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Paolo Galloni Streghe e cospiratori Storia a ritroso di una teoria del complotto

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Paolo Galloni

Streghe e cospiratori

Storia a ritroso di una teoria del complotto

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La narrazione storica è un modo di spiegare e di mettere in relazione fatti e dati culturali accompagnando i lettori verso il passato. Per rendere ancora più esplicito ed evidente questo percorso l’autore ha scelto di organizzare a ritroso il materiale raccolto. Lo scopo è di esplorare – e di rappresentare at-traverso il racconto a ritroso – l’ipotesi che il processo chiusosi nel 2007 a Tripoli contro le infermiere bulgare accusate di aver deliberatamente con-tagiato dei bambini con il virus dell’AIDS, i processi staliniani, le vicende giudiziarie della «caccia alle streghe» di epoca moderna e aspetti di altre persecuzioni più antiche, siano uniti non solo da somiglianze morfologi-che, ma da un filo sottile storicamente ricostruibile, costituito da anelli di congiunzione per i quali è possibile risalire controcorrente il fiume della storia almeno fino al caso dei Baccanali nella Roma del 186 a.C.

Paolo Galloni è nato nel 1964 a Langhirano (PR) e si è laureato in Storia all’università di Bologna nel 1988. In ambito saggistico ha pubblicato Il cervo e il lupo. Caccia e cultura nobiliare nel medioevo (Roma-Bari, Lat-erza, 1993), Il sacro artefice. Mitologie degli artigiani medievali (Roma-Bari, Laterza, 1998), Storia e cultura della caccia (Roma-Bari, Laterza, 2000), Parole, cose, guarigioni. Cura del corpo e dell’anima tra mitologia ed esperienza (Milano, Lampi di stampa, 2005), Le ombre della Preisto-ria. Metamorfosi storiche dei signori degli animali (Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007). Ha inoltre pubblicato la raccolta di prose brevi Le affinità casuali (Rimini, Fara, 2004) e i romanzi Donal d’Irlanda (Rimini, Fara, 2000, Romanzo), Il cuore della colomba (Rimini, Fara, 2002), Nostra Si-gnora Crudele (Milano, Lampi di Stampa, 2003) e Il segreto del poeta (Rimini, Fara, 2008, con lo pseudonimo di P.G. Kien).

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Paolo Galloni

Streghe e cospiratoriStoria a ritroso di una teoria del complotto

Cenacolo Medievale / Medieval Worskshop

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Cenacolo Medievale / Medieval WorkshopPrima edizione ebook: 2010© Paolo Galloni 2010http://www.paologalloni.it/cenacolo-medievale.htmhttp://www.paologalloni.it/[email protected]

Questo testo è divulgato in quanto parte del progetto Cenacolo Medievale di Torrechiara. La sua riproduzione è libera, purché se ne citi la fonte.

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IndIce

Premessa 7À rebours 9Parte I. Complotti e congiure nel XX secolo 17Cerniera. I secoli XVIII e XIX 51Parte II. Eretici, streghe e vampiri 61Conclusione. L’affare dei Baccanali 119(Ri)Epilogo 123

Bibliografia 127

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Premessa

La scrittura di questo testo è cominciata e proseguita in parallelo con quella di alcuni interventi, presentati in diverse sedi, che propongono una più stretta collaborazione tra ricerca storica e scienze cognitive. Tale incro-cio di riflessioni mi ha convinto, tra le altre cose, che noi storici dobbiamo essere maggiormente consapevoli delle implicazioni cognitive delle pro-prie scelte stilistiche – per noi e per il lettore –, e che non dobbiamo negarci a priori l’opportunità di sperimentare forme narrative diverse e non con-venzionali. Nel caso del libro che avete appena iniziato a leggere la forma scelta è quella della narrazione a ritroso: il resoconto inizierà dalla tappa più recente, un lungo processo penale chiusosi a Tripoli nel 2007, e termi-nerà nel 186 a.C, là dove, di fatto, ha cronologicamente inizio il percorso che ho delineato nella mia ricostruzione.

Riassumendo brevemente, lo scopo che mi sono prefisso è di esplorare – e di rappresentare spero efficacemente attraverso il racconto a ritroso – l’ipotesi che il processo di Tripoli, i processi staliniani, le vicende giudizia-rie della «caccia alle streghe» di epoca moderna e aspetti di altre persecuzi-oni più antiche, siano uniti non solo da somiglianze morfologiche, ma da un filo sottile storicamente ricostruibile, costituito da anelli di congiunzi-one per i quali è forse possibile risalire controcorrente il fiume della storia almeno fino all’antichità romana.

Come anticipavo, la scelta di organizzare a ritroso la cronologia del saggio, che potrebbe apparire azzardata o imprudente, o magari semplicemente bizzarra, rappresenta il frutto di una lunga riflessione. Il fatto è che una comparazione tra i processi staliniani, i processi per stregoneria e altre situazioni morfologicamente affini rischia di essere insieme banale e incauta. La possibilità di un accostamento sul piano formale si propone

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infatti con una certa nitidezza, il che costituisce di per sé un richiamo, un invito quasi irresistibile a pensare insieme i due momenti; parallelamente, qualora si muova un passo oltre e si cerchi di rendere conto della sorprendente continuità dello schema persecutorio associato all’ossessione del complotto, ci si viene a trovare in un terreno ben più insicuro. Ecco allora che il percorso a ritroso, dal 2007 all’età antica, diventa una soluzione praticabile, mi auguro anzi efficace, in grado di rendere meglio visibile al lettore, soprattutto a quello non specializzato, l’esistenza non solo delle somiglianze formali, in qualche modo autoevidenti, ma anche di forme di continuità culturale e testuale.

La narrazione storica a ritroso è in fondo solo un modo diverso di spie-gare e di mettere in relazione dei fatti o dei dati culturali accompagnando i lettori verso il passato. Si tratterà pertanto di organizzare l’esposizione come una sequenza di casi in flash-back fino a un punto d’arrivo che crono-logicamente è invece un ipotetico punto di partenza, insieme pertinente e in qualche misura arbitrario. Su alcuni momenti di questo percorso mi sof-fermerò con maggiore dettaglio, altri saranno trattati con taglio più riassun-tivo, ma non per questo vanno considerati trascurabili o secondari quanto a rilevanza. Le tappe principali del viaggio sono senza dubbio i processi che semplificando definirò «staliniani» e «inquisitoriali».

Non aggiungo altro, per ora, i chiarimenti, se ce ne fosse bisogno ar-riveranno nel corso della lettura, che mi auguro risulti piacevole e, perché no, coinvolgente.

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À rebours

Per entrare subito nel vivo: Tripoli, inizio secolo XXI

Il 25 luglio 2007, a Tripoli, è stata concessa la grazia a cinque infer-miere bulgare e a un medico palestinese che erano stati condannati a morte in via definitiva dopo essere stati riconosciuti colpevoli di aver inoculato il virus dell’AIDS a centinaia di bambini libici. Si è così posta fine a una fosca vicenda giudiziaria iniziata sette anni prima e che vale la pena rias-sumere nelle sue linee generali.

Kristiana Vulcheva, Nasya Nenova, Valentina Siropulo, Valya Cher-venyashka, Snezhana Dimitrova e Ashraf al-Haiui erano in carcere dal ‘99 con l’accusa di aver volontariamente contagiato con il virus dell’Aids ben 426 bambini dell’ospedale di Bengasi, 52 dei quali sono morti. La stampa libica era stata fin dall’inizio unanime nel sollecitare la condanna a morte per gli imputati – condanna effettivamente emessa il 19 dicembre 2006 dal Tribunale del popolo libico dopo che un primo processo, anch’esso conclu-sosi con una condanna alla pena capitale, era stato annullato alla fine del 2005. Alla lettura del verdetto gli accusati sono scoppiati in lacrime, poi sono stati condotti all’esterno del tribunale, dove le famiglie dei bambini, morti o malati, hanno festeggiato la sentenza con danze e canti.

Da ogni parte del mondo erano invece arrivate a Tripoli pressioni per una sentenza più mite, mentre la comunità scientifica si era mostrata compatta nel sostenere l’innocenza degli imputati e l’infondatezza delle accuse. Tra le prese di posizione spicca quella del Parlamento Europeo di Strasburgo espressa in una risoluzione del 18 gennaio 2007 che bolla severamente l’inconsistenza dell’accusa, «l’uso della tortura nei confronti

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degli imputati in carcere, al fine di estorcere false confessioni» e «altre flagranti violazioni dei diritti degli imputati».

L’avvocato della difesa aveva in effetti prodotto solidi documenti che provavano che nel 1997, vale a dire prima dell’arrivo delle infermiere in Libia, a Bengasi si erano già verificati 207 casi di contaminazione da virus dell’Aids, vicenda che fu messa a tacere. Le affermazioni degli imputati di aver confessato colpe mai commesse solo perché sottoposti a tortura sono cadute nel nulla, soprattutto dopo che i poliziotti da loro indicati come tor-turatori sono stati assolti dalla giustizia libica.

Ancora più sconcertante risulta il presunto contesto in cui sarebbe maturato il crimine. Un rappresentante del Comitato dei parenti delle vit-time ha esplicitamente sostenuto la tesi di un complotto internazionale che associa ebrei e industrie farmaceutiche. «I nostri sospetti ricadono sul Mos-sad israeliano o su ditte farmaceutiche internazionali interessate a vendere i propri medicinali».1

Se la teoria della grande cospirazione ha risucchiato il caso delle in-fermiere bulgare è perché, a Tripoli come al Cairo o a Damasco, il terreno era stato reso fertile da una propaganda condotta in modo meticoloso. Lo stesso colonnello Gheddafi se ne è fatto portavoce dichiarando alla televi-sione nazionale: «Loro [le infermiere] hanno confessato: è venuto un tipo chiamato John o qualcosa di simile. Ci ha detto di iniettare una sostanza ai bambini, ci ha pagato e se ne è andato. Quale intelligence lo ha mandato non lo sappiamo».2 Sembrano invece saperlo benissimo nelle strade delle città arabe, e non da oggi: gli untori dell’AIDS sono gli israeliani. Il com-plotto ebraico agirebbe anche in altri ambiti. Perfino quotidiani apparente-mente autorevoli hanno divulgato una diceria secondo la quale gli ebrei distribuiscono alle ragazze palestinesi gomme da masticare imbevute di afrodisiaco al fine di corrompere la società e incoraggiare il dilagare della promiscuità. È almeno dal 1994 che i bagnini e il personale degli alberghi di Sharm El Sheik ripetono la favola agli ospiti stranieri. Durante l’intifada nei villaggi palestinesi hanno ripreso a circolare storie che si credevano di-menticate da secoli, storie di avvelenamenti, pozioni, malanni oscuri e cibo contaminato. Ancora, il quotidiano ufficiale siriano Al Thawra ha pubbli-cato la notizia che i virus dell’AIDS e dell’influenza aviaria sono sono stati sintetizzati in misteriosi laboratori israeliani con la complicità della CIA.

1. Corriere della Sera del 19 dicembre 2006.2. Corriere della Sera del 20 dicembre 2006

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L’ossessione del complotto

Alla lettura di queste notizie, insieme allo sdegno per un processo palesemente manipolato, è difficile non provare un senso di fortissimo ma-lessere. Il complotto degli ebrei che diffondono l’epidemia è un motivo ormai tristemente famigliare, che il lettore incontrerà spesso nelle pros-sime pagine. Dopo averlo ricevuto dall’Europa, il mondo islamico lo ha rilanciato con estrema forza ed efficacia proprio quando esso pareva essere entrato in una crisi definitiva nelle regioni che ne avevano visto l’origine e il divampare. Nel febbraio 2007 il medico pakistano Abdul Ghani Khan è stato assassinato a causa del suo impegno nella lotta alla poliomielite; la sua colpa era quella di incoraggiare la vaccinazione antipolio che, secondo alcuni gruppi integralisti, nasconde un complotto sionista e cristiano volto a diffondere la sterilità.

L’estorsione per mezzo della tortura di confessioni ben poco vero-simili vanta ormai una storia lunga e variegata; il ricorso alle privazioni, alle pressioni psicologiche e alla violenza fisica come strumento di persua-sione, come è del resto ben noto, ha conosciuto picchi significativi in corri-spondenza di iniziative repressive mosse proprio da quella che potremmo definire «ossessione del complotto». I fatti libici hanno reso visibile la tragica attualità di questa ossessione e delle sue conseguenze, e, insieme, l’utilità e l’interesse di analizzarla e ricostruirne le tappe salienti.

Uno sguardo superficiale è sufficiente a suggerire un nesso almeno formale tra il processo libico e due celebri tipologie di processi del passato: quelli condotti in epoca staliniana contro presunti cospiratori e quelli messi in piedi nell’Europa moderna allo scopo di estirpare la stregoneria, e con essa sconfiggere il complotto diabolico di cui streghe e stregoni erano ritenuti emissari e affiliati. Tale ipotesi di comparazione ci pone di fronte a un problema storiografico intrigante e, a mio avviso, di non secondaria importanza. I fatti di Bengasi, infatti, non si limitano a palesare al cospetto dell’opinione pubblica internazionale una difficoltà che incontra gran parte della cultura arabo-islamica nel padroneggiare la complessità del presente; essi consentono anche di osservare una singolare, e peculiare, caratteristica delle risposte che vengono elaborate come reazione alla suddetta difficoltà: la forma assunta da tali reazioni – è appunto il caso della teoria del complotto ebraico – è infatti di origine europea. Come il lettore paziente avrà modo di verificare, il processo alle infermiere bulgare e al medico palestinese

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rielabora uno schema processuale che appartiene alla tradizione politica e giuridica europea – quello che potremmo definire il suo lato oscuro.

Tanto la teoria del complotto ebraico e cristiano, per una volta campi alleati, quanto la forma giuridica assunta dalla persecuzione attivata contro il suo presunto smascheramento sono schegge culturali giunte dalla sponda opposta del Mediterraneo, un «contagio» europeo che si è ambientato in un nuovo terreno di coltura e si è trasformato nella paradossale arma che dovrebbe servire a respingere proprio un contagio europeo – sia culturale che virale, è il caso di sottolinearlo. Come vedremo, molti degli argomenti messi in campo dagli accusatori nel processo libico non fanno che ripetere un modello che ha conosciuto numerose e tragiche riapparizioni e variazi-oni nel corso della storia europea. Abbozzando un sommario schema rias-suntivo, nel tribunale libico vediamo all’opera gli elementi che caratteriz-zarono, ad esempio, i processi staliniani e quelli per stregoneria: 1) l’idea di «patto con il nemico» come motore dell’indagine o dell’interpretazione dei fatti; 2) la fabbricazione della prova per mezzo di privazioni e torture; 3) il ruolo decisivo, se non unico, della confessione degli imputati nella conferma dell’impianto accusatorio altrimenti privo di riscontri probatori concreti e coerenti.

Tra Stalin e gli inquisitori

In un breve saggio del 1983 l’antropologo francese Emmanuel Terray individua alcuni aspetti chiave che accomunano i processi per stregoneria ed eresia di epoca moderna ai processi staliniani. In entrambi i casi il Male era interpretato come il risultato di un tradimento/caduta mentre la sua repressione svolgeva la funzione di legittimare la capacità dell’autorità di restaurare l’ordine e di opporsi al nemico. In tal senso era strategico che alle sentenze e alle sue motivazioni venisse data la massima pubblicità. L’inquisitore Nicolau Eymeric nel suo Manuale degli Inquisitori affermò con cinica chiarezza che «la finalità primaria del processo e della condanna a morte non è salvare l’anima del colpevole, ma procurare il bene pubblico e terrorizzare il popolo»3. Una finalità pedagogica della medesima natura

3. Citato in Emmanuel Terray, Stalin e le streghe, «Prometeo», Anno 1, 2, 1983, pp. 2-19, p. 15.

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è evidente anche nei processi staliniani. I cittadini delle nazioni socialiste dovevano convincersi che il mondo era diviso in due campi, quello socialista e quello capitalista, che si identificano rispettivamente con il Bene e con il Male – e che solo nel partito comunista, come in passato nella Chiesa, risiedeva la salvezza.

Dal punto di vista delle tensioni psicologiche in atto nei processi, la comparazione con i processi staliniani, vicini a noi nel tempo, può risultare utile per indagare più concretamente i meccanismi psicologici all’opera negli interrogatori delle presunte streghe. Perfino il bestiario metaforico utilizzato dagli inquirenti sembra mutuato da quello degli inquisitori e dei giudici laici di epoca moderna: per il grande inquisitore sovietico Višinskij gli imputati erano rettili, topi, rospi, cani rabbiosi. Non troppo dissimile era l’arsenale retorico utilizzato secoli prima nei confronti degli eretici.

Ancora più importanti e significative sono le somiglianze, la quasi sovrapponibilità, delle sequenze morfologiche e ideologiche dei processi alle streghe e ai traditori del popolo. «Spesso era nel corso del primo inter-rogatorio, quando l’accusato riassumeva la propria autobiografia politica, che gli inquirenti decidevano di quale legame accusarlo».4 Questa consid-erazione di Marcello Flores riferita al Terrore staliniano è in effetti appli-cabile anche ai processi per stregoneria. Allo stesso modo, ritroviamo nel corso di interrogatori di innocenti divisi da centinaia di anni una sequenza parallela e sinistra: iniziale affermazione di innocenza, invito reiterato alla confessione e alla denuncia dei complici, ricorso a privazioni, torture fi-siche e psichiche, confessione e denuncia dei complici, dichiarazione di pentimento e sottoscrizione finale della giustezza delle accuse da parte de-gli imputati.

Sia pure a livello puramente introduttivo, non si può evitare di porre l’accento su alcune coincidenze di ordine ideologico. Il paragone tra il Partito Comunista sovietico – e i partiti satelliti – e le Chiesa è perfino abusato: a ogni buon conto, oltre alla disciplina dei membri della gerar-chia, a imparentare ideologicamente le istituzioni ecclesiastiche cattoliche e protestanti di epoca moderna con quelle rivoluzionarie del secolo XX è la volontà programmatica di imporre una visione unificante alla società sottoposta al loro controllo.

Gli anni dello stalinismo realizzarono un progetto che, in conformità

4. Marcello Flores, L’età del sospetto. I processi politici della guerra fredda, Bolo-gna, Il Mulino, 1995, p. 90.

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alla visione del leader ispiratore, implicava il «venir meno della tradiz-ionale distinzione tra Stato e società civile» grazie a un «potere politico onnipresente completamente assimilato alla società».5 Il partito doveva es-sere l’espressione unica e suprema della società e tramutarsi da movimento politico a pilastro portante dello Stato. «Lo Stato onnicomprensivo doveva avere anche una propria ideologia ufficiale, stabilita secondo i canoni di una dottrina che non consentiva eresie o deviazioni».6

In questa prospettiva acquista un particolare significato la centralità della denuncia dei sospetti di eresia (poco importa se religiosa o politica) da parte dei buoni cittadini; la denuncia era l’azione che garantiva il suc-cesso del progetto di onnipresenza della Chiesa o dello Stato. In tal senso, i processi inquisitoriali rappresentano una sorta di precoce esperimento, un momento di affilamento delle armi da parte di un pensiero totalitario non ancora elaborato – si tenga a mente che il concetto di governo totalitario apparve per la prima volta in Italia negli anni Venti del Novecento e il fas-cismo fu il primo movimento a riconoscervisi –, una prova generale ancora incompiuta ma che a suo modo si configura come un momento fondativo della modernità.

La nozione di patto con il Nemico, accordo ritenuto irreversibile, è concettualmente accostabile al concetto cristiano di caduta. Per il presunto colpevole di aver sottoscritto il patto scellerato non c’è più scampo per-ché la via che si presume abbia intrapreso non contempla la possibilità del ritorno o del recupero. Si tratta di una colpa definitiva. L’idea di patto con l’Avversario è una leva ideologica e giuridica di tremenda efficacia; essa consente agli accusatori di distorcere e stravolgere a piacimento la concezione delle azioni e della biografia che gli imputati hanno maturato nella propria coscienza. Agli occhi dell’opinione pubblica arabo-islamica il medico palestinese che si sarebbe venduto a Isreaele e alla CIA è in tutti i sensi possibili (con)dannato, esattamente come lo era il funzionario del partito comunista che confessava di aver complottato per minare il social-ismo e favorire il capitalismo e come lo erano quei cristiani che ammette-vano di aver rinnegato la fede ed essersi dati anima e corpo al demonio.

L’interpretazione pubblica, anche se non da parte di tutto il pubblico, di una fase storica in termini di contrapposizione contribuisce grandemente

5. Simona Forti, Totalitarismo, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, VIII, Roma, Istituto dell’Encliclopedia Italiana, 1998, pp. 636-649, p. 644.

6. Ibidem.

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a far sì che una o entrambe le parti i causa sviluppino sindromi persecutorie e percepiscano la propria vita e la propria cultura come minacciate da un attacco esterno, palese o subdolo che sia. Lo si verificherà subito rievocan-do una serie di processi celebrati nei primi anni della Guerra Fredda e che a mio avviso costituiscono un diretto antecedente delle condanne a morte del 2006 a Tripoli – non perché a quelli i giudici libici si debbano essere diret-tamente ispirati, ma nel senso che essi rappresentano un antecedente nella catena di elaborazione e trasmissione del modello di procedura giudiziaria che a Tripoli riappare nuovamente operativo.

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Parte I. comPlottI e congIure nel XX secolo

L’ossessione del complotto negli USA

Il clima politico internazionale dell’immediato secondo dopoguerra, che favoriva l’identificazione del Nemico con l’altra parte del blocco mi-litare, politico e ideologico, fece sentire i suoi effetti anche oltreoceano. In entrambi i blocchi era diffusa la percezione di una minaccia che incombeva. Da ambo le parti, e a livelli diversi, vi erano persone che avevano interesse a manipolare la situazione o che parallelamente la subivano in termini di ossessione paranoica. Il contesto internazionale era obiettivamente carico di tensione e l’opinione pubblica statunitense era eccitabile e vulnerabile. Tra coloro che con maggiore energia cercarono di trarre profitto dalla situa-zione ci fu il senatore del Wisconsin Joseph MacCarthy. C’erano già stati in USA alcuni processi inseribili a pieno titolo nel quadro dell’ossessione per il complotto comunista, tuttavia la sua dirompente entrata in scena de-terminò un cambio di marcia.

Seppure a un grado diverso di intensità, alcune caratteristiche accomu-nano nella forma i fatti est-europei e il maccartismo statunitense: l’accusa di tradimento e spionaggio nella convinzione dell’esistenza di un com-plotto; la centralità delle confessioni per avviare la macchina processuale; l’esistenza di legami di conoscenza tra alcuni degli imputati da una parte e dall’altra dell’Atlantico. Nei fatti, il complotto che l’FBI andava disper-atamente cercando non esisteva. Vi era certamente una rete di spie sovi-etiche, probabilmente nemmeno troppo estesa, ma nulla più. Fu proprio l’impossibilità di scoprire l’inesistente complotto ad accentuare il clima di paura e incertezza.

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La stella di MacCarthy iniziò a brillare nel 1950. L’atomica sovietica e la vittoria di Mao avevano certamente generato apprensione nel paese e rafforzato la dottrina del contenimento dell’avanzata comunista, che avrebbe visto di lì a poco la sua prima applicazione in Corea. Il senatore del Wisconsin, dunque, non inventò il complotto comunista: c’erano già stati processi, alcuni dei quali almeno in parte fondati su reali casi di spionaggio, convocazioni, interrogatori con redazione di autentiche liste di proscrizione dal carattere decisamente persecutorio nei confronti di semplici simpatizzanti di idee di sinistra. MacCarthy, tuttavia, sfruttò meglio di tutti la disponibilità dell’opinione pubblica all’esasperazione e alla semplificazione. Le sue accuse facevano volentieri a meno delle prove ed erano spesso un misto di insinuazioni e retorica. Il suo stile arrogante e insolente, i suoi attacchi violenti contro chi permetteva che «i comunisti e le checche» corrompessero la nazione facevano presa sull’elettorato.

Il pugno di MacCarthy si accanì con particolare asprezza e determi-nazione sull’industria cinematografica. A suo parere Hollywood era un covo di traditori rossi. Era noto che tra gli iscritti al sindacato degli sceneg-giatori (Screen Writers Guild) erano molti a essere stati iscritti al partito comunista o ad aver manifestato simpatie per l’URSS negli anni Trenta e Quaranta – si tendeva però a dimenticare che durante la guerra al nazifas-cismo USA e URSS erano state nazioni alleate. In generale, un numero considerevole di registi, scrittori e attori erano liberals di orientamento democratico. Inizialmente l’industria cinematografica tentò di opporsi a in-iziative che, prevedibilmente, avrebbe limitato la libertà di cui i produttori avevano sempre beneficiato. Gran parte dei produttori non avevano alcuna intenzione di emarginare registi e sceneggiatori che avevano contribuito al successo di molti film di cassetta solo perché le loro convinzioni politiche risultavano sospette a certi fanatici anticomunisti di Washington.

Il cordone sanitario cedette presto. Già nel 1947 un’associazione con-servatrice, la Motion Picture Alliance for the Preservation of American Ideals, aveva iniziato a produrre una serie di denunce contro presunti agen-ti comunisti impiantati a Hollywood, accusandoli di essere veri e propri infiltrati in grado, dalla loro posizione privilegiata, di contagiare il grande pubblico che in buona fede frequentava le sale di proiezione. Era ormai chiaro che i produttori avrebbero dovuto prendere posizione apertamente. Il portavoce dell’associazione produttori, Eric Johnson, assicurò che Hol-lywood aveva respinto il tentativo di infiltrazione comunista.

La mossa non fu purtroppo ritenuta sufficiente. Nel mese di maggio

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del 1947 43 personaggi di spicco del mondo del cinema furono invitati a comparire davanti al delegato dalla Commissione per le Attività Antimeri-cane. Robert Taylor promise di non lavorare più con colleghi sospetti di comunismo. Gary Cooper affermò di aver già respinto offerte di interpre-tare film che gli erano parsi simpatizzare per idee comuniste. Robert Mont-gomery e il futuro presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan raccontarono di aver messo sull’avviso molti colleghi sulla presenza di sovversivi tra le loro fila. Parallelamente, tuttavia, molti registi e attori affermati aderirono al Comitato per il Primo Emendamento, fondato da John Houston e Wil-liam Wyler a sostegno del diritto a non essere perseguiti per le proprie opinioni e a non denunciare le opinioni dei conoscenti. Tra i nomi illustri presenti figuravano quelli di divi al culmine della popolarità, come Hum-phrey Bogart, Gregory Peck, Burt Lancaster, Frank Sinatra, Henry Fonda, Paulette Goddard, Katherine Hepburn, Ava Gardner, Lauren Bacall, Kirk Douglas, William Holden, Orson Welles, Groucho Marx e Judy Garland.

Quando gli investigatori cominciarono a interrogare alcuni profes-sionisti dalla cattiva reputazione, ovvero notoriamente di sinistra, il tono cambiò drasticamente. Lo sceneggiatore John Howard Lawson contestò la legittimità di domande riguardanti le convinzioni politiche dei testimoni e venne allontanato dal banco dei testimoni. Lawson fu incriminato per ol-traggio al Congresso insieme ad altri nove colleghi, tra i quali Lester Cole e Dalton Trumbo, i due sceneggiatori più pagati di Hollywood – che vennero subito licenziati dalla MGM. Tutti furono condannati.

Il 29 giugno 1948 il grand jury incriminò i dodici membri della direzi-one del Partito Comunista Americano. L’accusa di propugnare il rovescia-mento del governo era stata resa possibile da un’interpretazione particolar-mente severa dello Smith Act, una legge del 1940 che risentiva dell’entrata in guerra degli USA e «prevedeva l’incriminazione di chiunque avesse incitato o propagandato il rovesciamento violento delle istituzioni demo-cratiche e l’istigazione a disobbedire alle forze armate».1

Nel 1951 John Wayne fu eletto presidente della già citata Motion Pic-ture Alliance for the Preservation of American Ideals, cui aderirono anche Gary Cooper, Clark Gable e John Ford. L’associazione si accanì contro i colleghi ritenuti insinceri, ad esempio José Ferrer, Larry Parks e Gene Kelly, e contro pellicole dal retrogusto, secondo loro, comunista: era il caso di Morte di un commesso viaggiatore, tratto dal testo di Arthur Miller,

1. Flores, L’età del sospetto, pp. 172-173.

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prodotto da Stanley Kramer e interpretato da Frederic March. Molti attori e registi interrogati opposero iniziali resistenze, ma alla fine cedettero alle pressioni (nel caso di Sterling Hayden provenienti, pare, addirittura del suo psicoanalista). Molti ammisero di essere stati fuorviati dalla capacità persuasiva degli agenti comunisti e fecero quello che ci si aspettava da loro: chiesero perdono e fecero dei nomi. I registi Elia Kazan, Edward Dmytryk e Robert Rossen denunciarono rispettivamente 11, 18 e 57 col-leghi sospetti. L’attore Edward G. Robinson, che aveva difeso il suo diritto a mantenere l’amicizia con Dalton Trumbo, non capitolò fino in fondo: nell’aprile del 1952 ammise di essere stato usato dai militanti di sinistra, ma evitò di fare nomi.

Negli anni successivi, gli Stati Uniti superarono la fase più acuta del panico e si avviarono verso un nuovo periodo della propria storia – non certo priva di conflitti interni e contraddizioni, ma anche caratterizzata da una maggiore apertura alle istanze libertarie che esplosero negli anni ’60 del secolo. Gli effetti della Guerra Fredda furono viceversa ben più con-creti e duraturi in Europa.

Budapest 1949

L’11 maggio 1949 il cittadino statunitense Noel Field scomparve dal Palace Hotel di Praga, uno dei migliori della città, camere con vista sulla Moldava. Field aveva lavorato per il Dipartimento di Stato e alla sezione disarmo della Società delle Nazioni. Si era poi occupato dell’assistenza agli ex combattenti della guerra di Spagna e aveva diretto dal 1940 al 1947 la sezione marsigliese dell’Unitarian Service Committee, un’organizzazione statunitense che si occupava soprattutto delle vittime del fascismo. Negli ultimi tempi Field scriveva per vari giornali articoli dedicati all’Europa centrale e orientale.

Alcuni mesi prima il «New York Herald Tribune» aveva pubblicato il testo delle confessioni rese davanti al Comitato per le Attività Antiameri-cane da Whittaker Chambers, un giornalista che aveva militato nel partito comunista. Chambers accusava, tra gli altri, Field di essere un agente al soldo dei sovietici. Quest’ultimo, nel tentativo di uscire dal vespaio che si stava sollevando intorno a lui, andò involontariamente a ficcarsi in uno peggiore. Contattò il vice-ministro degli Esteri cecoslovacco Artur Lon-don ottenendo l’invito a recarsi a Praga in vista di un possibile incarico

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all’università. Field e London si erano conosciuti in Spagna negli anni della guerra civile; lì avevano avuto modo di incontrare László Rajk, fu-turo ministro del governo ungherese, lui pure arruolatosi per combattere il fronte franchista. Vedremo presto come questo sia un dettaglio essenziale.

