Sulla Motivazione Con Riferimento Alla Consulenza Tecnica d

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Sulla motivazione con riferimento alla consulenza tecnica d'ufficio Riv. trim. dir. proc. civ. 2002, 3, 1017 Elisa Salomone Dottore in giurisprudenza Sommario: 1. Caso di specie e cenni introduttivi. - 2. Riferimento alla consulenza tecnica: motivazione implicita e per relationem. - 3. La motivazione e i profili tecnici. - 4. Conclusioni. 1. - In una recente sentenza la Corte di cassazione ha nuovamente affrontato la problematica, già esaminata in precedenza, della possibilità per il giudice che si avvalga della consulenza tecnica d'ufficio di adempiere l'obbligo di motivazione attraverso il riferimento alla relazione del consulente (794). Nel caso di specie, la sentenza impugnata, emessa dalla Corte d'appello di Genova, confermava la pronuncia di primo grado con la quale il Tribunale di Massa, sulla base di misurazioni effettuate da due consulenti tecnici d'ufficio ed in adesione alle risultanze di una di esse, aveva accertato la denunciata violazione delle distanze legali tra edifici, condannando le parti convenute ad arretrare o demolire le porzioni di fabbricato illegittimamente costruite. Ai fini di quanto qui rileva, tra i motivi dell'impugnazione il ricorrente denunciava il vizio di omessa e insufficiente motivazione della sentenza, ex art. 360, comma 1°, n. 5, c.p.c., per avere la corte d'appello aderito alle conclusioni di uno dei due consulenti nominati in primo grado senza verificarne il fondamento e senza prendere in esame le critiche che, contro la consulenza stessa, erano state mosse dalle parti. La Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo insussistente il denunciato vizio di motivazione in base a due argomenti: col primo il supremo Collegio ha affermato che, ove il giudice aderisca alle conclusioni del proprio consulente, non è tenuto ad esporre analiticamente le ragioni del suo convincimento, essendo sufficiente "l'indicazione delle fonti dell'apprezzamento espresso, dalle quali possa desumersi che le contrarie deduzioni delle parti siano state implicitamente disattese", in quanto la confutazione discende dalla discordanza tra le deduzioni stesse e le risultanze della consulenza richiamata. Con il secondo argomento la suprema Corte, ribadendo il principio secondo il quale gli errori della consulenza tecnica si ripercuotono sulla motivazione che ad essa si riferisca, viziandola (795), ha affermato l'onere per la parte che deduca il difetto di motivazione a causa dei vizi della consulenza in essa recepita, di indicare nel ricorso i vizi stessi, non essendo sufficiente il mero rinvio ad atti del pregresso giudizio di merito. Esaminata la fattispecie concreta limitatamente a quanto rileva in questa sede, è opportuno soffermarci sull'esatta portata delle argomentazioni utilizzate dalla Cassazione per giustificare il rigetto del ricorso. In particolare, secondo la suprema Corte, il giudice che accoglie le conclusioni del perito da lui nominato (796), assolve l'obbligo di motivazione senza che debbano essere esplicitati i motivi

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Sulla motivazione con riferimento alla consulenza tecnica d'ufficioRiv. trim. dir. proc. civ. 2002, 3, 1017

Elisa Salomone

Dottore in giurisprudenza

Sommario: 1. Caso di specie e cenni introduttivi. - 2. Riferimento alla consulenza tecnica: motivazione implicita e per relationem. - 3. La motivazione e i profili tecnici. - 4. Conclusioni.

1. - In una recente sentenza la Corte di cassazione ha nuovamente affrontato la problematica, già esaminata in precedenza, della possibilità per il giudice che si avvalga della consulenza tecnica d'ufficio di adempiere l'obbligo di motivazione attraverso il riferimento alla relazione del consulente (794).Nel caso di specie, la sentenza impugnata, emessa dalla Corte d'appello di Genova, confermava la pronuncia di primo grado con la quale il Tribunale di Massa, sulla base di misurazioni effettuate da due consulenti tecnici d'ufficio ed in adesione alle risultanze di una di esse, aveva accertato la denunciata violazione delle distanze legali tra edifici, condannando le parti convenute ad arretrare o demolire le porzioni di fabbricato illegittimamente costruite.Ai fini di quanto qui rileva, tra i motivi dell'impugnazione il ricorrente denunciava il vizio di omessa e insufficiente motivazione della sentenza, ex art. 360, comma 1°, n. 5, c.p.c., per avere la corte d'appello aderito alle conclusioni di uno dei due consulenti nominati in primo grado senza verificarne il fondamento e senza prendere in esame le critiche che, contro la consulenza stessa, erano state mosse dalle parti. La Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo insussistente il denunciato vizio di motivazione in base a due argomenti: col primo il supremo Collegio ha affermato che, ove il giudice aderisca alle conclusioni del proprio consulente, non è tenuto ad esporre analiticamente le ragioni del suo convincimento, essendo sufficiente "l'indicazione delle fonti dell'apprezzamento espresso, dalle quali possa desumersi che le contrarie deduzioni delle parti siano state implicitamente disattese", in quanto la confutazione discende dalla discordanza tra le deduzioni stesse e le risultanze della consulenza richiamata. Con il secondo argomento la suprema Corte, ribadendo il principio secondo il quale gli errori della consulenza tecnica si ripercuotono sulla motivazione che ad essa si riferisca, viziandola (795), ha affermato l'onere per la parte che deduca il difetto di motivazione a causa dei vizi della consulenza in essa recepita, di indicare nel ricorso i vizi stessi, non essendo sufficiente il mero rinvio ad atti del pregresso giudizio di merito.Esaminata la fattispecie concreta limitatamente a quanto rileva in questa sede, è opportuno soffermarci sull'esatta portata delle argomentazioni utilizzate dalla Cassazione per giustificare il rigetto del ricorso. In particolare, secondo la suprema Corte, il giudice che accoglie le conclusioni del perito da lui nominato (796), assolve l'obbligo di motivazione senza che debbano essere esplicitati i motivi di tale adesione, ma attraverso la semplice indicazione della consulenza quale "fonte dell'apprezzamento" giudiziale. Lasciando al prossimo paragrafo l'analisi del criterio enunciato dalla Corte e, in generale, della prassi giurisprudenziale sul tema prospettato, innanzitutto si può rilevare come la qualificazione della Ctu quale fonte del convincimento richiami l'annoso dibattito sulla natura della consulenza tecnica e sulla possibilità di considerarla mezzo di prova, dibattito che perdura pressoché immutato nonostante sia ormai trascorso più di mezzo secolo dalla riforma del codice di rito che ha segnato il passaggio dalla perizia come mezzo di

