TEMPO, MEMORIA E STORIA Il contributo dell’ermeneutica ... E FILOSOFIA/GADAME… · Il contributo...

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Sandro Ciurlia TEMPO, MEMORIA E STORIA Il contributo dell’ermeneutica filosofica di Gadamer per una concezione teoretico-politica della tradizione * 1. Il posto dell’ermeneutica nel panorama filosofico contempo- raneo Se si offre un sia pur rapido sguardo all’orizzonte della ricerca fi- losofica contemporanea si ha come l’impressione di stare visitando una lunga corsia clinica in cui trascorrono la loro degenza numero- si autorevoli malati: le grandi filosofie della storia sono attaccate ad un respiratore artificiale e più di qualcuno propone di staccare definitivamente le macchine; l’epistemologia è tenuta sotto sedativi per evitarne i frequenti e magniloquenti monologhi intorno a tema- tiche scientifiche di cui, spesso, fatica a cogliere la complessità e persino i linguaggi; della pretesa della filosofia di accreditarsi co- me disciplina al vertice del sistema delle scienze particolari, dispo- sta a «mettere bocca» in tutto 1 , il bollettino medico parla ormai di * Il saggio riprende il testo della conferenza da me tenuta il 31 maggio 2004 nell’ambito del secondo ciclo dei Seminari di filosofia (Memoria, cultura e storia), organizzati dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Trepuzzi (Lecce) in collaborazione con l’Università degli Studi di Lecce. Nel rivederne i passaggi, ho preferito lasciarne inalterata la fisionomia e lo stile, integrando soltanto l’apparato delle note e dei rimandi bibliogra- fici. 1 L’espressione virgolettata è di B. CROCE ed è inserita nel contesto della feroce critica alla figura del filosofo tutto speculativo, lontano dalla con- cretezza dei fatti della storia e troppo di sovente incline ad esprimere mo- ralistici giudizi sulle cose. Un simile «purus philosophus» altro non sa- rebbe che un «purus asinus». Secondo Croce, il filosofo attento a conside- rare la complessità delle dinamiche storiche non deve «mettere bocca […]

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Sandro Ciurlia

TEMPO, MEMORIA E STORIA

Il contributo dell’ermeneutica filosofica di Gadamer per una concezione teoretico-politica della tradizione*

1. Il posto dell’ermeneutica nel panorama filosofico contempo-raneo

Se si offre un sia pur rapido sguardo all’orizzonte della ricerca fi-losofica contemporanea si ha come l’impressione di stare visitando una lunga corsia clinica in cui trascorrono la loro degenza numero-si autorevoli malati: le grandi filosofie della storia sono attaccate ad un respiratore artificiale e più di qualcuno propone di staccare definitivamente le macchine; l’epistemologia è tenuta sotto sedativi per evitarne i frequenti e magniloquenti monologhi intorno a tema-tiche scientifiche di cui, spesso, fatica a cogliere la complessità e persino i linguaggi; della pretesa della filosofia di accreditarsi co-me disciplina al vertice del sistema delle scienze particolari, dispo-sta a «mettere bocca» in tutto1, il bollettino medico parla ormai di * Il saggio riprende il testo della conferenza da me tenuta il 31 maggio 2004 nell’ambito del secondo ciclo dei Seminari di filosofia (Memoria, cultura e storia), organizzati dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Trepuzzi (Lecce) in collaborazione con l’Università degli Studi di Lecce. Nel rivederne i passaggi, ho preferito lasciarne inalterata la fisionomia e lo stile, integrando soltanto l’apparato delle note e dei rimandi bibliogra-fici. 1 L’espressione virgolettata è di B. CROCE ed è inserita nel contesto della feroce critica alla figura del filosofo tutto speculativo, lontano dalla con-cretezza dei fatti della storia e troppo di sovente incline ad esprimere mo-ralistici giudizi sulle cose. Un simile «purus philosophus» altro non sa-rebbe che un «purus asinus». Secondo Croce, il filosofo attento a conside-rare la complessità delle dinamiche storiche non deve «mettere bocca […]

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morte clinica; per quel che riguarda la metafisica, molti indirizzi filosofici ne hanno ormai celebrato le esequie, sebbene tra solenni e non poi tanto malinconiche cerimonie.

Ripercorrendo la detta corsia a ritroso e riguadagnato l’uscio, qualche domanda sorge spontanea: è rimasto qualcosa che possa definirsi in linea di continuità con quello che per millenni è stato considerato l’orizzonte della ricerca filosofica in senso stretto? In cosa consiste - ammesso che conservi ancora un senso - l’investigazione filosofica? Se nessuno risponde all’appello di que-sti quesiti, chi è il responsabile della condizione in cui versano tali illustri malati terminali? C’è, in agguato, un potenziale assassino?

Cessiamo d’indossare una divertita e scanzonata veste catastrofi-sta. Assumiamo un atteggiamento possibilista e vediamo cosa suc-cede. È inutile dire che il fronte delle opinioni su questo tema così decisivo e caratterizzante è ampio e variegato: c’è chi tira la giac-chetta di ciò che ritiene essere il corpo della ricerca filosofica verso l’orizzonte delle ‘scienze dure’, chi verso l’ambito delle scienze umane, chi verso il piano dell’intuizione artistica … e l’elenco po-trebbe continuare a lungo. Posizioni, alcune assai autorevoli, che valgono a problematizzare il quadro della questione, ma che tradi-scono una diffusa inquietudine di fondo, su cui ritorneremo. Colui che osserva questo stato di cose trae, tuttavia, un’impressione mol-to simile a quella di Boezio, intento a raffigurare la filosofia come una «donna» dalle vesti solenni, ma stracciate dagli strattoni vio-lenti di chi intende portarla a sé, possedendola integralmente2. in tutte le faccende che non conosce, [né mettere, n.d.r.] le mani in fac-cende politiche ed economiche, e oracoleggiare tra gl’incompetenti, che, del resto, mal lo sopportano» (Il «puro filosofo», in ID., Conversazioni critiche, serie quinta, Bari, Laterza, 1939, pp. 367-68: il saggio era già apparso su “La Critica” nel 1934). Da qui l’invito crociano ad armarsi di umiltà e di competenza, prima di pronunciarsi sulle più disparate «fac-cende» umane, e l’auspicio di liberarsi dai pregiudizi e dalle strumentaliz-zazioni. 2 Le parole di A.M.S. BOEZIO sono suggestive ed inconfondibili: «Men-tre nel silenzio andavo rimuginando tra me e me […], mi sembrò che so-pra il mio capo fosse apparsa una donna di aspetto venerando, dagli occhi sfolgoranti e penetranti oltre la comune capacità degli uomini. Il suo colo-

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L’impressione, dunque, non è molto diversa, anche se spesso si ha la triste sensazione di vedere solo i resti di un vestito lacerato, senza che nessuno lo indossi. Supponiamo, invece, che la boeziana proprietaria dell’abito ci sia, abbia vita e respiro: verso quali ri-chiami gira il suo volto? Usciamo dalla metafora: partendo dal pre-supposto che esista una pratica intellettuale che possa definirsi filo-sofica, quale fisionomia assume, quale carattere la determina? Tra tante incertezze e tra tante proposte, un dato s’impone: se c’è un termine che, in qualche modo, risponde alle domande suesposte e che mette d’accordo molti protagonisti del dibattito filosofico con-tinentale contemporaneo, superando scuole e indirizzi, questo è quello di ermeneutica. Interrogarci sul perché di ciò, studiando il senso dell’ermeneutica come indirizzo critico di pensiero, ed inda-gare sul contributo che il pensiero di Gadamer offre ad una teoria critica della tradizione saranno gli obiettivi verso cui tenderà que-sto saggio. In tal modo, otterremo dati che si configureranno come

rito era vivo ed integro il suo vigore, benché ella fosse tanto carica d’anni da non potersi credere in nessun modo appartenente al tempo nostro. La statura era di ambigua valutazione. Ora infatti si manteneva nei limiti del-la normale statura degli uomini, ora invece sembrava toccare il cielo con la sommità del capo: e quando levava la testa ancora più in alto, penetrava nel cielo stesso, rendendo vano lo sguardo di chi tentava di seguirlo con gli occhi. Le sue vesti erano intessute, con fine senso artistico, di fili sotti-lissimi d’una materia incorruttibile […]. La stessa veste appariva tuttavia lacerata da mani violente, che ne avevano portato via quanti brandelli a-vevano potuto. […]» (La consolazione della filosofia, con un’Introduzione di C. Mohrmann, a c. di O. Dallera, Milano, Rizzoli, 19915, p. 71). Responsabili di tale lacerazione sarebbero le scuole stoica ed epicurea: «[…] Dell’eredità socratica tentarono […] di impossessarsi in massa gli Epicurei, gli Stoici e tutti gli altri, arraffandola ciascuna per proprio conto; e benché io protestassi e resistessi – continua Domina Phi-losophia –, trascinarono via anche me, quasi fossi una loro preda, mi lace-rarono la veste che avevo tessuta con le mie mani e, staccatine dei bran-delli, se ne andarono, convinti, ciascuno, di avermi portata intera con sé. E poiché in costoro si scorgeva una qualche impronta del mio vestito, l’umana leggerezza, scambiandoli per miei discepoli, spinse sulla strada sbagliata parecchi di loro, con grave pregiudizio della moltitudine ignara» (Ivi, pp. 81-83).

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indirette risposte alle dette domande, che avranno il compito non di proporsi come soluzioni, ma di rilanciare quelle stesse domande, problematizzandole ulteriormente. Nel fare ciò, forse, emergerà qualche indicazione sul tema della tradizione e sui suoi significati teoretici ed etico-politici.

Procediamo con ordine. S’è appena sostenuto che molta parte della riflessione filosofica contemporanea s’identifica con l’indirizzo ermeneutico o ne trae utili spunti. Chiarire, anche se ra-pidamente, il significato dei termini forse è opportuno. Com’è no-to, il termine ‘ermeneutica’ traduce il sostantivo greco hermeneía, dotato di due accezioni: ‘interpretazione’, per l’appunto, ma anche ‘dichiarazione’, ‘spiegazione’, ‘traduzione’, ‘elocuzione’. Il termi-ne è tradotto in latino con interpretatio, sostantivo d’incerta etimo-logia. Oggi, quando utilizziamo il termine ‘ermeneutica’, ci rife-riamo fondamentalmente a tre suoi significati. Per un verso, si al-lude a processi esegetici concreti. Per altro verso, il termine può essere adoperato per indicare i principî che regolano l’attività in-terpretativa. Infine, esso individua e denota una certa area assai va-riegata della riflessione filosofica contemporanea, intesa a determi-nare le condizioni cui deve attenersi ogni possibile processo di comprensione. In questa linea di pensiero si raccolgono varie posi-zioni critiche: da Schleiermacher a Dilthey, dall’analitica esisten-ziale di Heidegger all’ontologia ermeneutica di Gadamer, dall’ermeneutica simbolica di Ricoeur all’ermeneutica personali-stica di Pareyson sino al decostruzionismo di Derrida, ciascun indi-rizzo con le rispettive varanti, legate a scuole o tradizioni di ricer-ca3. Ad accomunarli, c’è l’idea che l’ermeneutica si configuri come

3 Cfr. F. BIANCO, Introduzione all’ermeneutica, Roma-Bari, Laterza, 19992, pp. 3-10. La letteratura sull’ermeneutica è pressoché sterminata; per ora basta segnalare: S. COPPOLINO, Teoria dell'interpretazione e problema della storia in Hans-Georg Gadamer, Palermo, Herbita, 1979; A. DAL RE, L’ermeneutica di Gadamer e la filosofia pratica, Rimini, Maggioli, 1982; E. GARULLI, Itinerari di filosofia ermeneutica, Urbino, Quattro Venti, 1984; AA.VV., Hermeneutics: questions and prospects, ed. by G. Shapiro and A. Sica, Amherst, University Massachusetts Press, 1984; AA.VV., Interpretazione ed epistemologia. Atti del VII Colloquio sulla interpretazione (Macerata, 25-27 marzo 1985), a c. di G. Galli, To-

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una sorta di prospettiva metodologica. In sintesi, l’ermeneutica non è un sistema filosofico; è, piuttosto, un metodo, un atteggiamento critico. Partendo dal presupposto dell’«omogeneità della natura umana»4, l’ermeneutica diviene una modalità di mediazione tra presente e passato, anzi si accredita come una composita tecnica volta a garantire la realizzazione dei processi di trasmissione stori-ca. In questo senso, come scrive Vincenzo Vitiello, l’ermeneutica filosofica, tra l’altro, ha «fatto valere i diritti della narrazione»5.

