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Testis Temporum

Collana di Fonti e Studi sul Medioevo dell’Italia Centrale e Meridionale

diretta da Fulvio Delle Donne 3

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Volume pubblicato col patrocinio di:

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Suavis terra, inexpugnabile castrum

L’Alta Terra di Lavoro dal dominio svevo alla conquista angioina

prefazione di Raffaele Licinio

a cura di Fulvio Delle Donne

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Fulvio Delle Donne

La cultura e gli insegnamenti retorici latini nell’Alta Terra di Lavoro

Se capita di riflettere sulla cultura letteraria del Regno in epoca sveva e primo-angioina, il pensiero tende a catalizzarsi verso l’istituzione che avrebbe dovuto costituire il suo centro promo-tore, ovvero l’Università, o meglio lo Studium di Napoli, fondato nel 1224 da Federico II1. Poi si può pensare alla cosiddetta “scuola poetica siciliana”; al limite, a Guido delle Colonne, au-tore di un’Historia destructionis Troiae2, o a Pietro da Eboli3, o

1 Sulla storia dello Studium di Napoli in epoca sveva e angioina cfr. almeno F. TORRACA, Le origini - L’età sveva, in Storia dell’Università di Napoli, Na-poli 1924, pp. 1-16; G.M. MONTI, L’età angoina, ivi, pp. 17-150; ID., Per la storia dell’università di Napoli. Ricerche e documenti, Napoli - Genova - Fi-renze - Città di Castello 1924; G. ARNALDI, Fondazione e rifondazioni dello studio di Napoli in età sveva, in La fondazione fridericiana dell’Università di Napoli, Napoli 1988, p. 38 (il saggio è stato pubblicato per la prima volta in U-niversità e società nei secoli XII-XVI, Pistoia 1982, pp. 81-105, e poi in Il Prag-matismo degli intellettuali. Origini e primi sviluppi dell’istituzione universitaria,a c. di R. Greci, Torino 1996, pp. 109-23); ID., Studio di Napoli, in Federico II. Enciclopedia fridericiana, II, Roma 2005, pp. 803-808; L. CAPO, Federico II e lo Studium di Napoli, in Studi sul Medioevo per Girolamo Arnaldi, a c. di G. Barone - L. Capo - S. Gasparri, Roma 2001, pp. 25-54; F. VIOLANTE, Fe-derico II e la fondazione dello ‘Studium’ napoletano, «Quaderni Medievali», 54 (dic. 2002), pp. 29-33. Inoltre, F. DELLE DONNE, Un’inedita epistola sulla morte di Guglielmo de Luna, maestro presso lo Studium di Napoli e le tradu-zioni prodotte alla corte di Manfredi di Svevia, «Recherches de théologie et philosophie médiévales», in corso di stampa; ID., Un’inedita lettera relativa allo Studium di Napoli in epoca sveva, in corso di stampa in un volume mi-scellaneo pubblicato dall’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo.

2 L’unica edizione del testo latino è quella curata da N.E. Griffin, Cambri-dge Mass. 1936. Esistono, però, numerosi volgarizzamenti, di cui qui se ne segnala solo uno in italiano Libro de la destructione de Troya, ed. N. de Blasi, Roma 1986.

3 Dell’opera di Pietro da Eboli ci si è occupati più specificamente nel primo volume di questa collana, “Ianua Regni”: il ruolo di Arce e del castello di Rocca d’Arce nella conquista di Enrico VI di Svevia, Convegno di studi,

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ancora a qualche altro storico e cronista4. Se, però, vogliamo prendere in esame la cultura letteraria che, in quel periodo, si sviluppò nell’ambito geografico più specifico della Terra di La-voro, incorriamo in maggiori difficoltà nel reperire opere o auto-ri, perché si tende, quasi meccanicamente ed esclusivamente, a identificare la letteratura con la poesia o con la prosa narrativa. Questo perché si tende a separare i più significativi esiti della produzione artistica da ciò che ne costituisce il sostrato formati-vo, che, in genere, viene preso in considerazione solo per com-prendere il percorso evolutivo dell’autore. Quindi, si compie quasi uno sforzo a pensare che anche la trattatistica retorica e la connessa manualistica esemplificativa – finalizzate proprio alla formazione e all’istruzione di livello più o meno alto – possano essere espressione di cultura letteraria, o, addirittura, possano essere “letteratura” a tutti gli effetti. E se questo sforzo può esse-re relativamente meno faticoso per chi si occupa di letteratura classica, perché, magari, può trovare un significativo punto d’appoggio negli esempi offerti da Cicerone, risulta sicuramente più arduo per chi si occupa di letteratura basso-medievale, so-prattutto perché la trattatistica retorica diventa piuttosto tecnica e legata in particolar modo alla struttura compositiva e alle rego-le formali da osservare nella scrittura, soprattutto quella delle epistole5. Eppure, proprio le epistole costituirono uno degli am-biti di produzione maggiormente praticati dai letterati di area ita-liana del XIII secolo. Del resto, la produzione epistolografica, già da qualche tempo, era tornata a tale livello di raffinatezza sti-listica e godeva di tanta considerazione, da fare in modo che si ritagliasse, all’interno della più generale normativa retorica, uno specifico ambito di regolamentazione e di applicazione. Nacque, così, l’ars dictaminis o anche ars dictandi, la quale finì per rap-presentare il quasi esclusivo ambito di riflessione retorica, tanto

Rocca d’Arce 3 luglio 2005, a c. di F. Delle Donne, Arce 2006, a cui si ri-manda per indicazioni su edizioni e studi.

4 Si veda il saggio di Marino Zabbia in questo stesso volume. 5 Sulle implicazioni di tale questione, piuttosto complessa, si può rimanda-

re, almeno, a A. BATTISTINI, E. RAIMONDI, Retoriche e poetiche dominanti, in Letteratura italiana. Le forme del testo, I, Teoria e poesia, Torino 1984, pp. 5-30.

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che, appunto, dictamen divenne quasi sinonimo di elaborato componimento retorico6.

Tale produzione epistolografica può risultare, forse, poco in-teressante per chi cerca nella letteratura l’espressione più alta dell’ingegno e della fantasia creatrice dell’artista, ma offre senz’altro un’angolatura prospettica assai significativa per chi vuole comprendere la cultura che, nel corso del XIII secolo, si andò diffondendo in Italia e soprattutto nella zona della Terra di Lavoro. Da quest’ambito geografico, infatti, provenivano, in grandissimo numero, i notai della cancelleria papale e di quella imperiale, ovvero i prosatori più preparati dell’epoca, che in-fluenzarono con il loro stile e con il loro gusto retorico tutta la produzione letteraria di quell’età; anche quella degli indiscussi padri della letteratura che, come Dante, si confrontarono, e non solo nel periodo della formazione, con i trattati di ars dictaminis e con i preziosi dictamina contenuti nelle numerose e diffuse raccolte epistolari7.

6 Sull’ars dictaminis cfr. soprattutto J.J. MURPHY, La retorica nel Medioevo,Napoli 1983 (ed. or. Berkeley 1974), pp. 223-304; M. CAMARGO, Ars dicta-minis, ars dictandi, (Typologie des sources du Moyen Âge occindental 60), Turnhout 1991, p. 17. Cfr. anche H.M. SCHALLER, Ars dictaminis, Ars dic-tandi, in Lexikon des Mittelalters, I, München-Zurich 1980, coll. 1034-1035. Per la bibliografia sull’argomento cfr. J.J. MURPHY, Medieval Rhetoric: a se-lected bibliography, Toronto 1971. Cfr. anche F.J. WORSTBROCK, Die Anfän-ge der mittelalterlichen Ars dictandi, «Frühmittelalterliche Studien», 23 (1989), pp. 1-42. Per una rassegna di studi cfr. anche V. SIVO, Studi recenti sull’ars dictaminis mediolatina, «Quaderni Medievali», 28 (1989), pp. 220-233. Un repertorio dei testi è in F.J. WORSTBROCK - M. KLAES - J. LUTTEN,Repertorium der Artes dictandi des Mittelalters. I. Von den Anfängen bis um 1200, München 1992. Un repertorio dei manoscritti è in E.J. POLAK, Medie-val and Renaissance Letter treatises and Form Letters. A Census of Manu-scripts Found in Eastern Europe and the Former U.S.S.R., Leiden - New York - Köln 1993; ID., Medieval and Renaissance Letter treatises and Form Letters. A Census of Manuscripts Found in Part of Western Europe, Japan, and the United States of America, Leiden - New York - Köln 1994.

