A10Sull’Ariosto di Benedetto Croce 1.1. L’estetica crociana e il saggio sull’Ariosto È noto...

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Donato Sperduto

Armonie lontane

Ariosto, Croce, D’Annunzio, Pavese,Carlo Levi e Scotellaro

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via Raffaele Garofalo, /A–B Roma()

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I edizione: aprile

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Indice

Nota introduttiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7

Capitolo I

Sull’Ariosto di Benedetto Croce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9

1.1. L’estetica crociana e il saggio sull’Ariosto . . . . . . . . . . 9

1.2. Armonia e ironia nell’Orlando furioso . . . . . . . . . . . . . 11

1.3. Croce “ironico” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12

Nota: Il giovane Croce e il rimedio infallibile . . . . . . . . . . 14

Capitolo II La “lontananza” di d’Annunzio e Carlo Levi . . . . . . . . . . 19

2.1. D’Annunzio: un dio bifronte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19

2.2. La “lontananza” in alcune poesie leviane e

dannunziane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25

2.3. Le due rose . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31

Capitolo III Due scrittori al confino: C. Pavese e C. Levi . . . . . . . . . . . 35

3.1. Pavese e Levi al confino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35

3.2. L’arrivo e la partenza dei due confinati . . . . . . . . . . . . .37

3.3. La permanenza coatta nel profondo Sud . . . . . . . . . . . . 42

3.4. Pavese versus Levi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48

Capitolo IV Carlo Levi e la discesa agli inferi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53

4.1. Il Cristo si è fermato a Eboli e V. Larbaud . . . . . . . . . 53

Indice 6

4.2. D’Annunzio tra C. Levi e I. Silone . . . . . . . . . . . . . . . . 57

4.3. La discesa agli inferi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63

4.4. L’invenzione della verità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69

4.5. Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 73

Capitolo V L’Appendice “segreta” del Quaderno a cancelli . . . . . . . . . 75

5.1. Sul Quaderno a cancelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75

5.2. Un libro “segreto” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 78

Capitolo VI Su Carlo Levi e Rocco Scotellaro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83

6.1. «Sopra tutti carissimo» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83

6.2. Il mondo dei Padri e l’invenzione della verità . . . . . . . 85

6.3. “Quaderno a cancelli” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 90

Nota: Francesca Armento e suo figlio Rocco . . . . . . . . . . . 96

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Nota introduttiva

Lontani eppur vicini, vicini eppur lontani – gli autori indaga-

ti nel presente lavoro. Certo, la lontananza tra Carlo Levi e

Rocco Scotellaro è stata molto meno grande che tra Levi e

d’Annunzio o tra Levi e Pavese. Non per niente Levi considerò

«tra tutti carissimo» il poeta-sindaco di Tricarico e lo ricordò

persino nel suo ultimo libro, Quaderno a cancelli. Ma sarebbe

sbagliato ritenere che le loro rispettive posizioni coincisero in

tutto e per tutto. La differenza tra Levi e Scotellaro emerge già

dalla loro biografia e dal momento storico in cui maturò la loro

formazione. E, mutatis mutandis, un’analoga considerazione

vale per il rapporto tra Levi e d’Annunzio. Tuttavia, la lonta-

nanza maggiore contraddistingue, a mio parere, i due scrittori

piemontesi messi a confronto nel cap. 3: Cesare Pavese e

l’autore del Cristo si è fermato a Eboli. Questo nonostante en-

trambi ebbero a subire – contemporaneamente – il confino da

parte del governo fascista.

La luce che queste pagine intendono fare sugli scrittori ita-

liani presi in considerazione dovrebbe indurre i critici a “supe-

rare” finalmente (come fece Croce con l’Ariosto) obsoleti pre-

giudizi e schemi interpretativi impedenti una fruizione suffi-

cientemente approfondita e completa delle tematiche care a

d’Annunzio, Pavese, C. Levi e Scotellaro: ad esempio la discesa

agli Inferi, il mondo dei Padri, il confino, la lontananza. Se ne

coglierebbe l’unità nella diversità: pur nella lontananza dei ri-

spettivi intenti, trapela un forte anelito verso l’armonia presente

negli autori analizzati. Inoltre, questo libro – che tra l’altro rac-

coglie gli scritti che negli ultimi anni ho dedicato allo scrittore

Carlo Levi1 – mette l’accento sull’ultimo e molto importante

1 Una versione del cap. 2 è stata pubblicata negli Atti del Convegno Intertestualità

leviane, Servizio Editoriale e Redazionale, Bari 2011; una versione parziale del cap. 3 è apparsa nel volume Letteratura e oltre. Studi in onore di Giorgio Baroni, a cura di P.