Pensare all’ermeneutica come ad un metodo significa privilegiare un approccio ipotetico alle questioni, nella convinzione che le so-luzioni proposte si configurano come congetture valide fino a pro-va contraria. Un problema avviato a soluzione viene considerato come il frutto della combinazione di una serie di elementi che con-corrono a dominarne l’indice di complessità. Tale schema regge se, come suol dirsi, “tutto si tiene”, vale a dire se i passaggi dell’impianto di soluzione del problema stesso sono in grado di te-nere conto del sistema degli elementi che lo costituisce. La solu-zione di un problema, così, ne diviene una delle spiegazioni possi-bili, all’insegna dell’ipotesi cui ci si affida.

Tutto ciò fonda un atteggiamento critico caratteristico di quest’indirizzo di pensiero: si parte dai problemi, li si comprende,

rino, Marietti, 1986; D.C. HOY, Il circolo ermeneutico, Bologna, Il Muli-no, 1990; AA.VV., Filosofia ‘91, a c. di G. Vattimo, Roma-Bari, Laterza, 1992 (in particolare i saggi di Enrico Berti, Karl-Otto Apel, Gianni Vat-timo, Maurizio Ferraris, Hans Lipps); M. MOSCONE, Filosofia ermeneu-tica oggi, Roma, Studium, 1995; A. DE SIMONE, Dalla metafora alla storia: modelli ermeneutici, filosofia e scienze umane. Saggi su Ri-coeur, Gadamer e Habermas, Urbino, Quattro Venti, 1995; G. MURA, Erme-neutica e verità. Storia e problemi della filosofia dell'interpretazione, Roma, Città Nuova, 19972; G.L. BRUNS, Ermeneutica antica e moderna, Firenze, La Nuova Italia, 1998; W. KOGGE, Verstehen und Fremdheit in der philosophischen Hermeneutik: Heidegger und Gadamer, Hildesheim, Olms, 2001. 4 W. DILTHEY, Omogeneità della natura umana e individuazione, in ID., Per la fondazione delle scienze dello spirito, a c. di A. Marini, Mila-no, Angeli, 1985, pp. 463-72. 5 V. VITIELLO, Razionalità ermeneutica e topologia della storia, in AA.VV., Filosofia ‘91, cit., pp. 137-58: 138.

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li si spiega sulla base di un punto di vista assunto e, nell’ottica del perseguimento di certi risultati, si ritorna sul tavolo di lavoro, in un processo di verifica costante e di continuo aggiustamento del “tiro” delle ipotesi.

L’ermeneutica, in tal modo, pare presentarsi come la filosofia del dialogo tra i punti di vista, sembra privilegiare un confronto aperto con le problematiche, senza dogmi e senza schemi architettonici entro cui collocare l’analisi delle questioni. Sembra, in definitiva, un’atmosfera critica capace di mettere d’accordo le tante anime della riflessione filosofica contemporanea, al punto che Gianni Vattimo ha definito l’ermeneutica la «nuova koinè» del pensiero del nostro tempo, perché in grado di esaltare le valutazioni indivi-duali, fondandosi sulla categoria della comprensione più che su quella della spiegazione sistematica e sistematizzante6.

Una delle trappole in cui si rischia d’incorrere, però, è quella del relativismo: se un evento determina interpretazioni diverse, qual è quella giusta? Cosa rende un’interpretazione più credibile di un’altra? Esiste un metro di paragone esterno ad ogni singola inter-pretazione possibile rispetto al quale giudicarne la legittimità? In caso affermativo, l’ermeneutica torna a collocarsi nel solco di quel pensiero trascendentale che ha cercato di superare, quel modello di pensiero, cioè, incentrato su un fondamento da cui si desume ogni conclusione possibile; altrimenti, si rischia di scadere in una condi-zione in cui la tanto osannata filosofia del dialogo diviene il prete-sto per avallare una condizione di scriteriato blaterare, in cui domi-na solo l’opinione personale e la volontà di imporla. La verità, così, diventerebbe soltanto il frutto della capacità di persuadere. Il pro-blema è grosso e si riassume nella sfida, lanciata per esempio da Luigi Pareyson, di determinare un’ermeneutica legata ad un’idea pluralistica ma non relativistica di verità7. Da qui il dibattito sulla

6 Cfr. G. VATTIMO, Etica dell’interpretazione, Torino, Rosenberg & Sellier, 1989. 7 Cfr. L. PAREYSON, Studi sull’esistenzialismo, Firenze, Sansoni, 19712. Sulla questione, si veda anche il colloquio avuto da Pareyson con Sergio Givone, raccolto in S. GIVONE, Interpretazione e libertà. Conversazione con Luigi Pareyson, in AA.VV., Filosofia ’91, cit., pp. 3-9.

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necessità di adottare un criterio di controllo o di determinare – det-to con linguaggio gadameriano – una «universalizzazione dell’ermeneutica».

Ad ogni modo, l’ermeneutica costruisce verità finite, si manifesta come una filosofia volta a celebrare la creatività del soggetto. In-fatti, vale spesso la congettura più raffinata e originale, quella ca-pace di tramare un efficace ordito degli elementi del problema. Ec-co perché l’ermeneutica assume le sembianze di una forma di fe-nomenismo critico e si accredita come la filosofia dell’elogio del dubbio, senza il quale non avrebbe senso fare ricerca. Così, l’ermeneutica appare per quello che è: un insieme di tecniche d’indagine, il quale costruisce un’idea di ragione come luogo della combinazione tra i dati che costituiscono un dato sistema proble-matico.

In questa sede, non interessa tanto analizzare potenzialità e limiti dell’ermeneutica come strumento di ricerca filosofica, quanto stu-diare il modo in cui, nel quadro di una definizione critica dei con-cetti di tempo, memoria e storia, l’ermeneutica filosofica offra un contributo alla definizione del concetto di tradizione, a partire dal quale trarre, poi, qualche indicazione sul piano etico-politico.

2. L’idea gadameriana di tradizione: i significati filosofici ed eti-co-politici

L’ermeneutica è – s’è detto – un fronte variegato della ricerca fi-losofica contemporanea, riconoscibile per la proposta di una serie

Sull’opera di Pareyson, con particolare riferimento alla sua definizione

dello statuto dell’ermeneutica come teoria critica pluralistica, ma non re-lativistica, si vedano soprattutto A. ROSSO, Ermeneutica come ontologia della libertà. Studio sulla teoria dell’interpretazione di Luigi Pareyson, Milano, Vita & Pensiero, 1980; M. GENSABELLA FURNARI, I sentieri della libertà. Saggio su Luigi Pareyson, Milano, Guerini & Associati, 1994; F.P. CIGLIA, Ermeneutica e libertà. L’itinerario filosofico di Luigi Pareyson, Roma, Bulzoni, 1995; E. CONTI, La verità nell’interpretazione. L’ontologia ermeneutica di Luigi Pareyson, Torino, Trauben, 2000.

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di filosofemi accomunanti. Ciononostante, sono molte le posizioni e le varianti sui temi considerati, quantunque esista un sostrato co-mune assai ben riconoscibile. L’ermeneutica contemporanea – lo ribadisco – è un continente assai complesso: ha le sue anime, i suoi volti, le sue voci, di frequente discordanti, ragion per cui, per evita-re smarrimenti, farò riferimento quasi esclusivamente alle posizioni di Gadamer, discutendole, allo scopo di coglierne i pregi, non sen-za evidenziarne qualche limite.

L’ermeneutica predica un concetto di verità come sintesi inter-pretativa di giudizi sul mondo, frutto della nostra capacità di guar-dare le cose da angolazioni diverse. L’ermeneutica gadameriana, però, è anche, a suo modo, un’analitica della temporalità. E diver-samente non potrebbe essere, data la consistente eredità heidegge-riana presente in Verità e metodo del 1960. Com’è noto, alle spalle di uno qualunque dei nostri giudizi sul mondo si nasconde l’universo del vissuto individuale. Gadamer chiama «pre-comprensioni» quelle idee, sia pur vaghe, che ci si porta dentro in-torno ad un certo problema, prima ancora di affrontarlo8. Esse sono il frutto dell’orizzonte degli Erlebnisse9.

In questo, Gadamer è pienamente uno storicista. Il flusso delle convinzioni individuali converge a definire la valutazione di un da-to evento e realizza quella sintesi tra la presente osservazione dell’evento medesimo e la voce del vissuto proveniente dal passa-to, sintesi che Gadamer chiama «fusione degli orizzonti»10. In tal modo, si realizza una combinazione efficace tra presente e passato; anzi, il passato non viene solo affidato allo scrigno della memoria, ma diviene protagonista della “gestione” del presente. Se il vissuto condiziona, nel bene e nel male, i nostri giudizi sul mondo, allora esso diventa tempo che fa la storia. Ancora: se la memoria assume una funzione attiva ed inalienabile nell’elaborazione del giudizio, essa richiama un universo di articolazioni socio-teorico-culturali, che è possibile definire «tradizione». Se la tradizione si flette sul presente, allora ne va riconosciuto il carattere dinamico. Gadamer 8 Cfr. H.-G. GADAMER, Verità e metodo, a c. di G. Vattimo, Milano, Bompiani, 19863, pp. 313 e sgg.; 342 e sgg. 9 Cfr. Ivi, pp. 86 e sgg. 10 Ivi, pp. 356-57.

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ne è convinto. Spesso, infatti, il concetto di tradizione viene asso-ciato a qualcosa di statico (il traditum), murato in se stesso, che serve da fondamento per sostenere atteggiamenti culturali conser-vatori e reazionari, i cui protagonisti si riconoscono come laudato-res temporis acti o come ferrei restauratori di quel sistema di valo-ri, detto, per l’appunto, tradizione. Viceversa, per appropriarsi di un adeguato concetto di tradizione, va posta una serie di domande: «Che cosa è propriamente? Che cosa viene tramandato? Che cosa significa il venire tramandato?»11.

L’idea ermeneutica di tradizione come mondo dei vissuti indivi-duali, innanzitutto, aiuta a capire che declinare solo al singolare un simile concetto è una forzatura storica, perché esso è storicamente determinato. C’è di più: se la tradizione è presente nel nostro pre-sente, in quale misura tende a trasferirvisi, a condizionarlo, mante-nendo definita la propria identità? È a questo proposito che le os-servazioni di Gadamer appaiono assai proficue: «La tradizione non è semplicemente un evento che nell’esperienza si impari a cono-scere e a padroneggiare, ma è linguaggio, cioè parla come un tu. Il tu non è un oggetto, ma si rapporta a noi»12. Il ragionamento ga-dameriano è chiaro: il flusso di senso della tradizione non è tanto una res o un oggetto entificabile altro dal soggetto che lo pensa; piuttosto, fonda una sorta di relazione intra-psichica ed intra-culturale: il «tu non è un oggetto»13, ma un dato strutturale dell’esperienza dell’io. Detto altrimenti, la tradizione non si confi-gura alla maniera di una determinazione oggettuale esistente indi-

11 ID., Storia dell’universo e storicità dell’uomo, in ID., Verità e metodo 2, a c. di R. Dottori, Milano, Bompiani, 20012, p. 442. Com’è noto, questo volume raccoglie una serie di precisazioni dei punti di vista espressi da Gadamer nell’opera del 1960 ed è stato pubblicato tra il 1986 ed il 1993.