Si scoprì presto che Field era stato prelevato dalla polizia ceca, che lo aveva consegnato ai colleghi ungheresi. L’entrata in scena dell’Ungheria nella vicenda aveva seguito un percorso complesso che è necessario rias-sumere. Nell’estate del 1948 l’ambasciatore ungherese in Svizzera aveva ricevuto le confidenze riservate di un connazionale emigrato che accusava nientemeno Tibor Szőny, potente capo dell’Ufficio centrale quadri, di es-sere al soldo della CIA. Ora, secondo il delatore, l’intermediario tra Szőny e i servizi segreti americani era stato proprio Noel Field. La macchina in-quisitoriale, evidentemente predisposta in anticipo, si mise subito in moto: una settimana dopo l’arresto di Field a Praga, a Budapest Tibor Szőny si ritrovò in manette. Nel breve volgere di un paio di settimane gli inter-rogatori portarono alla luce l’esistenza di una cellula di traditori all’interno del partito comunista ungherese. Centinaia di iscritti e dirigenti vennero arrestati. Gli sviluppi della clamorosa inchiesta portarono a individuare come vertice della cospirazione il ministro degli Esteri ed ex ministro dell’Interno László Rajk.

Rajk aveva combattuto in Spagna alla guida di un battaglione di vo-lontari magiari. L’atto d’accusa redatto in occasione del processo afferma che egli era già allora un infiltrato agli ordini della polizia segreta magiara. Nonostante l’Ungheria fosse retta al tempo da un governo di destra, l’attività spionistica e sobillatrice di Rajk vi era qualificata come trotzkista. Si al-ludeva implicitamente alla convinzione che il trotzkismo, lungi dall’essere solo una distorsione della corretta prassi marxista, era in realtà fin dalle origini una sorta di quinta colonna occulta del fascismo e del capitalismo. Rajk aveva poi passato tre anni in un campo di internamento francese. Rientrato in patria era diventato uno dei capi della resistenza – secondo l’accusa dissimulando il suo passato e recitando come in Spagna la parte del buon comunista. Nel 1944 era stato arrestato dalle Croci Uncinate, i nazisti locali che agivano d’intesa con la Gestapo. L’accusa non mancò di notare che egli beneficiò dell’intervento del fratello Endre, un notabile collaborazionista, e di dedurne che Rajk non poteva non aver praticato la delazione a favore dei tedeschi. Dopo la liberazione era entrato nel Polit-buro ed era stato nominato prima ministro dell’Interno – in tale veste aveva organizzato, tra l’altro, il processo al cardinale Mindzenty – e poi degli

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Esteri. Secondo gli inquirenti, però, Rajk agiva ora come spia degli ameri-cani e degli jugoslavi e soprattutto come coordinatore di un complotto che mirava a rovesciare il legittimo governo democratico e socialista.

Il quadro che emerse era il seguente: siccome si stava concretiz-zando la temuta possibilità che una parte dell’Europa venisse liberata e condizionata dai sovietici, la CIA, con la collaborazione tra gli altri del doppiogiochista Field, avrebbe ricevuto l’incarico di mettere in piedi una rete spionistica mirata a gestire la nuova situazione ingaggiando rifugiati politici provenienti dall’Europa centrale e orientale. Il racconto di Szőny è di notevole interesse per inquadrare le caratteristiche del complotto, così come era stato ricostruito durante gli interrogatori a porte chiuse.

Io ero allora il capo di un gruppo di rifugiati politici ungheresi che si era costi-tuito alla fine del 1942 o all’inizio del 1943 e che si chiamava Fronte Ungherese per l’Indipendenza. Questo gruppo si componeva di studenti, di intellettuali, di elementi politicamente indecisi che io indottrinai nel 1944, sotto l’influenza e l’organizzazione di Micha Lompar, in una prospettiva sciovinista e filoameri-cana. […] Sotto l’influenza politica di Lompar – fortemente ispirata alle teo-rie di Browder, vecchio dirigente del Partito Comunista Americano, teorie che Lompar e Field a quei tempi diffondevano in Svizzera e in Francia per ordine dei servizi segreti americani e per mezzo di un gran numero di volantini stam-pati in francese e in tedesco – il mio gruppo si era persuaso a infiltrarsi, dopo la guerra, all’interno del Partito Comunista e di indirizzarne la linea all’amicizia con gli USA.2

A Budapest si andava dunque fabbricando un modello di complotto i cui fili sarebbero stati manovrati insieme dagli USA e dal leader jugoslavo Tito, che nell’immediato dopoguerra aveva rotto con Stalin scegliendo una via di indipendenza che per il leader sovietico equivaleva al tradimento.

Il patto con il maresciallo Tito

Il processo Rajk non si limitò semplicemente a evocare il piano del Nemico, ma lo ricostruì – di fatto lo fabbricò – con estrema e maniacale

2. L’affaire Rajk. Compte rendu sténographiqie complet du procés, Paris, Editeurs Français Réunis, 1949, p. 215.

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precisione. Le confessioni degli imputati svelarono l’esistenza di un piano destabilizzante elaborato da Tito e dagli americani.

Tito ha indicato tre tappe verso il conseguimento dell’obiettivo finale. In primo luogo è necessario mobilitare i popoli della Jugoslavia contro l’Unione Sovi-etica. In un secondo momento si dovranno accrescere e riunire le forze anti-sovietiche all’interno delle democrazie popolari. Il terzo momento consisterà nello sfruttare le divergenze tra URSS e anglo-americani nelle questioni inter-nazionali, nei riguardi delle quali ci si schiererà con gli anglo-americani contro l’Unione Sovietica. […] Nel prossimo futuro Tito lancerà una campagna ener-gica contro il governo e i dirigenti ungheresi. Rákosi sarà accusato di revision-ismo. Si sosterrà che l’Ungheria si prepara a strappare alla Jugoslavia i territori abitati da ungheresi […] Seguiranno incidenti di frontiera la cui responsabilità sarà addossata all’Ungheria.3

Per comprendere quale fosse la posta politica in gioco è necessaria una breve digressione sulla crisi che si aprì tra l’URSS e la Jugoslavia subito dopo la seconda guerra mondiale. Il primo segnale che qualcosa non andava per il verso giusto fu, in vero, precoce: il 27 maggio 1945, in un discorso pronunciato a Lubiana, Tito affermò che la Jugoslavia non avrebbe accettato di fare da pedina di scambio nel gioco delle grandi po-tenze e non voleva sentire parlare di sfere di interesse. I sovietici non grad-irono e pretesero un chiarimento. A Stalin, va detto, era soprattutto sgradita la popolarità e l’alta reputazione di cui il leader jugoslavo godeva nelle democrazie popolari in costruzione. Ovunque si recasse in visita ufficiale, l’accoglienza da parte delle folle era festosa e il suo indubbio carisma ne usciva ogni volta rafforzato.

Il metodo sovietico, che aveva fino a quel momento funzionato, consisteva nel ricondurre gli stati vicini alla propria sfera d’influenza attraverso pressioni personali esercitate sui dirigenti. Con Tito non funzionò. La risposta fu la redazione di un dossier accusatorio che imputava agli jugoslavi l’ignoranza dei presupposti del marxismo, il vizio dell’ottusità nazionalistica e soprattutto il rifiuto del ruolo dell’URSS come forza guida nella lotta per l’affermazione del socialismo. Infine, avvicinandosi la rottura, alla riottosità jugoslava venne attribuito un genitore illustre: Trotzkij, l’arcinemico di Stalin. Nel dossier si applicava la logica che

3. Ivi, pp. 19-20.

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avrebbe sovrinteso ai processi che si stavano preparando: un’inquietante distorsione del passato al fine di dimostrare che chi non condivideva oggi le scelte politiche del Cremlino era stato da sempre un nemico.

Come era già avvenuto negli interrogatori delle presunte streghe, lo smascheramento del Patto con l’Avversario andava di pari passo con la sua costante ridefinizione. Il fatto che tale patto in termini schiettamente realis-tici non esistesse non ne impedì l’articolazione minuziosa, e maliziosa, da parte di coloro che erano incaricati di combatterlo con ogni mezzo.

L’udienza pubblica del processo a Rajk e ai suoi «complici» si aprì con la presentazione dell’imputato e la sua dichiarazione di colpevolezza relativamente a tutti i punti indicati nel capo d’accusa letto in precedenza. La prima parte dell’interrogatorio che seguì fu dedicata alla scrupolosa ricostruzione della sua biografia politica. Come si avrà modo di verificare, anche nelle memorie dei cecoslovacchi Loebl e London l’analisi della bi-ografia coincide con la ricerca delle tracce del patto con il Nemico, sia in termini di predisposizione personale sia, più esplicitamente, di contatti diretti con i rappresentanti dell’avversario. È questo un tratto comune con molti processi per eresia e stregoneria, nei quali i segni del patto erano ric-ercati sul corpo – se ne riparlerà – e nella biografia degli imputati.

Rajk dettagliò minuziosamente la sua storia e le sue attività di tradi-tore professionista. L’impressione che se ne ricava è che durante i lunghis-simi interrogatori a porte chiuse che avevano preceduto le sedute pubbliche debba essere accaduto qualcosa di simile a quello che si verificava nelle prigioni in cui venivano gettati e torchiati gli sciagurati accusati di stre-goneria e combutta con il Maligno. All’iniziale verità dell’imputato se ne opponeva un’altra, precostituita, alla quale gli accusati erano forzati a con-formarsi; ed era la natura stessa dell’indagine, alla ricerca di qualcosa di misterioso e sfuggente alla vista, che spingeva gli accusatori a pretendere descrizioni estremamente circostanziate di fatti che in realtà non avevano mai avuto luogo. A poco a poco prendeva allora forma una realtà alterna-tiva che si precisava e acquistava coerenza giorno dopo giorno, domanda dopo domanda.

Non bastò che Rajk confessasse di essere stato al servizio della CIA e di Tito; egli dovette anche spiegare nei particolari che Tito era in costanti e regolari rapporti con i servizi americani, al punto che la CIA usava la Jugo-slavia come via di transito per le sue spie dirette nelle democrazie popolari. In caso di bisogno c’erano perfino scambi di agenti. Uno di questi agenti era appunto Tibor Szőny, in busta paga per gli americani e da loro più volte

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«prestato» a Tito e ai suoi disegni.La verità da dimostrare era che Tito non era per nulla intenzionato a

costruire il socialismo in Jugoslavia; al contrario il suo scopo era scalzare l’URSS dal ruolo di nazione riferimento per i paesi dell’Europa centrale e orientale creando un asse privilegiato con gli USA. Il prestigio internazion-ale acquistato dagli jugoslavi grazie alla loro eroica lotta contro il nazismo sarebbe stato utilizzato come leva per formare delle alleanze dirette tra la Jugoslavia e le diverse democrazie popolari separando queste ultime dall’Unione Sovietica e, in ultima analisi, minando alle radici il processo di costruzione del socialismo. Szőny aveva dichiarato che Rajk gli aveva confidato l’esistenza di un piano per un colpo di stato e ordinato di prepa-rare un congresso del partito da tenersi immediatamente dopo il golpe con il fine di legittimarlo formalmente.

[…] il complotto volto a rovesciare il governo democratico popolare dell’Ungheria serviva naturalmente gli interessi di coloro che lo avevano elabo-rato e che ne erano stati gli istigatori. Questo piano era parte dei progetti comu-ni di USA e Jugoslavia. Il complotto e il colpo di stato militare rientravano nel piano che ho già avuto occasione di menzionare e di cui avevo sentito parlare da Rajk nell’estate del 1948 e poi all’inizio del 1949: il piano della Federazione Balcanica.4

Del grande complotto era parte costitutiva e strutturale anche il Piano Marshall. Secondo la deposizione di Rajk, esso era stato progettato per indebolire le economie delle democrazie popolari, accelerarne la crisi e fa-vorire il passaggio al campo avverso. L’intreccio del complotto ricostruito raggiunge la vertigine quando Rajk afferma che uno degli uomini sul cui impegno Tito più contava era il cardinale Mindszenty, arrestato e condan-nato proprio per ordine di Rajk mentre era ministro dell’Interno.

Il pentimento

Le ultime dichiarazioni rese dagli imputati prima della lettura del ver-detto sono di particolare rilevanza in quanto a esse si attribuiva un va-lore politico e pedagogico esemplare di cui era destinataria non soltanto

4. Ivi, p. 227.

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l’opinione pubblica interna, ma anche, forse in misura perfino maggiore, quella straniera. Al processo Rajk presenziava una delegazione di giornal-isti stranieri autorizzati, tra i quali gli italiani Ottavio Pastore e Luca Tre-visani del quotidiano del Partito Comunista L’Unità, che si fecero portav-oce della correttezza del processo e della veridicità delle sue conclusioni.

La confessione di Rajk contiene numerosi passaggi che sembrano voler riassumere e confermare le teorie ufficiali:

[…] è indiscutibile che in una certa misura io sono stato lo strumento di Tito, di quel Tito che ha seguito le orme di Hitler, che ha continuato la politica di Hitler nell’Europa orientale e nei Balcani e dietro il quale si nascondevano, in qualità di capi e registi, gli imperialisti americani. […] per questo dichiaro che qualunque sia il verdetto del Tribunale del Popolo io lo riterrò giusto.5

Un altro imputato dichiarò contrito di aver servito gli interessi del ne-mico del popolo ungherese:

Io mi pento sinceramente e profondamente di tutte le mie azioni criminali, i miei complotti, i miei comportamenti da traditore. È vero che le mie convin-zioni fasciste, la mia origine di classe, la mia educazione e il mio passato non potevano che spingermi per ipocrisia verso il partito comunista, da nemico, per dissimulare le mie vere intenzioni. Dopo il mio arresto, però, ho avuto modo di valutare su basi nuove la mia vita. E oggi sono in grado di giudicare ciò che ho fatto, vedo chiaramente quali conseguenze avrebbe comportato il successo dei complotti di cui ero parte: al posto di una costruzione pacifica ci sarebbe una sanguinosa guerra civile; al posto del miglioramento del livello di vita ci sarebbe la miseria che regna nei paesi “marshalizzati”; al posto della libertà dei lavoratori ci sarebbe il dominio oppressivo e disumano della borghesia tornata al potere; al posto dell’indipendenza lo sfruttamento economico e il controllo politico da parte degli Stati Uniti […]. Infine, al posto della pace e dell’avvenire socialista il popolo ungherese avrebbe fatto da carne da macello in una guerra antisovietica condotta dagli americani in vista dell’egemonia mondiale.6

Un profondo pentimento è al cuore della confessione finale di Tibor Szőny:

5. Ivi, p. 426.6. Confessione di Giörgy Pálffy, in Ivi, p. 427.

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Se sono stato sincero è perché mi sono pentito delle mie azioni criminose e ho riconosciuto la gravità della mia responsabilità. Ho potuto rivelare tutto on-estamente non solo perché mi sono allontanato dal mio passato criminale, ma anche perché sono tornato con disprezzo sui miei atti infami, contro i miei complici, i miei mandanti e coloro di cui servivo gli interessi, contro gli im-perialisti americani e i loro satelliti, l’abietta banda di Tito. Eccomi ora pieno di sincero pentimento e di profonda vergogna davanti al popolo ungherese, circondato da spie, traditori, provocatori e avventurieri, alla cricca dei quali ero appartenuto.7

L’incarceramento e gli interrogatori non erano serviti, pertanto, solo allo smascheramento del complotto, ma anche a ricondurre al Bene gli imputati che si erano venduti al Male. La confessione e il pentimento han-no riportato la pace nelle coscienze. Gli esiti processuali, di nuovo, sono straordinariamente simili a quelli dei processi contro coloro che nei secoli passati dovevano rispondere dell’accusa di essersi associati al Maligno, sia volontariamente, stringendo un patto con lui, sia propugnando magari in buona fede dottrine sospette di eresia. Uno dei più celebri è il caso di Gali-leo Galielei: dopo la lettura della condanna che colpiva alcune sue teorie, si inginocchiò e lesse un testo di abiura redatto in precedenza dagli inquisi-tori «in cui gli veniva dato modo di confessare di aver sempre creduto a quanto la Chiesa considerava vero».8

L’arringa dell’accusa ha così riassunto le caratteristiche del complotto di Tito:

Questo processo ha un’importanza internazionale. Accusati in questo banco degli imputati non sono solo Rajk e i suoi complici, ma i loro padroni stranieri, gli istigatori imperialisti di Belgrado e Washington […]. Il complotto in Ungh-eria, preparato da Tito e dalla sua banda per essere attuato dalla rete spionistica di Rajk, non può essere compreso fuori dal contesto dei piani internazionali dell’imperialismo americano.9

Il 24 settembre 1949 il tribunale del popolo condannò Rajk e Szőny alla pena capitale. Uno dei torturatori di Rajk, il colonnello László Angyal, si

7. Ivi, pp. 431-432.8. Hans-Werner Schütt, Il processo a Galileo, in Processare il nemico, a cura di Ale-

xander Demandt, Torino, Einaudi, 1996, pp. 61-80, p. 75.9. Citato in Flores, L’età del sospetto, p. 98.

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suicidò mentre l’indagine era in corso. Non aveva sopportato l’accanimento contro un imputato della cui innocenza si era ormai persuaso. Il colonnello Szücs, responsabile e coordinatore dell’arresto di Noel Field, fu a sua volta incarcerato e impiccato come spia nel 1952.

I processi di Praga

A Praga pochi avrebbero previsto che la consegna di Noel Field agli ungheresi si sarebbe rivelata non un positivo atto di collaborazione con un paese amico, ma il punto di avvio di un processo ancor più lungo e crudele di quello di Budapest.

Colpiti da quello che stava succedendo a poche centinaia di chilome-tri, i due massimi leader della nuova Cecoslovacchia, il presidente della repubblica Gottwald e il segretario del partito comunista Slánsky, avevano deciso di istituire una commissione mista del partito e della polizia. Il fatto che più aveva inquietato la dirigenza praghese era stato l’interrogatorio a Budapest di Gejza Pavlík, un intellettuale slovacco di sicura fede comu-nista e che aveva addirittura militato nelle fila dell’Armata Rossa. Tibor Szőny lo aveva indicato come un membro della banda trozkista organiz-zata da Field. Pavlík aveva fatto i nomi di alcuni trotzkisti cecoslovacchi, tra i quali figuravano due diretti collaboratori di Gottwald, precisamente il direttore dell’organo di partito Rudé Pravo e il viceministro del Com-mercio Estero Evzen Loebl. Rientrato in patria Pavlík aveva ritrattato le sue accuse dichiarando che erano state estorte con la tortura, ma Gottwald e Slánsky non si fidavano e ordinarono nuovi interrogatori.

Tre mesi di pressioni e privazioni convinsero infine Pavlík a riman-giarsi la ritrattazione. Stava per cominciare un’ecatombe, ma nemmeno gli osservatori più fantasiosi immaginavano che in un clamoroso crescendo epidemico essa sarebbe arrivata a travolgere lo stesso Slánsky. Come si vedrà meglio fra poco, mentre la catena di processi, confessioni e intrighi si prolungava più del previsto, su indicazioni di Mosca un nuovo scenario andava prendendo forma: un complotto sionista ordito dall’ebreo Rudolf Slánsky di concerto con l’Avversario capitalista. Il 4 dicembre 1952 Slán-sky e dieci complici furono impiccati. Altri imputati salvarono la pelle, ma subirono pesanti condanne. Due di loro, London e Loebl, hanno successi-vamente lasciato importanti testimonianze scritte della loro esperienza.

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Le memorie di London e Loebl

Nato nel 1915, Artur London aderì precocemente al movimento social-ista. Nel 1936 si arruolò nelle Brigate internazionali e partì per la Spagna per combattere al fianco dei repubblicani. In seguito alla vittoria delle trup-pe di Franco riparò in Francia e militò nella Resistenza come membro del partito comunista francese. Nel 1942 venne arrestato dai nazisti e deportato a Mathausen, dove riuscì a sopravvivere nascondendo le sue origini ebra-iche. Rientrato in patria raggiunse presto i vertici del partito. Coinvolto nel processo Slánsky, fu incarcerato il 28 gennaio 1951 mentre ricopriva la carica di viceministro degli Esteri.

Prima dell’arresto, reso inquieto da pedinamenti e controlli, e dalla sensazione che stessero per arrivare guai seri, London confidò il proprio turbamento alla moglie Lise.

La sua fede nell’ideale è pura, e totale la sua fiducia nel partito e nell’Unione Sovietica. Per lei, i grandi principi della vita militante si enunciano semplice-mente: «chi comincia a dubitare del partito cessa di essere comunista»; «la verità finisce sempre con il trionfare». Ha la ferrea convinzione che i nostri guai finiranno presto. Mi dice spesso: «che dobbiamo temere dal momento che abbiamo la coscienza pulita?».10

Si percepisce in queste parole l’ingenuità dei militanti fedeli. L’illusione era destinata a finire nel giro di pochi giorni. Nel corso del primo inter-rogatorio si palesò ai suoi occhi la portata di ciò che stava avvenendo, la dimensione del gioco in cui si era trovato invischiato – e, del tutto inaspet-tatamente, dalla parte sbagliata.

Una voce con un forte accento ucraino, o russo, dice: «Lei non è il solo ar-restato. Con lei altre persone autorevoli sono implicate in questo affare. Non deve contare sull’aiuto di nessuno. Da molto tempo lei milita nel partito, e io le chiedo di collaborare con l’Unione Sovietica e con il nostro partito. […]. Da quando e dove lei si è messo in contatto con i servizi segreti americani diretti da Allen Dulles, da chi e dove è stato arruolato? E con quali persone ha col-laborato?». Sono come folgorato. Non mi hanno portato qui per fare luce su qualcosa. Non solo mi accusano, mi considerano già colpevole!11

10. Artur London, London, La confessione, Milano, Garzanti, 1969, p. 17.11. Ivi, pp. 28-29.Ivi, pp. 28-29.

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Da quel momento London cominciò a essere vittima di vessazioni e privazioni, comprese aggressioni verbali antisemite: «[...] il partito vi ripu-dia come bestie velenose!».12 Nella ricostruzione fittizia degli inquirenti un incontro tra vecchi amici veterani delle Brigate internazionali di Spagna venne trasformato in una riunione segreta di cospiratori trotzkisti. Si riconosce un’impostazione comune con quanto era da poco avvenuto in Ungheria. Al processo Rajk, il principale accusato, a sua volta volontario nelle Brigate internazionali, aveva ammesso che la maggior parte dei vo-lontari aveva subito l’influenza trotzkista dei militanti jugoslavi. Che Lon-don avesse conosciuto Rajk in Spagna era cosa nota e fu spietatamente usata contro di lui. Le conclusioni del processo Rajk gli cadevano sul capo come colpi di accetta.

Gli inquirenti lo accusarono di essere stato iniziato al trotzkismo ad-dirittura durante il soggiorno a Mosca nel 1934. Affermarono che la direzi-one del PC francese era infiltrata di cospiratori, di nemici del socialismo. E lui, Artur London, comunista di provata fede, che per il partito aveva in molte occasione rischiato la vita e che per il partito avrebbe dato la vita, era ora trasformato in una specie di burattinaio della congiura capitalista. Non ci poteva essere incubo peggiore. Negli stessi mesi, altri dirigenti del partito vivevano il medesimo dramma. Uno di loro era Evzen Loebl.

Come viceministro del Commercio Estero Loebl aveva visitato gli USA nel 1949. Si trattava per lui di un onore e di un onere, certo era lontano dal sospettare che il viaggio sarebbe stato interpretato come una sorta di contagio maligno. La missione doveva verificare la possibilità di migliorare le relazioni tra gli USA e la Cecoslovacchia comunista. Loebl aveva già trattato con gli anglo-americani ai tempi della resistenza. La sua famigliarità diplomatica incoraggiò un contatto di tipo commerciale: un consorzio intenzionato ad avviare attività di import-export con l’Europa centro-orientale gli offrì perfino un posto importante all’interno dell’organizzazione. Questo accadeva perché la missione diplomatica cecoslovacca era vista come l’occasione di un miglioramento delle relazioni bilaterali, il che per i nordamericani significa sempre opportunità di affari. Pur onorato, Loebl rifiutò la proposta: «[…] accettare un’offerta che non fosse venuta dal mio governo e dal partito avrebbe significato vendermi per denaro e abbandonare gli ideali socialisti che erano la mia ragione di

12. Ivi, p. 49.Ivi, p. 49.

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vita».13

Il suo idealismo e la sua fedeltà al partito, purtroppo, non lo avrebbero messo al riparo dalle inchieste che si stavano preparando; anzi, il nudo fatto di aver gestito i contatti commerciali con gli americani sarebbe diven-tato il pretesto per accusarlo di aver stretto il patto diabolico con il nemico capitalista. Appena rientrato a Praga, Loebl fu convocato da Gottwald. In realtà, a voler conferire con lui non era il presidente, ma Bedrich Gemind-er, l’eminenza grigia della politica cecoslovacca (la definizione è di Loebl medesimo) e più di ogni altro portavoce delle direttive moscovite – e che sarebbe stato lui stesso travolto dal processo, nella sua seconda fase. Stalin, ancora scottato dalla rottura con Tito, non apprezzava per nulla il miglio-ramento delle relazioni con gli USA, che rappresentavano ai suoi occhi un preoccupante segnale di autonomia da parte della dirigenza cecoslovacca.

Nella sua ricostruzione, di venticinque anni posteriore agli eventi nar-rati – e che quindi potrebbe risentire di una ridondanza di difesa del proprio operato e della propria figura in generale –, Loebl afferma di aver intuito che l’atteggiamento di Geminder stava aprendo scenari pericolosi. L’uomo di Mosca cambiava la propria linea adeguandosi alle modifiche della linea ufficiale sovietica, mentre Gottwald e Loebl difendevano il diritto della na-zione a perseguire una sua politica e ribadivano che l’amicizia con Mosca non significava delegare in toto le decisioni politiche. In particolare, Got-twald avrebbe proferito parole dure verso il leader sovietico e affermato ad alta voce, visibilmente innervosito, che il capo dello stato cecoslovac-co era ancora lui e non Stalin. In ogni caso, che si tratti di un racconto fedele o di una ricostruzione a posteriori (un dilemma presente in molte fonti storiche), è un dato di fatto che a Mosca erano cominciate le grandi manovre che miravano a esportare nei paesi amici lo stile di gestione del potere sperimentato in URSS già negli anni Trenta. Il metodo consisteva, appunto, nella periodica messa sotto accusa di dirigenti del partito che veni-vano trasformati dagli zelanti servitori del comunismo che erano in infidi congiurati che indossavano una maschera benevola per meglio perseguire i propri infami disegni. Si tratta, vale la pena ricordarlo, di un’immagine simile a quella che alcuni secoli prima i predicatori usavano costruire in-torno agli eretici e ai presunti affiliati del Maligno.

Non era trascorso molto tempo dall’arresto quando Karel Svab, il re-sponsabile della Sicurezza, fece in modo di incontrare Loebl. Gli si rivolse

13. Eugen Loebl, Eugen Loebl, Le procés de l’aveu, Paris, France Empire, 1977, p. 21.

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in tono amichevole e si dilungò sulle minacce portate dall’imperialismo americano e sui pericoli di infiltrazioni nel partito di agenti prezzolati mascherati da bravi compagni. Il discorso rimase vago e generale, ma era chiaro a entrambi che Svab alludeva alle notizie inquietanti che giungevano dall’Ungheria, dove dei membri del Politburo avevano appena confessato di essere stati prima informatori della Gestapo e poi agenti della CIA.

Dopo il tentativo di Tito di dividere il movimento socialista mondiale, continuò Svab, bisognava comprendere che ogni membro del partito doveva essere vig-ile e rivelare tutto ciò che veniva a sapere alle autorità appropriate […]. La mia prima impressione fu di dedurne che il partito richiedeva il mio aiuto per smascherare le spie anglo-americane. Ma due o tre allusioni mi fecero pensare che c’era dell’altro […]. Voleva che redigessi una storia della mia vita e questa autobiografia doveva essere assolutamente sincera. Dovevo rendermi conto che tutto dipendeva dalla franchezza delle mie dichiarazioni […]. Compresi allora quello che non era stato detto: ero sospettato, forse addirittura in stato d’arresto, senza dubbio in seguito a una denuncia.14

La situazione stava precipitando. Loebl si trovava improvvisamente e imprevedibilmente nella condizione schizofrenica, comune a molti indagati nella prima fase dell’inchiesta: da un lato manteneva il suo lavoro al ministero come se nulla fosse accaduto, dall’altro era stato privato del passaporto e gli era stato vietato di allontanarsi da Praga senza autorizzazione. L’accusa si precisò presto, vale a dire quando il viceministro del Commercio Estero fu formalmente dichiarato in stato d’arresto e divenne il detenuto 1473. Fino a quel momento Loebl pare essere stato all’oscuro non soltanto dell’accusa di essere un trotzkista occulto, ma anche del fatto che Slánsky, sulla scia del processo di Budapest, aveva deciso di avviare un’inchiesta volta a verificare l’esistenza in Cecoslovacchia di infiltrazioni all’interno del partito. Ciò suona strano, ma non inverosimile: in effetti una caratteristica della fase pre-processuale di questo genere di inchieste è proprio il non riuscire a discernere con chiarezza chi sa, chi non sa e cosa sa chi sa. La ragione di tanta nebulosità è che le accuse erano quasi sempre precostituite solo a livello di bozza e si andavano precisando strada facendo sulla base sia dei contenuti delle dichiarazioni rese in interrogatorio sia degli indirizzi provenienti dal Cremlino, anch’essi in evoluzione. Lo sconcerto di Loebl

14. Ivi, pp. 42-43.Ivi, pp. 42-43.

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di fronte all’aleatorietà sia della sua condizione che delle accuse mossegli è palpabile: «I miei crimini cambiavano di natura settimana dopo settimana. All’inizio li avevo commessi come agente di Tito, poi come sionista, poi come borghese nazionalista slovacco, infine come spia al servizio dell’imperialismo anglo-americano».15

Il primo interrogatorio, condotto dal referent Vladimir Kohutek, non si aprì con una domanda, ma con un’affermazione diretta e sferzante come una frustata: «Loebl, lei è un traditore. Loebl la smetta di mentire».16 Se avesse confessato e denunciato i complici il partito sarebbe stato clemente. Loebl chiese allora di conoscere le imputazioni a suo carico. «Non creda che ci beviamo le sue astuzie da ebreo» ribatté il referente. «Lei vorrebbe sapere quello che noi già sappiamo per essere in grado di tenerci nascosto quello che ignoriamo. Le nostre istruzioni prevedono che non le sia fornita alcuna informazione. Tocca a lei rivelarci i suoi crimini».17

Loebl protestò la propria innocenza e dichiarò di non voler collaborare se non dopo essere stato messo a conoscenza delle prove raccolte contro di lui. Kohutek, pacatamente e freddamente, ribadì l’agghiacciante evidenza che l’imputato si rifiutava di accettare: «Tutti qui dentro sono colpevoli. Noi non arrestiamo gli innocenti. Noi sappiamo che lei è un traditore, una spia e un sabotatore. Se non avessimo le prove lei sarebbe ancora vicemin-istro […]. Lasci che le dia un consiglio da amico: confessi. Confessi tutto». Poiché Loebl perseverava nel mutismo Kohutek affermò un concetto fon-damentale: «le prove in possesso dell’accusa sono scritte nella sua vita; tutta la sua vita è un atto di accusa. […] posso dimostrare che tutta la sua vita l’ha plasmata, ha fatto di lei un traditore del partito e della patria».18

Eccoci giunti a un punto nodale che ritroveremo spesso, anche dis-cutendo dei processi per stregoneria ed eresia. La biografia dell’imputato implica il patto con il Nemico. L’imputato ha avuto ripetuti contatti con agenti di paesi capitalisti – poco importa se a suo tempo autorizzati dal partito; proviene da una famiglia ebrea e borghese, dove fin dall’infanzia ha imparato a sfruttare la classe operaia – si era perfino iscritto all’istituto tecnico per acquisire una competenza professionale qualificata a dirigere gli operai; ha un fratello rifugiato in Israele – e se appartiene a una famiglia

15. Ivi, p. 176.Ivi, p. 176.16. Ivi, p. 61.Ivi, p. 61.17. Ivi, p. 62.Ivi, p. 62.18. Ivi, p. 64.Ivi, p. 64.

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sionista non può che essere lui stesso un imperialista sionista («La verità, Loebl, è che lei appartiene a una famiglia sionista ed è lei stesso un imperi-alista sionista!»19); l’imputato ha studiato a Vienna («In altre parole, il vero scopo della sua vita era restare un capitalista improduttivo legato all’alta finanza e mantenuto dal lavoro altrui»20); si recava spesso in Austria con il pretesto che vi vivevano i suoceri; durante la guerra, mentre i connazionali soffrivano l’occupazione nazista, aveva viaggiato da Varsavia a Londra a spese del comitato britannico per i rifugiati. Lo scambio di battute tra Loebl e il referente riguardo quest’ultima accusa illustra bene le frustrante tecnica di conduzione dell’interrogatorio.