Ponti, F. Serra, Pisa-Roma 2012; una versione del cap. 4 è stata pubblicata in “Italiani-

Nota introduttiva 8

libro dello scrittore torinese, di cui purtroppo manca ancora

un’edizione integrale e commentata: Quaderno a cancelli

(1979). Luisa Orioli afferma che

forse questo libro cieco di Carlo è il suo libro più vedente. Quanto

più il suo occhio si spegne come lo sguardo che si abbassa per reti-

cenza o per pudore o per amore, tanto più sono i suoi occhi a parla-

re con tutta la loro chiarezza2.

stica”, XL (2011), n. 1; una versione parziale del cap. 5 è apparsa in “Critica letteraria”,

XXXIX (2011), n. 2; una versione del cap. 6 figura nel “Bollettino storico della Basili-

cata”, 2011, n. 27.

2 Brano figurante a p. 49 del dattiloscritto degli Atti del Convegno dedicato a Carlo

Levi scrittore, tenutosi ad Alassio dal 20 al 22 aprile 1985. Gli Atti non sono purtroppo stati pubblicati, ma un fascicolo dattiloscritto è conservato presso la Biblioteca Civica

“Renzo Deaglio” di Alassio.

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Capitolo I

Sull’Ariosto di Benedetto Croce

1.1. L’estetica crociana e il saggio sull’Ariosto

È noto come, per Croce, la filosofia, in quanto scienza degli universali, non può avere altro oggetto che lo spirito universale, considerato nella sua incessante attività e creazione, che si svol-ge in un compiuto sistema di forme e categorie. Croce ammette quattro momenti dello spirito che si raggruppano nelle sue for-me fondamentali dello spirito, quella teoretica e quella pratica. L’arte (conoscenza intuitiva o del particolare) e la filosofia (co-noscenza dell’universale) rappresentano la forma teoretica, l’ economia (volizione del particolare) e l’etica (volizione dell’ universale) costituiscono la forma pratica. Ogni momento non si oppone agli altri, ma si distingue dagli altri e condiziona il sus-seguente. L’arte è, quindi, il primo momento dello spirito universale (primo in senso logico, e non cronologico, perché tutte le forme sono insieme presenti nello spirito). Contro ogni forma di este-tica intellettualistica, edonistica, utilitaristica e moralistica, Cro-ce afferma la piena e totale autonomia dell’arte: l’unico scopo dell’arte è l’arte stessa, ossia la bellezza. L’intuizione artistica ha in sé un principio che le dà «coerenza e unità»: «il sentimen-to»1. In questo senso l’arte è sempre intuizione lirica: è «sintesi a priori» di «sentimento e immagine nell’intuizione, della quale si può ripetere che il sentimento senza l’immagine è cieco, e l’immagine senza sentimento è vuota»2. L’arte si distingue dunque ugualmente dal vano fantasticare e dalla passionalità tumultuosa del sentimento immediato. Essa accoglie dal sentimento il suo contenuto, ma lo trasfigura in

1 B. CROCE, Breviario di estetica, Adelphi, Milano 1990, p. 44. 2 Ivi, p. 53.

Capitolo I

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pura forma. Inoltre, in quanto intuizione l’arte si identifica con l’espressione e da questa definizione discende l’identificazione di linguaggio e poesia. L’estetica crociana può così essere defi-nita come «scienza dell’espressione e linguistica generale» (cfr. Estetica, 1902). Ma l’estetica crociana è stata considerata piut-tosto astratta da N. Abbagnano3 ed in parte rifiutata dal giovane E. Severino4. Dal canto suo, Luigi Pirandello, nel suo importan-te scritto L’umorismo (1908)5, critica duramente la teoria esteti-ca crociana dicendo che «il fatto estetico non è né può essere quel che il Croce intende»: «L’Estetica del Croce è così astratta e negativa, che applicarla alla critica non è assolutamente possibile»6. Ora, il fortunato saggio crociano su Ludovico Ariosto (Ario-

