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359 SVILUPPI CONTEMPORANEI DELLA PSICOSOMATICA * Piero Porcelli ** La psicosomatica è un campo aperto sul cui statuto epistemologico non e- siste un consenso unanime. La formula più semplice per definire la psicoso- matica è purtroppo nient’altro che una tautologia: lo studio dell’interazione mente-corpo. Definizione che, appunto, non specifica niente di più del suo enunciato poiché per ogni fenomeno umano esiste un’implicazione mente- corpo, soprattutto se si considera “corpo” anche il cervello (e non potrebbe essere altrimenti essendo un organo interno), ed è evidente che se tutto è psi- cosomatico, nulla è psicosomatico. Come scrisse Lipowski (1989) circa 25 anni fa a proposito della psichiatria, l’oggetto mente-corpo è stato “tirato” dal lato psy, soprattutto in ambito psicoanalitico, per fare una psicosomatica brainless e bodyless allo stesso modo in cui è stato “tirato” dal lato corpo, so- prattutto oggi da parte di certe neuroscienze, per fare una psicosomatica min- dless. In qualche modo provocatoriamente, molti anni fa (Todarello & Porcel- li, 1992) definimmo la psicosomatica come un paradosso epistemologico poi- ché intende analizzare un oggetto unitario mente-corpo attraverso un metodo di studio dualistico (le scienze biologiche e le scienze psicologiche). Tale im- pianto di metodo, che ha permeato non solo la cultura occidentale ma anche la formazione universitaria di base, è risultato efficace nella cura delle malattie mediche e nella nascita della psicologia, ma ci ripropone la stessa difficilissi- ma esigenza di integrare funzioni che vengono studiate al meglio in modo se- parato. In questo senso, la psicosomatica è un campo non solo aperto ma an- che affascinante poiché evidenzia i limiti di paradigmi consolidati in medicina e psicologia e costringe a pensare e operare clinicamente restando sul limite di un discorso incerto, scivoloso e senza dubbio ancora molto lontano dall’essere * Relazione, parzialmente modificata, presentata ai “Seminari Internazionali di Psicoterapia e Scienze Umane” a Bologna il 19 maggio 2012. ** UOS Psicologia Clinica, IRCCS Ospedale “Saverio de Bellis”, Via Turi, 70013 Castella- na Grotte (BA), Tel. 080-4994685, Fax 080-4994340, E-Mail <[email protected]>. Psicoterapia e Scienze Umane, 2012, XLVI, 3: 359-388 http://www.psicoterapiaescienzeumane.it Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

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SVILUPPI CONTEMPORANEI DELLA PSICOSOMATICA*

Piero Porcelli**

La psicosomatica è un campo aperto sul cui statuto epistemologico non e-siste un consenso unanime. La formula più semplice per definire la psicoso-matica è purtroppo nient’altro che una tautologia: lo studio dell’interazione mente-corpo. Definizione che, appunto, non specifica niente di più del suo enunciato poiché per ogni fenomeno umano esiste un’implicazione mente-corpo, soprattutto se si considera “corpo” anche il cervello (e non potrebbe essere altrimenti essendo un organo interno), ed è evidente che se tutto è psi-cosomatico, nulla è psicosomatico. Come scrisse Lipowski (1989) circa 25 anni fa a proposito della psichiatria, l’oggetto mente-corpo è stato “tirato” dal lato psy, soprattutto in ambito psicoanalitico, per fare una psicosomatica brainless e bodyless allo stesso modo in cui è stato “tirato” dal lato corpo, so-prattutto oggi da parte di certe neuroscienze, per fare una psicosomatica min-dless. In qualche modo provocatoriamente, molti anni fa (Todarello & Porcel-li, 1992) definimmo la psicosomatica come un paradosso epistemologico poi-ché intende analizzare un oggetto unitario mente-corpo attraverso un metodo di studio dualistico (le scienze biologiche e le scienze psicologiche). Tale im-pianto di metodo, che ha permeato non solo la cultura occidentale ma anche la formazione universitaria di base, è risultato efficace nella cura delle malattie mediche e nella nascita della psicologia, ma ci ripropone la stessa difficilissi-ma esigenza di integrare funzioni che vengono studiate al meglio in modo se-parato. In questo senso, la psicosomatica è un campo non solo aperto ma an-che affascinante poiché evidenzia i limiti di paradigmi consolidati in medicina e psicologia e costringe a pensare e operare clinicamente restando sul limite di un discorso incerto, scivoloso e senza dubbio ancora molto lontano dall’essere

* Relazione, parzialmente modificata, presentata ai “Seminari Internazionali di Psicoterapia e Scienze Umane” a Bologna il 19 maggio 2012.

** UOS Psicologia Clinica, IRCCS Ospedale “Saverio de Bellis”, Via Turi, 70013 Castella-na Grotte (BA), Tel. 080-4994685, Fax 080-4994340, E-Mail <[email protected]>.

Psicoterapia e Scienze Umane, 2012, XLVI, 3: 359-388 http://www.psicoterapiaescienzeumane.it

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definito. La stessa definizione dell’oggetto (“psicosomatica”) è contesa da molte altre etichette (psicologia della salute, medicina comportamentale, psi-cologia sanitaria, psicologia medica, psico-neuro-endocrino-immunologia, psichiatria di consultazione, ecc.). A ulteriore esempio della situazione incerta è da segnalare il dibattito attualmente in corso nell’American Psychosomatic Society sul termine psychosomatic che dà il nome all’associazione e che alcu-ni vorrebbero modificare in biobehavioral medicine perché sembrerebbe più “presentabile” all’esterno (Freeland et al., 2009), suscitando la disapprovazio-ne di molti altri ricercatori che invece difendono la legittimità concettuale del termine (Fava & Sonino, 2010).

Dalle “malattie psicosomatiche” al “peso relativo”

La data di nascita ufficiale del termine “psicosomatica” è il 1818 quando

venne usato per la prima volta dal medico tedesco Johann Christian Heinroth (Blumenfield & Strain, 2006). A restare affascinato dalla connessione fra fun-zioni psichiche e funzioni somatiche fu lo stesso Freud. Aneddoticamente, at-torno ai 30 anni Freud visse un periodo difficile accusando una sintomatologia mista di depressione, persistente affaticamento, astenia, apatia e disturbi ga-strointestinali. All’epoca la sua vita stava subendo un duplice cambiamento importante fra la prospettiva di matrimonio con Marta Bernays nel 1886 e la rinuncia alla carriera di ricercatore di neurofisiologia nel laboratorio di Ernst Brücke per quella clinica, più remunerativa, proprio in vista del futuro matri-monio. In quegli anni (1882-1885) di forzata astinenza sessuale per la lonta-nanza della fidanzata, frequentò l’Ospedale Generale di Vienna come assi-stente di neurologia, continuò ad accusare quei sintomi anche nel semestre pa-rigino da Charcot alla Salpetrière e iniziò a sperimentare gli effetti energetici e antidolorifici della cocaina che si fece spedire dagli Stati Uniti (Hartocollis, 2002). Non si sa quanto le vicende biografiche abbiano influenzato la sua teo-ria ma di fatto qualche anno dopo Freud (1894) elabora la sua concezione no-sografica basata sulla distinzione fra nevrosi attuali e psiconevrosi. Come è noto, Freud riteneva che mentre le psiconevrosi (o nevrosi di transfert: isteria d’angoscia, isteria di conversione e nevrosi ossessiva) sono causate da ricordi, fantasie inconsce e traumi infantili rimossi, le nevrosi attuali (nevrosi d’angoscia, nevrastenia e ipocondria) sono causate da un disturbo del funzio-namento biochimico della sessualità. Più specificamente, sono causate da un ingorgo libidico per astinenza sessuale o frustrazione da coito interrotto (ne-vrosi d’angoscia e ipocondria) oppure dall’esaurimento di energia per onani-smo (nevrastenia) e conseguente eccitazione trasformata in ansia automatica.

Al di là del peso eccessivo dato alla sessualità, lo schema eziologico freu-diano delle nevrosi attuali contiene alcuni aspetti che saranno poi sviluppati da altri autori lungo una linea che va, fra gli altri, da Ernest Jones, Sándor Fe-

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renczi, Wilhelm Reich, Edward Glover e Otto Fenichel per arrivare, in tempi più recenti, a Pierre Marty e Joyce McDougall fino al costrutto di alexithymia (Hartocollis, 2002) e, in campo psicopatologico, alla conservazione della dia-gnosi di nevrastenia nella classificazione dell’ICD-10 (World Health Organi-zation, 1992), anche se non in quella del DSM-IV (American Psychiatric As-sociation, 1994). Tali aspetti riguardano: a) la presenza di sintomi fisici (aste-nia, cefalea, dispepsia, stipsi) che non coinvolgono i sistemi sensoriali e moto-ri implicati invece nei sintomi di conversione; b) l’idea che i sintomi siano equivalenti somatici di ansia e non rappresentazioni dotate di significato sim-bolico; c) la concettualizzazione di sintomi che, essendo “attuali”, non riguar-dano rappresentazioni rimosse e quindi non sono direttamente modificabili dalla psicoterapia (Todarello & Porcelli, 1992). Freud (1926) derivò l’idea che, a causa della natura “non-psicologica” dei sintomi somatici attuali, gli psicoanalisti dovessero essere fortemente scoraggiati dall’indagare fenomeni psicosomatici e dal «civettare con l’endocrinologia e col sistema nervoso au-tonomo» (p. 422) per restare nell’ambito della psicologia. Tuttavia è stata proprio questa linea interpretativa delle sindromi psicosomatiche centrata sul corpo “come è” ad aver avuto maggior approfondimento in psicosomatica ri-spetto all’altra linea, più coerente con il modello psicologico dinamico, deri-vata dalla concettualizzazione del sintomo somatico come simbolizzazione inconscia, sul modello della conversione, centrata sul corpo “come se” e pre-sente in autori come Georg Groddeck, Felix Deutsch, Otto Fenichel, Roy Grinker, Sidney Margolin, Angel Garma, Melitta Sperling e Louis Chiozza (Corsi Piacentini, Furlan & Mancini, 1983).

