioni biografiche aproblemi sistemici”, l’impietoso still lifedi un paradosso noto comeindividualismo conformista. La casaimmaginata da arcuri come scenografiadi one day doveva aprirsi squadernandola sezione di un interno brulicante:stessa idea di una perdita di confini tra ilpubblico e il privato, ma mentre perl’artista cinese il collante tra le nude vitecrudelmente sovraesposte in dormitory èla bulimia dei consumi, la ridondanza deimarchi, un collettivismo delle merci chesostituisce (e prosegue nella gradazionedello sviluppo) quello del mitocomunista, per il regista romano era (esarà, dal momento che il suo spettacoloattende sempre di essere realizzato) ilcontinuo sdoppiamento tra la biografia ela rappresentazione, tra attore epersonaggio, all’interno di un mondoche, perduta la fragranza del reale, la suainnocenza esperienziale, si presenta giàpredisposto alla propria spetta-colarizzazione. per l’umanità di one day,insomma, lo spettacolo è una secondanatura che si innesta nella prima,facendo smottare la sua presuntaspontaneità dalle parti del reality show edi tutte le forme dell’iperrealtà televisiva.il sottotitolo, “finalmente vivere serviràa qualcosa”, in questo senso, non siapplica solo allo spettacolo in quantotale, nella sua conquista organica del

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attilio Scarpellini

telemorfosiun romanzo italiano

tempo di vita degli spettatori che perventiquattro ore si trasferiscono nellasua durata, ma alla materia stessa di unavita che, fuori dalla sua metafora teatrale,appare sempre più orientata alla propriareificazione in immagine. il regista deitre pezzi facili di Martin Crimp e delciclo epico di Mark Ravenhill sidisponeva così a utilizzare il palco-scenico come uno spazio di deco-struzione, e una possibilità di criticavivente, dei meccanismi di super-fetazione mediatica che innervano e po-tenziano la realtà del reale, tras-formandola in quella che Jean bau-drillard, nei suoi ultimi libri ha chiamato“Realtà integrale” o “telemorfosi”.intrattenimento e parodia di tutti gliintrattenimenti chiamata a praticare unaritorsione brechtiana dello spettacolaresul politico (che già di per sé denuncia lasua avvenuta mutazione in una trans-politica delle apparenze) one day dove-va essere l’exploit di quella critica dellarappresentazione attraverso la rap-presentazione che fa del teatro dell’accademia degli artefatti uno dei rariesempi di teatro politico ancora esistentinel nostro paese. Con il suo plot sviantedi bambini rapiti e terroristi ceceni,puntando non tanto alla cronaca comereferente, quanto alla cronaca comestandard di comunicazione, one dayvedeva lontano nell’orizzonte di unamediatizzazione della vita che giàsegnava culmini di irrealtà viciniall’implosione. Col suo sguardo wa-rholiano comprendeva, senza ovvia-mente poterlo contemplare, il set diavetrana dove le lacrime di sabrina e diMichele Misseri hanno offerto unadimostrazione quasi sublime di come ilvero possa trasformarsi in un momentodel falso; o la provvidenziale irruzione alMarassi del teppista serbo noto comeivan che, con i suoi bicipiti tatuati di datearcaiche, ha tenuto in ostaggio la plateatelevisiva, cancellando l’evento pro-grammato con l’evento inatteso che è ilvero, nascosto desiderio coltivato daogni audience. La famiglia tipo rap-

presentata sulla sua scena era pronta adaccogliere le vergini portate al Drago, ipadri e le madri che prostituiscono lefiglie con entusiasmo e senza alterare dimolto la propria morale piccoloborghese; tutto in qualche modo eraprevedibile per una polaroid scattata neltempo, anche la mutazione antro-pologica di una lingua che, ben oltrel’omologazione televisiva, unisce lavolgarità globish (“ti devo briffare”) aquella del gergo locale (“ne vedrai diogni”), dove la parola amò, declinata cono senza accento, è il collante unico ditutte le relazioni. il romanzo delle intercettazioni è il

nuovo feuilleton; da un punto di vistaartistico c’è solo da rimpiangere laripetitività e la sconfortante mancanza ditalento dei suoi protagonisti: ancheforzando oltre ogni limite i colori di unpersonaggio come Nicole Minetti non sipotrà mai ottenere una sola Coralie(l’eroina di Splendore e miseria delle cortigianedi balzac), studiando a fondo FabrizioCorona si arriva appena alle soglie diRastignac o di Julien sorel (e poi siricade nel baratro prosaico del nulla). iltramonto del personaggio, insomma,non è più un problema formale dellarappresentazione: è un dato della psi-cologia sociale, un frutto dell’incapacitàdi raccontarsi a se stessi nell’ambito diun’esistenza liquida, dove i compor-tamenti, come diceva Hannah arendt,prevalgono largamente sulle azioni. ipersonaggi di one day, infatti, sono ilrisultato della snervante diversione diun’identità solo supposta, volutamentemitica (la Madre, il padre, il Figlio), in unmultiverso di immaginari (cinema-tografici, musicali, mediatici) cheappartengono a tutti e a nessuno nelmondo in cui il destino individuale è lapiù illusoria e bruciante delle finzioni. isegreti che custodiscono sono fittizi,inconsistenti, o smaccatamente falsi.Nella loro casa di vetro il privato nonesiste, l’intera vita appare spostata sulterreno di una continua speri-mentazione: “tutta la nostra realtà è

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divenuta sperimentale. in assenza didestino, l’uomo moderno è consegnato auna sperimentazione senza limiti su sestesso.” si vive di interviste, di video-messaggi, di esibizioni e di pseudo-confessioni, mitizzando se stessi davantiagli altri. ancor prima dell’esplosioneplanetaria dei social network, si cambiaincessantemente di profilo.

La nipote di MubarakUna menzogna ripetuta tante volte diventa

verità (Goebbels)

Karima el Marhoug, alias RubyRubacuori, ovvero la nipote di Mubarak,potrebbe entrare nella casa scoperchiatadi one day, accanto alla misteriorsaDolly bell di cui non si capisce se sia unconiglio di pezza, una bambolagonfiabile o la prostituta protagonista diun film dell’epoca d’oro del cinema diemir Kusturica. Come la stessa ragazzamarocchina ha confidato in un’in-tervista alla bild, cambiare versione è lastoria della sua vita. probabilmente, in-vece, finirà con l’entrare nello spaziosperimentale di un vero reality: simonaVentura, la vestale dell’isola dei famosi,ha già dichiarato che la presenza al suoshow di Raffaella Fico, una delle pin-upcoinvolte nelle feste di arcore, è unacartina di tornasole politica. La suaeventuale esclusione nelle prime fasi delgioco, ha aggiunto sorniona, ci faràcapire “cosa veramente pensano gliitaliani di questa situazione. se l’italia èindignata o no.” Fino a qualche tempo fai pessimisti più radicali temevano che leelezioni si stessero trasformandonell’epifenomeno dei sondaggi, ma nonpotevano neanche lontanamenteimmaginare che ai vertici della nostraStimmungdemokratie, delegati a registrare iltasso reale di indignazione morale delpaese, i reality show si apprestassero asoppiantare gli istituti di statistica. Laconduttrice, del resto, ci tiene a rimetterea posto le gerarchie della telemorfosi:“Non sono io – dice – che convoco leragazze che sono state ad arcore. e’

arcore che chiama quelle che sonovenute all’isola.” (poi, scaltramente,aggiunge che ognuna con il suo corpo“fa quello che vuole”: ci mancherebbesolo che il corpo visivo e quello vissutovenissero confusi in una unica pseudo-categoria come quella che attualmentevede gli spacciatori di immagini e iprocacciatori di relazioni confondersisempre di più ai reclutatori di pro-stitute…). Guardate bene, avverte lacelebrante dei riti isolani, dove il sognonasce. Rispetto a un desideriodemocraticamente condiviso, il potereha solo il privilegio distintivo del passageà l’acte: può fare quello che tutti sognanoed è questo che in larga misura continuaa legittimare il suo continuo presentarsicome un sogno realizzato. “sono ilsogno di tutte le italiane”, come sembrasi annunciasse il premier silvioberlusconi al telefono con una delleragazze (nate, come ha spiegatoGiuliano Ferrara, davanti al televisore ecresciute nel culto della suo sorrisonuminoso). tra i commenti on-line alleimmagini caricate su Youtube dell’intervista di Nadia Macrì ad annozerospiccava quello, estatico, di un utente cheinvestiva il premier del potere tau-maturgico di incarnare i sogni proibiti ditutti i maschi italiani eterosessuali:“spero che se le sia ingroppate tutte”,giubilava l’anonimo, “perché lui è ilpresidente del Consiglio e se lo ha fattoè un po’ come se lo avessi anche fattoio”. L’apice della corruzione assoluta:iscrivere nel reale tutto quello cheapparteneva all’ordine del sogno. Forsenon ci si aspettava che la fantasiaprendesse il potere in un senso cosìletterale e che da quel momento ogniatto del potere sarebbe stato avvolto dauna patina fantastica. Giulian Ferrara,che con una certa intelligenza ha intuitoil pericolo di questa confusione, hadichiarato che la telefonata di berlusconiin questura è stata un errore ma che poici è stato costruito sopra “un romanzoper entrare nelle vite degli altri”: ilproblema è che da tempo la scena su cui

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questa vita (e questa alterità) può ren-dersi invisibile non esiste più, da tempoè stata trasformata in una proiezionedell’immaginario, in un bene eucaristicoche la collettività viene invitata aconsumare (un po’ come quell’immagi-ne, e poco importa che sia vera, in cui ilpremier sfila nudo davanti alle ragazze diarcore, in attesa di offrirsi a ciascuna diloro, nello spazio discreto del sacrificio),da tempo il privato è diventato la merceprincipale sul terreno della rappre-sentazione pubblica - e tutto ciò che èpubblico, di conseguenza, è stato sim-bolicamente distrutto. se il potere sicostruisce come icona – “icona pop”come proprio il direttore del Foglioaveva a suo tempo, non si sa quantoironicamente, definito il presidente delConsiglio – non ci si può lamentare, poi,se diverrà oggetto di una sfigurazione: ilvolto attonito e sanguinolento disegnatoda Massimo tartaglia con il suo follepassage à l’acte (che incarna anch’esso undesiderio collettivo) è solo l’altra facciadel volto cristallizzato in un eternosorriso; le foto domestiche che sullepagine di “una storia italiana” esibivanola felicità familiare come trionfale valoreaggiunto nella lotta per la competizionepolitica, nello smaccato tentativo diprivatizzare quest’ultima, già alludevanoalla foto segreta, probabilmenteimpossibile, di cui tutti sono stati poi allaspasmodica ricerca. No, non è lamagistratura a scrivere il romanzoitaliano scaturito dall’immaginazione diun potere osceno che non riesce più acontrollarne i flussi, a distinguere larealtà dalle finzioni con cui l’hacontinuamente investita. in Gottland,Marius szczygiel racconta i paradossi deltrattamento ideologico a cui i dirigentidei partiti comunisti dell’europa dell’estsottoponevano la realtà, persino quellageofisica: così, nel corso di un convegnoscientifico, un tal Kopecky, ministrodell’informazione nella Cecoslovacchiastaliniana, poteva affermare che l’elbrusera la vetta più alta d’europa,screditando l’opinione corrente che

attribuiva questo primato al Montebianco come “un anacronistico retaggiodel cosmopolitismo reazionario.” ilparlamento italiano non disponefortunatamente di una narrazione cosìtotale e devastante come quellacomunista per mutare i dati ordinari delsapere geografico. Ma un suo organo, lagiunta per le autorizzazioni a procedere,si è spinto anche più in là nel commerciopirandelliano tra il vero e il verosimile,decretando la plausibilità di un’affer-mazione evidentemente immaginaria:chiamando la questura di Milano, silvioberlusconi agì nella convinzione cheKarima el Marough, meglio nota comeRuby Rubacuori, fosse veramente lanipote del presidente egiziano HosniMubarak. siamo, insomma, nel para-dosso del soldato di guardia al teatro dibaltimora che, nel 1821, ferì l’attore cheinterpretava otello pensando che sitrattasse di un vero negro colto inflagrante mentre stava tentando distrangolare una donna bianca. RubyRubacuori configura quella chestendhal, sfogliando il littré, definivaillusione perfetta, uno stato che siriscontra molto di rado sulla scena e piùfrequentemente nei sogni. una personapuò essere scambiata per un per-sonaggio e il soprassalto di un clownnella sua progressione dal finto al verodiventare un gesto che chiama in causa ladimensione sovrana; in questoslittamento indeterminato tra il ber-lusconi uomo, il berlusconi cittadino e ilberlusconi presidente del Consiglio,ogni possibilità di trattenere una verità sismarrisce, si confonde e, fatalmente,viene consegnata all’arbitrio di unaconvenzione formale. se fossimo ateatro, potremmo almeno condividere ilgodimento supremo di un’ alchimia chesalda l’essere e il non, attendere quelmomento sorprendente di cui parlaKatherine Mainsfield in una pagina deisuoi diari, il momento in cui si si smettedi recitare e “i due caratteri si sono con-fusi (…) la finzione è diventata azionereale.” Finzione perfetta, azione reale:

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questo momento, anche se puòsembrare incredibile, è quello in cuisilvio berlusconi, annunciato dal suocaposcorta, parla con il funzionario dellaquestura di Milano e afferma di essere ilpresidente del Consiglio, mettendo ognisua dichiarazione successiva sotto l’auradi autenticazione della sua funzione(cioè della sua finzione) sovrana: è per-ché berlusconi è il presidente delConsiglio che la ragazza fermata puòessere la nipote del presidente egizianoMubarak, un delicato affare di stato. sementendo si riesce a mentire anche a sestessi, si diventa veri. D’altronde, comedice l’umorista americano arthur bloch,nessuno è più sincero di un politico chemente. il meccanismo dell’auto-ingannoè stato variamente analizzato in passatoe di recente. “Le sabbie mobili delledichiarazioni menzognere di tutti i tipi –scriveva Hannah arendt a proposito deiretroscena sulla politica americana inViet Nam svelati dai cosidetti PentagonPapers – volte a ingannare gli altri quantose stessi, sono in grado di fagocitarequalsiasi lettore tenti di esaminarequesto materiale, il quale, sfortu-natamente, ha costituito la strutturaportante della politica interna ed esteradegli stati uniti per quasi un decennio” .e l’auto-inganno risulta ancora piùpericoloso dello stesso inganno, perchél’ingannatore che inganna se stesso, diceancora la arendt, “perde ogni contattonon solo con il suo pubblico, ma anchecon il mondo reale, che però può ancoratoccarlo, perché costui può estrarre daesso la mente, ma non il corpo” il ro-manzo delle intercettazioni rappresentauno slittamento ulteriore rispetto aiPentagon Papers, perché qui non si trattapiù, come nel caso di Johnson e Nixon,di falsificare dei fatti in nomedell’immagine internazionale di unpaese, o di un qualunque altro “supe-riore” interesse, ma di utilizzare la men-zogna come strumento di ricreazionedell’illimitata sperimentazione esisten-ziale a cui il potere dà accesso. Non è lamenzogna ad essere instrumentum regni, è

il regno che diviene lo strumento dellamenzogna, senza alcuna preoccupazioneper l’ordine trascendente di verità cheeventualmente la giustifica, come ancoraaccadeva nel mondo totalitario dovel’auto-inganno era fondato sulla fede neifini ultimi del processo rivoluzionario: laragione del potere non risiede più fuoridi esso, e nemmeno è immanente ai suoiatti, è anch’essa confusa in un vorticosomovimento di privatizzazione auto-referenziale, e dunque di derealiz-zazione narcisistica, del mondo. pocoimporta che la finzione sia creduta,anche nella Cecoslovacchia di Novotny,probabilmente, la gente ha continuato anon credere che l’elbrus fosse lamontagna più alta d’europa: il potere,anzi, consiste proprio in questa capacitàdi negare l’evidenza, formalizzando unanarrazione unica (o un’unica lingua perraccontare le cose), una narrazionesovrana. Lo scontro con la magistratura,che parla di “abuso della qualità dipresidente del Consiglio” (e fonda-mentalmente, quindi, di una priva-tizzazione della funzione sovrana) èparticolarmente urticante perché non haper oggetto l’opinione su quantoaccaduto alla questura di Milano, maappunto il potere di istituire un raccontodotato di caratteri sovrani, capace diprodurre (o di inibire) effetti reali. Nelfrattempo, si avanza insinuante unanuova ipotesi epistemologica (della qualenon si misurano ancora del tutto glieffetti devastanti): l’idea che la verità siariconducibile a uno statuto maggioritarioe che dissentire rispetto ad esso equi-valga a un attentato contro la demo-crazia (il golpe mediatico, quello giu-diziario etc.). anche nel caso dellaversione del cosiddetto Rubygateufficializzata dal parlamento, il vero èdiventato un momento del falso. ilromanzo conquista in tal modo una suaeffettività. Mentre la politica scivolaparallelamente nell’irrealtà. avevamo giàavuto il sospetto, del resto, che i varitony, George, Vladimir, per non diredell’impresario circense chiamato