sto, Shakespeare, Corneille, 1920)7 è essenzialmente un’esem-plificazione dell’idea crociana di “arte”, di “poesia”. In quel saggio Croce non può non dire che l’Orlando furioso, come ogni autentica opera d’arte, non è fine a se stesso (p. 19), né consiste nell’essere «filosofia della vita», «saggezza» (p. 21). Il Furioso è rappresentazione di passioni e di sentimenti e sono essi che l’hanno fatto sorgere. Esso è l’eterno fiore che spunta sopra le passioni e i sentimenti del poeta che hanno prodotto «le immagini di cui è contesto» (p. 66). Già da queste considerazio-ni appare percepibile la presenza della teoria estetica crociana nel saggio sull’autore dell’Orlando furioso. Ed evidenziando che «concorde e semplice e irrefrenabile è l’approvazione este-tica che si rivolge al poema ariostesco» (p. 12) e che il proble-ma critico è ancora aperto, Croce ha modo di accennare a dei

3 N. ABBAGNANO, Il problema dell’arte, Perrella, Napoli 1925; cfr. anche ID., Ricordi di un filosofo, Rizzoli, Milano 1990, p. 32. 4 Infatti, per Severino «Croce non capì mai l’importanza della musica» (E. SEVE-RINO, La coscienza, Vannini, Brescia 1948, p. 23). Su Severino, mi permetto di rinvia-re ai miei libri Vedere senza vedere ovvero il crepuscolo della morte, prefazione di E. Severino, Schena, Fasano 2007; Maestri futili? Gabriele D’Annunzio, Carlo Levi,

Cesare Pavese, Emanuele Severino, Aracne, Roma 2009, cap. 1 e Il divenire dell’

eterno, prefazione di L. Messinese, Aracne, Roma 2012. 5 L. PIRANDELLO, L’umorismo, Newton Compton, Roma 1993. 6 Ivi, pp. 77-78. 7 Si cita però da B. CROCE, Ariosto, Adelphi, Milano 1991.

Sull’Ariosto di Benedetto Croce

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momenti dello spirito, in particolare di distinguere il momento «intuitivo o estetico» da quello «intellettivo» (ibid.). 1.2. Armonia e ironia nell’Orlando furioso

Croce si propone di risolvere il problema critico ariostesco. Il fine delle sue «delucidazioni critiche» (p. 50) è quello di non lasciare l’Ariosto «avvolto nella nebulosa qualificazione di poeta dell’arte per l’arte, né nell’altra, fallace, di poeta satirico e ironico, o di poeta della prudenza e saggezza, e simili; e di addi-tare dove batte l’accento principale dell’arte sua» (p. 49). Il secondo fine è quello di mostrare in che modo si attua quell’accento. È ben noto quali siano le soluzioni che Croce ha dato a que-sti due problemi. L’Ariosto è il poeta dell’Armonia; «la dea, con la quale s’intratteneva quotidianamente in religiosi collo-qui», è l’Armonia (p. 34). L’amore ariostesco per l’Armonia «era amore per l’Armonia direttamente e ingenuamente vissuta, per l’Armonia sensibile» (p. 51). Essa è il sentimento dominan-te che compone tra loro tutti gli altri sentimenti – e sono essi la “materia” del Furioso

8. L’Armonia è messa poi in atto mediante il tono dell’ espressione, ovverosia tramite l’ironia ariostesca: essa esercita un’opera di «svalutazione e distruzione» (p. 69) e «non colpisce già un ordine di sentimenti [...], ma li avvolge tutti, e perciò non è futile scherzo, ma [...] la vittoria del senti-mento dominante sugli altri tutti» (p. 70). Ora, l’ironia ariostesca consiste nello smussamento di qual-siasi punto estremo, nel velare ma non cancellare (i sentimenti). Tutti i sentimenti «sono alla pari abbassati dall’ironia ed elevati in lei. Sopra l’eguale caduta di tutti, s’innalza la meraviglia dell’ottava ariostesca, che è cosa che vive per sé» (p. 71). In

8 Del problema relativo ai concetti crociani di “contenuto” e “forma” come anche di “arte” ed “armonia” si è occupato G. SASSO nell’approfondito saggio Croce e Ariosto.