Nei primi decenni del Novecento la teoria sul rapporto mente-corpo si è ar-ricchita notevolmente di scoperte miliari sul funzionamento neurofisiologico del sistema nervoso riguardanti soprattutto i meccanismi che consentono di vivere somaticamente un’emozione e in parallelo di esperire il complesso del-le sensazioni fisiche come rappresentazioni simboliche, alla base della distin-zione fra emotions e feelings, come vedremo in seguito. A grandi linee, si possono qui citare le tappe fondamentali costituite dalla scoperta della centra-lità dell’ipotalamo e dei circuiti di feedback con la corteccia di attivazione e inibizione (Walter Cannon, anni 1920); dalla descrizione dei circuiti di up-stream (generazione di pensieri, percezioni e ricordi dalla corteccia sensoriale al talamo anteriore) e downstream (generazione di emozioni proiettata sul corpo, dall’ipotalamo alla corteccia del cingolo) (James Papez, anni 1930); dalla descrizione dello stress (Hans Selye, anni 1930-40); dalla tripartizione del cervello in rettilico (emozioni grezze), limbico (emozioni) e neocorticale (cognizione e controllo emotivo) per cui le emozioni possono trovare imme-diata espressione attraverso il sistema nervoso autonomo, invece di essere e-laborate dalla neocorteccia e dal linguaggio simbolico, con un proprio “lin-guaggio d’organo” (Paul MacLean, anni 1940-50); dall’ipotesi dell’arresto evolutivo della personalità come il core problem delle malattie psicosomati-

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che (Jurgen Ruesch, fine anni 1940) (Porcelli, 2009; Grandi, Rafanelli & Fa-va, 2011). A grandi linee, la psicosomatica moderna nasce a metà del XX se-colo dall’incontro fra le nuove acquisizioni della neurobiologia delle emozioni e il paradigma all’epoca molto forte della psicoanalisi a cui Franz Alexander (1950) affidava il ruolo di “microscopio psicologico” da aggiungere a quello ottico della biomedicina, «cioè una tecnica psicologica attraverso la quale la vita emotiva del paziente può esser sottoposta a un’analisi dettagliata» (p. 37). Sulla base di quest’impalcatura concettuale, vennero definite attorno agli anni 1950 specifiche tipologie di conflitto e costellazioni difensive associate ad al-cune altrettanto specifiche patologie a eziologia sconosciuta dalla medicina dell’epoca, le cosidette holy seven (ulcera peptica, rettocolite ulcerosa, asma bronchiale, ipertensione essenziale, patologie tiroidee, neurodermatiti e artrite reumatoide), ancora oggi ritenute le classiche sette “malattie psicosomatiche” dal largo pubblico e spesso dagli stessi addetti ai lavori. Il “modello del con-flitto” fece vivere alla psicosomatica psicoanalitica una vera “epoca d’oro”: basti pensare che negli anni 1940-50 ben 11 dei 16 presidenti dell’American Psychosomatic Society, fondata nel 1942, furono psicoanalisti. In Europa, J. Cremerius nel 1950 aprì il primo reparto ospedaliero di medicina psicosoma-tica al policlinico di Monaco in Germania, paese in cui la psicosomatica è nata dalla medicina internistica come scienza multidisciplinare grazie all’opera di pionieri della “scuola di Heidelberg” come Viktor von Weizsäcker, Thure von Uexküll e Alexander Mitscherlich, e unico paese al mondo, insieme al Giap-pone, in cui la medicina psicosomatica ha uno status indipendente a livello universitario e assistenziale (Deter, 2004; Diefenbacher, 2005).

Per complesse ragioni, alcune delle quali legate alla delusione dell’applicazione della psicoanalisi in psicosomatica dopo l’eccessivo entusia-smo iniziale (Wittkover, 1974), negli ultimi 30-40 anni il paradigma di riferi-mento è diventato il modello biopsicosociale di George Engel (1977), medico internista e psicoanalista (ma non psichiatra) che mette in discussione il con-cetto di base dell’esistenza di “malattie psicosomatiche”. Engel (1967) e Li-powski (1986) sono stati fra coloro che hanno infatti maggiormente criticato il concetto di “malattia psicosomatica” il quale implica l’esistenza di una classe speciale di disturbi a eziologia psicogenetica e, di conseguenza, l’assenza di un’interfaccia psicosomatica in altre malattie. La critica alle “malattie psico-somatiche” come entità nosologiche discrete a eziologia psicogenetica è im-portante perché più coerente con il cambiamento della natura delle malattie mediche in questo millennio e quindi anche con il modo di concepirle. Un de-ciso passo avanti nella formulazione del concetto di psicosomatica è stato senza dubbio compiuto da Kissen (1963) secondo cui il peso relativo dei fat-tori psicosociali può variare da un individuo all’altro nell’ambito della mede-sima malattia, sottolineando l’errore concettuale di considerare le malattie come entità omogenee. Ritengo che il concetto di peso relativo sia un punto fermo nel pensare il campo della psicosomatica: se è vero che tutti i punti di vista sono legittimi nella pratica clinica (i meccanismi biochimici per la medi-

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cina, le funzioni mentali per la psicologia, ecc.), è anche vero che non tutti hanno la medesima importanza poiché le malattie sono multifattoriali ed ete-rogenee. Il problema quindi non è capire qual è la causa della patologia X (modello mono-causale classico), né se tale patologia è da considerarsi psico-somatica o meno (malattie come entità omogenee). Il vero problema è il peso relativo dei fattori implicati, da cui deriva anche la possibilità di intervenire in modo differenziato e individualizzato (Porcelli, 2009; Fava, Sonino & Wise, 2012).

A grandi linee, la clinica psicosomatica (ossia l’inquadramento di un fe-nomeno clinico in ottica biopsicosociale) può esser oggi concepita all’interno di due assi ortogonali, uno relativo alla malattia e l’altro al paziente.

Primo asse: la multifattorialità delle malattie

Secondo il modello biopsicosociale, i fattori biologici, sociali, psicologici,

comportamentali e spirituali (legati a significati e scopi esistenziali) contribui-scono in maniera multifattoriale e individualizzata nel determinare sia uno specifico stato di malattia che la percezione generale di salute come “proprietà emergente”, ossia un sistema complesso di grado superiore e qualitativamente diverso rispetto agli elementi che lo compongono a un livello inferiore, come l’acqua rispetto alle molecole di idrogeno e ossigeno. La psicosomatica è cambiata negli ultimi cinquant’anni proprio perché alcuni fattori essenziali sono cambiati nel tempo, e fra questi la natura stessa delle malattie e dei corri-spettivi trattamenti. La cura centrata su un solo fattore è stato il modello della medicina dell’Ottocento e del Novecento basata su malattie acute e su un’aspettativa di vita media di 47 anni, a cui la psicosomatica classica si è a-deguata concependo la multifattorialità come serie di fattori psicologici ag-giunti a quelli biologici (Tinetti & Fried, 2004; Fava & Sonino, 2010). Il qua-dro delle malattie nella società occidentale del XXI secolo è invece profon-damente cambiato.

Dati ufficiali di varie agenzie (Ministero della Salute italiano, Center for Disease Control americano, Health Alliance inglese) illustrano uno scenario peculiare delle malattie nel mondo. In Italia l’aspettativa di vita oggi è di 77 anni per i maschi e 83 per le donne, fra un quarto e un quinto delle persone soffre di malattie croniche di cui il 17% circa (pari grosso modo a un milione e mezzo) in una fascia di età non anziana (45-54 anni) e che sono responsabili del 40-50% dei ricoveri ospedalieri. Nei paesi occidentali il 75-80% della spe-sa sanitaria è assorbito dalle patologie croniche, pari all’1-7% del Prodotto In-terno Lordo (PIL) nazionale: ad esempio, la spesa per il diabete in Italia è più che raddoppiata passando dai 5 miliardi di euro del 1998 agli 11 miliardi nel 2010. Il diabete è una malattia che illustra bene come sia pressoché impossibi-le separare nettamente aspetti biologici, comportamentali, psicologici e socio-economici essendo una patologia strettamente legata a fattori endocrinologici,