7 Cfr. G. NENCIONI, Tra grammatica e retorica, Torino 1983, pp. 108-131; M. PAZZAGLIA, Ars dictaminis, in Enciclopedia Dantesca, I, Roma 1970, ad vocem; F. BAETHGEN, Dante und Petrus de Vinea, «Sitzungsberichte der Ba-yer. Akad. der Wiss. Phil. - hist. Kl.», 1955, 3, pp. 36-37; E. PARODI, Lingua e letteratura, a c. di G. Folena, II, Venezia 1957, p. 350; E. PARATORE, Pier del-

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Insomma, particolarmente interessante e significativa risulta essere la produzione retorico-epistolare dei letterati della Terra di Lavoro. Tanto che lo stile usato dai dictatores, ovvero dai ma-estri esperti di dictamen che si formarono in quella regione, fu talmente peculiare da essere riconosciuto come il frutto di una specifica “scuola” retorica, chiamata “capuana”. Una “scuola” – o, forse, si farebbe meglio a definirla “tradizione retorica” – che presenta contorni non ancora ben definiti, sia dal punto di vista dell’individuazione dei suoi rappresentanti, sia dal punto di vista dei suoi caratteri distintivi. Tuttavia, a parlarne per la prima vol-ta in maniera più o mena esplicita fu, a partire dal 1910, Karl Hampe, che in un manoscritto della Bibliothèque Nationale di Parigi, il Lat. 11867, riconobbe una raccolta “capuana” di epi-stole composte tra il 1198 e il 12168. Da quel momento, si è co-minciato a parlare di “scuola capuana” in maniera sempre più diffusa, anche se non altrettanto precisa: e a farlo sono stati so-prattutto, nel 1912, Hans Niese9, poi ancora, nel 1928, Charles

la Vigna nel canto XIII dell’“Inferno”, in Atti del convegno di studi su Dante e la Magna Curia, Palermo 1967, pp. 250-263; l’Introduzione a NICOLA DA ROCCA, Epistolae, ed. F. Delle Donne, (Edizione Nazionale dei Testi Medio-latini 9, Serie 1, 5), Firenze 2003, p. XI.

8 Cfr. K. HAMPE, Über eine Ausgabe der Capuaner Briefsammlung des Cod. lat. 11867 der Pariser Nationalbibliothek, «Sitzungsberichte der Hei-delberger Akademie der Wissenschaften. Phil. - hist. Kl.», 1910, 8; ID., Mit-teilungen aus der Capuaner Briefsammlung I, II, «Sitzungsberichte der Hei-delberger Akademie der Wissenschaften. Phil. - hist. Kl.», 1910, 13; ID., Mit-teilungen aus der Capuaner Briefsammlung III, «Sitzungsberichte der Hei-delberger Akademie der Wissenschaften. Phil. - hist. Kl.», 1911, 13; ID. - F.BAETHGEN, Mitteilungen aus der Capuaner Briefsammlung IV, «Sitzungsbe-richte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Phil. - hist. Kl.», 1912, 14. Poi, sempre Hampe riconobbe anche alcune propaggini di quella scuola: cfr. ID., Beiträge zur Geschichte der letzten Staufer. Ungedruckte Briefe aus der Sammlung des Magisters Heinrich von Isernia, Leipzig 1910, pp. 34 s., 55.

9 Cfr. H. NIESE, Zur Geschichte des geistigen Lebens am Hofe Kaiser Frie-drichs II., «Historische Zeitschrift», 108 (1912), pp. 523-533, che, tuttavia, non attribuisce sempre esplicitamente l’appellativo di “capuana” alla scuola retorica di cui parla.

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Homer Haskins10, e, nel 1927, Ernst Kantorowicz11. Soltanto nel 1953, però, Karl Pivec12 – poi seguito e corretto con maggiori precisazioni, nel 1957-1958 da Hans-Martin Schaller13 – si sfor-zò di dare una caratterizzazione più analitica dello stile adottato da questa “scuola capuana”, riconoscendone gli elementi mag-giormente distintivi nell’accumulo degli aggettivi esornativi, nella predilezione per le assonanze e i giochi di parole, ma so-prattutto nell’uso delle clausole metriche, il cursus, tanto fre-quente che le loro composizioni, per questo aspetto, possono ga-reggiare con le orazioni di epoca classica.

Tale stile retorico è stato definito “capuano”, perché general-mente si è ritenuto che esso facesse capo principalmente, ma non esclusivamente, a Capua, che fu una delle più importanti città della Terra di Lavoro, e costituì il punto di irradiazione più rilevante di una fiorente tradizione culturale e retorica14, in pie-no sviluppo fin oltre l’epoca di Federico II15. La consapevolez-za, tra i contemporanei, che ci fossero elementi che legavano tra loro determinati dictatores sembrerebbe, del resto, postulata da molte lettere in cui il relatore si dichiara allievo di qualche emi-nente retore, e in particolare di Pier della Vigna, il celebre pro-tonotario e logoteta imperiale, che fu appunto di Capua. Ad e-

10 Cfr. C.H. HASKINS, Latin Literature under Fredrick II, «Speculum», 3 (1928), pp. 138 ss. (il saggio fu ripubblicato in ID., Studies in Medieval Cul-ture, Oxford 1929, pp. 124-147).

11 E. KANTOROWICZ, Federico II imperatore, Milano 1976, pp. 274 s., 360 (ed. or. Berlin 1927-1930).

12 K. PIVEC, Der Diktator Nicolaus von Rocca. Zur Geschichte der Sprach-schule von Capua, in Ammann-Festgabe, I, Innsbruck 1953, p. 146. Pivec fornisce anche altri spunti sulle tecniche particolari e sulle tematiche più ado-perate dalla scuola di Capua.

13 H.M. SCHALLER, Die Kanzlei Kaiser Friedrichs II. Ihr Personal und ihr Sprachstil, «Archiv für Diplomatik», 4 (1958), pp. 282-289; la prima parte di questo saggio è in «Archiv für Diplomatik», 3 (1957), pp. 207-286.

14 F. GRANATA, Storia civile della fedelissima città di Capua, I, Napoli 1752, p. 118, ci dice che nell’antica Capua esisteva un «famoso Ginnasio, o sia Colosso, ove varie scienzie, molte arti liberali a’ giovani del pubblico in-segnar si faceano con molte comodità, ed esattezza».

15 H.M. SCHALLER, Die Kanzlei, cit., 4 (1958), p. 288, dice che la storia del-la scuola di Capua finisce con la vittoria degli Angioini.

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sempio in una lettera scritta da un maestro Giovanni, sempre di Capua, a due segretari imperiali per la morte di un loro collega si dice così:

«Scio magistrum nostrum et unicum benefactorem magistrum P. de Vinea de tanti amici casu fuisse concussum, quum ingentes affectus animo non sine causa conceperit quod vinea sua tres palmites ex una vite fertili protulisset et dignos in Cesaris praesentia stiparet e cario-rum suorum gremio tres adultos, honestatis et vitae suae tres aemulos et sequaces, eosque ex tanto praeceptore unam eamdemque pariter ha-buisse doctrinam, unum affectum in tribus coaluisse personis et nescii quaererent et conscii mirarentur»16.