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prova, prevista dal codice del 1865, all'attuale dettato codicistico, incentrato sulla figura del consulente tecnico quale ausiliario del giudice. Nel caso di specie, il supremo Collegio sembra orientato a considerare la Ctu mezzo di prova, come può evincersi sia dalla sua qualificazione di fonte dell'apprezzamento sul fatto costitutivo della pretesa attorea, sia per il rilievo che le medesime argomentazioni sono spesso impiegate dalla Corte in merito alla valutazione delle risultanze probatorie, essendosi formato un orientamento che reputa sufficiente l'indicazione in motivazione della fonte del convincimento giudiziale sui fatti, senza richiedersi una valutazione analitica del materiale probatorio (797). Del resto, il riconoscimento alla consulenza tecnica dell'efficacia di mezzo di prova non è inusuale nella giurisprudenza di legittimità, riscontrandosi una certa contraddittorietà nel modo in cui la Corte di cassazione affronta la questione: mentre, sul piano teorico, viene costantemente ribadito che la consulenza tecnica non è mezzo di accertamento, ma strumento di valutazione di elementi già provati dalle parti, tuttavia, quasi con la stessa frequenza, si riconosce che essa possa costituire fonte oggettiva di prova quando volta all'accertamento di fatti rilevabili solo attraverso il ricorso a particolari cognizioni tecniche (798).2. - Il caso concreto sopra brevemente esaminato, sebbene non presenti carattere di novità, allineandosi ad un orientamento già consolidato nella giurisprudenza di legittimità, tuttavia fornisce l'occasione per tornare su alcune problematiche relative all'obbligo di motivazione e al modo in cui esso si atteggia con riferimento alla consulenza tecnica.Innanzitutto, prima di procedere alla disamina di come tale questione è affrontata dalla prassi giurisprudenziale, è opportuno ricordare che, in coerenza con l'antico brocardo che lo considera peritus peritorum, dottrina e giurisprudenza riconoscono al giudice completa autonomia nella valutazione della consulenza tecnica (799), sulla base di un principio non codificato dall'attuale codice di rito, che nulla dispone in materia, ma desunto dalla funzione stessa della consulenza d'ufficio quale strumento di integrazione delle conoscenze del giudice, ove queste risultino insufficienti per la risoluzione di questioni prettamente tecniche (800).In merito alla motivazione della sentenza con riferimento alla consulenza d'ufficio, la prassi che si è formata nella giurisprudenza di legittimità distingue l'ipotesi in cui il giudice si discosti dalla relazione dell'ausiliario da quella in cui vi aderisca; in quest'ultimo caso, che rileva nella fattispecie in esame, non si richiede un'esposizione dettagliata dei motivi di adesione alle conclusioni del consulente tecnico, anche se le pronunce della Corte non sono concordi nell'indicare quando il requisito di completezza della motivazione debba considerarsi integrato, delineandosi due orientamenti principali. Il primo, meno rigorista, è quello fatto proprio dalla sentenza commentata, in forza del quale si ritiene che il giudice possa limitarsi a richiamare le risultanze peritali come fonte del suo convincimento, senza, tuttavia, dover giustificare i motivi di adesione alla consulenza d'ufficio e, correlativamente, di rigetto delle critiche sollevate dalle parti o dai loro consulenti, considerandosi tali critiche implicitamente confutate in quanto contrastanti con le conclusioni peritali accolte (801). Il secondo orientamento, invece, pur non richiedendo al giudice l'esposizione dettagliata delle ragioni del suo convincimento, essendo sufficiente il riferimento alla relazione tecnica, gli impone di esaminare in motivazione le censure mosse alla stessa dalle parti o dai loro consulenti ove si concretino in rilievi specifici, circostanziati e decisivi, ossia tali da poter condurre, se fondati, ad una diversa decisione (802).Del resto, anche riguardo alla motivazione su difese, istanze e risultanze istruttorie si ritrova la medesima distinzione tra l'orientamento che ammette la motivazione implicita sugli elementi incompatibili con quelli posti a fondamento della decisione adottata e quello che la esclude ove i rilievi prospettati siano decisivi (803). Dunque, pure in ipotesi diverse

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dall'espletamento della consulenza tecnica, la Cassazione ammette con larghezza la legittimità della motivazione implicita, in nome di un'esigenza di concisione che legittimerebbe, su determinati aspetti della decisione, una giustificazione non esplicitata, ma risultante dal contrasto con i motivi espressi (804). Tuttavia, l'affermazione secondo la quale non è necessaria l'esposizione dei motivi ove possano desumersi dall'incompatibilità con quelli posti a fondamento del convincimento giudiziale, se, a prima vista, può apparire ragionevole, ad un esame più attento si rivela vuota: infatti, come giustamente è stato osservato da parte della dottrina che ha più fermamente criticato la prassi della motivazione implicita, dai motivi addotti a sostegno della decisione potrà tutt'al più dedursi il rigetto delle contrarie eccezioni o la valutazione negativa delle prove incompatibili con l'accertamento compiuto, ma non i motivi che sorreggono tale rigetto o tale valutazione negativa, onde dietro all'etichetta di motivazione implicita si nasconde in realtà un'assenza di motivazione (805). Pertanto, come è stato autorevolmente rilevato da tale dottrina, i termini della questione vanno invertiti: non si tratta di stabilire se la motivazione implicita è ammissibile, ma di determinare su quali parti della decisione possa non esservi motivazione , escludendo che ciò sia possibile per quanto riguarda il rigetto di eccezioni in senso proprio, dirette a far valere fatti estintivi, modificativi, impeditivi, nonché il rigetto o la valutazione negativa di istanze e risultanze istruttorie che, proprio in quanto incompatibili con quelle poste a fondamento della decisione, richiederebbero una specifica motivazione (806). Tuttavia, è chiaro che se le critiche sollevate alla consulenza d'ufficio si considerano mere allegazioni difensive, come la Cassazione è orientata a fare (807), allora anche adottando il criterio di distinzione da ultimo indicato risulterebbe pienamente ammissibile che il loro rigetto non sia giustificato (808).Inoltre, la sentenza annotata e tutte quelle riconducibili al medesimo filone prevedono che la motivazione sul rigetto delle critiche di parte derivi implicitamente non dai motivi che lo stesso giudice ha espresso riguardo ad altri aspetti della decisione, bensì direttamente dalla discordanza con la relazione tecnica richiamata, senza, peraltro, che nemmeno le ragioni di adesione alla stessa debbano essere espresse. Si assiste, così, ad una prassi in forza della quale la giustificazione sulle censure sollevate dalle parti alla Ctu deriva per implicito da una motivazione fatta, se così si può dire, per relationem ad un elemento esterno alla decisione giudiziale, quale è la relazione peritale (809); infatti, come frequentemente accade che il giudice d'appello non giustifichi il rigetto dell'impugnazione, limitandosi a rinviare ai motivi espressi nella sentenza di primo grado (810), così, nell'ipotesi di consulenza tecnica, il giudice che ritiene di aderirvi non ne esplicita le ragioni, indicando soltanto la relazione peritale come fonte del suo convincimento. Ora, con riferimento alla sentenza d'appello, la giurisprudenza di legittimità esclude che la motivazione possa essere fatta per mero rinvio, richiedendosi al giudice di tenere conto in motivazione delle critiche sollevate dalle parti con i motivi di gravame e di indicare le ragioni per le quali non le accoglie (811); tale orientamento, peraltro non condiviso da tutta la dottrina (812), è comunque più rigoroso di quello relativo alla consulenza tecnica, in forza del quale si ammette che non sia motivata né l'adesione alla Ctu, né il rigetto delle critiche contro di essa sollevate.3. - Passando all'altro filone giurisprudenziale in materia di motivazione sulla consulenza tecnica, secondo le pronunce ad esso riconducibili non è necessaria l'esposizione dei motivi di accoglimento delle conclusioni peritali, ma deve esservi la confutazione espressa delle critiche di parte ove siano decisive; il criterio rappresenta sicuramente un passo avanti rispetto a quello che non la richiede in nessun caso, anche se proprio la particolare complessità tecnica della questione potrebbe rendere difficile la valutazione sulla decisività, sia per il giudice di merito, sia per la Corte