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nutrizionali, alimentari, stile di vita e gestione sanitaria. Recentemente (Scul-ly, 2012) è stato mostrato come nel mondo il diabete sia significativamente più frequente nelle fasce sociali ad alto reddito (attorno al 25%) rispetto a quelle a basso reddito (attorno al 7%) ma la mortalità per diabete è più alta nelle fasce a basso reddito (1,5‰) rispetto a quelle ad alto reddito (0,5‰). È interessante notare che il tasso di mortalità è altissimo in paesi come India e Cina (25-30‰) in cui il servizio sanitario impiega pochissime risorse econo-miche (circa 1.000 dollari pro-capite) mentre, all’inverso, la mortalità si man-tiene relativamente bassa (1-2‰) in paesi come Australia, Germania e Regno Unito che hanno una spesa sanitaria elevata per questa patologia (12-18.000 dollari pro-capite). Diabete, obesità e sindrome metabolica (patologie multi-fattoriali legate principalmente a stili di vita disfunzionali) sono fra le cause del cambiamento di malattie in altri campi specialistici della medicina come per esempio l’epatologia. Una delle malattie più pericolose in questo campo, che ha impegnato moltissime risorse negli anni scorsi, come l’epatite cronica da virus C (HCV) sta progressivamente diminuendo nel mondo, con un tasso di prevalenza che si sta abbassando dal 3% degli anni 1980-90 a circa il 2% attuale, con punte dello 0,1% nei paesi scandinavi (Te & Jensen, 2010). Di contro, stanno aumentando patologie epatiche dovute a infiammazione per ac-cumulo di grasso nel fegato, altrettanto pericolose come l’epatite C, che però non sono causate da un’infezione virale o dall’abuso di alcool (fattore eziolo-gico monocausale) ma da fattori causali multipli (sedentarietà, cattive abitudi-ni alimentari, diabete, obesità, sindrome metabolica, ecc.). Queste “nuove” malattie epatiche – nonalcoholic fatty liver disease (NAFLD) e nonalcoholic steatohepatitis (NASH) – sono state diagnosticate negli anni 1980-90 e hanno una diffusione progressiva preoccupante, con stime che vanno dal 9% al 37% (Vuppalanchi & Chalasani, 2009). Al recente maggior congresso americano di gastroenterologia (Digestive Disease Week) tenutosi a San Diego in California nel maggio 2012, è stato riportato un incremento di NASH dal 23% (anni 1980) al 49% (anni 1990) al 60% (oggi) in pazienti obesi (Lee et al., 2012). Nei paesi occidentali, infine, il 46% del DALYs (Disabled-Adjusted Life Ye-ars) – indice che quantifica gli anni di vita in condizioni di buona salute persi per disabilità o malattie – è dovuto a malattie croniche “non trasmissibili” (cardiovascolari, oncologiche, respiratorie e psichiatriche, in primo luogo la depressione), che pesano per il 59% sui decessi (World Health Organization, 2007).

In termini clinici, l’insieme di questi dati epidemiologici significa che il paziente medio è sempre più spesso una persona che soffre di patologie medi-che croniche, più anziano, con elevati costi socio-sanitari, la cui cura riguarda molti aspetti della propria esistenza, da quelli strettamente biomedici a quelli psicologici, sociali, lavorativi, stile di vita, ecc. I fattori psicologici costitui-scono quindi solo uno degli aspetti con peso relativo variabile nel determinare esordio, decorso e prognosi di un disturbo fisico che per sua natura è multifat-toriale.

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L’interazione biologia-psicologia nelle malattie Nell’ultimo decennio sono stati pubblicati numerosi studi di interazione

complessa fra aspetti biologici (dalla genetica ai marker pro-infiammatori), aspetti psicologici (depressione, relazioni interpersonali, rapporti affettivi) e malattie. Le ricerche sono sparse in molte riviste, il che purtroppo non consen-te di avere facilmente una visione d’insieme. L’aspetto interessante è che gran parte dei lavori è pubblicata non solo su riviste del settore (psicosomatica) ma spesso su riviste di medicina, meno su riviste di psicologia e pochissimo su riviste di psicoterapia o psicoanalisi. Ciò da un lato testimonia il grande inte-resse della medicina per gli aspetti extra-biologici dovuto proprio al cambia-mento delle malattie nelle società industrializzate ma dall’altro limita la cono-scenza e in qualche caso anche la consapevolezza della complessità delle rela-zioni mente-corpo. Molti dei pazienti dei nostri ambulatori di psicoterapia so-no infatti pazienti “psicosomatici” senza che il terapeuta ne sia pienamente consapevole o perché ignora del tutto i problemi fisici del paziente o perché ha accettato la delega specialistica per cui lo psicoterapeuta si occupa solo del pezzo “mente” e non di tutto ciò che riguarda il suo cervello e il suo corpo.

Uno dei primi studi seminali a questo riguardo, ad oggi citato più di 3.000 volte in letteratura, ha analizzato l’interazione fra determinanti genetiche, maltrattamento infantile e comportamento antisociale adulto (Caspi et al., 2002). Sono stati studiati 1.037 bambini australiani reclutati in un’indagine epidemiologica longitudinale, valutati da 3 a 26 anni. È noto che bambini a-busati o traumatizzati per maltrattamento da parte dei genitori sono a rischio di sviluppare un disturbo antisociale di personalità da adulti o di diventare essi stessi molto violenti e abusanti. Poiché, però, circa il 50% dei bambini abusati non manifesta comportamenti delinquenziali da adulti, si è pensato che vi pos-sa essere una vulnerabilità genetica nei bambini a rischio. Sono state pertanto valutate le differenze individuali di un polimorfismo genetico dell’enzima mono-amino-ossidasi A (MAOA), localizzato nel cromosoma X, che metabo-lizza neurotrasmettitori come noradrenalina, serotonina e dopamina. Le espe-rienze infantili sono state valutate fra i 3 e gli 11 anni di età e categorizzate come maltrattamento severo (8%), probabile (28%) e assente (64%). Il com-portamento antisociale, valutato all’età di 26 anni, è stato desunto da un indice composito formato da diagnosi DSM-IV di disturbo della condotta, detenzio-ne per crimini violenti, tratti psicologici di aggressività e disturbo di persona-lità antisociale valutato da terzi (by proxy). Lo studio ha evidenziato un chiaro rapporto gene-ambiente: i soggetti violenti sono caratterizzati sia dall’aver su-bito maltrattamenti in età infantile che dalla maggiore attività MAOA (vedi Figura 1).

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Figura 1: Comportamento antisociale (indice composito formato da di-sturbo della condotta, detenzione per crimini violenti, tratti psicologici di aggressività e personalità antisociale) in età adulta, attività di MAOA e maltrattamento subìto nell’infanzia (modificato da Caspi et al., 2002)

-0.4

-0.2

0

0.2

0.4

0.6

0.8

1

1.2

Elevata attività MAOA

Bassa attività MAOA

Il comportamento antisociale adulto non è quindi dovuto interamente alle

caratteristiche ambientali (maltrattamenti subiti durante l’infanzia) o alle ca-ratteristiche genetiche (caratterizzazione del genotipo del promotore del gene della MAO) ma all’interazione di entrambi i fattori i quali mediano recipro-camente la predizione del comportamento adulto. Lo stesso risultato è stato ottenuto sulla stessa coorte analizzando l’interazione fra il polimorfismo con due alleli short del transporter della serotonina (5-HTTPLR), il maltrattamen-to infantile e la diagnosi di Depressione maggiore a 26 anni (Caspi et al., 2003), e una recente meta-analisi ha confermato una forte evidenza che il po-limorfismo short/short del 5-HTTPLR media le relazioni fra depressione e una serie di fattori stressanti quali maltrattamento infantile e condizioni medi-che come ictus, morbo di Parkinson, patologie cardiache e malattie croniche (Karg et al., 2011).

Le ricerche sul maltrattamento infantile offrono una buona possibilità di valutare gli effetti a lungo termine non solo sulle conseguenze psicologiche ma anche su quelle fisiche. Una meta-analisi ha trovato infatti un’associazione del maltrattamento infantile con varie patologie mediche in età adulta (cardio-vascolari, respiratorie, gastrointestinali, metaboliche, neurologiche e muscolo-scheletriche) pari a 0.42, molto vicina a quella con i disturbi psicopatologici (d=0.37) (Wegman & Stetler, 2009), con un rischio da 2 a 2,5 volte maggiore

Indi

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Nessuno Probabile Grave

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per disturbi somatici funzionali, dolore cronico e dolore pelvico (Paras et al., 2009). Gli effetti di lungo periodo non riguardano solo la disregolazione dell’asse ipotalamico-pituitario-surrenale (HPA) ma anche modificazioni ce-rebrali e immunitarie. Ad esempio, uno studio recente, controllando molti fat-tori confondenti, ha evidenziato in soggetti adulti sani che avevano subito grave maltrattamento infantile la presenza di iper-attivazione dell’amigdala alla risonanza magnetica funzionale (fMRI) e riduzione volumetrica dell’ippocampo alla VBM (voxel-based morphometry) simile a quanto riscon-trato in pazienti con depressione e Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), tanto che gli autori definiscono “ferite limbiche” (limbic scars) gli effetti cerebrali profondi del maltrattamento (Dannlowski et al., 2012). Le complesse connessioni fra eventi infantili e modificazioni cerebrali possono innescare conseguenze su sostanze attivate in patologie all’apparenza molto diverse come la Depressione maggiore e le patologie cardiovascolari. Il grup-po di Caspi ha trovato un rapporto dose-risposta fra maltrattamento infantile e livelli di proteina C-reattiva (PCR), indipendentemente da vari fattori di ri-schio (livello socio-economico della famiglia di origine e attuale, Quoziente Intellettivo [QI] infantile, Depressione maggiore da adulti, stress percepito, rischio cardiovascolare, attività fisica, fumo e uso di anti-infiammatori non-steroidei) (Danese et al., 2007) (vedi Figura 2). Figura 2: Maltrattamento infantile e processi infiammatori (indice com-posito formato da proteina C reattiva, fibrinogeno e leucociti) in età adul-ta (modificato da Danese et al., 2007)

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Maltrattamento infantile

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In uno studio indipendente, alcuni ricercatori di Boston (Appleton et al., 2011) hanno osservato 430 bambini di 7 anni con una batteria di test e analiz-zato gli stessi soggetti all’età di 40 anni trovando una probabilità da 2 a 4 vol-te maggiore di essere classificati ad “alto rischio” cardiovascolare (>3 mg/L) secondo i criteri dell’American Heart Association, per soggetti che circa 35 anni prima erano stati classificati con comportamenti di “disregolazione inap-propriata” (ossia impulsivi e incontrollati) e di “predisposizione al distress” (labilità emotiva e facilità di frustrazione).