«So che il nostro maestro e unico benefattore, il maestro Pier della Vigna, è stato colpito dalla sorte di un così grande amico, dal momen-to che aveva concepito nel suo animo grandi affetti, non senza motivo, per il fatto che la sua vigna aveva prodotto da una sola fertile vite tre tralci e che collocava alla presenza del Cesare tre degni adulti generati dal grembo dei suoi più cari, tre imitatori e seguaci della sua onestà e della sua vita, e che gli ignari domandavano e gli informati considera-vano con ammirazione il fatto che essi avessero conseguito da un così prestigioso maestro, allo stesso modo, una sola identica dottrina, che un unico affetto avesse attecchito in tre persone».

Un altro maestro, poi, Nicola da Bari, rivolgendosi a Pier del-la Vigna, celebra la «felix prorsus Capua, que vos genuit, scola felicior, que nutrivit»17; cioè la «senz’altro felice Capua, che vi ha generato, e più felice scuola che vi ha allevato». Ed Enrico di Isernia, un dictator che fu attivo anche presso la corte di Ottoca-ro II di Boemia, parla esplicitamente della «tuba Capuana»18.

16 J.L.A. HUILLARD-BREHOLLES, Vie et correspondance de Pierre de la Vi-gne, Paris 1865, nr. 34, p. 335 (rist. anast., Aalen 1966).

17 Cfr. R. M. KLOOS, Nikolaus von Bari, eine neue Quelle zur Entwicklung der Kaiseridee unter Friedrich II., in Stupor Mundi, a c. di G. Wolf, Darm-stadt 1982², p. 149. Questo saggio era apparso in precedenza in «Deutsches Archiv», 11 (1954/55), pp. 166-90, e nella prima ed. del vol. Stupor Mundi,Darmstadt 1966, pp. 365-95.

18 Cfr. K. HAMPE, Beiträge zur Geschichte der letzten Staufer, cit., p. 34.

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Anche Nicola da Rocca senior, un altro maestro di cui tornere-mo a parlare, celebra il magistero del capuano Pier della Vigna, nell’elogio scritto in suo onore:

«Hec fuit itaque vinea, quam philosophie manus multo sudore planta-vit et coluit…: in qua tabernaculum eruditionis erexit, ut ex eo mentes indocte doctrine reciperent spiritum»19.

«Questa fu dunque la vigna che la mano della filosofia ha piantato e coltivato con molto sudore...: in cui eresse il tabernacolo dell’erudi-zione, così che da lui le menti incolte ricevessero lo spirito della dot-trina».

Anche lo stesso Pier della Vigna si definisce talvolta educa-tore dei giovani: «Quis sic sectam diligit novae prolis? Quis sic educat providos?»20, cioè: «Chi ama tanto il gruppo della nuova prole? Chi li educa così accorti?».

Tuttavia, non sono attestate, né a Capua, né altrove, sedi isti-tuzionalmente e stabilmente costituite per l’apprendimento delle tecniche utili a donare pregio e ricercatezza al dictamen prosa-stico. Tanto più, che, contestualmente con l’istituzione dello Stu-dium di Napoli, vennero vietate tutte le scuole locali: già nelle generales litterae di fondazione del 5 giugno o 5 luglio 1224, in-fatti, Federico II ordinava a tutti i suoi ufficiali di fare in modo

«ut nullus scolaris legendi caussa exire audeat extra Regnum, nec in-fra Regnum aliquis audeat addiscere alibi vel docere, et qui de Regno sunt extra Regnum in scolis, sub pena predicta eorum parentibus, i-niungatis ut usque ad festum S. Michelis nunc proximum revertan-tur»21;

19 Cfr. NICOLA DA ROCCA, Epistolae, ed. cit., nr. 15, p. 33. 20 J.L.A. HUILLARD-BREHOLLES, Vie et correspondance, cit, p. 313. 21 La lettera è riportata al cap. XI del libro III dell’epistolario di Pier della Vi-

gna, consultabile nell’edizione di J.R. Iselius (Iselin), Petri de Vineis iudicis au-lici et cancellarii Friderici II imperatoris epistularum libri VI, Basilea 1740 (rist. an., Hildesheim 1991); è pubblicata anche in A. HUILLARD-BRÉHOLLES,Historia Diplomatica Friderici II, II, Paris 1852, p. 450; e in RYCCARDUS DESANCTO GERMANO, Chronica, ed. C.A. Garufi, (RIS² VII, 2), Bologna 1936-

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«che nessun uomo di scuola osi uscire dal Regno per istruirsi, e nes-suno, all’interno del Regno, osi apprendere o insegnare in altro luogo, e che ingiungiate ai sudditi del Regno che si trovano nelle scuole fuori del Regno, sotto la minaccia della pena stabilita per i loro parenti, che ritornino entro il giorno di San Michele prossimo venturo (cioè entro il 29 settembre)».

E tale divieto venne ribadito anche in seguito, almeno da Manfredi, come si legge nell’inciso «particularibus scolis ubique per regnum generaliter interdictis» («essendo state vietate gene-ralmente le scuole particolari in ogni parte del regno») contenuto nel documento per la riapertura dello Studium, avvenuta forse nel 125822. Dunque, anche se tali espliciti divieti ci rendono consapevoli del fatto che scuole locali comunque esistevano, non sappiamo, tuttavia, di che tipo esse fossero. Comunque, a quei divieti Manfredi concesse alcune deroghe, come si evince da un documento, probabilmente sempre del 1258, in cui, pur ri-badendo l’interdizione di scuole locali, si fa un’eccezione per i fanciulli «qui iacentes in cunabulis artis grammatice suis uberi-bus lactabuntur»23; «che giacendo nelle culle dell’arte gramma-ticale saranno allattati alle sue mammelle». Dunque, erano con-sentite deroghe solo per le scuole di livello inferiore. E questo assunto è esplicitamente confermato anche da un mandato di Manfredi, probabilmente sempre dello stesso anno, in cui si di-ce:

1938, pp. 113-116, la cui edizione è generalmente preferita. Tuttavia, qui si è fornito un testo ricavato da una escussione diretta dei manoscritti. Cfr. J.F.BÖHMER - J. FICKER - E. WINKELMANN, Regesta imperii, V, Innsbruck 1881-1901, e le aggiunte di P. ZINSMAIER, Köln - Wien 1983, nr. 1537.

22 Questo documento è pubblicato, al nr. 173, in Una silloge epistolare della seconda metà del XIII sec. proveniente dall’Italia Meridionale. I dictamina del ms. Paris, Bibl. Nat. Lat. 8567, ed. F. Delle Donne, in corso di stampa nell’Edizione Nazionale dei Testi Mediolatini, per la SISMEL di Firenze.

23 E. WINKELMANN, Acta imperii inedita, I, Innsbruck 1880, nr. 496, p. 414. Cfr. J.F. BÖHMER - J. FICKER - E. WINKELMANN, Regesta imperii, V, cit., nr. 4678.

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«nostre tamen intentionis non fuit sic loca quelibet depauperare docto-ribus, ut artis saltem grammatice rudimenta noviciis velut lactantis matris ubera famelicis infantibus precidantur, sed ad illos tantum ex-tendi volumus nostre Serenitatis edictum, qui, adiutoribus suis ruditate deposita, in facultatibus aliis ingenia potiora petentibus cibos iam pos-sint scientie solidos ministrare»24;

«non fu, tuttavia, nostra intenzione privare di insegnanti tutti i luoghi, così che gli inesperti venissero lasciati senza neppure i rudimenti della grammatica, come se agli infanti famelici venissero sottratte le mam-melle della madre che li allatta, ma vogliamo che l’editto della nostra Serenità si estenda soltanto a coloro che, superata la rudezza iniziale per merito dei loro aiutanti, possono già somministrare i solidi cibi della scienza a coloro che cercano di rafforzare l’ingegno nelle altre facoltà».

Il fatto che questo mandato fosse indirizzato al giustiziere di Terra di Lavoro ci fa comprendere che le scuole locali di livello inferiore e di tipo grammaticale fossero diffuse soprattutto in quella regione.