Sul tema gadameriano della tradizione, cfr. G. ZACCARIA, Ermeneu-tica e giurisprudenza. I fondamenti filosofici nella teoria di Gadamer, Milano, Giuffrè, 1984; P. MISURACA, Originarietà e tradizione. L’ermeneutica storica in Gadamer, Roma, Herder, 1989; F. VALORI, Esperienza, ermeneutica e dialettica in Gadamer, Fiesole, Cadmo, 1990. 12 H.-G. GADAMER, Verità e metodo, cit., p. 414. 13 Ib.

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pendentemente dal proprio essere pensata, ma è un elemento co-stante di confronto per il soggetto artefice della propria esperienza.

Tale è l’«essenza dell’esperienza ermeneutica», fondata su un proficuo rapporto con il passato, in una condizione dialettica di re-ciprocità tra io e tu (cioè tra presente e passato, tra esperienza esi-stente e tradizione), rispetto alla quale rimane integra l’identità di ciascuno, senza sopraffazioni o indebite sussunzioni di uno o dell’altro elemento. Gadamer qui cita Hegel, la cui dialettica è una forma di rispecchiamento tra gli opposti, salvata dall’Aufhebung, cioè dal superamento e dalla conservazione degli elementi della contraddizione14. Ma non è tutto. Il modello di relazione io-tu su cui si fonda il nostro rapporto con il passato edifica l’idea di «co-scienza storica», se è vero che riconoscere l’importanza del passato nella definizione del presente significa comprenderlo. Compren-sione, ribadisce Gadamer, significa «ascolto»15. «Io devo ricono-scere – sottolinea il filosofo tedesco – i diritti della tradizione stori-ca non nel senso di un puro riconoscimento dell’alterità del passa-to, ma accettando che essa abbia qualcosa da dirmi»16. L’apertura al passato ne esalta la voce e celebra il primato ermeneutico della domanda, nel senso che si aggrediscono i problemi del presente, facendo domande al passato, e si ritorna al presente carichi di pre-comprensioni, le quali contribuiscono ad elaborare valutazioni sul-le cose.

Fare domande implica l’interesse ad ascoltare le risposte. Qui Gadamer s’impegna in una descrizione di sapore fenomenologico dell’udire, che dimostra quanto egli abbia fatto propria la lezione di Husserl e quanto sia stato un allievo ‘eretico’ di Heidegger: la di-pendenza dal passato cessa di incentrarsi sulla discussione della sua originarietà, per dare spazio ad una comprensione storica e di-stintiva dei fenomeni collocati in un dato tempo rispetto ad un al-tro. Il fenomeno dell’«udire (Hören)», nella fattispecie dell’ascoltare la lezione del vissuto, crea l’«appartenenza (Zugehö-rigkeit)»17, una volta stabilito il primato sia dell’ascolto, sia del lin- 14 Cfr. Ivi, pp. 415-16. 15 Ivi, p. 417. 16 Ivi, pp. 417-18. 17 Cfr. Ivi, p. 528.

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guaggio che può essere ascoltato. Il passaggio è delicato e sottile: ascoltare è cogliere qualcosa dell’altro, ma è anche l’azione di ri-flesso dell’atto dell’interpellare. Ora, l’appartenenza è l’essenza più profonda della tradizione. Ascoltarla per cogliere le traiettorie di senso del presente significa porgerle delle domande, consultarla. La tradizione, così, viene a noi come risposta ad una domanda che affonda le proprie motivazioni nel presente, si volge verso il passa-to e ritorna ancora al presente, in un interscambio simultaneo e continuamente variabile. Il filtro critico della «coscienza storica» garantisce da falsi usi ideologici della tradizione, ristabilendo il primato del presente e l’alterità del passato.

Naturalmente, continua Gadamer, il «modo d’essere della tradi-zione»18 non assume caratteri d’immediatezza, perché la tradizione, per l’appunto, è ascoltata; e se lo è, in tanto è udita, in quanto si e-sprime mediante un certo linguaggio: «Questa comunicazione lin-guistica tra presente e passato […] è l’accadere che si verifica in ogni comprensione»19. L’espressione potrebbe apparire un po’ crip-tica, ma non lo è: se il linguaggio è evento, accade; anche in questo caso, se la tradizione ha un suo linguaggio, esso può essere ascolta-to perché si configura come Ereignis, che, a sua volta, può essere colto nel nostro processo di comprensione del passato e di ricerca degli orditi di senso del presente. Dunque, in ogni comprendere - cioè in ogni gesto conoscitivo volto a cogliere un oggetto in gene-rale nella forma di una rappresentazione mentale -, è presente il linguaggio della tradizione, il quale agisce di continuo, preme per farsi ascoltare. Ecco perché tale percorso teoretico assume le sem-bianze di un’analitica della temporalità: se il passato parla, il pre-sente ascolta, fa domande e, a sua volta, elabora per proprio conto le risposte, allo scopo di soddisfare le proprie pretese conoscitive. Così, la tradizione è parte integrante del processo di costruzione critica della nostra immagine del presente, fuoriesce dagli archivi della memoria ed agisce, suggerendo – ora sottovoce, ora con tono più sostenuto – la propria presenza. È chiara, a questo punto, la ra-gione per cui «appartenente (zugehörig) è chi è interpellato dalla

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tradizione, dalla parola del passato»20. In questo senso si partecipa del linguaggio della tradizione21, perché l’evento-tempo è linguag-gio, vale a dire è un contenuto culturale che si fa e si trasmette, at-traversando l’orizzonte della temporalità.

In tal modo, s’instaura un legame indissolubile con i contenuti di senso del passato: «L’ermeneutica deve muovere dal fatto che co-lui che si pone a interpretare ha un legame con la cosa che è ogget-to di trasmissione storica e ha o acquista un rapporto con la tradi-zione che in tale trasmissione vi si esprime»22. Tale rapporto si de-scrive all’insegna di una «polarità di familiarità ed estraneità», che Gadamer definisce come «l’autentico luogo dell’erme-neutica»23.

Tutto ciò ridefinisce anche radicalmente il ruolo della memoria. Essa non designa solo la facoltà del ricordare, ma si configura co-me un filtro selettivo che rievoca e dimentica, rinnovando di conti-nuo il proprio rapporto con il presente24. La crisi e la rigenerazione della memoria coincidono sempre con il rinnovarsi degli slanci er-meneutici volti a perimetrare e ad interrogare le tante aree di senso del passato.

Gadamer insiste: «È la tradizione che apre e delimita il nostro o-rizzonte storico, e non un avvenimento opaco della storia che av-venga “di per sé”»25. Se il primum movens è la tradizione, allora è evidente che la condizionatezza della determinazione storica è le-gata a doppio filo al tema del comprendere.

La comprensione fonda il momento dell’appartenenza, in un cir-colo virtuoso di richiamo reciproco. Infatti, in tanto si può intende-re un dato evento, in quanto si è parte di una tradizione; ma si ap-partiene ad una tradizione, perché si intendono le cose in quel mo-do e non in un altro. D’altra parte, il dato stesso è intessuto di tra-dizione, perché «si manifesta linguisticamente». E cosa più di una

20 Ivi, p. 529. 21 Cfr. Ib. Più avanti scrive: «È letteralmente più giusto dire che è la lin-gua che parla noi, piuttosto che noi parliamo la lingua» (Ib.). 22 Ivi, p. 345. 23 Ib. 24 Cfr. Ivi, pp. 38-42. 25 ID., La natura della cosa e il linguaggio degli oggetti, in ID., Verità e metodo 2, cit., p. 75.

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lingua è il veicolo di tramissione delle tradizioni storiche? Così, la distanza temporale rispetto al passato viene colmata proprio dalla tradizione, testimone della «continuità delle consuetudini»26, che è un modo per ribadire la continuità dei linguaggi.

Da qui l’idea della polisemia ermeneutica del concetto di tradi-zione, dal momento che quest’ultimo si fonda sulla categoria della comprensione. «Ogni incontro con la tradizione è storicamente di-verso»27, perché cambiano di continuo le pre-comprensioni e si rea-lizza un’armonica fusione tra l’orizzonte della determinatezza sto-rica e quello del presente. Da ciò discende un’idea di comprensione caratterizzata ermeneuticamente. Così, la tradizione, nel fornire in-dicazioni, transita dal suo presente al nostro. Con ciò non s’intende sostenere – si affretta a chiarire Gadamer – che la «tradizione sia un ipersoggetto»28. Tra l’interpretante e l’oggetto interpretato c’è sempre il medium del linguaggio, responsabile della posa in atto dei processi di comprensione: «L’interpretazione della tradizione non è mai la sua ripetizione, bensì è sempre una nuova creazione del comprendere, il quale perviene alla sua determinatezza nella parola interpretante»29. Ecco perché la voce della tradizione non è tanto una forma di compensazione degli equilibri del presente, ma una presenza costante ed attiva, cui attingere suggerimenti senso30: «L’esperienza vissuta della tradizione è un processo ermeneutico, un processo che è senza fine e che sta sempre già oltre qualsivoglia formula di funzioni politico-sociali»31. Questo garantisce l’onnipresenza della tradizione e costituisce un potente stimolo a pensare ermeneuticamente.

26 ID., Del circolo dell’intendere, in ID., Verità e metodo 2, cit., p. 62. 27 C. DUTT-H.-G. GADAMER, Dialogando con Gadamer, Milano, Raf-faello Cortina Editore, 1995, p. 26. Il testo raccoglie una conversazione tra Dutt e Gadamer sui fondamenti dell’ermeneutica. Le citazioni tratte da questo libro sono tutte di Gadamer. 28 Ivi, p. 31. 29 Ivi, p. 32. 30 Cfr. Ivi, p. 37. Si veda il confronto tra Gadamer e la scuola di Joachim Ritter, cui lo stesso Gadamer rinvia. 31 Ib.

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«Ascoltare la tradizione e situarsi nella tradizione è la via della verità che dobbiamo imboccare nelle scienze dello spirito. Anche ogni critica della tradizione […] serve alla fine allo scopo di ag-ganciarci alla tradizione in cui stiamo. La condizionatezza non è dunque un pericolo per la conoscenza storica, ma un momento del-la stessa verità. […] Distruggere il fantasma di una verità sciolta dalla situazione di colui che conosce deve addirittura avere il valo-re di “scientificità”»32. Alla tradizione, pertanto, bisogna obbedire, perché da essa discendono i processi di costruzione dell’identità personale. In questo senso, l’orizzonte di valori, di principî e di i-dee che costituisce il concetto stesso di tradizione non rappresenta tanto un freno che limita le proprie capacità espressive, quanto una risorsa da sfruttarsi, una fonte cui attingere rinnovate risorse di senso, un modo di leggere le cose in relazione al punto di osserva-zione assunto, cioè all’ordine delle «precomprensioni» di chi valu-ta. È, questa, la prassi della ricerca storica. Con in più il memento metodologico relativo alla necessità di enfatizzare il ruolo del con-testo, per prevenire le seduzioni delle filosofie della storia, in ordi-ne alle quali conta solo l’ordine logico-speculativo dei dati, non la cronologia mediante cui essi si sono venuti a determinare.