Il rapporto tra sistema immunitario, sostanze pro-infiammatorie e cattivo rapporto parentale è stato evidenziato in alcuni studi longitudinali che hanno trovato in soggetti adulti livelli elevati di GR (glucocorticoid receptor) e TLR4 (toll-like receptor 4) nei leucociti periferici dell’mRNA e di cAMP (cy-clic adenosine monophosphate) – un messaggero implicato nella trascrizione del segnale intracellulare e in alcuni processi eziopatologici come le patologie neoplastiche e cerebrali – se erano stati esposti a difficoltà familiari nei primi due anni di vita (Miller & Chen, 2007) mentre una buona relazione “calorosa” con la madre è risultata protettiva in relazione a valori biochimici di mRNA che riducono la risposta delle cellule immunitarie pro-infiammatorie come l’IL-6 (Chen et al., 2011). Ricercatori americani hanno indagato pazienti adul-ti (età media 58 anni) con recidiva del carcinoma delle cellule basali, la forma più comune di cancro della pelle, con alta probabilità di recidiva a 3 anni dopo la prima diagnosi, e hanno trovato una chiara relazione fra fattori eterogenei: pazienti che hanno riferito di aver subìto maltrattamenti genitoriali più severi nella loro lontana infanzia (fattore predisponente) e che in più hanno vissuto nell’ultimo anno un evento stressante importante (perdita di una relazione si-gnificativa, morte di un membro familiare, rottura matrimoniale, licenziamen-to in famiglia mono-reddito) (stressor addizionale recente) hanno fatto regi-strare anche una maggiore risposta immunitaria deficitaria, evidenziata dai bassi livelli di marker mRNA (CD25, CD3ε, ICAM-1 e CD68) (Fagundes et al., 2012).

È ormai noto che i sintomi depressivi sono strettamente associati a fattori immunologici implicati in molte patologie croniche. Non si tratta di semplici reazioni psicologiche a una malattia ma di un probabile meccanismo comune di depressione e attività pro-infiammatorie di PCR, IL-1, IL-6 e TNF-α (Ho-wren, Lamkin & Suls, 2009; Dowlati et al., 2011). Una meta-analisi di 29 studi su circa 17.000 pazienti ha trovato che la depressione post-infartuale aumenta di 2,5 volte il rischio di mortalità – cardiaca e non – a un follow-up medio di 16 mesi (Mejier et al., 2011). In un altro studio longitudinale recente che ha indagato annualmente circa 6.000 soggetti in North Carolina dai 9 ai 21 anni è stato trovato che sintomi cronicizzati di depressione predicono livel-li di rischio di PCR per patologie cardiovascolari successivi nel tempo (e non il contrario) (Copeland et al., 2012). Nel complesso questi dati evidenziano l’esistenza di una relazione bi-direzionale fra malattie cardiache e depressio-ne, due fra le maggiori cause di morbilità nelle società occidentali (World He-

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alth Organization, 2007). Tale associazione non è limitata alle sole malattie cardiovascolari ma interessa anche altre patologie molto diffuse, come – anco-ra una volta – il diabete per il quale è stato trovato in alcune meta-analisi un rischio relativo di 1.15 per casi incidenti di depressione associati al diabete di base e viceversa un rischio relativo di 1.60 per casi incidenti di diabete asso-ciati alla depressione di base (Mezuk et al., 2008), e una probabilità 5 volte maggiore di mortalità per pazienti diabetici e depressi rispetto ai diabetici non depressi (Hamer et al., 2010).

Una dimensione nascosta all’interno della diagnosi di Depressione mag-giore è data dal rapporto interpersonale, soprattutto dagli eventi di perdita e dalla condizione di solitudine. Già nel 1960 Engel scriveva che «molti feno-meni della vita quotidiana sono considerati naturali (per esempio perdita og-gettuale e lutto) e non sono visti di solito in termini di malattia; essi tuttavia implicano processi biologici che non differiscono fondamentalmente dai pro-cessi eziopatologici che conducono a malattia (per esempio lo scompenso gli-cemico)» (p. 53), consigliando ai medici di includere domande sulle relazioni interpersonali nella raccolta anamnestica di routine. Di recente, una grossa meta-analisi ha analizzato 148 lavori su oltre 300.000 individui nei 5 conti-nenti con un follow-up medio di 7,5 anni e ha trovato una probabilità di oltre il 50% di sopravvivenza nei soggetti con solide relazioni sociali, dato – sotto-lineano gli autori – preoccupante poiché, nonostante la globalizzazione e i so-cial network, nelle società industrializzate sono in crescita le condizioni di so-litudine legate a riduzione della convivenza inter-generazionale, maggiore mobilità sociale, ritardo dell’età matrimoniale, aumento delle famiglie con coniugi lavoratori, aumento della condizione di single, aumento delle disabili-tà correlate con l’età avanzata (Holt-Lunstad, Smith & Layton, 2010). Un ri-sultato impressionante deriva da alcuni studi che hanno valutato il senso di solitudine non come numero di parenti e amici o frequenza di incontri ma co-me “solitudine implicita”, ossia percezione soggettiva di distanza o scarso supporto ricevuto da amici e parenti1. La sensazione soggettiva di solitudine è risultata predittiva (con un rischio 5 volte maggiore) di eventi cardiaci fatali sul lungo periodo di 19 anni (Thurston & Kubzansky, 2009), dei livelli di VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor) – uno dei più potenti fattori di angiogenesi secreti dalle cellule tumorali – sia in donne con carcinoma ovari-co (Lutgendorf et al., 2002) sia, in una ricerca indipendente, in pazienti con cancro del colon-retto (Nausheen et al., 2010). In uno studio a elevata validità ecologica, a 122 ragazze adolescenti di 15-18 anni è stato chiesto di valutare la qualità positiva e negativa delle relazioni sociali quotidiane per mezzo di un

1 Negli studi sperimentali, la “solitudine implicita” viene generalmente valutata misurando il tempo di latenza nell’appaiare parole sensibili (abbandono, isolato, aiutato, accudito, ecc.) alle dimensioni “Sé” e “Altro”, ossia valutando la modalità inconsapevole e procedurale di rea-gire a determinati stimoli che elicitano la rappresentazione di solitudine. La “solitudine esplici-ta” viene invece valutata generalmente con un questionario che valuta la consapevolezza di-chiarativa di solitudine, come per esempio la UCLA Loneliness Scale.

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PC palmare in tempo reale, e a 12 e 24 mesi di distanza è stato calcolato il ri-schio metabolico (colesterolo, trigliceridi, glicemia, valori pressori e circonfe-renza addominale), trovando che i rapporti interpersonali stressanti o conflit-tuali comportano un aumentato rischio metabolico anche in soggetti giovani e fisicamente sani (Ross et al., 2011).

In sintesi, i fattori impliciti che sottendono i processi di vulnerabilità alle malattie si stanno rivelando sempre più complessi man mano che le ricerche si dotano di metodologie sofisticate di indagine e analisi dei dati, evidenziando come la linea di demarcazione fra fattori biologici e fattori psicologici appar-tenga più alla nostra limitata possibilità di comprendere i fenomeni complessi con le macro-categorie dualistiche di mente e corpo che alla realtà dei feno-meni stessi.

Secondo asse: il peso dei fattori di personalità

A lungo si è tentato di identificare una “personalità psicosomatica”, ossia

una costellazione di fattori specifici di personalità che predispongono un sog-getto a soffrire di una determinata malattia e non di un’altra (la personalità del cefalalgico per inibizione dell’aggressività, del diabetico per interiorizzazione dell’oggetto cattivo, dell’ulceroso per rimozione dei bisogni di dipendenza, ecc). Decenni di ricerche non hanno confermato tali corrispondenze e, anzi, hanno evidenziato che i fattori psicologici di vulnerabilità alla somatizzazione possono esser presenti in modo trasversale in differenti organizzazioni di per-sonalità, patologie mediche e disturbi psicopatologici. I disturbi di somatizza-zione, quindi, indipendentemente dalla natura della patologia medica o psico-patologica, «sono dovuti all’amplificazione dei livelli di normale oscillazione delle preoccupazioni verso il proprio corpo i quali raggiungono un grado di intensità tale da causare disagio psicologico o disadattamento sociale. La so-glia di patologia è funzione sia dei circuiti psicologici innescati (circolo vizio-so di ansia e attenzione) sia delle dinamiche familiari e sociali. Un individuo oltrepassa questa soglia in rapporto alla variabilità del suo temperamento, alle esperienze vissute nell’infanzia, ai fattori socioculturali e alla struttura e alle funzioni del sistema sanitario» (Kirmayer, Robbins & Paris, 1994, p. 133). Kirmayer, psichiatra sociale della McGill University di Montreal, già negli anni 1990, riprendendo gli studi di antropologia medica di Kleinman (1988), sottolineava la necessità di integrare fattori psicologici individuali e fattori so-cio-culturali. Nel decennio precedente si era affermato il concetto di somato-sensory amplification (Barsky & Klerman, 1983), ossia la tendenza ad ampli-ficare la percezione somatica dovuta al monitoraggio continuo delle sensazio-ni fisiche, al concentrarsi selettivamente sulle sensazioni somatiche insolite anche se minime e transitorie, e all’attivare pensieri catastrofistici. Kirmayer sostiene che la soglia percettiva dipende anche dallo “stile attributivo” (moda-lità con cui gli individui spiegano un evento o un comportamento attribuendo-

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ne le cause a fattori esterni o interni), ossia dal fatto che l’individuo “trasfor-ma”, per così dire, la sensazione fisica in sintomo attribuendo a esso una o più cause (a) esterne e situazionali (ad esempio, infettive o alimentari) (normali-zer), (b) emotive (psychologizer), o (c) biomediche (somatizer). Tale opera-zione è il riflesso di schemi sottostanti individuali, di cui il soggetto è gene-ralmente inconsapevole, che modellano la propria teoria sulla possibile origi-ne dei sintomi (familiarità di malattia, precedenti esperienze sanitarie, ansia per la salute) e anche la narrativa di malattia (vocabolario usato per descrivere i sintomi al medico o allo psicologo) (Robbins & Kirmayer, 1991).