Ma esistevano solo le scuole di livello inferiore? Forse uffi-cialmente ed istituzionalmente sì, tuttavia, se consideriamo l’al-tissimo numero di eccelsi e rinomati dictatores provenienti dalla Terra di Lavoro, siamo spinti ad altre considerazioni. È ipotizza-bile, piuttosto, che l’insegnamento retorico di livello più alto ve-nisse tramandato in altro modo; magari, innanzitutto, attraverso il comune senso di appartenenza a quella particolare tradizione stilistica, che per comodità possiamo continuare a definire “ca-puana”. Infatti, molti dictatores impiegati nelle più importanti cancellerie dell’epoca provenivano da Capua, o più generalmen-te dalla Terra di Lavoro. E ciò fu, forse, determinato, oltre che dalla loro alta preparazione stilistico-retorica, anche dal fatto che

24 L’epistola è contenuta nel cap. XIII del libro III dell’epistolario di Pier della Vigna; ed è leggibile anche in A. HUILLARD-BRÉHOLLES, Historia Di-plomatica Friderici II, II, cit. p. 453. Tuttavia, qui si è fornito un testo ricavato dalla lettura diretta dei manoscritti. Cfr. J.F. BÖHMER - J. FICKER - E.WINKELMANN, Regesta imperii, V, cit., e le aggiunte di P. ZINSMAIER, cit., nr. 4680.

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alcuni dictatores della Terra di Lavoro riuscirono ad ottenere co-sì grande influenza all’interno della cancelleria papale o impe-riale, che, probabilmente, raccomandarono e favorirono i propri concittadini, così come si può ricavare dal gran numero di lettere di tipo commendatizio che si possono leggere nei loro epistolari.

In ogni caso, la tradizione stilistica trasmessa attraverso per-sone legate a Capua, o più in generale alla Terra di Lavoro, sem-bra trovare un inizio verso il principio del sec. XIII25. Come suo più antico rappresentante, infatti, può essere riconosciuto Rinal-do da Capua, che prima di entrare nella cancelleria imperiale a-veva lavorato nella cancelleria papale: infatti, è riscontrabile una certa somiglianza tra lo stile delle sue lettere e quello della coe-va cancelleria papale, consistente nell’ariosità artistica della sin-tassi e nell’ampio impiego della Vulgata26. Poi, con il cardinale Tommaso di Capua, uno dei più insigni dictatores della cancel-leria papale, la tradizione capuana riceve nuovo slancio, anche grazie agli influssi provenienti dai più importanti centri di elabo-razione retorica dell’Italia Settentrionale e d’Oltralpe27: egli, del resto, nonostante che nel suo importante trattato sul dictamen af-fermi di imitare lo stile della curia romana28, cita espressamente come modello Ugo Primate, e nelle lettere è riscontrabile l’in-flusso di Alano di Lilla29; e sono rilevabili non poche risponden-ze tra l’esposizione delle sue teorie e quelle di Guido Faba e Boncompagno da Signa30, o, ancora, di maestro Bene fiorenti-

25 Cfr. E. KANTOROWICZ, Federico II, cit., p. 274. 26 H.M. SCHALLER, Die Kanzlei, cit., 4 (1958), p. 285. 27 Cfr. soprattutto H.M. SCHALLER, Die Kanzlei, cit., 4 (1958), p. 284. 28 E. HELLER, Die Ars dictandi des Thomas von Capua, «Sitzungsberichte

der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Phil. - hist. Klasse», 1928-29, p. 11: «Ea propter Romanae curiae vestigiis inherentes, eius stili non in-digne magisterium imitamur…»; ovvero «Perciò, seguendo le orme della cu-ria romana, non indegnamente imitiamo il magistero del suo stile». Sul per-sonaggio e sulla sua produzione epistolare, comunque, cfr. soprattutto H.M.SCHALLER, Studien zur Briefsammlung des Kardinals Thomas von Capua,«Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters», 21 (1965), pp. 371-518.

29 Ibidem. Su questi influssi si veda anche H. NIESE, Zur Geschichte des geistigen Lebens, cit., p. 518.

30 Cfr. le notazioni di E. HELLER, Die Ars dictandi, cit., passim.

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no31. Ancora nuove spinte, la tradizione “capuana” le ricevette grazie all’attività di Pier della Vigna, il più insigne e più noto tra i dictatores della cancelleria federiciana: con lui il linguaggio e la gestione sintattica arrivarono all’ampollosità e al sovraccarico espressivo tipici del più alto stilus supremus, pur se – secondo Schaller – l’organizzazione del periodo risulta priva del ritmo sintetico e della chiarezza che contraddistingueva il dettato di Tommaso di Capua32. L’influenza di Tommaso di Capua e di Pier della Vigna sicuramente si irradiò, poi, o direttamente o at-traverso la diffusione dei loro dictamina, su altri dictatores col-legati con la tradizione retorica della Terra di Lavoro, come Tommaso da Gaeta33, Pietro da Prezza34, Giacomo di Capua35,Taddeo da Sessa36, Terrisio di Atina37 (sul quale avremo ancora

31 Si veda le note a BENE FLORENTINUS, Candelabrum, ed. G.C. Alessio, Padova 1983, passim.

32 H.M. SCHALLER, Die Kanzlei, cit., 4 (1958), p. 286. H. NIESE, Zur Ge-schichte des geistigen Lebens, cit., p. 529, afferma che lo stile di Pier della Vigna subisce alla base influssi francesi attraverso la mediazione dell’Italia settentrionale.

33 Sul personaggio cfr. soprattutto P. KEHR, Das Briefbuch des Thomas von Gaeta, «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliothe-ken», 8 (1905), pp. 1-76; H.M. SCHALLER, Die Kanzlei, cit., 3 (1957), pp. 283-284.

34 Cfr. soprattutto E. MÜLLER, Peter von Prezza, ein Publizist der Zeit des Interregnums, Heidelberg 1913; R.M. KLOOS, Petrus de Prece und Konradin,«Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 34 (1954), pp. 88-108.

35 Cfr. soprattutto F. DELLE DONNE, Giacomo, vescovo di Patti ed arcivescovo di Capua, in Dizionario Biografico degli Italiani, LIV, Roma 2000, pp. 195-199.

36 Per l’attività e la bibliografia su questo importante personaggio si può consultare, ora, W. STÜRNER, Friedrich II. Der Kaiser 1220-1250, Darmstadt 2000, ad indicem.

37 Sul personaggio cfr. soprattutto F. TORRACA, Maestro Terrisio di Atina,«Archivio storico per le province napoletane», 36 (1911), pp. 231-253; H.M.SCHALLER, Zum Preisgedicht des Terrisius von Atina auf Kaiser Friedrich II.,in Stauferzeit, cit., pp. 85-101 (il saggio è apparso per la prima volta in Ge-schichtsschreibung und geistiges Leben im Mittelalter, a c. di K. Hauck - H. Mordek, Köln-Wien 1978, pp. 503-518); F. DELLE DONNE, Il potere e la sua legittimazione. Letteratura encomiastica in onore di Federico II di Svevia,Arce 2005, pp. 131-156.

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modo di tornare), Berardo da Napoli38, Goffredo da Cosenza39 e i già menzionati Enrico d’Isernia e Nicola da Rocca40.

Insomma, la circostanza che molti retori provenienti dalla Terra di Lavoro, o legati a dictatores che lì si erano formati, fos-sero attivi presso le più importanti cancellerie del tempo, soprat-tutto quella imperiale e quella papale, può spiegare la percezio-ne, comunemente sentita, che essi appartenessero a un “gruppo”, anche, eventualmente, in mancanza di luoghi istituzionalmente e stabilmente designati all’istruzione. A sopperire a tale mancanza, del resto, potevano intervenire altri modi di propagazione e tra-smissione di norme ed abitudini retorico-epistolari. Probabil-mente, il più semplice ed efficace consisteva nella condivisione degli strumenti di lavoro, ovvero le epistole stesse, soprattutto quelle dei più insigni maestri locali, che, attraverso i loro moduli esemplificativi, potevano servire come modello e, allo stesso tempo, come strumento didattico: non sono rare, infatti, le lette-re in cui si parla di manoscritti dati o chiesti in prestito41. Ma la trasmissione degli insegnamenti tipici della tradizione retorica della Terra di Lavoro potette avvenire anche tramite contatti epi-stolari diretti tra dictatores, grazie ai quali l’apprendista finiva con l’appropriarsi delle tecniche specifiche del proprio maestro-modello. In questo caso, anche se dovette esistere una generale tradizione “capuana”, dovettero soprattutto svilupparsi circoli di influenza letteraria e stilistica intorno ai più eminenti dictato-

38 Su questo personaggio cfr. soprattutto E. FLEUCHAUS, Die Briefsamm-lung des Berard von Neapel. Überlieferung - Regesten, (MGH Hilfsmittel 17), München 1998.