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Muhammar Gheddafi, con i suoi cavalliberberi, i suoi plotoni di odalische e lalanterna magica dell’epopea anti-coloniale impressa sulla camicia, nonfossero dei personaggi del tutto reali.ora sappiamo che il Mubarak del Cairo,contro cui masse di persone scendevanoin piazza nelle città egiziane, non èesattamente il Mubarak di arcore, nonpuò esserlo, appartiene a un altro ordinedella percezione, l’ordine della fiabescaRealtà integrale dove ogni corpo, ogniluogo, vengono ricostruiti a immagine esomiglianza di una sovranità deldesiderio che coincide magicamente coni desideri del sovrano. Dopo la telefo-nata, la questura consegna, o più chealtro restituisce, Karima el Marhoug al“favoloso mondo di Nicole Minetti” ,riconoscendo implicitamente di nonpoter esercitare alcuna giurisdizione suun’entità immaginaria. Cosa è reale,dunque? solo il desiderabile, comeberlusconi ammise in una famosaconferenza stampa con l’amico putindove, con il colpo di spugna di unabattuta – e sempre col sorriso sullelabbra – cancellò di incanto le sofferenzedella popolazione cecena sottoposta allesistematiche esazioni delle armate russesoltanto perché tali sofferenze eranosgradite all’ospite. La sofferenza,berlusconi lo ha fatto più volte capire, èestranea al mondo “straordinariamenteestetico” in cui il tycoon televisivo ha,fin dall’inizio della sua discesa in campo,deciso di immergere il paese. sospeso traDisneyland e i castelli in cui gli aristo-cratici del marchese De sade sperimen-tano il limite estremo dell’abiezione epescano nel pozzo senza fondo del desi-derio, arcore non è né una residenzaprivata, né un luogo politico, è il set uto-pico di una transustanziazione del realenell’immaginario e viceversa, la scena diun’epifania dionisiaca del potere a cui siviene iniziati, come Nicole Minettispiega, con la sua lingua ineffabile,all’amica invitata. “Ne vedrai di ogni” èla promessa visionaria di un potere spet-tacolare e delirante che si pone all’inizioe alla fine di ogni possibile godimento:

fantastico e abietto, munifico e tirannico,paternalista e stupratore, sontuoso esquallido. tutti possono in qualchemodo accedervi, i requisiti sonointerclassisti: l’alto e il basso si ritrovanoa contatto, come nelle migliori tradizionidella fiaba sentimentale o dellacerimonia libertina, Fede e Mora,intendenti del sogno ad occhi aperti,battono il sottobosco televisivo con lascarpetta di Cenerentola. tutto vi è in uncerto senso permesso, ma all’interno dirigide regole di rappresentazione, laprima delle quali impone di non dire maiquello che si è o quello che si fa. “e poici sono io, dice Nicole Minetti alla finedel suo elenco, con un’espressione cheassume un tono involontariamentesapienziale – e che emana forti, roman-zesche ombre di consapevolezza - chefaccio quello che faccio.” Ma quandoNadia Macrì, alterata dall’alcool,confessa al premier di essere unaprostituta viene cacciata via. o almeno,così si racconta. il corpo ludico,ammantato dalla finzione del desiderio, èsovranamente ambito. il corpo fuori discena, letteralmente osceno, quotidia-namente crocefisso da quella finzione –e dallo scambio che comporta – è inam-missibile, anche se si tratta, con ognievidenza, dello stesso corpo. uomo pereccellenza del visivo, imprenditore diuna nuova forma di immortalità, il so-vrano di arcore non può accettare unacaduta oscena, mortale che lo deprime -e di cui proprio il denaro, per altri versipieno di grazia, è la cartina di tornasole.

Una crisi di realtà

un eccesso di immaginario finisce peroccludere ogni potere dell’imma-ginazione: è solo vedendo meno, diceRousseau, che si riesce a “immaginare dipiù”. Quel regime della percezione chebaudrillard definisce telemorfosi, di cuila televisione propriamente detta èormai solo un dettaglio olografico , nonammette vuoti e zone morte, è unasaturazione permanente di tutti glischermi disponibili dove il reale,

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snervato da una continua messa inscena, ha smesso di costituire un misteroineffabile su cui esercitarsi. sui loro siti igiornali del premier non esitano adiffondere i video artigianali delle “vere”feste di arcore, quelle in cui non accadenulla e dove ad essere spiata è unarassicurante banalità. e’ una specie diomeopatia visiva per rintuzzare leimmaginazioni troppo sbrigliate –esaltate proprio dai non detti delleintercettazioni - ma anche per sedare lefibrillazioni di una società che, passandoattraverso lo specchio di arcore, temesempre di più di dover fare i conti con sestessa: ecco il potere che siede a tavolacome ciascuno di noi in uno di queimegaristoranti di provincia con saleadibite ai matrimoni, ai battesimi, aicompleanni (o, come una suggerisce intv una deputatessa della maggioranza,pur di sottolineare la medietà dell’im-magine, nel salone delle feste di unvillaggio Valtour), appesantito e un po’annoiato davanti a uno spettacolino diballerine, squallido ma decisamenteinnocente. al lato opposto di questesequenze da videofonino a cui laprecarietà dell’inquadratura conferisceuna stimmate di autenticità (“au-tentiche” come i filmini che giriamonelle grandi occasioni delle nostre vitefamiliari e, al pari loro, noiose, insigni-ficanti, piatte), ci sarebbe il mitico scattoche mostra la flagrante depravazione delpremier. in un caso e nell’altro, tuttisembrano convinti che le immaginisiano dei fatti. se ci sono immagini, èproprio perché da immaginare non c’èpiù nulla: la realtà in persona si offrenella sua trasparenza definitiva, palmare,tautologica. La fotografia ultima è, nona caso, immediatamente impugnata dalladifesa di berlusconi: se essa esiste,dicono gli avvocati, è sicuramente falsa –cioè se essa esiste, ogni immaginazioneulteriore non potrà che interrompersi emorire con essa, alle soglie di una veritàinafferrabile che il potere, da parte sua,respinge sempre al mittente come uneffetto distorsivo, una patologia del suo

sguardo ossessionato. Nessuno sapràmai cosa è veramente accaduto sulMonte Moria: il muro dell’osceno èinvalicabile, la follia del passage à l’actenon è rappresentabile. siamo in pienodentro “l’esigenza contraddittoria esimultanea di non essere visti e di essereperpetuamente visibili”. Ma soprattutto,questo dibattito attorno all’intermittenzadel visibile, al dileguarsi del dio dallecangianti apparenze della suatrasgressione in forme umane, svaluta laprofondità della testimonianza rivolta aquel che non si vede e che, in quantotale, eccede l’ordine della prova. Lamouse trap del racconto giudiziario equella del racconto sovrano, in questosenso, si chiudono ermeticamente unasull’altra, occludendo nel loro scontroparossistico ogni trascendenza, ognifuga in avanti nel (o del) simbolico.Difficilmente il romanzo delle inter-cettazioni si presterà alla stessa forzaturapoetica che pier paolo pasoliniimprimeva al suo “romanzo dellestragi”, facendo rintoccare, prima diogni squarcio aperto sulla tela opacadella storia della prima repubblica, ilmetronomo oscuro di quell’ ”io so” (egià solo quest’ “io” di pubblica croce-fissione, quest’io luterano, dreyfusardo,riveste un’identità che oggi suona piùinconcepibile che improponibile) prontoa testimoniare non quel che si vedeva –anche se pur sempre, è vero, attraverso ilvisibile – ma quello che, appunto, non sipoteva vedere. “io so./io so i nomi deiresponsabili di quello che vienechiamato golpe (…)/io so i nomi deiresponsabili della strage di Milano del 12dicembre 1969./ io so i nomi deiresponsabili delle stragi di brescia e dibologna (…)” La prima cosa che vienein mente, rileggendo questa pagina perl’ennesima volta, è il permanere del suoparadosso, poiché tutti questi nomisaputi, invece, ancora oggi non liconosciamo (ma non è, appunto, l’italiache si è costruita nella rimozione diquesta coscienza estrema che non liconosce o che continua a riconoscerli

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senza volerli conoscere?). “io so. Manon ho le prove. Non ho nemmeno indi-zi./ io so perché sono un intellettuale,uno scrittore, che cerca di seguire tuttociò che succede, di conoscere tutto ciòche se ne scrive, di immaginare tutto ciòche non si sa o si tace (…)”. e’ nel buiodell’esperienza e dell’istinto (“tutto ciò faparte del mio mestiere e dell’istinto delmio mestiere”) che pasolini attinge laluce della sua veggenza, indimostrata(come ogni profezia che si rispetti)perché ciò che vede al di là delloschermo è anzitutto l’essenza, l’essenzacriminale dei poteri italiani. Ma ciò chenel processo telemorfico in cui la nostrarealtà è immersa viene continuamentescreditato è proprio l’esperienza, quellafacoltà “che sembrava inalienabile”,come dice Walter benjamin e che perl’autore de il narratore. Considerazionisull’opera di Nicola Leskov era alla basedi qualunque arte del racconto. Lequotazioni dell’esperienza sono cadute.e si direbbe, aggiunge benjamin, checontinuino a cadere senza fondo: “ogniocchiata al giornale ci rivela che essa(l’esperienza) è caduta ancora più inbasso, che non solo l’immagine delmondo esterno, ma anche quella delmondo morale ha subito da un giornoall’altro trasformazioni che nonavremmo mai ritenuto possibili.” Di unarealtà continuamente tradotta inspettacolo, anche e soprattutto nelmomento in cui sembra esondare dalloschermo per troppa compressione,deflagrare nelle coscienze che sichiedono fin dove potrà spingersi la suaproliferazione di colpi di scena, non sipuò dare alcuna esperienza, e tantomeno, come dimostra il romanzoitaliano, un’esperienza morale: la suasdrammatizzazione, la sua derea-lizzazione, sono in agguato nelle suestesse iperboli. un sottile sentimento diincredulità si confonde all’incan-tamento morboso con cui l’opinionepubblica accoglie la scena iperreale delRubygate: tutte queste fantasie realizzateda un uomo di 74 anni non possono

essere vere, un tale livello di corruzionedella realtà nel sogno perverso di unsovrano (per di più democratico) èimpensabile se non ammettendo che lacronaca politica è ormai una formasuperiore, la forma compiuta, dispettacolarità delirante. anche l’utente diYoutube estasiato dalla potenza sessualedel premier, in fondo, non riesce acredere ai propri occhi. ogni volta chel’interessato ridimensiona la propriavicenda con una battuta (sul “bungabunga”, sulle minorenni etc.) non fa chespeculare sulla riserva mentale di questaincredulità. e tuttavia, ogni volta, sem-bra non resistere alla tentazione nar-cisistica di presentarsi tra le righe deisuoi rilanci sarcastici, come il vero uomodei sogni, il leggendario libertino che losi accusa di essere, il recordman da dieciragazze a notte: negando l’abnorme,incredibile realtà del castello di accuse incui lo si vorrebbe incastrare, continua adammiccare alla sua rappresentazionecome se essa fosse un livello superiore direaltà. il clown si rintana nello statista, lostatista si chiude nel silenzio, la molladell’eccitazione si comprime, ma poiinesorabilmente scatta all’infuori, escherzando scherzando pulcinella siconfessa. La negazione diventa unbiglietto di ingresso nella Shangri la delladeregulation sessista scritto conl’inchiostro simpatico di un desideriocondiviso che, in ultima analisi,costituisce la grande macchina dicomplicità sociale a cui la telemorfosiberlusconiana continua a sostenersi. Lospettatore non riesce a staccarsi dallospettacolo perché, fuori di esso, teme diprecipitare in quel vuoto (“di carità e dicultura” per continuare a citare pasolini)che sente ribollire sotto le finzioni e dacui la commedia del potere, tuttosommato, lo protegge: lo schermo nonci scherma che a noi stessi, alla miseriaesperienziale di una vita da voyeur,all’intervallo di piacere sempre più breve,sempre più derisorio, che separa unadose di irrealtà da quella successiva. Larealtà resta il retaggio dei poveri, di quelli

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che si affacciano all’orizzonte dellacomunicazione globale che ha ereditatola storia con il rilievo anacronistico deiloro corpi e su di essi continuano a misu-rare il valore della loro testimonianzacontro il potere. per giorni, gli organi diinformazione italiani cercano di arginarel’irruzione, sulla stessa scena in cuiimpazzano le vicende della “nipote diMubarak”, delle fiumane nordafricaneche, con o senza l’aiuto dei social network,si riversano sulle piazze di tunisi, dialgeri, del Cairo, poi di tripoli e dibengasi, chiedendo a gran voce ledimissioni dei propri capi. in questacontemporaneità sembra agire persinouna beffarda vendetta del referente chenon sfugge a comici e a satirici, mentreviene tenuta a rispettosa distanza daimedia “seri”. Ma è solo un momento, incui il romanzo italiano si avvita ulte-riormente su quella crisi di realtà che lodebilita e nel contempo ne rilancia la“cattiva infinità”, poiché non c’è alcuncielo dietro le gesta farsesche di questidèi e tutti (e più di tutti coloro che lonegano) lo hanno sempre saputo. sullespiagge vicino a tripoli la televisionemostra una lunga fila di fosse scavatenella sabbia: esse segnalano che, comedice Wislawa szymborska in una dellesue poesie, il corpo c’è e c’è e c’è. C’è etra i paesaggi in cui l’anima vaga, “oracerta, ora incerta della propriaesistenza”, non trova riparo. il corpo c’èe proprio nel suo non trovare riparo nonpuò essere nascosto: esso è tornato adessere un’enormità. Davanti a questaenormità, silvio berlusconi, impresariodi corpi televisivamente immortali,tycoon della politica come spettacologlobale, esita, vacilla, cercando ini-zialmente di replicare il colpo nega-zionista della Cecenia, di nascondere ilmassacro dietro il cartello “non di-sturbare”, vecchia e immarcescibile divi-sa della realpolitik. un velo cereo, unacorrusca ombra di tempesta, offusca ilsuo sorriso, mentre a malincuore parla di“vento di libertà”, di “gioventù e diinternet”, cita imprecisate “violenze”- e

nel frattempo cerca di instillare il dubbiosul “dogmatismo anti-occidentale” dellenuove masse arabe. Non è addolorato, èindispettito perché le circostanze loobbligano a scoprire quello che hasempre saputo: il rais da Mille e una notteche aveva installato la sua tenda beduinain una villa della zona residenziale diRoma è un assassino seriale. “Diffidatedei pagliacci”, avverte una delleprosperose donne di altan, “possonodiventare feroci”. Nel suo giro di frasi,silvio berlusconi riesce a non citare maiMuhammar Gheddafi. Ma ormai ilcorpo c’è: ogni omissione non fa cherenderlo ancor più mostruosamentevisibile.