L’armonia come contenuto e come forma, “La Cultura”, XXXVII (1999), n. 3, pp. 367-409.

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palese polemica con Luigi Pirandello, autore – come visto – di uno scritto sull’umorismo, Croce precisa che l’ironia ariostesca non ha niente a che vedere con l’umorismo, ma che va intesa in senso romantico. Essa è

simile all’occhio di Dio che guarda il moversi della creazione, di tutta la creazione, amandola alla pari [...], perché tutta l’ha fatta lui, e non cogliendo in essa che il moto stesso, l’eterna dialettica, il ritmo e l’armonia. (p. 74)

Si è detto che, per Croce, l’ironia esercita un’opera di distru-zione. Ma come va intesa quest’opera di distruzione? Non come una «quasi totale distruzione e annientamento», ma come «una distruzione nel senso filosofico della parola, e che è insieme conservazione» (p. 84). L’ ironia consiste, quindi, nel distrugge-re (o superare) conservando, nel velare senza cancellare. 1.3. Croce “ironico”

Ora, nel saggio crociano dedicato all’autore del Furioso sono presenti degli elementi che consentono di arrivare alla conclu-sione che il ruolo che Croce affida all’ironia ariostesca in verità egli stesso lo assume nei confronti dei critici dell’Ariosto. Definendo l’Ariosto poeta dell’Armonia, Croce è consapevo-le di affermare qualcosa che non è stato individuato dagli altri critici dell’Ariosto. I suoi predecessori non si sono serviti se non di «improprie formole» (p. 23) per definire il contenuto del Furioso e quindi non l’hanno individuato compiutamente. Quando Croce dice che le soluzioni finora date al problema critico ariostesco sono poco fondate e che «altra via di uscita non v’ha che ricercare un altro contenuto» (ibid.), è chiaro che intende assumere una posizione di distacco da quelle soluzioni e dai loro sostenitori. Ma questo non significa che Croce non riconosce dei meriti all’opera adempiuta dalla critica moderna (da quella romantica, da Carducci, ecc.). Egli è persuaso della possibilità di proporre una nuova soluzione ripresentando in

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modo più adeguato, cioè alla luce di un’esatta teoria estetica, una proposta già avanzata dai critici dell’Ariosto. Questa nuova soluzione consiste, quindi, nel «ripresentare in diverso modo alcune delle già date e ragionarla diversamente. Ma questa, se ben si rifletta, sarà poi nient’altro che una soluzione nuova, appunto perché diversamente configurata e ragionata» (p. 16). Infatti, anche se non hanno parlato di Armonia, i critici «l’hanno indirettamente e vagamente designata con la formola illogica, che “la sua Dea era l’Arte”» (p. 37). Ecco che, col suo saggio, Croce non intende semplicemente svalutare o «distrug-gere» le soluzioni avanzate dai critici dell’Ariosto, bensì, al contempo, conservare ciò che di valido essi hanno proposto. Analogamente all’ironia ariostesca, l’atteggiamento che Croce assume nei confronti di quei critici tende a smussare ogni posizione estrema – che il Furioso non abbia nessun contenuto (l’arte per l’arte: De Sanctis); che dia luogo alla dissoluzione del mondo cavalleresco (Hegel); che voglia trasmettere un de-terminato messaggio morale (Cantù). E, «sopra l’eguale caduta» di tutte queste posizioni che «si confutano a vicenda» (p. 23), tende ad innalzare la sua soluzione. Come l’ironia9 ariostesca e come il superamento (l’«Aufhebung») hegeliano, la soluzione crociana (Ariosto poeta dell’Armonia) toglie, distrugge e, in-sieme, conserva i “momenti” precedenti, le precedenti soluzio-ni. Metodo non nuovo per Croce; infatti, allo stesso modo, la Logica crociana «ripropone in modo migliore» i tradizionali problemi «confusamente proposti e mal risoluti»10. Da quanto si è detto risulta che, rispetto agli altri contributi critici sull’Ariosto, quello di Croce viene ad assumere una posi-zione privilegiata. Esso, quasi «occhio di Dio» (in quanto e-spressione ed esemplificazione del primo momento dello spirito universale), vede l’autentico contenuto del Furioso e, “superan-do” (hegelianamente) le diverse soluzioni proposte dagli altri

9 Sull’ironia come peripezia, cioè come rovesciamento della prospettiva di partenza, cfr. T. RUSSO CARDONA, Le peripezie dell’ironia, Meltemi, Roma 2009. 10 B. CROCE, Logica come scienza del concetto puro, Laterza, Bari 1967, p. 355.