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di cassazione in sede di eventuale controllo sulla motivazione .Il criterio è conforme a quello elaborato in via generale riguardo ad elementi probatori, istanze istruttorie o punti di fatto, il cui omesso esame in motivazione può dar luogo a vizio solo ove tali elementi, sulla base di un giudizio di certezza e non di mera probabilità, fossero idonei a fondare una diversa decisione (813); inoltre, per consentire alla Corte di cassazione, in sede di impugnazione, la verifica ex actis sulla decisività degli argomenti trascurati (814), si richiede che questi siano espressamente indicati nel ricorso insieme alle ragioni della loro idoneità a fondare una decisione difforme da quella adottata dal giudice, senza che sia possibile per la parte il mero rinvio ad atti del pregresso giudizio di merito (815). Si tratta del principio di autosufficienza del ricorso, spesso richiamato anche dall'orientamento sopra esposto che richiede una confutazione espressa delle censure specifiche e decisive mosse dalle parti alla relazione peritale, imponendo, però, al ricorrente di riprodurre le critiche stesse nel ricorso (816).Ritornando per un momento alla sentenza commentata, la Cassazione da un lato afferma che, ove il giudice recepisca le conclusioni del consulente, l'obbligo di motivazione è assolto con "l'indicazione delle fonti dell'apprezzamento espresso, dalle quali possa desumersi che le contrarie deduzioni delle parti siano state implicitamente disattese"; dall'altro, però, trae come logica conseguenza da questa premessa il rilievo per cui la parte che deduce il vizio di motivazione della sentenza impugnata "ha l'onere di indicare in modo specifico gli errori o le omissioni del consulente che il giudice non avrebbe considerato, non essendo all'uopo sufficiente il mero e generico rinvio alle precedenti deduzioni". Alla luce delle considerazioni sopra svolte, gli argomenti impiegati dal supremo Collegio per respingere il ricorso appaiono contraddittori; infatti, la Corte afferma, in via di principio, l'ammissibilità di una confutazione implicita delle critiche di parte, ma indica, quale conseguenza da tale premessa, l'onere, per la parte che denunci un vizio della consulenza non considerato dal giudice, di riprodurlo espressamente nel ricorso, argomento, questo, che postula il riconoscimento del difetto di motivazione per mancato esame di censure già proposte in sede di merito, essendo inammissibile che vengano dedotti per la prima volta nel giudizio di legittimità errori della perizia che non fossero già stati prospettati davanti al giudice di merito sotto forma di critiche alla relazione tecnica (817). Il contrasto tra le argomentazioni addotte appare ancor più ingiustificato alla luce dei motivi di ricorso prospettati. Infatti, il ricorrente ha denunciato la sentenza impugnata, sotto il profilo del vizio di motivazione , rilevando che la Corte d'appello di Genova si era limitata a recepire le conclusioni del consulente nominato in primo grado senza verificarne il fondamento e senza tener conto delle censure mosse dalla parte istante all'operato dell'ausiliario, censure, però, che non sono state riprodotte nel ricorso. Alla luce del consolidato orientamento sul principio di autosufficienza del ricorso in relazione alla denuncia del vizio di motivazione , quest'ultimo rilievo sarebbe stato sufficiente per giustificare il rigetto dell'istanza; invece, la Cassazione ha voluto comunque richiamare il criterio che non richiede una confutazione espressa delle critiche di parte.Se il ricorso ad argomentazioni svolte ad abundantiam non è un fenomeno sconosciuto alla prassi giudiziale (818), nel caso in esame sembra determinato dalla volontà del supremo Collegio di ribadire la legittimità dell'orientamento meno rigoroso in materia di motivazione sulla consulenza tecnica, in vista di una "sopravvalutazione" del ruolo del consulente d'ufficio: infatti, anche se l'omissione della specifica motivazione sull'adesione alla relazione tecnica e sulle censure contro di essa sollevate non significa omesso esame delle stesse, come è stato giustamente rilevato, tuttavia la motivazione "serve di controllo alla serietà dell'esame che doveva compiersi" (819), onde la sua mancanza può far supporre che il giudice non abbia valutato la consulenza sulla quale ha

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fondato la decisione, rinviando ad essa in modo acritico.Mi sembra che, soprattutto in controversie come quella in esame, incentrate sulla soluzione di questioni strettamente tecniche, il giudice, di fatto, demandi al consulente non solo la decisione sulla problematica tecnica, ma anche sulla causa stessa, onde il principio che lo vede come peritus peritorum perde di concretezza, in quanto, pur potendo apprezzare liberamente le indagini e gli accertamenti compiuti dall'ausiliario, il giudice difficilmente sarà in possesso degli elementi necessari per compiere una valutazione difforme rispetto a quella del consulente da lui nominato, a meno che non ricorra ad altre fonti esterne di convincimento, quali la consulenza di parte o la rinnovazione delle indagini peritali. Pertanto, in casi come questo, l'orientamento della Corte di cassazione che esonera dalla motivazione sulle ragioni di adesione alla Ctu e sulla confutazione delle argomentazioni di parte potrebbe spiegarsi, oltre che con le considerazioni svolte supra riguardo alla motivazione implicita e per relationem, anche con la consapevolezza, da parte del supremo Collegio, della difficoltà per il giudice di giustificare una decisione che, nella sostanza, non è opera sua, ma del consulente.Ad ulteriore conferma di quanto detto possono citarsi alcune sentenze con le quali la Corte ha ribadito il divieto di motivare la sentenza di appello per relationem a quella di primo grado con riferimento ad ipotesi nelle quali la decisione richiamata dal giudice del gravame era, a sua volta, fondata sui risultati della consulenza tecnica (820); il supremo Collegio non solo ha ripetuto il principio per cui la motivazione deve prendere in esame le censure sollevate dalle parti con l'appello, ma ha espressamente affermato che, ove i motivi di appello consistano in critiche alla consulenza tecnica di primo grado, il giudice del gravame non può motivare semplicemente con riferimento ad essa, in quanto è proprio la consulenza d'ufficio a costituire "l'oggetto dell'impugnativa" (821), "determinandosi altrimenti una ripetitività che vanificherebbe l'oggetto e il fine del secondo giudizio" (822). Dunque, indicare la consulenza tecnica come oggetto dell'impugnazione equivale a riconoscere che, di fatto, la decisione in primo grado si concreta nelle risultanze peritali da essa recepite; tuttavia, se il giudice che aderisce alla decisione di altro giudice è tenuto a motivare il suo rigetto delle critiche di parte, non si vede come, a maggior ragione, tale obbligo non debba reputarsi sussistente qualora la decisione alla quale si fa rinvio sia resa, di fatto, da un soggetto che giudice non è, come il consulente.L'accentuata fiducia che gli organi giurisdizionali ripongono nell'attività dei loro ausiliari trova ulteriore riscontro nella prassi che si è formata in materia di motivazione sul dissenso dalle conclusioni del consulente d'ufficio; diversamente dall'ipotesi di adesione, l'opinione pressoché unanime del supremo Collegio è che il dissenso debba essere motivato adeguatamente (823). La distinzione operata dalla suprema Corte tra l'ipotesi di accoglimento e quella di rigetto delle conclusioni tecniche è stata fermamente criticata dalla dottrina unanime, che l'ha ritenuta ingiustificata ed arbitraria, auspicando un mutamento giurisprudenziale nel senso di riconoscere l'obbligo di compiuta motivazione in entrambi i casi (824).Infine, a conferma di come, nella prassi, il ruolo rivestito dal perito d'ufficio vada forse oltre la sua qualifica formale di ausiliario può considerarsi il diverso rilievo che la giurisprudenza di legittimità attribuisce alla consulenza d'ufficio e a quelle di parte: infatti, mentre il codice di rito non sembra considerarle in modo differente, il supremo Collegio riconosce alle consulenze di parte il valore di mere allegazioni difensive, con la conseguenza che il loro rigetto non deve essere motivato, diversamente da quanto avviene per la consulenza d'ufficio (825).4. - Al termine delle osservazioni svolte nei precedenti paragrafi, sembra opportuno riassumere brevemente le conclusioni alle quali si voleva arrivare.