Rileggendo la letteratura dalla prospettiva dei due assi di “malattia” e “per-sonalità”, ci si accorge che spesso il classico “paziente psicosomatico” corri-sponde a grandi linee a due profili (Figura 3).

Figura 3: Ipotesi di profili clinici per due pazienti-tipo Paziente A Paziente B

1. elevato peso relativo 1. elevato peso relativo dei fattori psicologici dei fattori psicologici

2. basso peso relativo dei fattori 2. basso peso relativo dei fattori biomedici biomedici

3. elevato peso relativo del fattore 3. elevato peso relativo del fattore somatizing di personalità psychologizing di personalità

Molti disturbi somatoformi (DSM-IV) Frequente nella descrizione di casi e frequente nella medicina di base clinici, specialmente psicoanalitici

Elevato disagio personale ed elevati Inviato dal medico (sospetti diagnosti- costi socio-sanitari diretti e indiretti ci o semplici impressioni) o auto-invio

Trasversale a varie entità diagnostiche Rischio epistemologico di sovra- mediche e psichiatriche inferenza

Il primo (riquadro A) è quello del paziente con disturbi fisici caratterizzati

da: 1) elevato peso relativo dei fattori psicologici; 2) basso peso relativo dei fattori biomedici (per evidenze organiche inconsistenti o sproporzione fra dia-gnosi medica e sintomi percepiti); 3) elevato peso relativo del fattore somati-zing di personalità. Molti disturbi somatoformi del DSM-IV e soprattutto mol-ti pazienti della medicina di base hanno queste caratteristiche, con un carico personale di sofferenza, disagio e costi socio-sanitari molto alto, ancora una volta trasversale alle varie entità diagnostiche mediche e psichiatriche (condi-zione spesso confusa con la “comorbilità”). Per esempio, una recente meta-analisi di 41 lavori su circa 6.000 soggetti ha trovato che disabilità quotidiana, distress psicologico, assenteismo lavorativo, spese mediche e comportamenti fobico-evitanti disadattivi sono fortemente associati non al tipo di dolore (do-vuto a malattia organica o senza cause mediche note) ma alla “sensibilità an-siosa” (paura delle sensazioni fisiche correlate a stati ansiosi, basata sulla

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convinzione che si tratta di segnali di pericolo incombente), mentre la gravità dei sintomi algici (su parametri clinici) è risultata associata al tipo di dolore, ossia alla malattia sottostante (Ocañez et al., 2010). Il secondo profilo (riqua-dro B) è costituito invece dal paziente con disturbi fisici caratterizzati ugual-mente da 1) elevato peso relativo dei fattori psicologici, 2) basso peso relativo dei fattori biomedici (per i motivi di cui sopra o, qui, anche per un approccio teorico del clinico da psicosomatica tipo bodyless), ma con 3) elevato peso re-lativo del fattore psychologizing di personalità. Questo tipo di paziente è più frequente nelle descrizioni di casi clinici, soprattutto in ambito psicoanalitico. È il paziente inviato dal medico in base alla sensazione che “c’è qualcosa che non va” di natura psichica – come descrissero bene Furlan & Mancini (1980) – o che si auto-invia per problemi psicologici personali che vede in relazione al disturbo fisico. Il rischio epistemologico in questa situazione è di inferire illegittimamente una teoria generale psicosomatica estrapolando da casi singo-li pre-selezionati: si tratta infatti di pazienti di interesse psicologico primario che hanno anche un problema fisico. Un esempio paradigmatico è costituito dal caso di una paziente canadese con rettocolite ulcerosa (Lefebvre, 1988) seguita in analisi per molti anni, con un’organizzazione di personalità di tipo borderline, da cui l’autore ha estrapolato una teoria generale del funzionamen-to psicosomatico in base ai concetti della École Psychosomatique de Paris, il cui esito terapeutico è stato paradossalmente positivo per il problema border-line di personalità ma negativo per la rettocolite ulcerosa, senza che l’autore ne abbia tenuto alcun conto (psicosomatica bodyless) (Todarello & Porcelli, 1996).

Alexithymia e consapevolezza affettiva

L’origine della psicosomatica contemporanea è nell’idea di derivazione romantica, ma con radici antichissime, che il corpo che pensiamo non è iden-tico al corpo che percepiamo. Nella lingua tedesca, queste due entità hanno nomi distinti: il Koerper indica il corpo che ho, che può essere osservato dall’esterno o dall’interno attraverso strumenti tecnologici, oggetto misurabile tra oggetti tridimensionali che quindi appartiene al mondo esterno; il Leib in-dica il corpo che io stesso sono, indistinguibile dalla mia identità e quindi dal Sé, vissuto, unico, dotato di intenzionalità, che struttura lo spazio topologico e che quindi appartiene al mondo interno. Questo concetto ormai largamente noto – di derivazione fenomenologica (Husserl) e che ha avuto ampie applica-zioni in psicologia (Schilder), psichiatria (Binswanger, Jaspers, Minkowski) e neurologia (fino a Varela e Damasio) – è stato benissimo esposto da Merleau-Ponty. Nella Fenomenologia della percezione Merleau-Ponty (1945) afferma-va ad esempio che guardando dalla finestra io dovrei vedere a rigor di logica corpi che si muovono come si muovono le auto, i tram, le foglie al vento, os-sia come oggetti dotati di estensione. Tuttavia, poiché la mia conoscenza del mondo è immediatamente pre-categoriale, non posso prescindere dalla mia esperienza concreta e quindi io vedo persone che si muovono animate da sco-

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pi in mezzo a oggetti mobili (auto, tram, ecc.) e immobili (palazzi, lampioni, ecc.). Questa percezione basata sull’esperienza è forte e immediata quanto quella che ci fa dire che il sole “sorge” e “tramonta” quando sappiamo benis-simo che è immobile. Non a caso, Merleau-Ponty è considerato uno degli au-tori che hanno ispirato la teorizzazione del sistema dei mirror neurons come base neurale dei processi di empatia e identificazione (Gallese, Migone & Ea-gle, 2006, p. 557 Nota 2; Gallese, 2009). E, come notano Fonagy & Target (2007), l’idea che la mente si esprime essenzialmente con riferimenti al corpo proprio è uno dei presupposti della psicoanalisi. All’interno della composita e spesso ambigua posizione teorica di Freud sul corpo (Todarello & Porcelli, 1992), insieme allo schema nosologico di nevrosi attuali e psiconevrosi di cui abbiamo detto prima, nella famosa frase secondo cui «l’Io è anzitutto un’entità corporea, non è soltanto un’entità superficiale ma anche la proiezio-ne di una superficie» Freud (1922, p. 488) avanza una concezione del corpo come struttura di base per le rappresentazioni mentali, una sorta di schema psicologico della corporeità. Nella psicosomatica contemporanea (o, per esse-re più precisi, quella parte della psicosomatica contemporanea che focalizza maggiormente il peso relativo dei fattori psicologici per l’asse “personalità”), questa distinzione concorda parzialmente con l’idea di concepire le emozioni da una duplice prospettiva, oggettiva e soggettiva. La lingua inglese consente di cogliere meglio questa differenza per l’uso di due termini distinti, emotions e feelings. In senso “oggettivo”, emotions indica la componente biologica in cui gli affetti si manifestano mediante pattern neuro-fisiologici ed espressivo-motori di risposta, sono mediati da predisposizioni geneticamente program-mate (i cosiddetti circuiti hard wired) all’interno delle strutture sub-corticali e limbiche, e sono ampiamente prevalenti nel linguaggio non-verbale. In senso “soggettivo”, feelings indica la componente psicologica in cui gli affetti si manifestano mediante pattern esperienziali di risposta, sono mediati da sche-mi individuali e fattori psico-evolutivi e, a livello cerebrale, da strutture neo-corticali, e sono ampiamente prevalenti nella funzione simbolica del linguag-gio. Come scrive Damasio (2003), si tratta della stessa cosa (l’affetto) che come emotions si avvale di processi non-coscienti che si manifestano sulla scena del corpo (play out in the theatre of the body) e come feelings di proces-si coscienti sulla scena della mente (play out in the theatre of the mind).

Le due componenti del corpo (oggettivo/soggettivo) e dell’affetto (emo-tions/feelings) sono metafore linguistiche che tentano di spiegare l’oggetto u-nitario psicosomatico con termini che sono inevitabilmente desunti dal lin-guaggio dualistico delle scienze biologiche e psicologiche, dando luogo a quel paradosso epistemologico di cui dicevamo prima (Todarello & Porcelli, 1992). Molto più semplicemente si può dire che gli esseri umani vivono lo stesso affetto sia mediante il proprio corpo che mediante la propria mente. È la stessa cosa ma il modo di farne esperienza e di osservarla è diverso: due facce della stessa medaglia, un dual-aspect monism (Panksepp, 2005), che si corre il rischio di considerare come due differenti realtà irriducibili se le pro-

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spettive restano separate. Quest’aspetto riguarda non solo la scienza ma lo stesso soggetto che fa esperienza, ossia – in termini clinici – lo stesso pazien-te. Sempre nei termini clinici di cui dicevamo prima riguardo alla somatosen-sory amplification, per quale processo un individuo sposta la propria soglia percettiva trasformando comuni sensazioni fisiche in sintomi di malattia? Per esempio, da un’ampia survey sulla popolazione tedesca risulta che il 70-80% di soggetti con sintomi accertati di disturbi funzionali gastrointestinali (di-spepsia funzionale, sindrome dell’intestino irritabile, dolore addominale fun-zionale, dolore toracico non-cardiaco, ecc.) non si rivolge ad alcun medico mentre solo il 20-30% di essi, a parità di sintomi, cerca cure mediche (Her-schbach, Henrich & Von Rad, 1999). Cosa caratterizza queste persone?