«Lei ha lasciato la sua terra natale e lasciato gli altri a soffrire e a combattere i nazisti mentre lei viveva in modo confortevole con i soldi pagati dal governo britannico».«Il mio viaggio da Varsavia a Londra è stato pagato dal Comitato britannico per i Rifugiati. Al mio arrivo ho ricevuto un aiuto da una Cassa di credito per i rifugiati cecoslovacchi fino a che non ho trovato un lavoro».«In altri termini, lei ammette di aver ricevuto denaro dagli inglesi. Dunque lei è un agente degli inglesi».Io feci notare che il Comitato britannico aiutava tutti i rifugiati che fuggivano i nazisti a condizione che fossero in grado di provare di essere degli anti-fas-cisti.«Questo Comitato e la Cassa di credito erano solo coperture per il reclutamento delle spie».21

I segni che svelavano il tradimento erano fin troppo abbondanti. Non c’era che una soluzione: ammettere di essersi infiltrato nel partito comu-nista per fare gli interessi del capitalismo sionista. È solo a questo punto che Kohutek fa per la prima volta riferimento a una testimonianza precisa contro Loebl: Field aveva confessato che Loebl era uno degli agenti da lui reclutati.

Nel corso di un successivo interrogatorio Loebl scrive di aver reagito all’incalzare delle domande proclamando che il ricorso alle privazioni e alla tortura era indegno di chi lottava per costruire il socialismo. In risposta si sentì dire le sue obiezioni non dimostravano altro che la sua appartenenza

19. Ivi, p. 65.Ivi, p. 65.20. Ibidem.21. Ivi, p. 70.Ivi, p. 70.

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alla piccola borghesia liberale. Non poteva né doveva esserci pietà alcuna per i sabotatori, i traditori e le spie: l’importante era che rivelassero i nomi dei complici e dei loro capi. Non c’era spazio per il sentimentalismo: tra socialismo e capitalismo era in atto una guerra all’ultimo sangue. Le pa-role del referente sembrano quasi riecheggiare il manuale dell’inquisitore Nicolau Eymeric.

Rievocando la figura di Kohutek, Loebl riconosce che costui «era sin-ceramente convinto di servire il partito scoprendone i nemici. Se forse non era del tutto convinto della realtà dei crimini che mi chiedeva di confes-sare, nondimeno non dubitava della mia qualità di nemico politico». Egli credeva veramente all’esistenza di una gigantesca cospirazione imperialis-ta e capitalista ordita dagli anglo-americani sostenuti dai sionisti, ed era il suo preciso dovere fare del suo meglio per proteggere il socialismo dalla minaccia che incombeva su di esso.

Biografie stravolte

La lettura degli atti dell’interrogatorio di una presunta strega condan-nata a morte nel 1697, Caterina Ross di Poschiavo, colpisce per la reit-erazione una seduta dopo l’altra di una serie di domande riguardanti la biografia dell’imputata. Gli inquirenti erano chiaramente alla ricerca di una conferma del fatto che la donna era in qualche modo segnata dalla nascita e portatrice di una pericolosa tara ereditaria che la predisponeva al male. Tale procedura si incontra spesso nei processi inquisitoriali e, di nuovo, riappare negli interrogatori a porte chiuse condotti nelle fasi preliminari dei processi staliniani. In entrambi i casi l’ossessiva ricerca della verità nasconde il bisogno di una ricostruzione quanto più precisa possibile dei crimini oggetto del dibattimento e, soprattutto, delle loro radici nelle bi-ografie degli imputati. Il complotto degli agenti del Male era per definiz-ione ramificato, inafferrabile, la posta in gioco altissima.

Riguardo alle biografie reali degli imputati, le affinità tra i due tipi di processi non impediscono di osservare un’importante differenza. Nei processi staliniani l’accusato era un fedele assoluto del partito, mentre la «strega» si professava buona cristiana, ma non era certo una militante. In entrambe le situazioni, tuttavia, gli inquirenti si dimostrarono abili nel gio-care su oscuri sensi di colpa. Nel caso della presunta strega essi si fonda-vano sulla sua appartenenza alla comunità cristiana e sulla sua soggezione

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psicologica e culturale nei confronti dei giudici; il senso di colpa del mili-tante era sollecitato da tutte le mancanze che inficiavano la rappresentazi-one interiore del Militante Ideale – per esempio, origine di classe tenuta nascosta, infedeltà coniugali, deviazioni giovanili rispetto alla linea attuale del partito. L’imputato era da parte sua abituato alla pratica dell’autocritica, che assomigliava più alla confessione di un peccato che all’analisi di un errore. La revisione critica, infine, non poteva riguardare un singolo er-rore, ma l’intera vita dell’imputato. Artur London lo scoprì ben presto a sue spese.

Dopo due ore di interrogatorio, tutt’a un tratto, il referent mi dice: «Mi parli del suo passato, del suo lavoro di un tempo nell’organizzazione giovanile. Insomma mi racconti la sua biografia». Sulle prime rimango sorpreso […]. Scoprirò che si tratta di una nuova tattica, una specie di travestimento e di caricatura del metodo di controllo usato dai responsabili dei quadri di partito; consiste nel provocare la ripetizione del racconto di un periodo contestato per scoprire, tramite confronti, le eventuali alterazioni della verità.22

Nella sua posizione di inquisito, London colse solo una componen-te dell’insistenza sulla biografia da parte del referent. Il confronto con analoghe indicazioni provenienti da altri processi, compresi in un arco cronologico vastissimo che va dal 1450 al 1950, ci aiuta a capire che la ricostruzione biografica serviva anche e soprattutto a individuare nel pas-sato dell’accusato le premesse genetiche, sociali ed esistenziali del tradi-mento. Si trattava, quindi, di portare alla luce una predisposizione origi-naria al male, un’attitudine spesso, e forse preferibilmente, interpretata come irrisolvibile e inevitabile. In tal modo la comunità o, in questo caso, il partito potevano continuare a specchiarsi in una superficie lucida e pura. Se infatti il traditore era sempre stato tale ed era entrato nell’organizzazione tramando fin dal principio il sabotaggio, il partito non era chiamato a met-tere in discussione la propria natura politica e morale, ma solo chiamato a vigilare contro i subdoli agenti del Nemico.

Risulta evidente che in ogni biografia personale si sarebbero potuti estrapolare dettagli che fungevano da omologhi del marchio di Satana, indizi che smascheravano l’irriducibilità dell’imputato al bene rappresentato dal partito. London non faceva eccezione. Suo padre, figlio di un impiegato

22. London, London, La confessione, p.189.

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delle ferrovie della Moravia, era emigrato prima in Svizzera e poi negli Stati Uniti d’America – luoghi di esposizione al contagio capitalista. Nella confederazione Elvetica aveva frequentato gli ambienti anarchici pur non condividendo, si sforzò di precisare London, l’ideologia fondamentale dell’anarchismo.

Tra anarchici e marxisti non correva notoriamente buon sangue. Le radici ideologiche famigliari di London non andavano nella direzione giusta. Malgrado il padre, rientrato in Europa per arruolarsi e combattere per il paese d’origine, avesse sul fronte russo simpatizzato con prigionieri bolscevichi e fosse poi stato fra i primi iscritti alla sede del partito comunista di Ostrava, nella sua storia personale permaneva un vizio d’origine che, nel 1951, finì per pesare sulle sorti del figlio. Su London gravavano comunque ben altre premesse negative, ovvero i suoi lunghi soggiorni all’estero, che ormai significavano una sola cosa: opportunità di venire a contatto con il germe corrotto del complotto capitalista. Come è tristemente noto, non vanno infine trascurate le origini ebraiche sue e di molti altri imputati: a Mosca nel frattempo era stata infatti stabilita un’equivalenza tra ebraismo tout court e sionismo – e i sionisti militavano ormai nel campo avverso.

Fino alla fine la qualifica di sionista rimarrà appioppata a uomini e donne che non hanno mai avuto niente in comune con il sionismo […]. In seguito la cosa degenererà in una specie di caccia alle streghe. Si moltiplicheranno i provvedi-menti di discriminazione contro gli ebrei con il pretesto che sono estranei alla nazione cecoslovacca, in quanto cosmopoliti e sionisti, e dunque compromessi con loschi traffici o con lo spionaggio. Nei primi tempi i referenti facevano a gara nel mostrarsi l’uno più antisemita dell’altro. Un giorno replico a uno di loro che, anche se vogliono giudicare me da questo punto di vista, non vedo come possano fare altrettanto con il gruppo dei vecchi volontari fra i quali, a parte Valeš e me, non ci sono ebrei. Mi risponde con la più grande serietà: «Lei dimentica le loro mogli. Sono tutte ebree e il risultato è lo stesso».23

Di fronte all’assurdo

London aveva naturalmente ragione nel sottolineare la componente vessatoria insita nelle reiterate richieste da parte dei referenti di tornare

23. Ivi, p. 211.Ivi, p. 211.

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sulle sue esperienze passate. Un diverso e più profondo obiettivo viene però intuito in un secondo momento: è lo smarrimento del senso della pro-pria vita. «Finisco per detestarmi, per detestare il mio passato e tutto ciò che fa parte della mia vita; perché, rievocandola senza tregua, qui, di fronte a questi individui ottusi […] mi sento vilipeso come se mi sputassero in faccia».24

Il referente assegnato a ogni inquisito era un membro del partito in-caricato di consigliare l’accusato in modo da persuaderlo a rendere una confessione piena e completa. Il referente, insomma, svolgeva una fun-zione non troppo dissimile da quella del vicario vescovile che esortava il presunto eretico ad ammettere le proprie colpe al fine di essere riammesso in seno alla Chiesa.

Gli inquirenti ricorrevano al binomio fede-senso di colpa come leva per indurre gli accusati alla confessione. Le pressioni indebolivano la re-sistenza psicologica, ma il crollo era determinato da altro, in primo luogo dal trovarsi in contraddizione con il partito, vale a dire lo scopo della vita della persona accusata. Loebl testimonia come il suo cedimento psicolog-ico sia cominciato proprio con l’insinuarsi del senso di colpa all’interno della sua, giuridicamente fondata, persuasione d’innocenza.

Più ci pensavo più ero pronto a riconoscere le mie debolezze, soprattutto i miei precedenti sospetti in materia di classe sociale. Nato in una famiglia borghese, io non appartenevo alla classe operaia. I miei rapporti con la classe operaia, dunque, non erano quelli di un operaio. Come viceministro del Commercio estero conducevo una vita relativamente agiata. Avevo una macchina e abitavo in un appartamento spazioso; vivevo così bene che avvertivo quasi un senso di colpa. La concezione che avevo dei miei legami con la causa della classe operaia non era spontanea, bensì intellettuale. […] io simpatizzavo con essa, avevo votato la mia vita alla sua causa, ma appartenevo all’intelligentsia, alla classe media istruita. […] Come molti altri intellettuali della classe media mi sentivo colpevole per il mio passato. Mi sembrava di dover espiare per la mia vita privilegiata, per non essere nato operaio.25

In tali condizioni l’imputato cadeva in una stato di avvilimento e prostrazione che lo annientava psicologicamente. L’esito ultimo è la totale perdita del senso della propria esistenza passata e presente. Sia Loebl che

24. Ivi, p. 204.Ivi, p. 204.25. Loebl, Loebl, Le procés de l’aveu, pp. 76-77.

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Slánsky, e non furono i soli, tentarono il suicidio in cella. «Tutto diventa improvvisamente meschinità, corruzione, vigliaccheria»

scrive London «Tutto è capovolto. Tutto il bene è ascritto al male».26 È il momento, per gli inquirenti di assestare il colpo finale all’imputato smarrito: «Crede che se fosse davvero tutto falso come lei dice, il partito avrebbe ordinato il suo arresto?».27 London era distrutto. La sua intenzione era aiutare il partito, si è trovato invece rinchiuso, concretamente e psicologicamente, in una gabbia. Ogni sua parola era interpretata in modo tendenzioso per potere essere ricondotta all’impianto accusatorio prefabbricato. Gli amici lo avevano denunciato, avevano confessato il falso. Com’era stato possibile? Ecco come descrive la condizione dell’imputato nelle mani della polizia politica:

La ragione vi sfugge. Voi siete ormai un oggetto impotente, alla loro mercé. Vi sentite disperatamente soli, abbandonati da tutti: dal partito, dagli amici, dai compagni. Sapete di non poter sperare aiuto da nessuno; tutti, fuori, – perfino la vostra stessa famiglia – sospettano che siate colpevole, poiché è stato il par-tito a decidere il vostro arresto. Lo so per esperienza. Anch’io ho reagito allo stesso modo quando si sono tenuti i processi di Mosca, quelli di Budapest e di Sofia.28

Loebl descrive il medesimo stato di prostrazione e scoramento.

Mi sentivo diventare schizofrenico, con due personalità in conflitto. Una diceva che questa lotta, questa resistenza, non aveva senso. […] L’altro personaggio parlava di principi. Non dovevo abbandonare i miei ideali. Per molto tempo il marxismo era stato il mio sostegno nelle prove più difficili. Confessare di aver tradito i miei ideali marxisti era troppo aberrante.29

Inevitabile, infine, arrivava il crollo: il prigioniero confessava. Non si trattava tanto di evitare la condanna a morte, quanto di farla finita con il tormento dell’incertezza, della lacerazione interiore – e certamente anche delle privazioni. Un giorno un funzionario entrò nella cella di London e gli presentò la sua confessione, già predisposta, in cui ammetteva di essere

26. London, London, La confessione, p. 54.27. Ivi, p. 55.Ivi, p. 55.28. Ivi, p. 57.Ivi, p. 57.29. Loebl, Loebl, Le procés de l’aveu, pp. 157-158.

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stato corrotto dagli americani e una serie di altre attività cospiratorie. La firmò.

La diffusione del contagio

Come era avvenuto anche nei processi per stregoneria, le prime confessioni servirono da leva per rilanciare la necessità di ulteriori approfondimenti. Come nei processi per stregoneria, durante gli interrogatori a membri devianti del partito comunista il teorema accusatorio non era fisso, ma flessibile, soggetto a modifiche in corso d’opera. London si confessò colpevole delle prime imputazioni illudendosi di alleviare i propri tormenti; ben presto fu costretto a rendersi conto che le sue speranze erano mal riposte.

Come ho potuto essere così ingenuo da credere per un solo istante che i referen-ti si sarebbero accontentati della mia confessione di colpevolezza riguardante il gruppo trotzkista dei vecchi volontari e i miei contatti con Field? Credevo che questa confessione sarebbe stata sufficiente per farmi un processo. Adesso so che è servita solo da trampolino per proiettarmi ancora più lontano!30

Quanto lontano stesse arrivando l’inchiesta, London non lo immagi-nava. Il vertice del complotto era stato nel frattempo identificato addirit-tura nel segretario del partito in persona, Rudolf Slánsky – le cui origini ebraiche lo rendevano un bersaglio nel contesto della campagna staliniana contro il sionismo. Il contagio aveva raggiunto i vertici del partito, ora la terapia chirurgica doveva fare lo stesso.

Tratto agli arresti, questi aveva ovviamente opposto strenue resistenze alle accuse sempre più enormi che gli venivano mosse. La situazione si sbloccò solo quando fu paradossalmente invitato a dare un’estrema prova di fedeltà al partito che si presumeva avesse vilmente tradito. L’ex segre-tario generale comprese che tutto era deciso e accettò, proprio per il bene del partito, di confermare tutte le accuse preconfezionate che gli venivano mosse.

Nella sua deposizione si legge:

30. London, London, La confessione, pp. 206-207.

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«Abbiamo ostacolato lo sviluppo del commercio estero con l’Unione Sovietica, importando, per esempio, macchinari e attrezzature dagli stati capitalisti, benché le stesse macchine e attrezzature venissero fabbricate anche nell’Unione Sovietica, dove potevano essere acquistate a prezzi più convenienti. Abbiamo rifiutato un gran numero di commesse sovietiche col pretesto che l’industria cecoslovacca non fabbricava i prodotti richiesti, mentre in realtà essa li fabbricava. In altri casi, abbiamo frenato il commercio con l’Unione Sovietica imponendo alti prezzi fiscali intenzionalmente, oppure accettando gli ordinativi sovietici solo in parte col falso pretesto che la capacità degli stabilimenti interessati non era sufficiente; inoltre non abbiamo rispettato le scadenze di consegna».31

Nell’atto d’accusa letto dal pubblico ministero ritornano ossessiva-mente sul complotto segreto dei falsi comunisti:

«La perfidia del pericoloso attacco alla libertà, alla sovranità e all’indipendenza della patria, tramato da questi criminali, è tanto più condannabile in quanto essi hanno abusato della loro appartenenza al partito comunista cecoslovacco e della fiducia di questo partito caro ai lavoratori […]. Perfino quando i primi membri del centro di cospirazione diretta contro lo stato erano già stati sm-ascherati e incarcerati, Rudolf Slánsky, astuto Giano bifronte, tentava ancora di sviare l’attenzione da sé, quale capo del complotto, e fingeva di essere egli stesso vittima delle attività sovversive».32

La richiesta all’imputato di confermare la correttezza delle accuse mossegli e la recita di formule di abiura dell’eresia e del patto con il dia-volo risultano già presenti nei processi per stregoneria più antichi, come quelli di Vevey, di cui si riparlerà più avanti. Essi diventeranno una pre-senza costante negli atti processuali relativi a questo genere di crimine. Le conclusioni in cui l’imputato conferma la veridicità delle confessioni rese, trascritte di norma in una forma standardizzata in cui convivono procedura giuridica e contenuti ideologici (o, prima, teologici), rappresentano un mo-mento fondamentale della rappresentazione pubblica del processo.

Tutti i condannati a morte, con l’eccezione di Slánsky, prima dell’esecuzione indirizzarono una lettera alle famiglie «in cui si proclamarono colpevoli, si mostrarono convinti del tradimento del loro

31. Documento citato in Ivi, p. 271.Documento citato in Ivi, p. 271.32. Documento citato in Ivi, p. 272.Documento citato in Ivi, p. 272.

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segretario generale, espressero fiducia in un futuro radioso per il regime».33 Era stata soddisfatta la funzione pedagogica attribuita al processo e alla divulgazione dei verbali addomesticati.

Gli ebrei, sempre loro

Come i colleghi di qualche secolo prima, anche i pubblici ministeri che hanno condotto i processi dell’era staliniana presupponevano una serie di tare ereditarie o di ascendenze sociali per inchiodare gli imputati: il passato piccolo-borghese, l’adesione temporanea in gioventù alla socialdemocra-zia, i soggiorni all’estero. Ben presto una nuova, e insieme antica, tara fece la sua comparsa sulla scena: le ascendenze ebraiche che predisponevano naturalmente al sionismo,

Un giorno Loebl si sentì rivolgere questa domanda: «Allora, Loebl, ci parli della sua collaborazione con la spia degli americani in combutta con Tito, quel maiale sionista di Rudolf Slánsky».34 Loebl, prostrato, era ormai disposto a confessare qualsiasi cosa gli venisse suggerita. Fu quello che fece qualche tempo dopo, nel corso di un confronto diretto con Slánsky.

«Slánsky, conosce questo prigioniero?». «Sì, è Evzen Loebl». «Loebl, conosce questo prigioniero?». «Sì, è Rudolf Slánsky». «Lei, Loebl, ha confessato di aver fatto parte di una cospirazione criminale ordita da Slánsky. Vuole ripetere la sua confessione?». Dissi di sì. […]«Ho commesso un certo numero di crimini come membro di una cospirazione diretta da Rudolf Slánsky».35

Il contesto interno che fece da cornice al processo Slánsky possedeva elementi di singolarità, uno dei quali erano appunto i rapporti con Israele. La Cecoslovacchia era stato, tra le democrazie popolari, quella che più si era mostrata disponibile a partecipare al Piano Marshall; come se non

33. Flores, Flores, L’età del sospetto, p. 154.34. Loebl, Loebl, Le procés de l’aveu, p. 184.35. Ivi, p. 206.Ivi, p. 206.

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bastasse, la sua politica era parsa troppo filoisraeliana rispetto alle posizioni sovietiche. La Cecoslovacchia aveva venduto armi all’organizzazione Haganah e collaborato all’addestramento di una brigata. È significativo che alcuni importatori ebrei americani avessero manifestato a Loebl il loro apprezzamento per gli aiuti cecoslovacchi a Israele nell’ambito della fornitura e dell’addestramento militare. Ciò avveniva mentre il governo di Mosca aveva perso la speranza di attrarre nella propria sfera di influenza Israele, la cui dirigenza andava orientandosi verso una politica sempre più filoamericana. In precedenza Stalin aveva coltivato la possibilità di allargare la propria influenza al nuovo stato ebraico: all’interno del movimento sionista, infatti, non mancavano le correnti socialiste, quelle, per intenderci, che stavano dando vita all’originale esperimento comunitario dei kibbutz.

Un russo non meglio identificato, che partecipava all’interrogatorio, accusò Loebl di non essere né un vero comunista né un vero cecoslovac-co: «Lei non è altro che uno sporco ebreo. La sua sola patria è Israele e lei ha venduto il socialismo ai suoi capi, i dirigenti dell’imperialismo sionista».36

Per capire questa decisa virata antisionista bisogna tener conto an-che di quanto parallelamente avveniva in URSS, dove, negli anni imme-diatamente successivi alla seconda guerra mondiale si andò (ri)costruendo l’immagine negativa degli ebrei come potenziale vettore di «contagio po-litico». Un clima antisemita prese a serpeggiare in articoli su riviste quo-tidiani già nel 1946 che prendevano di mira i «cosmopoliti senza radici», tra i quali spiccavano, immancabilmente, gli ebrei. La diffidenza verso gli ebrei esplose nell’ottobre 1948, in occasione dell’arrivo a Mosca di Golda Meir in visita ufficiale, accolta da una manifestazione festosa di cinquantamila ebrei. A posteriori, il minimo che si può dire è che si trattò di un’imprudenza collettiva. Ai vertici del Cremlino, infatti, gli onori in-formali tributati alla Meir destarono non poche preoccupazioni. Il passag-gio ai fatti non tardò a venire. Un mese dopo venne sciolto d’autorità il Comitato Antifascista Ebraico e furono distrutti i piombi di un libro curato da Il’ja Erenburg e Vasilij Grossman che raccoglieva documenti sulla per-secuzione nazista degli ebrei russi.

Come sempre accade nelle epidemie, dopo i primi casi distanziati tra loro, che agiscono da avvisaglia, il contagio prese a diffondersi rapidamente. Molti dei membri più in vista del disciolto Comitato furono arrestati. Venne

36. Ivi, p. 82.Ivi, p. 82.

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poi il turno di un gruppo di ingegneri ebrei che occupavano posizioni di responsabilità nella fabbrica di automobili intitolata a Stalin, che si vider piovere addosso l’accusa di sabotaggio. La campagna proseguì per i due anni successivi. Il 12 agosto 1952, venne eseguita la condanna a morte per fucilazione contro tredici membri del Comitato antifascista ebraico e dieci ingegneri della fabbrica Stalin, presunti cospiratori e sabotatori.

Proprio mentre sembrava che, con la condanna dei cospiratori sionisti voluta personalmente da Stalin, la virulenza del contagio iniziasse a declin-are, si aprì invece un secondo fronte: il celebre «complotto dei camici bi-anchi», che fu probabilmente l’ultimo grande caso politico della vita di Stalin. L’affare cominciò quando l’uomo che da venticinque anni guidava l’URSS manifestò alcune preoccupazione per la propria salute. Un giorno d’estate del 1951 Stalin aveva chiesto al ministro della Sanità Smirnov quali medici avessero curato Ždanov e Dimitrov, deu dirigenti da poco scomparsi. Ebbene, si trattava della stessa persona, Boris Kogan, cugino del medico del Cremlino Michail Kogan. Malgrado le rassicurazioni di Smirnov, che aveva personalmente verificato l’assoluta irreprensibilità del medico, Stalin reagì con inquietudine. I suoi timori aumentarono quan-do apprese che Kogan era stato assistito nientemeno che dal suo medico curante, il cardiologo Vladimir Vinogradov. Si mise allora in moto la mac-china poliziesca volta a smascherare l’ennesimo complotto. Gran parte de-gli accusati erano medici ebrei e il processo che li condannò coincise con la fase più virulenta della campagna antisionista che falcidiò i membri del Comitato Antifascista Ebraico. Gli interrogatori rivelarono non solo che la morte di Ždanov era stata in realtà un’eliminazione, ma portarono alla luce la più terribile delle congiure: un piano per avvelenare Stalin.

Bisogna sapere che l’ossessione del leader per gli avvelenamenti rasentava la paranoia. Ogni suo pasto era cucinato dalla sua vecchia cuoca di fiducia ed esaminato da agenti speciali e da un medico prima di arrivare alla tavola del leader. Il risalto dato dalla stampa al complotto generò un clima di isteria collettiva: i pazienti rifiutavano di farsi visitare da medici ebrei e di comprare medicine in farmacie gestite da ebrei. Era in fondo una vecchissima storia: gli ebrei erano di nuovo un agente patogeno. I discendenti di coloro che avvelenavano i pozzi dei cristiani, volevano ora avvelenare, politicamente e fisicamente, il corpo della guida del socialismo.

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Il Grande Terrore Russo degli anni Trenta

È noto il peso determinante delle decisioni e degli orientamenti per-sonali di Stalin nel determinare l’avvio e la direzione delle catene di ar-resti e processi che si sono succedute durante gli anni segnati dalla sua egemonia. Le prove generali di quanto avvenne nell’Europa centrale e orientale nell’immediato secondo dopoguerra erano già andate in scena a Mosca negli anni Trenta. Il consolidamento del socialismo in URSS si era progressivamente saldato al consolidamento non solo del potere operativo del leader, ma anche del suo prestigio personale, che doveva essere fuori discussione come la sua abilità strategica. Se qualcosa non funzionava – e inevitabilmente i problemi erano molti – la soluzione per Stalin era quella di imporsi come colui che agiva prontamente per rimediare ai guasti delle incompetenze, e sventava, duramente, i complotti e i sabotaggi che ritarda-vano i frutti della politica del regime.

Necessariamente i singoli mali provenivano dall’esterno, dal campo del Male. Esso, però, per riuscire a infiltrarsi, aveva bisogno della col-laborazione di traditori, cospiratori, sabotatori venduti al nemico che si nascondevano tra i dirigenti che occupavano influenti posizioni di potere all’interno della gerarchia o delle istituzioni. In questo senso, i processi servivano a smascherare pubblicamente il complotto e a rendere visibile al popolo la causa delle imperfezioni che ancora assillavano il socialismo.

Stalin, da parte sua, tendeva a concepire i rapporti politici in termini gerarchici, sia che si trattasse di lealtà personale sia che fossero in gioco relazioni diplomatiche tra nazioni. Egli aveva l’abitudine mettere alla prova e mantenere in stato di perenne tensione i membri del Politburo colpendo con accuse anche gravi i loro più stretti collaboratori. «Senza risparmiare nessuno, Stalin mirava a infettare la cerchia di governo con i sospetti e le insicurezze che caratterizzavano il suo mondo mentale».37 A farne le spese furono principalmente funzionari di secondo livello, la cui caduta in dis-grazia serviva però a mantenere la cerchia primaria in una condizione di tensione, diffidenza reciproca e sudditanza nei confronti di Stalin.

Le grandi purghe della fine degli anni Trenta nascevano dall’evoluzione del potere sovietico e della teoria politica che fondava il ruolo chiave della nuova classe dirigente bolscevica. La rapidità della conquista del

37. Oleg Chlevniuk, Yoram Gorlitzky, Oleg Chlevniuk, Yoram Gorlitzky, Cold Peace. Stalin and the Soviet ruling Cir�Stalin and the Soviet ruling Cir-cle, Oxford, Oxford University Press, 2004, pp. 3-5.

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potere e dell’organizzazione dello Stato secondo i principi del comunismo avevano reso necessaria la definizione di un’ortodossia di riferimento. Parallelamente, e quasi spontaneamente, i conflitti tra i successori di Lenin e i dissidi più o meno latenti tra i membri del comitato centrale del partito avevano assunto la forma della disputa dottrinaria. Fu insomma brevissimo e pressoché automatico il passaggio dalle tensioni tra correnti di pensiero a una situazione più simile alla contrapposizione tra sette: la capacità di definire l’ortodossia coincideva con l’accesso al vertice del potere o con il suo consolidamento.

Il periodo del Grande Terrore cumulò diversi obiettivi e diversi bersa-gli. Era per esempio urgente giustificare i fallimenti della politica econom-ica sovietica. In particolare si andò proprio allora delineando con crescente nitidezza la teoria del complotto antisovietico da parte di nuclei trotzkisti. Parallelamente si fece in modo che si diffondesse una sorta di presunzione di colpevolezza a priori per gli strati sociali ritenuti non affidabili – in primo luogo i piccoli proprietari terrieri, i kulaki – e per le minoranze et-niche meno sensibili alla costruzione del socialismo – è il caso dei tartari e dei coreani. Di nuovo, quindi, contestualmente all’elaborazione di una teoria del complotto, si osserva il ritorno in voga del concetto di ereditarieà della colpa. Tutti costoro furono di fatto individuati come capri espiatori sui quali far ricadere la colpa dei clamorosi insuccessi del regime, che si era trovato a fronteggiare raccolti inadeguati, crisi economiche e perfino carestie come conseguenze della politica della collettivizzazione forzata. Un telegramma di Stalin diramato ai comitati centrali dei partiti comunisti regionali asseriva che era stato ormai

accertato che la maggior parte degli ex kulaki e criminali, deportati a suo tempo nelle zone del nord e della Siberia, e poi ritornati nelle loro regioni di origine allo scadere dei termini di deportazione, sono i principali promotori di ogni sorta di crimini antisovietici e atti di sabotaggio, sia nei kolchoz e nei sovchoz, sia nei trasporti e in alcuni settori industriali.38

Le stime delle vittime del Grande Terrore sovietico degli anni ‘30 parlano di almeno tre milioni di persone condannate al carcere o ai campi di lavoro e di mezzo milione di esecuzioni. Sono cifre paragonabili a

38. Oleg Chlevniuk, Oleg Chlevniuk, Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione al Grande Terrore, Torino, Einaudi, 2006, p. 163.