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In primo luogo, rispetto al problema della motivazione sulla Ctu, possono richiamarsi le considerazioni svolte supra sull'opportunità di motivare non solo il dissenso, ma anche l'adesione alla relazione peritale. In particolare, nell'ipotesi in cui il giudice ritenga convincenti le conclusioni del consulente, dovrebbe richiedersi una compiuta motivazione anche in assenza di critiche delle parti (826), non apparendo il mero richiamo alla consulenza quale fonte del convincimento giudiziale sufficiente ad imprimere alla decisione quell'"originalità" che dovrebbe presentare in quanto risultante di un giudizio nel quale "devono comporsi tutti gli elementi" "compresa, dunque, la consulenza tecnica" (827). Invece, qualora le parti abbiano sollevato critiche alla Ctu, si potrebbe adottare un criterio meno rigoroso rispetto a quello che ne impone la confutazione in motivazione solo se decisive, richiedendosi, ad esempio, invece della decisività, la non manifesta irrilevanza, in considerazione del fatto che, da un lato, le censure mosse dalle parti o dai loro consulenti sono l'unico strumento per orientare il convincimento del giudice in un senso diverso da quello indicato dal perito, e, dall'altro, che in materie prettamente tecniche una valutazione in termini di stretta decisività potrebbe, forse, risultare difficoltosa.In secondo luogo, quello che premeva dimostrare è come, spesso, la decisione di controversie incentrate su questioni tecniche complesse riposi, di fatto, sulla risposta che su tali questioni fornisce il consulente d'ufficio, onde non solo la motivazione è compiuta per relationem alla perizia, ma la stessa definizione della causa è rimessa al consulente, attraverso una dismissione dei poteri decisori che si tenta di mascherare con il richiamo alla tradizionale formula del giudice come peritus peritorum, ma della quale il supremo Collegio sembra essere pienamente consapevole nel momento in cui ammette che l'affidamento sull'operato del perito possa spingersi sino al recepimento acritico delle risultanze tecniche.Del resto, che si stia assistendo a quella "soggezione del giudice al perito" paventata da Andrioli (828) può, forse, dimostrarlo anche il confronto con quanto avviene davanti alla Corte di giustizia europea: infatti, pur essendo la perizia annoverata tra i mezzi di prova, la Corte fa di essa uno scarsissimo utilizzo, di contro al frequente ricorso ad altri mezzi istruttori, quali, soprattutto, la richiesta di informazioni alle parti; una possibile giustificazione di tale atteggiamento è stata individuata nella volontà della Corte di mantenere intatti i propri poteri decisori, ricorrendo a mezzi di prova che lascino un margine di valutazione più ampio rispetto alla relazione peritale (829).In conclusione, tornando alla situazione italiana, preso atto che la figura del giudice-perito, consegnataci dalla tradizione romanistica, è ormai irrimediabilmente tramontata, non sembra di alcuna utilità tentare di riportarla in vita attraverso il riferimento a princìpi ormai svuotati di contenuto; pertanto, anziché rimanere ancorati ad un modello in cui il consulente si limita ad apportare gli elementi necessari per una decisione che è e rimane del giudice, si potrebbero invertire i termini del ragionamento, attribuendo poteri decisori a "tecnici". In una prospettiva de iure condendo, non essendo possibile la costituzione di nuovi giudici speciali, stante il divieto sancito dall'art. 102, comma 2°, cost., una soluzione potrebbe consistere nella previsione di arbitrati "tecnici" (830), sul modello di quello disciplinato dagli abrogati artt. 455-458 c.p.c. in materia di processo del lavoro (831). In particolare, si ipotizza una forma di arbitrato che, secondo una espressione mutuata dal diritto statunitense, potrebbe definirsi court-annexed(832), nel senso che su di esso dovrebbe esplicarsi il controllo dell'autorità giudiziaria, pur lasciando alla libera iniziativa delle parti la scelta di instaurare il procedimento arbitrale, stante l'inammissibilità nel nostro ordinamento di forme di arbitrato obbligatorio (833). Relativamente all'istanza di rimessione della controversia agli arbitri, potrebbe ammettersi che sia presentata tanto in

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corso di causa, ove emerga una connotazione prettamente tecnica della materia del contendere, quanto in via principale (834), mentre non sembra che si debba riconoscere al giudice il potere discrezionale di omologare il compromesso, sulla base di una valutazione di opportunità del ricorso alla procedura arbitrale, come, invece, avveniva rispetto all'arbitrato in materia di lavoro (835). Il controllo da parte dell'autorità giudiziaria potrebbe esplicarsi da un lato nella partecipazione alla scelta degli arbitri, prevedendosi, ad esempio, un collegio composto da un membro designato dal giudice e da altri due componenti indicati da ciascuna delle parti, e, dall'altro nella fissazione del termine entro il quale il lodo arbitrale deve essere pronunciato. Quanto al lodo, parrebbe opportuno consentirne l'impugnazione davanti all'autorità giudiziaria, sulla base della disciplina dettata dagli artt. 827-831 c.p.c., per garantire alla parte che sia rimasta insoddisfatta della pronuncia arbitrale la possibilità di avvalersi di un secondo grado di giustizia ordinaria, successivo al primo stragiudiziale.Nella direzione di un potenziamento espresso del ruolo del consulente, attraverso l'attribuzione di funzioni non proprio decisorie, ma comunque rilevanti per la risoluzione delle controversie di natura tecnica si era orientato un disegno di legge presentato nella scorsa legislatura, ma non approvato dal Parlamento, volto a modificare il codice di rito al fine di garantire un migliore accesso alla giustizia civile, attraverso la riduzione della durata dei processi e l'incentivazione delle procedure di conciliazione (836). Per quanto qui rileva, il progetto innanzitutto riconosceva al giudice, ove la natura della causa lo consentisse, la facoltà di affidare al consulente il compito di tentare la conciliazione tra le parti, estendendo, così, a tutte le forme di consulenza tecnica quanto già previsto dall'art. 198 c.p.c. in materia di esame contabile. Di maggior rilievo sarebbe stata la modifica prospettata riguardo ai procedimenti di istruzione preventiva, con la previsione della possibilità di espletare in tale sede una consulenza tecnica anche in assenza del presupposto dell'urgenza, richiesto dall'art. 696 c.p.c. In particolare, si prevedeva che, prima dell'instaurazione del giudizio di merito, la parte potesse richiedere che fosse disposta una consulenza tecnica al fine di acquisire gli elementi di valutazione necessari per accertare la sussistenza di obblighi derivanti da fatto illecito o da inadempimento, nonché di diritti reali; anche in questo caso il consulente, prima di depositare la propria relazione, avrebbe tentato la conciliazione delle parti e, ove questa fosse riuscita, il processo verbale acquistava efficacia di titolo esecutivo con l'omologa da parte del giudice.Il progetto di legge, dunque, sulla base dell'influenza decisiva che gli esiti di una Ctu possono avere nella soluzione della causa, consentiva alla parte di conoscere prima quale sarebbe stata la valutazione del perito riguardo alla questione tecnica su cui verteva la controversia, onde decidere se instaurare o meno il giudizio di merito, a seconda che gli accertamenti compiuti apparissero concordi o contrastanti con le proprie pretese.Pertanto, anche tale disegno di legge sembrava orientato verso quel mutamento di rotta rivolto ad esteriorizzare l'importanza che, nella prassi, la consulenza tecnica riveste nella decisione della causa, attraverso l'attribuzione all'esperto di poteri più consoni alle funzioni di fatto svolte, contemperandosi il riconoscimento di funzioni più ampie al perito, in vista di una decisione che sia il più possibile "tecnica", con il controllo esercitato dall'autorità giudiziaria.Tuttavia, lo scarso successo riscosso dall'istituto dell'arbitrato nel processo del lavoro e la circostanza che le modifiche previste dal progetto di legge non si siano tradotte in norme di diritto positivo né siano state riproposte nell'attuale legislatura fanno apparire l'auspicata inversione di tendenza ancora lontana a verificarsi.

(794) Cfr. Cass., 11 aprile 2001, n. 5416, in Guida al dir., 2001, n. 22, p. 68.