39 Su questo personaggio cfr. F. DELLE DONNE, Goffredo da Cosenza, in Di-zionario Biografico degli Italiani, LVII, Roma 2001, pp. 539-541.

40 Cfr. H. NIESE, Zur Geschichte des geistigen Lebens, cit., pp. 524 ss. e 530 ss.; E. KANTOROWICZ, Federico II, cit., pp. 274 ss. e 360 ss.; sui retori più tardi si veda K. HAMPE, Beiträge zur Geschichte der letzten Staufen, cit.

41 Cfr., ad es., NICOLA DA ROCCA, Epistolae, ed. cit., nrr. 135-137, pp. 155-56. Cfr. anche F. DELLE DONNE, “Cipriani martiris epistolare opus offero ad scribendum”. Un’attestazione della trasmissione e della ricezione dell’opera di Cipriano alla fine del XIII secolo, «Italia Medievale e Umanistica», 45 (2004), pp. 115-136.

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res42. Magari intorno a Pier della Vigna, come abbiamo già vi-sto, ma anche intorno ad altri maestri di retorica. Pertanto, il commercio epistolare tra i dictatores può essere inteso come un mezzo da loro usato per perseguire non solo un intento formale, di ricerca della pura bellezza espressiva, ma anche un intento pedagogico, di insegnamento delle raffinatezze stilistiche.

Tuttavia, sappiamo con certezza di maestri della Terra di La-voro che tennero veri e propri corsi di dictamen. Innanzitutto corsi istituzionali, presso lo Studium di Napoli, come maestro Terrisio di Atina, che fu anche notaio imperiale, del quale ci so-no pervenute tre lettere umoristiche relative all’attività didatti-ca43. In una di esse, due meretrici, «carnalium voluptatum ca-thedrales magistre», ovvero «maestre cattedratiche di piaceri carnali», si rivolgono ai maestri dello Studium di Napoli, affer-mando che se questi ultimi badano alla formazione degli studen-ti di giorno, esse vi badano di notte, pur essendo pronte ad e-stendere l’orario di “servizio”; quindi chiedono che sia equa-mente ripartita la giurisdizione sugli scolari, per evitare che venga danneggiata la loro attività, dato che gli studenti, ormai privati di denaro dai maestri, non portano più oro, argento o libri da rivendere, per pagare le lezioni notturne. Nella seconda lette-ra, Terrisio fa rispondere i maestri dello Studium, che ribattono, invece, che sono proprio le meretrici a spogliare del loro denaro gli studenti, e le invitano a farsi da parte, perché «nec in una se-de morantur philosophia et luxuria, que contradictorio modo sibi ad invicem adversantur», ovvero «non si attardano nello stesso luogo filosofia e lussuria, che si avversano vicendevolmente in modo da contrastarsi». Nella terza lettera, infine, il maestro Ter-risio, «cui nomen est terroris», cioè «che ha nome di terrore», ri-

42 Cfr. F. DELLE DONNE, Le consolationes del IV libro dell’epistolario di Pier della Vigna, «Vichiana», s. III, 4 (1993), pp. 287-290.

43 Le lettere sono state pubblicate da G. PAOLUCCI, Il parlamento di Foggia del 1240 e le pretese elezioni di quel tempo nel Regno di Sicilia, «Atti della R. Accademia di scienze, lettere e belle arti di Palermo», s. III, 4 (1897), pp. 45-47; e da F. TORRACA, Maestro Terrisio di Atina, cit., pp. 248-251. Tutta-via, il testo è stato ricontrollato direttamente sul manoscritto (Palermo, Bibl. della Soc. Siciliana di Storia Patria, I B 25) ed emendato.

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chiama gli studenti alla «onestissima» abitudine di fare doni al maestro, e conclude con questi versi:

«Est honestum et est bonum Ut magistro fiat donum in hoc carniprivio, Qui nos pascit et repascit in suo convivio. Ipse prebet lectiones, Et nos pingues huic capones aportemus singuli, Ut a fonte fecundemur nos qui sumus rivuli. Ergo, quale bonum, sibi fiant dona caponum, Per que ferventem possimus habere docentem»44.

«È cosa onesta e buona che in questo carnevale sia fatto un dono al maestro, che ci nutre e ci rinutre al suo convivio. Egli ci dà le lezioni, e noi tutti portiamogli grassi capponi, così che siamo rinvigoriti dalla fonte, noi che ne siamo i rivoli. Dunque, per il bene, gli siano dati capponi come doni, grazie ai quali possiamo avere un appassionato docente».

Dunque, Terrisio di Atina fu maestro presso lo Studium diNapoli, e attorno a lui si dovette senz’altro costituire un circolo di allievi, pronti anche allo scherzo. Forse tra questi, magari per contiguità geografica dei luoghi di provenienza, ci fu anche Ni-cola da Rocca45, che veniva da Rocca Guglielma, paese corri-

44 Per questi versi cfr. H. WALTHER, Initia carminum ac versuum medii aevi posterioris Latinorum, Göttingen 1959, nr. 5695.

45 E. KANTOROWICZ, Federico II, cit., p. 360, definisce Nicola della Rocca ‘scolaro’ di Pier della Vigna, così come A. DE STEFANO, La cultura alla corte di Federico II imperatore, Bologna 1950, p. 179. Sicuramente i rapporti tra Pier della Vigna e Nicola della Rocca furono molto stretti, ma successivi all’ingresso di quest’ultimo nella cancelleria imperiale, come si ricava dalle lettere 2 e 3 pubblicate in NICOLA DA ROCCA, Epistolae, cit., pp. 7-12; soprat-tutto a p. 10 si dice: «Inter tot excelsa virorum ingenia quos in aula Cesarea fecunda rhetorice diutius ubera lactaverunt, extendens manum ad aratrum, Nicolaus rhetor incognitus nobis occurrens…»; ovvero: «Tra i tanti eccelsi ingegni degli uomini che le feconde mammelle della retorica allattarono a lungo nella reggia di Cesare, stendendo la mano verso l’aratro, il retore Nico-la venendo a noi sconosciuto...»; quindi, Nicola, che allora era registratore di cancelleria, non era ancora amico di Pier della Vigna.

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spondente a una frazione dell’attuale Esperia46. Del resto, nel manoscritto che conserva la maggior parte delle sue epistole (Paris, Bibl. Nat. Lat. 8567), c’è una brevissima lettera di un «Roccanus discipulus», che potrebbe essere Nicola, a un «magi-strum Atinensem», che potrebbe esser Terrisio47. Comunque, an-che Nicola, che fu uno dei più rinomati dictatores del tempo, si-curamente ebbe modo, o almeno l’intenzione di insegnare dic-tamen, almeno per il periodo estivo, in una scuola locale, così come si evince da una sua lettera, nel cui finale si dice:

«Cum igitur in proprii natalis partibus, instinctu quorumdam scola-rium, in arte dictaminis proposuerim aliquid implicitum explicare et estivi temporis dies, qui mihi ad requiem post cotidianos labores hye-mis conceduntur, ad communem utilitatem studentium consumare, per vestre peto discretionis gratiam, a cetu doctorum omnium mihi licen-tiam impetrari, ut, licet particularia studia sint penitus interdicta, mihi ad gratiam, cum tempus nunc instet, generalis studii, docendi reme-dium concedatur»48.