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critici dell’Ariosto, lo rappresenta serenamente, «con superiore distacco e olimpico sorriso»11. Un tale esito non poteva forse essere che inevitabile, dati i suoi presupposti o il suo fondamento: la “vera” teoria estetica – quella crociana, appunto. Tuttavia, si deve pur riconoscere che Croce ha avuto il merito di avere valutato in modo estremamen-te positivo un capolavoro della letteratura italiana influenzando così gran parte dei critici dell’Ariosto che l’hanno seguito12. NOTA: I dolori del giovane Croce e il rimedio infallibile Per Karl Marx, autore insieme a Friedrich Engels del Mani-

festo del partito comunista, sono le reali condizioni di vita a determinare il pensiero dell’individuo. È la “vita” che determina la “coscienza”: l’esistenza concreta condiziona il modo di vede-re la realtà (il proprio modo di pensare). Al marxismo si è avvicinato per un certo periodo anche Be-nedetto Croce. Nel libro Il giovane Croce

13, S. Cingari esamina da un punto di vista soprattutto psicologico le vicende occorse-gli e l’evoluzione del suo pensiero. In altri termini, la figura di Croce viene analizzata da due diverse prospettive: la vita e la coscienza, i fatti della vita e la maniera di vedere le cose. E non a caso. Infatti, un tragico evento caratterizza la giovinezza del celebre pensatore di Pescasseroli: il terremoto del 28 luglio 1883. Croce si trova con i suoi familiari a Casamicciola, nell’ isola d’Ischia, quando ad un tratto la terra si mette a tremare. Non è senza commozione che Croce ricorderà quei momenti:

Vidi in un baleno mio padre levarsi in piedi, e mia sorella gettarsi nelle braccia di mia madre; io istintivamente sbalzai dalla terrazza,

11 L. CARETTI, Ariosto e Tasso, Einaudi, Torino 1961, p. 19n. 12 Una prima versione di questo capitolo è apparsa in “Critica letteraria”, XXV (1997), n. 2. 13 S. CINGARI, Il giovane Croce. Una biografia etico-politica, Rubbettino, Soveria Mannellli 2000.

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che mi si aprì sotto i piedi, e perdetti ogni conoscenza. Rivenni a notte alta, e mi trovai sepolto fino al collo e sul mio capo scintilla-vano le stelle, e vedevo intorno il terriccio giallo, e non riuscivo a raccapezzarmi su ciò che era accaduto, e mi pareva di sognare. Compresi dopo un poco14.

La mattina dei soldati lo estraggono vivo dalle macerie; suo padre, sua madre e sua sorella perdono invece la vita e i loro corpi vengono tirati fuori dalle macerie soltanto alcuni giorni dopo. Allora Croce trova conforto soprattutto nei libri, dalle ricerche storiche e filosofiche trae la forza di superare quella tragedia ed il trauma ad essa legato (che lo fa pensare al suici-dio). Emerge quindi un primo legame tra vita e pensiero in Be-nedetto Croce. Frammisti di teoria e pratica sono altresì i rapporti con An-tonio Labriola e Gabriele D’Annunzio. Lo “strappo” con La-briola avviene per ragioni culturali legate alla crociana presa di distanza dal marxismo. Dal Vate lo distingue poi non solo la diversa cultura, bensì anche il diverso stile di vita. Chiarificato-re il seguente curioso aneddoto: sapendolo esperto dei monu-menti napoletani, D’Annunzio prega il suo corregionale Croce di fargli da Cicerone. I due prendono appuntamento per il gior-no seguente di fronte alla chiesa di Santa Chiara, ma D’An-nunzio, per “vaghezza d’artista” non si presenta, lasciando Cro-ce per un’ora a curiosare fra i vecchi libri delle bancarelle. Nota, inoltre, l’amicizia tra Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Anche in questo caso vita e cultura, esistenza e co-scienza, non possono essere scisse. Alla collaborazione con lo studioso siciliano si affianca l’interessamento decisivo per la filosofia che porta Croce all’edificazione del suo sistema e a quello che lui stesso chiama l’“accordo con se medesimo”. Ai libri scritti prima del 1902 (tra cui La storia ridotta sotto