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(795) Per tutte v. Cass., 11 febbraio 1983, n. 1077, in Mass. Foro it., 1983, c. 217 ss.; Cass., 12 marzo 1987, n. 2598, in Mass. Foro it., 1987, c. 427; Cass., 9 gennaio 1992, n. 142, in Inf. prev., 1992, p. 814 ss.; Cass., 27 gennaio 1999, n. 730, in Dir. e giur. agr. e dell'ambiente, 1999, p. 539 ss.(796) L'espressione è utilizzata, qui come nel prosieguo, per mere esigenze espositive, consapevoli che la sostituzione del perito, previsto nel codice del 1865, con il consulente tecnico introdotto dal codice attuale rende non più interscambiabili i due termini.(797) Per un'ampia indicazione delle pronunce della Cassazione in materia di sufficienza della motivazione sulle istanze e risultanze istruttorie, v. Carpi- Taruffo, Commentario breve al codice di procedura civile, Padova, 1999, sub art. 132. Tuttavia, l'orientamento suddetto è stato fermamente criticato da Taruffo, La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975, p. 555 ss., il quale ritiene incompleta, e, quindi, viziata la motivazione nella quale il giudice si limiti ad indicare le fonti di prova sulle quali basa l'accertamento dei fatti, senza giustificare la valutazione negativa delle prove divergenti da quelle da lui poste a fondamento della decisione.(798) Per tutte v. Cass., 24 marzo 1987, n. 2849, in Rep. Giust. civ., 1987, voce "Consulenza tecnica in materia civile", n. 1; Cass., 31 marzo 1990, n. 2629, in Rep. Foro it., 1990, voce cit.lente tecnico", n. 7; Cass., 4 novembre 1996, n. 9522, in Rep. Foro it., 1997, voce cit., n. 8; Cass., 14 gennaio 1999, n. 321, in Rep. Foro it., 1999, voce cit., n. 10; Cass., 10 marzo 2000, n. 2802, in Rep. Foro it., 2000, voce cit., n. 16.Contra tale orientamento, v. Cass., 9 febbraio 1987, n. 1342, in Rep. Giust. civ., 1987, voce cit., n. 4, nella quale si afferma che "la consulenza tecnica, anche quando diventa strumento di accertamento di meri fatti, non costituisce mai un mezzo di prova vero e proprio, in quanto ogni accertamento implica, al di là della percezione della realtà, una valutazione fondata sull'applicazione di regole di esperienza tecnica".Anche in dottrina il dibattito è più che mai acceso: mentre alcuni aa., fedeli al dettato codicistico che considera il consulente come ausiliario del giudice, reputano che la consulenza tecnica valga soltanto ad integrare le conoscenze del giudice, fornendogli gli elementi tecnici necessari per poter valutare le prove già acquisite, altri, invece, ritengono che essa conservi la funzione di accertamento dei fatti già propria della perizia, e, quindi, il risultato delle indagini che il consulente compie da solo sarebbe tuttora mezzo di prova.In particolare, sulla considerazione della Ctu come mezzo istruttorio di integrazione delle conoscenze del giudice, ma non mezzo di prova v. Liebman, Diritto processuale civile, II, Milano, 1981, p. 98; Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, II, Torino, 1998, p. 182, il quale ammette che la consulenza tecnica possa essere utilizzata anche per l'accertamento dei fatti, ma ritiene che pure in questo caso abbia la funzione di integrare le conoscenze del giudice; Monteleone, Diritto processuale civile, Padova, 2000, p. 418.Invece, sull'opposta qualificazione della Ctu come mezzo di prova, v. Redenti, Diritto processuale civile, Milano, 1957, p. 204, che attribuisce efficacia di prova ispettiva agli accertamenti di fatto compiuti dal consulente, escludendola per i pareri e le deduzioni di carattere scientifico, che avrebbero un valore esclusivamente "intellettuale e morale"; la medesima distinzione è anche in Vellani, op. cit., p. 537; contra G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, 1999, p. 250, il quale ritiene che la consulenza tecnica, allorché si concreta nel compimento di indagini, abbia sempre efficacia di prova, anche per quanto riguarda i giudizi espressi dal consulente; l'individuazione dell'accertamento dei fatti quale funzione tipica della Ctu implica, secondo l'a., che allorché viene impiegata come mezzo di prova, non può considersi atipica.Ancora, per la qualificazione della consulenza tecnica come mezzo di prova v. Franchi, La perizia civile, Padova, 1959, p. 296 ss.; Giudiceandrea, voce Consulente tecnico, in Enc. dir., IX, Milano, 1961, p. 532, il quale riconosce

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che la consulenza tecnica sia mezzo di prova quando il consulente indaga direttamente per ricostruire i fatti; Denti, Perizie, nullità processuali e contraddittorio, in Riv. dir. proc., 1969, p. 404; ProtoPisani, Appunti sulle prove civili, in Foro it., 1994, V, c. 71 ss., che considera la Ctu fonte di prova solo limitatamente all'attività di percezione del fatto; Satta- Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 1996, p. 384 ss., nel quale si afferma che il risultato delle indagini svolte dal consulente è sempre un accertamento di fatto e che il giudice valuta la perizia "come qualunque fonte di prova"; Comoglio, Le prove civili, Torino, 1988, p. 490 ss., che ritiene essersi in presenza di una evoluzione diretta ad un "nuovo modello di consulenza tecnica, nel quale sia finalmente valorizzato il ruolo di autonomo mezzo di prova". In una posizione in un certo senso intermedia si colloca Andrioli, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1961, sub art. 61, p. 187, il quale ritiene che la soppressione della perizia come mezzo di prova e l'assunzione del consulente tra gli ausiliari del giudice rappresenti un mutamento più terminologico che sostanziale, in quanto anche la consulenza tecnica, come la perizia, costituisce mezzo di convincimento del giudice; tuttavia, secondo l'a., annoverare nuovamente la consulenza tecnica tra i mezzi di prova non potrebbe ovviare alle disfunzioni che caratterizzano l'attuale sistema, soprattutto in merito allo scarso rispetto del contraddittorio nell'acquisizione delle cognizioni tecniche. Contra, invece, Denti, Scientificità della prova e libera valutazione del giudice, in Riv. dir. proc. civ., 1971, p. 427, secondo il quale l'esclusione della consulenza tecnica dai mezzi di prova ha portato a svalutare il contraddittorio, facendo della Ctu lo strumento per "l'integrazione delle conoscenze del giudice al di fuori della sua sede naturale, che è lo svolgimento dialettico dell'istruttoria".(799) In dottrina fra tutti v. Vellani, voce Consulente tecnico, in Dig. disc. priv., sez. civ., III, Torino, 1988, p. 537; Barone, voce Consulente tecnico, in Enc. giur. Treccani, VIII, Roma, 1988, p. 5; Comoglio, op. cit., p. 494 ss. Nella giurisprudenza di legittimità il principio è costantemente ribadito; per limitarsi alle pronunce più recenti v. Cass., 2 maggio 1990, n. 3615, in Rep. Foro it., 1990, voce "Consulente tecnico", n. 14; Cass., 28 febbraio 1992, n. 2476, in Foro it., 1992, I, c. 3314 ss.; Cass., 18 novembre 1997, n. 11440, in Rep. Foro it., 1997, voce cit., n. 20; Cass., 26 febbraio 1998, n. 2145, in Rep. Foro it., 1998, voce cit., n. 35; Cass., 14 gennaio 1999, n. 333, in Rep. Foro it., 1999, voce cit., n. 21.

(800) Ad ulteriore sostegno di quanto detto può considerarsi che il codice del 1865, pur annoverando la perizia tra i mezzi di prova,

prevedeva espressamente all'art. 270 che "l'avviso dei periti non vincola l'autorità giudiziaria"; pertanto, a maggior ragione, tale principio si ritiene valido nel vigore dell'attuale codice, che non qualifica la consulenza tecnica come mezzo di prova, accentuando, invece, la funzione del consulente quale ausiliario del giudice.