Postilla. La seconda repubblica diBayreuthHo scritto telemorfosi su richiesta di

Fabrizio arcuri che mi aveva domandatodi affrontare il problema di se e come larealtà possa ancora essere raccontata intempi di saturazione mediatica. il testoavrebbe dovuto essere pubblicato in unlibro edito per conto del teatro stabiledi torino e del festival prospettiva di cuiarcuri è condirettore artistico. Dalmomento che sono incapace di scriverealcunché senza muovere da un oggettoconcreto, da un esempio, avevo sceltocome modello della mia argomentazioneuno spettacolo dello stesso arcuri chenon è mai andato in scena, ritenendoloil tentativo più ambizioso che fosse statocompiuto fino a quel momento per in-gabbiare una realtà intossicata dall’immaginario nel format di unarappresentazione. Dallo spettacolo chenon era mai stato fatto, il testo muovevaverso quello spettacolo continuo che lapolitica italiana inscena ogni giornospeculando sul voyeurismo di unpubblico che ormai la segue come sisegue una telenovela, cioè con unmiscuglio di rassegnazione e di parte-cipazione, di emozione e di incredulità,mobilitando nei confronti del raccontopolitico la stessa riserva mentale chesolitamente accompagna la fruizione di

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una qualunque fiction, più o meno vera,più o meno onesta. La citazione di GuyDébord che apre il testo (“nel mondorealmente rovesciato il vero è unmomento del falso”) diceva chiaramenteche la società dello spettacolo era il suopresupposto, ma anche che l’argo-mentazione avrebbe chiamato in causa ilproblema fondante di ogni rappre-sentazione, che non è quello del suorapporto con la realtà, ma quello del suorapporto, appunto, con la verità. e’ ilproblema posto dal principe amletoquando ordisce assieme agli attori lamouse trap in cui la coscienza del Redovrebbe restare imprigionata – con unatteggiamento opposto a quello dellasocietà dello spettacolo, sulla scena dielsinore si tratta di far tralucere il veroattraverso il falso, di stagliare la veritàsullo sfondo della finzione. Questafinalità si ripercuote sul processofinzionale stesso, cioè sul “come” larecitazione degli attori riuscirà a renderecredibile la trasposizione di un veroomicidio (forse sarebbe giusto dire diquesto omicidio) sulla scena di un delittoimmaginario (di quel delitto): ed èancora questione, come dice il principe,di reggere lo specchio alla natura, “dimostrare alla virtù il suo volto, aldisdegno la sua immagine, e perfino laforma e l’impronta loro all’età e al corpoche il momento esige.” L’ultimafrontiera del potere, dunque, è la verità,e l’ultima frontiera della verità è larappresentazione. Ma non è più allanatura che la rappresentazione deveporgere lo specchio (questa immagine,che già per san paolo aveva a che vederecon la conoscenza e che d’altro cantorichiama l’invenzione della prospettivacentrale, è ancora quella che Mallarméutilizzava per definire il romanzoottocentesco: uno specchio trascinatoper le strade), ma a un secondo specchiopredisposto nel teatro della realtà che è illuogo “rovesciato” in cui il potere si dàgià come rappresentazione. Nel mondoshakespiriano i re compaiono spessoaccanto ai loro fools, in una sorta disdoppiamento, forse perché, para-

frasando un’annotazione di brecht, lacommedia, più spesso della tragedia,“non prende alla leggera” le sofferenzedegli uomini. Ma cosa accade quando ilre e il giullare, l’attore e il sovrano siuniscono nella stessa persona? Quandoho scritto telemorfosi non avevo ancoravisto la versione de la resistibile ascesa diarturo Ui di bertolt brecht allestita daClaudio Longhi al teatro argentina diRoma. La lezione non è mai teorica,l’arturo Ui è per l’appunto unaParabelstück, una “commedia para-bolica”. e al centro di questa parabolasulla scena di Longhi si vede avanzareuno specchio davanti al quale umbertoorsini, in quel momento nella partedell’attore, appronta la sua vestizione:seduto su una poltroncina, al centro diuna scena piena di cavolfiori che visti dalontano sembrano enormi gardenie - ifiori preferiti dai nottambuli e daigangster - mentre alle sue spalle dellecassette di plastica impilate disegnanovaghi profili di grattacieli, si imbellettalentamente, con ironica pazienza. siravvia un po’ i radi capelli bianchi, sipassa un pennello sopra il labbrosuperiore, un’attrice pettina una par-rucca di capelli lisci e neri dall’aria untaappesa vicino allo specchio su cui si starimirando. una voce registrata scandiscela vestizione, è la sua stessa voce cherecita il monologo di antonio davanti alferetro di Cesare nel Giulio Cesare dishakespeare. poi l’attore si applica duebaffetti sotto il naso e fa per prendere laparrucca, e in quell’istante, guardandoverso il pubblico, ha una piccola, genialeresipiscenza, un lieve sorriso gli apparesulla faccia, come per dire: devoproprio? Chi me lo fa fare, in fondo? e’soltanto un momento, dopo il qualeindossa la parrucca e davanti a noiappare adolf Hitler. se la trasforma-zione desta così tanta emozione, e quasiuna specie di euforia, non è soltantoperché ad animarla c’è un grande attoreritrovato in quella energica frugalità chesecondo strehler lo rendeva natural-mente brechtiano. Ma perché in questametamorfosi si gioca il senso più

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recondito della misteriosa epifania diadolf Hitler nella nostra storia che,dopo brecht, dopo Chaplin, (ma anchedopo Vogliamo vivere di Lubitsch)Longhi rende con lo sdoppiamento diun’immagine, chiamando in causa undispositivo meta teatrale classico (infondo conosciuto fin dai tempi dishakespeare: il doppio ruolo ) comesimbolo del momento in cui il potere staper trasformarsi in immagine. e difatti, atrasformazione avvenuta, ecco compa-rire in scena il poderoso microfono dellaradiofonia anni quaranta e anche untelevisore su cui scorrono i filmati delvero Hitler e delle sue parodie. orsini siè fatto in tre: fin dall’inizio è statoarturo ui e il suo doppio hitleriano,quindi, con uno squarcio nel processo dirappresentazione, è stato l’attore cheinsegna al piccolo gangster di Chicagoad essere adolf Hitler, a muoversi, asedersi, a camminare e a parlare come uncapo. prima di quel momento, il gangsterche interpretava era una figura piccola,incurvata, balbettante che si muovevacon la nevrotica circospezione di uninfelice parvenu tra i borghesi arricchitidel trust dei cavolfiori tronfi nei lorosmoking… Ma in quello sguardogettato in platea, messaggio in bottiglialanciato attraverso la quarta parete, èimpossibile non leggere un’estremaistanza di salvezza del lavoro dell’attore,una confessione che è anche unaritorsione ironica sul pubblico: voi, nonio, avete voluto che io sia questo. Conbrecht, con Longhi, con il teatro, siamoancora nel tentativo di dar contodell’avvento della massima illusione,della simulazione definitiva, attraverso lamostrazione della sua genealogia e losmontaggio dialettico degli elementi checompongono la sua illusoria organicità:in scena, come accade negli ultimi film diGodard, non appare mai una solaimmagine, ce ne sono quasi sempre duealla volta. se la qualità politica, per cosìdire, di quell’immagine ci sembralontana da noi – come ad esempio èapparsa a Franco Cordelli in unarecensione sul Corriere della sera – è

perché i livelli di iconizzazione delpotere a cui siamo abituati rispondono auna degradazione talmente forte di quelmodello, nel frattempo banalizzato daun’archeologia dell’immaginario, che ilsuo nesso con il nostro presente nerisulta vanificato o, peggio, condizionatoda un approccio ideologico. pensando aberlusconi, diciamo che non è ilfascismo il problema. e in effetti, non loè. eppure, nella scena del truccodell’attore, torniamo all’origine di quelmovimento di estetizzazione della vitapolitica che Walter benjamin segnalavacome il principale carattere formale delfascismo e che tuttavia non si è esauritocon il fascismo. al gangster che divieneleader carismatico, al clown che siinstalla trionfalmente al posto delsovrano ereditando lo stile grandiosodella storia, basta un passo avanti perfagocitare il suo doppio finzionale eattoriale, eliminare l’ingombrante alteritàdel segno e trasformare il potere nellascena del suo Gesamtkunstwerk: “i popolitendono l’orecchio – scriveva brecht nel1938 – per sentire ciò che ha da dir loroil Fürher della seconda repubblicatedesca quella di bayeruth,”. e già inquesta “seconda repubblica”, tutto èproiezione: la berlino micenea chealbert speer progetta per conto dell’exritoccatore di cartoline, le immaginimoltitudinarie delle fiaccolate illuminatedalla luna, opera wagneriana dal vivo cheLeni Riefensthal, investita da Hilter,come lei stessa racconta, della missionedi fare il suo cinema, immortala nellesequenze di triumph des Willens (titoloscelto personalmente dal produttore),ignorando il cupo presagio nascostonell’ammasso festoso di corpi e dibraccia levate su cui il film si chiude.Cineasta e architetto virtuale, pittoremancato per colpa di un complottoebraico all’accademia delle belle arti diVienna, stregato dalla musica come unadolescente dentro le sue cuffie – sarà luistesso a ordinare alla radio di berlino diaccompagnare la sua morte con l’adagiodella sinfonia n. 7 di bruckner diretta daFurtwangler – Hitler è comunque un

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autore deciso a fare sul serio con lamateria più delicata di ogni finzioneartistica che è sempre il destino deglialtri, poiché è da loro, e soltanto da loroin fondo, che promana il suo potere: idittatori non sono nulla in sé, sono ilterminale di un desiderio collettivo, larisonanza mimetica di un’idiosincrasia dimassa che attecchisce in quellastraordinaria “crisi di testi” che brechtsegnala nel suo scritto dedicato al piùgrande di essi che è anche “il più grandedi tutti gli artisti”, l’artista del tutto e delniente. “alla musica, senza la quale nonpuò vivere, comanda di abolire i testi”perché “non ha bisogno di testi.L’ascoltatore il testo può farselo da solo.La musica può cavarsela solo coi suoni.in fondo anche lui, nei suoi discorsi, sela cava quasi solo col suono.” i dittatoricristallizzano il suono di un’epoca, ilsuono e il sogno: il testo non è che lariscrittura icastica, debolmente tradotta,della vibrazione idiosincratica in cui siimmedesimano e del sogno che, prima diloro, nessuno sapeva di sognare. il loromimetismo è assoluto, proprio nellamisura in cui la loro arte è totale: nonprevede un solo ruolo, una solamaschera, una sola competenza, ma tuttii ruoli, tutte le maschere, tutte lecompetenze come la signora Ceausescuche eccelleva nei saperi più disparati,dalla letteratura francese alla chimica, ostalin che stabiliva la parola definitivasulla linguistica. il loro corpo, presente esognato, comunica vita e potenza su tuttii teatri in cui si degna di apparire, la loroenergia iconica permea anche i settoridell’esistenza su cui il potere non avevaalcuna presa: “vivere è diventato piùallegro!” prescriveva uno sloganstaliniano degli anni 30, mentre sui muridella costruenda metropolitana di Moscail popolo stesso veniva raffigurato daLapsin ed altri artisti in sfarzose allegorietraboccanti di beatitudine… Ma tuttoquesto, suona la replica, era la tragicastoria, la tragica musica del Novecento: adispetto di brecht, che voleva disin-nescare il fascino dei grandi massa-

cratori, trattandoli come piccoli gang-ster, a dispetto di Chaplin, che scrutavala comica e inquieta somiglianza tra ilgrande dittatore e il più piccolo degliuomini – l’angelico barbiere ebreo chealla fine si impadronisce del microfono –essa continua a presentarsi a noi nelleforme di quella “vendetta dishakespeare” evocata da Cases proprio aproposito dell’arturo Ui, cioè nelleforme di una rappresentazione gran-diosa nel sogno e nell’orrore.(Dopo le prime repliche dello

spettacolo diretto da Longhi, l’attricesonia bergamasco mi ha confidato diessersi sentita disturbata da quellasvastica rossa e nera che un proiettoredisegnava sullo schermo dorato delsipario mangiafuoco del teatro: vi era inessa una insopportabile compiacenzaestetica, una specie di brivido nero eglaciale. Forese è lo stesso brivido chepercorre le pagine delle benevole diJonathan Littell o che susan sontag harecensito in “Fascino fascista”, come seil cinema nazista dovesse sempre colpircia tradimento in qualche oscura parte dinoi stessi. La bergamasco mettevaspontaneamente a confronto quelbagliore bello e sinistro con l’asciuttezzadi Shoah, il film aniconico di ClaudeLanzmann dove ogni possibilità diimmaginare è deposta nell’urna dellatestimonianza, consegnata alla voce deisopravvissuti. una rottura ontologicacon l’umano rende il nazionalsocialismoincomparabile con altre forme di potere,persino di potere totalitario, almenosecondo Lanzmann. Ma l’uso dell’im-magine, la trasformazione del potere inimmagine, è il lascito che il suo corto-circuito storico trasmette al post-modernismo che, laddove banalizzaquelle vecchie icone, stemperandone ilcarattere tragico, prosegue e sviluppafino alle estreme conseguenze ilprocesso di estetizzazione del politicoche le ha prodotte). (Marzo 2011. Da il clown e il dittatore.

Potere del teatro e teatro del potere).

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oSSerVatorio

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Gaetano Pecoraalle origini della democrazia di massa

Discutendo con biagio De Giovanni“ogni atto del pensiero deriva da un

senso di irritazione”1. Così emileCioran. Quando poi i pensieri si disten-dono per quattrocento fittissime paginee l’autore vi profonde i tesori più ricchidella sua dottrina, allora si può star certi:quella la contrarietà che gli ha datol’attacco, l’ha turbato dentro e l’haimpegnato per intero. L’insoddisfazione da cui prende ala

questo saggio di biagio De Giovanni(alle origini dellademocrazia di massa. ifilosofi e i giuristi,editoriale scientifica,Napoli 2013) nasce dalcontrasto, a suo diretroppo scolpito erilevato nei contorni,tra il dispotismo da unlato e la democraziadall’altro. Quasi che ilprimo, rovesciandod’impeto le verità dellaseconda, le precipi-tasse nel loro esattocontrario. e invece no:il dispotismo “è uncompagno che staannidato nello stessoprincipio democra-tico”2, sempre quello,sempre il medesimo,che con la bella felicità della coerenzaora può sorridere al riscatto dell’umanitàe ora può piegarla sotto il giogo delcomando più duro. Quale, dunque, ilprincipio che lega due conclusioni cosìopposte nel circuito del suo stessosviluppo? L’interrogativo tira in giocol’eguaglianza, che per De Giovannicoincide con la natura “dell’uomo vistanella sua più semplice immediatezza”3

“nella sua più elementare pulsione”4.

L’uomo – aggiunge - è un “ente desi-derante eguaglianza”5. sarà. pure, per quanti sforzi si facciano per

ripulirla e tirarla a lucido, la “naturaumana” ha sempre qualcosa di scivolosoche sfugge alla presa di definizionitroppo perentorie. Quante volte, perdire, sull’eguaglianza ha fatto premio ilbisogno di sicurezza! e che pensare dimoltitudini che per lungo corso di secolisi sono acconciate alla servitù più

remissiva? e allora,cos’è “natu-rale”? Laservitù, la sicurezza ol’egua-glianza? No:tanto, troppo diversigli uomini che hannocavalcato la scena delmondo, per calarli tuttinegli stampi di unaformula definita unavolta e per sempre. immagino l’obie-

zione dell’autore:non io – dirà – ma ipadri fondatori dellamoderna democrazia(Marx, Rousseau,tocqueville) hannoscolpito l’egua-glianza sul frontonedella natura uma-na.se di arbitraria

generalizzazione si tratta, dunque, ildito accusatore va puntato contro di loroe non verso di me. può darsi. anzi,diciamo la verità: è sicuramente così perRousseau e per Marx per i quali il corsodegli eventi non è stato avviato dagliindividui e dalla competizione fra gliindividui. Davvero per loro al principiodi tutto ci fu l’organismo, la comunità, lafusione dell’io nel noi collettivo. solo dipoi si è prodotta la caduta, e l’uomo è ro-

tolato giù giù lungo il pendio della “volgareavidità”, della “brutale cupidigia digodimenti”, della “sordida avarizia” e “dellarapina egoistica della proprietà comune”6.Ma la stessa fatalità che lo ha “corrotto,

perduto” gli farà ritrovare se stesso edegli celebrerà la sua “naturacomunitaria”7 in una “forma superioredi tipo sociale arcaico”: la tribù8.Dall’unità originaria e dalla naturaleeguaglianza, dunque, alla frantumazione,alla scissione; e dalla scissione ancora dinuovo all’unità, sia pure ad una unità piùvitale ed opulenta (e non è detto che perRousseau l’opulenza sia precisamente unbene). Come che sia, è questo il ritmoternario che Rousseau prima e Marx poi(ma Marx con un di più di profonditàfilosofica) imprimono alle vicendeumane che per essi partono dall’egua-glianza e all’eguaglianza ritornerannocome per effetto di una catenanecessaria che finisce con il chiudersi inun circolo legato, come un anello che sirisaldi sempre al suo punto di partenza.Va bene per Rousseau e per Marx,dunque. Ma che dire di tocqueville?Veramente pure lui pone l’eguaglianza inquel primo punto dove sta l’origine e lanatura propria di ognuno di noi?Veramente anche tocqueville riporta “lademocrazia alla condizione umana e allavolontà elementare di eguaglianza e lacolloca in un punto primigenio”9?se fosse così l’epoca delle strati-

ficazioni sociali, delle gerarchie chepremevano sui sacrificati da Dio e suisegnati dal destino, l’epoca che fece ladelizia dei pochi i quali trascorrevano laloro esistenza tra lo scintillio degli ori e iricami delle sete, quell’epoca, la suaepoca, l’epoca che gli diede i natali, chelo accolse adolescente e che poi fece dilui un uomo, quell’epoca – dico –avrebbe dovuto bene sollevargli il pettodi una virulenta, fosforica ostilità.Quando invece è esattamente ilcontrario: anche quando tocqueville sifa più carezzevole con i possibili sviluppipositivi della democrazia, anche quandonelle sue pagine tira un’aria di fresco e ilperiodo non volge a tempesta, anche

allora l’accento col quale ricorda i trascorsiaristocratici ha un che di commosso e si hal’impressione che egli se ne è dovutodividere col pianto nell’anima. prova che leradici tornavano, tornavano sempre e chesolo con grande strazio e senza mai riuscircicompletamente egli riusciva a tagliarle fuorida un orizzonte vitale che non poteva più -senza smentirsi – rinserrare nel cerchiostretto dell’eguaglianza naturale. e che inquanto naturale doveva valere sempre edappertutto, in ogni tempo e per ogni luogo. se però trascorriamo dall’universale al

particolare e abbracciamo distese menovaste, che indugino solo sui territoridella democrazia, allora sì, De Giovanniha cento, mille ragioni dalla sua:veramente l’uomo democratico èdominato dalla passione dell’egua-glianza, e davvero questa passione loincammina per sentieri torti che a forzadi curve e di serpentine possono con-durlo su terreni diversi, dove gli sirivelano orizzonti completamente dif-ferenti da quelli che egli scrutavaall’inizio. all’inizio è tutto un tumultuaredi sentimenti fieri ed indipendenti: siamoeguali, così ragiona l’uomo democratico,e il mio prossimo non è né peggiore némigliore di me; perché, dunque, dovreisacrificare la mia volontà alla sua? se l’unavale l’altra, che ognuno si tenga la propriae rimanga padrone del suo destino.