Dall’uso speculativo all’uso ideologico della tradizione il passo è breve. Anzi, l’impianto è lo stesso: «[…] L’ermeneutica ci insegna a denunciare come dogmatico il contrasto esistente tra la tradizione vivente […] e la sua appropriazione riflessa»33. In altri termini, comprendere che la tradizione è un momento costitutivo dell’accadere dell’evento significa sfuggire, una volta denunciato-lo, ad un suo utilizzo ideologico. Bisogna guardarsi, avverte Ga-damer, da «false connotazioni del termine “tradizione”»34. Non ne va fatto un uso tale da pilotare il consenso o creare correnti d’opinione. Appropriarsene significa strumentalizzarlo ed equivale a dargli un ‘colore’ che non gli pertiene. Seguire, secondo Gada-mer, una procedura ermeneuticamente corretta nell’approccio 32 H.-G. GADAMER, Verità nelle scienze umane, in ID., Verità e metodo 2, cit., p. 52. 33 ID., Retorica, ermeneutica e critica dell’ideologia. Osservazioni meta-critiche su Verità e metodo, in ID., Verità e metodo 2, cit., p. 234. 34 C. DUTT-H.-G. GADAMER, Dialogando con Gadamer, cit., p. 22.

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all’eredità culturale del passato ripara proprio dalle strumentalizza-zioni. Questo non comporta certo una riesumazione dell’idea di tradizione in chiave oggettivistica, vale a dire come un concetto dai significati oggettivi, valido in sé al di là delle interpretazioni. Ci si riferisce sempre ad un insieme di testi (o di testimonianze), indica-tivi della produttività di un’epoca, del suo accadere storico in senso socio-politico-culturale35, testimoni di un tempo o di una civiltà. E tutto questo aiuta a comprendere il mondo, a darsi spiegazione di vicende, abitudini, mentalità, comportamenti, interpretando … e re-interpretando.

Il ‘nocciolo duro’ del documento mette in guardia dall’ideologia, ma un atteggiamento ermeneuticamente orientato non si scandaliz-za dinanzi a chi taccia di conservatorismo il tradizionalista. L’analisi gadameriana al riguardo è raffinata e, al di là di certe ca-denze romanticheggianti del linguaggio, convincente. Non c’è iato tra ragione e tradizione, anche se la tradizione volge lo sguardo verso il passato e la ragione progetta l’avvenire, secondo una lettu-ra illuministica di tale rapporto. La ragione ha di sé un’immagine fulgida, la tradizione si auto-rappresenta in maniera più dimessa. Ad ogni modo, entrambi sono momenti ineludibili della costruzio-ne dell’identità di un tempo. La ragione coordina i linguaggi me-diante i quali una tradizione si esprime; la tradizione inserisce un vitale elemento diacronico nell’idea di ragione, rendendola stori-camente determinata, cioè libera, interpretante, dinamica. Così, lo strappo con il passato è saldato e la via verso la sua comprensione risulta aperta. Il passaggio è chiaro: Gadamer è così convinto della continuità tra tradizione e storiografia che non esita a criticare Max Scheler, il quale aveva sostenuto che lo sviluppo delle scienze sto-riche fosse direttamente proporzionale alla perdita d’incidenza del-la tradizione36.

Fin qui Gadamer. Certo, nell’ottica di una concezione rigorosa-mente ermeneutica della tradizione le cose funzionano. Forse, non liquiderei subito le implicazioni contenute nell’affermazione di Scheler, perché l’influenza ideologica della tradizione può essere 35 Cfr. H.-G. GADAMER, Distruzione e decostruzione, in ID., Verità e metodo 2, cit., p. 332. 36 Cfr. Ivi, p. 331 n.

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anche solo indiretta e condizionare nell’utilizzo degli strumenti del mestiere dello storico, proprio perché l’indagine storiografica, a sua volta, è un’impresa interpretativa. Si può continuare all’infinito a perorare le ragioni della filologia o del rigore storiografico: non cambia il dato di fatto che vengono esercitate in funzione di quel che si vuole dimostrare. È chiaro che l’eco prodotto da un dato og-getto di ricerca è diverso da un altro: per esempio, lo studio dei rapporti tra violenza politica e demagogia durante il fascismo o la resistenza ha un impatto, una ricerca imperniata sugli stessi temi nell’età di Pisistrato interessa, sì, ma è difficile che diventi motivo di confronto civile.

L’aculeo dell’ideologia, dunque, agisce per vie traverse. In Sche-ler, c’era la volontà di liberarsene, perché egli era convinto dell’esistenza del pericolo; con Gadamer, sembra che una simile difficoltà sia stata sublimata ad un livello superiore, quasi scompa-rendo del tutto. In verità, il rischio che la strumentalizzazione della tradizione si nasconda dietro la tendenza ad interpretarla è assai e-levato e non sempre riconoscibile di primo acchito.

È chiaro che le tradizioni, quando manipolate dalle ideologie, so-no tecniche di dominio politico-culturale. E, in quanto tali, manife-stano la loro pericolosità. La storia è una certa lettura dei fatti e dei documenti culturalmente determinata e, in ragione di ciò, vincolata a principî o parametri particolari. Quando questi s’impongono in modo troppo prepotente, allora la tradizione diventa una sorta di recipiente fatto su misura, entro cui collocare tutte le esperienze del presente all’insegna di un’astratta idea di continuità, quando, inve-ce, dovrebbe verificarsi l’opposto. Quest’uso ideologico o aggres-sivo del concetto di tradizione desta preoccupazione e temo non sia mai del tutto estirpabile. Certo, l’ermeneutica attenua di molto le cose. Dialoga con la tradizione, perché la tradizione è linguaggio. Ma siccome è nella natura del linguaggio veicolare molteplici si-gnificati, nel ventaglio di questi può trovare sede quello che investe la tradizione di un ruolo di guida e di riferimento per la realizza-zione delle istanze di un dato presente.

Una teoria critica della tradizione contempla, viceversa, un col-loquio con il passato, all’insegna della consapevolezza dell’alterità dell’orizzonte dell’accaduto, del primato del presente e della rive-

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dibilità delle proprie personali posizioni. Così, senza scomodare il troppo impegnativo concetto di ‘verità’, di certezza in certezza si possono costruire progetti, si può tenere conto delle obiezioni, co-struire sui rilievi altrui, abituarsi a pensare in termini ipotetici. In una parola, si può agire ermeneuticamente, che è un modo di cele-brare il trionfo della finitezza, di ripartire dai problemi, di confron-tarsi con le questioni aperte, senza ossequi per presunte autorità e senza inconcludenti indulgenze verso tensioni essenziali, apocalissi dell’età della tecnica o immersioni ardite negli abissi dell’essere. Sobrietà, disincanto e curiosità sono, forse, gli imperativi categori-ci di cui si fa portatrice con più orgoglio la tradizione ermeneutica.

3. Luci ed ombre della riflessione gadameriana sulla tradizione Non ci sono dubbi che la proposta critica gadameriana si segnali

per sottigliezza ed efficacia. Scrive retrospettivamente il filosofo tedesco in un saggio del 1985: «Quando […] parlo [in Verità e me-todo, n.d.r.] di tradizione e di colloquio con la tradizione, io non delineo affatto una sorta di soggetto collettivo, ma il termine “tra-dizione” è soltanto il nome generale che comprende, a volta a vol-ta, i singoli testi, dove “testo” è inteso nel senso più esteso, e inclu-de anche l’opera d’arte figurativa, l’opera d’arte architettonica, e persino i processi naturali»37. In un altro luogo precisa: «Il tutto della tradizione che può rappresentare l’oggetto storico non è un testo nello stesso senso in cui la forma del singolo testo è un ogget-to per il filologo»38. Il percorso teorico è chiaro. Ciononostante, non è immune da ombre, spesso sottili ed infide. Il grande punto d’arrivo è la presa di coscienza del ruolo della tradizione nelle ela-borazioni dei gesti più comuni della vita quotidiana, in quanto sol-co culturale da cui partire per spiegare – e spiegarsi – quel che si è. Lo spettro della filosofia della storia, però, è lì ad aleggiare sullo sfondo. Un conto, infatti, è far riferimento al retroterra culturale da cui si discende ed a cui si attinge per ritrovare la propria identità; tutt’altra cosa è parlare della tradizione come di un flumen che at- 37 ID., Distruzione e decostruzione, cit., p. 332. 38 ID., Autocritica, in ID., Verità e metodo 2, cit., p. 512.

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traversa la storia sino a diventare il tempo dell’esserci, cioè l’elemento caratterizzante la nostra temporalità. In quest’ultimo ca-so, infatti, il concetto di tradizione si drappeggia di un velo sedu-cente, sericeo, splendidamente arabescato, ma pericoloso: il velo dell’originario. Se esso si configura in tal modo, non si può non ammettere che esista un nucleo originario di senso, ontologicamen-te determinato, da cui sgorgano tutte le cose, a cui bisogna risalire in ogni procedimento di giudizio, come in una sorta di dialettica neoplatonica, rispetto alla quale c’è un Uno, il quale si emana da se stesso e si ipostatizza in entità concrete, prima di ritornare definitivamente a sé.

Il rischio di una simile maniera di definire l’assetto della questio-ne è alto: esistendo un fondamento originario di senso, ogni dimen-sione temporale ne è o l’estensione o la deviazione. Il giudizio di valore è inevitabile: nel primo caso, va conservata, nel secondo su-perata. Non solo. Nel processo di auto-comprensione di un tempo, si fa sentire minacciosa l’ipoteca del passato, che custodisce la fiamma critica responsabile della distinzione del giusto dall’erroneo. È un guardare avanti con il fiato sul collo del passato, rischiando di trasformare la cronologia nella maschera esteriore di un eterno continuum speculativo, entro cui si sciolgono le differen-ze tra cose, eventi, fenomeni e trionfano le costanti, presentate co-me “bronzee leggi” della Storia. Non stupisca l’utilizzo voluto di una terminologia ‘ieratica’: dopo Löwith, nessuno ha più modo di dubitare che le filosofie della storia costituiscono la secolarizzazio-ne dell’impianto mistico-teorico delle grandi religioni positive39. Non sfugge al canto delle sirene della filosofia della storia nemme-no il ‘pluralista’ Gadamer. Del resto, dopo il suo studio della teo-logia dialettica e dopo la frequentazione ammirata – ancorché criti-ca – del pensiero di Heidegger, tale esito può risultare persino pre-vedibile40.

Sui frequenti ammiccamenti gadameriani tanto allo storicismo, quanto ad un certo Heidegger si è scritto molto. Senza la compo- 39 Cfr. K. LÖWITH, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Milano, Edizioni di Comunità, 1963. La prima edizione di quest’opera è del 1949. 40 Cfr. H.-G. GADAMER, Autocritica, cit., pp. 500 e sgg.

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nente fenomenologia su cui si fonda l’«odologia» heideggeriana41 - cioè la sua teoria esistenziale del cammino -, non si darebbe l’ermeneutica come esperienza filosofica autonoma. Gadamer lo ammette in più luoghi. Il problema, tuttavia, non è questo. L’influenza dei retaggi heideggeriani, con tutto quel che comporta-no, non è in discussione. Forse si può avanzare un rilievo più sotti-le all’impostazione gadameriana dell’analitica della temporalità e della teoria della tradizione. Si è parlato di tradizione come sostrato su cui si fonda un’epoca e si è discusso della sua influenza nella dialettica delle azioni del presente. Ora, proprio perché ci si con-fronta con Gadamer, sorge spontanea una domanda: la tradizione c’è (esiste) o è il risultato di un processo interpretativo? Ci trovia-mo dinanzi ad un’antinomia in piena regola. Se l’ermeneutica inse-gna che non esistono fatti bruti, ma che la conoscenza si riflette sempre su interpretazioni, dobbiamo concludere che anche la tradi-zione è una sintesi ermeneutica di elementi diversi. In tal caso, per così dire, essa assume la voce che gli dà il soggetto. Siccome, però, tante e non sovrapponibili sono le voci, la tradizione si ridurrebbe a sciogliersi nelle tante tradizioni cui ciascuno può appellarsi. Se così fosse, perché impegnarsi a scomodare un concetto così dotato di venature ontologiche come quello di tradizione per designare l’orizzonte dei vissuti dei tanti soggetti che vi fanno appello? In de-finitiva, che fine fa questo concetto che, secondo Gadamer, accade e si manifesta con costanza? Se si riducesse all’individuale Erleb-nis condurrebbe a conclusioni contraddittorie rispetto alla premes-sa, la quale riconosce alla tradizione uno statuto definito. Ma la tradizione o c’è o sparisce, parcellizzandosi: tertium non datur!