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quelle delle grandi pandemie e che sono state raggiunte certo in seguito a iniziative partite dai vertici del sistema politico, ma che hanno ricevuto il supporto di migliaia di zelanti delatori pronti a denunciare i «nemici del popolo». Come ai tempi della Rivoluzione francese, alla quale si accennerà più avanti, è stato fondamentale il risalto offerto dalla stampa alle lettere di denuncia. In queste circostanze si osserva una doppia tipologia di contagio. Il primo tipo è il panico del complotto che colpisce la popolazione civile e la rende disponibile a individuare con estrema facilità agenti sovversivi e sabotatori; il secondo è rappresentato dall’immediata definizione delle categorie a rischio, potremmo dire portatori sani di caratteristiche negative latenti che all’improvviso vengono percepite come attivate e pronte a colpire la società.

In URSS i cosiddetti “alieni sociali”, erano innanzitutto i discendenti della vecchia nobiltà, i membri del clero, i piccoli proprietari terrieri, ma anche chiunque avesse origini borghesi o più o meno vagamente straniere, come ebrei e zingari. Ad esempio, dei contadini che denunciarono il presi-dente del loro kolkhoz sottolinearono che era figlio di un procacciatore di braccianti che aveva sfruttato i lavoratori agricoli. Vi erano poi le denunce inoltrate non per intima convinzione, ma per la paure delle conseguenze del non denunciare, ovvero finire per essere considerati, per qualcuna delle molte ragioni possibili, una parte malata del corpo sociale bolscevico. Era un timore fondato: in un contesto sociale permeato dall’ossessione del complotto chi non manifestava sufficiente ostilità al nemico rischiava di venirvi automaticamente associato.

I processi di Mosca

Il Grande Terrore sovietico prese concretamente l’avvio a Leningrado con l’uccisione di Sergej Kirov, segretario del partito comunista della città. Sia in quanto primo segretario della seconda città del paese sia in virtù del suo indubbio carisma, Kirov era da molti considerato un rivale naturale di Stalin. Il suo cadavere venne scoperto il primo dicembre 1934 nel suo ufficio. L’attentatore, Leonid Nikolaev, fu immediatamente arrestato, processato a porte chiuse e condannato a morte al termine di una rapida inchiesta presieduta da un uomo di fiducia di Stalin, Andrej Ždanov, che avrebbe preso di lì a poco il posto di Kirov al vertice del partito cittadino. Secondo l’accusa Nikolaev sarebbe stato un sicario al soldo del «Centro

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Unito», un gruppo di cospiratori che faceva riferimento al grande nemico Trotzkij.

Il proseguimento delle indagini rivelò che nelle alte sfere del partito si annidava un covo di deviazionisti di destra che praticavano il sabotag-gio e lo spionaggio a favore dei capitalisti. La scoperta della cospirazione contribuì a diffondere l’idea paranoica di una moltitudine di organizzazi-oni controrivoluzionarie infiltrate a ogni livello della società sovietica e provocò un’ondata di epurazioni fra i dirigenti dell’apparato del partito e dello Stato. La purga colpì pesantemente anche l’Armata Rossa: almeno un quarto dei suoi circa 80.000 ufficiali venne epurato nel biennio 1937-1938.

Secondo il tristemente famoso pubblico ministero Vyšinskij,

il Blocco delle destre e dei trotzkisti non è altro che una banda di spie […], un fatto di grandissima importanza non solo per la nostra rivoluzione socialista, ma anche per tutto il proletariato internazionale, per la causa della pace nel mondo, per l’intera cultura umana, per la lotta per la vera democrazia e la lib-ertà dei popoli, per la lotta contro tutti i guerrafondai e contro tutte le provoca-zioni e i provocatori internazionali.39

I toni sono quelli di una perorazione mistica, apocalittica. Dall’altra parte della sbarra, le dichiarazioni degli imputati non lasciano dubbi riguardo alla natura sostanzialmente religiosa dell’investimento emotivo che i condannati ponevano nella confessione di crimini mai commessi. Al di là dei fini pedagogici della confessione pubblica, si ha l’impressione che per gli stessi presunti cospiratori il perdono da parte del partito restituisse un senso estremo alla loro vita.

«Cittadini giudici, rinuncio al discorso di difesa in quanto la pubblica accusa, per quanto concerne la constatazione dei fatti, era giusta, come pure esatta per ciò che si riferisce alla qualificazione dei miei crimini. Tuttavia non posso dichiararmi d’accordo né rassegnarmi di fronte a un’affermazione del Pubblico Ministero: l’affermazione che io sia ancora oggi trotzkista. Sì, sono stato trotzkista per molti anni. Con i trotzkisti ho proceduto fianco a fianco, ma l’unico motivo, l’unico che mi ha spinto alle affermazioni che ho fatto, era il desiderio di liberarmi almeno ora, anche se troppo tardi, dal mio atroce

39. Citato in Pier Luigi Contessi, Citato in Pier Luigi Contessi, I processi di Mosca, Bologna, Il Mulino, 1970, p. 297.

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passato trotzkista […]. Infatti la cosa più dura per me, compagni giudici, non è quella giusta sentenza che voi pronuncerete. La cosa peggiore è soprattutto il riconoscermi davanti a me stesso. Il riconoscere durante l’istruttoria, il riconoscere davanti a voi e davanti a tutto il paese che io, in conseguenza di tutta la mia precedente lotta illegale e delittuosa sono finito in una palude, nel centro stesso della controrivoluzione, della più disgustosa e bassa controrivoluzione di tipo fascista, della controrivoluzione trotzkista».40

L’implorazione finale di Bucharin, uno dei principali imputati, è del medesimo tenore:

«Ora parlerò di me stesso e delle cause del mio pentimento. Naturalmente oc-corre dire che anche le prove materiali hanno grande importanza. Io ho mentito per circa tre mesi, poi ho cominciato a fare ammissioni. La causa di ciò sta nel fatto che in prigione ho riconsiderato tutto il mio passato. Infatti, se ci si domanda: dovendo morire, per cosa vuoi morire? Allora ci si vede davanti con sconvolgente chiarezza un vuoto assolutamente buio. Non c’è nulla per cui si debba morire, se si vuol morire senza essersi pentiti. Al contrario, tutto ciò che è positivo e che splende nell’Unione Sovietica assume nella consapevolezza dell’uomo un’altra dimensione. Questo mi ha completamente disarmato, in de-finitiva, e spinto a piegar le ginocchia davanti al partito e al paese. E si ci si pone la domanda: se non muori, se per miracolo resti in vita, allora, di nuovo, a che scopo? Isolato da tutti, nemico del popolo, in una condizione disumana, completamente distaccato da tutto ciò che costituisce l’essenza della vita. La risposta è immediata».41

La presenza di una componente religiosa nel discorso del rivoluzi-onario pentito balza agli occhi con evidente chiarezza. Si deve qui proba-bilmente scorgere un filo di continuità interno alla cultura russa, in cui l’intreccio tra messianismo religioso e politico ha una lunga storia.

40. Dichiarazione dell’imputato Pjatakov, citata in Ivi, pp. 240-241.Dichiarazione dell’imputato Pjatakov, citata in Ivi, pp. 240-241.41. Citato in Ivi, p. 394-395.Citato in Ivi, p. 394-395.

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cernIera. I secolI XIX e XVIII

Altri complotti: ebrei e massoni

Nella Russia pre-rivoluzionaria l’idea del complotto era all’ordine del giorno. Essa era condivisa tanto dai gruppi rivoluzionari e nichilisti che agitavano la vita politica della nazione – ossessionati dalla paura che tra gli affiliati si celassero infiltrati della polizia zarista – quanto dalle autorità che si appoggiavano, spesso con il sostegno della Chiesa, a una rete di de-latori ben distribuita sul territorio. Gli stessi bolscevichi ne avevano fatto le spese prima di prendere il potere e sfruttare a proprio vantaggio la radi-cata abitudine alla delazione. L’ossessione del complotto stimolò anche la fabbricazione di trame oscure mai esistite; ne è un esempio clamoroso la colossale congiura ebraica internazionale descritta in uno dei più celebri falsi della storia, forse il più famoso insieme alla medievale Donazione di Costantino: i Protocolli dei Savi di Sion, opera attribuibile nella sua ver-sione definitiva alla polizia zarista – e che, al contrario della Donazione, ha evidentemente ancora i suoi sostenitori, visto che le tipografie di mezzo mondo non cessano di stamparlo.

Prima dei Protocolli dei Savi di Sion altri falsi avevano contribuito a diffondere l’idea della presenza occulta di un complotto giudaico su vasta scala, al quale talvolta si affiancava la massoneria. Un esempio è l’opera di un improbabile ex rabbino moldavo probabilmente apparsa in Romania a inizio XIX secolo e inizialmente valutata con estremo scetticismo a causa delle grossolane imprecisioni che conteneva. Negli anni Ottanta del secolo, tuttavia, «La Civiltà Cattolica» ne pubblicò ampi stralci e nel 1883 uscì a Prato, con l’imprimatur della diocesi, un’edizione integrale intitolata Il sangue ebraico nei riti ebraici della moderna sinagoga. Il pubblico italiano

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ebbe così finalmente la possibilità di leggere un testo che rilanciava la leggenda dell’omicidio rituale in una chiave rinnovata che si saldava alle paure suscitate dai movimenti modernisti in ambito sia cattolico che russo-ortodosso, da cui il falso verosimilmente proveniva.

Le streghe appartenevano al passato, ma il complotto diabolico con-tinuava grazie a una nuova alleanza tra il Maligno e i sovversivi di ogni risma – tra i quali, inevitabilmente, non potevano che abbondare gli ebrei – che minacciavano di scardinare l’ordine sociale.

Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, era un cattolico conser-vatore che per un certo periodo ricoprì l’incarico di ministro della polizia del Regno di Napoli. A suo giudizio i nemici giurati della fede e del regno erano carbonari e massoni. Ne era tanto convinto che nell’esercizio del suo mandato concesse sedicimila licenze di porto d’armi alla setta anti-masso-nica dei «Calderari» incoraggiandoli a svolgere al meglio la loro missione. Nel 1820, costretto all’esilio perché accusato di fomentare la guerra civile, scrisse I piffari della montagna, un pamphlet «nel quale denunciava l’esi-stenza di una rete internazionale di rivoluzionari al cui interno militava-no riformatori inglesi, giacobini, carbonari».1 Nella sua ricostruzione dei complotti del presente gli ebrei non compaiono apertamente, ma diventano il modello del vituperato moderno rivoluzionario: la condanna di Cristo, infatti, fu segretamente progettata da «quelli che si univano in Gerusalem-me clandestinamente, […] i carbonari di quel tempo».2

Nel 1850 i primi numeri de «La Civiltà Cattolica» pubblicarono L’ebreo di Verona, un romanzo a puntate scritto dal gesuita Antonio Bre-sciani. La stesura del testo era stata seguita di persona da papa Pio IX, che evidentemente ne condivideva la visione di una Chiesa perseguitata da una rete settaria che includeva l’ebraismo internazionale, la massoneria e i cir-coli intellettuali liberali. Le pagine conclusive del romanzo riecheggiano la memoria del sabba satanico: durante le riunioni segrete dei cospiratori anti-cattolici si adorava il diavolo e si profanava l’ostia.

Un decennio dopo il cappuccino Stefano San Pol Gandolfo scriveva che «gli Ebrei in pena del commesso deicidio non hanno patria […]. E chi più erranti e zingari dei rivoluzionari? Ecco perché, o Sire, i rivoluzionari

1. Tommaso Caliò, La leggenda dell’ebreo assassino. Percorsi di un racconto antie-braico da medioevo a oggi, Roma, Viella, 2007, pp. 156-157.

2. Ivi, pp. 157

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sono tutti ebrei e tutti gli Ebrei sono rivoluzionari».3 Si consolidava allora quel nesso tra ebraismo internazionale e cospirazioni rivoluzionarie che diventerà un luogo comune dell’antisemitismo moderno – un topos duro a morire in cui ancora oggi capita di imbattersi.

Gli ebrei, dunque, continuavano a ossessionare. La loro presenza nei complotti è una tragica costante. Cambiano invece i complici: gli ebrei sono stati di volta in volta considerati alleati dei capitalisti contro il sociali-smo, dei rivoluzionari socialisti e giacobini contro la società borghese, dei massoni contro la Chiesa. Prima ancora gli ebrei erano stati complici del Demonio e dei suoi accoliti, streghe e stregoni. Se nell’Ottocento la dimen-sione più schiettamente religiosa del complotto tendeva a sfumare in quella politica – anche nelle riletture delle trame ebraiche da parte della Chiesa cattolica l’attacco sembra essersi spostato principalmente sul piano della destabilizzazione sociale – il secolo XVIII rappresentò invece un’epoca di passaggio in cui i due aspetti convissero.

Mentre il paradigma della congiura stregonesca, come vederemo, en-trava in crisi già prima dell’impatto del pensiero illumista sull’opinione pubblica, la teoria del complotto assumeva rapidamente nuove e molte-plici forme. Il contagio del complotto aveva ritrovato vitalità nel corso dei magmatici anni della rivoluzione francese. In Francia assunse l’aspetto della minaccia portata dai nemici interni ed esterni del nuovo ordine, nel resto d’Europa, con un rovesciamento speculare, prevaleva l’allerta per la possibile infiltrazione dei sovversivi filo-giacobini.

Giacobini e anti�giacobini in Europa.

Tra i contributi dell’Illuminismo alla cultura politica europea ce n’è uno dagli effetti ambivalenti: il trasferimento dell’utopia nella storia con il tramite del concetto di progresso. L’affermarsi dell’idea di progresso si intreccia strettamente con il processo di secolarizzazione che nel secolo XVIII coinvolse l’Europa e, con caratteristiche originali, l’America del nord. Ciò avvenne anche mediante la ricollocazione di concetti religiosi. Le energie e le speranze che abitavano la sfera della fede cominciarono a tornare sulla terra. L’affermazione del rivoluzionario francese Saint-Just secondo il quale la felicità era un’idea nuova in Europa suggerisce che

3. Ivi, pp. 160.

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altrove non lo fosse più. Il riferimento è probabilmente alle prime righe della Dichiarazione d’Indipendenza americana, che riconoscono nella felicità uno dei diritti inalienabili dell’uomo. Si tratta di un’affermazione ispirata più o meno direttamente al pensiero di John Locke, ma che si sovrapponeva al provvidenzialismo puritano dei coloni.

La storia divenne il luogo in cui l’utopia era destinata a realizzarsi, con esiti fin dall’inizio complessi e contraddittori, non di rado tragici e paradossali. Le vicende del matematico, scienziato e filosofo Condorcet ne sono la drammatica testimonianza. Il suo Esquisse d’un tableau his-torique des progrès de l’esprit humain, pubblicato postumo nel 1795, è «una testimonianza sconvolgente di un’incrollabile fede nel progresso che fa tutt’uno con l’utopia. Condorcet redige il suo testo in pieno Terrore, di nascosto; braccato, viene messo fuori legge, appena terminato l’Esquisse viene arrestato».4 Condorcet si avvelenò in prigione per sfuggire al diso-nore della pubblica ghigliottina.

Il Terrore rivoluzionario, peraltro, si appoggiava precisamente sulla volontà di trasferire il discorso utopico nella prassi politica. Sul medesimo terreno – con la mediazione del socialismo di Fourier, Sain Simon e Owen – s’innestò in seguito anche il marxismo rivoluzionario per il quale la real-izzazione dell’utopia costituiva l’esito della storia.

Il giacobinismo era nato da un circolo fondato da quarantaquattro deputati bretoni progressisti che si ritrovavano per discutere le proposte dell’Assemblea Generale. Il club accolse in un secondo momento mem-bri esterni, patrioti e intellettuali come Mirabeau, Lafayette e Robespierre. Con la fuga del re e il suo arresto a Varennes il giacobinismo originario finì e si mutò in qualcosa di profondamente diverso. Dopo la presa del potere da parte dei rivoluzionari i militanti giacobini divennero il braccio armato del partito di Robespierre, incaricati di «denunciare gli individui sospetti, di braccare i nobili e preti refrattari: sono lo strumento della dittatura pari-gina e il braccio del Terrore, al tempo stesso tribunale ed esercito».5

Il ricorso sistematico alla denuncia era motivato dalla precarietà della Rivoluzione e dal pericolo costante che la minaccia. Era fortissima la per-cezione dei rivoluzionari di essere circondati da potenze ostili e minacciati

4. Bronisław Baczko, Utopia, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, VIII, Roma, Isti-tuto dell’Encliclopedia Italiana, 1998, pp. 733-73, p. 736.

5. Mona Ouzuf, Massimo Salvadori, Giacobinismo, in Enciclopedia delle Scienze So-ciali, IV, Roma, Istituto dell’Encliclopedia Italiana, 1994, pp. 291-298, p. 393.

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da nemici interni visibili e invisibili. Moderati e radicali finirono per con-siderarsi reciprocamente come capisaldi «della corruzione e dell’attività controrivoluzionaria […]. In tal senso, il trionfo del Giacobinismo con il Terrore (e l’emergere della denuncia come fattore di governo elevato a sistema) non ha alterato il carattere essenziale del discorso rivoluzionario sul nemico»6 e prefigura quello della Guerra Fredda. L’intervento di Basire all’Assemblea Legislativa nel novembre 1791 verte sul complotto: «Noi siamo circondati da cospiratori; ovunque si preparano complotti e voi rice-vete di continuo denunce di singoli fatti che sono tutti collegati alla cospi-razione maggiore, sulla cui esistenza nessuno può avere dubbi. Questi fatti sono separati e, se li mettiamo insieme, essi compongono un unico grande crimine che fa luce sulle intenzioni dei nostri nemici».7

L’Appello alla nazione di Jena-Paul Marat del 15 febbraio 1790 evo-ca la memoria dei censores dell’antica Roma proponendone una versione rinnovata, e decisamente alterata rispetto al modello antico, in cui dei rap-presentanti del nuovo governo in ogni città avrebbero avuto il compito di denunciare i traditori ai tribunali rivoluzionari – luogo di azione giuridica e politica che nel Novecento godrà di una rinnovata e macabra fortuna. Quella di traditore è una nozione estremamente manipolabile che finisce per trasformarsi in un contenitore in cui far convergere tutte le difficoltà incontrate dal nuovo regime.

La denuncia alla Madrepatria dei traditori e delle attività controrivoluzionarie si costituisce dunque come un dovere civico, espressione della loro vigilanza sul buon esito della Rivoluzione, ma anche, lo afferma esplicitamente Marat, a pieno titolo come un diritto del cittadino. La delazione rendeva il nuovo cittadino protagonista diretto dell’azione rivoluzionaria e superava la delega della difesa dello Stato alle forze di polizia. Che la denuncia fosse interpretata come un atto di cittadinanza lo conferma un discorso di Etienne Berry del 25 luglio 1793: le denunce rivoluzionarie andavano incoraggiate in quanto strumento di radicamento del nuovo regime in tutto il territorio nazionale. Esse – proprio come le denunce all’Inquisizione – non avrebbero mai dovuto comportare

6. Colin Lucas, The Theory and Practice of Denunciation in the French Revolution, in Accusatory Practices. Denunciation in Modern European History, 1789�1989, a cura di Sheila Fitzpatrick, Robert Gellately, Chicago, University of Chicago Press, 1997 (già pubblicato come numero monografico del Journal of Modern History, Vol. 68, No. 4, De-cember 1996), pp.22-39, p. 24.

7. Citato in Ibidem.

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conseguenze per il denunciante. Meno di due mesi dopo l’intervento di Berry, precisamente il 17 settembre 1793, venne promulgata la Legge dei Sospetti, che consentiva l’arresto immediato sulla base di semplici sospetti anche in assenza di prove.

L’arresto di Danton, il leader rivoluzionario messo a tacere in un cre-scendo di ossessione complottista, sorta di Trotzkji ante litteram, fu esegui-to in seguito alla denuncia sporta da Saint-Just l’11 Germinale dell’anno 2, ovvero il 31 marzo 1794. Con un linguaggio quasi sovietico, l’accusa identificava Danton come un agente del passato regime, regista di un com-plotto mirante alla restaurazione della tirannia: «Danton, tu eri complice di Mirabeau, d’Orléans, Dumouriez, Brissot»; «Cattivo cittadino, tu sei un cospiratore».8 Quando Jacques-Alexis Thuriot, reagendo ad accuse analoghe a quelle piovute su Danton, sostenne la sua credibilità di riv-oluzionario appoggiandosi alle tante azioni compiute a favore della Riv-oluzione, delle quali non mancavano i testimoni, Jean-René Hébert ribatté esprimendo concetti che sarebbero risuonati assai simili in bocca al ter-ribile procuratore sovietico Višinskji: «Cosa dimostrano i servizi resi alla Rivoluzione? I cospiratori adottano sempre questo metodo. Per ingannare il popolo lo si deve servire; si deve conquistare la sua fiducia per meglio tradirlo».9

Nel frattempo, nel resto d’Europa serpeggiava un panico di segno op-posto. Il timore di possibili infiltrazioni giacobine stimolò capillari attiv-ità di repressione poliziesca. Le opinioni sospette, soprattutto se diffuse a mezzo stampa, bastavano a giustificare indagini e arresti. In Inghilterra la paura destata dalla rivoluzione francese produsse una cultura del sospetto e del controllo che condizionò la politica e la vita sociale. Perfino i tagli dei capelli alla moda erano condizionati dal timore di venire percepiti come simpatizzati filo-giacobini, ovvero nemici della patria.

Con la sconfitta di Napoleone anche in Francia la repressione colpì l’espressione aperta di opinioni sospettabili di una parentela con il giaco-binismo più estremo e sovversivo. La diffusione di dicerie complottiste divenne un modo di manifestare opinioni anticlericali e anti-nobiliari. Ad esempio, nel 1849 tra i contadini della regione di Lalinde circolò la voce che il marchese di Gourgues, candidato all’Assemblea legislativa, nascondesse nel suo castello un centinaio di gioghi ai aveva pianificato

8. Citato in Ivi, p. 34.9. Citato in Ivi, p. 38.

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di appendere i contadini. La borghesia rurale non di rado sfruttò a proprio vantaggio la paura contadina di un ritorno degli antichi privilegi e si adop-erò «ad avvalorare con dicerie il convincimento di un complotto mitico che non cesserà di ossessionare la massa contadina fin verso la conclusione del secolo».10

La fine della stregoneria: dalla congiura alla truffa

Durante il secolo dei Lumi si verificò uno spostamento di campo che avrebbe condotto a una sorta di laicizzazione del complotto. Fu in quest’epoca che la congiura diabolica, oggetto centrale della seconda parte di questo libro, perse progressivamente sostanza giuridica e passò a essere rubricata dalla voce «congiure» a quella «truffe».

In gran parte dell’Europa nella seconda metà del secolo XVIII l’orizzonte della scienza e della giurisprudenza è ormai decisamente cam-biato rispetto al secolo precedente. Un cambiamento di paradigma giu-ridico non significa però che la catena di trasmissione si spezzi del tutto. Mi spiegherò meglio facendo riferimento a un esempio parigino del 1702. Nel corso di quell’anno venne alla luce un giro di loschi personaggi dediti a pratiche scopertamente sataniche. Solo cinquanta anni prima (altrove anche meno) il quadro sarebbe stato drammaticamente inquietante; i fatti accertati sarebbero stati ritenuti di estrema gravità avrebbero messo pron-tamente in moto la macchina giudiziaria e inquisitoriale, che vi avrebbe ravvisato un elaborato e avanzato complotto satanico – e si badi bene che questa volta si trattava di autentici tentativi di evocazioni del demonio, non di interpretazioni distorte di credenze folkloriche da parte delle autorità ecclesiastiche e civili. Invece non accade nulla del genere. Il luogotenente di polizia René Voyer, conte di Argenson, intitola il suo rapporto Memoria sui falsi stregoni che abusano della credulità pubblica; ne sono l’oggetto «i falsi indovini, i sedicenti stregoni, coloro che promettono la scoperta di tesori o la comunicazione con gli spiriti; infine tutte le persone che dis-tribuiscono polveri, talismani o pentacoli».11

10. Alain Corbin, Alain Corbin, Un villaggio di cannibali nella Francia dell’Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 6 (corsivo mio).

11. Robert Mandrou, Robert Mandrou, Possessione et sorcellerie au XVII siècle, Paris, Fayard, 1979, p. 279.

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Tutto finì pertanto classificato a un livello di criminosità di gran lunga inferiore, gli imputati furono giudicati e condannati come semplici imbro-glioni fantasiosi. I tempi dell’inquisizione e dei roghi sembrano lontanis-simi (ma Caterina Ross di Poschiavo era stata bruciata solo cinque anni prima), le valutazioni degli inquirenti assomigliano a quelle che ai nostri giorni accompagnano le denunce che periodicamente colpiscono le truffe di maghi e imbonitori televisivi. Eppure, come anticipavo, malgrado il cambio radicale di paradigma interpretativo, la memoria del conte di Ar-genson ci racconta anche la vitalità dell’immagine della setta dei congiu-rati che stringono un patto con il demonio in cambio di vantaggi personali. Leggiamo il profilo di alcuni di questi «congiurati».

Jemme pretende di aver stretto dei patti con il Diavolo, vende libri e manoscritti di magia, distribuisce pentacoli consacrati [ponendoli] sull’altare sotto la santa ostia […]. La Dassigny […] che ha fatto un accordo con il Diavolo […]. La Toussaint, figlia di un droghiere, che ha fatto un patto con il Diavolo per ot-tenere delle ricchezze.12

L’abate Le Fevre, era uomo «di un’empietà dichiarata; non solo cerca dei tesori e conclude degli accordi con gli Spiriti [maligni], ma si dedica ai rituali più criminali e nessun genere di sacrilegio sfugge alla sua curiosità sacrilega».13 C’era poi Chevalier che «volendo stringere un patto solenne con il demonio si era munito di alcune ostie consacrate che portava sempre in una busta di cuoio rosso».14

La paura dei complotti rimaneva, anche se la vittima era sempre meno la Chiesa e sempre più lo Stato. In generale, va osservato che la ristrutturazione dello Stato in senso moderno ha comportato anche la riorganizzazione del sistema repressivo e, in tale ambito, la valorizzazione della pratica della denuncia. A Venezia le fauci spalancate del Leone di San Marco accoglievano le denunce dei cittadini, in Russia il dovere della denuncia fu promosso a più riprese; nella Francia pre-rivoluzionaria la polizia ricorreva a spie odiatissime dalla popolazione, tanto che il rivoluzionario Pierre-Jean Agier, in un intervento del 30 novembre 1789 all’Assemblea dei rappresentanti della Comune, aveva sentito il bisogno

12. Ivi, pp. 285-288.Ivi, pp. 285-288.13. Ivi, p. 298.Ivi, p. 298.14. Ivi, pp. 302-303.Ivi, pp. 302-303.

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di precisare che «per quanto riguarda la delazione, il silenzio è una virtù sotto il dispotismo, ma è un vero e proprio crimine sotto il governo della Libertà».15

La Rivoluzione Francese si stava avvicinando. Lontano dalla Fran-cia, nell’Europa orientale la filosofia dei Lumi faticava a uscire dalle corti, nelle campagne si celebravano gli ultimi processi per stregoneria, ma i tempi erano ormai cambiati: il patto con il diavolo stava definitivamente uscendo dall’orizzonte culturale europeo.

Per altri tipi di oscuri complotti, però, di spazio ce ne sarebbe stato ancora.

15. Citato in Lucas, Citato in Lucas, The Theory and Practice of Denunciation in the French Revolu-tion, p. 27.

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Parte II. eretIcI, streghe e VamPIrI

Dalle streghe ai vampiri

Il folklore dell’Europa centrale e orientale, si sa, è ricco di manife-stazioni ferali che, ispirando i romanzieri e più recentemente i cineasti, da ormai due secoli hanno superato i confini originali e sono entrate a far parte di un immaginario più vasto. Per questo può risultare interessante per il lettore riferire della curiosa coincidenza osservata dallo storico Gabor Kla-niczay: la riduzione e poi la fine dei processi per stregoneria nell’Europa orientale ha coinciso con l’apparizione di crescenti scandali legati al vam-pirismo. In Ungheria i processi per stregoneria subirono se non un arresto almeno un drastico calo a partire dal 1756, quando l’imperatrice ordinò che gli atti dei processi per stregoneria in corso fossero sottoposti alla verifica di esperti giuristi prima dell’esecuzione delle sentenze da parte delle corti locali. Ebbene, gli esperti delle corti d’appello imperiali «ribaltarono quasi tutte le sentenze per stregoneria, ricorrendo ai più moderni strumenti giuri-dici e scientifici per sanzionare le accuse infondate».1

Parallelamente alla messa in discussione ufficiale del paradigma di-abolico-stregonesco, tuttavia, si verificò un fenomeno inatteso: il mani-festarsi di epidemie di vampirismo. Dopo poche e oscure testimonianze medievali, nel secolo XVII i racconti relativi alle mostruose creature che succhiavano il sangue dei viventi presero a moltiplicarsi. I primi casi chiari di vampirismo sono documentati in Slesia nel 1591, in Boemia nel 1618 e nei dintorni di Cracovia nel 1624. Le origini delle credenza nei vampiri

1. Gabor Klaniczay, The Uses of Supernatural Power, Princeton, Princeton Univer-sity Press, 1990, p. 171.

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puntano decisamente verso il mondo slavo, ma a partire dal secolo XVIII l’opinione pubblica europea cominciò ad associare i vampiri soprattutto con l’Ungheria. La ragione del trasferimento si fonda sull’evidenza che le più eclatanti (e meglio coperte dalla stampa dell’epoca) epidemie di vam-pirismo esplosero effettivamente in territori magiari.

Nel 1718 il panico scoppiò a Lubló, posta sul confine polacco-ungh-erese, e nel 1720 esplose ancor più acuto a Késmárk, nell’Ungheria setten-trionale, e a Brassó e Déva, in Transilvania. Uno dei casi più celebri, tut-tavia, si verificò non in un Ungheria, ma in Serbia. Nel 1730 molti giornali europei riferirono il caso dello hajdú (sorta di soldato contadino) Arnold Paul. La sua storia ci è giunta in resoconti decisamente favolistici: pare che egli avesse confidato di essere tormentato da un vampiro turco e che avesse invano tentato di liberarsene – ad esempio mangiando terra proveniente da tombe di presunti vampiri; poco tempo dopo morì e divenne lui stesso un vampiro. La stampa diede ampio risalto agli aspetti più raccapriccianti, come la riesumazione del cadavere quaranta giorni dopo il decesso al fine di neutralizzarlo mediante il rituale del palo conficcato nel cuore: quando venne trafitto il vampiro lanciò un grido agghiacciante e dalle sue vene schizzò fuori sangue come se fosse stato vivo.