Questo, beninteso, finché il confrontoè con i propri concittadini, uno ad unoconsiderati. Quando però il confronto ècon l’insieme della cittadinanza, ilsingolo avverte di colpo la propriapiccolezza e abdica d’un subito alla suaindividualità. perché questa improvvisatorsione? Ma precisamente perché egli sisente eguale agli altri (e gli altri giudicapari a sé), sicché “non trovando nullache lo innalzi sopra gli altri e che lodistingua, diffida di se stesso non appenasi sente osteggiato; non solo dubita delleproprie forse, ma arriva a dubitare delsuo diritto ed è molto prossimo ariconoscere d’aver torto non appena ipiù lo asseriscono”10. e’ così che lostesso principio di eguaglianza che alprincipio trasaliva di fermenti individua-

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listici, alla fine rischia di annegare i singoli“in una omogenea totalità di eguali”11.Vedete? basta nulla, appena un

rapidissimo scarto, perché coloro chescioglievano inni all’individualità sitrovino a salmodiare l’osanna del popolo;dove, naturalmente, il popolo va intesoalla maniera di Carl schmitt, comecomunità che oltrepassa gli individui e cheli supera in una entità superiore da cui,poi, essi ricevono dignità e ragion d’essere. siamo alle solite, al solito contrasto tra

individualismo e organicismo, conten-denti diantica ruggine che si disputano la democraziasenza che mai nessuno dei due riesca aconquistarla definitivamente alla propria causa.

Non ci riesce l’organicismo di schmitt.Ma neppure ci riesce l’individualismo diKelsen perché – secondo De Giovanni –nella democrazia di Kelsen comparesolo l’individuo razionale “liberato daogni ceppo, vincolo materiale, opresupposto”12; l’individuo, dunque,“stilizzato fino ad apparire come lapropria silhouette, la propriamaschera… e qui – avverte l’autore – siavverte il rischio di un’astrattezzaradicale”13, che è poi la stessa, identicaastrattezza che attraversa da parte a parteil suo normativismo giuridico (quello diKelsen, voglio dire), costruito come ilnormativismo è, “sul nulla”14 da un “dotto”,elegante, raffinatissimo; ma tanto dotto edelegante quanto, ahilui!, “lontano dalla vita”15. Confesso che queste pagine su Kelsen

le ho lette due volte: la prima, quando –avvinto al filo del ragionamento – nonsono riuscito a staccarmi dalleconsiderazioni di De Giovanni: poten-tissime, queste considerazioni, percapacità di scavo e sottigliezza di analisi.La seconda, allorché – giunto al terminedel percorso – e pur ammirato per cosìindustre lavorazione – ho sentito dentrodi me levarsi una vocina di insod-disfazione che mi invitava a ritornareindietro, a camminare sui passi compiuti daDe Giovanni per vedere se qui e là non sidesse qualche scarto o qualche inciampoche pure convenisse segnalare. Nonfoss’altro per evitare quell’ indolente sterilitàche è la maledizione di chi fugge il dissenso.

e dov’è il dissenso? potrei indicarlosubito, come di volata; che però, ap-punto per tanta sollecitudine avrebbe unpo’ della perentorietà apodittica. Meglioallora invocare la pazienza del lettore edinvitarlo lungo un ragionamento pulito,al termine del quale la risposta siannuncia da sola, quasi direi con laconfidenza delle cose spontanee.

Kelsen, come è noto, fa derivare lavalidità e quindi l’obbligatorietà dellesingole norme dall’appartenenza ad unordinamento che è efficace nel suocomplesso. Le norme cioè, singolar-mente considerate, sono obbligatoriequando appartengono ad un sistema cheè obbedito, se non sempre, nella piùparte dei casi, almeno “comples-sivamente” come usa dire.

ora, una volta subordinata la validitàalla efficacia dell’ordinamento, si dà ilcaso che Kelsen, sì proprio lui, abbiaavuto ben chiaro che “l’efficacia non èun fatto bruto, grezzo e nemmeno poitanto misterioso: un ordinamento ètanto più efficace quanto più è giusto,cioè quanto più è rispondente ai bisognie alle aspirazioni dei consociati”16. perdirla con Kelsen: “se esaminiamo imotivi degli uomini che creano,applicano e obbediscono il diritto,troviamo nelle loro menti taluneideologie, tra le quali ha una parteessenziale l’idea di giustizia”17.

Come si vede, anche in Kelsen ilpotere non cubat in ulla; e anche qui ildiritto muove dal brulichio della vita chesi agita al fondo della collettività. anzi,ne è come il distillato; è il distillato diquei costumi, di quei valori, di quellecredenze, di quei rapporti di forza (sicapisce, esiste anche la forza!) che glipreesistono e che ascendono dalleprofondità remote, talora oscure elimacciose, dell’anima popolare. eccoperché per Kelsen - cito - “la creazionedel diritto positivo non è certo una crea-zione dal nulla” (eccolo qui, perentoriocome non mai, il non cubat in ulla); illegislatore – aggiunge Kelsen – è sempre“guidato da taluni principi generali”18.bisogna aggiungere altro? sì, bisogna

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aggiungere ancora due cose: la prima èche per Kelsen, questi principi non sono“una creazione arbitraria dell’individuoisolato, ma sono sempre [“sempre”,quindi anche in democrazia] il risultatodella reciproca influenza che gli individuiesercitano ognuno sull’altro entro undato gruppo, sia esso la famiglia, la tribù,la classe, la professione, e in certe cir-costanze politiche ed economiche. ognisistema di valori – prosegue – e special-mente un sistema di morale e la sua ideacentrale di giustizia, è un fenomenosociale, il prodotto di una società”19.stando così le cose, non credo si possa

sostenere che Kelsen abbia sottrattol’individuo all’irrazionalità del magmavitale sciogliendolo da ogni ceppo evincolo materiale (ricordiamo? sono leparole esatte di De Giovanni). e pensoanche che si veli di dubbio la pagina incui De Giovanni scrive che nel sistemagiuridico di Kelsen “non c’è niente prima,nessun presupposto, nessun fondamento;tutti i fatti reali che stanno prima non sonoi presupposti di un sistema che germinaproprio dal non aver presupposti”20.La seconda precisazione è che questo

fermento vitale da cui il diritto trae ritmoe colore deve venir indagato, come èovvio e doveroso che sia, ma daisociologi, non dai giuristi. perché sono isociologi, non i giuristi, coloro chespiegano la realtà e che descrivono ilmondo dei fatti; essi, non i giuristi,attendono all’evento reale e al perché e alper come dell’effettivo comportamentoumano (compreso, evidentemente,quello del legislatore). i giuristi, percontro, hanno a che fare con il mondodel dover-essere, con l’idealità dellenorme, profondandosi essi nellaconoscenza non di ciò che realmenteaccade, ma di quel che deve accaderesecondo il dettato delle prescrizionigiuridiche. Delle prescrizioni giuridiche,abbiamo detto. e arriviamo al punto. e’sicuramente vero, infatti, che l’ordi-namento statale non può prescindere daquei principi generali che lo avvolgono elo stringono da presso; ma è altrettantovero che di principi morali, politici o

religiosi si tratta; certo non di principigiuridici. Non trattandosi di principigiuridici, essi “di conseguenza, nonpossono imporre dei doveri giuridici oconferire dei diritti soggettivi a uomini ostati”21. a meno che… a meno che –come spiega Kelsen – “l’ordinamentogiuridico, obbligando gli organi checreano il diritto a rispettare talunenorme morali o principi politici, tra-sformi queste norme e questi principi, innorme giuridiche” 22, in norme cioè cheper essere giuridiche devono venire as-sistite - se non tutte, almeno la più parte- da sanzioni così e così organizzate. e’ vero: più avanti De Giovanni

riconosce che la vita, “l’esistenzialità(come la chiama) – viene recuperataattraverso l’efficacia, l’effettivo rapportotra obbedienza e norma… Ma – ag-giunge – il mondo del diritto è pursempre il mondo della norma”. e certoche è il mondo della norma! Ma nonperché Kelsen voglia “esorcizzare lapura forza imbrigliandola nellanorma”23, o porre la norma “come unargine all’irrazionalità24”. il diritto è ilmodo della norma, della forma dellanorma, perché Kelsen attende ad unateoria generale del diritto, che per esseregenerale, come dall’alto di un panorama,vuole dominare tutti gli ordinamentigiuridici. tutti, intendiamo? Quelliesistiti e quelli esistenti. il che è possibilead una sola condizione. a patto diindugiare sulle loro costanti e sulle lorouniformità; a patto insomma di fermarel’attenzione su quello che unisce gliordinamenti e così unendoli permetta distringerli insieme in formule riassuntivee, appunto, generali. ora, quali che siano i contenuti delle

norme giuridiche (variabili, variabi-lissimi, a seconda dei tempi e dei luoghi);quali che siano i soggetti che pre-dispongono tali contenuti (qui il popolo,lì il despota mesopotamico, lì ancora unagerarchia di ottimati), e quali chepossano essere le finalità da rag-giungere(mutevoli come solo mutevoli sannoessere le aspirazioni degli umani), da chemondo è mondo, sempre, dap-pertutto,

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le norme giuridiche impiegano una solae identica tecnica per raggiungere queifini e disciplinare quei contenuti. equesta tecnica – lo dico un po’ allabuona – consiste nel promuovere ilcomportamento “buono” (che èconsiderato buono) punendo quellocattivo; nel favorire il lecito, castigandol’illecito; e castigandolo beninteso conl’espediente delle sanzioni. Lo specificodel diritto, quel che secondo Kelsen noncambia mai, non è lo scopo perseguitoné la materia regolata, ma è la struttura,la forma della regolamentazione, ossia laregolamentazione mediante la minacciadi atti coercitivi. Quel che valeva ieri peril legislatore dell’antica babilonia valeoggi per il legislatore della Repubblicaitaliana. Da qui, dall’invariabilità dellaloro struttura, da qui non dal tentativo disterilizzare il potere o di esorcizzare laforza, da qui – dicevo – da questa inva-riabilità strutturale, da qui l’obbligo direstringersi alla “forma” del diritto. sem-pre che, naturalmente, del diritto vogliadiscorrersi scientificamente. Che è poi ildiscorso dei positivisti à la Kelsen. eccoperché la sua è una teoria generale (cheinveste la generalità degli ordinamenti) eperciò stesso formale del diritto. Dallascienza (intesa come conoscenza dellecostanti) passando per la generalità, finoa raggiungere la forma: la quale forma èpoi l’oggetto della scienza: e così, legandol’un elemento all’altro con una catenaserrata, Kelsen chiude il suo cerchio. Kelsen chiude il suo cerchio. e io

chiudo il mio ragionamento. Non primaperò di aver ricordato quello che dicevaGiuseppe prezzolini. “Non ci sono libriveramente nostri – avvertiva – se nonquelli che abbiamo sottolineato, virgo-lato, crocettato, annotato”25. un po’ perl’argomento affrontato, un po’ per lesoluzioni proposte, un po’ per quello cheho imparato, un po’ per tutto questomesso assieme, confesso che non mi èstato facile staccarmi dalle pagine dellibro di De Giovanni. Non prima,almeno, di averle sottolineate e postillate,proprio come alla maniera di prezzolini.talora (e assai spesso) segnandole con punti

esclamativi (che sono quelli di plauso e diconsenso); talaltra (assai meno di frequente)notandole con punti interrogativi (che sonoquelli di perplessità). ecco: alcuni di questi interrogativi ho

voluto sottoporre all’attenzione dellettore (e di De Giovanni, in particolare),convinto come sono che egli passandosulla gobba dei punti interrogativi,battendoci e ribattendoci sopra, me lirestituirà diritti e affusolati. affusolati, èil caso di dire, come i punti esclamativi.Del resto, sapete cos’è il punto inter-rogativo? “il punto interrogativo è unpunto esclamativo che si è afflosciato”.

Note1 e.M.Cioran, Quaderni. 1957-1972, adelphi,Milano 2007, p. 123.2 b. De Giovanni, alle origini della democrazia dimassa. i filosofi e i giuristi, editoriale scientifica,Napoli 2013, p. 1.3 ivi, p. 42.4 ibid.5 ivi, p. 41.6 F. engels, l’origine della famiglia, della proprietàprivata e dello Stato, edizioni Rinascita, Roma1950, p. 100.7 K. Marx, la questione ebraica, editori Riuniti,Roma 1996, p. 17.8 K. Marx, lettera a Vera Zasulic, cit. da pellicani,la società dei giusti. Parabola storica dello gnosticismorivoluzionario, etaslibri, Milano 1995, p. 193.9 b. De Giovanni, alle origini della democrazia dimassa, cit., p. 281.10 a. De tocqueville, la democrazia in america, inScritti politici, vol.ii, utet, torino 1968, p. 754.11 b. De Giovanni, alle origini della democrazia dimassa, cit., p. 4.12 ivi, p. 291.13 ivi, p. 290.14 ivi, p. 342.15 ivi, p. 343.16 N. bobbio, Studi per una teoria generale del diritto,Giappichelli, torino 1970, p. 92.17 H. Kelsen teoria generale del diritto e dello Stato,etas, Milano 1978, pp. 177-178.18 ivi, p. 254.19 H.Kelsen, la metamorfosi dell’idea di giustizia, orain l’anima e il diritto, edizioni Lavoro, Roma1989, p. 100. il corsivo è aggiunto.20 b. De Giovanni, alle origini della democrazia dimassa, cit., p. 293.21 H. Kelsen, teoria generale del diritto e dello Stato,cit., p. 254.22 ivi, p. 134.23 b. De Giovanni, alle origini della democrazia dimassa, cit., pp. 295-296.24 ivi, p. 346.25 G. prezzolini, ideario, Ciarrapico ed., Roma1983, p. 175.

alle origini della democrazia di massa

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uoMiNi e iDee

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angelo G. Sabatini - antonio Casuparla il Capo dello stato

di tito Lucrezio RizzoFervono dibattiti di stampa, di politica e di stu-

dio, circa il ruolo rivestito dal Capo dello stato,che nel corso della storia repubblicana - pur aCostituzione immutata - ha subito una crescentevisibilità, tale da passare dall' interpretazionedella funzione che in origine doveva risultare piùvicina a quella del “confessore che non del pre-dicatore” (cosí Vittorio zincone), a quella inultimo definita “a fisarmonica" (cosí Giu-lianoamato), per la capacitàespansiva dei poteripresidenziali in pre-senza di maggioranzedeboli e inefficienti, comedi una rilevante instabilitàdi sistema.

tito Lucrezio Rizzo,Consigliere della presi-denza della Repubblica,Docente universitario èautore del libro Parla ilCapo dello Stato. Sessantaanni di vita repubblicanaattraverso il Quirinale1946-2006.

oltre alla preziosaopportunità di cono-scere e di servire l'isti-tuzione presidenza del-la Repubblica nell'arco– ad oggi – dei cinquetitolari avvicendatisi afar data da pertini, l'a.si è avvalso dell'esameaccurato di documentidi archivio, quotidianid'epoca e contributi di dottrina, che hannosupportato un'analisi nella quale l'identità umanadi ciascun presidente si è proiettata nelladimensione istituzionale, al fine di capire meglioil ruolo effettivo di ciascun Capo dello stato,attraverso il vissuto personale ed alla formazionepolitico-culturale di ciascuno.

L'ottica perseguita dall'a. è stata quella di forni-re una ricostruzione seria ed attendibile, senzaincorrere in fastidiosa erudizione. Ciò allo scopodi avvicinare il più possibile alle istituzioni i gio-vani ed i meno giovani, ricostruendo i travagli, letensioni ideali, i momenti difficili e quelli felici diun'italia filtrata, nell'arco di oltre 60 anni, tramitel'esperienza pubblica degli inquilini del “Colle”per eccellenza.

il tema ineludibiledelle “esternazionipresidenziali”, tras-versale ai vari manda-ti, è correlato alla cen-tralità venuta ad assu-mere dal Capo dellostato per cui oggi nonsi discute più dellalegittimità – ormai ac-quisita – delle stesse,ma solo dei limiti delcorrelato potere: quiviene evi-denziato cheogni qualvolta il Capodello stato non possaaltrimenti esercitare,con la necessaria inci-sività ed efficacia, lafunzione di garanziadei valori e dei prin-cipi contenuti nellaCostituzione, ogniesternazione legata aquella garanzia vaconsiderata come laforma più alta ed

aggiornata del ruolo che il presidente dellaRepubblica è chiamato ad interpretare, “vivavoce della Costituzione”, come dice ilCalamandrei.