Ora rovesciamo la premessa. Se la tradizione si autoriconosce come un’originaria imposizione di significati alle cose, assume uno statuto ontologico che rende l’ermeneutica una prospettiva filosofi-ca storicistica, sistematica, venata di realismo, nel solco della quale varrebbero solo i punti di vista compatibili con quello assunto – le-gittimato da una sorta di principio di ragion sufficiente dato a prio- 41 Cfr. E. MAZZARELLA, Ermeneutica e odologia. Ermeneutica, feno-menologia, storicità, in “Discipline filosofiche”, IX, 2 (1999), pp. 169-81 [fascicolo della rivista a carattere monografico, dedicato al tema Heideg-ger e la fenomenologia dell’esistenza e curato da M. Gardini].

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ri – e non più tutte le valutazioni che applicano precomprensioni diverse nell’aggredire i problemi e nel giudicare le cose. Tutto ciò sarebbe non solo contraddittorio rispetto alle premesse, dato la vo-cazione anti-sistematica dell’ermeneutica, ma addirittura causa di un processo d’implosione dell’intera prospettiva gadameriana.

Ritengo, quello sulla tradizione, uno dei grandi nervi scoperti dell’opera di Gadamer ed una delle spie più eloquenti del suo con-troverso rapporto tanto con Heidegger, quanto con l’idealismo classico e con lo storicismo tedesco contemporaneo.

Il rilievo è importante, perché, in realtà, Gadamer investe ancora molto nello storicismo. La tradizione va interrogata, per garantire lo sviluppo dei processi storici. C’è una spia eloquente che lo con-ferma: nella determinazione dei rapporti tra il soggetto interpretan-te e la tradizione bisogna passare attraverso il medium del linguag-gio42. La tradizione, tuttavia, pur esprimendosi, a suo modo, in una forma linguistica, non si riduce del tutto a linguaggio. Conserva, così, una consistenza ontologica che dà da pensare, nel solco di quell’ontologia linguistica che racchiude il programma della se-conda parte di Verità e metodo. Una simile impostazione difende solo parzialmente dall’attacco delle ideologie e riporta alla ribalta il tema della difficoltà di definire i linguaggi della tradizione. Sul piano etico-politico, tuttavia, la lezione dell’ermeneutica rimane una lezione di tolleranza, fondata sui concetti di comprensione e di dialogo tra le culture. Tutto ciò conserva un atteggiamento persino utopico in molte sue componenti, ma diventa un utile strumento che consente di guardare alla tradizione con sguardo sereno.

Così, si garantisce la trasmissione della tradizione, senza perico-lose radicalizzazioni. «Tradizione e trasmissione – scrive Gadamer – mantengono il loro vero significato non nel costante fissarsi al tradizionale, ma nel fatto che esse rappresentano un partner esperto e costante nel colloquio che noi siamo. Per il fatto che esse ci ri-spondono e finché ci pongono con ciò nuove domande, esse dimo-strano la loro autentica realtà e la loro continua vitalità»43. Con questo, Gadamer intende confutare l’equazione: tradizione uguale a reazionarismo. D’altronde, tutto ciò che si «oppone […] alla volon- 42 Cfr. H.-G. GADAMER, Verità e metodo, cit., p. 414. 43 Ivi, pp. 98-99.

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tà di innovazioni, non è tradizione vivente»44. La tradizione si ri-corda e si dimentica di se stessa, «pone le domande e trova le ri-sposte, che ci sono garantite, come possibilità del nostro futuro […]»45. E con ciò crea le identità individuali e collettive, mentre fa da medium il concetto di comprensione.

La condizionatezza della determinazione storica, dunque, è lega-ta a doppio filo al tema del «comprendere», per quanto bisogna guardarsi da «false connotazioni del termine “tradizione”»46. Non ne va fatto un uso tale da pilotare il consenso o creare correnti d’opinione legate ad interessi di parte; insomma, non ne va predi-cata una valenza troppo scopertamente ideologica, tale da trasfor-mare il concetto di tradizione in uno strumento di dominio politico-culturale.

Ma la posta in gioco è molto più alta. Come scrive Paolo Pastori, «la riconsiderazione del significato e valore della tradizione, solle-citata da diversi versanti culturali ed ideologici, è sintomo di una qualche percezione della precarietà di un’esistenza individuale e collettiva forse troppo imponderatamente e frettolosamente private dei necessari riferimenti al “fondamento”»47. Giusto: riallacciare il filo spezzato della tradizione si traduce nel fare i conti con il timore della precarietà dell’esistenza. Sapere di essere inseriti in un qua-dro culturale e politico dominato da un’intrinseca razionalità auto-rizza a soddisfare la propria sete di certezze, il proprio bisogno di rassicurazioni. Il meccanismo psicologico è sottile, ancorché evi-dente. Di fondamenti metafisici assoluti, certo, non si sente più il bisogno, ma forse ce ne siamo liberati con troppa celerità, senza pesare a dovere i costi di una simile violenta soppressione.

Lo stesso discorso potrebbe effettuarsi a proposito del tema delle ideologie. Esse sono ‘cantucci’ socio-politico-culturali entro cui si colloca, da sempre, la voglia di rassicurazione dell’umanità. Qui va ricordata la lezione di Vilfredo Pareto, il quale distingue tra scienza ed ideologia, essendo la prima attinente all’ambito 44 Ivi, p. 99. 45 Ib. 46 C. DUTT-H.-G. GADAMER, Dialogando con Gadamer, cit., p. 22. 47 P. PASTORI, Tradizione e tradizionalismi. Primi saggi, Lecce, Edizio-ni Milella, 1997, p. 7.

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dell’osservazione e del ragionamento, la seconda al campo della fede e del sentimento48. Ciò fa dell’ideologia un orizzonte che ap-plica all’interpretazione delle cose un punto di vista pregiudiziale, preconcetto, nel senso che tende a ‘farle quadrare’ in funzione di una certa prospettiva politico-culturale, per la quale l’ideologo combatte, rendendosene il ‘profeta’ ed il ‘predicatore’49. Dunque, se il compito del ricercatore è quello di interpretare i fatti nel tenta-tivo di darne una spiegazione soddisfacente, quello dell’ideologo è di persuadere. Ciò favorisce la creazione di una piena situazione di controllo e di condizionamento dei comportamenti. Per quanto ci sia stato chi, come Karl Mannheim, abbia cercato di ricavare nell’ideologia un ‘valore aggiunto’, volto a dar corpo alle aspira-zioni degli uomini, distinguendola dallo spirito dell’utopia50, l’ideologia rimane un corpo di assunti e di proponimenti che mira a creare consenso, a trascinare, sovente a spacciare per verità assolu-te altrettante interpretazioni del tutto personali e spesso faziose. Ci s’intende meglio se si considera quello ideologico come un giudi-zio di valore, il quale non risponde ad un riscontro diretto con i fat-ti, pertanto non è immediatamente suscettibile d’essere giudicato vero o falso51. Solo comprendendone la genesi storica e critica se ne colgono gli assi semantici52. Ma la sostanza non cambia: leggere il passato per cogliere i percorsi di senso del presente, onde pianifi-care il futuro è buona cosa; definire in maniera troppo netta scopi,

48 Cfr. V. PARETO, Trattato di sociologia generale, Milano, Edizioni di Comunità, 1964, § 43. Il testo riproduce l’edizione dell’opera del 1916. 49 Cfr. N. BOBBIO, Saggi sulla scienza politica in Italia, Bari, Laterza, 1961. 50 Cfr. K. MANNHEIM, Ideologia e utopia, Bologna, Il Mulino, 1957. La prima edizione è del 1929. 51 Ha, soprattutto, insistito su questo tema, nel 1960, D. BELL nel bel vo-lume tradotto in italiano con il titolo La fine dell’ideologia, Milano, Su-garCo, 1991. Si vedano anche T. GEIGER, Ideologie und Wahrheit: Eine Soziologische Kritik des Denkens, Stuttgart-Wien, Humboldt, 1953; E. TOPITSCH, A che serve l’ideologia, Bari, Laterza, 1975. 52 Cfr. M. STOPPINO, Ideologia, in AA.VV., Il Dizionario di Politica, a c. di N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Torino, U.T.E.T., 2004, pp. 435-46: 445.

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organizzazione e confini della vita politica e culturale può essere o assai condizionante o addirittura riduttivo53.

Coglie nel segno Karl Dietrich Bracher, quando definisce il No-vecento il secolo delle ideologie e quando ne discute la senescenza e la successiva dissoluzione, in una condizione in cui «la funziona-lizzazione delle idee agli scopi politici può far agire l’ideologia sia in senso positivo come stimolo all’azione costruttiva, sia in senso negativo come inganno e falsificazione per esagerazione o per semplificazione»54. Da qui «la profonda ambivalenza, per non dire la grande contraddizione del pensiero politico del XX secolo, [il quale, n.d.r.] ha sviluppato anche un’aspra e pesante critica dell’ideologia, sottoponendo ad una implacabile “requisitoria” tutte le idee politiche allo scopo di svelarle sistematiche come ideologie e quindi di svalutarle. Nello stesso tempo tuttavia tali ideologie vengono coscientemente e pesantemente reinserite e utilizzate […]. E così il nostro secolo [il Novecento, n.d.r.] è riuscito a produrre simultaneamente la critica più spietata e la più alta glorificazione delle ideologie»55. In realtà, «qualsiasi distinzione netta tra enun-ciati ideologici e non ideologici è discutibile»; in più, «ogni pensie-ro politico, per produrre politica o agire sulla politica, è soggetto ad orientamenti di valore, in quanto raccoglie le aspirazioni e gli inte-ressi dei cittadini traducendoli in pensieri e parole»56. Per questi motivi, esiste, forse, più di qualche ragionevole dubbio, per pensa-re che si viva davvero in un’età post-ideologica. Anche perché «la garanzia che la verità assoluta non sta in cielo ma in terra conferi-sce all’ideologia il carattere di religione secolarizzata della salvez-za o della redenzione»57, mentre «il bisogno di concezioni globali, l’inclinazione all’uso e all’abuso di ideologie politiche possono es-

53 Cfr. D. EASTON, A Systems Analysis of Political Life, New York, Wiley, 1965, p. 290. 54 K.D. BRACHER, Il Novecento. Secolo delle ideologie, Roma-Bari, La-terza, 20012, pp. 6-7. 55 Ivi, p. 7. 56 Ivi, p. 8. Bracher ribadisce il ruolo delle coordinate socio-economiche e la necessità di collocare idee e progetti politici nei rispettivi contesti di riferimento. 57 Ivi, p. 9.

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sere avvertiti e mobilitati proprio nel momento delle nuove e drammatiche cesure nel progresso»58. Ad ogni modo, la negazione di principî stabilizzanti la vita individuale e collettiva finisce con l’enfatizzare improduttivi elogi di paradigmi deboli, come se non debbano comunque darsi criteri regolativi della vita inter-individuale. Ma tant’è.