La discussione non era destinata a spegnersi tanto presto; al contrario, nel corso degli anni ’40 del secolo le denunce di casi di manifestazioni di vampiri aumentarono in Serbia, Moravia e nella oggi proverbiale Transil-vania. Questi eventi avviarono un intenso dibattito sui vampiri che si con-cretizzò nella pubblicazione di diversi lavori più o meno scientifici dedicati all’argomento. Tra le opere più interessanti va certamente annoverata la Dissertazione sopra i vampiri di Giuseppe Davanzati. Era questi un sac-erdote pugliese – fu arcivescovo di Trani, dove morì nel 1755 – di ottima cultura e poco incline ad accettare la realtà del soprannaturale. La Disser-tazione venne data alle stampe per la prima volta a Napoli nel 1774, ma la sua redazione manoscritta – e l’immediata circolazione negli ambienti dotti internazionali – risale in realtà al 1739. Come egli stesso annotò nella prefazione all’opera, la curiosità per l’argomento era sorta in lui dopo aver sovente conversato a Roma con il cardinale Schrattembach, vescovo di Olmutz, il quale, una sera gli

fece con molta riserva sapere di avere nella posta ricevuto una distinta relazione dal suo concistoro di Olmutz, nella quale que’ signori officiali gli davano notizia, come il morbo o la strage de’ Vampiri era molto dilatata nella provincia della

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Moravia sua diocesi; e che quantunque avessero adoperato i soliti espedienti per frenare il malore, tuttavia con molto loro dispiacimento vieppiù si dilatava con morte ed esterminio di quella povera gente.2

Il carattere della relazione è schiettamente epidemiologico:

i suddetti Vampiri succhiandosi tutto il sangue, atteso ch’erano molto ingordi ed avidi di sangue umano, riducevano i poveri pazienti in pochi giorni esangui, squallidi ed emaciati fin a tanto che brevemente […] se ne morivano misera-mente. Coloro che in tal guisa morivano divenivano similmente […] Vampiri, ed apparendo agli altri, come i primi, cagionavano colla loro comparsa final-mente a quelli la morte; di modo tale che questa disgrazia, diffondendosi a guisa di un morbo pestifero, fra la gente, erano ormai ripieni i sepolcri, i cimi-teri di Vampiri.3

A quanto pare, nelle reazioni delle autorità convivevano rigore formale – con l’apertura di un caso presso il tribunale – e credenze folkloriche: i tribunali, infatti, spesso incaricavano un boia di aprire il sepolcro del Vam-piro, mozzargli la testa e trafiggergli il cuore con la spada.

Nella prima metà del secolo XVIII la stampa diede spesso notizia di queste epidemie di vampirismo. Davanzati riprende alcuni episodi, tra i quali il citato caso del serbo Arnold Paul, e li compara con una serie di evenienze di ritorno dei defunti attestate nella letteratura classica; espone poi una serie di elaborate teorie volte a spiegare il vampirismo, ma solo per smontarle una dopo l’altra e giungere alla conclusione che la sola interpre-tazione plausibile risiede nella credulità e all’ignoranza:

Vorrei per mia curiosità domandare a cotesti signori Vampiristi perché queste sì strepitose apparenze, o siano di diavoli o siano di uomini già morti, accadono solamente in coteste parti, cioè in qualche villaggio della Moravia e dell’Ungheria, come anche perché si faccino quelli solamente vedere da uomini e da donne semplici, dozzinali e di bassa lega. E non accadono in altre parti principali di Europa, ed appresso persone nobili e di qualità, oppure scienziati, e di qualche dignità? […]. Diciamolo pure apertamente. Essendo cotesta gente dove si dice accadere queste apparizioni gente idiota ed ignorante e

2. Giuseppe Davanzati, Dissertazione sopra i vampiri, a cura di Giacomo Annibaldis, Nardò (Le), BESA, 1997 (prima edizione a stampa 1774), p. 21.

3. Ivi, pp. 21-22.

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semplice, dedita molto al vino […] mantenuta in parimenti in simile credenza e superstizione da’ loro piovani parimenti creduli ed ignoranti facilmente avviene che […] quella gente, la quale si crede, peraltro senza mentire, di vedere cogli occhi propri quegli uomini morti comparire […].4

Il manoscritto del Davanzati conobbe un buon successo ed ebbe tra i sostenitori papa Benedetto XIV, che lo lesse e ne apprezzò le argomen-tazioni e le tesi. Si conoscono occasioni in cui il pontefice, sollecitato ad esprimere un parere sui vampiri, si espresse in termini non troppo dissimili da quelli del prelato di Trani. Ad esempio, rispondendo a una richiesta specifica dell’arcivescovo di Leopoli, egli inviò una pungente lettera pas-torale in cui dichiarava ironicamente che in Polonia si godeva di grande libertà se era consentito andarsene a spasso anche da morti.

Come spiegare l’insorgenza del vampirismo? Semplificando, si potrebbe partire dalla constatazione che al pari dei santi, i vampiri sono morti diversi dagli altri, e ancor più delle streghe si prestavano a rappresen-tare l’inversione maligna del modello cristiano del santo. L’associazione, pur rovesciata, era stata correttamente percepita, visto che lo stesso Papa Benedetto XIV avvertì la necessità di menzionare la «vana credenza nei vampiri» in un suo trattato del 1752 dedicato alla canonizzazione dei san-ti.5

L’emergere del vampirismo potrebbe pertanto essere letto insieme come sfida all’ortodossia e come conferma. La conferma riguarda la rinno-vata funzionalità del nuovo panico ai fini di ribadire i concetti chiave del messaggio cristiano presso le comunità di villaggio bisognose di accultur-azione. La sfida attiene in misura maggiore alle componenti vernacolari pre-senti nella stregoneria, che funzionava come sistema sbrigativo, ancorché rischioso, per la risoluzione di conflitti latenti e stagnanti, apparentemente bloccati. La sua scomparsa ha significato la sottrazione alla comunità di un potenziale utensile culturale, che il vampirismo ha in parte compensato, at-tuando contemporaneamente uno spostamento di attenzione degno di nota: il nemico da accusare non era più un vicino o un conoscente, ma un morto. Una soluzione decisamente meno pericolosa per la stabilità del tessuto so-ciale – ma altrettanto disturbante per la psicologia individuale.

Come spesso accade, tuttavia, alle motivazioni legate ai contesti

4. Ivi, pp. 119-120.5. Klaniczay, The Uses of Supernatural Power, p. 182.

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particolari in cui un determinato fenomeno si manifesta e si evolve, se ne aggiungono altre più profonde che ne costituiscono le basi, la componente latente. I vampiri, in effetti, sono figli della loro epoca, ma vengono anche da molto lontano: dalle credenze nella possibilità del ritorno dei morti e nelle procedure tradizionali per scongiurare il ripetersi dell’evento. Le apparizioni settecentesche appartengono al mondo slavo e magiaro, ma è dalle vicine terre germaniche che provengono le testimonianze medievali relative a credenze affini a quelle registrate dalla pubblicistica del secolo XVIII. Intorno al Mille Burcardo di Worms, vescovo della città, redasse un manuale per confessori, oggi noto come Corrector, che metteva a disposizione dei sacerdoti della diocesi una lunga lista di domande da porre ai fedeli al momento della confessione dei peccati. Molte delle domande sono tratte da opere precedenti e appartengono alla tradizione dei libri penitenziali; altre, però, in numero non trascurabile, fanno riferimento a credenze e pratiche popolari che, non in linea con l’insegnamento della Chiesa, dovevano essere corrette per mezzo dell’assegnazione di penitenze. Quella che qui ci interessa è l’usanza di trafiggere con un cuneo di legno un bambino morto senza battesimo per allontanare il rischio che questi ritornasse a tormentare i vivi. Si tratta di un notevole caso di interferenza tra una credenza cristiana e una tradizionale. La prassi denunciata è infatti attestata anche nelle saghe scandinave, dove il rimedio è esplicitamente volto ad impedire la manifestazione del draugr, il morto che ritorna per terrorizzare e minacciare i vivi, soprattutto coloro con i quali il defunto aveva lasciato dei conti in sospeso. Nelle Gesta Danorum di Sassone Grammatico, autore colto del secolo XIII che recepisce una gran mole di materiale tradizionale, del macabro rimedio dell’infissione di un palo nel cuore è vittima il cadavere di un certo Mithotin, mago e usurpatore:

Le sue malefatte si manifestarono anche dopo la sua uccisione poiché chi si avvicinava al suo sepolcro moriva improvvisamente, e anche dopo la morte il suo corpo produsse un gran numero di pestilenze che sembrava quasi avere lasciato ricordi più ripugnanti da morto che da vivo, come se intendesse esigere vendetta dai colpevoli. Dopo essere stati colpiti da queste calamità gli abitanti del luogo riesumarono il cadavere, lo decapitarono e gli trafissero il petto con un bastone acuminato: così la gente risolse il problema. 6

6. Sassone Grammatico, Gesta dei re e degli eroi danesi, a cura di Ludovica Koch, Torino, Einaudi, 1993, p. 49 (I, VII, 2).

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Ancora in Sassone, un draugr si manifesta come uno spettro le cui sembianze umane appaiono deformate da tratti mostruosi. Il mostro dalle lunghe unghie affilate divora «con denti feroci» un cavallo e sbrana un cane «con bocca mostruosa», e si avventerebbe anche su un uomo se cos-tui, pronto nella reazione quasi se l’aspettasse e si fosse preparato in an-ticipo, non riuscisse a tagliargli la testa e a conficcargli immediatamente un paletto nel petto.

Manca in queste testimonianze una sola delle caratteristiche che contraddistinguono i vampiri slavi e ungheresi: la sete di sangue um-ano (mentre, si noti per inciso, nelle fonti settecentesche non compare l’elemento notturno che diventerà un luogo comune prima nella narrativa e poi nel cinema: i vampiri agivano ancora anche alla luce del sole); per il resto è chiaro che le epidemie di vampirismo attingevano a credenze folk-loriche le cui più antiche attestazioni provengono dall’area germanica.

L’Ungheria, in cui il picco delle persecuzioni contro la stregoneria si raggiunse in una fase assai tardiva, tra 1700 e 1750, è una regione in cui gli atti dei processi documentano la presenza di elementi peculiari; ad esem-pio compaiono persone che, accusate di aver partecipato al sabba, dichia-rarono di esserci andati perché rapite con la forza e contro la loro volontà. Le specificità delle testimonianze magiare deriva spesso dall’emergenza di particolari tradizioni locali, come la credenza che streghe e stregoni potes-sero assumere le sembianze di altri individui per commettere dei crimini. Le testimonianze dei processi parlano di streghe che assumono sembianze maschili e addirittura molestano altre donne con atti lascivi. Una donna accusata di aver succhiato il sangue di un certo István Kosma attraver-so l’ombelico dichiarò – si badi, però, sotto tortura – che a succhiargli il sangue era stata la moglie di lui, ma sotto le sembianze dell’imputata. Gli inquisitori, senza saperlo, furono davvero gli involontari predecessori dei moderni etnologi. Il materiale da loro raccolto ci informa della tenace vitalità nell’Europa orientale e nelle regioni baltiche di credenze di tipo sciamanico, come la possibilità di trasferire temporaneamente l’anima di un uomo a un suo doppio animale o le metamorfosi in lupo mannaro in specifiche occasioni calendariali (ma non ancora, attenzione, in corrispon-denza dei pleniluni).

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I marchi del demonio

Era il 1697, quando il podestà di Poschiavo, nel cantone svizzero dei Grigioni, presso l’attuale confine italiano, interrogò in carcere una donna di nome Caterina Ross. La data tardiva del processo si spiega probabilmente con la tenacia con la quale la cultura folklorica ha resistito nel relativo iso-lamento delle più riposte valli alpine. Il dialogo tra il podestà e l’imputata svela che in passato anche la nonna dell’imputata era stata condannata – e giustiziata – come strega. Dalle risposte di Caterina emerge inoltre che in paese le «cattive lingue [...] sospettavano che havessi imparà qualche catif arte […] da mia ava».7

Dunque, prima la nonna era stata giustiziata come stria, poi la madre. Alla terza generazione, di nuovo l’accusa si ripresenta, e sono i vicini, prima ancora dei giudici, a ritenere che la tara della mala arte stregonesca si trasmettesse necessariamente di madre in figlia o di nonna in nipote. Era questo che avveniva, d’altronde, per le conoscenze tradizionali delle leva-trici e delle guaritrici. Il sapere tradizionale di queste ultime correva lungo una linea di confine che facilmente le trasformava in potenziali fattucchi-ere maligne. L’eventualità che tale cambiamento di segno si concretizzasse divenne più probabile nel momento in cui, grazie ai sermoni e soprattutto ai processi, il punto di vista degli inquisitori tendeva a sedimentarsi e a trasformarsi in opinione diffusa.

Caterina respinse le accuse, definendole calunnie, ingiurie prive di fondamento. Quasi un mese dopo l’arresto il giudice valutò che gli in-dizi contro la sospettata, che non aveva ancora ammesso nulla, fossero tali da giustificare un’ispezione corporea alla ricerca dei segni visibili del patto con il diavolo. Dunque il tribunale dispose un’ispezione corporale, la quale, prevedibilmente, rivelò la presenza dei marchi diabolici:

il Maistro di Giustizia riferisce haver fatto la visita del corpo di detta Caterina tenor comando a lui imposto e di haver ritrovato 2 segni uni sopra il braz drit [braccio destro] e l’altro sopra la gamba sinistra quali ambiduoi dice sijno seg-ni tenor le streghe solano avere cioè li bolli fattoli dal Diavolo.8

7. Citato in Luisa Muraro, La signora del gioco, Milano, La Tartaruga, 2006, pp. 19-20.

8. Citato in Ivi, p. 30.

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A quel punto Caterina non ebbe più scampo. Sottoposta a tortura, fece le prime ammissioni: quello che molti vicini insinuavano, ovvero che aveva appreso l’arte del maleficio dalla nonna, era vero. Le deposizioni proseguirono in modo discontinuo tra ammissioni e ritrattazioni, ma ormai la via imboccata era senza ritorno. Ogni tentativo di fare retromarcia si scontrava con la minaccia o l’attuazione della tortura. Sua nonna, strega e procuratrice del demonio, le fece «renegare Iddio e la Santissima Trin-ità», la bollò nella gamba sinistra e la condusse in una località chiamata Cavresci, un’altura fuori mano dove donne mascherate ballavano in com-pagnia di un giovane vestito di turchino, Satana in uno dei suoi accattivanti travestimenti.

Dopo aver confermato formalmente la confessione resa, Caterina Ross venne affidata al boia. Prima del supplizio capitale, nella pubblica piazza, ritrattò e gridò di «non saper arte di strega e di non haver fatto tali cose».9 Era troppo tardi.

La ricerca del marchio del demonio, tatuaggio a suggello del patto, era una pratica da tempo in uso nei tribunali ed era riconducibile all’idea che l’appartenenza alla setta demoniaca prevedesse l’apposizione da parte del demonio di un marchio segreto o, in alternativa, la desensibilizzazione di una piccola area cutanea. Il lettore potrebbe restare sconcertato scoprendo che pochi secoli prima una santa, Douceline di Hyères, durante i suoi rapi-menti estatici perdeva la sensibilità in alcune parti del corpo, esperienza «accertata personalmente da altri membri della congregazione conficcando degli aghi nella pelle di Douceline».10

Ventisei anni prima del processo di Poschiavo, una memoria del presi-dente del parlamento di Rouen, Claude Pellot, aveva messo in discussione i punti fermi intorno ai quali si organizzava il processo per stregoneria. Pellot non era un precursore dell’illuminismo laico; al contrario, per redi-gere il testo era ricorso alla consulenza di un sacerdote. La confutazione della realtà del volo magico e del sabba si appoggiava a un ritorno alle più scettiche fonti tardoantiche e altomedievali, in primo luogo il De spiritu et anima di Agostino e l’altomedievale Canon Episcopi. Riguardo al marchio Claude Pellot scrisse che «questo marchio insensibile che a volte si trova non è un crimine. Ci sono medici che ritengono che esso possa verificarsi

9. Citato in Ivi, p. 52.10. André Vauchez, André Vauchez, Esperienze religiose nel medioevo, Roma, Viella, 2003, pp. 102-

103.

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naturalmente; e quand’anche ne fosse autore il diavolo, non sono da punire i posseduti, nei quali fa delle cose ben più sorprendenti» (se il percorso giuridico e teologico dell’insensibilità cutanea volgeva al termine, non così era per quello clinico: un paio di secoli dopo la memoria di Claude Pellot, a fine Ottocento, la presenza di zone insensibili nella cute sarebbe riapparsa tra i sintomi tipici dell’isteria).11

L’idea che Satana marchiasse personalmente i suoi, originatasi nella demonologia colta, era da tempo sedimentata anche nella cultura popolare. Nel 1606, per esempio, una ragazzina di quattordici anni, Magdeleine des Aymards, di Riom in Alvernia, si autodenunciò confessando la partecipazi-one al sabba e il patto col diavolo; contestualmente, si dichiarò pentita e chiese il perdono della Chiesa, che le fu accordato. Negli stessi anni un sedicente licantropo dei dintorni di Bordeaux, affermò di trasformarsi in lupo e di divorare in tal forma vittime anche umane in seguito a un patto diabolico sancito da un marchio sulla coscia.

Robert Mandrou, lo storico che ha pubblicato i manoscritti di entram-be le confessione, ha notato incuriosito che la loquace Magdeleine non si faceva mai cogliere in fallo dalle domande che le ponevano adulti preparat-issimi e professionisti. Mandrou formula l’ipotesi, a mio parere credibile, che la ragazzina avesse in numerose occasioni ascoltato genitori, parenti e vicini raccontare storie di sabba e incontri con il Maligno; la famigliar-ità con queste storie, alle quali non erano certo estranei i resoconti, più o meno fedeli, dei processi per stregoneria ed eresia, ha probabilmente fatto sì che la fanciulla se ne lasciasse suggestionare e se ne appropriasse. Un momento chiave del suo racconto è l’incontro con il Maligno: il diavolo le dichiarò l’intenzione di marchiarla all’occhio destro; lei gli chiese il perché, e «il diavolo le rispose che era perché lei ormai era dei suoi, ma che non le avrebbe fatto male».12 Al patto seguì la distribuzione di polveri venefiche.

Accusatori alla sbarra

È significativo che tanto nei processi inquisitoriali quanto in quelli staliniani si sia verificata, e non solo occasionalmente, l’eventualità che

11. Mandrou, Mandrou, Possession et sorcellerie au XVII siècle, p. 226.12. Ivi, p. 22.Ivi, p. 22.

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alcuni dei condannati fossero stati persecutori prima di essere a loro volta accusati e venire travolti dal meccanismo perverso del processo epidemico della denuncia.

Intorno al 1670 la regione pirenaica del Béarn conobbe una modalità di diffusione del contagio davvero singolare. Un giovane di nome Jacques Bacqué si spacciava per cacciatore di streghe e applicava uno sconcer-tante metodo d’identificazione con l’altrettanto sconcertante beneplacito del parlamento di Pau. La procedura di Bacqué era talmente assurda che, venutone a conoscenza, il primo ministro Colbert intervenne di persona facendo tradurre il giovane alla Bastiglia e sanzionando severamente il comportamento delle autorità regionali.

Ecco cosa avveniva nei Pirenei secondo il verbale di arresto vergato il 9 ottobre 1671: Jacques Bacqué, semplicemente, passava in rassegna una fila anche lunghissima di persone e «indicava quelli che riconosceva essere streghe sulla base di segni che lui individuava sui loro visi e che il detto Parlamento non arrestava nessuno se non chi ordinava lui».13 Egli aveva visitato – sia in senso topografico che medico, è il caso di dirlo! – una trentina di comunità pirenaiche e individuato qualcosa come 6210 streghe e stregoni, tutti prontamente arrestati dalle autorità succubi di questo biz-zarro impostore. Eppure la truffa era così grossolana che il giovane lesto-fante identificava al mattino come frequentatrici del sabba persone che poi non riconosceva come tali al pomeriggio. Il rapporto riferisce, con palpa-bili perplessità e imbarazzo, che «ci sono state persone indicate da Bacqué e che risulta abbiano riconosciuto il loro crimine, e che dei bambini sono stati indotti a testimoniare contro le loro madri».14

Al di là dei risvolti che ormai ci appaiono quasi comici, questa vicenda è la spia di una divaricazione in atto, e non solo in Francia, tra centro e periferia, con il primo destinato a prendere il sopravvento. Dopo aver contribuito in misura determinante ad imporre l’immagine del sabba e le modalità della sua persecuzione, i poteri politico e culturale (che non necessariamente sono perfettamente sovrapponibili) le mettevano ora in discussione e si preparavano a rinnegarle.

Prima di concludere con i casi pirenaici, vorrei per l’ultima volta sot-tolineare che i fatti di Pau invitano a riflettere su quanto sia importante e operativa la sedimentazione nella coscienza collettiva di una memoria

13. Ivi, p. 236.Ivi, p. 236.14. Ivi, p. 242.Ivi, p. 242.

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popolare della caccia alle streghe. Negli anni 1609-1611 diversi processi erano stati celebrati sul versante spagnolo dei Pirenei e anche allora il ruolo dei bambini era stato determinante. Vi è inoltre un’altra coincidenza che induce a pensare che Bacqué fosse sì un mitomane, ma anche che il suo repertorio fosse debitore alla memoria locale della caccia alle streghe. Il cacciatore di streghe francese, infatti, affermava di scorgere un misterioso segno diabolico nelle pupille di coloro che avevano stretto il patto con il Maligno. Ebbene, sessant’anni prima nelle valli dell’alta Navarra si erano proposti all’attenzione degli inquisitori altri cacciatori di streghe che pre-tendevano di riconoscere i partecipanti al sabba da un marchio che essi erano capaci di scorgere guardando gli imputati negli occhi: «Arrivammo nel quarto villaggio [Aranaz], e qui trovammo […] un ragazzo che soste-neva di saper riconoscere le streghe a vista».15

Il giovane basco di Aranaz ammetterà rapidamente di essere un im-postore. Questi precursori di Bacqué non divennero cacciatori di streghe seriali, ma forse solo perché non trovarono funzionari disposti a prenderli sul serio e a servirsi delle loro prestazioni. Bacqué, invece, fu punito per il suo zelo e si andò ad aggiungere alla lista dei persecutori perseguitati, ovvero coloro che finirono per essere travolti dalla situazione che avevano contribuito a creare.

Contagio e cura nei Paesi Baschi

L’uso frettoloso della denuncia, insomma, rischiava di trasformare la cura del male in contagio. Uno dei primi a rendersene conto fu l’inquisitore spagnolo Don Alonso Salazar y Frias (1564-1636). È lui il protagonista del prossimo episodio.

Il caso nel quale Salazar si trovò coinvolto è emblematico della natura epidemica della diffusione del panico stregonesco. Dai Pirenei francesi questa forma di contagio culturale raggiunse il lato opposto delle montagne e si diffuse come una malattia altamente contagiosa. Al di là dell’esito finale, in cui la mortalità venne tenuta sotto controllo, l’esplosione di denunce e confessioni ricorda da vicino altre situazioni i cui bilanci furono ben più devastanti. Su scala assai minore, il panico da complotto

15. Citato in Gustav Henningsen, Citato in Gustav Henningsen, Gustav Henningsen, The Salazar Documents, Leiden, Brill, 2004, pp. 157-159.

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ricorda anche alcuni aspetti del Grande Terrore sovietico degli anni Trenta del Novecento, con la significativa differenza che esso fu scatenato per iniziativa dei vertici del partito comunista.

La smania incontrollata di denunciare e assistere alla condanna dei presunti colpevoli dei mali della comunità venne ben descritta dal gesuita Friedrich von Spee, autore di una delle prime fondamentali critiche alla criminalizzazione del presunto patto tra Satana e le streghe:

È ormai abitudine del volgo, se i giudici non imprigionano, torturano e man-dano al rogo immediatamente, in seguito a una qualunque loro futile richiesta, protestare subito senza ritegno che questi giudici temono per se stessi, per le loro mogli e per i loro amici; che i giudici si sono fatti corrompere da chi ha più soldi; che tutte le famiglie più nobili sono coinvolte nella stregoneria; che le streghe si potrebbero quasi segnare a dito e che manca il coraggio di pro-cedere.16

Parallelamente, quello della persecuzione della stregoneria nei Paesi Baschi è un esempio eloquente di quanto potesse risultare determinante l’impatto sul contagio delle ossessioni di un singolo individuo. Il re di Francia Enrico IV aveva affidato al giudice Pierre de Lancre (1553-1631), membro del parlamento di Bordeaux, l’incarico di investigare sui casi di stregoneria che giungevano dai Paesi Baschi francesi. Lungi dal limitarsi allo svolgere il proprio mandato, una volta sul posto de Lancre si trasformò nel principale ispiratore della caccia alle streghe che raggiunse l’apice sotto la sua supervisione. A suo parere poche famiglie erano immuni dal contagio. Paradossalmente, mentre l’umanista de Lancre scatenava il putiferio, sul versante spagnolo, dove l’epidemia era letteralmente tracimata, l’inquisitore Salazar conduceva un’ineccepibile analisi sociologica del fenomeno, giungendo alla conclusione che le accuse, comprese le confessioni rese di spontanea volontà, erano o inaffidabili o totali invenzioni.

A parte la peculiarità dell’esito, le vicende del panico basco meritano di essere raccontate. Benché nella specifica occasione il contagio fosse giunto dal versante opposto delle montagne, la regione aveva conosciuto in precedenza crisi simili, anche se meno violente. In una nota informativa inviata il 7 novembre 1610 alla sede episcopale di Logroño da Zugarramurdi,

16. Friedrich von Spee, Friedrich von Spee, I processi contro le streghe (Cautio criminalis), Roma, Saler-no Editrice, 2004, p. 91.

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cuore del panico stregonesco basco, gli inquisitori ricostruirono per sommi capi le precedenti manifestazioni della stregoneria nel territorio montano della Navarra.

L’abominevole setta degli stregoni è molto antica e radicata da molte parti, e con maggiore frequenza in quelle che sono toccate dall’eresia. È stato cento-quattro anni fa che si è cominciato a scoprirla nelle valli dei monti Pirenei di pertinenza del regno di Navarra […] e ora, a partire dall’anno 1608, il Santo Uffizio del regno di Navarra e distretto di Logroño ha scoperto come nel vil-laggio di Zugarramurdi, e in molti altri di quelle montagne, ci siano parecchi aquelarres di streghe. In questo luogo di Zugarramurdi, valle di Baztán, che sta dall’altra parte dei monti Pirenei che guarda verso la Francia, distante poco più di mezza lega dal monastero di San Salvador di Urdax, che appartiene ai frati premostratensi, fondato vicino ai confini tra la Navarra e la Francia […]. Questo nome aquelarre non si trova che in basco, che è la lingua che si parla in quelle montagne, ed è il nome con cui comunemente gli stregoni chiamano i loro raduni e i luoghi dove hanno luogo, e riguardo all’etimologia che la parola può avere in basco, sembra trattarsi di un nome composto che suona come ‘prato del caprone’».17

Alla presentazione del problema segue l’illustrazione dei fatti recenti che riprendono i classici luoghi comuni del rinnegamento della fede cris-tiana e del battesimo, l’affiliazione alla schiera del demonio, il sabba, i banchetti smodati, le orge. Agli elementi ormai attesi si aggiungono certi dettagli peculiari, ad esempio l’esistenza di una sorta di scuola elementare dell’aquelarre, in cui una maestra impartiva ai bambini il catechismo del sabba. La consueta orgia finale si distingue per un’inedita doppia metamor-fosi operata dal Maligno, che prima assume forma di uomo e copula con le donne presenti, e poi si trasforma in donna e si unisce ai maschi.

Quello del 1609-1611 fu un panico singolare anche per come si era manifestato. Tutto iniziò, infatti, con una serie sconcertante di incubi ste-reotipati le cui vittime erano in massima parte bambini e adolescenti. Si tratta di un elemento di forte originalità che ha un solo parallelo distante nello spazio e nel tempo – la regione del lago Siljan, nella Svezia setten-trionale intorno al 1670. L’incubo consisteva nel sognare di essere traspor-tati allo spaventoso aquelarre. Per alcuni mesi i bambini sognarono senza che gli adulti ne traessero conseguenze radicali. Il panico vero e proprio

17. Henningsen, Henningsen, The Salazar Documents, pp. 105-107.

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scoppiò quando il padre di uno di essi accusò un bovaro di nome Iricia di aver stregato suo figlio. Il giorno dopo, come ubbidendo a un segnale a lungo atteso, trenta bambini dichiararono di essere stati condotti da Iricia all’aquelarre. Le accuse si moltiplicarono e la sede episcopale di Logroño inviò degli inquisitori per combattere quella pestilenza (la definizione è loro). I frati, tra i quali non c’era ancora Salazar, si misero al lavoro e in breve delinearono nei minimi dettagli l’immagine consolidata del sabba: molti accusati vennero incarcerati, piovvero le confessioni che permisero di accertare l’esistenza del complotto satanico e vennero eseguite alcune condanne a morte. Quando Salazar raggiunse i colleghi e si unì agli inter-rogatori ebbe presto la percezione di qualcosa che non tornava. Le denunce e le confessioni gli apparivano incoerenti e piene di assurdità, e non reg-gevano alle verifiche più elementari.

Salazar, inviato a dar man forte ai colleghi che investigavano sul panico nei villaggi baschi, si persuase che le confessioni ottenute dai suoi colleghi erano riconducibili alla paura, al condizionamento e, ciò che era peggio, al fatto che erano state estorte con la forza e con le privazioni del carcere. L’inquisitore si era posto un problema ancora attualissimo: separa-ti dal proprio ambiente consueto e sottoposti a violenze fisiche e pressioni psicologiche durante la detenzione, molti accusati di stregoneria finivano per dubitare della loro identità, le loro convinzioni si sgretolavano e la loro mente si disponeva ad ammettere per veri fatti che non lo erano. La conseguenza, correttamente individuata, era che a quel punto i testimoni rischiavano di diventare del tutto inaffidabili. Salazar, insomma, osservava che il ricorso alla tortura toglieva attendibilità alla confessione. Esisteva quindi il concreto rischio, gravissimo per un inquisitore, di registrare delle false confessioni o addirittura delle assurdità. Come la seguente:

alcune persone che essendo perfettamente sveglie a mezzogiorno e trovandosi a conversare o a mangiare con altra gente in pubblico, hanno confessato di es-sere state trasportate all’aquelarre senza essersi allontanate un solo istante da quelle persone con le quali parlavano.18

A partire dal momento in cui Salazar cambiò i termini del rapporto tra inquisitore e inquisiti, cessando di indirizzare le risposte degli interrogati verso l’ammissione di colpa e suggerendo invece che l’ipotesi opposta

18. Ivi, p. 277.Ivi, p. 277.

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sarebbe stata finalmente accettata, le ritrattazioni si moltiplicarono. Alcune donne sospettate, tra cui l’ottuagenaria Catalina Fernández, ammisero di aver confessato di essere streghe solo perché provate e terrorizzate e perché nel villaggio di Zugarramurdi non si parlava di altro. Un’altra anziana

aveva dichiarato nella sua confessione di aver offerto al demonio tre dita del piede sinistro al momento di entrare nella congregazione delle streghe; tuttavia, altri testimoni e membri della sua famiglia hanno invece detto che quelle dita le sono sempre mancate, fin dall’infanzia, cosa che lei stessa ha poi riconosciuto ritrattando la sua confessione.19

La posizione di Salazar y Frías, peraltro, riprendeva e approfondiva un vecchio parere espresso dal Consiglio della Suprema Inquisizione nel 1526. Il Consiglio si era riunito su richiesta di inquisitori periferici che necessitavano di chiarimenti in merito a dubbi emersi nel corso di processi per malefici diabolici tenutisi proprio in Navarra. Gli inquisitori avevano bisogno di direttive precise poiché la collocazione giuridica della stre-goneria risultava tutt’altro che limpida. Tra i problemi in discussione vi era anche quello dell’autosufficienza della confessione. In merito, emerse l’indicazione che la sola auto-incriminazione non poteva ritenersi suffi-ciente a una sentenza di condanna e che fosse comunque necessario rep-erire altre prove.