il concetto generale dell’arte, Materialismo storico ed econo-

mia marxista) seguono i vari capitoli della filosofia dello spirito

14 Ivi, p. 35.

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come l’Estetica (1902), la Logica (1905), la Filosofia della

pratica (1909) e Teoria e storia della storiografia (1917). Il fatto che nel suo libro sul giovane Croce Cingari prenda in considerazione tanto la cultura quanto la vita, sia l’esistenza che la coscienza, si addice alla figura analizzata. Infatti, proprio Croce interpreta ad esempio il pensiero di Giacomo Leopardi15 proprio in chiave psicologica, facendo risalire il pessimismo leopardiano alla sua giovinezza poco felice. Tuttavia, lo stesso Leopardi ha prevenuto i suoi critici, ribellandosi con veemenza a giudizi di questo tipo. Come a dire: non sempre i fatti della vita e il modo di vedere il mondo vanno di pari passo. G. Furnari Luvarò16 analizza le caratteristiche salienti dello storicismo crociano. Centrale tra l’altro il concetto di “contem-poraneità della storia”: in quanto «mossa dagli interessi spiritua-li vivi e pungenti nello storico, e perciò in lui presenti», la storia è sempre e tutta contemporanea – non passata17. Giustamente la studiosa considera l’autobiografia crociana Contributo alla

critica di me stesso (1915) una sorta di esemplificazione della teoria della storiografia di Croce. A ben vedere, Croce scrive quest’ autobiografia da critico e da storico scandagliando il “vero” della sua vita attraverso il “fatto”. Quindi, ciò che egli narra della sua vita va considerato storia. Infatti, la storia ha da essere autobiografia (e viceversa) nel senso che il critico deve entrare nell’anima dello scrittore, ne deve vivere il dramma come il dramma suo stesso. Allora, suffragata da documenti, la narrazione dei fatti (opere e azioni) della propria vita può essere considerata storia a condizione che in essa figurino “giudizi”, “atti perfetti di pensiero storico”. Nel redigere il Contributo alla critica di me stesso Croce esamina il suo passato. Ma il passato non è semplicemente an-

15 Del pensiero leopardiano si sono occupati anche filosofi come Giovanni Gentile e Emanuele Severino. Sul tema dell’infinito in Leopardi e Carlo Levi, si veda D. SPER-DUTO, Maestri futili?, cit., pp. 113-122. 16 G. FURNARI LUVARÒ, Tra arte e religione: la teoria della storia in Benedetto

Croce, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001. 17 Carlo Levi parla di “contemporaneità dei tempi” tra l’altro sulla scia di Croce (cfr. D. SPERDUTO, Maestri futili?, cit., p. 101).

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dato perduto, cioè passato, bensì è “contemporaneo” nella misu-ra in cui è storia innalzata ad intelligenza critica, sorta da un problema od interesse presente. Con la sua autobiografia Croce liquida il passato e si apre al futuro. Ed il problema “presente” che lo spinge a fare questo passo è lo scoppio della prima guerra mondiale. Croce si purifica dal passato per volgere lo sguardo verso l’avvenire. La metodologia crociana da un lato strabocca di positività (invita l’uomo a non lasciarsi abbattere dagli even-ti), dall’altro funge da stimolo all’azione. Come amava dire Croce, la storia trova il suo senso nell’etica. Pertinente la conclusione a cui perviene Giusi Furnari Luva-rò dopo aver preso in esame anche l’estetica e la logica crocia-ne: ogni pensatore è chiamato ad uscire dalla torre d’avorio della verità assoluta e a confrontarsi con i molteplici problemi concreti della vita. Il pensiero è inscindibile dall’azione, la teo-ria è unita alla pratica: l’intellettuale non può esimersi dalla responsabilità etico-politica.