(dal sito web di Gangemi editore)

Angelo G. SabatiniIl Presidente Saragat nella riflessionedi Tito Lucrezio Rizzo

presentato da Gaetano Gifuni,segretario generale onorario dellapresidenza della Repubblica, titoLucrezio Rizzo, Consigliere Capo delQuirinale, ha dato alle stampe unvolume dal titolo accattivante Parla ilCapo dello Stato. il sottotitolo introducebene all’intento dell’autore: Sessanta annidi vita repubblicana attraverso il Quirinale(1946-2006), da enrico De Nicola,primo presidente della Repubblica, finoa Carlo azeglio Ciampi. L’impostazione che Rizzo dà al suo

scritto (collocare lafunzione di presi-dente sul terrenodella sua formazioneculturale e politica)avrebbe potuto legit-timare anche l’inseri-mento dell’attualeinquilino del Quiri-nale, Giorgio Napo-litano, nella Galleriadei personaggi che,figli della Nuovaitalia, repubblicana,hanno maturatol’onore e l’onere di s-alire al Colle: Napoli-tano ha maturato or-mai una lunga espe-rienza politica e annidi intensa gestionedel mandato di pre-sidente ed è meri-tevole pertanto di essere collocato quinel pantheon dei capi di stato e ricevereil sigillo della riflessione storica sul suooperato. La pubblicazione di Rizzoavrebbe potuto non attendere la fine delrinnovo di mandata e inserirlo nellalunga lista dei presidenti dellaRepubblica italiana. La scelta da parte diRizzo è caduta sulla opportunità dirinviare ad altro tempo la costruzione diun medaglione completo delpersonaggio che attualmente riveste così

alta funzione istituzionale.L’intento di Rizzo è chiaro: togliere dal

limbo della aristocrazia istituzionale ipresidenti che dalla nascita dellaRepubblica hanno ricoperto ilprestigioso e oneroso incarico conimpegno e orgoglio per analizzarne ilcontributo da essi dato alla vitaistituzionale reale del paese e perconsiderarli partendo dalla loro umanaesperienza di attori impegnati a recitare laparte di primari nel complesso evariegato teatro della vita politica italiana.uno sguardo rapido sul succedersi dei

personaggi descritti con amorevole con-siderazione, ma non con partigianeria,del loro valore ci fornisce una visione

d’insieme dei servi-tori dello statoaccumunati da unaforte ispirazioneideale e dal rispettodelle regole formaliche presiedono alloro mandato. uo-mini scelti a tantoalto prestigio per imeriti politici eculturali acquisitinell’esperienza diuna partecipazionecostante, a volteostinata, alla difesacostituzionale dell’agire politico eamministrativo con-siderato fondamentoinalienabile delprogresso civile diuna nazione.

scorrendo la nutrita lista dei presidentiche hanno operato nella funzione diCapo dello stato ci imbattiamo in unavarietà di personaggi con storiepersonali diverse e per cultura e per stilipolitici. Gli eventi di cui sono stati attorio spettatori li collocano in una scala divalori diversi per le circostanze chel’hanno formati politicamente mameritevoli di una uguale considerazione.ed è questa l’immagine che di loro Rizzoci dà presentandolo al pubblico di lettori

il Presidente Saragat nelle riflessioni di tito lucrezio rizzo

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con l’imparzialità di un analista noncondizionato dalla storia personale dichi, partecipe della vita interna delpalazzo presidenziale, guarda con occhioattento alle storie personali di ciascunpresidente per presentarle al lettorecercando di costruire un colloquio idealecon ciascuno di loro. Così si attua unacorrelazione proficua tra l’identità uma-na di ciascun presidente, la dimensioneistituzionale di cui è gestore e servitore eil cittadino-lettore che nella distanzaravvicinata ne comprende meglio il ruoloma anche il peso della funzione che ècostretto a gestire nei momenti difficilidella vita politica del paese. seguendo Rizzo nella narrazione della

storia della presidenza della Repubblica sicoglie anche l’apporto che la narrazionereca al chiarimento della personalità deisingoli personaggi. e’ il caso di FrancescoCossiga e di Giuseppe saragat. Di Cos-siga ne parla in questo stesso numero di“tempo presente” antonio Casu. La lettura del ritratto di saragat ci offre l’oc-

casione di spendere due parole di riflessionisulla commemorazione che la Fondazionesocialismo ha organizzata per i 120 annidalla fondazione del partito socialista.sul terreno storiografico è un episodio

particolarmente infelice quello verifica-tosi nel contesto delle celebrazioni sui120 anni di storia socialista. Da qui laspinta a porre in comparazione il ritrattoche Rizzo fa del presidente saragat e ladimenticanza a considerare l’opera poli-tica di lui nella storia del socialismo ita-liano. e’ stato un errore non porre atten-zione su una delle figure rappresentativedella vita repubblicana, Giuseppe sara-gat, assertore e difensore di quelsocialismo riformista che, voluto da turati,treves e Matteotti, in lui ha trovatol’occasione di affermarsi e tradursi in eventipolitici utili alla salvaguardia della democraziaitaliana in momenti critici e pericolanti.L’episodio cui mi riferisco è la cele-

brazione dei 120 anni della nascita delpartito socialista italiano promosse dalComitato delle Fondazioni socialiste eorganizzata dalla Fondazione socialismoil 12 dicembre 2012.

un parterre di personalità politiche e is-tituzionali tra le quali spicca la figura delpresidente della Repubblica, ha potutoascoltare tre relazioni ad opera del presi-dente della “Fondazione socialismo”Gennaro acquaviva e dagli storici pieroCraveri e Massimo salvadori. il caratterecommemorativo, introdotto dal pre-sidente della Camera Fini e dal pre-sidente della Fondazione Camera deiDeputati bertinotti, ha spinto forse glioratori a privilegiare la palinodia di unmovimento politico che a fatica si è libe-rato dall’incanto operaistico di naturacomunista. una liberazione che, come ènoto, ha avuto invece la spinta miglioregrazie all’ impegno profuso in tal sensoproprio da quel riformista “incallito epervicace”, saragat, verso cui non solo ilpartito Comunista ma la stessa com-ponente fusionista del partito socialistaa volte ha rivolto anatemi di eresia.orbene, gli interventi degli oratori

presenti alle celebrazioni dei 120 anni delpartito socialista italiano hannopressoché ignorato uno dei più accanitidifensori del più moderno socialismo initalia. soltanto lo storico Craveri in unbreve passo del suo intervento dice ” Vafatto omaggio al coraggio e alla deter-minazione di Giuseppe saragat cheruppe con quegli indirizzi (fusio-nismo)...”. Gli altri hanno ignorato (ovolutamente taciuto) il pensiero e l’operadi saragat. se questa dimenticanza (non vorrei

pensare che fosse oblio!) fosse statamanifestata da commentatori legati aquella storiografia d’ispirazione comu-nista che gestiva il giudizio sull’opera disaragat in modo culturalmente più ele-gante rispetto al giornalista Mario Melloniche “shakespearando (ma di shakespeareaveva solo il furto di un nome di unpersonaggio Fortebraccio e poco del pathosdrammatico dello scrittore inglese) su“paese sera” ironizzava sui socialde-mocratici allorché, lasciato il quotidianode-mocristiano “il popolo” passava,folgorato come s. paolo sulla via diDamasco, senza scrupoli di coscienzapolitica al quotidiano comunista “L’unità”.

angelo G. Sabatini

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Non bisogna comunque meravigliarsi sestorici socialisti si sono tenuti lontani dalricordare che saragat, il più colto deisocialisti europei, ha dato al socialismoitaliano l’occasione per svincolarsi dallasoggezione di compagni prigionieri dellacaverna platonica senza l’impegno a venirfuori dalle illusioni che l’italia avrebbepercorso la via della modernizzazionepolitica grazie al vincolo, diretto oindiretto, all’utopia di stampo sovietico.Gli eredi di Nenni e di quanti lo sor-

reggevano nel difendere con determina-zione l’unità d’azione con i comunisti ditogliatti non riuscivano a cogliere ilmessaggio salvifico che veniva dasaragat; ma pare che ancora oggipensano con risentimento alla scelta diciviltà che l’uomo politico piemonteseveniva compiendo.ignorano o fingono di ignorare che la

ricostruzione storica dello sviluppo delsocialismo in italia non può tenere in noncale uno dei leader che con la scissione dipalazzo barberini, sofferta ma decisacon fermezza, ha segnato un momentodecisivo nella salvaguardia della demo-crazia nel nostro paese. Ma non tutti nelgiudicare l’opera di saragat si sonoastenuti o hanno condannato la sceltadel 1947. Va dato merito, per esempio, aGaetano arfé o a Claudio Martelli peraver guardato con più attenzione e congiudizio equilibrato alla scelta di saragat.apprendiamo invece con soddisfazio-

ne che, grazie anche alle ricerche diFranco Fornaro e di Michele Donno, ilritratto che di saragat ci offre Rizzo nelsuo recente volume consente di coglierela quotidiana passione politica e la vastacultura che hanno segnato la vita delpresidente saragat.

Antonio CasuFrancesco Cossiga. Il tormento el’estasi della passione politica

1. in generale, il libro di tito LucrezioRizzo si presenta come una galleria diritratti delle dodici personalità chehanno rivestito la più alta carica

istituzionale dell'ordinamento repub-blicano italiano, escluso ovviamente ilpresidente attualmente in carica, maincluso Cesare Merzagora che svolsefunzioni di supplenza durante la malattiadi antonio segni.sul piano stilistico, il libro è chiaro e

scorrevole, e tratteggia profili politico-istituzionali che, secondo le intenzionidell'autore, peraltro dichiarate sin dall'inizio, non hanno carattere agiograficoné memorialistico, ma mettono corret-tamente in relazione la vita pubblica conle caratteristiche personali, la forma-zione politica, e tutti gli altri elementisoggettivi e biografici idonei a chiari-ficare o inquadrare le condizioni o ilcontesto nel quale sono maturate lescelte o le posizioni più qualificanti. La lunga esperienza professionale

maturata dall'autore nell'amministra-zione del Quirinale lascia trasparire unrispetto profondo per la carica, ed ancheper le persone che l’hanno rivestita, etuttavia non gli preclude talvolta laformulazione di giudizi rispettosamentecritici, quando suffragati dall'evidenzastorica e documentale. a tal fine, Rizzo si è valso anche di

fonti di prima mano, tra le quali inparticolare l'archivio della presidenza,ma anche di tutte quelle fonti (dottrina,giornali, ecc.) che sostengono e dannocredibilità al giudizio storiografico.Nello specifico, il fine precipuo dell'

opera, e il suo merito, consiste nel volerdescrivere – attraverso la ricostruzionedelle varie presidenze – l'evoluzione delruolo del presidente della Repubblica, apartire dalle esitazioni e dalle cautele delcostituente, che hanno tratteggiato unpotere di equilibrio e di garanzia all'interno della nuova forma di governo,fino alla crescita esponenziale e pro-gressiva degli ultimi venti anni, che lohanno reso spesso - soprattutto nella re-cente transizione istituzionale, iniziatama non ancora compiuta - non solo l'i-stituzione che incontra il maggior favorepopolare, che sarebbe un dato di in-dubbio prestigio ma di relativa incisività,ma anche quella che ha dimostrato una

Francesco Cossiga. il tormento e l’estasi della passione politica

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reale capacità di indirizzo e orien-tamento, oltre alla più elevata capacità diraccordo tra paese legale e paese reale.2. una delle ragioni per le quali l'autore

mi ha chiesto di presentare il suo libro èche di recente ho scritto un libro sulpensiero di Cossiga su thomas More,dal quale si evince la filosofia politica delpresidente sardo. Non mi sottraggoall'invito, che anzi - da sardo delladiaspora - raccolgo volentieri.in effetti, di Cossiga l'autore mette

immediatamente in evidenza i trattiassolutamente peculiari: la sua "animafoscolianamente inquieta", l'amor patrio,la sua formazione di "cattolico suigeneris (che) non mise mai la sordinaall’intelligenza sua vivis-sima, che privilegiava ilprimato della coscienzasu ogni dogmaticoassioma", i suoi modellidi virtù morali e civili,tra i quali Rizzo ascrivethomas More, Rosmi-ni, Newman, Maritain,pascal, s. agostino,Manzoni, cioè "cri-stiani operosamentevissuti nella sintesi traFede e Ragione". Rizzodescrive con trasportola vita segnata dal tor-mento interiore di unuomo che si ispirava athomas More, e quindi al primato dellacoscienza ma che, in occasione delsequestro e dell'uccisione di aldo Moro,si trovò a scegliere la ragion di stato.acuta inoltre l'interpretazione della sua

cosiddetta "follia", "che taluni gli ascris-sero e che egli stesso non disdegnò conqualche compiacimento di autoattri-buirsi", da intendersi nel senso del"teatro elisabettiano, dove il prota-gonista, simulando la pazzia, poteva direciò che da savio non avrebbe altrimentipotuto esprimere".e tuttavia, nel delineare la sua figura,

proprio per non incorrere nel rischiodell'agiografia, Rizzo non si sottrae arilievi critici, ad esempio quando si

riferisce al ruolo di Cossiga rispetto alleinfiltrazioni di elementi delle forzedell'ordine, negli anni settanta, tra imovimenti eversivi, elementi cheavrebbero cooperato a fomentaredisordini per legittimare poi l'interventodei reparti di sicurezza pubblica.effettivamente, come dice Rizzo: "il

suo percorso politico fu un continuoalternarsi di cadute e di ascese, di gioie edi dolori, di accuse e di sospettiinfamanti, che si alternarono conrassicurazioni e consensi solidamenteconseguiti: esso incarnò - forse più emeglio di ogni altro - il travaglio dellastoria politica dell' italia stessa."Di Cossiga, Rizzo illustra le varie com-

ponenti del pensieroistituzionale, in politicaestera come in quellainterna, con un'atten-zione speciale al suopensiero istituzionale, alsuo attaccamento alparlamento come ba-luardo della democra-zia, come traspare daisuoi interventi nelle sedipubbliche, dai suoimessaggi alle Camere, eperfino dai suoi appelliagli studenti.Certo, Cossiga è stato

un uomo di forticontrasti, e il libro di

Rizzo non li mette in ombra. unpresidente eletto perché, a suo stessodire, nel partito non contava nulla, eritenuto poi, da una parte delloschieramento politico, fin troppoinvadente; descritto al suo discorsod’insediamento come “un garantetranquillo”, “in punta di piedi”, e poiprotagonista di esternazioni - o “picco-nate” che dir si voglia – tali da alienargliun vasto consenso, ma anche daprocurargli un certo favore pressol’opinione pubblica, e via dicendo. tale era l’uomo. L’uomo che nel 1966

fu preposto da Moro, quale sotto-segretario alla difesa, a sovrintendere(politicamente e amministrativamente,

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ma non operativamente, precisa Rizzo) aGladio, e lo stesso che aprirà al GovernoD’alema, cioè al primo comunista adivenire capo dell’esecutivo in italia. ildifensore delle prerogative parlamentariche critica “i signori del parlamento” efa ricorso al potere di rinvio ex art. 74Cost., per ben 22 volte, di cui quindicisoltanto nell’ultimo anno e mezzo delsuo mandato. il giurista colto che entrain conflitto con parte della magistraturae instaura un braccio di ferro con ilConsiglio superiore della magistratura,che intendeva far precedere l’elezionedel Vicepresidente da un dibattito pro-grammatico, per riaffermare che l’aucto-ritas del presidente non aveva caratteremeramente morale od onorifico. il de-mocristiano doc che non lesina criticheprofonde e strutturali alla Democraziacristiana, corrosa, dice, dal “tarlodell’oligarchia di partito”. il protagonistacontroverso della politica atlantica come diquella mediterranea. La figura centrale dimolti eventi politici di grande rilievo, eforse anche di alcune pagine della storianazionale che restano ancora da definire. occorre al riguardo che il giudizio sto-

riografico, come è giusto che accada,maturi il necessario distacco dall’at-tualità, si sedimenti e si consolidi. puòoggi essere utile, invece, esaminare più davicino la filosofia politica di Cossiga e inparticolare la sua concezione della po-litica e delle istituzioni. e certo ci saràoccasione, in altra sede, di approfondire ilrapporto tra tali concezioni e l’effettivitàdella loro attuazione concreta.3. in una conferenza del 1991 nel