Salazar contestò, prove alla mano, l’idea dell’autonomia e dell’autosufficienza giudiziaria della confessione. Si tratta di un problema giuridico ancora attualissimo. Come ha osservato Carlo Ginzburg in un piccolo e denso libro pubblicato nel 1991, Il giudice e lo storico, nei tribunali si manifesta ancora, e nemmeno troppo di rado, la tendenza a ritenere la confessione come risolutiva anche in assenza di ulteriori prove, oppure a risolvere a favore della confessione le eventuali discrepanze tra essa e altri riscontri.

L’avvocato delle streghe, come lo ha definito Gustav Hennigsen, che ha riscoperto e pubblicato la documentazione relativa alla sua attività, si rivolse ai superiori esprimendo la sua certezza che le condanne già eseguite di streghe e stregoni di Zugarramurdi e dintorni erano state un tragico er-rore giudiziario. In breve tempo l’epidemia cessò.

Nel suo Informe alla Suprema Salazar scrive parole significative e

19. Ivi, p. 301.Ivi, p. 301.

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ancora attuali:

considerando i fatti con tutta l’attenzione cristiana, non ho trovato nessuna prova dalla quale dedurre che un solo atto di stregoneria aveva effettivamente avuto luogo, che fosse l’aver assistito agli aquelarres o aver preso parte a essi direttamente [...]. Ne ricavo l’importanza del silenzio e della cautela sulla base dell’esperienza che non ci sono state né streghe né vittime della stregoneria fino a che non si è cominciato a parlarne e a scriverne.20

Sul versante opposto dei Pirenei

Nell’autunno del 1643 una caccia alle streghe terrorizzò le pendici pirenaiche del sud della Linguadoca. Due uomini del villaggio di Mont-gaillard denunciarono come strega una compaesana. Immediatamente l’Inquisizione entrò in azione e mise all’opera uno schema ormai tipico: sottoposta a un interrogatorio serrato e circostanziato, la donna, detta Nane, che all’epoca aveva 65 anni, negò di essere una strega, di aver mai preso parte al sabba, di essersi mai venduta al Maligno e di aver ucciso bambini nottetempo per mezzo di malefici. La donna negò anche una serie di altre accuse abnormi: di aver somministrato a una vicina formaggio avvelenato, di aver gettato oggetti magici in una fontana allo scopo di provocare tem-peste capaci di distruggere i raccolti, di avere misteriosi marchi sulla pelle e di aver avvelenato i propri marito e figlio.

In seguito all’arresto di Nane, l’arcidiacono del vescovo di Pamiers approvò la lettura in tutte le chiese di un testo che invitava a vigilare contro le streghe che agivano in combutta con il diavolo. Nel breve volgere di pochi giorni le denunce cominciarono a piovere sulle autorità e gli arresti si moltiplicarono. I sospetti si concentrarono su altre quattro donne che vennero arrestate e torchiate a dovere dagli inquirenti. Tutte, all’inizio, rifiutarono di confessare. Ammisero di conoscere Nane, ma non di aver compiuto il male insieme a lei. La prima a cedere fu proprio Nane. La sua confessione trascinò con sé le altre imputate.

Il fatto che la regione pirenaica avesse conosciuto in precedenza le persecuzioni dei catari e poi altre cacce alle streghe organizzate prima di

20. Citato in Maria Sofi a Messana, Citato in Maria Sofia Messana, Inquisitori, negromanti e streghe nella Sicilia mo-derna (1500�1782), Palermo, Sellerio, 2007, p. 184.

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questa ha avuto a mio avviso un peso decisivo. È la prova che nei territori in cui la coscienza e la cultura degli abitanti erano maggiormente impreg-nate dalla memoria dei processi per stregoneria si conservava, insieme al ricordo e alla sua elaborazione, anche il germe culturale che rendeva più probabili successive epidemie.

Le regioni d’Europa più colpite sono spesso quelle di montagna. Nelle Alpi e nei Pirenei, diremmo in gergo medico, il contagio stregonesco è stato in una certa misura endemico per oltre un paio di secoli. In esse si reg-istrano singolari ritorni periodici di virulenza del panico da stregoneria. Se le Alpi sono l’area in cui si è probabilmente cristallizzato per la prima volta il paradigma del sabba, i Pirenei sono la regione in cui l’Inquisizione ha in-augurato e sperimentato come raramente altrove il dispiegamento di forze volto a perseguire le sacche di resistenza dell’eresia catara. Il giustamente celebre studio di Emmanuel Le Roy Ladurie sul villaggio di Montaillou, nella pirenaica valle dell’Ariège, è stato reso possibile dalla ricchezza della documentazione prodotta in seguito all’inchiesta dettagliata ordinata nel 1320 dal vescovo di Pamiers – la medesima diocesi dove tre secoli dopo un altro vescovo zelante avrebbe scatenato la caccia alle streghe di cui si è appena fatto cenno. I risultati dell’indagine dimostrarono che le preoc-cupazioni del vescovo Jacques Fournier erano, dal suo punto di vista, as-solutamente fondate: le credenze dei montanari, nobili compresi, erano un coacervo di eresia e tradizioni locali molto distanti dall’ortodossia.

La precocità e la continuità in area pirenaica dei processi su larga scala per eresia e maleficio – i grandi complotti orditi dal nemico per eccellenza, Satana, e dalle sue mai esauste coorti – colpiscono la nostra attenzione. La sedimentazione della memoria storica locale dei processi e delle motivazioni non può che aver giocato un ruolo, per quanto difficile da misurare, nel perverso effetto di ritorno del contagio. È insomma verosimile che l’esperienza dei processi del passato abbia funzionato da griglia selettiva plasmando una sorta di disponibilità collettiva a interpretare in senso stregonesco problemi che avrebbero potuto essere letti anche in prospettive alternative.

Il processo contro Vittore Soranzo

Il principale motore delle persecuzioni contro le streghe e gli adepti del demonio fu la lotta senza esclusione di colpi condotta all’eresia, sia

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che maleficio e stregoneria vi fossero implicate sia che la devianza da perseguire fosse schiettamente dottrinaria. Se si osserva il fenomeno in termini generali si nota che lungi dal colpire solo, o soprattutto, donne e marginali, la persecuzione non ha mai risparmiato gli uomini, neppure quelli posti ai vertici della gerarchia. Quest’ultimo aspetto è un altro dei tratti condivisi da processi staliniani e inquisitoriali, soprattutto se si con-siderano le istruttorie condotte contro i sospetti simpatizzanti del luterane-simo all’interno del mondo cattolico.

Il processo istituito nel 1550 contro il vescovo di Bergamo Vittore Soranzo, pur non evocando direttamente complotti o congiure, esemplifica meglio di altri certe dinamiche che tendevano a restare dietro le quinte. Sul banco degli imputati venne infatti a trovarsi non un outsider, ma una figura di spicco della Chiesa del Cinquecento, un personaggio, quindi, meglio avvicinabile ai dirigenti di partito rispetto, per esempio, a una guaritrice di villaggio o a un mugnaio. Inoltre, l’atteggiamento di imputato e inquirenti mostra significative affinità con quanto si sarebbe verificato quattro secoli dopo. Mi riferisco in particolare allo sforzo costante da parte dell’accusa di ancorare la colpevolezza di Soranzo da un lato alla sua biografia e dall’altro a una confessione dettagliata che in sostanza andava a confermare capi d’accusa preconfezionati.

Il processo a Soranzo si inserisce in un contesto di lotta all’eresia luterana al quale non è però estraneo un regolamento di conti interno alla Chiesa cattolica che vede il Sant’Uffizio e i suoi inquisitori «impegnati in una serie di inchieste contro gli spirituali con l’intento primario di colpire, all’insaputa dello stesso pontefice, il Pole e il Morone, legati al Soranzo sin dai primi anni quaranta».21 Il cardinali Pole e Morone, con il primo che a un certo punto fu anche serio candidato alla carica papale, erano i capofila di una corrente riformista disposta a recepire alcune delle istanze sollevate dai luterani. Erano, insomma, un esempio di oppositori tiepidi dell’Avversario che agli occhi della corrente più severamente rigorista si distinguevano a fatica dai complici. Erano essi stessi dei potenziali eretici, se non addirittura degli infiltrati che stavano indebolendo le fondamenta della Chiesa per favorire la vittoria dei suoi nemici.

Le accuse al Soranzo vertevano sulla divulgazione di materiale eretico di stampo luterano, sulla protezione accordata a eretici e sulla sospetta

21. Massimo Firpo, Massimo Firpo, Vittore Soranzo vescovo ed eretico, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 423.

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tolleranza nei confronti di comportamenti in odore di eresia. Nelle vicende del vescovo bergamasco si riconosceranno momenti che paiono anticipare aspetti cruciali dei processi novecenteschi, a partire dall’invito preliminare rivolto all’imputato di redigere una confessio, vale a dire una ricostruzione biografica del suo operato. La minima famigliarità acquisita con i processi di Praga e Budapest è sufficiente a farci prevedere il seguito. Al pari dei referenti affiancati agli imputati dei processi staliniani, gli inquisitori torneranno a più riprese sulla necessità di ripetere, aggiornare, riscrivere la confessio. Come altri accusati mezzo millennio dopo di lui, Soranzo esordì ribadendo la sua fedeltà alla Chiesa e al papa e manifestando la certezza che tutto si sarebbe risolto e chiarito quanto prima. E come molti altri prima e dopo di lui, si sbagliava. Incalzato da sempre nuove accuse e testimonianze a carico, il vescovo fu costretto a riconoscere un numero progressivamente maggiore di colpe, fino all’ammissione di aver ceduto alle seduzioni dell’eresia.

Il caso Soranzo avrebbe potuto essere l’inizio di una sconvolgente «purga» in grado di raggiungere il collegio cardinalizio – chiari bersagli i riformatori come Pole e Morone, amici del vescovo di Bergamo – e fare piazza pulita della corrente riformatrice. Era una tattica che avrebbe ris-cosso l’approvazione di Stalin, che per screditare alti dirigenti del partito e lanciare loro degli avvertimenti usava colpire dei loro collaboratori diretti o funzionari appartenenti alla loro cerchia. Nel caso specifico, però, Papa Giulio III, che spesso aveva subito l’iniziativa degli inquisitori, riuscì a tenere sotto controllo l’estensione del contagio evitando il coinvolgimento diretto dei cardinali Pole e Morone.

Da parte sua Soranzo aveva impostato la sua attività pastorale adottando un approccio morbido nei confronti delle deviazioni, anche gravi, dall’ortodossia che incontrava nel corso delle visite pastorali. Il suo atteggiamento mostra quanto fosse decisiva l’inclinazione dei singoli nell’avvio, o nel mancato avvio, di processi per stregoneria e maleficio. Soranzo si imbatté spesso in situazioni e comportamenti sospetti o palesemente deviati che altri al suo posto avrebbero immediatamente interpretato come il segno inequivocabile della presenza del complotto demoniaco. I verbali delle visite pastorali registrano la sistematica presenza sul territorio di incantatores seu incantatrices, di donne che pretendono di predire il futuro, di guaritori con la fama di saper scacciare i demoni. Tutti se la cavarono con poco, ma si vede bene che le potenziali accuse che avrebbero potuto colpirli erano di natura tale da costituire, se interpretate

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nella direzione del contagio satanico, la potenziale miccia di una catena processuale devastante.

Il caso più clamoroso si verificò all’interno del monastero femminile di San Fermo extra moenia, sul conto del quale circolavano voci preoccu-panti. Nella stanza di una delle suore, di nome Dorotea, il vescovo di Ber-gamo scoprì un intero armamentario magico, fatto di rane essiccate, cuori di uccello e semi di giusquiamo; come se non bastasse, l’ispezione di uno scrigno rivelò che la suora corrispondeva con uno spasimante che l’aveva istruita su come usare il giusquiamo per addormentare la badessa e «quella rana e quel cuore, per trarne una polvere capace di farla impazzire».22 Il vescovo aprì un’inchiesta e scoprì che il maestro di sortilegi, nonché aman-te, di suor Dorotea era un monaco celestino. Soranzo, tuttavia, evitò di mettere in mezzo il diavolo e l’Inquisizione; il caso venne trattato come un fatto isolato senza che si paventasse – e, di riflesso, si innescasse – il patto con il diavolo e il contagio stregonesco.

Le premesse per un’azione di segno ben diverso c’erano tutte, il ma-leficio, in primo luogo: erano addirittura stati cuciti dei sacchi da morto da porre sotto il letto della badessa così che ella passasse direttamente dal sonno ristoratore a quello eterno. I germi dell’epidemia erano latenti, as-pettavano solo un intervento che facesse da detonatore, che non arrivò. E l’epidemia non scoppiò.

La scoperta del folklore: i convegni notturni delle Valli alpineNegli anni successivi alla oltremodo traumatica frattura luterana, la

necessità di verificare e migliorare il grado di evangelizzazione dei fedeli stimolò una più capillare presenza sul campo dei sacerdoti e la verifica della qualità delle conoscenze religiose dei fedeli. L’accresciuto impegno pastorale e la preoccupazione di accertare l’eventuale presenza di credenze eretiche o eterodosse comportò come conseguenza, in entrambi i campi, la scoperta della cultura folklorica con tutto il suo complesso e vario ar-mamentario di credenze e superstizioni. Una scoperta, tuttavia, e lo di-mostrano negli stessi anni le reazioni di fronte alle sconcertanti culture del Nuovo Mondo, genera immediatamente interpretazioni, che in questo caso significarono l’apertura di un conflitto. Di fatto, le tradizioni trasmesse oralmente e conservatesi soprattutto in zone isolate come le aree montu-ose furono interpretate come segni evidenti e sconcertanti di resistenza all’evangelizzazione, o addirittura come indizi di un subdolo attacco del

22. Ivi, pp. 150-151.Ivi, pp. 150-151.

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Maligno volto a guadagnarsi adepti e a sottrarre fedeli alla Chiesa – o alla cristianità, includendo così anche i territori di recente passati alla Riforma, nei quali le cose non andavano troppo diversamente. A confondere le idee, e dunque a spaventare, era l’evidente autonomia con la quale si esprimeva il cristianesimo popolare rispetto alle linee ufficiali. La risposta più spesso fornita fu che si trattava di deviazioni ispirate direttamente dall’iniziativa perversa del demonio e dall’attiva adesione di alcuni.

Inquisitori e giudici restavano di certo particolarmente colpiti dalle testimonianze, provenienti soprattutto dall’area alpina, che riferivano di misteriosi raduni notturni, spesso di sole donne, ma non necessariamente, in cui si celebravano balli e libagioni aventi come officiante una figura femminile variamente denominata – Perchta, Holda, Diana, Erodiana, Signora del Gioco, per non citare che alcuni dei nomi attribuitegli. La danza – che già nel pieno medioevo un canonista aveva definito “un cerchio con il demonio al centro” – venne interpretata come l’occasione rituale, vero cerimoniale iniziatico, per la stipula di un patto. Allo schema tradizionale, ben ricostruibile in ambito alpino e che prevedeva un abbondante pasto e la prodigiosa resurrezione degli animali arrostiti da parte della Signora, si aggiunse, non senza resistenze da parte delle interrogate, un momento successivo e culminante: un ballo impudico nel corso del quale i partecipanti baciavano il diavolo e si sanciva una scelta di campo. Dalle Alpi alla Scozia, lo strumento prediletto dal malvagio seduttore era la cornamusa, forse per l’asprezza del suono che produceva. Non a caso la cornamusa è tuttora da molte parti soprannominata «sacca del diavolo».

Il caso più celebre di raduni notturni emerso da atti processuali in-quisitoriali è forse quello dei benandanti, scoperti quasi per caso in Friuli nel 1575 e riscoperti, di nuovo quasi per caso, a metà degli anni ‘60 del Novecento da Carlo Ginzburg. Costoro, nelle notti delle Quattro Tempora, rispondendo a una misteriosa chiamata, volavano in diversi luoghi armati di mazze di finocchio e combattevano gli stregoni malvagi. Con pazienza venne compilata una lista di benandanti che furono sottoposti a interroga-torio. Tutti proclamarono di essere buoni cristiani che andavano alla messa e proclamarono di combattere contro gli stregoni malvagi essendo schierati dalla parte del Bene, di Cristo.

Le esperienze estatiche dei benandanti ricordano alcune delle cre-denze stigmatizzate all’inizio del secolo XI nel Corrector di Burcardo di Worms:

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Anche tu, come alcune donne, hai creduto di avere il potere, insieme ad altre adepte di Satana e nel silenzio di una notte tutta particolare, e malgrado le porte chiuse, di sollevarti fino alle nubi e lì combattere contro altre donne con reciproche ferite?.23

Al contrario del vescovo di Worms, che la riteneva una semplice credenza, gli inquisitori davano per scontata la realtà del volo magico. Le dichiarazioni dei benandanti risultavano quindi estremamente sospette ai loro occhi. Quale Cristo era mai il loro? Di certo non quello della Chiesa. Il dubbio che dietro ai benandanti si celasse uno dei subdoli inganni del Maligno era fortissimo. Il contenuto delle testimonianze era impregnato di tradizioni estranee alle conoscenze degli ecclesiastici, nelle menti dei quali, incapaci di decodificare voli e battaglie notturne, si profilava invece l’immagine inquietante e spaventosa del sabba celebrato dagli adepti di Satana. Va notato, comunque, che rispetto a quello che gli inquirenti si aspettavano, i racconti relativi ai benandanti contenevano elementi di novità e anomalie tali da generare perplessità destinate a condizionare gli interrogatori e la severità delle sentenze, che furono decisamente blande fino a quando – e ci sarebbero voluti alcuni decenni – il paradigma diabolico non prevalse definitivamente sulla tenuta delle tradizioni folkloriche.

Il cammino dalla credenza folklorica al sabba si compì in maniera definitiva e completa nei processi celebrati a Cividale nel 1634 – dunque piuttosto tardi, se ci pensiamo, rispetto a quanto era successo altrove. Le esperienze dei benandanti vi appaiono pienamente inserite nel contesto del patto con Maligno e corredate dal consueto apparato di banchetti, balli, orge e, inevitabilmente, denunce a catena dei complici. Soprattutto, tali esperienze, nelle confessioni, non avvenivano più in spirito, ma in carne e ossa, come da tempo pretendevano teologi e demonologi. Alla fine del Cinquecento il gesuita Martino del Rio aveva sentenziato che coloro che sostenevano essere solo sogni e illusioni i raduni notturni delle streghe er-ano da ritenersi fuori dalla Chiesa, ma già nel 1453 il teologo e predicatore Guillaume Adeline era stato condannato al carcere perché nei suoi sermoni negava la realtà dell’esistenza dei raduni satanici.

23. Il Il Corrector sive medicus è edito nel volume CXL della Patrologia Latina. Una traduzione italiana è contenuta in A pane e acqua. Peccati e penitenze nel medioevo, a cura di G. Picasso, G. Motta, G. Piana, Europia, Novara, 1986; la citazione qui riportata è alle pp. 100-101.

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Lo sciamano della Baviera

Negli stessi anni che vedevano inaugurarsi i processi ai benandanti, a Oberstdorf, nelle alpi bavaresi, si svolgeva una vicenda che ha molto in comune con quelle friulane – e che, in sovrappiù, di nuovo narra la dram-matica parabola dell’accusatore travolto dalle proprie denunce. Il tragico protagonista è uomo di nome Chonrad Stoeckhlin. Nello stesso tempo, la vicenda di questo montanaro che viveva conducendo i cavalli al pascolo contiene aspetti peculiari che illuminano di una luce diversa, e triste, i mec-canismi psicologici, sociali e giudiziari capaci di innescare da una scintilla apparentemente trascurabile un autentico incendio – e non in senso meta-forico.

Tutto cominciò con una conversazione tra due amici, al principio del febbraio del 1578. Era sera, fuori faceva freddo, il camino era acceso: Chon-rad Stoeckhlin e Jacob Walch bevevano un bicchiere di vino e discutevano non di argomenti frivoli, ma della vita dopo la morte, di come fosse l’aldilà e cosa ci fosse. I due si fecero una promessa: il primo che fosse morto sarebbe apparso all’altro e gli avrebbe riferito quello che c’era da sapere. Si tratta di una forma di obbligazione che ricorre in fonti anche molto più antiche e che è sopravvissuta nel folklore alpino fino al secolo XX. Benché la vita in quei tempi e in quei luoghi fosse certamente precaria, entrambi godevano di buona salute e non immaginavano che il momento di onorare l’accordo fosse tanto prossimo.

Solo otto giorni dopo Jacob morì all’improvviso. E si dimostrò di pa-rola. Un pomeriggio Chonrad uscì per fare legna e

[…] a circa un tiro di pistola di distanza vide qualcosa immobile, in piedi. Real-izzò che si trattava del suddetto Walch. Allora salì verso di lui e gli si avvicinò fino a trovarsi a un paio di metri; non provava paura né orrore e gli rivolse la parola chiedendogli: «Jacob, sei tu?».24

Chonrad avrebbe riferito poi ai magistrati la risposta del fantasma at-tribuendo all’apparizione queste parole:

Chonrad, abbiamo portato insieme le bestie al pascolo e a volte ci siamo

24. Citato in Wolfgang Behringer, Citato in Wolfgang Behringer, Wolfgang Behringer, Shaman of Oberstodorf. Chonrad Stoecklin and the Phantoms of the Night, Charlottsville, University of Virginia Press, 1998, p. 12.

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ubriacati in compagnia. Abbandona questo stile di vita! Comportati bene verso di Dio, verso il mondo e verso la giustizia. Perché chi vive nell’ubriachezza, nell’adulterio, nella blasfemia, nell’avarizia, nell’orgoglio, nell’invidia, nell’ira e nell’odio, e non insegna ai propri figli a temere Dio, non entrerà nel regno dei cieli.25

È possibile, anzi probabile, che nel 1586, al momento della sua com-parsa in tribunale, Stoeckhlin abbia adattato questo edificante ammoni-mento per impressionare favorevolmente i magistrati; ma è ancor più certo, purtroppo per lui, che il suo racconto conteneva degli elementi, in primo luogo l’obbligazione che lega un vivo e un morto, che al contrario stride-vano con la dottrina ufficiale della Chiesa.

In seguito all’incontro con l’amico defunto nella vita di Chonrad si verificarono due cambiamenti decisivi. Da un lato egli intraprese un percorso di penitenza e purificazione insieme alla sua famiglia, dall’altro i suoi contatti con l’altro mondo diventarono frequenti e abituali. Jacob tornò spesso a visitare il vecchio amico e lo preparò a un incontro più importante, quello con un angelo. Il guaio, per Chonrad, fu che il suo angelo aveva davvero poco in comune con l’insegnamento della Chiesa. Il celeste messaggero invitò il mortale a seguirlo. «Allora egli [Stoeckhlin] cadde privo di sensi. E così, rapito, andò con l’angelo in un luogo in cui vide pena e gioia, che egli ritenne essere il purgatori e il paradiso».26

Il percorso di Stoeckhlin è anomalo e curioso. L’apparizione di un defunto che indirizza un amico a una vita pia sembra tratto dagli exem-pla medievali, racconti esemplari ed edificanti – e non possiamo esclu-dere che il protagonista della vicenda ne avesse ascoltati dalla voce di un parroco o di un predicatore; eppure, dopo un preludio quasi da manuale del cristianesimo popolare, assistiamo a una deriva verso il folklore. Se i contenuti della sua visione sono cristiani, le modalità del viaggio apparten-gono all’ambito delle manifestazioni estatiche di tipo sciamanico. Da al-lora il coinvolgimento penitenziale e devozionale di Chonrad e della sua famiglia si rafforzò, ma, parallelamente, a ogni apparizione dell’angelo, si incrementarono anche le esperienze di trance. Il suo corpo rimaneva im-mobile mentre l’anima viaggiava per lunghissime distanze. Lui e l’angelo, però, non erano più soli, con loro volavano altri uomini e altre donne, che

25. Ivi, p. 13.Ivi, p. 13.26. Ivi, p. 19.Ivi, p. 19.

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Chonrad chiama Nachtschar, i fantasmi della notte. Nei racconti di Chon-rad Stoeckhlin l’ortodossia cristiana aveva ceduto il passo a oscure creden-ze tradizionali che, come sappiamo, risultavano facilmente fraintendibili e reinterpretabili da parte delle autorità laiche ed ecclesiastiche in un senso assai diverso rispetto alle intenzioni del narratore.

Di fatto, l’angelo che si manifestava a Oberstdorf assomigliava molto alla guida che radunava i benandanti e li guidava alle loro aeree e notturne battaglie. Se al quadro che si va delineando aggiungiamo che Stoeckhlin si era nel frattempo guadagnato una buona reputazione come guaritore, com-prendiamo come la sua posizione fosse divenuta socialmente e ancor di più giuridicamente rischiosa. Malgrado lui riconducesse al Dio cristiano i doni di cui beneficiava, le autorità locali si insospettirono e lo convocarono. Paradossalmente, ma non troppo, a indurre i giudici a prendere l’iniziativa contro Chonrad Stoeckhlin fu proprio la sua proclamata pretesa di saper riconoscere le streghe in virtù dei suoi poteri di veggente e guaritore.

Secondo un procedimento e una sequenza di fatti molto simili a quelli che l’etnografia ha riscontrato presso gli sciamani siberiani e nordameri-cani, l’esperienza della visione e dell’estasi aveva avuto per il mandriano alpino il valore di svolta iniziatica dopo la quale la sua vita e la sua percezi-one di sé risultarono definitivamente cambiate. Nella comunità in cui egli viveva e agiva, tuttavia convivevano direttrici culturali che erano ormai entrate in uno stato di tensione reciproca, per non dire in rotta di collisione. L’ortodossia cristiana non accettava più una cultura vernacolare che pre-tendeva di sposare la fede in Cristo con credenze fokloriche estranee a essa. Al povero Chonrad Stoeckhlin accadde quello che tre secoli e mezzo dopo, su scala maggiore, sarebbe accaduto a diversi dirigenti di partiti comunisti dell’Europa centrale e orientale, ad esempio Rudolf Slánsky, ovvero di ve-nire risucchiato dalla catena di denunce che aveva contribuito ad avviare.

Nell’ambito della sua attività di guaritore egli visitò una cliente malata e maturò la convinzione che la causa del disturbo non fosse naturale, bensì ascrivibile ai malefici di una donna di nome Anna Enzensbergerin. Gli atti dell’interrogatorio riportano la dichiarazione resa da Stoeckhlin a questo proposito.

Egli sapeva che la Enzensbergerin era una strega e che era responsabile della malattia della moglie dell’oste: quando l’ostessa si era ammalata aveva chiesto l’aiuto suo e dei suoi parenti. Così, durante uno dei suoi viaggi [al seguito dei Nachtschar], lui aveva chiesto della donna alla sua guida, che lui riteneva essere

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un angelo, al che la sua guida aveva risposto che era stata la Enzensbergerin. Per curarla, egli sarebbe dovuto andare da lei, Anna, e chiederle aiuto per tre volte nel nome di Dio e del Giudizio Finale, e lei sarebbe stata costretta a concederglielo. Il che avvenne, proprio come previsto.27

Alle esperienze estatiche vissute da guaritori tradizionali accennano autori dell’epoca, per esempio Girolamo Cardano, ma nel caso di Stoeckhlin abbiamo la possibilità di ascoltare, per quanto filtrata dal notaio del tribunale, la voce di un protagonista. Mi piacerebbe divagare su questo peculiare aspetto della vicenda, che trovo appassionante, ma credo e temo che mi porterebbe troppo lontano dal tema del libro. Mi limito pertanto a riportare alcune pertinenti considerazioni di Wolfgang Behringer, lo storico che meglio ha studiato venture e sventure del veggente bavarese.

Per Stoeckhlin i fantasmi della notte finirono per occupare una posizione centrale nella sua percezione di sé stesso come guaritore e profeta. È stata la partecipazione a questo mito che gli ha permesso di assumere un ruolo caris-matico all’interno della comunità. In quanto membro dei fantasmi della notte, Stoeckhlin ha guadagnato rispetto nel suo villaggio e probabilmente anche al di fuori, ed ha acquisito clienti in fasce sociali che altrimenti non si sarebbero mai rivolte a un mandriano.28

Nell’estate del 1586, otto anni dopo la prima apparizione di Jacob Welch, la regione subì due diverse devastazioni: la distruzione dei raccolti da parte degli agenti atmosferici e la perdita di molte vite per il diffondersi di un’epidemia. Tra le prime reazioni delle autorità al panico ci fu l’arresto di Anna Enzensbergerin. Le autorità episcopali, una volta informate dell’iniziativa confermarono che l’arrestata doveva restare in prigione, ma aggiunsero la richiesta che anche Chonrad Stoeckhlin venisse interrogato in modo più puntuale da parte degli inquisitori del vescovo di Augsburg. Costoro, prevedibilmente, diffidavano di un angelo che guidava i voli not-turni e paventavano che la sua reale natura fosse diabolica. Ai loro occhi la possibilità che il guaritore e scopritore di streghe di Oberstdorf fosse in realtà uno stregone era più che concreta.

Nel corso del primo interrogatorio, il 29 luglio 1586, Stoeckhlin si

27. Ivi, p. 85.Ivi, p. 85.28. Ivi, pp. 86-87.Ivi, pp. 86-87.

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premurò di distinguere fra tre tipi di viaggio. Il suo intento era fugare i sospetti e i dubbi degli inquisitori.