A questo punto, s’impone una domanda: «[…] Poiché la crisi ci impone ancora una volta la ricerca di elementi di solidità e di con-tinuità da contrapporre alla fluidità ed alla precarietà del momento storico che stiamo vivendo […], questo forse implica una riaffer-mazione acritica della nostalgia di una vita più quieta, proprio per-ché fatta di certezze, di stabilità e di perennità di significati e valo-ri?»59. La risposta non può non essere negativa. Ad impensierire, però, è un altro dato: la crisi dei fondamenti non deve indulgere verso forme di laudatio di tempi in cui certezze ideologiche e cre-denze metafisiche spadroneggiavano senza rivali. Ma questo non significa, tuttavia, farsi il vuoto attorno, dimenticare quella piatta-forma di valori, principî, convinzioni da cui ogni civiltà, in ogni epoca, prende le mosse, per edificare se stessa. Recuperiamo le fila del discorso: tale piattaforma è proprio la tradizione. Essa assume le fattezze di un tessuto di senso assai dinamico, il quale non ripor-ta in auge vecchi fondamenti, quantunque offra, a suo modo, una risposta alla crisi: rifornisce la certezza di sapere da quale ceppo culturale proveniamo e verso quale direzione orientiamo i nostri sforzi. Dunque, non c’è nessun ritorno allo storicismo metafisico nel recupero ermeneutico dello tradizione, così come non si dà iato tra le idee di progresso e di tradizione. Dar spazio alle ‘parole’ del-la tradizione evita una concezione della cultura come ricapitolazio-ne dell’uguale, perché storicizza i dati, li cala nei contesti, fonda una forma di progettualità filosofica e politica tale da condurre a vivere nel presente, interrogando il passato. Così, ogni contrappo-sizione tra reazionarismo e progressismo cade, in nome di un co-mune riferimento al concetto stesso di tradizione come luogo cultu-rale d’interrogazione ermeneutica.

58 Ivi, p. 10. 59 P. PASTORI, Tradizione e tradizionalismi, cit., pp. 7-8.

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In questo libero richiamarsi alla tradizione si nasconde, però, uno spigoloso pericolo. Pastori lo evidenzia molto bene: «[…] Lo stes-so referente alla tradizione […] ha una sorta di suo peccato d’origine, del resto connaturato a tutto quello che è umano, che qui è un eccesso di reazione difensiva che sfocia in un conservatori-smo, in un integralismo “tradizionalistico” che sono l’esatto con-trario, ed alla fine la negazione stessa, della tradizione»60. Dunque, bisogna distinguere tra tradizione e tradizionalismo: il primo ter-mine designa quel deposito di segni culturali e di linguaggi che si tramandano nel tempo e conferiscono identità alle cose ed a chi è impegnato a pensarle; il secondo connota la sclerotizzazione del primo, descrive quella condizione in cui il portato della tradizione serve a riempire vuoti rituali, stereotipate liturgie laiche tese al re-cupero di un certo passato, il cui uso diviene funzionale ad un certo uso del presente. Fare tesoro del primo e rifuggire dal secondo è la solida strategia attraverso la quale praticare l’approccio all’uno ed all’altro dei due concetti.

Gadamer esemplifica siffatta diversificazione, rievocando i rap-porti tra Illuminismo francese ed Illuminismo europeo. Com’è no-to, il primo aveva avuto, nei riguardi della tradizione, un atteggia-mento liquidatorio, perché la considerava sinonimo di superstizio-ne e di ignoranza. Non così l’Illuminismo continentale, in partico-lare tedesco, il quale aveva riconosciuto il valore dei contenuti del-la tradizione cristiana, sancendo un legame di stretta continuità tra il tardo Umanesimo ed il Romanticismo61. Gadamer riabilita il mo-vimento illuministico, gli rende giustizia, sapendo distinguere tra l’anti-dogmatismo che ne contrassegnava le posizioni e lo spesso frainteso anti-storicismo, che di anti-tradizionalismo in senso stret-to aveva ben poco. L’idea di un’illuminazione della Ratio riposa sulla convinzione che bisogna affrancarsi dalle tenebre. Sia pur in modo indiretto, pertanto, sussiste un rapporto molto netto con il passato, nell’ottica di una progettualità etico-politica molto forte: 60 Ivi, pp. 8-9. 61 H.-G. GADAMER, Verità e metodo, cit., p. 320. Sul tradizionalismo di area francese e sulle sue molteplici significazioni in relazione ad autori quali Maistre e Bonald, si rinvia ancora al citato studio di P. PASTORI, Tradizione e tradizionalismi.

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permettere all’uomo – kantianamente – di uscire dallo stato di mi-norità imputabile a se stesso, garantendogli un miglioramento pro-gressivo delle sue condizioni di vita. L’opera di Gadamer dimostra come l’idea di rottura con la tradizione abbia attraversato l’intero evo moderno e come sia sinonimo di una forma di trasformazione politica di largo raggio e di profondo respiro, in una condizione in cui la filosofia detta i rapporti con il passato e la politica disegna le strategie del rinnovamento. In realtà, ogni esperienza umana – teo-rica o pratica che sia – è tradizione, nel senso che si inserisce in un contesto ad essa precedente, da cui trae spunto per approntare rego-le di ragionamento: anche nella negazione del passato, c’è sempre una sua lineare continuazione.

Forse, si può trarre, da queste considerazioni, qualche provviso-ria conclusione. Nell’analizzare la questione della tradizione, Ga-damer pensa ancora storicisticamente: tra il soggetto interpretante e la tradizione ci sarebbe il medium del linguaggio, mentre appare del tutto evidente che la tradizione è una forma linguistica. Non ri-ducendosi a linguaggio, essa conserva ancora una consistenza on-tologica che dà da pensare.

C’è dell’altro. Non è possibile declinare al singolare il concetto di tradizione, senza correre il rischio di cadere o nelle spire delle filosofie della storia o negli odiosi tranelli delle ideologie, di cui pullula il secolo appena trascorso. La tradizione è, per così dire, le tradizioni: il concetto è un termine singolare collettivo. Tale mol-teplicità è irriducibile. Ciò non significa che ognuno ha la sua tra-dizione o che ciascuno può fare l’uso che crede dei retaggi del pas-sato: se così fosse, la conclusione sarebbe solo quella di un brutale anarchismo. Tutto questo implica solo, per l’appunto, che la tradi-zione va interpretata, interpellata, compresa. La sua varietà è una risorsa. Si può raggiungere lo stadio di una piena comprensione ermeneutica del concetto di tradizione solo nell’ottica dello studio dello spettro semantico di tale concetto. Si rigettano, così, le briglie dei condizionamenti ideologici ed i falsi scettri delle metafisiche dell’assoluto, che, viceversa, tendono a pensare la tradizione all’insegna di un’unica fondante accezione e si appropriano del passato presentandolo come tale, quando magari esso è solo una

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nostra rappresentazione del tempo da cui siamo contenti di credere d’essere venuti.

L’ermeneutica filosofica – lo abbiamo visto – è una prospettiva che apre molte vie critiche. Conversa con il passato, getta un ponte verso il futuro, indaga con spirito d’avventura il presente. Ma forse emerge un altro limite. Se la filosofia perde specificità trasforman-dosi in teoria dell’interpretazione, alla fine si riduce a coincidere con una generica nozione di ‘cultura’, un concetto, questo, troppo generico per pretendere di dargli credibilità. Troppo ampio il suo spettro semantico, troppo numerose le sue pretese per poterle do-minare. Già definire l’assetto della ricerca filosofica è impresa quanto mai proibitiva; identificarla, poi, con l’idea di cultura tout court significa lasciarla scadere al rango di una forma di inconclu-dente ricerca su tutto e su tutti.

L’ironia ed il paradosso non celano l’articolazione problematica che si nasconde alle spalle di quest’osservazione. La riduzione del-la filosofia a cultura tradisce un duplice disegno: o si intende ripro-porre un concetto surrogatorio di filosofia come enciclopedia, tale da definirla come la scienza che sintetizza e sistematizza ogni for-ma di sapere umano; oppure la si scioglie nei saperi umani, come se questi non stessero aspettando altro che essere benedetti dalle speculazioni dei filosofi. Nel primo caso, avremmo a che fare an-cora con una filosofia dei sistemi; nel secondo, con un disegno del-la geografia dei saperi in cui la boeziana Domina Philosophia è parcellizzata a tal punto da scomparire del tutto dalla scena, anche se il suo nome di tanto in tanto echeggia, sempre più da lontano.

4. L’ermeneutica come ‘filosofia del finito’: le conseguenze eti-co-politiche

Il Novecento è stato un secolo quanto mai «lungo»62. I mutamenti

avvenuti nel suo corso hanno avuto una portata ampia ed epocale. 62 È nota la polemica, avviata, nel 1994, dalla tesi di E.J. HOBSBAWM (Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995), sul senso del secolo XX. Come ha scritto M.L. SALVADORI, non solo si può rovesciare l’assunto di Hobsbawm, ma addirittura si può parlare del Novecento come del secolo

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Come ha scritto qualcuno, «il Novecento è stato il secolo […] del dubbio radicale»63, quello in cui la scepsi ha eroso le grandi catte-drali metafisiche in cui ha creduto la modernità. È inevitabile, dun-que, che gli equilibri del nostro tempo si giochino sulla concerta-zione delle forze che li rendono possibili. A questo tipo di concer-tazione provvede la politica. Già secondo Aristotele, essa è la «più architettonica» delle scienze umane, perché si raccolgono nel suo dominio un ampio numero di saperi e di esigenze64. Ora, quali sono le conseguenze sul piano dell’organizzazione politica delle relazio-ni inter-individuali di una sottile analisi come quella di Gadamer?

Ribadisce il filosofo di Breslavia: «L’ermeneutica non è soltanto un metodo delle scienze, o addirittura la caratteristica di un […] gruppo di scienze. Essa indica piuttosto una capacità naturale dell’uomo»65. Tra tali capacità ci sono quelle di agire e di darsi una progettualità politica, all’insegna della categoria del dialogo, re-sponsabile della codificazione di un rapporto io-tu nei riguardi del tempo e delle cose. «[…] Ho cercato di dimostrare nei miei lavori – continua Gadamer – che il modello del dialogo per questo genere di partecipazione ha un significato strutturale. Poiché il dialogo è contraddistinto dal fatto che non soltanto uno possa valutarne il ri-sultato, […] ma che piuttosto nell’essere insieme si acquisti parte-cipazione alla verità, e partecipazione reciproca»66. Conta, alla luce del nostro discorso, questo secondo tipo gadameriano di partecipa-zione, quello che mette in comunicazione individui all’insegna dell’esercizio della phrónesis, della saggezza, del buon senso e del-la capacità di proiettarsi verso il futuro. E qui la saggezza e la pru-denza non si pongono tanto come l’aristotelica virtù dianoetica propria del sapiente, ma alla maniera della capacità di fare conflui-

«più lungo della storia» (Il Novecento. Un’introduzione, Roma-Bari, La-terza, 2002, p. 157). 63 M.L. SALVADORI, Il Novecento, cit., p. VI. 64 Cfr. ARISTOTELE, La Politica, a c. di R. Laurenti, Bari, Laterza, 1966, 1288 b, pp. 168-69. 65 H.-G. GADAMER, Ermeneutica come compito teoretico e pratico, in ID., Verità e metodo 2, cit., p. 261. 66 ID., Problemi della ragion pratica, in ID., Verità e metodo 2, cit., p. 283.

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re punti di vista diversi nel dialogo, in vista di una «scelta delibera-ta (prohaìresis)»67 e consapevole. Da qui il riemergere dell’interesse aristotelico per Aristotele e l’avvio di un autentico processo di «riabilitazione» della filosofia pratica68.

«Bisogna riflettere sulla filosofia della responsabilità personale e sul carattere comunicativo della nostra prassi. Dobbiamo trovare noi stessi le vie: le vie dell’intesa e della solidarietà. Secondo me, oggi il compito principale della politica è quello di rafforzare le au-tentiche forme di solidarietà nella coscienza collettiva»69. Può, for-se, apparire, quello di Gadamer, un astratto proponimento. Non è così. O non del tutto. La causa di ciò risiede nel fatto che la propo-sta critica gadameriana si colloca nel solco della riflessione etico-politica sui temi della responsabilità e della convivenza solidale. Tutto ciò chiama in causa il concetto di giustizia e l’uso politico che se ne può fare. Il tema dei rapporti tra libertà e giustizia è sem-pre stato al centro dei dibattiti di teoria politica. La posta in gioco è alta: armonizzare la capacità del singolo di articolare la propria li-bertà nel mondo entro un contesto sociale tale da porsi come coor-dinazione sistematica delle azioni degli individui.