«Essendomi proposto, su richiesta di alcuni scolari, di spiegare qual-cosa di non chiaro nell’ars dictaminis, nelle parti della mia terra nata-le, e di impiegare per la comune utilità degli studenti i giorni del pe-riodo estivo che mi sono concessi per riposarmi dopo le quotidiane fa-tiche dell’inverno, chiedo in grazia della vostra discrezione di ottenere il permesso dal collegio di tutti i dottori, così che, nonostante siano stati assolutamente vietati gli studi nelle scuole locali, mi sia concessa, per il vantaggio dello Studium generale, permettendolo ora il tempo, la remissione dell’insegnamento».

Dunque, da questo testo, veniamo a sapere, innanzitutto, che Nicola doveva essere riconosciuto come un valente maestro di

46 Veniamo a sapere della sua provenienza da un documento papale del 31 ottobre 1254. Cfr. Les registres d’Innocent IV, ed. E. Berger, Paris 1884-97, nr. 8122 (Reg. Vat. 23, anno XII di pontificato, c. 183v). Sulla vita del perso-naggio cfr. soprattutto l’introduzione a NICOLA DA ROCCA, Epistolae, cit., pp. XII-XVIII.

47 Cfr. NICOLA DA ROCCA, Epistolae, ed. cit., nr. 150, p. 166. 48 Cfr. NICOLA DA ROCCA, Epistolae, ed. cit., nr. 29, p. 49.

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dictamen, e non solo dagli scolari, ma anche dai più alti rappre-sentanti istituzionali dello Studium di Napoli. Infatti, la lettera era destinata molto probabilmente a Pietro de Hibernia, che nel 1253 venne incaricato da re Corrado IV di curare la riapertura dello Studium di Napoli49. Tra l’altro, l’espressione finale «do-cendi remedium» dovrebbe farci supporre che Nicola, oltre a es-sere uno dei più apprezzati notai della cancelleria sveva, sia sta-to anche maestro dello Studium. Quell’espressione, infatti, po-trebbe, innanzitutto, avere, ellitticamente, il senso di «rimedio alle manchevolezze dell’insegnamento»: e, in questo caso, se non avesse tenuto lo stesso Nicola il “manchevole” corso gene-rale, la sua richiesta sarebbe stata piuttosto inopportuna e borio-sa. Ma, più probabilmente ancora, quell’espressione ha il senso che abbiamo preferito attribuirgli nella traduzione, dal momento che «remedium» viene usato anche nel senso di “remissione”, “esenzione”50, e, quindi, potrebbe anche avere quasi il senso di “aspettativa” o “congedo”. Questo confermerebbe proprio che Nicola fosse magister dello Studium: del resto, non a caso, egli chiede l’autorizzazione, con l’intermediazione del destinatario della lettera, del cetus doctorum, che doveva, quindi, avere qual-che competenza riguardo a questa autorizzazione, giustificabile solo se Nicola stesso era uno di loro. E a rafforzare questa ipote-si interviene anche una lettera di Nicola in cui invita i suoi corri-spondenti a pregare per la salute di Salvo, che fu maestro di de-cretali presso lo Studium51.

Non sappiamo se il permesso chiesto da Nicola sia stato ac-cordato, e se, quindi, una delle deroghe al divieto generale di in-segnamento nelle scuole locali – di cui abbiamo parlato più so-pra – sia stata concessa proprio a Nicola. In ogni caso, ci sono

49 Cfr. C. BAEUMKER, Petrus de Hibernia, «Sitzungsberichte der Bayer. Ak. der Wiss. Pilos. - philol. und hist. Kl.», München 1920; M. GRABMANN, Mit-telalterliches Geistesleben, München 1926, pp. 246-65. Il mandato inviato a Pietro de Hibernia probabilmente nel 1253 è compreso nell’epistolario di Pier della Vigna, III, 10: cfr. Cfr. J.F. BÖHMER - J. FICKER - E. WINKELMANN, Rege-sta imperii, V, cit., e le aggiunte di P. ZINSMAIER, cit., nr. 4601.

50 Cfr. SALVIANUS MASSILIENSIS, De gubernatione Dei, IV, 6 e V, 8, in Pa-trologia Latina, ed. J.P. Migne, LIII, Parisiis, coll. 76 e 101.

51 Cfr. NICOLA DA ROCCA, Epistolae, ed. cit., nr. 9, pp. 21-23.

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tramandate anche altre lettere in cui anonimi maestri invitano al-lievi ai propri corsi, sia pure occasionali, di dictamen. In una si dice così:

«Presentis estatis tempora, que, labore postposito hyemali, mihi ad re-quiem sunt concessa, in dictandi negotio proposui consumare. Cuius te volens participio sociari, ad id diligentius presens littera te invi-tat»52.

«I tempi della presente estate, che, messo da parte il lavoro invernale, mi sono concessi per riposarmi, ho deciso di trascorrerli nell’attività retorica. Volendotene rendere partecipe, la presente lettera, con molta diligenza, a questo ti invita».

A dire il vero, qui non si parla di insegnamenti veri e propri, ma non possono non colpire le espressioni relative alla fatica in-vernale e al riposo estivo, che si vuole dedicare al dictamen, che sono molto simili a quelle usate da Nicola da Rocca in quella ri-chiesta di permesso. D’altro canto, questa lettera è trasmessa proprio dallo stesso manoscritto in cui è conservata la maggior parte delle epistole di Nicola, e non è improbabile che tale ma-noscritto costituisca una copia di quello che poteva essere una sorta di “scartafaccio” di minute conservate da Nicola da Rocca o da qualche suo parente o amico che lo aveva ricevuto in eredi-tà: uno scartafaccio concepito, all’incirca, come un manuale di retorica, contenente degli esempi di bello stile a cui attingere quando ne sorgeva la necessità.

In quel manoscritto sono, poi, conservate anche altre lettere dello stesso tipo. In una si dice così:

«Ut de alto fonte dictaminis possim aliquid ad utilitatem studentium exhaurire, assumpsi dictandi pondera, et presentis estatis spatium pre-fixi terminum ad dictandum. Ad cuius efficaciam, cum te propensius diligam, duxi confidentius invitandum»53.

52 Questa breve lettera è pubblicata, come il doc. nr. 199, in Una silloge epi-stolare, ed. cit.

53 Cfr. Una silloge epistolare, ed. cit., nr. 200.

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«Perché possa attingere qualcosa all’alta fonte del dictamen per l’utilità degli studenti, mi sono assunto il peso del dictare, e ho fissato nel periodo di questa estate il termine per dictare. Per la sua efficacia, dal momento che ti apprezzo come persona particolarmente adatta, con molta fiducia ho deciso di invitarti».

A voler essere precisi, neppure qui si parla esplicitamente di corsi o di scuole, ma il contesto interpretativo diventa più chiaro leggendo anche quest’altra breve lettera:

«Requisitus nuper a pluribus ut qualemqualem gustum propinem dic-taminis quo licet non refici possit, tamen exuriens anhelitum mitigari, eorum nolens precibus contraire, proposui hoc tempore labori quod est otii comodare, ac in dictaminis studio me audire volentibus exponere servitorem. Ad cuius proximas nuptias, cum te sperem non redire in-glorium, inviteris»54.

«Essendomi stato recentemente chiesto da molti che io faccia sentire un qualche gusto del dictamen – con cui sebbene non possa essere sa-ziato, tuttavia venga almeno mitigato il desiderio intenso – non volen-domi sottrarre alle loro preghiere, ho deciso, in questo tempo, di asse-gnare alla fatica ciò che appartiene all’ozio, e di offrirmi servitore a chi mi vuole ascoltare nello studio del dictamen. Ritieniti invitato a queste prossime nozze, sperando che tu non torni senza gloria».

E anche quest’altra lettera è dello stesso tenore:

«Ars artium mater omnium, placatio dominorum, furoris cuiuslibet extintiva, excelsa videlicet dictandi peritia, in quantum ministrat inge-nii parvitas, per me petit, hoc tempore, me audire volentibus reserari. Ad cuius melliflua pocula, quam cito venire poteris, te sentias invita-tum»55.