Liechtenstein, Cossiga descrive la poli-tica come luogo della concretezza e delladecisione, ben distante da quello dellaspeculazione teoretica, e dunque dal-l’ideale platonico, secondo cui è beneche i filosofi siano anche politici, e i poli-tici anche filosofi, ideale che – quando siè realizzato – ha prodotto esempi nega-tivi, come per lui sono le esperienze poli-tiche riconducibili all’ideologia marxista.D’altro lato, ben consapevole che la

concretezza senza riferimenti ideali nonè meno nociva della idealità senza

concretezza, muove una critica serrata alpragmatismo corrente, “il muoversi cioèsenza riferimenti e scelte idealivincolanti; il che poi in fondo significamuoversi per rimanere sempre inqualche modo sulla cresta dell’onda, perraccogliere a tal fine e comunque ilconsenso, per mantenere il potere,rinunciando però all'uso del potere perun disegno compiuto.”per Cossiga, “il politico che fa solo il

filosofo diventa un “ideologo”, e cioè(…) chi all'idea sostituisce lo schema ol’intenzione spesso strumentale di unmodello, mentre il politico senza una fi-losofia diventa un pragmatico, e (…)uno che agisce senza un pensiero forteche viva nell’azione, o che più sempli-cemente agisce senza pensare in terminidi verità, o almeno di ricerca della verità,e quindi del bene.” e aggiunge:“Machiavelli, che non era un santo, maneanche un malvagio e che certo sciocconon era, ha scritto che li stati non sigovernano con li paternostri, ma ha scrittoanche in altra occasione che senzareligione gli stati vanno in rovina, e quiper religione certo si intende un sistemadi valori universali in un orizzonte liberoall'infinito e all’eterno.”La visione di Cossiga della politica ha

dunque una radice etica e un contenutonormativo. Ha una radice etica, perchéritiene debba fondarsi, come si è visto,sui valori, anzi su un sistema di valoriuniversali. ed ha anche, e conse-guentemente, un contenuto normativo,perché l’azione del politico dispiega isuoi effetti sulla collettività deter-minando il quadro delle regole di funzio-namento della società. La figura del politico deve dunque

tener conto di questa duplice valenza,deve porsi in rapporto positivo neiconfronti della sua collettività, devegovernarla ma anche orientarla, eorientarla in modo conforme ai suoivalori di riferimento, procedendo inpiena sintonia con la collettività, senzavelleitarie fughe in avanti né adeguandosiagli umori della piazza. Cossiga declina le qualità che sono

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necessarie al politico, che “deve posse-dere il dono della pazienza, della ironia esoprattutto della autoironia”. Nelleespressioni che Cossiga dedica all’autoironia si percepiscono gli echi dithomas More, l’unico santo che ci abbialasciato una preghiera per il buonumore,nella quale si prendono le distanza da“quella cosa troppo invadente che sichiama <io>”. La suprema virtù, l’ironia, da intendersi

non solo e non tanto come propensionetemperamentale, ma come espressionedi una disposizione all’ascolto, alla valo-rizzazione dell’altro, Habermas direbbealla inclusione dell’altro. paola Riccisindoni ha descritto l’ironia come il frut-to di una “disciplina pratica” che “esigeun incontro e una comunicazione, cosìda essere dialogicamente efficace”, chenon può “di per sé garantire l’accessoalla verità, ma certamente (…) è capacedi eliminarne gli ostacoli, le barriere, lefalse piste che l’allontanano”.se pazienza e ironia sono le qualità per-

sonali del politico, i compiti che Cossigaassegna al politico sono altrettantochiari, ed in primo luogo annoveral’ascolto dei bisogni sociali e lamediazione degli interessi. Nella odiernasocietà complessa e stratificata, ritieneCossiga, “il primo compito del politico èquello di riconoscere i diversi valori einteressi che si presentano nella società edi dare loro la possibilità di esprimersi,facendosene in qualche senso avvocato”. tuttavia, la rappresentazione dei

bisogni individuali e collettivi non puòesaurire il compito del politico, che deveanche operare una sintesi armonica,realizzare una “mediazione tra l’ideale ela realtà”, idonea a soddisfare le aspet-tative senza assecondare il parti-colarismo né strumentalizzare laframmentazione sociale. La rappresentanza di valori e interessi e

la responsabilità della sintesi decisionalesono dunque due componenti ineli-minabili della politica. Cossiga osservache nella rappresentanza degli interessi“non vi è nulla da vergognarsi, perchél’angelismo non è solo una malattia della

mistica, ma anche di certa etica e misticapolitica, anche di quella che since-ramente vuole essere cristiana”, mentreall’opposto “una politica ridotta alla solarappresentanza degli interessi sarebbeuna assai povera cosa”.Cossiga ribadisce e precisa la necessità

di ancorare l’azione politica ad unsistema di valori, e riprende in modoarticolato il concetto di bene comune.“Compito del politico – sostiene – èricondurre la rappresentanza degliinteressi all’interno di una visione delbene comune del popolo o di un idealestorico concreto”. Non si tratta però diun concetto astratto, bensì “del benecomune possibile, del passo avanti che èstoricamente possibile fare verso larealizzazione del bene comune”. il modo di perseguire concretamente il

bene comune possibile è quello di orien-tare la lotta politica a un duplice obiet-tivo: non solo la difesa dei valori einteressi dei quali si è portatori sia comeindividui sia come membri di gruppi so-ciali, ma anche la loro rappresentazionein forme e termini compatibili con ilfunzionamento generale del sistemapolitico e con gli altri valori e interessipresenti nella società, al fine di perveniread un assetto generale armonico, nondominato da settarismi o particolarismi. il processo democratico, fondato sul

consenso, culmina nella decisionepolitica, di cui l’uomo di governo deveassumersi la intera responsabilità”.La decisione è dunque il momento

conclusivo del processo di formazionedella volontà politica. “Come non c’èpolitica senza rappresentanza dellamoltitudine dei valori e degli interessi esenza sintesi politica, così non c’èpolitica senza decisione.”La decisione politica non può tuttavia

sconfinare nell’arbitrio. a tal fine è ne-cessario mantenere uno stretto legametra potere e responsabilità. “Quando, perun qualunque motivo, questo legameviene a cadere, allora diventa impossibileil corretto esercizio del potere politico esubentra l'arbitrio di gruppi di potere ir-responsabili e incontrollati, che mani-

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polano gli organi teoricamente abilitati aparlare a nome del popolo, o di fatto sisostituiscono addirittura ad essi!”.occorre dunque salvaguardare

l’ineliminabile funzione di garanzia deicontenuti e dei limiti della decisionepolitica, e dunque in sostanza del cor-retto svolgimento del processo demo-cratico, che affida la decisione allamaggioranza, ma nel rispetto delleregole fondative del patto sociale e isti-tuzionale dal quale nessuno può essereescluso. Cossiga affida questo supremoruolo di garanzia alle istituzioni. il ruolodelle istituzioni si fonda per Cossiga suun rispetto quasi sacrale: “le istituzioni,infatti, sono fatte per gli uomini e non gliuomini per le istituzioni”. inoltre, èdecisa in Cossiga la riaffermazione dellasovranità popolare, “diritto naturale deipopoli”, al contempo fonte di legit-timazione e destinatario finale del pro-cesso democratico. Conseguentemente, le istituzioni as-

solvono pienamente al loro ruolo di ga-ranzia solo se e quando percepite dalpopolo come vicine e necessarie alla vitacivile. “Le istituzioni non sono sem-plicemente dei meccanismi giuridici,opere di ingegneria costituzionale. essesono anche forme operative della auto-coscienza della nazione”. su di esse in-combe l’onere di tradurre i valori costi-tuzionali in “concreta protezione e pos-sibilità di realizzazione” della persona.per contro, ai cittadini spetta dirispettarle, “al fine di rispettare egarantire le libertà di tutti”, che essetutelano. “in ultima istanza infatti –conclude Cossiga – questo è il ruolodelle istituzioni: costituire il potere edisciplinarne l’utilizzo, difendere i dirittie la dignità della persona contro leprevaricazioni di esso, conseguirlo per ilbene comune”.il compito di mediare tra l’ideale e la

realtà conduce il politico su un sentieromolto arduo, lastricato di problemiconcreti ai quali serve rispondere conpari concretezza e determinazione.infatti, a suo avviso, mentre il filosofo oil vescovo, ciascuno nel proprio ordine,

hanno “il compito di affermare edifendere un principio ideale nella suaintegrità”, senza ridurre l’altezzadell’ideale morale alla misura dellacapacità di realizzarlo; al contrario ilpolitico “deve realizzare l’ideale nellamisura del possibile”, accettando didover passare il testimone ad altri, e allefuture generazioni. Quando si passa al “come”, riaffiora il

travaglio del politico realista, il conflittotra primato della coscienza e ragion distato. infatti, “il politico deve (…) essereun uomo disposto a molti compro-messi”, perché “l'impegno di stare nelmondo non solo impone deicompromessi sul contenuto che l’azionepolitica realizza, ma anche sul suo meto-do e la sua forma”.Dalla ricostruzione del pensiero di

Cossiga sulla politica, si evince dunquecon chiarezza che l’approccio di Cossiga,che traspare spesso a proposito dithomas More, è essenzialmente laico.Lo attesta il suo convincimento che ilpolitico debba orientare la sua azionetraendo ispirazione da un sistema divalori universali, i quali non sono neces-sariamente, o esclusivamente, religiosi.Lo conferma l’affermazione che ilrischio di compromettere la propriaintegrità personale è perfino minore diquello di corrompere “la fibra morale ela sostanza spirituale di ciò chechiamiamo patria”. e lo ribadisce infinel’intuizione secondo cui thomas More“è certo un martire della fede cristiana edella Chiesa cattolica, è un martire per ladifesa dei diritti della coscienza, ma èanche un martire per la difesa delleistituzioni”; come anche l’affermazioneche le lettere di More presentano“l’immagine di un santo straordi-nariamente umano e attuale” per il suoapproccio laicale e per la modernità delrapporto tra responsabilità individuale eresponsabilità sociale. Cossiga riconduceinfatti il martirio di More – “non cercatoné chiesto” – alla “prospettiva permeatadi ragionevolezza e coerenza tra la suafede e la lealtà civile”.L’analisi della figura e della vicenda di

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More è dunque emblematica per metterea fuoco il pensiero di Cossiga. in qual-che modo, Cossiga si richiama a Morequando vuole declinare i principi dellabuona politica. e di More mette in ri-salto il legame, organico, tra fedeltà re-ligiosa e laicità dell’azione politica.“thomas More - scrive - fu difensore, èvero, della Chiesa, ma anche della con-cezione seriamente laica dello stato, eperciò della inviolabilità della coscienzaumana, in particolare del suo nocciolo dilibertà religiosa, di assoluta autonomiadell'uomo nel rapporto con Dio”. perCossiga, l’eredità e l’attualità di thomasMore consistono proprio nell’aver af-fermato “con singolare modernità ilprincipio di divisione tra i fini e lecompetenze della Chiesa e dello stato, einsieme la laicità dello stato e la sacra lai-cità della Chiesa”, con ciò legittimandol’opposizione della coscienza alla ten-tazione del potere, sempre presente, dinon riconoscere niente non solo sopradi sé, ma neanche accanto a sé. Così sispiega dunque la definizione, appa-rentemente paradossale, di Cossiga ilquale definisce More, santo per cattolicie anglicani, “il primo grande campionedello stato laico”.“More ebbe sempre ben chiara la

distinzione tra la sfera del temporale equella dello spirito, tra politica e reli-gione, tanto che fu proprio per avervoluto mantenere ben ferma questa po-sizione che egli morì, vittima di quellaforma di clericalismo alla rovescia (pe-ricolosa almeno quanto il clericalismopropriamente detto) che fu il giu-risdizionalismo e che in inghilterra sichiamò appunto enricismo e che ebbemanifestazioni di intolleranza gravissimenella persecuzione dei cattolici, iniziataproprio in inghilterra e condotta poi inmodo particolarmente duro anche con-tro protestanti dissenzienti come i puri-tani. (…) e come spesso accade ai gran-di testimoni della libertà e della fede, eglicadde vittima non delle leggi madell’abuso di esse. Non sulla base dileggi, per quanto inique o discutibili, eglifu condannato, ma sulla base del tradi-

mento di un suo collaboratore cheprestò contro di lui falsa testimonianza.”e’ forte nel cattolico Cossiga la

rivendicazione di laicità. “il laico ha unasua vocazione specifica. (...) il laico è ilsacerdote del tempo, è il sacerdote dellastoria, è il sacerdote della comunitàtemporale. La vocazione specifica dellaico è quella del sacerdozio delle cosedel tempo (...) nella ricerca, nella tecnicae poi, aggiungo, nella politica, che è l'es-pressione temporale della virtù della giu-stizia e della carità. o la politica viene con-siderata infatti una proiezione temporaledella carità, cioè del servizio altissimo aglialtri, o la politica non può assolutamenteconsiderarsi una vocazione per il cristiano.”ecco dunque che il primato della co-

scienza e la laicità non sono tra loro incontraddizione. More è per Cossiga unmodello di testimone e di martire validonon solo per i credenti, ma anche per inon credenti, in quanto martire consa-pevole “in nome della libertà della co-scienza di fronte a un potere che volevaimporsi come libertà”, e quindi “testimo-ne e martire del primato della coscienza sianella religione che nella politica”.postulando l’esistenza di imperativi

morali attingibili sia secondo la fede eche secondo la ragione, due tipi di cono-scenza che “non sono due verità” ma“due approcci per conoscere le regolemorali”, Cossiga esprime il convinci-mento che il politico “democratico” nonpuò non accogliere il carattere vinco-lante del nesso tra etica e politica, edinoltre non può disconoscere il carat-tere sostanziale, non puramente tecnico,della democrazia, che non può dunqueessere ridotta a pura forma della rappre-sentanza o a mera procedura per ladeterminazione delle élites di governo.Dal carattere sostanziale della democrazia

rappresentativa discende l’esigenza di unapolitica che “si rivolge a tutti gli uomini”, edunque “è bene che i cattolici tengano contodei diversi tipi di libertà che questa vuoleassicurare”. L’autentica laicità dei cattolici inpolitica non si traduce, in definitiva, nel“rendere “laica” la propria fede”, ma nelrispetto della libertà di tutti e di ciascuno.

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Luca Paulesu, Nino mi chiamo.Fantabiografia del piccolo A ntonioGramsci, Feltrinelli, Milano 2012

il Libro di Luca paulesu non è soltanto “unasingolare biografia a vignette” di Nino,Gramsci da ragazzo, come avverte la terza dicopertina. e’ vero che l’autore ricostruiscel’infanzia, e anche l’identità, dell’avo che nonha conosciuto, perché nato circa trent’annidopo la sua morte. ed è anche vero che perquesta via ci riconduce a tratti al pensiero e allavita del Gramsci più noto, ormai maturo,antonio.Ma c’è un aspetto, questo sì, davvero

singolare, nel libro di paulesu. per scoprirlodobbiamo addentrarci in modo nonfrettoloso nella sua prefazione al libro, chenon ci appare come una mera declaratoriadegli intenti perseguiti e dei percorsi scelti. inverità, le partizioni interne all’opera, costruitesu un canone binario: testo-vignette – epersino note di corredo, si badi non al testo,ma alle vignette – non si comprendono afondo se non si esplora il senso e la portatadella prefazione, che a mio avviso rappresentanon solo l’introduzione o l’invito alla lettura,ma il cuore narrativo del libro.L’origine del libro risiede infatti nella

biblioteca di famiglia. Con uno stilescorrevole, paulesu rievoca - talvolta contenerezza – i libri di Nino, e poi quelli diantonio. Le sue preferenze, le sue scelte dilettura, non solo quelle politiche ma anche,non meno rivelatrici, quelle letterarie. Lapreoccupazione costante del periodico inviodi libri alla casa di Ghilarza. Le dediche, e lestorie e i rapporti umani che esse narrano. Lostato di usura dei volumi, segno evidente delgradimento che essi ebbero nel corso dellegenerazioni. i timbri degli istituti di reclusione.

il numero di matricola del detenuto Gramsci,7047, stampigliato tra le prime pagine. Le notea margine, le chiose e perfino le sottolineatureriscoperte da paulesu e dagli altri membri dellafamiglia nel corso del tempo. e ancora,attraverso la sua antica frequentazione dellelettere e dei documenti di casa Gramsci, irapporti familiari che si rivelavano nelloscambio di libri. La corrispondenza tra libri,fotografie e memorie di famiglia. il ruolo deifamiliari e degli amici nel favorire lacostituzione della biblioteca, come nel casodella cognata tania schucht, alla qualeantonio scrive in carcere nel 1928 perrichiedere esplicitamente il V e il Vi volume diGuerra e pace; o dell’amico piero sraffa che gliapre un credito illimitato presso la libreriasperling & Kupfer di Milano.e poi, la ricchezza e l’ampiezza dei suoi

interessi, frammisti ormai a quelli dei suoifamiliari: dal tolstoi che Nino tanto amava(capace di suscitare “torrenti di emozioni”) aGide, da Maupassant a proust, da Dickens abacchelli, a Jerome. La scoperta de il primatodello spirituale di Jacques Maritain. e quindi,superato il confine formale della prima filadelle librerie, lo stupore nel rinvenire unavarietà di indirizzi e filoni estremamenteampia, da Grazia Deledda (la preferita diteresina, la sorella di Nino, che invece non laamava - a pearl s. buck, a simone de beauvoir,a ernest Hemingway, ma anche a Cassola,Remarque, Morante, Musil, Joyce, Wilde. unabiblioteca che rappresenta la sedimentazione ela stratificazione della biblioteca di Gramscicon le rivisitazioni dei suoi cari, le lororiscoperte, le loro preferenze. Non è un caso che “il ricordo più nitido” che

paulesu conserva della nonna teresina èquello “di lei che, seduta nella poltrona di pelledel soggiorno, all’arrivo dei nipoti, chiude unromanzo e lo appoggia in grembo”. La straordinaria dimensione intellettuale di