(801) V. Cass., 20 novembre 1973, n. 3127, in Giur. it., 1974, I, c. 1033 ss.; Cass., 18 luglio 1979, n. 4239, in Rep. Foro it., 1980, voce cit., n. 39;

Cass., 22 aprile 1980, n. 2594, ivi, voce cit., n. 43; Cass., 18 marzo 1982, n. 1769, ivi, 1982, voce cit., n. 31; Cass., 25 agosto 1982, n. 4713, ivi, voce cit., n. 25; Cass., 13 aprile 1984, n. 2391, in Mass. Foro it., 1984, c. 471; Cass., 18 gennaio 1986, n. 322, in Rep. Foro it., 1986, voce cit., n. 20; Cass., 14 novembre 1986, n. 6698, ivi, voce cit., n. 25; Cass., 11 dicembre 1986, n. 7379, ivi, voce cit., n. 26; Cass., 6 ottobre 1993, n. 9919, in Inf. prev., 1993, p. 1290 ss.; Cass., 8 agosto 1998, n. 7806, in Rep. Foro it., voce cit., n. 31.

(802) V. Cass., 7 aprile 1972, n. 1037, in Foro it., 1972, I, c. 2467 ss.; Cass., 12 marzo 1980, n. 1653, in Rep. Foro it., 1980, voce cit., n. 45;

Cass., 17 settembre 1980, n. 2391, ivi, voce cit., n. 38; Cass., 6 febbraio 1987, n. 1191, ivi, 1987, voce cit., n. 24; Cass., 24 aprile 1987, n. 4007, ivi, voce cit., n. 22; Cass., 16 marzo 1992, n. 3207, ivi, voce cit., n. 6; Cass., 23 novembre 1994, n. 9930, in Inf. prev., 1994, p. 1505 ss.; Cass., 23 giugno

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1995, n. 7150, in Rep. Foro it., voce cit., n. 24; Cass., 24 novembre 1997, n. 11711, ivi, voce cit., n. 19; Cass., 23 maggio 1998, n. 5158, ivi, voce cit., n. 29; Cass., 17 maggio 1999, n. 4787, ivi, voce cit., n. 25.

(803) Per un'ampia rassegna di pronunce dalle quali emerge tale distinzione, v. Carpi- Taruffo, Commentario, cit., p. 133. I due

orientamenti indicati sembrano rispecchiare un diverso modo di concepire la funzione che la motivazione dovrebbe svolgere nei confronti delle parti, a garanzia del diritto di difesa.In dottrina, sulla correlazione tra diritto di difesa e obbligo di motivazione , v. Evangelista, voce Motivazione , I, in Enc. dir., XXVII, Milano, 1977, p. 158, che rileva come la possibilità per le parti di svolgere attività processuali rimarrebbe priva di effetto ove il giudice non fosse tenuto a dimostrare di aver giudicato secundum alligata et probata; ancora, sulla correlazione tra motivazione e diritto alla prova, inteso come aspetto del diritto di difesa, v. Taruffo, La motivazione , cit., p. 439, il quale sottolinea come la facoltà riconosciuta alle parti di avvalersi di tutti i mezzi di prova ammissibili rimarrebbe a livello formale se il giudice potesse respingere immotivatamente le istanze istruttorie.

(804) Per il rilievo della frequenza con la quale i giudici di merito ricorrono a forme di motivazione implicita, con l'avallo della suprema

Corte, v. Taruffo, La fisionomia della sentenza in Italia, in questa rivista, 1986, I, p. 457; Id., La motivazione , cit., p. 430 ss.; Comoglio- Ferri- Taruffo, Lezioni sul processo civile, Bologna, 1998, p. 843.

(805) V. Taruffo, La fisionomia della sentenza in Italia, cit., p. 430 ss.; Id., voce Motivazione della sentenza, III, in Enc. giur. Treccani, XX,

Roma, 1990, p. 4; per la considerazione della motivazione implicita come non motivazione v. anche Evangelista, op. cit., p. 162.In dottrina non mancano posizioni che, in conformità con la prassi giurisprudenziale, reputano pienamente ammissibile la motivazione implicita su un punto decisivo, al riguardo v. Calamandrei- Furno, voce Cassazione civile, in Noviss. dig. it., Torino, 1957, p. 1081; Cormio, Dei provvedimenti del giudice, in Commentario al codice di procedura civile, diretto da Allorio, Torino, 1973, I, sub art. 132, p. 1418.

(806) L'osservazione è di Taruffo, op. ult. cit., p. 4; in particolare, secondo l'a., proprio l'incompatibilità tra i mezzi di prova sui quali il

giudice ha fondato l'accertamento dei fatti e le prove non ammesse o valutate negativamente richiederebbe una specifica giustificazione del perché tali mezzi di prova non sono stati ritenuti rilevanti o sono stati valutati negativamente, essendo ammissibile una valutazione globale del materiale probatorio solo allorché tutte le prove siano convergenti.

(807) V. Cass., 11 giugno 1980, n. 3716, in Giur. it., 1981, I, c. 900 ss.; Cass., 24 aprile 1987, n. 4032, in Rep. Foro it., 1987, voce cit., n. 21;

Cass., 10 gennaio 1995, n. 245, in Mass. Foro it., 1995, c. 28; Cass., 11 dicembre 2000, n. 15572, in Rep. Foro it., 2000, voce cit., n. 21.

(808) Di contro, però, se si riconosce che il convincimento del giudice sui fatti possa fondarsi sulla consulenza tecnica, le critiche che le parti

rivolgono alla stessa vengono ad assumere un valore che, seppure non può essere parificato a quello di prova contraria, ad esso si avvicina molto, in quanto rappresentano l'unico strumento per formare il convincimento del giudice in una direzione diversa rispetto alla relazione tecnica, onde, a mio avviso, una motivazione specifica sulla loro confutazione appare necessaria.

(809) L'espressione " motivazione per relationem" è normalmente utilizzata per indicare le ipotesi in cui i motivi della decisione non sono

espressi dal giudice che la ha adottata, ma risultano attraverso il rinvio a quelli contenuti in altra sentenza, v. Taruffo, La motivazione , cit., p. 422; invece, per l'impiego di tale espressione nel senso indicato nel testo v. Franchi, op. cit., p. 253; così anche Comoglio, Le prove civili, cit., p. 496.

(810) Sulla motivazione della sentenza d'appello per relationem a quella di primo grado, v. le pronunce citate in Carpi- Taruffo, Commentario,

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cit., p. 133.(811) V. Cass., 2 agosto 1956, n. 3016, in Dir. e giur., 1957, p. 263 ss.; Cass., 18 gennaio 1993, n. 578, in Mass. Foro it., 1993, c. 47; Cass., 5

dicembre 1997, n. 12379, ivi, 1997, c. 1201; Cass., 8 giugno 1998, n. 5612, ivi, 1998, c. 629 ss.

(812) Per una posizione critica rispetto alla legittimità della motivazione per relationem, v. Taruffo, op. ult. cit., p. 422 ss., il quale ritiene che la

motivazione della sentenza di secondo grado debba essere il più possibile autonoma da quella della decisione impugnata, dovendo modellarsi "specificamente sul decisum in appello invece che sulle ragioni per cui vanno respinte le possibili obiezioni alla fondatezza della sentenza di primo grado", anche nell'ipotesi in cui le censure sollevate dalle parti con motivi di gravame siano ripetitive di quelle già formulate in prima istanza; contra tale ultima impostazione, v. Valente, nota a Cass., 2 agosto 1956, n. 3016, in Dir. e giur., 1957, p. 263 ss., che distingue tra la motivazione come giustificazione logica del convincimento, che deve essere presente in ogni decisione, e la sua documentazione la quale, invece, potrebbe essere contenuta in un'altra sentenza, soprattutto nell'ipotesi in cui le obiezioni sollevate in primo grado siano riprodotte in appello, perché in questo caso i motivi che ne giustificano il rigetto sono i medesimi per il primo e per il secondo giudice.Altra parte della dottrina ritiene, invece, accettabile l'orientamento del giudice di legittimità sulla motivazione per relationem; in questo senso v. Lancellotti, voce Sentenza civile, in Noviss. dig. it., Torino, 1957, p. 1119; Cormio, op. cit., sub art. 132, p. 1416; Evangelista, op. cit., p. 165.