Partendo dalle posizioni di John Rawls, è sorto, negli ultimi vent’anni, un ampio dibattito su questi temi, nel tentativo di defini-

67 Gadamer trae tale nozione da ARISTOTELE, il quale ne tratta in Etica Nicomachea, a c. di C. Mazzarelli, Milano, Bompiani, 2000, 1113 a 15 -1113 b 2, pp. 123-25. 68 Cfr. AA.VV., Rehabilitierung der praktischen Philosophie, hrsg. von M. Riedel, Bde. 2., Freiburg i. Br., Rombach, 1972-1974; W. HENNIS, Politik und praktische Philosophie. Schriften zur politischen Theorie, Stuttgart, Klett-Cotta, 19772; per una ricostruzione del dibattito sollevato da tali proposte speculative, cfr. F. VOLPI, La rinascita della filosofia pratica in Germania, in AA.VV., Filosofia pratica e scienza politica, a c. di C. Pacchiani, Abano, Francisci, 1980, pp. 11-97; si consultino anche AA.VV., Tradizione e attualità della filosofia pratica, a c. di E. Berti, Genova, Marietti, 1988; F. VOLPI, Tra Aristotele e Kant: orizzonti, pro-spettive e limiti del dibattito sulla «riabilitazione della filosofia pratica», in AA.VV., Teorie etiche contemporanee, a c. di C.A. Viano, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, pp. 128-48. 69 C. DUTT-H.-G. GADAMER, Dialogando con Gadamer, cit., pp. 79-80.

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re le sfide che la cittadinanza democratica deve affrontare nell’era della mondializzazione dell’economia. La domanda fondamentale cui si fa riferimento non è tanto quella intorno al significato filoso-fico del concetto di giustizia, quanto quella relativa allo sforzo di garantire le differenze individuali in un orizzonte socio-politico che permetta un’equa distribuzione dei beni. In fondo, il bisogno di giustizia sociale non basta più, né ha più senso almanaccare sull’opposizione tra conservatori-reazionari e progressisti-rivoluzionari. Occorre indicare le sfere di competenza di ciascuno ed agire di conseguenza. In questo modo, si dà scacco alle troppo nette semplificazioni sia della tradizione materialistica ottocente-sca, sia dell’utilitarismo anglo-americano. Lungo questa linea si colloca l’opera rawlsiana. «Ogni persona – scrive il politologo di Baltimora – possiede un’inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. Per questa ragione la giustizia nega che la perdita della libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggiori benefici goduti da altri»70. L’eguale libertà di cittadinanza, di cui si gode in una socie-tà giusta, e l’originaria posizione di eguaglianza sono due dei re-quisiti essenziali per la persistenza di un criterio di equità nell’organizzazione della vita pubblica, per dar spazio ad una con-dizione di «equilibrio riflessivo»71 tra le varie componenti del vive-re civile. Scegliere i criteri su cui una società così intesa si fonda significa squarciare il «velo di ignoranza» che crea differenze e prevaricazioni e, in più, dà libero spazio alle capacità individuali di stabilire un patto di collaborazione. Qui Rawls riconosce la matrice kantiana del suo pensiero72. È chiaro, a questo punto, che l’opera di

70 J. RAWLS, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 19914, p. 21. La prima edizione risale al 1971. 71 Ivi, p. 35. 72 Rawls dichiara: «Credo che Kant abbia sostenuto che una persona agi-sce autonomamente quando i principî della sua azione sono scelti da lui come l’espressione più adeguata possibile della sua natura di essere ra-zionale libero ed eguale. I principî in base ai quali agisce non vanno adot-tati a causa della sua posizione o di ciò che gli capita di volere. Agire in base a questi principî significherebbe agire in modo eteronomo. Il velo di ignoranza priva le persone nella posizione originaria delle conoscenze che

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Rawls si presenta come una forma di neo-contrattualismo: «È mio scopo presentare una concezione della giustizia che generalizza e porta ad un più alto livello di astrazione la nota teoria del contratto sociale, quale si trova ad esempio in Locke, Rousseau e Kant»73. A giudizio di Rawls, la differenza sostanziale, per l’appunto, consiste non più nel giustificare razionalmente, come nel contrattualismo classico, il potere dello Stato, ma nel proporre un modello di socie-tà giusta74.

Il neo-contrattualismo di Rawls assume, in prima istanza, una va-lenza etica, i cui contenuti attendono di essere tradotti in termini di prassi politica ed istituzionale. Come commenta Norberto Bobbio, «il neo-contrattualismo, cioè la proposta di un nuovo patto sociale, globale e non parziale, di pacificazione generale e di fondazione di un nuovo assetto sociale, di una vera e propria “nuova alleanza”, nasce proprio dalla constatazione della debolezza cronica di cui dà prova il potere pubblico delle società economicamente e politica-mente più sviluppate, diciamo pure […] della crescente ingoverna-bilità delle società complesse»75. Ecco perché, quando Rawls parla

le metterebbero in grado di scegliere principî eteronomi. Le parti giungo-no insieme alla loro scelta, in quanto persone razionali libere ed eguali, conoscendo solo quelle circostanze che fanno sorgere il bisogno di prin-cipî di giustizia» (Ivi, p. 216). 73 Ivi, p. 27. 74 Sulla tematica filosofico-politica del contrattualismo, si rinvia a M. D’ADDIO, L’idea del contratto sociale dai sofisti alla riforma e il De principatu di Mario Salamonio, Milano, Giuffrè, 1954; G. GONELLA, La crisi del contrattualismo, Milano, Giuffrè, 1959; N. BOBBIO, Il contratto sociale, oggi, Napoli, Guida, 1980; J.W. GOUGH, Il contratto sociale: storia critica di una teoria, Bologna, Il Mulino, 1986. 75 N. BOBBIO, Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 1984, p. 165. Continua Bobbio: «Se mai la maggiore difficoltà che il neo-contrattualismo oggi deve affrontare dipende dal fatto che gli individui detentori […] di una piccola quota del potere sovrano […] non si accon-tentano più di chiedere in cambio della loro obbedienza la protezione del-le libertà fondamentali e della proprietà […], ma chiedono che venga in-serita nel patto qualche clausola che assicuri un’equa distribuzione della ricchezza tale da attenuare […] le disuguaglianze dei punti di partenza (il

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dei principî della giustizia come diritto di godere delle libertà e come distribuzione delle ricchezze, pianifica un modello teorico volto a valere come strumento di regolazione della vita dei cittadi-ni, attraverso adeguati meccanismi di compensazione. Il passo suc-cessivo è il recupero della tradizione solidaristica della Rivoluzione francese: «Possiamo associare – egli stabilisce – alle tradizionali idee di libertà, fraternità ed uguaglianza l’interpretazione democra-tica dei due principî di giustizia nel modo che segue: la libertà cor-risponde al primo principio, l’eguaglianza all’idea di eguaglianza del secondo principio unita all’eguaglianza di equa opportunità, e la fraternità al principio di differenza»76. Da qui la critica rawlsiana all’utilitarismo di matrice benthamiana e sidgwickiana, accusato di indebita pianificazione delle aspirazioni socio-economiche della comunità. L’utilitarismo, in definitiva, sostituisce il bene al giusto, frustra le prospettive dei singoli ed il loro spirito di competizione; pertanto, è irrealizzabile come prospettiva etico-politica, dal mo-mento che quel che occorre è un concetto di giustizia come equità, non come stretta uguaglianza77.

La confluenza di quest’ordine di ragionamenti entro una forma sistematica di liberalismo politico è quasi scontata. Come accetta la sfida del pluralismo questa teoria della giustizia, garantendo gli e-quilibri di una società di individui capaci di esprimere la loro natu-ra78? La direzione rawlsiana è quella della messa a punto di una forma organica di liberalismo pluralistico. Com’è noto, un simile programma politico ha suscitato la critica di molti autori. Tra que-sti, personaggi del calibro di Robert Nozick79 e, prim’ancora, Frie-

che spiega il successo del libro di Rawls che intende rispondere proprio a questa domanda)» (Ivi, p. 166). 76 J. RAWLS, Una teoria della giustizia, cit., p. 102. 77 Cfr. Ivi, p. 40. 78 È, questa, la domanda intorno a cui ruota l’opera rawlsiana dal titolo Liberalismo politico, Milano, Edizioni di Comunità, 1994, pubblicata in inglese nel 1993. 79 Cfr. R. NOZICK, Anarchia, stato e utopia, Firenze, Le Monnier, 1981. Il libro è del 1974.

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drich von Hayek80. La teoria dello «stato minimo» del primo perora la priorità assoluta dell’individuo sullo Stato e la legittimità della proprietà, proponendosi come un progetto utopico capace di supe-rare l’anarchia di un ipotetico stato di natura ed ogni forma di cen-tralizzazione statuale. Il secondo ha insistito sul valore della libertà individuale, da intendersi come la condizione di assenza di costri-zioni esterne. Lo Stato deve intervenire il meno possibile nella vita individuale, garantendo l’esercizio del libero arbitrio, all’insegna delle norme, che garantiscono l’equità della vita associata. Dinanzi al libero mercato ed al mondo dell’economia che produce ricchez-za, la politica manifesta le proprie imperfezioni e la propria provvi-sorietà. Questa è la ragione per cui, a parere di Hayek, alla demo-crazia va sostituita una forma di «demarchia», cioè un tipo di go-verno rispettoso della sfera individuale81. 80 Cfr. F. von HAYEK, Legge, legislazione e libertà, Milano, Il Saggiato-re, 1986. Questo studio uscì, in tre volumi, tra il 1973 ed il 1979.

81 A proporre una sintesi comunitarista tra liberalismo e statalismo è, nel 1981, l’inglese Alasdair MacIntyre. A suo giudizio, non è possibile né un’idea di giustizia, né una società giusta senza una corrispondenza biu-nivoca tra individuo e società, tra la libertà del singolo e le tradizioni so-cio-culturali di cui si è parte. Cfr. A. MACINTYRE, Dopo la virtù. Sag-gio di teoria morale, Milano, Feltrinelli, 1988. Posizioni critiche abba-stanza in linea sul tema della libertà individuale esprime, nel 1987, A. HELLER, Oltre la giustizia, Bologna, Il Mulino, 1990.

Sull’articolata questione, si veda anche solo AA.VV., Über John Rawls' Theorie der Gerechtigkeit, hrsg. von O. Höffe, Frankfurt am Main, Suhr-kamp, 1977; M. INTROVIGNE, I due principî di giustizia nella teoria di Rawls, Milano, Giuffrè, 1983; G. BOSS, La mort du Leviathan: Hobbes, Rawls et notre situation politique, Zurich, Editions du Grand midi, 1984; P. COMANDUCCI, Contrattualismo, utilitarismo, garanzie, Torino, Giappichelli, 1984; M. PATRIARCA, John Rawls: le ragioni dell’equità, Roma, Armando, 1985; O. HÖFFE, L’Etat et la justice. Les problemes ethiques et politiques dans la philosophie anglo-saxonne: John Rawls et Robert Nozick, Paris, Vrin, 1988; S. VECA, La società giusta e altri sag-gi, Milano, Il Saggiatore, 1988; R. KLEY, Vertragstheorien der Gerech-tigkeit: eine philosophische Kritik der Theorien von John Rawls, Robert Nozick und James Buchanan, Stuttgart, Bern, 1989; A. VILLANI, Senso di giustizia, equità, consenso nel pensiero di John Rawls, Napoli, Gallo, 1990; C. KUKATHAS – P. PETITT, Rawls: A Theory of Justice and its

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Questi rapidi cenni permettono di ritornare ad analizzare la pro-posta di Rawls con uno sguardo critico più avveduto ed autorizza-no a fare qualche considerazione sui rapporti tra pluralismo politi-co ed ermeneutica filosofica. Certo, i rischi di un certo deontologi-smo nella concezione rawlsiana permangono, ma questo program-ma fondato sull’idea di promuovere la libertà individuale, di creare relazioni tra le attività umane, di coordinare le tante forme dell’intelligenza nel segno della determinazione di un’idea dinami-ca e plastica dell’ordine politico e sociale pare davvero il frutto dell’applicazione di una robusta ‘mentalità’ ermeneutica.