Diversi modelli teorici nella psicosomatica contemporanea hanno tentato di dare risposte a queste domande. Uno di essi, diffusosi negli ultimi decenni, è il costrutto di alexithymia (letteralmente, assenza di parole per le emozioni) (Taylor, 2010; Porcelli & Todarello, 2008, pp. 179-183) composto da (a) bas-sa consapevolezza affettiva (difficoltà di identificare e comunicare le emozio-ni e difficoltà di distinguere fra emozioni soggettive, o feelings, e attivazione somatica, o emotions), e (b) pensiero operatorio (riduzione dei processi im-maginativi e stile cognitivo orientato verso la realtà esterna). Inizialmente ri-tenuta specifica per i disturbi psicosomatici, oggi è unanimemente concepita come tratto dimensionale di personalità aspecifico, presente in grado maggio-re o minore nei singoli individui. Si tratta di un vero e proprio deficit di con-sapevolezza affettiva (“non so cosa sto provando e non lo so dire”), diverso dalla reazione difensiva da inibizione emotiva (“so cosa sto provando ma non riesco a dirlo”). Riprendendo i termini precedenti del discorso, il costrutto di alexithymia riguarda l’esperienza di affetti non regolati di cui si ha percezione solo per la loro espressione fisica (emotions) ma senza essere accompagnati, integrati, connessi alla consapevolezza del loro corrispettivo mentale, sogget-tivo, psichico (feelings).

L’alexithymia è prevalente in oltre il 50-60% di disturbi della regolazione affettiva, quali Depressione maggiore, tentativi di suicidio, abuso di sostanze, dolore cronico, psoriasi, disturbi del comportamento alimentare, ipertensione essenziale, PTSD, cefalea cronica, uso abnorme di presidi sanitari, dipendenze patologiche, disturbi dissociativi, disturbo di panico, disturbi somatici funzio-nali (Taylor, Bagby & Parker, 1997). La regolazione affettiva indica la capaci-tà di gestire gli stati interni coerentemente con il senso di self-agency a diversi livelli (dall’omeostasi all’auto-regolazione attraverso le relazioni interperso-nali), ossia la capacità di tollerare affetti negativi intensi e/o prolungati (noia, vuoto, perdita, angoscia, depressione, irritabilità, rabbia) bilanciandoli con af-fetti di tono positivo in modo autonomo, ossia senza ricorrere a oggetti esterni o acting-out comportamentali (tentativi di suicidio, automutilazioni, uso di so-stanze, somatizzazione, disturbi dell’alimentazione, disorganizzazione com-portamentale, ecc). Implica necessariamente una dimensione intersoggettiva poiché le relazioni con gli altri forniscono una regolazione interpersonale de-

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gli affetti in senso positivo (ad esempio induzione di calma e rilassamento) o negativo (separazione, aggressività, conflitti). I disturbi della regolazione af-fettiva si riferiscono quindi a tutte quelle condizioni cliniche in cui l’individuo non è in grado di utilizzare gli affetti come sistema motivazionale in relazione ai propri stati emotivi e al rapporto con gli altri. In termini psicodinamici, l’alexithymia è la difficoltà di elaborare e regolare l’attivazione affettiva per mezzo di rappresentazioni mentali, ossia è parte del processo di mentalizza-zione, la capacità di comprendere se stessi e gli altri mediante inferenze sugli stati mentali (emozioni, sentimenti, pensieri, convinzioni, intenzioni, desideri) sottostanti il comportamento esplicito (Fonagy et al., 2002). In questo senso, l’alexithymia è limitata al deficit di elaborazione cognitiva delle emozioni mentre la mentalizzazione comprende l’intero spettro degli stati mentali (Ta-ylor, 2010).

Vorrei qui citare solo alcuni dei tanti lavori recenti della corposa letteratura sull’alexithymia. In un lavoro giapponese è stato trovato che livelli elevati di alexithymia si correlavano significativamente con bassi punteggi a un compito sperimentale di Theory of Mind (ToM) (inferire intenzionalità e appropriatez-za delle azioni di due figure geometriche che nell’animazione si muovevano come se fossero esseri umani) e, alla registrazione fMRI, è stata evidenziata un’ipoattivazione della corteccia prefrontale mediale destra (Moriguchi et al., 2006). Sul versante clinico, in un nostro lavoro (Porcelli et al., 2004) abbiamo confrontato pazienti con sintomi funzionali gastrointestinali e psicopatologici simili ma che afferivano a due differenti ambulatori specialistici, gastroentero-logico e psichiatrico. Ciò che differenziava significativamente i due gruppi non erano né i sintomi fisici né le variabili sociodemografiche ma il livello di alexithymia (nei pazienti che si rivolgevano al gastroenterologo) e di disforia e conflittualità interpersonale (nei pazienti che si rivolgevano all’ambulatorio psichiatrico). Due lavori su popolazioni diverse (pazienti ambulatori con pri-ma diagnosi di Depressione maggiore e un ampio campione di popolazione generale finlandese) (De Berardis et al., 2008; Honkalampi et al., 2011) han-no evidenziato – dopo aver corretto per tutte le variabili confondenti compre-so l’uso di anti-infiammatori, alcool, alimentazione, indice di massa corporea, ecc. – un’associazione significativa fra alexithymia e livelli elevati della pro-teina C reattiva che costituisce, com’è noto, un fattore di rischio elevato sia per la sindrome depressiva sia per somatizzazioni funzionali sia per patologie cardiovascolari. Questi lavori, completamente diversi per scopo e metodi, in-dicano un risultato convergente: il deficit alessitimico di consapevolezza af-fettiva comporta sul piano funzionale un basso livello di ToM, sul piano neu-robiologico un’ipo-attività della corteccia prefrontale deputata al monitorag-gio delle azioni e alla valutazione dei corrispettivi risultati, e sul piano clinico la manifestazione prevalentemente fisica degli esiti della disregolazione affet-tiva, anche a livello biologico. Processi neurobiologici ed evolutivi

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Il costrutto di alexithymia converge con molti studi provenienti da campi disparati della ricerca, della clinica, delle neuroscienze, delle scienze cogniti-ve, della psicoanalisi e della neuro-psicoanalisi. Per esempio, secondo Le-Doux (1996), i feelings sono rappresentazioni simboliche della memoria ope-rativa (working memory) implicati nell’attività dei sistemi sub-simbolici in-consci che generano stati fisici e risposte corporee, comprese le emotions, e che si integrano con rappresentazioni delle esperienze passate e del Sé. Nella “teoria del codice multiplo” di Wilma Bucci (1997), le rappresentazioni sub-simboliche (processazione continua di tipo analogico dei pattern sensoriali, viscerali e cinestesici) e simboliche non-verbali (combinazioni multiple di rappresentazioni discrete non tradotte in parole, dominanti nei sistemi visivi, uditivi, tattili e mnemonici) vengono elaborate al di fuori della consapevolez-za soggettiva. La Bucci chiama “attività referenziale” la capacità di connettere tali rappresentazioni non-coscienti con il sistema simbolico verbale. Non si tratta di una semplice trasformazione da una modalità all’altra ma di una vera e propria traduzione da un sistema rappresentativo dominante (ad esempio, le emotions suscitate in una data situazione che si esprimono sub-simbolica-mente con stati mentali e modificazioni somatiche neurovegetative) a un altro (simbolizzazione in feelings) che consente la regolazione affettiva grazie alla manipolazione soggettiva dei significati attuali e passati attribuiti a quella si-tuazione.

In modo simile, anche se con linguaggio diverso, si esprime Damasio (1994) parlando della embodied cognition, espressione che è quasi un ossimo-ro poiché implica che il pensiero è nel corpo, che è il corpo a pensare. I pro-cessi che sperimentiamo come mentali, scrive Damasio, sono in realtà rappre-sentazioni del corpo nel cervello: sono loro che guidano le decisioni razionali, non il bilancio cognitivo costi-benefici. Il cervello non registra passivamente stimoli interni o esterni ma è un sistema di elaborazione creativa che costrui-sce mappe del corpo. È grazie a esse che i feelings possono essere elaborati come auto-informazione del corpo. Le mappe del corpo sono infatti rappre-sentazioni simultanee in continuo movimento, processate “in parallelo”, come se fossimo immersi continuamente in un ambiente di schermi muliplex su cui vengono proiettate le sequenze del movie-in-the-brain composto dai portali d’ingresso (tracks) del sistema nervoso centrale (SNC) (canali sensoriali, sen-so interno, senso cenestesico, ecc.) (changing maps) e nello stesso tempo ri-modellate dalle rappresentazioni mnestiche che collocano le informazioni at-tuali in un processo temporale il cui senso di continuità costituisce il Sé com-plessivo. Le immagini mentali sono quindi mappe cerebrali di qualsiasi cosa accade all’interno del nostro corpo e nell’ambiente circostante esterno, sia concrete che astratte, sia attuali che immagazzinate in memoria. La processa-zione avviene lungo una direzione bottom-up del circuito corporeo (body lo-op) dalla periferia al SNC dove le informazioni neuro-ormonali vengono fil-trate (inibizione o amplificazione), categorizzate (piacevoli o spiacevoli) e in-tegrate nelle strutture corticali limbiche e somatosensoriali (si pensi, per e-

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sempio, al circuito cerebrale della pain matrix) per consentire la regolazione omeostatica e l’attivazione di comportamenti adattivi. Vi è, tuttavia, un circui-to “come se” con direzione top-down che Damasio definisce appunto as-if bo-dy loop. I processi cognitivi ed emotivi di livello corticale superiore, riguar-danti tanto la condizione attuale psicologica e fisica quanto la storia autobio-grafica, innescano modificazioni neurotrasmettoriali e immuno-endocrine at-traverso amigdala, ipotalamo e mesencefalo che trasformano gli stati fisici. In questo senso, la percezione del proprio stato di salute è il risultato complessi-vo di condizioni fisiche (malattie in atto, predisposizioni genetiche, attività immuno-infiammatoria, condizione ormonale, ecc.) (body loop) ed elabora-zione di pensieri, affetti, ricordi, attese, passate esperienze, fantasie, ecc. (as-if body loop) (Damasio, 2000, 2010). Non sono cose diverse ma la stessa entità che percepisco indistintamente (in modo pre-categoriale, direbbero i fenome-nologi): il film del mio corpo, attuale e passato, nel mio cervello.