(813) Per citare solo le più recenti v. Cass., 24 giugno 1993, n. 7000, in Mass. Foro it., c. 679 ss.; Cass., 2 febbraio 1996, n. 914, ivi, 1996, c. 88

ss.; Cass., 11 marzo 1997, n. 2176, ivi, 1997, c. 202; Cass., 25 marzo 1999, n. 2819, ivi, 1999, c. 353; per una critica a tale orientamento v. Taruffo, op. ult. cit., p. 431, che lo ritiene banale e scontato, in quanto l'esigenza di completezza della motivazione non può mai implicare l'obbligo per il giudice di giustificare il rigetto di ogni argomentazione di parte, anche se irrilevante ai fini della decisione.

(814) Sul controllo che la Cassazione compie in merito alla decisività, nei limiti di quello che risulta agli atti, v. Satta, voce Corte di cassazione

(dir. proc. civ.), in Enc. dir., Milano, 1962, X, p. 798; Calamandrei- Furno, op. cit., p. 1081, dove si rileva come il giudizio sulla decisività possa essere compiuto solo limitatamente all'aspetto della corretta giustificazione sui motivi per i quali il giudice ha adottato una certa decisione, pur in presenza di elementi che avrebbero potuto fondarne una diversa, rimanendo, invece, assolutamente insindacabile dalla Cassazione la decisione adottata, se congruamente motivata.Parte della dottrina ha rilevato come dalle sentenze del supremo Collegio emerga spesso una certa confusione tra il concetto di omesso esame su punto decisivo e quello di omessa motivazione su di esso: infatti, mentre l'erronea esclusione di un fatto decisivo da quelli posti a fondamento della decisione può essere denunciata in Cassazione solo ex art. 360, n. 3, c.p.c., sotto il profilo dell'errata qualificazione giuridica della fattispecie, il sindacato ex art. 360, n. 5 è circoscritto all'ipotesi in cui il giudice, pur avendo riconosciuto la decisività del fatto, da lui considerato ed apprezzato, tuttavia lo abbia poi ritenuto inesistente senza dare adeguata giustificazione di tale suo giudizio; per la distinzione v. E.F. Ricci, In tema di cassazione per vizio di motivazione e di vincoli a carico del giudice di rinvio, in Giur. it., 1968, I, c. 851 ss.; Taruffo, op. ult. cit., p. 546 ss.

(815) V. Cass., 1° febbraio 1995, n. 1161, in Mass. Foro it., 1995, c. 163; Cass., 25 maggio 1995, n. 5748, ivi, 1995, c. 684; Cass., 21 agosto 1996,

n. 7692, ivi, 1996, c. 697 ss.; Cass., 5 aprile 1997, n. 2965, ivi, 1997, c. 282; Cass., 5 dicembre 1997, n. 12367, ivi, 1997, c. 1199 ss.; Cass., 13 maggio 1999, n. 4754, ivi, 1999, c. 565.

(816) V. Cass., 9 maggio 1986, n. 3085, in Mass. Foro it., 1986, c. 542

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ss.; Cass., 16 agosto 1989, n. 3711, in Rep. Foro it., voce cit., n. 16; Cass., 4 febbraio 1997, n. 1028, in Mass. Foro it., 1997, c. 94 ss.; Cass., 14 maggio 1998, n. 4848, ivi, 1998, c. 518.

(817) Per l'esclusione della possibilità di denunciare per la prima volta in Cassazione vizi della consulenza d'ufficio, v. Cass., 6 ottobre 1993, n.

9919, in Inf. prev., 1993, p. 1295 ss.(818) Per una critica alla prassi che tende a "gonfiare" la motivazione di elementi sovrabbondanti o addirittura estranei, v. Taruffo, op. ult. cit.,

p. 452.(819) In questo senso Franchi, op. cit., p. 257.(820) Cfr. Cass., 23 luglio 1985, n. 4334, in Riv. giur. lav., 1985, III, p. 388 ss.; Cass., 24 gennaio 1987, n. 696, in Rep. Foro it., voce cit., n. 30;

Cass., 16 dicembre 1993, n. 12464, in Inf. prev., 1994, p. 74 ss.; Cass., 4 febbraio 1997, n. 1042, in Riv. inf. mal. prof., 1997, II, p. 35 ss.

(821) Cass., 23 luglio 1985, n. 4334, in Riv. giur. lav., 1985, III, p. 389.(822) Cass., 16 dicembre 1993, n. 12464, in Inf. prev., 1994, p. 75.(823) Per tutte v. Cass., 19 febbraio 1985, n. 1479, in Rep. Foro it., 1985, voce cit., n. 29; Cass., 12 aprile 1985, n. 2437, ivi, voce cit., n. 30;

Cass., 18 novembre 1997, n. 11440, in Rep. Foro it., 1997, voce cit., n. 20; Cass., 6 aprile 1998, n. 3551, in Mass. Foro it., 1998, c. 376 ss. In particolare, ove il consulente sia incorso in errori logici, si ritiene sufficiente l'indicazione di tali vizi, così Cass., 9 dicembre 1982, n. 6716, in Rep. Foro it., 1982, voce cit., n. 23; Cass., 5 luglio 1984, n. 3932, in Giur. it., 1985, I, c. 964 ss.; Cass., 18 novembre 1997, n. 11440, in Rep. Foro it., 1997, voce cit., n. 20. Invece, qualora il dissenso concerna accertamenti e valutazioni prettamente tecniche compiute dall'ausiliario, devono contrapporsi alla relazione nozioni di natura tecnico-scientifica idonee a confutarla, v. Cass., 18 ottobre 1982, n. 5425, in Rep. Foro it., 1982, voce cit., n. 24; Cass., 20 marzo 1985, n. 2785, in Rep. Foro it., 1985, voce cit., n. 19; Cass., 17 febbraio 1987, n. 1716, ivi, 1987, voce cit., n. 29; Cass., 18 novembre 1997, n. 11440, ivi, 1997, voce cit., n. 20.

(824) V. Evangelista, op. cit., p. 167; Andrioli, op. ult. cit., p. 798; Vellani, op. cit., p. 537; Barone, op. cit., p. 5; Comoglio, op. cit., p. 496.

Nella giurisprudenza di legittimità, si segnalano alcune isolate pronunce che, in contrasto con gli orientamenti consolidati, richiedono un'attenta valutazione di tutti gli elementi sottoposti all'esame del giudice, comprese, dunque, le deduzioni delle parti; v. Cass., 25 gennaio 1979, n. 607, in Mass. Foro it., 1997, c. 128 ss.; Cass., 28 febbraio 1992, n. 2476, in Foro it., 1992, I, c. 3314 ss.; Cass., 1° settembre 1997, n. 8286, in Mass. Foro it., 1997, c. 832.