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Capitolo II

La “lontananza” di

d’Annunzio e Carlo Levi

2.1. D’Annunzio: un dio bifronte

Nel 1957, parlando del compianto poeta triestino Umberto Saba, con il quale ebbe un pluriennale rapporto di stima – non esente, comunque, da qualche incrinatura –1, Carlo Levi lo defi-nisce a più riprese un «grande poeta» (ma non si dimentichi che la figlia di Saba, Linuccia, era la compagna di Levi e che, elen-cando persone e valori che hanno contato nella formazione della sua vita, Levi non cita il poeta triestino – cfr. cap. 5). Per lo scrittore torinese «Saba è il maggiore poeta dell’Italia moder-na»2. Usando il genere discorsivo-autobiografico, Saba ha inte-so difendere il principio dell’«aderenza della parola e della co-sa»3. A Saba, Levi oppone principalmente Gabriele d’Annunzio e “La Voce”: «sia con D’Annunzio che con “La Voce”, Saba ebbe contatti molto precisi, ma non aveva con essi nulla di co-mune, anzitutto perché era un grande poeta»4. Infatti, agli inizi del Novecento la letteratura italiana «si volgeva con D’An-nunzio verso un formalismo estetizzante» e, successivamente, verso un «formalismo di evasione» con i poeti ermetici:

Con gli uni e con gli altri Saba non aveva nulla di comune, perché la poesia di Saba è il contrario di una poesia formalistica o di una poesia di evasione. Essa nasce ed è così radicata nei sensi profondi della vita sia individuale che del popolo e del paese intero, nei mo-

1 Cfr. S. GHIAZZA, Carlo Levi e Umberto Saba. Storia di un’amicizia, Dedalo, Bari 2002. 2 C. LEVI, Prima e dopo le parole, a cura di G. De Donato e R. Galvagno, Donzelli, Roma 2001, pp. 191-205 (192). 3 P. MAGNO, Saggio interpretativo sulla poesia del Novecento, Schena, Fasano 1984, p. 133. 4 C. LEVI, Prima e dopo le parole, cit., p. 199.

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tivi eterni dell’eterna angoscia della vita e del suo eterno supera-mento, che qualsiasi forma di evasione formalistica o ermetica gli era assolutamente ripugnante. E invece si trova proprio per questi motivi nella condizione unica di poterci dare una poesia vera, quel-la in cui noi possiamo riconoscerci5.

Ricollegandosi, poi, al manifesto sabiano della poesia, intitolato Quello che resta da fare ai poeti, Levi ritiene pertinente consi-derare «poesia onesta» quella del poeta triestino. E l’onestà, i poeti devono averla «così verso loro stessi come verso il lettore, perché chi ha un candido rispetto per l’anima propria lo ha an-che all’infuori della stima e disistima per quello a cui si rivol-ge». Opponendo Manzoni al Vate, Saba parlava dell’onestà dell’uno e della “nessuna onestà” dell’altro6. Gabriele d’Annun-zio non è purtroppo per niente fedele al proprio mondo interio-re:

L’artificio del d’Annunzio non è solo formale ma anche sostanzia-le, egli si esagera o addirittura si finge passioni ed ammirazioni che non sono mai state nel suo temperamento: e questo imperdonabile peccato contro lo spirito egli lo commette al solo e ben meschino scopo di ottenere una strofa più appariscente, un verso più clamo-roso7.

Levi condivide questa analisi sabiana ed aggiunge significati-vamente: «Evidentemente questo era un manifesto della propria poesia, ma secondo me anche quello che può essere un manife-sto della poesia tout court»8. Infatti, come nota Silvana Ghiazza riferendosi all’Orologio, alla «“onesta poesia” di Saba [...] fa eco la convinzione di Levi che non siano “lontane e separate quelle due cose, arte e coscienza morale, ma amiche e congiun-te, e nate insieme”»9. Questo principio, Levi l’apprese nella sua

5 Ivi, p. 200. 6 Ivi, pp. 200-201. 7 U. SABA, Quello che resta da fare ai poeti, in ID., Tutte le prose, a cura di A. Stara, Mondadori, Milano 2001, pp. 674-681 (674). 8 C. LEVI, Prima e dopo le parole, cit., p. 201. 9 S. GHIAZZA, Carlo Levi e Umberto Saba, p. 15. La citazione leviana è tratta da C. LEVI, L’Orologio, Einaudi, Torino 1989, p. 242.