«L’arte madre di tutte le arti, quella che placa i potenti e che estingue ogni furore, cioè l’eccelsa perizia retorica, chiede per mezzo mio, per

54 Cfr. Una silloge epistolare, ed. cit., nr. 201. 55 Cfr. Una silloge epistolare, ed. cit., nr. 202.

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quanto lo concede la pochezza del mio ingegno, che, in questo perio-do, venga aperta la porta a coloro che mi vogliono ascoltare. Sentiti invitato a venire il più presto possibile a bere dalle sue dolci coppe».

Tuttavia, sempre nello stesso manoscritto, ci sono anche lette-re più esplicite, in cui ci si rivolge a un valente dictator perché si possa godere dei vantaggi del suo insegnamento. Così, un ano-nimo scrive a un maestro:

«Paucis utor, dum in paucis comprehendere multa vos autumo et pau-ca vobis sufficere sapienti, prompta prece devotionis exposcens, qua-tenus … latorem presentium habere velitis sub vestre doctrine ferula commendatum, ut effectu precaminum me vobis per ea obligetis ad grates»56.

«Mi servo di poche parole, dal momento che stimo che voi compren-diate molto con poco e che a voi sapiente basti un piccolo accenno, nel chiedere con pronta preghiera di devozione che vogliate ritenere rac-comandato alla bacchetta della vostra dottrina ..., latore della presente, così che, per l’effetto delle preghiere, mi obblighiate con esse a rin-graziarvi».

Qui si è parlato solo di gratitudine, ma diverso è il discorso in quest’altra lettera di un padre:

«De probitatis vestre fama, que litteralis scientie honore prefulget, dumtaxat ex auditu confisus, discretioni vestre pro … filio dilecto mi-hi affectuosas porrigo preces, quatenus, si placet, ipsum dura castiga-tione prematis ad tam efficacem in litterali studio curam et sollicitudi-nem exhibendam, ut, Eius gratia mediante, que bonis adicit meliora, filius subveniat voto patris. Vobis enim integre, qualibet dubitatione sublata, quicquid merces vestra poposcerit, erogabo»57.

«Confidando, almeno da ciò che sento, nella fama della vostra probità, che rifulge per l’onore della scienza epistolare, rivolgo alla vostra di-

56 Cfr. Una silloge epistolare, ed. cit., nr. 204. 57 Cfr. Una silloge epistolare, ed. cit., nr. 203.

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screzione preghiere affettuose riguardo a ..., figlio a me diletto, per-ché, se vi piace, con duro rigore lo spingiate a dimostrare tanto effica-ce cura e sollecitudine nello studio delle lettere, che, col favore della grazia di Dio, che aggiunge cose migliori alle buone, il figlio esaudi-sca il desiderio del padre. Infatti, eliminato ogni ritardo, vi darò inte-ramente tutto ciò che il vostro onorario richiederà».

Insomma, per fruire dell’alta dottrina di un rinomato inse-gnante, si era disposti a spendere qualsiasi cifra, forse nella con-siderazione che il possesso di una formazione e di una prepara-zione tecnica adeguata costituiva il presupposto essenziale per innalzarsi a più alto rango sociale, grazie all’ingresso nell’ammi-nistrazione cancelleresca58: del resto, la fondazione dello Stu-dium di Napoli, voluta da Federico II soprattutto per formare una schiera di amministratori fedeli, contribuiva a offrire proprio opportunità di questo genere59. Tuttavia, bisogna anche dire che tali biglietti – da considerare come dei formulari, o quasi come dei moduli precompilati – erano sicuramente scritti da maestri, e, quindi, rispecchiavano il loro punto di vista e rispondevano più ai loro interessi (soprattutto economici) che a quelli di colo-ro che li avrebbero firmati.

Dunque, da queste lettere sappiamo che in Terra di Lavoro erano diffuse scuole, più o meno organizzate, in cui venivano impartiti insegnamenti di dictamen, e che, molto spesso, tali in-segnamenti erano di tipo occasionale, come si può evincere in maniera evidente anche da una lettera con cui il già menzionato Enrico di Isernia si scusa con Nicola da Rocca, per il fatto che:

58 Cfr. F. DELLE DONNE, Nobiltà minore e amministrazione nel Regno di Federico II. Sulle origini e sui genitori di Pier della Vigna, «Archivio storico per le Province Napoletane», 116 (1998), pp. 8-9.

59 Cfr. soprattutto G. ARNALDI, Fondazione e rifondazioni, cit., pp. 90 ss.; F.DELLE DONNE, La fondazione dello Studium di Napoli: note sulle circolari del 1224 e del 1234, «Atti dell’Accademia Pontaniana», 42 (1993), pp. 189 ss.; F. VIOLANTE, Federico II e la fondazione dello Studium, cit., pp. 65 ss.

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«vobis in Ponte Curvo manentibus meum servicium specialiter non obtuli, ut videlicet, quos habetis, ad me docendos liberos mitteret, ve-stre scientie profluens scaturigo»60;

«non ho offerto in maniera particolare a voi, che stavate a Pontecorvo, il mio servizio, così che avrebbe potuto mandare da me, perché venis-sero istruiti, i vostri figli, scaturigine feconda della vostra scienza».

Insomma, gli insegnamenti potevano essere impartiti anche quando il maestro o gli allievi erano disponibili per poco tempo, così come abbiamo visto anche nelle lettere sull’attività didattica estiva di Nicola da Rocca.

È difficile dire se le attestazioni dell’occasionalità di tali in-segnamenti siano relative solo ad alcuni maestri particolarmente apprezzati, che del resto già svolgevano impegnativi incarichi di tipo cancelleresco, oppure se il carattere di temporaneità fosse tipico dell’insegnamento di tutti i maestri. In ogni caso, non va dimenticato che le scuole locali erano proibite: pertanto, la man-canza di sistematicità dell’insegnamento poteva essere, forse, un sistema per aggirare i divieti. Ma probabilmente l’abitudine di improvvisare corsi era diffusa e radicata: e questo potrebbe farci comprendere anche perché i divieti vennero sistematicamente rinnovati dall’amministrazione imperiale e regia. Tuttavia, si po-trebbe anche pensare che le scuole locali siano sorte soprattutto in concomitanza con le ripetute chiusure dello Studium di Napo-li61.

Forse, però, si trattava soltanto di insegnamenti di livello in-feriore, gli unici consentiti, nonostante il tenore retorico riscon-trabile in quelle lettere non sia proprio elementare. In ogni caso, sia che in quelle scuole e in quei corsi si apprendessero solo i rudimenti, sia che ci si confrontasse anche con le più alte ricer-catezze del dictamen, il perfezionamento avveniva attraverso la

60 Cfr. Cfr. J. EMLER, Regesta diplomatica nec non epistolaria Bohemiae et Moraviae, II, Annorum 1253-1310, Pragae 1882, p. 1119, nr. 2583. La lettera, comunque, è stata controllata direttamente sul manoscritto che la contiene, il nr. 3143 della Österreichische Nationalbibliothek.

61 Cfr. G. ARNALDI, Fondazione e rifondazioni, cit., pp. 81-105.

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pratica, ovvero attraverso i contatti epistolari diretti tra gli stili-sti, grazie ai quali i corrispondenti si tenevano in esercizio e raf-finavano la propria tecnica. Non sono rari, infatti, gli scambi e-pistolari, di natura privata, tra illustri dictatores. Gli argomenti potevano essere assai vari, come nel certame epistolare tra Gio-vanni di Capua, notaio pontificio, e Giordano di Terracina, car-dinale e vicecancelliere papale, in cui si parte con le lamentele di Giovanni, che si dichiara talvolta affaticato dalla sua «squalida senectus»62, o angustiato dalla «suspiriosa paupertas» e dalla «singultuosa sarcina debitorum»63, nonché dalla sorte, che non ha voluto concedere benefici né a lui né ai suoi familiari64; ma poi si passa a trattare di argomenti teologici e metafisici, come nelle ultime tre lettere del certame, in cui si discute dell’«abys-sus fulgoris»65.