(825) Sulla qualifica delle consulenze di parte come allegazioni difensive, rispetto alle quali non sussiste obbligo di confutazione in

motivazione , v. Cass., 11 giugno 1980, n. 3716, in Giur. it., 1981, I, c. 900 ss.; Cass., 24 aprile 1987, n. 4032, in Rep. Foro it., 1987, I, voce cit., n. 21; Cass., 13 settembre 2000, n. 12080, ivi, 2000, voce cit., n. 22; Cass., 11 dicembre 2000, n. 15572, ivi, voce cit., n. 21.In dottrina, per una critica a tale impostazione v. Franchi, op. cit., p. 256, che reputa necessaria una motivazione espressa sulle critiche mosse al perito se provenienti dai consulenti di parte, in quanto soggetti che, in linea di principio, hanno la stessa competenza tecnica di cui è in possesso il consulente d'ufficio.Il ruolo marginale riconosciuto alle consulenze di parte appare ancora più criticabile se posto in relazione con alcune pronunce della Cassazione che hanno attribuito alle perizie stragiudiziali il valore di indizi, i quali, secondo la dottrina pressoché unanime, avrebbero efficacia pari a quella delle prove dirette, potendo fondare da soli il convincimento del giudice, mentre le consulenze di parte, in quanto mere allegazioni difensive, costituirebbero soltanto argomenti di prova. Sull'equiparazione degli indizi alle prove dirette quanto ad efficacia v. G.F. Ricci, Prove e argomenti di prova, in questa rivista, 1988, II, p. 1044 e l'ampia bibliografia qui

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indicata. Sul riconoscimento di una minore efficacia probatoria agli argomenti di prova, inidonei a fondare da soli il convincimento del giudice v. G.F. Ricci, op. ult. cit., p. 1100 ss.; Verde, Profili del processo civile, Napoli, 1991, p. 131; Mandrioli, op. cit., p. 171; G.F. Ricci, Le prove atipiche, cit., p. 317.Per una critica all'uso delle consulenze private come prove in senso proprio, sul rilievo che tale prassi costituisce violazione del contraddittorio v. Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Riv. dir. proc., 1973, p. 423; ProtoPisani, op. cit., c. 73.

(826) In questo senso si è espresso Andrioli, op. ult. cit., p. 798; contra, invece, Comoglio, op. cit., p. 497, che reputa "corretto ed equilibrato"

l'orientamento che richiede una motivazione adeguata solo nell'ipotesi in cui la consulenza recepita sia stata fatta oggetto di critiche decisive.

(827) I periodi riportati tra virgolette sono tratti da Evangelista, op. cit., p. 167.(828) Andrioli, op. ult. cit., p. 796.(829) L'osservazione è di Biavati, op. cit., p. 167 ss., il quale, dopo un raffronto con la prassi italiana che fa della consulenza tecnica uno

strumento di importanza decisiva per la risoluzione delle controversie, tanto che spesso la causa è decisa non dal magistrato, ma dall'esperto, giunge alla conclusione sopra riportata per spiegare la "diffidenza" del giudice comunitario nei confronti della perizia. L'a., oltre a quella indicata nel testo, individua altre possibili cause dello scarso impiego della perizia nel processo comunitario, tra le quali, in particolare, la circostanza che su di essa il controllo della Corte si esplica in modo particolarmente incisivo. Infatti, non solo, come del resto avviene anche nel nostro ordinamento, la perizia è disposta d'ufficio, ma, non essendo prevista la nomina dei consulenti delle parti, queste non hanno interesse a richiedere l'ammissione di tale mezzo di prova, preferendo, invece, ricorrere a relazioni redatte da esperti e prodotte in giudizio sotto forma di documenti, assistendosi, così, ad uno "spostamento dalla figura del perito d'ufficio (molto rara) a quella dell'esperto di parte (decisamente più frequente)".

(830) Si tratta, ovviamente, di una opinione personale e che non pretende di avere carattere risolutivo su una problematica che, a

giudicare dalle incertezze dimostrate dalla stessa Corte di cassazione nelle sue pronunce, sembra essere di difficile soluzione.

(831) Tuttavia, va rilevato come l'istituto in questione abbia avuto scarse applicazioni nella pratica; in materia v. Marchetti, voce

Controversie individuali di lavoro, in Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 375; Jaeger, voce Consulenti tecnici (arbitrato dei), (diritto del lavoro), in Noviss. dig. it., Torino, 1959, p. 350 ss.

(832) L'espressione è utilizzata con riferimento ai metodi di risoluzione delle controversie alternativi al processo o Adr - alternative despute

resolution - sorti e diffusi negli Stati Uniti. In merito alla tematica delle Adr esiste un'ampia bibliografia; fra tutti v. Chiarloni, Nuovi modelli processuali, in Riv. dir. civ., 1993, I, p. 269 ss.; Resnik, Risoluzione alternativa delle controversie e processo: uno sguardo alla situazione nordamericana, in questa rivista, 1997, III, p. 699 ss.; Silvestri, Osservazioni in tema di strumenti alternativi per la risoluzione delle controversie, in questa rivista, 1999, I, p. 321 ss.; Taruffo, Adeguamenti delle tecniche di composizione dei conflitti di interesse, in questa rivista, 1999, II, p. 779 ss. In particolare, si definiscono court-annexed programs di Adr quelle procedure alternative che si caratterizzano per essere gestite, amministrate e finanziate dalle corti, in contrapposizione con gli indipendent programs di Adr, forniti da istituzioni private; per la distrazione v. Chiarloni, op. cit., p. 280.In realtà, con specifico riferimento all'arbitrato, il modello della court-annexed arbitration si distingue da quello prospettato nel testo in quanto l'iniziativa è rimessa al giudice dinnanzi al quale si svolge il processo, che

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può deferire la causa ad un arbitro da lui nominato; v. Resnik, op. cit., p. 700; Silvestri, op. cit., p. 332.

(833) Sull'inammissibilità nel nostro ordinamento di forme obbligatorie di arbitrato si è più volte espressa la Corte costituzionale; per tutte v.

Corte cost., 14 luglio 1977, n. 127, in Giur. cost., 1977, I, p. 1103 ss.; Corte cost., 27 dicembre 1991, n. 488, in Riv. arb., 1992, p. 247; Corte cost., 23 febbraio 1994, n. 49, ivi, 1994, p. 447 ss.; Corte cost., 9 maggio 1996, n. 152, in Giur. cost., 1996, p. 1452 ss.In queste sentenze la Corte ha affermato che fonte dell'arbitrato può essere soltanto la volontà delle parti, in quanto dal combinato disposto dell'art. 102 cost. - che riserva la funzione giurisdizionale ai giudici ordinari - e dell'art. 24 cost. - che sancisce il diritto di azione - discende che solo attraverso la scelta delle parti, intesa come uno dei modi di disposizione del diritto di agire in giudizio, si può rinunciare al ricorso all'autorità giudiziaria.

(834) Con riferimento all'arbitrato dei consulenti tecnici in materia di controversie di lavoro, l'abrogato art. 455 c.p.c. prevedeva solo l'istanza

proposta nel corso di un processo già pendente. Sull'inammissibilità di proporre l'istanza in via autonoma v. Marchetti, op. cit., p. 375; Satta, Diritto processuale civile, Padova, 1953, p. 269; contraJaeger, op. cit., p. 351.

(835) Sulla qualifica come compromesso dell'accordo con cui le parti rimettevano la decisione al consulente d'ufficio o ad un collegio formato

da questi e dai consulenti di parte, nonché sull'estensione del controllo esercitato dal giudice in sede di omologa alla valutazione della convenienza e opportunità della procedura arbitrale v. Marchetti, op. cit., p. 376; Jaeger, op. cit., p. 350.

(836) Si tratta del disegno di legge n. 7185, presentato da un gruppo di ministri il 7 luglio del 2000; il testo è consultabile su Internet al sito:

www.camera.it/-dati/leg13/lavori/stampati/sk7500/articola/7195.htm. Il progetto di legge è qui ricordato in quanto orientato ad accentuare le funzioni del consulente, seppure in una diversa prospettiva di deflazione del ricorso all'autorità giudiziaria; tuttavia, si tratta di un richiamo operato a titolo meramente accademico, dal momento che il disegno di legge non è stato approvato dal Parlamento né sono state presentate nel corso dell'attuale legislatura proposte di riforma dirette in tal senso.