Egli spiegò che esistono tre tipi di viaggio e che quelli che volano con lui sono detti fantasmi della notte (Nachtschar), mentre il secondo tipo è detto «giusto viaggio» (die Rechte Fahrt), che è quello in cui i morti sono condotti alle loro nuove dimore. Il terzo di tipo di viaggio è il volo delle streghe. Loro viaggiano nell’aria, ma riguardo al loro volo egli afferma di non sapere nulla. Sostiene di non essere mai stato con loro.29

Il meccanismo che da questo momento si mette in moto è ben conosciuto. Gli inquisitori si erano formati su testi che interpretavano in senso demonologico le dichiarazioni di colui che fino a poco tempo prima era il principale accusatore di una strega. Non credendo alla versione di Stoeckhlin, lo incalzarono affinché confessasse l’origine diabolica del suo angelo. Il veggente negò con fermezza, ma a suo carico pesava già un nuovo e imprevedibile elemento: Anna Enzensbergerin aveva sì ammesso di essere una strega, ma aveva aggiunto di aver imparato la stregoneria dalla defunta madre di Stoeckhlin. Gli inquirenti, inoltre, appresero che alcuni figli di Stoeckhlin erano morti in tenera età; in loro si faceva largo l’agghiacciante ipotesi che «forse egli li aveva sacrificati al diavolo o aveva utilizzato i loro cadaveri per fabbricare unguenti malefici».30

Ormai il mandriano guaritore era al centro dell’attenzione degli inquisitori, che presero a interrogare altri sospetti indirizzando le domande sul ruolo di Stoeckhlin. Da quel momento le testimonianze contro di lui si moltiplicarono. Numerosi testimoni affermarono di averlo visto ai sabba che si celebravano sul monte Heuberg. Una donna, Anna Weberin, lo confermò addirittura in un confronto diretto con Chonrad organizzato dagli inquisitori per fiaccare le resistenze di lui. Ci vorranno però alcune sedute di tortura perché lo sciamano di Oberstdorf confessasse infine di essere stato sedotto dal demonio e di aver agito su sua istigazione. Ammise inoltre di essere stato in precedenza iniziato alla stregoneria da sua madre: «Circa ventisette anni prima sua madre lo aveva condotto per la prima volta allo Heuberg e lo aveva presentato al malvagio Nemico. E gli aveva detto che avrebbe dovuto rinnegare Dio e i santi. Poi lui aveva dato la mano

29. Ivi, pp. 92-93.Ivi, pp. 92-93.30. Ivi, p. 95.Ivi, p. 95.

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al diavolo e concluso il patto».31 Sempre sua madre gli aveva consigliato, nel caso in cui fosse stato arrestato, di inventarsi la storia dei fantasmi della notte. Strana confessione la sua, che tra le righe nega la realtà proprio delle esperienze che hanno condotto al suo arresto e rovescia la cronologia acquisita riducendo i Nachtschar a un espediente escogitato a posteriori.

Siamo all’epilogo. Il 23 gennaio 1587 Chonrad Stoeckhlin salì i gra-dini del rogo che aspettava i condannati a morte per il crimine di eresia diabolica. Sette donne, tra cui Anna Enzensbergerin, erano già morte in carcere, verosimilmente a causa delle torture. Essendo state riconosciute colpevoli, i loro corpi erano stati bruciati pubblicamente. Nel corso del 1587 diverse altre donne coinvolte nel caso Stoeckhlin furono consegnate al boia.

L’assimilazione di stregoneria ed eresia

La coincidenza cronologica tra apice della caccia alle streghe e Rina-scimento non cessa di sollevare interrogativi. La persecuzione contro la stregoneria appare quasi il lato oscuro del fervore culturale rinascimentale. In tal senso si potrebbe periodizzare una sorta di lungo Anti-Rinascimento parallelo il cui inizio sarebbe collocabile intorno al 1450. La prima metà del secolo XV è a buon diritto classificabile come il tempo della preparazi-one, quello in cui il paradigma del complotto che unisce Satana e le streghe prese lentamente forma.

Il riconoscimento esplicito da parte della Chiesa dell’esistenza di un pericolo rappresentato dalla pratica del patto con il diavolo avvenne con la bolla papale Summis desiderantes effectibus emanata da Innocenzo VIII il 5 dicembre 1484. La bolla ufficializzò, tra l’altro, una lettura delle tradiz-ioni folkloriche che oggi riconosciamo come distorta. La compiuta assim-ilazione tra eretici, maghi e streghe, riuniti sotto la comune etichetta di congrega di adoratori del demonio, si attuò invece circa nella prima metà del Quattrocento. La sua formulazione appare definita in alcune opere pub-blicate tra il 1435 e 1442 e di cui ritengo utile fornire una breve rassegna.

Il domenicano tedesco Johannes Nider nel Formicarius, scritto tra il 1435 e il 1437, sostenne che l’efferata congiura era relativamente recente. Il complotto stregonesco contro la cristianità appare nella sua opera ben

31. Ivi, pp. 103-104.Ivi, pp. 103-104.

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delineato e includeva il raduno segreto, il rinnegamento della fede e del battesimo, l’adesione alla congrega del demonio, l’infanticidio e il can-nibalismo. Le carni dei bambini uccisi erano cotte e servivano da base per preparati magici. Sulla base delle informazioni ricevute dal giudice bernese Peter von Greyenz, Nider affermò che le attività della setta dei diabolici congiurati erano attestate a partire, circa, dal 1375.

L’anonimo Errores Gazariorum, redatto tra 1436 e 1437 espone le caratteristiche (volo notturno, patto col diavolo, cannibalismo, orge, rinne-gamento delle fede e dei sacramenti) di una «nuova eresia» organizzata come una vera e propria anti-Chiesa.

Nel trattato Ut magorum et maleficiorume errores, anch’esso datato tra 1436 e 1437, il giudice Claude Tholosan riferisce di essersi personal-mente attivato contro streghe e stregoni delle valli della provincia di Brian-çon; il suo lavoro rimane legato alla visione in via di superamento che non riconosce la realtà del volo magico e dei raduni notturni.

La Cronaca di Hans Fründ (datata tra 1437 e 1442), in cui, relati-vamente all’anno 1428, viene ricordata la scoperta nel Vaud di un’eresia stregonesca e demoniaca, collocata in un quadro dottrinale preciso e ben organizzato, con oltre 700 adepti pronti a rovesciare l’ordine cristiano. An-che secondo Fründ la setta era nata non più di mezzo secolo prima, ma di tutti questi processi non è rimasta traccia documentaria.

Le Champion des Dames di Martin Le Franc mette in scena un dialogo immaginario piuttosto originale che oppone un Campione delle donne, che nega la realtà concreta del sabba, e un Avversario, che invece elenca tutte le malefatte delle streghe e ne afferma la realtà.

In tutte queste opere la credenza in un complotto contro la cristianità appare come un dato consolidato. Errores Gazariorum illustra minuziosa-mente l’organizzazione interna della setta, tipica delle società segrete di congiurati. Ogni iniziato per prima cosa

giura che sarà fedele al maestro che comanda l’intera società. Secondo, che si riunisca con la società. Terzo, che non rivelerà i segreti della detta setta. Quarto che ucciderà tutti quei bambini che sarà in grado di ferire o uccidere e li porterà alla sinagoga [sabba], e per questo debba intendersi bambini al di sotto dei tre anni di età. Quinto, che si affretterà ad andare alla sinagoga tutte le volte che viene richiesto di farlo. Sesto, che impedirà rapporti sessuali in ogni matrimo-nio in cui gli riesce, usando sortilegi e malefici. Settimo, che vendicherà tutte le

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offese fatte alla setta od ogni altro atto che possa ostacolarla o dividerla.32

Diverse fonti concorrono a indicare che in quegli anni cresceva la percezione che una guerra contro le forze del demonio fosse sul punto di scoppiare. Il più famoso e influente testo sull’argomento, il Malleus Ma-leficarum dei frati Predicatori Kremer e Sprenger, è del 1486; il Malleus esprimeva una visione che non era ancora maggioritaria, ma stava per af-fermarsi – non senza resistenze, se si pensa che nel 1485 la popolazione di Innsbruck si ribellò contro la durezza dei processi istituiti proprio da Heinrich Kremer. Il conflitto contro il Male, inevitabilmente, andava con-dotto senza risparmio di mezzi. La delazione era incoraggiata, ad esempio collocando nelle chiese delle cassette ove depositare denunce anonime. Un infervorato sostenitore di questo espediente era lo storico Jean Bodin:

[…] è necessario di mettere in uso nell’inquisizione di questo così detestabile delitto il lodevole costume di Scotia praticato a Milano, che si chiama judicio, cioè che v’è una cassetta nella chiesa dentro la quale sarà lecito a ciascuno di mettere un bolettino di carta col nome del sortilego, col caso commesso da lui, il luogo, il tempo, i testimoni.33

Per tutti i cinque testi appena menzionati colpisce la vicinanza geogra-fica e cronologica con il Concilio di Basilea. Durante questo lungo concilio, iniziato a Basilea nel 1431 e conclusosi nel 1449 a Losanna, si verificò un incidente diplomatico assai serio: era il 1440 quando i partecipanti reagi-rono all’ordine di papa Eugenio IV di spostarne la sede a Ferrara eleggen-do l’antipapa Felice V, ovvero Amedeo VIII di Savoia, il cui segretario era Martin le Franc, l’autore del Champion des Dames. Sotto il governo dello stesso duca Amedeo, nel 1428, in seguito al successo dei sermoni antisemiti di alcuni predicatori gli ebrei erano stati cacciati da Friburgo. Nella medesima area geografica erano stati celebrati, a inizio secolo XV, diversi processi contro il contagio ereticale valdese – processi in cui anche le accuse di maleficio avevano giocato un ruolo.34 L’area di elaborazione

32. Citato in Oscar Di Simplicio, Citato in Oscar Di Simplicio, Autunno della stregoneria. Maleficio e magia nell’Italia moderna, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 306.

33. Citato in Giuseppe Bonomo, Citato in Giuseppe Bonomo, Caccia alle streghe, Palermo, Palumbo, 1985 (I ed. 1959), p. 280 (da Jean Bodin, Demonomania degli stregoni, IV, 1, traduzione italiana di E. Cato, Venezia presso Aldo, 1592).

34. Martine Ostorero, Martine Ostorero, The Concept of the Witches’ Sabbath in the Alpine Region, in

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del paradigma del sabba sembra quindi essere stata quella compresa tra la Savoia e la Svizzera occidentale. Non stupisce, pertanto, che proprio da queste zone provenga la più antica documentazione di processi per stre-goneria.

I primi processi alpini: Dommartin, 1498

Nel 1498 si scoprì una congiura satanica nel borgo di Dommartin, nella regione elvetica del Vaud, poco lontano da Vevey. Gli inquisitori che condussero i processi si preoccuparono di verificare preliminarmente le opinioni degli interrogati riguardo a cosa fosse l’eresia. Le risposte che ci sono giunte sono istruttive. Durante il primo interrogatorio François Mar-guet dichiarò di non essere eretico e di sapere che gli eretici erano coloro che venivano arrestati per ragioni di fede. Risposta corretta, si direbbe. «Interrogato sulle opere degli eretici, risponde che non le conosce». Ris-posta non convincente, a giudicare dal seguito. Nel terzo interrogatorio gli venne rivolta la medesima domanda e la risposta fu diversa: gli eretici «commettono il male e si spostano tra le nuvole con la tempesta e fanno morire persone e animali con le arti diaboliche».35 È evidente che nell’ottica dei giudici le credenze folkloriche relative al volo magico erano entrate nell’orizzonte dell’eresia. L’interrogato, probabilmente indirizzato in tal senso, lo aveva capito e si era adeguato.

Un’altra imputata, Marguerite Diserens dichiarò, in un primo momento, di non credere all’esistenza degli eretici, ma successivamente cambiò opinione. «Interrogata sulle azioni degli eretici, lei risponde che fanno tutto il male possibile. Interrogata sul genere di male che commettono, risponde che fabbricano la grandine, provocano la tempesta […]; il diavolo è con loro, per quello che ha sentito dire».36 Lo schema si ripete molto simile con Pierre Menetrey. «Gli si domanda chi è arrestato per la fede, risponde che sono quelli che negano Dio e la Trinità. Gli si domanda cosa fanno gli eretici e quelli che negano Dio, lui risponde di ignorarlo».

Witchcraft, Mithologies and Persecutions, a cura di Gábor Klaniczay, Éva Pócs, Budapest, CEU Press, 2008, pp. 15-29, pp. 23-24.

35. Citato in Laurence Pfi ster, Citato in Laurence Pfi ster, Laurence Pfister, L’enfer sur terre. Sorcellerie a Dommartin (1498), Ca-hiers Lausannois d’Histoire Médiévale, Lausanne, 1997, p. 201.

36. Citato in Ivi, p. 235.Citato in Ivi, p. 235.

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Questo, ovviamente, al primo interrogatorio. E anche al secondo. Al terzo, «interrogato sul male che fanno gli eretici, dice di non saperlo, a parte aver sentito dire che uccidono le persone e gli animali. […] dice di aver sentito raccontare che vanno alla sinagoga in un luogo deserto».37

Gli eretici, dunque, erano coloro che negavano Dio e la Trinità – una comprensibile semplificazione delle deviazioni teologiche dell’eresia – ma soprattutto quelli che volavano, provocavano le tempeste e facevano morire bestie e cristiani. Tutti gli interrogati attribuirono le proprie conoscenze in materia, piuttosto vaghe a dire il vero, non all’esperienza diretta, ma alle voci che circolavano: «Ho sentito dire», «ho udito raccontare». Non conosciamo le fonti dell’informazione, o meglio della particolare interpretazione, ma una risposta data da François Marguet a un precedente quesito ci indirizza in una direzione precisa: «Interrogato se creda che i diavoli possano parlare agli uomini, risponde di sì, come ha sentito dire da parecchie persone che erano state arrestate a Mouton circa quarant’anni prima».38

A quanto pare nel territorio del Pays de Vaud si andava sedimentando una memoria storica locale dei processi che implicava la diffusione anche presso gli strati sociali non alfabetizzati dell’interpretazione che i giudici avevano in passato imposto agli imputati e che le sentenze avevano divul-gato. La cultura locale, sotto la spinta di precedenti processi, stava com-inciando a guardare se stessa con occhi diversi, con gli occhi dei giudici e degli inquisitori.

L’organizzazione delle sette che il Maligno aveva messo in piedi nel Vaud appare piuttosto semplice, a bassissimo profilo gerarchico e decisa-mente non sessista, poiché uomini e donne vi compaiono rappresentati in ugual misura. I rituali di adesione prevedevano il rinnegamento di Dio, della Vergine e del battesimo, la profanazione dell’ostia e il calpestamento di una croce tracciata sul terreno. Ci si recava ai raduni volando grazie a un bastone magico che il diavolo consegnava all’adepto dopo l’ingresso nella setta. Durante gli incontri si banchettava, si omaggiava il signore del male e ci si abbandonava all’orgia sfrenata. Il demonio, che si manifestava sem-pre in sembianze umane e maschili, si accoppiava con le donne, ma evitava i rapporti omosessuali. Poi si passava alle cose serie: i convenuti riferivano sul male compiuto e i più efficienti ricevevano dei premi.

Da diverse testimonianze si apprende che durante i presunti sabba di

37. Citato in Ivi, p. 257.Citato in Ivi, p. 257.38. Citato in Ivi, p. 197.Citato in Ivi, p. 197.

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Dommartin la Vergine era sbeffeggiata con il soprannome di «Rossa». Si deve qui vedere una traccia della cattiva reputazione che accompagnava le persone con i capelli rossi. Rossi erano i capelli di Giuda, e rosse erano le chiome degli ebrei raffigurate nell’iconografia denigratoria. Non di rado, infine, i capelli rossi erano un attributo estetico dei diavoli. Nel 1518 Benvegnuda la Pincinella, una guaritrice di Nava, nel bresciano, così descrisse il diavolo che la accompagnava al bon zogo e la intratteneva anche carnalmente: «El me apareva in forma de un bel zoven, così de mezo tempo, con la barba rossa».39 Dell’argomento mi sono occupato in un saggio di alcuni anni fa, per cui spero sarò perdonato se prendo la scorciatoia dell’auto-citazione.

Il rosso dei capelli porta in dote dei connotati di asocialità ancor più che di animalità. Si ritiene che si accompagni ad un desiderio sessuale eccessivo e sregolato ed è spesso interpretato come uno dei segni smascheranti un concepi-mento contro natura o macchiato dalla degenerazione morale. Tra le risposte fornite al perché gli ebrei abbiano la barba rossa c’è un intreccio di credenze relative alle turpitudini sessuali e agli eccessi di sangue. Secondo leggende dif-fuse un tempo in molte parti d’Europa, i giudei soffrirebbero di una troppo abbondante circolazione sanguigna, presunta causa di uno smodato e indiffer-enziato desiderio sessuale e perfino di periodiche perdite di sangue – sorta di corrispettivo maschile del ciclo mestruale. Per secoli di pregiudizi simili sono vittima anche i lebbrosi, misera incarnazione dei mali e delle angosce della società. Lebbrosi e rossi di capelli hanno una caratteristica comune: entrambi sono ritenuti l’immondo frutto di illeciti coiti perpetuati durante le mestruazi-oni. […] L’affinità più eclatante è costituita dall’opinione diffusa nel folklore europeo e accolta anche dai più misogini tra i canonisti dei secoli XII-XIV, che si rifanno in parte al solito Plinio, secondo la quale lo sguardo e il cattivo alito delle ragazze mestruate farebbe seccare le piante ed arrugginire il ferro. Isidoro e Bartolomeo Anglico, invece, attribuiscono questo potere mortifero soltanto al sangue mestruale stesso.40

39. Citato in Muraro, Citato in Muraro, La signora del gioco, p. 227.40. Paolo Galloni, Paolo Galloni, Il sacro artefice, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 133-134.

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I primi processi alpini: Vevey, 1448

Benché in forme meno strutturate di quelle dei teologi, alla metà del Quattrocento l’assimilazione tra stregoneria ed eresia sembra essere stata precocemente recepita anche a livello popolare in alcune aree toccate precocemente dai processi, in particolare proprio nelle terre sottoposte alla giurisdizione del ducato di Savoia. L’area di sperimentazione precoce fu quella che abbraccia il sud della Francia e le Alpi occidentali, in particolare la regione del Vaud. Qualche lettore potrebbe sorprendersi di fronte alla constatazione che anche dopo il passaggio alla Riforma protestante il Pays de Vaud rimase la regione elvetica con il più alto tasso di condanne per stregoneria; in realtà, ciò non fa che confermare la forza della sedimentazione in loco dei germi culturali che rendevano le autorità e la popolazione a vario titolo estremamente ricettive verso la percezione di un rischio epidemico di stregoneria e complotto demoniaco.

Tra i primi processi documentati a delineare l’immagine del sabba in forma compiuta, con tutte le sue componenti principali al loro posto, ci sono quelli celebrati nel 1448 a Vevey, piccolo dentro del Vaud. La strut-tura del processo che si aprì il 3 marzo 1448 era tipicamente inquisitoriale: l’inquisitore, assistito dal vicario del vescovo, si avvaleva della facoltà di avviare un’inchiesta preliminare, inquisitio, sulla base di voci, fama, o de-nunce; e nella quale la confessione costituiva la prova per eccellenza.

Una figura fondamentale, per lo svolgersi del dibattimento, ma an-cor di più per noi, è quella del notaio, vale a dire la persona incaricata di trascrivere il verbale degli interrogatori. La presenza dei testimoni non è di per sé indispensabile, ma a Vevey ne compaiono sempre, in numero varia-bile, con l’eccezione di una sola seduta. A loro viene richiesto di tenere il segreto riguardo alle persone denunciate, questo per evitare che esse, informate dell’interesse degli inquirenti, potessero fuggire.

Il primo accusato a comparire fu Jacques Durier, detto Jacquet, un uomo avanti con gli anni che probabilmente esercitava la professione di guaritore (un testimone si riferisce lui chiamandolo medico). Jacquet dove-va rispondere dell’accusa di aver avvelenato un uomo che odiava, Jean de Mossel, per mezzo di una polvere che gli sarebbe stata fornita nientemeno che da Satana in persona. L’imputato confessò subito l’omicidio. Gli in-quisitori decisero di non proseguire l’interrogatorio di Jacquet poiché era tardi. Lo rimandarono in cella invitandolo a riflettere sui suoi errori e a confessare tutti i suoi misfatti commessi durante il suo crimine di eresia.

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L’assassinio di Jean de Mossel non interessava più, l’attenzione si sarebbe spostata sul patto con il demonio. Ben più importante era sapere che undici anni prima, mentre Jacquet, assillato da problemi economici di cui riteneva responsabile Mossel,

camminava malinconico nel suo campo, un certo Pierre Ruvinat di Brent, nella parrocchia di Montreux, che poi è stato bruciato per eresia, gli venne incontro in compagnia di un tale che indossava un mantello viola scuro e che Jacquet non conosceva. […] Pierre Ruvinat gli disse che era un buon amico e che si chiamava Satana, e aggiunse: «se gli vorrai credere, ti farà ricco, ma bisogna che tu gli dia un pezzetto del tuo dito mignolo». Jacquet rispose: «lo farò per ricevere ricchezze». Diede allora a Satana un pezzetto del mignolo della mano destra, dicendo che poi, istigato da Pierre Ruvinat aveva rinnegato Dio con le parole, ma non nel profondo del cuore, e aveva accettato Satana come signo-re.41

Negli atti dell’interrogatorio di Jean de Mossel compare un interes-sante questionario che in quindici punti si prefiggeva di riassumere il per-corso cristiano e la deviazione eretica dell’imputato. Le caratteristiche per-verse del sabba e della congiura demoniaca sono evocate nelle domande VIII-XV:

Il procuratore della fede richiede che l’accusato […] riconosca oral-mente la verità di questi articoli rispondendo sì o no:

[…] VIII. Parimenti, se è vero che […] come un lupo ha mangiato carne umana e ha strangolato e ucciso bambini innocenti.IX. Parimenti, se è vero che Jacquet, in questa sinagoga eretica, ha abusato del peccato carnale in presenza del diavolo e di altri eretici.X. Parimenti, se è vero che Jacquet, per ordine del suo signore, ha introdotto molti fedeli dei due sessi in questa sinagoga di eretici e che ha giurato al dia-volo, con un patto speciale, di non denunciare mai i suoi compari e complici. […]XIII. Parimenti, se è vero che Jacquet, per opera con aiuto del diavolo, dal quale ha ricevuto un unguento in boccetti, ha causato e diffuso con esso delle malattie.

41. Citato in Martine Ostorero, Citato in Martine Ostorero, “Folâtrer avec les démons”. Sabbat et chasses aux sorciers à Vevey (1448), Cahiers Lausannois d’Histoire Médiévale, Lausanne, 1995, pp. 200-202.

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XIV. Parimenti, se è vero che Jacquet, per opera e con l’aiuto del demonio, si è spostato nell’aria per recarsi fisicamente al luogo della sinagoga e per causare delle tempeste nel cielo.42

Jacquet irritò gli inquisitori contraddicendosi e negando la maggior parte dei particolari che ci si aspettava confermasse. In ragione della sua ostinazione fu sottoposto a tortura; dopodiché confermò tutto e denunciò i complici. I congiurati «si riconoscevano per mezzo di un marchio a forma di rospo che avevano sotto l’occhio sinistro e che nessuno poteva vedere a parte gli eretici».43 Si tratta di una delle prime occasioni che vede indicata la base dell’occhio come luogo fisico del marchio del Nemico, sovente documentata in seguito.

In testa alla lista dei denunciati da Jacques Durier, che sarebbe stato presto condannato a morte, c’era Catherine Quicquat. Su di lei pesavano ombre di varia natura, in primo luogo la sua passata frequentazione con una donna di nome Sibille, bruciata come eretica alcuni anni prima (è in questa occasione che si apprende che c’erano stati altri processi nel re-cente passato), e il fatto che benché sposata non vivesse con il marito, ma presso un sacerdote (il quale non viene toccato dall’inchiesta, segno che ha saputo tutelare bene la sua reputazione). Catherine rifiutò di collaborare e si lasciò convincere, per così dire, solo dopo un paio di sedute di tortura. A questo punto si delinea il quadro ormai noto del sabba e tra i complici e partecipanti emerge il nome del mugnaio Pierre Munier, uno degli uomini che avrebbe avuto rapporti carnali con lei durante le orge rituali che si scatenavano in occasione del sabba.

Le vicende di quest’ultimo meritano una digressione perché, men-tre Catherine salirà sul rogo come Jacquet, il trattamento riservato dagli inquisitori al mugnaio fu diverso, sorprendentemente blando. La prima anomalia si riscontra già durante la seduta finale del processo Quicquat. Secondo consuetudine all’imputata venne richiesto di confermare in via definitiva le dichiarazioni rese in precedenza. Catherine lo fece, ma con uno scostamento che stranamente i giudici lasciarono passare via senza obiezioni:

Giurando sui santi Vangeli, lei ha confermato che tutto quello che gli è stato

42. Citato in Ivi, pp. 216-218.Citato in Ivi, pp. 216-218.43. Citato in Ivi, p. 230.Citato in Ivi, p. 230.

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letto e ripetuto era vero, pena la dannazione della sua anima, con l’eccezione dell’accusa mossa a Pierre Munier, che, disse, non aveva mai visto alle riunioni della setta: disse solo che Pierre l’aveva conosciuta carnalmente.44

Ora, il giorno prima, domenica 17 marzo 1448, era avvenuto un fatto che a buon diritto possiamo definire sospetto. Pierre Munier, che in teoria non avrebbe dovuto sapere che sabato 16 Catherine Quicquat l’aveva denunciato, si presentò spontaneamente per confessare di essere stato affiliato alla setta degli eretici, ma di essersi ora pentito e di implorare il perdono della Chiesa. Strana coincidenza. O meglio, evidente indizio che Pierre aveva avuto una soffiata e che un suggeritore aggiornato in tempo reale, verosimilmente uno dei notabili che assistevano agli interrogatori, gli aveva spiegato come muoversi su quello scivolosissimo terreno. A questo punto, è forte l’impressione che Catherine Quicquat sia stata indotta in qualche modo ad attenuare le sue accuse al mugnaio. È chiaro che Pierre Munier, che se la sarebbe cavata con un’assoluzione subordinata a una serie di penitenze, ha ricevuto un trattamento di favore, estremamente benevolo rispetto agli altri imputati. Il mugnaio, forse grazie alle conoscenze derivanti dalla sua professione, aveva, è il caso di dirlo, dei santi in paradiso.

Avvio del processo e conduzione degli interrogatori

Una sezione del Malleus Maleficarum è dedicata alla conduzione del processo contro le streghe e gli altri agenti del demonio. Questo celebre testo è comunemente e impropriamente associato all’attività dell’Inquisizione. La procedura che illustra, tuttavia, è in alcuni punti diversa da quella previs-ta dal Sant’Uffizio e si applica meglio, a rigor di termini, alla più flessibile prassi seguita nei tribunali secolari ed ecclesiastici ordinari che ai processi gestiti direttamente dall’Inquisizione – che offrivano almeno formalmente maggiori e meglio codificate garanzie agli imputati. Non è naturalmente pensabile di fornire qui altro da uno schema semplificato delle procedure processuali, che furono complesse e per nulla immutabili nel tempo.45

Un fascicolo processuale poteva essere aperto in seguito a denuncia,

44. Citato in Ivi, p. 256.Citato in Ivi, p. 256.45. Per chi fosse interessato a un approfondimento mi permetto di rinviare ai lavori di Per chi fosse interessato a un approfondimento mi permetto di rinviare ai lavori di

Prosperi, Del Col e Messena, citati in Bibliografia.

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accusa o anche d’ufficio. Gli autori consigliavano l’ultima procedura, che prevedeva l’affissione alle porte delle chiese di una citazione generale che ordinava a tutti coloro che fossero stati a conoscenza di fatti sospetti, pena sanzioni ecclesiastiche e temporali, di denunciarli alle autorità. Il processo vero e proprio cominciava con l’esame dei testimoni davanti a un inquisitore, un notaio e due probiviri. Quando si procedeva a un arresto la casa dell’imputata doveva essere accuratamente perquisita (gli autori del Malleus pensavano al femminile, ma la misoginia di alcuni non deve fuorviare al punto da identificare un fenomeno complesso come la persecuzione della stregoneria con una campagna generalizzata contro le donne). Se l’accusata aveva inquiline o serve, esse andavano arrestate presumendo che fossero quantomeno a conoscenza di qualcuno dei suoi segreti o che fossero in possesso di informazioni da fornire (si potrebbe dire, in altri termini, che erano state pericolosamente esposte al contagio). Quanto agli indizi, tutto faceva brodo, per così dire: un’esistenza irregolare poteva indicare un patto con il Maligno quanto una vita irreprensibile – in questo caso si sarebbe trattato di un astuto e subdolo mascheramento delle reali intenzioni; se c’erano tra le sue antenate donne con fama di strega era probabile che il contagio avesse avuto luogo in forma di trasmissione di segreti e di investitura alla successione; strani segni cutanei erano sempre ricercati come possibili marchi demoniaci. Non era necessario concedere all’imputata un difensore, ma se avveniva era necessario che la sua reputazione fosse al di sopra di ogni sospetto. L’accusata non aveva il diritto di conoscere i nomi dei testimoni.

Se l’accusata riconosceva le proprie colpe e le confessava il processo sarebbe stato breve con vantaggi per entrambe le parti. Se invece rifiutava di collaborare allora la confessione andava estorta con ogni mezzo. Il ri-corso alla tortura diventava addirittura consigliato. L’inquisitore, nel frat-tempo, avrebbe avuto cura di visitare l’imputata in carcere per ricordarle i benefici materiali e soprattutto spirituali di una completa confessione. I giudici che a Vevey nel 1448 conducevano l’interrogatorio di Jacques Durier esortarono l’imputato

nel nome di Cristo a svelare senza menzogna tutto ciò che lui e i suoi complici avevano commesso, spiegandogli che se avesse confessato subito e sponta-neamente, nello stesso momento, come prevedono le sanzioni canoniche, noi l’avremmo ammesso e l’avremmo ricevuto alla penitenza e alla misericordia

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della Chiesa».46

Questi inviti alla confessione, che si accompagnano alla promessa della concessione della penitenza e della misericordia della Chiesa, ricor-dano molto da vicino la sollecitudine con la quale i delegati del partito comunista illustravano agli imputati i benefici giuridici, etici e psicologici delle confessioni spontanee e complete. Come nei processi staliniani, la denuncia dei complici rivestiva un ruolo essenziale nella validità della con-fessione. Essa rappresentava in qualche modo una doppia prova in assenza di prove (che mancavano per la natura stessa del crimine, che era segreto e coperto dagli inganni del Maligno): prova della veridicità e della sincerità della confessione in corso e prova a carico nell’eventuale dibattimento che si sarebbe aperto contro i denunciati. La tortura diventava necessaria agli occhi degli inquisitori proprio perché senza di essa sarebbe stato difficile scardinare il sistema di menzogne al quale necessariamente si affidava chi aveva stretto un patto indissolubile con il Maligno.

Come ha scritto Martine Ostorero,

una ragione fondamentale del successo delle cacce alle streghe risiede nel cam-biamento del sistema di procedura giudiziaria; questa era stata in precedenza sperimentata nel quadro della lotta agli eretici prima di essere applicata contro streghe e stregoni. In effetti, la vecchia procedura, detta “accusatoria”, opponeva generalmente due persone (un accusatore e un accusato) divisi da un conflitto privato. La procedura accusatoria non permetteva di incriminare che una sola persona alla volta e se questa dimostrava la sua innocenza, era rimessa in libertà senza altre condizioni; i casi di stregoneria o di magia tradizionale rimanevano perciò casi isolati. Inoltre, questa procedura scoraggiava i delatori poiché essi erano obbligati a provare le loro accuse […]. La soppressione dell’ordalia da parte del concilio Laterano del 1215 assestò un colpo mortale a questo sistema […]. Con la procedura inquisitoria, promossa dal medesimo concilio, il legame accusatore-accusato scompariva a vantaggio del binomi inquisitore-sospettato; l’equilibrio delle forze si modifica: spetta all’inquisitore avviare l’inchiesta sul-la base di denunce o di voci; ci si immagina facilmente come diventi facile per una persona invidiosa accusare un vicino o un nemico di aver praticato i ma-lefici, soprattutto perché ciò non comporta più conseguenze per il denunciante. Poi, spetta al tribunale dimostrare la colpevolezza dell’accusato […]. Infine, il ricorso alla tortura costituisce senza dubbio l’innovazione più significativa

46. Citato in Ostorero, Citato in Ostorero, “Folâtrer avec les démons”, p. 196.

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della procedura inquisitoriale.47

In una stimolante lettura dei processi di Arras, dei quali si dirà tra breve, Franck Mercier ha proposto di interpretare l’impiego della tortura nei casi di stregoneria diabolica come una forma di esorcismo. Si riteneva infatti che il diavolo esercitasse «un’azione fisica sugli organi della parola al fine di impedire la confessione».48 Si comprende meglio, a questo punto, che «l’uso della tortura non era così lontano dalla pratica dell’esorcismo. Come il sacerdote munito dei sacramenti della Chiesa poteva costringere i demoni a pronunciare le verità della fede, parimenti il giudice, che fosse laico o ecclesiastico, poteva, con l’aiuto della tortura, obbligare l’agente di Satana a confessare il suo crimine».49 I tormenti erano inoltre tragicamente necessari in quanto si trattava di spezzare il voto di silenzio che univa i congiurati e il loro nero maestro. Come nel contesto dell’esorcismo il corpo dell’accusato si costituiva pertanto come il luogo di un tremendo combattimento che opponeva il potere legittimo e il diavolo.