Gramsci incombe sulla scena, e la suaimpronta segna le generazioni non solo fuoridelle mura familiari, nel mondo, ma anche –inevitabilmente – dentro le mura, nel vissutodei suoi cari. Quasi un’eredità, un compito chenon può essere disatteso.Luca paulesu matura così il suo proposito

narrativo, in quelle mura, sedendosi al tavolodove antonio disegnava, riproducendo “con

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l’immaginazione la disposizione esatta deltavolo in quello spazio”. un’eredità, quasi unapredestinazione.La biblioteca finisce per giganteggiare,

diventa “la casa”. Questo è il destinoricorrente della biblioteca, icona del sapere eancor di più del desiderio umano di trovare –per il tramite della conoscenza – le chiavi diaccesso a una vita più umana, a un ordine piùrazionale perché più a misura d’uomo. per ilpiù grande intellettuale politico italiano delNovecento, la costruzione di un “nuovoordine” era un affare molto serio, un compitoimprescindibile tanto del singolo quanto dellacollettività. L’importanza che Gramsciattribuiva alla cultura, allo studio sonodirimenti. “istruitevi, perché avremo bisognodi tutta la nostra intelligenza” è il mottoriportato proprio sulla testata de l'ordineNuovo nel 1919. e d’altronde la biblioteca, come l’utopia, è un

non-luogo, un archetipo. evoca un ordine,anzi l’ordine. Come intuiva borges, nella suabiblioteca di babele, la biblioteca è immaginee rappresentazione del cosmo (“non può cheessere l’opera di un dio”) e allo stesso tempomanifestazione della speranza che il disordineapparente della realtà riveli un ordineinsospettato (“l’ordine”). “Questa elegantesperanza” conclude borges “rallegra la miasolitudine”.L’ordine generale, esterno, finisce

inevitabilmente per intrecciarsi con quellointerno. Lo chiarisce Gramsci, e lo sottolineapaulesu quando - nella nota di commento aduna sua vignetta che scaturisce dalla notaconsiderazione di Feuerbach secondo il quale“l’uomo è quello che mangia” – riporta unariflessione di Gramsci per il quale., allo stessomodo, “l’uomo è il suo appartamento”,contesto primario nel quale “si manifesta ilcomplesso dei rapporti sociali”. e dunque -aggiungo - per le stesse ragioni, l’uomo è la suabiblioteca.paulesu, nel suo libro per immagini, ritrae

antonio Gramsci così come lo riscopre traletture e racconti, ed effettivamente mette afuoco il suo attaccamento allo studio comeriscatto dalla povertà, dalla figura deludentedel padre, dalla salute precaria,dall’emarginazione di classe.

e mette a fuoco anche il Gramsci pubblico,i suoi rapporti con amici e avversari. Ladistanza di togliatti, ritratto come l’ “amicoimmaginario”, suo compagno di studi alCollegio Carlo alberto di torino, insieme conangelo tasca, che lo inizierà alla passionepolitica. La distanza da Croce, Gentile,D’annunzio. La polemica contro gliindifferenti, perché per Gramsci non si puòsapere senza comprendere, e non si puòcomprendere senza passione civile, senzapartecipazione al destino comune.Ma la dimensione dominante del libro è la

sfera privata. e’ l’attenzione posta allaeducazione e alla crescita intellettuale dei piùpiccoli della sua famiglia, come nel caso di unadelle rare rimostranze nei confronti deldirettore del carcere di turi avverso leperiodiche requisizioni di volumi inviati allafamiglia, perchè era stato impedito l’invio diun libro per bambini, il fantasma diCanterville e il delitto di lord arthur Sevile dioscar Wilde.e’ soprattutto la formazione, nella

sedimentazione degli studi e delle letture, nellacostruzione della sua biblioteca, di unpeculiare umanesimo. La sua biblioteca rivelache il Gramsci privato aspira, come quellopubblico, all’universale. e lui, Nino, ritratto sempre solo, piccolo,

spesso triste, talvolta inerme. Nino cheprefigura quell’eroe tragico che sarà antonio,la vittima consapevole della sua coerenzaideale. Nino di fronte all’enormità deiproblemi del mondo. Ma in questo, ad onordel vero, la sua condizione di solitudine èanche, anzi a maggior ragione, la nostra.

Antonio Casu

Alberto Quadrio Curzio - ClaudiaRotondi, Un economista eclettico.Distribuzione, tecnologia e svilupponel pensiero di Nino A ndreatta, IlMulino 2013

“L’evocazione degli scalpellini medioevali,che mi viene in mente soprattutto in questigiorni di protagonisti vocianti che cercanol’immediato consenso, i riflettori su qualcosa

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di effimero e che lasciano il campo a un nuovoeffimero qualche ora dopo. Mentre gliscalpellini medioevali facevano perfettamenteanche quelle guglie che non davano sullafacciata e che soltanto i piccioni e Diopotevano vedere. un immagine che sta aricordare la necessità di fare bene le cose nonper un titolo di giornale o per l’apertura ditelegiornale, ma perché è giusto farle bene”.Nel presentare alla Camera dei deputati ilvolume “un economista eclettico -Distribuzione, tecnologie e sviluppo nelpensiero di Nino andreatta” di albertoQuadrio Curzio e Claudia Rotondi, ilpresidente del Consiglio enrico Letta ricorre aun concetto che al professor andreattapiaceva molto: ossia, “fare le cose perché sidevono fare e non per dare un risultatoimmediato”. un concetto - aggiunge Letta –gradito anche al presidente della RepubblicaGiorgio Napolitano, che non è volutomancare alla presentazione del saggio.

“alieno all’ostentazione”, è in fondo il trattomarcante della personalità di Nino andreatta,che al contrario di tanti poteva invece vantarecontatti ed amicizie di primissimo piano,come nel campo economico con i premiNobel Franco Modigliani e amartya sen. eproprio per strappare il velo di modestia ediscrezione – confessa Letta che di andreattaè stato l’allievo preferito – nasce l’idea delvolume curato da alberto Quadrio Curzio eClaudia Rotondi.“Fin dagli esordi della sua produzione

scientifica, a metà degli anni Cinquanta, Ninoandreatta dimostra un interesse rilevante per iproblemi relativi alla distribuzione del reddito,della crescita economica e allo sviluppo”.Concetti – scrivono gli autori – “che siritrovano anche nella sua azione politica e di

governo come progettista di un interventopubblico flessibile, ma non certo casuale, chepuò facilitare e orientare l’agire degli operatoridel mercato, sia soddisfare quei bisogni socialiche il mercato da solo non si rivela in grado diconseguire”. Ma un tratto caratteristico della personalità di

andreatta è il suo eclettismo. a parte gli studie la produzione scientifica, attraverso libri epubblicazioni, andreatta ha ricoperto carichedi primo piano anche nell’attività politica:incarichi di partito, deputato, senatore e piùvolte ministro. scrive su “La Repubblica” del27 marzo 2007, edmondo berselliall’indomani della morte di andreatta, giuntadopo sette anni di coma: “adesso unaformula sbrigativa potrebbe illustrarlo come ilvero padre del partito democratico. Nonsignificherebbe nulla se non si avesse in mentela volontà feroce con cui aveva cercato diopporsi al tramonto della Dc e dei popolari, ilsostegno scettico a Mino Martinazzoli,l’impegno da naufraghi nel patto per l’italiacon Mario segni. soltanto dopo che lanavicella dei centristi si era arenata, con i suoisei milioni di voti, sull’ultima spiaggia alleelezioni del 1994, aveva compiuto la suascelta… Convinto che una traccia della Dc diDe Gasperi, cattolica, liberale e soprattuttosobria, dovesse essere l’eredità degli ultimiprofughi della sinistra democristiana. e cheuna scia della moralità comunista potesseindurre tutta la sinistra, a fare i conti con lasfida, così difficile, dell’uguaglianza in unasocietà diseguale. in quegli anni, parlare delpartito democratico era una fantasiaintellettuale. Forse, il pregio maggiore diandreatta è consistito nel pensare che nullafosse reale come la fantasia”.

Augusto Cantelmi

Giovanni Russo, Nella terra estrema.Repor tage sul la Calabr ia,Rubbettino 2013

Giovanni Russo, grazie al talento originaleche l’ha sempre contraddistinto, offre uninteressante reportage sulla Calabria, “terraestrema”. una cultura “meridionalista” eliberale ha caratterizzato il suo lungo percorso

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che abbiamo sempre seguito con interesse,perché egli è uno scrittore che unisce ad unaformazione di alto valore culturale una intimapassione che si avverte anche questa volta,nelle belle pagine di un libro arguto edilettevole.È una raccolta di scritti che si apre con un

saggio intenso di Vito teti che rievoca alcuniaspetti salienti della sua attività di scrittore,iniziando da quando scrisse Corrado alvaro acominciare da itinerario italiano del 1933 sinoa una serie di successivi testi, anche inriferimento a Carlo Levi e poi con il famosolibro baroni e contadini. ed osserva come ineffetti sia per l’emigrazione dei meridionali alNord – il “grosso esodo contadino”, come lochiamò – che per tratti successivi chetenevano conto delle forme di“modernizzazione forzata e distorta” impostaa quelle terre, chiariva che nel Mezzogiornoera stata realizzata “una industrializzazionesenza sviluppo e addirittura falsa”.

proprio sulle prospettive per l’avvenire diquella regione, e dell’intero sud, Russo hacercato di inquadrare le sue acuteosservazioni, in svariati approfondimenti dal“paese solitario” (1949) alla “gerarchia dellatifondo” (1960). ed è nei “primi incontri inCalabria” che lo scrittore meglio colpisce conla rude eppur leggera rappresentazione dipersone, tipizzate nelle singole diversità edumanità, dal barone al parroco (1950). LaCalabria – precisa in un altro articolo (1964) –è il problema più grave della Nazione.È dalla prima legge di riforma agraria egli

vede le concrete realizzazioni per la crescita diquelle popolazioni, insieme alla lotta contro ilbrigantaggio in un susseguirsi di analisi e dicritiche come per “l’illusione all’in-

dustrializzazione” (1964) sino alla “faida per ilcapoluogo”, eventi che segnano la fine dellaciviltà contadina (non senza analogie – si puòosservare – con pasolini pur nelle diffe-renziazioni di terre a condizioni diverse. edancora “un messaggio di speranza e diamore”, pur quando quelle speranze venivanomeno. e cedendo la parola alla Reggio ribelle(1970) c’è una continuità di spiegazionilogiche sino alla descrizione di una vera epropria “autoproduzione della rivolta” chetanti presunti intellettuali e politici nonseppero comprendere al verificarsi di scontriinattesi e di barricate (1968) sino alla marciadei trentamila calabresi a Roma (1958).L’insieme di questi scritti costituisce un coltocondensato di studi veri e propri per farcomprendere “le radici della nuova mafia”(1988) per poi tornare nuovamente ad alvaro(1992). i gesti, i ragionamenti, la timidezza,persino i silenzi, si ritrovano infatti in alvaromentre Milano diventava la “capitale della‘ndrangheta.Quindi una lettura, o meglio una rilettura,

che, nel riportarci indietro in eventi, sciagure edelusioni, conferma pienamente le genialiintuizioni di Giovannino, il suo equilibriostraordinario nel valutare fatti e personaggimentre gli anni passano ed egli conferma epotenzia le sue qualità, il suo spirito diosservazione, il suo arguto argomentare. È unlibro che non riguarda solo i calabresi, maquanti hanno a cuore le storie dell’intero paeseattraverso il richiamo ad epoche e momentinon trascorsi invano.

Carlo Vallauri

Filomena Gargiulo, V entotene, isoladi confino - Confinati politici eisolani sotto le leggi speciali, 1 926-1 943, Edizioni L'ultima spiaggia 2009

se oggi chiedessimo a un giovane cosa siaVentotene, probabilmente ci risponderebbeche è una città turistica (sempre che l'abbia maisentita nominare e che abbia un minimo dinozioni di geografia). sì, certo, è un'isoladell'italia centrale, ed anche da circa centomilioni di anni. pochi di quei giovani, però,saprebbero rispondere che cosa Ventotene

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abbia rappresentato, soprattutto durante ilventennio fascista, per la società italiana (edeuropea) moderna.una risposta precisa, puntuale, la fornisce

Filomena Gargiulo nel suo libro Ventotene,isola di confino, con il quale racconta (sì,"racconta", questo è uno dei suoi pregiprincipali) e spiega come e perché quell'isolaspoglia, quasi uno scoglio in mezzo alMediterraneo, sia divenuta così tristementeconosciuta alle nostre più recenti generazionipassate.Nell'antichità, divenuta colonia romana, vi

furono inviate in esilio, per diverse ragioni,molte donne come, per esempio, Giulia, figliadell'imperatore augusto; agrippina maggio-re, madre di Caligola e nonna di Nerone;Giulia Livilla, sorella di Caligola. ancora oggivi si possono vedere i resti di Villa Giulia apunta eolo. poi, parecchi secoli dopo,Ferdinando iV di borbone ordinò lacostruzione di un carcere a santo stefano, unisolotto poco distante da Ventotene:inaugurato nel 1795, divenne Carcere di statoper ergastolani durante il Regno d'italia e poifu soppresso nel 1965 per le inumane (ancheper degli ergastolani) condizioni in cui ci siviveva.inizialmente luogo di confino per detenuti

comuni, Ventotene divenne, fra gli anni 1926e 1943, un posto dove tenere lontani e rendereinoffensivi (almeno così credevano...) glioppositori del regime fascista. Ma non erasolo una questione strettamente politica: vi simandavano, per esempio, anche i testimoni diGeova, praticamente lì si raccoglievano quelliche erano considerati "scomodi" ma che nonavevano commesso reati tali da poterlimandare in un carcere vero e proprio. si puòben comprendere, quindi, come centinaia dipersone possano essere state mandate aVentotene, come anche in altri luoghisufficientemente isolati, per situazioni che nonavevano nulla a che fare con la politica o conl'antifascismo.Le ragioni per cui si poteva essere inviati al

confino erano le più svariate, ma anche le piùbizzarre. e non servivano processi o sentenze:bastava una soffiata, una lettera anonima. Chidecideva era una Commissione formata dalprefetto, che la convocava e le presiedeva, dalquestore, che fungeva contestualmente da

pubblico accusatore e da giudice, dalcomandante locale dei carabinieri e da quellodella milizia più un procuratore del re cheaveva il compito burocratico di accertare laregolarità della seduta: sostanzialmente ledecisioni venivano prese dai primi due. ilrischio di subire una tale punizione era, quindi,altissimo per chiunque. Gli avversari politicipiù "pericolosi" venivano controllati e spiati inogni momento, al punto che, in occasione diuna ricorrenza speciale (tipo il 1° maggio),bastava vestirsi in modo più elegante del solitoo mangiare un pasto particolare per essere, daun giorno all'altro, presi e mandati al confino,senza nemmeno un minimo di processo o dipreavviso. Filomena Gargiulo, ancheutilizzando le preziose testimonianze di alcunidei protagonisti e della popolazione locale, cidescrive come vivevano i confinati, ci mostra

fotografie del tempo ed altre fatte dopo lacaduta del fascismo e la fine della guerra,frutto di minuziose ricerche negli archivi.Veniamo così a conoscere la vita reale,quotidiana, di coloro che vi hanno passatotanti difficilissimi anni.Ventotene non era una prigione in senso

stretto, ma già le dimensioni di questo pezzodi terra di macchia mediterranea dannoun'idea di come si trascorrevano quei giorniinterminabili: una striscia lunga meno di trechilometri e larga circa 800 metri. e il nomestesso dell'isola fa comprendere come anche ilclima non fosse proprio salubre; e questo fudeterminante nel far diventare tale luogo unposto ove poter debilitare la resistenza fisica epsicologica degli avversari politici.Mentre i confinati cosiddetti 'comuni'

collaboravano all'economia del posto

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lavorando nei campi con un salario irrisoriopur di non stare senza fare nulla, quelli politicierano, in maggioranza, intellettuali chediscutevano fra loro di cultura e,inevitabilmente, di politica, di ciò che stavaaccadendo nell'italia di quel tempo.Ma il regime non valutò appropriatamente lo