Lane & Schwartz (1987) hanno proposto un modello cognitivo-evolutivo di tipo piagetiano che prevede 5 livelli evolutivi di consapevolezza affettiva, partendo dalla scarsa differenziazione – risposte autonomiche e neuroendocri-ne (per esempio arrossire di imbarazzo) e comportamentali sull’ambiente per modificare lo stato fisico (per esempio deviare l’attenzione da sé per evitare l’imbarazzo) – e procedendo evolutivamente con l’acquisizione di capacità sempre più differenziate: categorizzazione delle emozioni in positive e nega-tive, tolleranza dell’ambivalenza di emozioni contraddittorie contemporanee, capacità di integrare sfumature affettive e insiemi complessi di affetti in sim-boli manipolabili cognitivamente. I livelli evolutivi dei processi di simboliz-zazione avvengono parallelamente all’attivazione di strutture neuro-anatomiche (tronco encefalico, diencefalo, sistema limbico, strutture para-limbiche e corteccia pre-frontale), anche in questo caso secondo una direzione bottom-up (integrazione degli stimoli dagli organi periferici alle aree corticali, parallelamente a una capacità di simbolizzazione da meno a più evoluta delle esperienze fisiche ed emotive) e top-down (dal livello superiore consapevole di integrazione affettiva a quello inferiore di reazione emotiva automatica o inconscia, parallelamente al livello corticale attivato, dalle aree corticali fino al tronco encefalico): «I meccanismi di modulazione top-down – scrive Lane (2008) – sono coerenti con l’ipotesi secondo cui il fallimento del processo conscio di elaborare l’attivazione di emotions è associato al fallimento di mo-dulare o inibire i siti di attivazione viscero-motoria i quali, a loro volta, pos-sono predisporre verso disregolazione autonomica e malattie» (p. 224). Da questo punto di vista, l’alexithymia è un fenomeno di blindfeeling: i soggetti alessitimici manifestano emotions insieme a scarsa o nessuna consapevolezza dei feelings corrispondenti a causa di una disconnessione reattiva a eventi im-portanti (lutto, malattia, trauma) o di un deficit avvenuto nei primi stadi dello sviluppo psicologico quando si formano tali connessioni (Lane et al., 1997).

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L’idea che il punto fondamentale per comprendere il peso relativo dei fat-tori psicologici nella clinica psicosomatica è dato non dalla diagnosi ma dalla personalità del paziente è stata delineata con grande chiarezza da Winnicott (1966) circa 50 anni fa. Anche se da posizioni teoriche differenti, Winnicott esprimeva gli stessi dubbi di Engel e Lipowski di cui dicevamo all’inizio sull’esistenza delle malattie “psicosomatiche”, ossia sul fatto che è il tipo di sintomi a definire psicosomatica una condizione clinica, concezione transitata invece nei criteri diagnostici per i disturbi somatoformi del DSM-IV, basati appunto su tipo, numero e frequenza dei sintomi fisici. Secondo Winnicott (1966), invece, la malattia nel disturbo psicosomatico è data da due fattori complementari: a) la «persistenza di una scissione nell’organizzazione dell’Io» (p. 510), ossia essa è il “negativo” della tendenza maturativa all’integrazione esperienziale delle funzioni mentali e somatiche; b) l’amplificazione della scissione interna nella «dispersione di agenti responsa-bili» (ibid.) della cura all’esterno, ossia l’incapacità da parte di medici e psico-logi di fornire un modello di trattamento sanitario integrato e non frammenta-to in tanti specialismi.

Una decina di anni dopo, quest’ipotesi è stata ripresa da J. Nemiah per un inquadramento teorico del fenomeno clinico dell’alexithymia (Taylor, 2010). Nemiah (1977) individuava nella “elaborazione psichica” delle risposte emo-tive (emotions) il processo di integrazione che si contrappone alla scissione dell’Io di cui parlava Winnicott, intendendo con essa: i) la chiarificazione del-le emotions grezze in una varietà di sfumature qualitativamente differenti co-me precursori potenziali dell’esperienza conscia dei feelings (rabbia, gioia, paura, tristezza, ecc.); ii) la connessione dei feelings con le parole che li de-scrivono; iii) la produzione di fantasie espressive dei feelings che allo stesso tempo formano il contenuto immaginativo delle fantasie; iv) l’attivazione di un network di ricordi e associazioni correlate con i feelings. Nemiah individua nella dissociazione il meccanismo intrapsichico centrale nella formazione dei sintomi somatici, di cui fa parte anche la conversione. Nella conversione, in-fatti, una particolare parte anatomica può assolvere la funzione di simbolo che organizza lo schema emozionale, soprattutto quando l’oggetto primario dello schema viene dissociato e messo al servizio di specifici meccanismi difensivi. La stessa dinamica può avvenire però anche in manifestazioni cliniche del tut-to diverse come la somatizzazione o l’ipocondria quando la preoccupazione ansiosa per sensazioni somatiche percepite come molto intense (somatosen-sory amplification) e il tentativo di dare significato a tali sensazioni (stile at-tributivo di tipo somatizer) attivano i processi subsimbolici i quali – antici-pando il modello del codice multiplo della Bucci (1997) – non vengono con-nessi e integrati nella complessiva attività referenziale (mentalizzazione) ma restano scissi e disconnessi dalle rappresentazioni simboliche. È in questo senso che Nemiah propone di considerare l’attacco di panico come il prototi-po del disturbo psicosomatico: in alcuni pazienti le emotions elicitate dalla si-tuazione scatenante (trigger) possono essere ricondotte a conflitti intrapsichici

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sottostanti (modello del conflitto) mentre in altri è impossibile tale connessio-ne, per cui le emotions vengono trasformate in scariche autonomiche genera-lizzate (modello del deficit alessitimico) (Nemiah, 1988). Sulla stessa lun-ghezza d’onda, Taylor (2003) concepisce conversione e somatizzazione come due costrutti in parte sovrapposti grazie al meccanismo centrale della disso-ciazione ma distinti in quanto i sintomi di conversione sono espressione di fantasie inconsce rimosse (“i sintomi raccontano una storia”) – come si può notare anche in fenomeni simil-conversivi come le reazioni da anniversario, sintomi somatici che mimano sintomi simili, spesso fatali, avuti da persone affettivamente importanti, in occasione della ricorrenza temporale dell’evento, di cui il paziente non è affatto consapevole (Porcelli et al., 2012) – mentre i sintomi di somatizzazione sono fenomeni passivi dovuti al fallimento della simbolizzazione degli stati emotivi di attivazione autonomica: i conflitti in questo caso evocano stati cronici di attivazione di emotions non integrate, e non espressioni simboliche nel corpo. In ricerche recenti, infatti, è stato con-fermato lo stretto rapporto fra alexithymia e amplificazione somatica come matrice comune per attacchi di panico (De Berardis et al., 2009), sintomi fisi-ci nella fibromialgia (van Middendorp et al., 2008) e dolore in pazienti onco-logici (Porcelli et al., 2011).

I regolatori nascosti nella relazione madre-figlio

Le ricerche di psicosomatica psicoanalitica dagli anni 1960 in poi – dalla scuola francese di Marty alla McDougall al costrutto di alexithymia, passando per la Horney e Kelman (Taylor, 1987) – hanno in vario modo sviluppato l’ipotesi delineata a fine anni 1940 da Ruesch (1948) secondo cui le psicone-vrosi sono attribuibili a “sviluppo patologico” mentre le condizioni psicoso-matiche a “arresto dello sviluppo”, dovute a disturbi delle relazioni di accu-dimento parentale primario o traumi precoci che hanno soverchiato le capacità di controllo del bambino.