Tuttavia, tali certami potevano avere anche natura completa-mente diversa, ed essere usati come occasione di distrazione o di svago dalle fatiche del lavoro, come capita in quello che vide coinvolti Pier della Vigna e Nicola da Rocca. Nelle otto epistole di questo certame, cominciato da Pier della Vigna, che, non rive-lando il proprio nome, subito viene rimbeccato da Nicola, i due interlocutori si sfidano a colpi di ardite invenzioni retoriche e ar-tificiose costruzioni sintattiche in uno scontro in cui entrambi dichiarano invitta l’arte del contendente. Evidentemente, lo sco-po era quello di dimostrare la propria alta capacità letteraria, co-sì da essere onorati e celebrati, così come capita per Nicola da Rocca, che così viene elogiato, attraverso la menzione della sua patria:

«O Rocca felix, excelsi montis elata cacumine, que talem et tantum fi-lium genuisti, qui sapientie verus amator, speculator amatus ab omni-bus, inter ceteros redolens ut lilium inter flores, et inter sidera lucifer mentis illustratione corruscans, te sedem securitatis elegit»66.

62 P. SAMBIN, Un certame dettatorio tra due notai pontifici. Lettere inedite di Giordano di Terracina e di Tommaso di Capua, Roma 1955, p. 39 (I 17).

63 P. SAMBIN, Un certame dettatorio, cit., p. 26 (I 5). 64 P. SAMBIN, Un certame dettatorio, cit., pp. 25 ss. (I 5), e pp. 38 s. (I 16). 65 P. SAMBIN, Un certame dettatorio, cit., pp. 41-49 (I 19-21). 66 Cfr. NICOLA DA ROCCA, Epistolae, ed. cit., nr. 1, p. 6.

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La cultura nell’Alta Terra di Lavoro 155

«O felice Rocca, elevata sulla sommità dell’alto monte, che generasti un tale e tanto grande figlio, il quale, vero amante della sapienza, in-dagatore amato da tutti, che profuma tra gli altri come il giglio tra i fiori, e tra le stelle stella mattutina, che splende per la lucidità della mente, te scelse come sede di sicurezza».

Del resto, la celebrazione di Rocca, che abbiamo appena let-to, è costruita simmetricamente a quella di Capua e della Terra di Lavoro fatta da Nicola da Rocca per esaltare Pier della Vigna:

«O felix vinea, que, felicem Capuam tam suavis fructus ubertate refi-ciens, Terram Laboris irradians, et remotos orbis terminos instantia tue fecunditatis irradiare non cessas»67.

«O felice vigna, che, rinvigorendo la felice Capua con la fecondità di un frutto così soave, irradiando la Terra di Lavoro, non cessi di irra-diare con la premura della tua fecondità anche i remoti termini della terra».

Questa menzione celebrativa della Terra di Lavoro ci rende consapevoli, dunque, del ruolo assunto da quella regione nell’e-voluzione culturale del Tardo Medioevo. Proprio lì, del resto, l’ars dictaminis venne formalizzata per la prima volta, intorno al 1080, da Alberico, un monaco e maestro dell’abbazia di Monte-cassino, che con il suo Breviarium de dictamine offriva i rudi-menti dell’arte di scrivere epistole. E sempre lì trovò così ampio sviluppo e così attenta considerazione da costituire una parte de-cisamente preponderante di tutta la produzione letteraria.

L’insegnamento retorico, infatti, finì per diventare, soprattut-to in Italia, insegnamento precipuo di ars dictaminis, e ciò av-venne, molto probabilmente, perché rispondeva a nuove esigen-ze politiche, che facevano sentire la necessità di reclutare fun-zionari che sapessero non solo adempiere mansioni amministra-tive, ma che fossero anche capaci di dare forma adeguata ai messaggi che dovevano trasmettere attraverso la loro produzione scritta. In tale contesto, un ruolo preponderante fu svolto dalla

67 Cfr. NICOLA DA ROCCA, Epistolae, ed. cit., nr. 15, p. 32.

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tradizione retorica della Terra di Lavoro, dove trovarono natali e formazione i dictatores che abbiamo già menzionato e altri an-cora, come Stefano di San Giorgio o Giovanni di Castrocielo, che furono, l’uno insigne consigliere presso le corti inglese, pa-pale e angioina; l’altro potente vescovo di Benevento e cardina-le68. Tutti, comunque, furono innanzitutto esperti di dictamen e, nella maggior parte dei casi, notai delle più importanti cancelle-rie dell’epoca, come quella papale o imperiale.

Tuttavia, questi dictatores attivi negli uffici di cancelleria non si dedicavano solo alla compilazione dei documenti ufficiali, che dovevano scrivere in nome di papi, imperatori o sovrani. Anzi, come abbiamo visto, ci è stato tramandato un grandissimo nu-mero di loro lettere di tipo privato e amichevole, che pure sono caratterizzate dall’estrema cura ed elaborazione formale: forse perché, in quel modo, essi davano espressione al loro desiderio di dimostrare in ogni occasione la propria maestria e la propria alta competenza retorico-letteraria; forse perché era proprio quello il loro paradigma culturale, che non permetteva di uscire al di fuori di determinati orizzonti concettuali. Così, anche quando la parola poteva costituire oggetto di svago, quello sva-go poteva sussistere solo entro i limiti del lusus retorico. Del re-sto, simile funzione ebbe anche, in linea di massima, la produ-zione poetica di quegli ufficiali della cancelleria sveva, con cui nacque la scuola poetica siciliana.

In ogni caso, le lettere di cui abbiamo parlato ci permettono di ampliare le nostre conoscenze sul XIII secolo. Senza la loro lettura, infatti, avremmo una visione piuttosto alterata dell’epo-ca. E non solo dal punto di vista delle strutture sociali, o di quel-le politico-amministrative, ma anche da quello degli sviluppi culturali, in cui la Terra di Lavoro, appunto, ricoprì un ruolo as-solutamente preponderante. Fu proprio grazie alle scuole locali della Terra di Lavoro, per quanto legate alla disponibilità occa-sionale di questo o quel prestigioso maestro e per quanto aperte, forse, a ristretti gruppi di amici, che, non solo per tutta l’epoca

68 Su questi due personaggi si veda soprattutto l’introduzione a Una silloge epistolare, cit.; F. DELLE DONNE, “Cipriani martiris epistolare opus offero ad scribendum”, cit., pp. 115 ss.

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sveva, ma anche nel primo periodo della dominazione angioina, si tenne alto il livello letterario dell’arte epistolare del Regno. Un livello che raggiunse vertici tali, che i dictamina dei maestri della Terra di Lavoro, con la loro armonia ritmica, con i loro preziosismi verbali, con le loro ardite costruzioni sintattiche, vennero riconosciuti a lungo come modelli assoluti di perfezio-ne, non solo in Italia, ma in tutta Europa69.

69 Sulla diffusione europea di quei dictamina cfr. soprattutto E.H.KANTOROWICZ, The Prologue to Fleta, cit., pp. 167-183; ID., Petrus de Vinea in England, in ID., Selected Studies, cit., pp. 213-246 (il saggio apparve la prima volta in «Mitteilungen des Österreichischen Instituts für Geschichtsfor-schung», 51, 1937, pp. 43-88); H. WIERUSZOWSKI, Politics and culture in medieval Spain and Italy, Roma 1971, pp. 373-374, 433-435. Su questi pro-blemi, da ultimo, si è a lungo soffermato Benoît GRÉVIN nella sua tesi di dot-torato, molto ben documentata, discussa a Parigi nel 2005, su Les Lettres de Pierre de la Vigne. Histoire sociale d’un style médiéval XIIIe-XVe siècle. Que-sto lavoro dovrebbe andare in stampa tra poco per i tipi dell’École Française di Roma, col titolo Histoire sociale d’un style médiéval. Les Lettres de Pierre de la Vigne, l’ars dictaminis sud-italienne et la transformation du langage politique médiéval XIIIe-XVe siècle.