"spirito" di tali avversari mandati al confino,ché erano spinti da ideali così prepotenti daessere difficili da combattere. D'altra parte aVentotene furono raccolti (basta dare unascorsa agli elenchi dei confinati) donne euomini particolarmente robusti da questopunto di vista: da alessandro pertini a CamillaRavera, da umberto terracini ad adele bei,pietro secchia, Giuseppe Di Vittorio, ernestoRossi, altiero spinelli, Luigi Longo, Giorgioamendola, Lelio basso, Mauro scoccimarro,Giuseppe Romita, Giovanni Roveda, Walteraudisio, Riccardo bauer, eugenio Curiel,ilario tabarri, pietro Grifone e tanti altri. tuttipersonaggi che hanno poi contribuito allafondazione della nostra Repubblica ed allaformazione della Costituzione dell'italiademocratica di oggi. e chissà quanti ancora visi sarebbero mandati se non fossero statiassassinati prima dai fascisti.in questo libro ci viene descritto tutto: i

cameroni (che oggi non esistono più) dovestavano i tavolacci per dormire, ladelimitazione con avvisi e filo spinato dellospazio dell'isola nel quale i confinati potevanomuoversi, le scarsissime condizioni igienichein cui erano costretti, la censura alla qualeveniva sottoposta la loro corrispondenza.anche i rapporti con la popolazione localedovevano essere limitati alle essenzialinecessità, tipo entrare in un negozio peracquistare qualcosa, senza soffermarsi aparlare d'altro. alcuni di essi venivanoaddirittura costantemente controllati e seguitia tre metri di distanza (fa sorridere il passaggioin cui viene raccontato come sandro pertini avolte allungava il passo costringendo il suocontrollore a corrergli dietro facendogli venireil fiatone). Le infrazioni alle regole venivanopunite con umiliazioni e vessazioni di ognitipo. sin dall'arrivo nell'isola (in catene l'unocon l'altro) venivano sequestrati i documentidi identità e sostituiti da una tessera che si eraobbligati a portare sempre con sé, penal'arresto ed il carcere duro: da subito veniva

applicata la tecnica della costrizione allaperdita della propria individualità.Nonostante qualcuno abbia detto (anche di

recente) che quegli avversari politici venivanomandati in villeggiatura al mare, il lavoro diFilomena Gargiulo ci dà l'esatta condizionedella vita alla quale erano costretti gli internati,che non era certo quella di vacanzieri!in realtà, riunendo coattivamente nella

colonia di confino "alcune personalità dialtissimo spessore culturale e morale", ilregime fascista "aveva inconsapevolmentetrasformato quell'isola prigione, inun’occasione speciale e irripetibile per la storiafutura del nostro paese".Con il sacrificio economico di ciascuno dei

confinati si riuscì a creare una biblioteca e aspendere circa cento lire al mese per l'acquistodi nuovi libri, usufruendo anche di particolarisconti concessi dagli editori. ogni giorno unacinquantina di confinati vi andavano aprendere nuovi libri per poi stimolare dibattiti,discussioni su quegli argomenti, riuscendo areagire "all'isolamento, alla perdita del lavoro,all'allontanamento dai propri affetti, allaperdita stessa dell'identità, dimostrandosivitali, adoperando il tempo che avevano adisposizione per approfondire, coalizzarsi,trasmettere idee, crescere culturalmente eumanamente”.Non è un caso, fra l'altro, che lì fu scritto il

Manifesto per un’europa libera e unita, ilcosiddetto Manifesto di Ventotene, inconcreto la base della futura unione europea,ad opera di altiero spinelli, ernesto Rossi edeugenio Colami. proprio per quest'operaoggi Ventotene è ben conosciuta in europa enel resto del mondo.Ma non era così per tutti, perché ognuno

contribuiva dando il meglio di sé. GiuseppeDi Vittorio, per esempio, era un contadinoautentico e lavorava la terra dalle cinque delmattino fino a sera e riforniva gratuitamente dilatte ed ortaggi freschi chiunque ne avessebisogno e con questo salvò parecchie vite frai confinati di Ventotene.alcuni appassionati di musica riuscirono a

formare persino una orchestrina con la qualepassavano il tempo; scopriamo così cheterracini era un appassionato violinista, altrisuonavano il mandolino ed anche molto bene,stando alle testimonianze raccolte (alcune, a

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tratti, molto divertenti: ernesto Rossi a voltesbottava perché non ne poteva più dei noiosiesercizi a cui si sottoponevano i 'musicisti').Questo è il tipo di storie che ci sono

raccontate nel godibilissimo libro dellaGargiulo, storie dalle quali, attraverso lasofferenza dei protagonisti, traspaiono lasemplicità, l'umanità, il coraggio e la ricchezzaintellettuale di uomini e donne che non hannovoluto cedere ai soprusi di un regime. eroi diun tempo appena passato il cui ricordo cilascia esempi sempre vividi e valori morali delcui sostegno tutti abbiamo - ancora oggi -bisogno.Ventotene isola di confino, scritto da una

maestra di scuola elementare, dovrebbeessere letto da tutti per evitare che, comequalcuno ha già detto, ignoranze pregressegettino il seme di ignoranze future.

Salvatore Nasti

Alberto Castelli (a cura di), Politics e ilnuovo socialismo per una criticaradicale del marxismo (Marietti 1820,Genova – Milano 2012)

a livello internazionale – e particolarmentenegli scambi tra esponenti culturali europei eanaloghi loro corrispondenti nord-americani– emerse, tra la fine degli anni ’30 e l’inizio dei’40, con ulteriori necessari approfondimentinell’immediato dopoguerra, una corrente dipensiero – espressa in vario modo in riviste,non di larga diffusione ma di singolareinteresse culturale e politico – chiaramentedelineata negli scritti di andrea Caffi (e diNicola Chiaromonte), nonché di paulGoodman, e Wight Mac Donald.Quest’ultimo è stato valido sostenitore di unsocialismo nettamente critico nei confrontidelle esperienze oppressive realizzate inunione sovietica, e nello stesso tempoproiettato all’impegno per la pienaaffermazione dell’individualità delle singolepersone nella molteplicità delle situazioni edegli ostacoli al pieno dispiegamento dei diritticivili e sociali. Hanno mostrato interesse alletesi esposte anche due scrittrici europee digrande impatto umano e culturale comesimona Weil e Hannah arendt. punto

culminante nella diffusione di tali idee fu inusa la rivista “politics”, il cui rilievo nelconfronto ideologico viene ora richiamato inuna diffusa ricostruzione a cura di albertoCastelli, politics e il nuovo socialismo per unacritica radicale del marxismo (Marietti 1820,Genova – Milano).e lo stesso curatore illustra nella prima parte,

“le nuove strade della politica”, il corso diquella corrente e segue lo sviluppo della rivista,pubblicata tra il 1944 ed il 1945, spiegandonecontenuti e significato anche in riferimentoalle posizioni “ribelli” di intellettuali comealbert Camus e, in seguito, quello che saràprimo presidente della Cecoslovacchia libera,Vaclav Havel.e le opinioni espresse riconducevano anche

a precedenti come la pubblicazione delCommunist party di New York partisanReview, fondata nel 1934: viene quindisottolineato tra l’altro il ruolo che proprio inquegli anni svolsero i seguaci e ammiratori ditrotskij nel periodo del suo esilio americano.esponenti di questi gruppi denunciavanosoprattutto le perniciose conseguenze sia delcollettivismo burocratico messo in atto nelpaese dei soviet sia il pericolo costituito dalpossibile conflitto tra le grandi potenze, nellapersuasione che comunque la guerra era dacondannare e quindi erano necessarie sceltepolitiche dirette a prevenirne l’eventualità.tra i collaboratori principali di politics

troviamo andrea Caffi (autore in quel periododi un saggio sui rapporti tra masse e politica,paul Goodman (che dal 1942 aveva assuntonegli usa una posizione anarchica epacifista), simone Weil, che nel ’33 avevadenunciato il rapido ampliamento delle spinte“nazionaliste” sempre più forti in europa,prima di scrivere il suo straordinario saggiosociologico sulla condizione operaia. e sarà inprima linea Mac Donald a manifestare le sueidee dal 1945 nella rubrica “le nuove stradedella politica”, di cui il volume riporta ampiestratti. Vista da oltre oceano, l’europaappariva trascinarsi tra contraddizioni di istanzerivoluzionarie e aperte adesioni a istituzionistatali accentratrici e negatrici delle libertà.Contro lo “stato totale” la critica è serrata,

come documentate sono pagine riportate nellibro che oggi impressionano per la chiarezzadelle analisi nel denunciare “la grande

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menzogna” dell’enigma russo, come vennedefinita la terribile esperienza stalinista. econtro l’accettazione di quanto avvenuto inurss vengono indicati e sostenuti argomenti erelative dimostrazioni dei pesantissimi sacrificiimposti alle popolazioni in nome di unmodello che appariva rivolto prevalentementealla distruzione dei valori umani. a questeposizioni venivano contrapposte le idee giànote di tolstoj, e poi quelle più recentidell’Harendt.Di Caffi (ci permettiamo qui rinviare al

nostro saggio sullo scrittore pubblicato nel“Dizionario biografico della treccani) vieneriportato il saggio sull’esigenza di garantire lapiena autonomia del “popolo europeo”, oltrealla conclusione tratta dell’esperienza bellica,con l’indicazione di un “programma

socialista”, critico nei confronti degli erroricommessi dalle sinistre in nome di pressantivalori nazionalisti, e invece tenace assertoredelle prospettive di cui si auspical’affermazione su ”scala mondiale”. un rilievoampio e preciso è dedicato nel libro a paulGoodman e alle sue valutazioni sullo sviluppoeconomico, e la crisi delle democrazie. Lanecessità di “essere radicali” nelle sceltepolitiche, significa affrontare i problemi alleradici, secondo la tradizione americanaassunta da Mac Donald a base della“rivoluzione” da effettuare, superando gli“errori” e le “deviazioni” del pensieromarxista che, come il miraggio dellarivoluzione proletaria, stava conducendo adorganizzazioni statali prive di ogni garanziaper la libertà e i diritti dell’uomo, in nome di un

progresso vanamente perseguito e risoltosinell’opposta regressione civile. La possibilità direalizzazione degli ideali socialisti conduceva arichiamare il principio che “la radice èl’uomo”, titolo di un suo saggio, pieno diconsiderazioni sulla guerra mondiale, la lottadi classe, l’inganno del proletariato da parte dicomunisti russi, come l’inviolabilità dellepersone umane non assicurate da parte deglistati assolutisti o sedicenti democratici. La lettura di questo libro appare una delle più

chiare e antiveggenti prese di posizione indifesa di un rinnovamento del socialismo nonviolento. pagine certamente tuttora valide eammonitrici, anche se non si può nonosservare come nelle posizioni sopra descrittesi rintraccia quell’eccesso di speranza utopicache spingerà a sottovalutare il significato dellepolitiche riformatrici realizzate nell’inghilterralaburista come nelle altre esperienze europeedel Welfare.

Carlo Vallauri

Carmelo Lentino e Roberto Messina, Perl’Italia. Interviste sulla gioventù.Idee e progetti per un ricambiogenerazionale (Rubbettino Editore,Soveria Mannelli 2012)

in italia sembra che nessuno pensi alfuturo, come se non fosse competenzadi coloro che oggi sono adolescenti egiovani. Quando si parla di cambio gene-

razionale si cercano quei giovani già“vecchi dentro” perché “pensano” comechi ha il potere, come per perpetuarloall’infinito, sempre uguale.Non c’è fiducia nel nuovo, nel diverso,

nel “mai accaduto prima”. si vedesempre il futuro come una naturaleevoluzione del vecchio. al contrario, lecose che cambiano nella nostra vita sonotalmente tante che, messe insieme esoprattutto con l’accelerazione semprepiù prepotente dell’era tecnologica,provocano non una evoluzione bensìuna trasformazione, spesso radicale, dinecessità e di comportamenti.ovviamente, e come sempre è

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accaduto ovunque e da che mondo èmondo, sono i giovani a pensare ad unasocietà diversa, innovativa, più pratica eveloce.Nella sua prefazione antonio Catricalà

lamenta che i giovani non hanno voce,non partecipano alle scelte economichee politiche dell’italia. se è così, comeeffettivamente è, perché allora icosiddetti “vecchi” non si preoccupanoabbastanza di loro? Qualcuno dovrà purassumersene la responsabilità. Chidetiene il potere dovrebbe possederesaggezza e duttilità di pensiero, pensarenon soltanto al proprio futuro ma anche– e soprattutto – di quelli che sonogiovani oggi e che domani dovrannoprogettare quello delle successivegenerazioni. possono apparireconsiderazione ovvie, ma – a pensarcibene – non lo sono.

Dalle tante interviste pubblicate inquesto interessante libro ne escono fuoriparole a volte vuote, a volte ottimistiche,a volte anche “belle”. sono promesse? esaranno mantenute? i comportamenticoncreti dei politici, dei sindacalisti, degliimprenditori ci daranno una risposta.Domani o dopodomani, o forse mai. ilpresidente Napolitano richiama (e, per laverità, lo ha spesso fatto) coloro chehanno il potere di prendere decisioni anon far ricadere le proprie colpe suigiovani, ma ciò potrà accadere solo

quando essi riusciranno a spogliarsi dellescaglie di egoismo di cui spesso sonoricoperti. a titolo esemplificativoricordo che alcune popolazioni di indiosutilizzano le scaglie di certi pesci comepunte per le proprie frecce.parlavamo di responsabilità del

distacco fra vecchie e nuove generazioni.in parte è un fenomeno naturale che c’èsempre stato; ma in questi tempi ladistanza fra vecchi e giovani è aumentataconsiderevolmente, per un verso a causadella maggiore longevità e per l’altro peruna maggiore precocità del genereumano. La tecnologia rende più rapidi itempi della vita, ma nel senso che lenovità si consumano sempre piùvelocemente, i pensieri corrono, sal-tando a pie’ pari considerazioni cheormai si danno per scontate; sempre piùspesso vediamo giovani e giovanissimiinventare “apps”, softwares che si sosti-tuiscono ai ragionamenti umani. edall’altra parte vi sono persone che conl’andare del tempo mantengono intattele capacità di ragionamento e di azione.Ma il problema è più grande: viviamo inun mondo globalizzato ove regnaincontrastato il “mercato”, siamo gover-nati dal “regime del mercato”, quandoinvece dovremmo essere noi a “gover-nare il mercato”. Giovani senza lavoro -e soprattutto con scarsa cultura e cheservono solo a “consumare” - sono ilprezzo che i tanti “vecchi” pagano permantenere il potere dei pochi “vecchi”che governano il nostro paese. sarebbemolto utile, al riguardo, informarsi suidiscorsi fatti all’oNu dal presidentedell’uruguay José Mujica, detto “ilpresidente povero”.Per l’italia è un libro che aiuta a farsi

un’idea più precisa dell’italia di ieri, dioggi e di domani (e così via).

(essere giovani e non essere rivoluzionari e'una contraddizione, prima che politica,biologica. - salvador allende)

Salvatore Nasti

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il volume comprende gli atti del Convegno su “la formazione dello Stato unitario”tenutosi a Palazzo Montecitorio il 6 giugno 2011 nell’ambito delle Celebrazioni del 150°anniversario dell’Unità d’italia. Gli interventi sono stati integrati da altri svolti inoccasione di incontri realizzati a tagliacozzo il 18 marzo 2012 e presso la Biblioteca dellaCamera dei deputati il 12 e 19 marzo 2012 sul tema “in difesa del risorgimento”nell’ambito del Progetto della Fondazione Giacomo Matteotti - onlus su “Pensiero politicoe letteratura del risorgimento”. in appendice sono riportati gli interventi che le più alteautorità dello Stato hanno pronunciato in occasione della cerimonia celebrativa dell’Unitàd’italia che ha avuto luogo nell’aula di Palazzo Montecitorio il 17 marzo 2011. ilvolume comprende gli interventi di ester Capuzzo, antonio Casu, Carlo Ghisalberti,Guido Melis, Giulio Napolitano, Guido Pescosolido, angelo G. Sabatini, FrancoSalvatori, rosario Villari.

Il volume comprende gli Atti del Convegno tenutosi in due parti, il 29 novembre 2011 pres-so l’Aula Moscati della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma“Tor Vergata” sulla letteratura, ed il 16 dicembre 2012 presso la Sala del Mappamondodella Camera dei Deputati a Palazzo Montecitorio sul pensiero politico, nell’ambito delProgetto “Pensiero politico e letteratura del Risorgimento” della Fondazione GiacomoMatteotti - Onlus in occasione delle Celebrazioni del 150° anniversario dell’Unitàd’Italia. Nelle rispettive Appendici si è ritenuto utile inserire due interventi in arricchi-mento e in sintonia con i temi del Convegno. Il volume coprende gli interventi di EmilioBaccarini, Giuseppe Cantarano, Rino L. Caputo, Fabiana Candiloro, Fulvio Conti,Girolamo Cotroneo, Giovanni Dessì, Angelo Fàvaro, Marina Formica, Andrea Gareffi,Carlo Ghisalberti, Nicola Longo, Elisabetta Marino, Giuseppe Monsagrati, PamelaParenti, Guido Pescosolido, Fabio Pierangeli, Giorgio Rebuffa, Angelo G. Sabatini,Marcello Teodonio, Fulvio Tessitore, Lucio Villari.