L’espressione ‘mentalità’ conserva un carattere sfumato, inde-terminato, persino ambiguo, sembra presentare una valenza per lo piú sociologica, ma, in questa sede, può risultare assai utile. Svolge una funzione di raccordo tra l’individuazione di un problema ed i variegati orizzonti culturali su cui si staglia, cogliendo, così, gli ‘strati’ teorici di una data tematica. Quando si discute di storia del-le idee, la mentalità finisce con il coincidere con l’attrezzatura mentale di cui dispone un autore, per mettere a punto una lettura coerente di una determinata questione ed in cui si concentra l’intero bagaglio delle sue ‘pre-comprensioni’. In tal modo, si ren-

critics, Cambridge, Polity Press, 1990; P. COMANDUCCI, Il neo-contrattualismo nell’etica contemporanea, in AA.VV., Teorie etiche contemporanee, cit., pp. 108-27 ; A. VILLANI, La giustizia secondo John Rawls: da A Theory of Justice a An Idea of the Overlapping Consensus, Milano, I.S.U. Universita cattolica, 1991; K. BAYNES, The normative grounds of social criticism: Kant, Rawls, and Habermas, Albany, State University of New York Press, 1992; B. DE FILIPPIS, Il problema della giustizia in Rawls, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1992; T.W.M., POGGE, Rawls, München, C.H. Beck, 1994; P. van PARIJS, Che cos'è una società giusta?, Firenze, Ponte alle Grazie, 1995; V. IORIO, Istitu-zioni pubbliche e consenso in John Rawls, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1995; R. ALEXY, Libertà fondamentali in John Rawls, a cura di F. Sciacca, Milano, Giuffrè, 2002; AA.VV., The Cambridge companion to Rawls, ed. by S. Freeman, Cambridge, Cambridge University Press, 2003.

Su Hayek e MacIntyre, cfr. E. BUTLER, F. von Hayek, Pordenone, Studio Tesi, 1986; A. GESSA KUROTSCHKA, Alasdair MacIntyre: la vita buona e i principî, Napoli, Morano, 1995.

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dono possibili collegamenti tra orizzonti culturali diversi, accomu-nati da un medesimo sottofondo speculativo. Proprio come nel no-stro caso: parlare di ‘mentalità ermeneutica’ su cui si fonda l’idea etico-politico-istituzionale di pluralismo può servire a rendere – con un termine sfuggente, ma assai suggestivo quale quello di ‘mentalità’ – il complesso di motivi critici necessari a rendere pos-sibile il concetto di pluralità di punti di vista, la convivenza dei quali non è garantita dal principio di non contraddizione, ma dalla loro intrinseca plausibilità e dalla loro cogenza argomentativa82. Inoltre, se il neo-contrattualismo è quella prospettiva etico-politica che ricava i principî su cui si fonda una ‘società giusta’ dallo studio delle ipotetiche azioni compiute da ipotetici soggetti alle prese con certe circostanze83, allora appare evidente che il concetto di ipotesi torna a recitare un ruolo-guida, in quanto utile a configurare situa-zioni ed a derivarne i criteri su cui si incentrano. E questa è, in fon-do, la lezione più pura ed originale dell’ermeneutica filosofica.

L’ermeneutica è ormai diventata un Denkstil. E come tale condi-ziona le attività umane più disparate: l’idea di celebrare la primazia dei problemi sulle soluzioni, la convinzione del carattere ipotetico di ogni atteggiamento critico, la disponibilità a mettere in discus-sione le proprie convinzioni, privilegiando il dialogo sono elementi ormai diffusi, che vanno molto al di là dell’opera gadameriana. Ed in questo senso, una prospettiva liberale e pluralista, capace di in- 82 Sul tema della mentalità e della sua applicazione storiografica, cfr. an-che solo J. LE GOFF, Le mentalità: una storia ambigua, in AA.VV., Fa-re storia. Temi e metodi della nuova storiografia, a c. di J. Le Goff e P. Nora, Torino, Einaudi, 1981, pp. 239-58 (sulle implicazioni antropologi-che contenute in questo concetto, si consultino soprattutto le pp. 247-55 e la relativa appendice bibliografica, in coda al saggio, un po’ datata, ma pur sempre utile); P. ARIÈS, Storia delle mentalità, in AA.VV., La nuova storia, a c. di J. Le Goff, Milano, Mondadori, 1990, pp. 141-66; offre an-cora suggestive indicazioni il volume di L. FEBVRE, Problemi di metodo storico, Torino, Einaudi, 1976, soprattutto pp. 108-20 e 121-38; si veda anche, per analizzare i risvolti ideologici che si annidano dietro il concet-to di ‘mentalità’, G.E.R. LLOYD, Smascherare le mentalità, Roma-Bari, Laterza, 1991. 83 Cfr. N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, edizione aggiornata ed ampliata da G. Fornero, Torino, U.T.E.T., 19983, p. 751, ad vocem.

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terrogare la tradizione e, nel contempo, di guardare il futuro pare la conseguenza più diretta, sul piano etico-politico, che discende dall’ermeneutica intesa come pratica permanente d’interpretazione della realtà delle cose. Non a caso, come abbiamo visto, lo stesso Gadamer si richiamava ai temi del pluralismo e della responsabili-tà, perchè interessato a creare solidi punti di orientamento nel pro-cesso di lectura rerum.

5. L’ermeneutica come ‘filosofia dell’avvenire’ L’ermeneutica, dunque, perora un’idea di filosofia come stile di

elaborazione di domande, come un abituarsi a guardare le cose, senza pretendere di raggiungerne la verità. Ecco perché è del tutto erroneo attaccarla come se fosse una filosofia senza sistema. Dai tanti problemi aperti bisogna ogni volta ripartire, nel segno di un salutare filtro critico nei riguardi delle soluzioni via via proposte.

Non si tratta, in definitiva, di dare spazio ad un’idea minimalista di filosofia, ma di prendere atto, senza oziosi spiriti di utopia, che di un’idea di filosofia come sistema chiuso alla necessaria osmosi con il caotico divenire della realtà non ha più bisogno nessuno. Il nostro tempo afferra tutto con grande celerità. Morde e getta via. La filosofia non è un sistema definito di conoscenze, non sa e non può produrne. Rimane una tecnica tra le altre, ora produttiva ora oziosa, che problematizza vicende, parte dai problemi, crea colle-gamenti tra i saperi e poi si solleva, perché unicuique suum. In que-sto modo, prevale lo stile sul sistema. Così, forse, in fondo, la filo-sofia può dire sottovoce la propria o quantomeno alzare timida-mente la mano, per intervenire. Com’è giusto, non sempre le viene consentito di parlare o non sempre l’uditorio è attento ed interessa-to; ma almeno c’è volontà di prender parte al dibattito, con spirito arguto e problematico. Guardare all’ermeneutica è un modo per vedere quanto sopravvive della filosofia. Pochino, in verità; ma in tempi in cui la realtà è virtuale e la virtualità è sempre più reale e condizionante è già qualcosa.

L’ermeneutica rimane una filosofia che educa al confronto. Vale come un investimento per l’avvenire. È molto bella la conclusione

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di Verità e metodo, quando Gadamer scrive che «l’inizio dell’interpretazione, che appare un momento ‘tetico’, è già in realtà una risposta e, come ogni risposta, il senso di un’interpretazione si definisce in base alla domanda che viene posta»84. In questo senso, il dialogo diviene la cifra della civiltà contemporanea, essendo la conversazione una discussione che termina senza finire. Il dialogo «è un qualcosa in cui si capita, in cui si viene coinvolti, del quale non si sa mai prima cosa ne ‘salterà fuori’, e che si interrompe non senza violenza, perché c’è sempre qualcosa d’altro ancora da dire […]. Ogni parola ne desidera una successiva; anche la cosiddetta ultima parola, che in verità non esiste»85.

Letto nell’ottica della categoria del dialogo e fatte salve le riserve che s’è cercato di mettere in rilievo, il confronto con la tradizione può diventare davvero proficuo, utile e sinergico. In definitiva, di-nanzi ai profeti banditori di Verità, forse è preferibile la compagnia di chi si appella al demone laico del dubbio, sapendo di essere in-dissolubilmente legato al passato da cui discende.

Questo ragionamento ha anche delle ricadute sulla concezione dell’idea stessa di politica. A lungo considerata una scienza, capace di prevedere i fatti umani ed i fenomeni sociali ed altrettanto con-vintamente promossa come una disciplina in grado di vantare l’impiego di un metodo empirico di controllo dei propri asserti sul modello delle scienze naturali, oggi è, forse, possibile recuperare anche in quest’ottica il valore dell’ermeneutica, considerando la politica come una disciplina, a suo modo, interpretativa, legata allo studio di fenomeni umani complessi, ma senza la presunzione di determinarsi come un modello di lettura, metodologicamente ga-rantito, dei fatti del mondo. Una lucida considerazione di Mario D’Addio spazza via molti dubbi: «La politica non po’ essere ridotta alla scienza positiva, sperimentale degli aggregati umani o dei si-stemi politici, che determini con rigore le esigenze corrispondenti ad una situazione data e che offra la soluzione più conveniente, più funzionale, che riscuota l’unanime consenso, alla stessa guisa della soluzione di un problema di geometria o di fisica, né può essere computerizzata e quindi trasformata in mera tecnica di gestione dei 84 H.-G. GADAMER, Verità e metodo, cit., p. 539. 85 C. DUTT-H.-G. GADAMER, Dialogando con Gadamer, cit., p. 45.

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servizi della comunità. La politica non è una ingegneria sociale, ma una scienza umana, che si serve delle determinazioni empiriche ma non si riduce ad esse ed ai metodi con i quali vengono acquisite»86. Ecco perché «non esiste […] la “dottrina politica”, la sola che cor-risponde alla “verità” della politica»87. In questo processo di erme-neutizzazione della politica ritornano i temi del dialogo e del con-fronto con la priorità dei problemi, dinanzi ai quali elaborare ipote-si rivedibili, all’insegna della persuasione della finitezza di tutte le convinzioni umane. A questo, in fondo, si riduce il messaggio di Gadamer ed in quest’ottica è utile tenerne conto. E se un concetto dinamico di tradizione aiuta a problematizzare i rapporti tra storia e progresso88, si può, con fiducia, guardare tanto alla crisi delle ideo-logie, quanto al compiaciuto nichilismo postmodernista dinanzi al crollo delle firmitates in cui ha creduto la modernità, con la consa-pevolezza che, quando vien meno «l’idea del Progresso inevitabile e necessario, non resta che perseguire un progresso possibile, gui-dato da scelte consapevoli»89. E il cerchio parrebbe chiudersi; per riaprirsi di nuovo, nel segno del ‘brivido’ della ricerca critica.

86 M. D’ADDIO, Manuale di storia delle dottrine politiche, voll. 2, Ge-nova, Ecig, 19922, v. I, p. 6. 87 Ib. 88 Cfr. P. PASTORI, Tradizione e tradizionalismi, cit., pp. 7-10. 89 M.L. SALVADORI, Il Novecento, cit., p. VII.