Il percorso evolutivo dal somatico al mentale si compie parallelamente allo sviluppo delle funzioni di auto-regolazione affettiva all’interno del rapporto madre-bambino. Il neonato vive le sensazioni interne ed esterne in modo indi-stinto e comunica i propri stati emotivi attraverso movimenti corporei. Nel corso dello sviluppo psicobiologico impara a differenziare le sensazioni inter-ne da quelle esterne e a modulare e differenziare le unità di espressione affet-tiva. Gradualmente le funzioni cognitive si autonomizzano da quelle prima-riamente emozionali, consentendo al bambino di elaborare gli affetti in unità dotate di significato, le quali possono essere “manipolate” mentalmente ed e-spresse all’esterno adeguandosi realisticamente al contesto. La maturità, in senso evolutivo, viene raggiunta quando l’individuo è in grado di comprende-re la complessità e l’ambivalenza degli affetti non solo all’interno di sé ma anche negli altri. Il processo di differenziazione dal somatico allo psichico non avviene però per una spinta puramente fisiologica innata ma è modulato (e quindi facilitato o bloccato) nel contesto della relazione con il caregiver

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primario, generalmente la madre. In sintesi, ripercorrendo concetti ampiamen-te noti su relazioni oggettuali, sviluppo del Sé e processi di attaccamento, la funzione materna assolve compiti diversi in relazione ai livelli evolutivi del bambino: 1) riconoscimento empatico dell’espressione puramente fisica delle emozioni del bambino da parte della figura materna che fornisce il feedback sintonizzandosi con le reazioni emotive del figlio; 2) conferimento di senso e significato alle emozioni espresse dal figlio a livello sia fisico che psicologico ma scarsamente integrate da parte della figura materna che modula gli stati affettivi del figlio; 3) processo di autonomizzazione del figlio nello sperimen-tare la complessità affettiva in se stesso e negli altri mentre la figura materna differenzia le proprie reazioni da quelle del figlio consentendo la formazione di rappresentazioni simboliche separate (Porcelli & Todarello, 2004; Fonagy et al., 2002) (vedi Figura 4). Figura 4: Modello di evoluzione delle funzioni somatiche e psichiche all’interno del-la relazione madre-figlio

espressione motoria

sensazioni somatiche indifferenziate

CORPO

MENTE

FUNZIONE MATERNA

schemi cognitivi ed emotivi

complessità affettiva (in sé e negli altri)

autonomia

significato delle emozioni

attunementholdingempatia

SE’ ALTRO

Nella relazione madre-figlio, inoltre, oltre ai comportamenti osservabili di

regolazione reciproca di “macroritmi” (fame-cibo, sonno-veglia, ecc.), sono “nascosti” processi senso-motori di regolazione di natura nutritiva, olfattiva,

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tattile, termica e vestibolare, al pari degli oggetti-Sé di Kohut che ne rappre-sentano solo il versante psichico (Taylor, 1987).

Alcuni lavori hanno trovato associazioni positive fra attaccamento insicuro e alexithymia. In un interessante studio tedesco longitudinale (Lemche et al., 2004) sono stati studiati col metodo della Strange Situation 42 bambini di 12 mesi di età. Le interazioni madre-bambino sono state videoregistrate e codifi-cate per quanto riguarda gli scambi linguistici indicanti mentalizzazione quando i piccoli avevano 17, 23, 30 e 36 mesi. Tale internal state language è stato codificato in 11 categorie di emozioni positive (ad esempio “interessa-to”), negative (“spaventato”), ambivalenti (“strano”), ecc. La progressione e-volutiva nell’acquisizione del linguaggio simbolico di attività di mentalizza-zione (essenziale per le abilità future di auto-regolazione emotiva) ha eviden-ziato che i bambini classificati come “insicuri” a 12 mesi hanno mostrato un considerevole ritardo di acquisizione mentre quelli classificati come “disorga-nizzati” una completa assenza di linguaggio mentalizzato. Gli autori si sono ragionevolmente chiesti se questi bambini siano possibili candidati allo svi-luppo di alexithymia in età adulta. Ciò può spiegare il motivo per cui, a livello clinico, il fattore “difficoltà di identificazione delle emozioni” del costrutto di alexithymia è associato alla percezione soggettiva dei sintomi più che a marker biologici di malattia in pazienti con dolore miofasciale cronico (Lum-ley, Smith & Longo, 2002), asma (Huber et al., 2009) e cancro (Porcelli et al., 2007). Il deficit dei fattori evolutivi di mentalizzazione può anche spiegare, a livello biologico, l’associazione dell’alexithymia con l’attività pro-infiammatoria delle interleuchine IL-2 e IL-4 (Corcos et al., 2004; Guilbaud et al., 2009) e di proteina C reattiva (Honkalampi et al., 2011). Uno studio e-pidemiologico finlandese ha evidenziato infatti che il rischio di mortalità per eventi cardiaci aumenta del doppio all’incremento di un solo punto alla scala di valutazione dell’alexithymia TAS-20 (Tolmunen et al., 2010).

Conclusioni

Negli ultimi decenni la psicosomatica è cresciuta parecchio e la complessi-

tà dei fenomeni clinici si rivela sempre più grande quanto più vengono evi-denziate connessioni latenti fra storia individuale e disturbi fisici attuali, fra emozioni espresse fisicamente (emotions) e simbolizzazione negli affetti (fee-lings), fra vulnerabilità biologica (predisposizioni genetiche, fattori di rischio, alterazioni dei meccanismi neurali, attività del sistema immunitario) e funzio-ni di mentalizzazione. Il campo di osservazione e di intervento della psicolo-gia e ancor più della psicoterapia occupa un posto importante ma per forza di cose parziale e limitato all’interno di questo complesso mosaico di fattori in-terconnessi. Nella misura in cui come psicoterapeuti siamo consapevoli che il nostro intervento riguarda il peso relativo che i fattori psicologici hanno nelle patologie mediche e, nello stesso tempo, siamo consapevoli dell’eterogeneità

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multifattoriale delle malattie somatiche, possiamo avere una visione più lucida tanto dei limiti quanto delle potenzialità della psicoterapia in psicosomatica.

Al di là delle differenze di tecnica, i modelli più recenti di psicoterapia in questo settore della clinica convergono sempre più su alcune linee guida di ampio respiro: educare il paziente a osservare e identificare le proprie reazioni emotive (emotions) che non riesce a elaborare con il pensiero (feelings), foca-lizzandosi soprattutto sulle espressioni comportamentali di gestualità, mimica facciale, tono di voce, ecc.; tollerare l’ambivalenza affettiva e l’intensità delle emozioni soprattutto negative e ansiogene; tollerare le sensazioni negative, spesso di dolore fisico, legandole a specifiche situazioni e/o qualità di relazio-ni interpersonali che le elicitano; organizzare gli stati affettivi e verbalizzare le emozioni per riuscire a dare significati personali a ciò che viene percepito come incomprensibile o automatico; ricorso a tecniche di rilassamento corpo-reo e controllo delle risposte comportamentali che aiutino a organizzare co-gnitivamente gli stati emotivi (Porcelli & Todarello, 2004, 2008; Vanheule, Verhaeghe & Desmet, 2011). Il discorso sull’intervento psicoterapeutico in psicosomatica è complesso e va oltre i limiti di questo lavoro. Purtroppo non è la parte della psicosomatica più sviluppata ancora oggi, rispetto alle ricerche sui meccanismi di interazione fra fattori psicologici e fattori biologici di cui abbiamo parlato. I trial di psicoterapia nei disturbi somatici sono ancora rela-tivamente pochi ma danno qualche indicazione preliminare sull’efficacia degli interventi psicologici sia di tipo cognitivo-comportamentale che psicodinami-co, in egual misura (Abbas, Kisely & Kroenke, 2009). I dati sono tuttavia an-cora insufficienti e approssimativi per giungere a conclusioni definitive. In poche parole, come è stato affermato in un famoso dibattito all’interno dell’American Psychosomatic Society di qualche anno fa, abbiamo solidi mo-tivi per ritenere che le emozioni possono far ammalare come se fossero “l’equivalente mentale di un disturbo autoimmune”, ma sappiamo ancora po-co sul come lo fanno e soprattutto sappiamo pochissimo su come modificare il decorso (ridurre i livelli di marker infiammatori o modulare la resistenza insu-linica) e l’esito (recidive, mortalità) delle patologie somatiche (Freedland et al., 2006).

Riassunto. Sulla base del concetto di peso relativo dei fattori biologici e psicologici, la psico-somatica può essere concepita all’interno di due assi ortogonali di “malattia” e “personalità”. Le ultime ricerche sulla multifattorialità delle malattie e sul rapporto gene-ambiente stanno evi-denziando l’importanza dei fattori infantili di attaccamento e maltrattamento nella vulnerabilità a diverse patologie mediche attraverso l’interazione con il sistema immunitario e i fattori pro-infiammatori. Gli studi sulla personalità hanno evidenziato che i fattori psicologici di vulnerabi-lità alla somatizzazione possono esser presenti in modo trasversale in differenti patologie medi-che e disturbi psicopatologici. Alcuni costrutti recenti, come l’alexithymia, tentano di spiegare fenomeni complessi quali il rapporto tra emozioni e sentimenti, i correlati neurobiologici delle emozioni, i percorsi evolutivi della mentalizzazione nascosti nella relazione madre-figlio. [PA-ROLE CHIAVE: alexithymia, mente-corpo, psico-neuro-immuno-endocrinologia, psicosomati-ca, relazione madre-bambino]

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Abstract. CONTEMPORARY DEVELOPMENTS IN PSYCHOSOMATICS. Based on the no-tion of relative weight of biological and psychological factors, psychosomatics may be con-ceived within the two orthogonal axes of “disease” and “personality”. Recent studies on the multifactorial nature of diseases and the gene-environment relationship show the relevance of childhood maltreatment and attachment bonds on the vulnerability to medical illness through the interacting immune and pro-inflammatory activity. Studies on personality have shown so far that psychological factors of vulnerability to somatization may be present across different medical and psychopathological disorders. Some of the most recently investigated constructs as alexithymia are an attempt to explain various complex phenomena as the relationship between emotions and feelings, the neurobiological correlates of emotions, and the developmental fac-tors of mentalization hidden in the mother-child relationship. [KEY WORDS: alexithymia, mind-body, mother-child relationship, psycho-neuro-immunology, psychosomatics] Bibliografia Abbass A., Kisely S. & Kroenke K. (2009). Short-term psychodynamic psychotherapy for so-

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