Orge e inversioni

Nel 1448 il Malleus non era ancora stato scritto, mentre i giudici e gli inquisitori di Dommartin nel 1498 non lo avevano probabilmente ancora letto. Non a caso i primi processi nel Vaud non sono declinati al femminile e gli stregoni, o congiurati, maschi vi occupano una posizione non trascu-rabile.

Alla lettura degli atti balza tuttavia agli occhi che nei passaggi relativi all’orgia i giudici tendevano a chiedere un numero maggiore di dettagli alle donne, le sole ad avere avuto rapporti sessuali con il nemico. Catherine Quicquat, accusata nel 1448, interrogata per sapere quante volte il suo si-gnore si era carnalmente unito a lei e in che modo, rispose e confessò spon-taneamente che ciò era avvenuto una dozzina di volte, per sodomia, e che il diavolo copulava con lei come un selvaggio.50 Curiosamente, il notaio che

47. Ivi, pp. 144-145.Ivi, pp. 144-145.48. Franck Mercier, Franck Mercier, La Vauderie d’Arras. Une chasse aux sorcières à l’Automne du

Moyen Âge, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2006, p. 255.49. Ivi, pp. 255-256.Ivi, pp. 255-256.50. Ostorero, Ostorero, “Folâtrer avec les démons”, p. 253.

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redige il verbale traducendo in latino le dichiarazioni dell’imputata man-tiene il termine vernacolare sovajoz, selvaggio (erat sicut unios sovajoz). Si può disquisire a lungo sulla curiosità talvolta morbosa degli inquisitori; formalmente essa era giustificata dal dovere di documentare e conoscere le abitudini dell’Avversario.

A Dommartin, mezzo secolo dopo, Isabelle Perat, giovane e avvenente vedova detta la Jolie, la bella,

interrogata su ciò che il diavolo diceva loro laggiù, risponde che ordinava di fare tutto il male possibile, in particolare che facessero morire uomini e anima-li; e che ciascuno rendeva conto al diavolo dei malefici più o meno grandi che aveva compiuto. Interrogata su cosa facessero d’altro, risponde che gridavano Meclet! Meclet! [“Mescolatevi!”] E subito gli uomini prendevano le donne con sodomia; aggiunse che Pierre du Grange, del Monte, era stato con lei. Inter-rogata per sapere se altre persone erano state con lei nella sinagoga disse di sì, che era stata una volta anche con il diavolo, il suo signore, in forma umana, e che il suo seme era freddo e che lei poi si era ammalata.51

La freddezza del seme o del membro del diavolo è un luogo comune ricorrente negli interrogatori, ne fanno cenno anche Catherine Quicquat di Vevey e le accusate di Rifreddo. Si potrebbero portare numerosi es-empi, mi limiterò ad aggiungerne un paio. La già citata Benvegnuda detta Pincinella, di Nava, aveva confessato di aver avuto rapporti sessuali con il Maligno. «Dimandata si avea piacer usando carnalmente con il ditto Zu-liano [il nome del suo amante demoniaco], rispose de sì, ma l’era sempre fredo, et lei li dimandò che vol dir che seti cossì fredo, et chi sete voi, alora il dito Zuliano li disse son un diavol».52 Il dettaglio ritorna nella confes-sione della quattordicenne Magdeleine des Aymards, anche lei già menzio-nata e per la quale è stata ipotizzata l’assimilazione di dettagliati racconti ascoltati dagli adulti della sua famiglia e del vicinato: il diavolo

prese con la mano il suo membro virile e lo infilò nella natura della suddetta [Magdeleine] causandole un forte dolore che la obbligò a gridare, tanto che il diavolo le disse che non si doveva urlare e la fece tacere; e la suddetta disse che il diavolo eiaculò nella sua natura un seme che era freddo come il ghiaccio.53

51. Pfi ster, Pfister, L’enfer sur terre, p. 223.52. Muraro, Muraro, La signora del gioco, p. 225.53. Mandrou, Mandrou, Possession et sorcellerie au XVII siècle, pp. 22-23.

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Il particolare aveva colpito Sigmund Freud, che in una lettera indiriz-zata a Fliess aveva scritto: «Se arrivassi soltanto a sapere perché, nelle loro confessioni, le streghe dicono sempre che lo sperma del diavolo è freddo!».54 Una risposta alla domanda che tanto intrigò il fondatore della psicoanalisi è forse possibile. Occorre cercarla non tanto in misteriose di-namiche psichiche quanto nell’incontro tra la demonologia dotta e le teorie fisiologiche medievali. L’elaborazione delle teorie aristoteliche, nel quadro della teoria galenica degli umori, portò a individuare come caratteristiche peculiari dell’inferiorità fisiologica femminile l’eccesso di complessione fredda e umida. Alcuni testi paventavano che nelle donne anziane l’assenza di mestruazioni esasperasse il problema e determinasse in loro una sorta di tossicità. Un passaggio del De secretis mulierum, del secolo XIII, at-tribuisce alla fisiologia femminile una potenzialità velenosa che contiene alcune premesse di una successiva interpretazione in chiave stregonesca. Si riteneva che la ritenzione del mestruo generasse nelle donne anziane lo sviluppo di umori malsani che le rendeva potenzialmente velenose e in grado di infettare i bambini. Alle anziane mancava ormai il calore naturale che permetteva di consumare e dirigere questa materia. «Le vecchie pov-ere, che non mangiano che cibi grossolani, sono le più velenose».55

Contemporaneamente, il dibattito intorno alla corporeità del diavolo era giunto a conclusioni che avevano attinto al versante negativo della fi-siologia: nel corpo del Maligno, si pensava, non scorreva sangue e la sua complessione doveva essere ancora più fredda di quella delle donne an-ziane. Il diavolo era dunque per natura gelido e sterile. Questa credenza, che ha origine nella cultura alta, è stata certamente divulgata anche presso il popolo analfabeta o scarsamente alfabetizzato. È peraltro noto che gli stessi interrogatori siano stati un vettore di divulgazione di aspetti della demonologia colta; non si può dunque escludere che anche l’idea della freddezza del membro diabolico sia giunta alle imputate attraverso la cat-ena di trasmissione rappresentata dai processi e dalla memoria di essi che si sedimentava in ambito locale.

54. Citato in Muraro, Citato in Muraro, La signora del gioco, p. 225.55. Citato in Jacquart-Thomasset, Danielle Jacquart, Claude Thomasset, Citato in Jacquart-Thomasset, Danielle Jacquart, Claude Thomasset, Danielle Jacquart, Claude Thomasset, Sexualité et

savoir médicale au Moyen Age, Paris, PUF, 1985, p. 103.

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La Vauderie di Arras

Il meccanismo processuale avviato dalla minaccia di un complotto di-abolico e corroborato da una catena di denunce e confessioni relative a tur-pitudini sessuali appare già ben organizzato anche nella cosiddetta Vaud-erie di Arras, che devastò la città dell’Artois tra 1459 e 1460, annunciando situazioni sinistramente simili nei secoli successivi, fino al Ventesimo.

Alcune denunce apparentemente ben circostanziate che descrivevano misteriosi ritrovi notturni conditi da libagioni e orge culminanti nel patto satanico diedero l’avvio a una serie di brutali interrogatori durante i quali imputati e imputate confessarono di essersi associati al Maligno e denun-ciarono molti complici:

[…] con il favore della notte a queste assemblee si radunavano uomini e donne di ogni ceto e ordine della società; essi adoravano il diavolo, che aveva preso forma umana, ma non vedevano mai il suo volto. Essi giuravano di rispet-tare la sua volontà e obbedire ai suoi comandi, poi, dopo aver approfittato del banchetto approntato per loro, si spegnevano le luci; allora ognuno prendeva la prima donna che gli si offriva e si univa a lei. Più tardi, grazie alla magia del Demonio, ciascuno si ritrovava a casa propria.56

Uno dei primi accusati, Jean Tannoye, sarebbe venuto in contatto con l’eresia in Savoia: anche le precoci vicende del relativamente lontano Artois, dunque, lasciano intravedere un filo che rimanda alle regioni alpine come laboratorio di elaborazione del paradigma del complotto stregonesco. Ad Arras si osserva all’opera un secondo aspetto fondamentale di un intreccio tra religione e politica di primaria rilevanza storica. L’assimilazione, che si andava affermando non senza ambiguità, dell’eresia al crimine di lesa maestà non comportò solo l’autorizzazione a leggere in chiave politica una questione inerente alla sfera religiosa, ma incoraggiò le istituzioni polit-iche a pensare in termini di complotto e soprattutto a prendere in consider-azione azioni d’emergenza che escludevano le normali garanzie accordate agli accusati con il pretesto di difendere l’esistenza stessa dello Stato e del Principe. In tal senso il Diavolo fu una pedina fondamentale nella partita che nell’Autunno del Medioevo si giocò per definire le nuove prerogative

56. Mercier, Mercier, La Vauderie d’Arras, p. 14, che cita dagli Annales Rerum Flandricarum, XVI.

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da assegnare al potere politico.Le prime deposizioni raccolte dagli inquirenti di Arras furono seguite

da una persecuzione capillare che coinvolse un numero altissimo di abitan-ti, comprese persone molto in vista. Secondo il cronista Monstrelet l’alto numero degli accusati era la conseguenza della procedura seguita dai giu-dici.

[…] essi suggerivano agli imputati i nomi di quelle persone, e gli im-putati, messi alla tortura, dicevano di averle effettivamente vedute alle ri-unioni notturne. […]. La situazione in città era gravissima e non pochi, per evitare il peggio, abbandonavano la città e il suo territorio.57

L’apparente perdita di controllo sulla situazione da parte delle autorità locali determinò l’intervento del duca di Borgogna Filippo il Buono, che sospese gli arresti senza però sconfessare apertamente l’azione dei giudici. La vauderie si chiuse definitivamente nel 1461 con l’arrivo ad Arras di un delegato del Parlamento di Parigi, anche se sarebbero dovuti passare trent’anni perché, nel 1491, il medesimo parlamento annullasse formal-mente le sentenze del 1459-1469 e riabilitasse collettivamente i condan-nati, alcuni dei quali ormai bruciati sul rogo.

Il complotto come contagio nel ‘300

Papa Giovanni XXII era ossessionato dalla magia e dai complotti, diabolici e umani. In una lettera datata 29 aprile 1317 diede mandato al fedele vescovo Gaillard affinché fossero arrestati e giudicati «certi chierici del Sacro Palazzo e il chirurgo-barbiere Jean d’Amant accusati di attentare alla sua vita. Costoro, torturati, avevano confessato che in un primo momento avevano pensato di servirsi del veleno per sopprimere il Pontefice, ma non presentandosi l’occasione favorevole avevano deciso di farlo morire mediante un maleficio per infissione. A questo scopo avevano costruito alcune statuine invocando il diavolo».58 Abbiamo qui un esempio ben delineato del modello che si ritroverà nei complotti costruiti nel corso delle istruttorie dei processi celebrati nel Novecento: i congiurati, che avevano stretto un accordo con il Nemico, si annidavano all’interno del sistema che legittimamente esercitava il potere. Gli agenti del Male

57. Bonomo, Bonomo, Caccia alle streghe, p. 155.58. Ivi, p. 53.Ivi, p. 53.

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tramavano mascherati da servitori del Bene.Al complotto avignonese il diavolo fu invitato a partecipare solo a

posteriori, l’accordo tra i congiurati in principio non lo includeva. Appena quattro anni dopo, però, il Maligno fu fin dall’inizio protagonista di un altro famoso complotto.

Nella storia europea la connessione tra pestilenza e stregoneria ed eresia non è stata attiva semplicemente sul piano concettuale e morfologico (ma, si badi, con enormi ricadute sociali e psicologiche). Esistono testimonianze di epidemie le cui cause sono state effettivamente attribuite a complotti diabolici e stregoneschi, con il coinvolgimento di categorie sociali ritenute potenzialmente predisposte. Un caso emblematico si verificò nel 1321 ed è stato magistralmente ricostruito da Carlo Ginzburg.

In rapporto a quell’anno diverse cronache francesi riferiscono di mas-sacri perpetrati contro i lebbrosi accusati aver progettato l’avvelenamento della popolazione sana. La lettura dei fatti dell’autorevole inquisitore do-menicano Bernard Gui è tra le più circostanziate: i lebbrosi, «malati nel corpo e nell’animo», avevano contaminato sorgenti, pozzi e fiumi con pol-veri avvelenate al fine di trasmettere la lebbra ai sani.

Sembra incredibile, scrive Gui, ma aspiravano al dominio delle città e delle campagne; si erano già spartiti il potere e le cariche di conti e baroni. Molti dopo essere stati imprigionati confessarono di aver partecipato a riunioni se-grete o capitoli, che i loro capi avevano tenuto per due anni di seguito per ordire il complotto. Ma Dio ebbe pietà della sua gente: in molte città e villaggi i colpevoli vennero scoperti e bruciati. Altrove la popolazione inorridita, senza aspettare un giudizio in piena regola, sbarrò le case dei lebbrosi e le diede alle fiamme insieme ai loro abitanti.59

Alcuni cronisti che scrivevano pochi anni dopo i fatti aggiunsero un dettaglio non di poco conto: del complotto avevano fatto parte anche gli ebrei. Gli ebrei sarebbero stati anzi i burattinai che manovravano come marionette i lebbrosi. La diceria sosteneva che gli ebrei erano stati corrotti dal re musulmano di Granada, e avevano riunito alcuni dei capi dei lebbrosi e con l’aiuto del diavolo li avevano persuasi ad abiurare la fede in Cristo. A sancire il perverso accordo, al culmine della blasfemia, sarebbe stata

59. Citato in Carlo Ginzburg, Citato in Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino, Einaudi, 1989, p. 5.

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perpetrata un’offesa all’ostia consacrata, triturata e mischiata alle pozioni venefiche destinate ad avvelenare i cristiani.

Nel 1321 le cronache ci mostrano all’opera gruppi sociali variamente marginali che stringono un patto diabolico tra loro e con il Maligno in persona contro la cristianità intera. Il loro obiettivo era scatenare una pestilenza, ma i loro piani furono scoperti in tempo. Nel 1347 le cose andarono diversamente. Nel settembre di quell’anno la peste arrivò in Europa. Lo sbarco ebbe luogo probabilmente al porto di Messina e il mezzo di trasporto fu una flotta mercantile genovese di ritorno da Costantinopoli. L’epidemia si mosse, spietata e implacabile, da sud verso nord. Il viaggio non fu dei più veloci – occorsero due anni perché il flagello raggiungesse le terre settentrionali europee – ma in compenso fu di impressionante ferocia. Nel 1350 la popolazione europea si era ridotta di almeno un quarto.

Come è tristemente facile da immaginare, il diffondersi del contagio fu da più parti attribuito a una criminale cospirazione ebraica – e poco importa se gli ebrei morivano al pari degli altri. Il primo pogrom colpì il ghetto di Tolone la domenica delle Palme del 1348; nel mese successivo aggressioni e saccheggi contro gli ebrei si verificarono in diverse città della Provenza. Quasi una seconda epidemia, le violenze antigiudaiche si este-sero presto al resto della Francia e alla Catalogna.

Colpisce che la zona interessata sia la medesima che aveva vissuto il panico collettivo del 1321 e, prima ancora, la sanguinosa Crociata al-bigese. È come se un trauma violento riaffiorasse e tornasse ad affliggere la regione che aveva visto fiorire nel secolo XII la civiltà d’oc, con le sue corti e i suoi poeti. La memoria aveva probabilmente sedimentato la pre-disposizione culturale a interpretare l’epidemia come la conseguenza di un complotto ebraico.

Come in una reazione chimica, gli sparsi elementi che si erano manifestati in questa prima fase – i massacri delle comunità ebraiche della Provenza compiuti da folle inferocite, la tesi del complotto dei mendicanti lanciata dalle autorità di Narbonne e Carcassonne e ripresa ad Avignone – s’incontrarono e deflagrarono. Ciò avvenne ancora più a est, nel Delfinato, probabilmente nella seconda metà di giugno. Sappiamo che al principio di luglio due giudici e un notaio, provvisti di lettere speciali del Delfino, condussero un’inchiesta a Vizille, non lontano da Grenoble, contro un gruppo di ebrei – sette uomini e una donna – accusati pubblicamente (pubblice diffamati) di aver sparso polveri velenose nelle fontane, nei pozzi e nei cibi. […] Da questo momento è possibile seguire il rapidissimo

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diffondersi, quasi per contagio, della persecuzione contro i presunti avvelenatori ebrei, che ora segue ora anticipa, verosimilmente con l’intenzione di prevenirlo o bloccarlo, il contagio della peste».60 Una bolla emessa da papa Clemente VI, che condannava come assurda la tesi del complotto, rimase inascoltata. Gli atti del processo contro Guillaume Agassa e i suoi complici, tutti della cittadina di Villeneuve, situata nei pressi del lago Lemano, raccontano una storia che abbiamo imparato a riconoscere: tutti avevano da principio negato le accuse; «tutti erano stati sottoposti a tortura; tutti, dopo una resistenza più o meno lunga, avevano finito con l’ammettere la propria colpevolezza, descrivendo con grande abbondanza di particolari la cospirazione cui avevano preso parte.61

Non lontano dal lago Lemano e dalla città di Ginevra sorgono la cit-tadina di Vevey e il villaggio di Dommartin, ormai note al lettore. A Vevey il primo degli interrogatori, quello di Jacques Durier, si inaugurò con l’imputato chiamato a rispondere dell’accusa di aver causato a un vicino una mortale infezione con l’ausilio di una polvere di origine diabolica. In una fase successiva dell’interrogatorio, Durier dovette confermare di aver ricevuto da Satana un unguento mediante il quale diffondere malattie tra i cristiani. L’idea del contagio diffuso dagli agenti del Maligno proviene chiaramente dai giudici. Il dato suggerisce l’esistenza una qualche forma di continuità tra i primi processi per stregoneria del secolo XV e le esperienze di panico collettivo scatenate dalle epidemie più di cento anni prima.

Il processo ai Templari

Il processo ai Templari, voluto dal re di Francia in contrasto con l’orientamento del papa, si aprì nel 1307, vale a dire quattordici anni prima dello smascheramento del complotto dei lebbrosi, e per l’intera sua durata sviluppò con arte ridondante il motivo della congiura che germinava in seno alla cristianità. L’unico mezzo che Filippo il Bello e i suoi collabora-tori potevano utilizzare per eliminare l’ordine e appropriarsi delle sue favo-lose ricchezze era fabbricare l’accusa di essere, dietro la pia facciata, una setta eretica, dunque un pericolo per la cristianità annidato al suo interno. La lista delle imputazioni si apriva con la descrizione del rituale di ingresso

60. Ivi, pp. 39-40Ivi, pp. 39-4061. Ivi, p. 41.Ivi, p. 41.

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nell’ordine dei novizi. Essi erano chiamati innanzitutto a rinnegare Cristo per tre volte e per tre volte a sputare sulla croce. Ultimata questa esecrabile iniziazione,

[…] spogliatisi delle vesti che avevano portato nella loro vita mondana, nudi dinnanzi al visitatore o a colui che ne fa le veci, il quale li accoglie nell’ordine, si fanno baciare da questi dapprima sul didietro, sulla spina dorsale, poi sull’ombelico e infine in bocca, in oltraggio alla dignità umana e secondo il rito profano del loro ordine. E dopo […] si fanno l’obbligo di non negarsi l’un l’altro nell’orribile e tremendo vizio del giacere insieme, per il quale l’ira di Dio si abbatte su di loro, figli dell’infedeltà.62

Si diceva poi che alle riunioni dei capitoli provinciali i maggiori uf-ficiali dell’ordine baciassero e adorassero la testa di un uomo barbuto. Du-rante gli interrogatori l’idolo venne identificato con maggiore precisione come il simulacro di Maometto. I Templari sarebbero quindi stati dei tradi-tori venduti al nemico che avrebbero dovuto combattere in Terrasanta.

Il processo ai Templari, benché allestito e manipolato da ufficiali laici, con non pochi attriti tra il re di Francia e la Santa Sede, rappresenta forse il precedente meglio strutturato dei successivi processi inquisitoriali per eresia e stregoneria. La procedura da seguire nella cattura e negli inter-rogatori, allegata all’ordine di arresto, riprende e sviluppa astutamente i modelli che gli inquisitori stavano elaborando.

[…] metteranno i frati sotto buona custodia, separandoli l’uno dall’altro, e cominceranno l’inchiesta di persona prima di chiamare i commissari dell’Inquisizione; e cercheranno di ottenere la verità con la tortura, se neces-sario, e se quelli confesseranno la verità, faranno venire dei testimoni e redig-eranno per iscritto le loro deposizioni.Questa è la maniera di condurre l’inchiesta:Si faranno loro delle esortazioni sugli articoli della fede e si dirà loro come il re e il papa siano stati informati da molti testimoni degni di fede, membri dell’ordine, dell’errore e dell’eresia dei quali si erano resi colpevoli in modo particolare in occasione delle loro cerimonie d’ingresso, e della loro professione; si dovrà promettere loro il perdono se confesseranno la verità e torneranno alla

62. Citato in Barbaara Frale, Citato in Barbaara Frale, L’ultima battaglia dei Templari. Dal codice ombra d’ob-bedienza militare alla costruzione del processo per eresia, Roma, Viella, 2001, p. 312.

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fede della santa Chiesa, o altrimenti che saranno condannati a morte.63

A dispetto dell’impostazione nitidamente inquisitoriale del testo, l’intenzione del re di Francia era di scavalcare il tribunale ecclesiastico e di tenere gli inviati del papa ai margini dell’inchiesta. In buona sostanza, Filippo mirava a ottenere una condanna senza passare attraverso la lenta e scrupolosa macchina dell’Inquisizione ufficiale.

Oltre 500 imputati confessarono le accuse prefabbricate. Da un lato si rimane colpiti dalla profonda analogia con i processi staliniani: a partire da mezze verità o da semplici sospetti le certezze degli imputati venivano incrinate evocando le deposizioni già rese da altri testimoni; inoltre, an-che nel processo ai templari i teoremi accusatori non appaiono costanti e fedeli alla formulazione iniziale, ma si rivelano dinamici, in evoluzione nel tempo – è solo in una seconda fase del dibattimento, per esempio, che compare tutto il materiale relativo alle pratiche sataniche e all’uso perverso del sacramento della Penitenza. Dall’altro lato, è importante osservare che la costruzione dell’impianto accusatorio aveva bisogno di fonti a cui ispi-rarsi; queste non potevano che provenire dalla documentazione, scritta e orale, della lotta all’eresia condotta nei secoli precedenti, in particolare nel sud della Francia. Sono infatti gli inquisitori protagonisti dei processi ai templari tenuti Linguadoca (tra i quali forse lo stesso Bernard Gui) che più rapidamente adeguarono gli interrogatori al paradigma demoniaco-ereti-cale: adorazione di idoli, baci osceni a gatti neri, orgie, presenza di figure femminili assimilabili a streghe.64

Antecedenti del Patto con il nemico

La nozione di patto con il demonio, come è noto, è ben più antica. Essa compare, anche se in forma episodica, già in fonti altomedievali. Un esempio è la leggenda relativa a Teofilo di Cilicia, divulgata in Europa occidentale da Rosvita di Gandesheim. Teofilo era un vescovo che aveva dovuto dimettersi perché vittima di basse calunnie. Deluso e abbandonato, si lascia persuadere da un negromante ebreo a recarsi con lui a un convito

63. Ivi, p. 314.Ivi, p. 314.64. Barbara Frale, I Templari e la sindone di Cristo, Bologna, Il Mulino, 2009, pp.

63-67.

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diabolico. Satana in persona promise a Teofilo che sarebbe stato reintegrato nella carica episcopale se avesse rinnegato Dio, Cristo e la Vergine. Teo-filo, mosso dal risentimento, acconsentì a stringere un patto con il nemico della Chiesa, formalizzato su un documento scritto e firmato. Il vescovo re-cuperò posizione e onori, ma un giorno, tormentato dal rimorso, si rivolse alla Vergine implorando il suo perdono. Maria, impietosita, intercedette presso Gesù che a sua volta ottenne da Satana lo scioglimento del patto. Rosvita mette in bocca al diavolo ciò che desidera ottenere da Teofilo: «Se egli desidera essere mio rinnegherà Cristo e la vergine sua madre».65

Verso il 1250 Rutebeuf riprese la leggenda nel dramma Il miracolo di Teofilo; il patto tra il diavolo e il protagonista è narrato in forma dia-logica:

Satana: «Fa tre passi indietro e ripeti con me: io rinnego totalmente Dio!»Teofilo: «Io rinnego totalmente Dio!»Satana: «E sua madre che l’ha generato»Teofilo: «E sua madre che l’ha generato»Satana: «Io divento tua proprietà»Teofilo: «Io divento tua proprietà»Satana: «Anima e corpo»Teofilo: «Anima e corpo».66

L’accusa infamante di essersi dati anima e corpo al demonio era stata periodicamente rivolta agli eretici e nel 1250 era tristemente all’ordine del giorno. L’opera di Rutebeuf era a tutti gli effetti un dramma di attualità.

La crociata albigese

Prima della grande crisi scatenata dalla Riforma luterana – una crisi religiosa, politica, ma che ha soprattutto coinvolto direttamente le coscienze dei singoli fedeli – si erano verificate altre situazioni che avevano contribuito a preparare culturalmente e giuridicamente il terreno a uno scontro di maggiori proporzioni. In particolare, c’era stata la cosiddetta crociata albigese, formalmente proclamata da Innocenzo III nel 1208. Si

65. Citato in Guy Bechtel, Citato in Guy Bechtel, Guy Bechtel, La sorcière et l’Occident, Paris, Plon, 1997, p. 115.66. Citato in Ivi, p. 116.Citato in Ivi, p. 116.

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era trattato di un consapevole trasferimento in territorio aquitano di un concetto che era stato operativo fino a quel momento solo per qualificare le iniziative volte alla riconquista di territori in mano musulmana, vale a dire la Terra Santa e la Spagna ancora in mano islamica. Nel caso albigese, invece, si era ritenuto che la penetrazione capillare dell’eresia dualista dei Catari nei territori amministrati dal conte di Tolosa e dai suoi vassalli rendesse necessaria e urgente l’apertura di un fronte interno.

La crociata albigese è importante per molte ragioni; una, di rilevante interesse in questa sede, è che in essa si sperimentò per la prima volta in forma compiuta l’azione di inquirenti/inquisitori che non traevano legit-timità dalle istituzioni e dalle comunità locali, ma costituivano un’élite che rispondeva direttamente ai vertici del potere mandatario, nella fattispecie il papato, al quale si aggiunse in una seconda fase il regno di Francia.

Da allora l’intervento di questa categoria di funzionari e specialisti sarebbe diventata una prassi consolidata qualora ci si fosse trovati ad af-frontare congiure e complotti (spesso fittizi o manipolati) riconducibili a un patto scellerato stretto tra un potente Avversario – il diavolo, il capital-ismo mondiale – e i suoi adepti confusi abilmente tra la gente comune se non addirittura tra i servitori del Bene.

Con il concilio Laterano del 1215, celebrato in piena crisi albigese, la crociata contro gli eretici divenne ufficialmente un dovere e un’istituzione della cristianità. Il concilio tratteggiò le linee generali della procedura in-quisitoria, ma è solo una ventina di anni dopo che Gregorio IX formalizzò l’istituzione della Santa Inquisizione. Essa fu insieme conseguenza della percezione di un rinnovato protagonismo diabolico nel mondo e causa dell’intensificarsi della percezione stessa: il Male è un’entità che si finisce sempre per trovare se lo si cerca con determinazione. Ecco allora che i costumi irreprensibili dei perfetti Catari, che seducevano i cristiani con una condotta di vita apparentemente ispirata alla semplicità evangelica, erano in realtà un travestimento ben riuscito, un inganno dietro al quale si celava un piano demoniaco. Il Male indossava i panni del Bene per raggiungere i propri obiettivi. Nel 1233 lo stesso Gregorio IX aveva emanato la bolla Vox in Rama, diretta in primo luogo ai vescovi renani, in cui avvisava di vigilare contro una setta satanica che si riuniva di notte: nel corso del de-plorevole rito il Maligno si manifestava in forma di rospo ai convenuti, che lo omaggiavano e si abbandonavano a ogni sorta di eccesso sessuale, un luogo comune polemico che conosciamo ormai fin troppo bene e che, come vedremo, non era un’invenzione recente, ma vantava all’epoca una

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tradizione consolidata.

Altri eretici, altre persecuzioni

Il secolo XII ha conosciuto insieme a un eccezionale rinascimento cul-turale un impressionante crescendo di persecuzioni anti-ereticali, che in una certa misura prefigura la successiva coincidenza tra Rinascimento e caccia alle streghe. Le esecuzioni di Pietro di Bruys nel 1126 e di Arnaldo da Brescia nel 1146 si stagliano come momenti cruciali di una revisione delle strategie teologiche e giuridiche della Chiesa. Nel 1197 il concilio di Gerona proclamò che tutti gli eretici meritavano la condanna al rogo, quale corrispettivo terreno del fuoco dell’inferno. Nel 1199 la decretale Vi-gentis in senium di Innocenzo III dichiarò gli eretici passibili di condanna per tradimento. Oltre a contribuire a cristallizzare l’immagine dei congiu-rati contro la società cristiana, la conseguenza principale della Vigentis fu l’implicito diritto della Chiesa, in collaborazione con l’autorità secolare che in teoria doveva essere vincolata dalla sentenza, di condannare a morte coloro che deviavano dall’ortodossia. Mancavano pochi anni alla procla-mazione della crociata Albigese da parte dello stesso Innocenzo III.

Nel corso del secolo XII si verificò la convergenza di due fenomeni nati indipendentemente: l’elaborazione di un pensiero giuridico articola-to, tanto in ambito civile che canonico, e la messa a punto di nuovi stru-menti, anche giuridici, funzionali alla lotta all’eresia. La crociata albig-ese fu l’occasione di mettere a punto una teoria giuridica dell’estorsione delle informazioni. Essa indicava l’obbligo di inserire nella confessione al sacerdote la denuncia degli eretici se nel corso della stessa emergeva una conoscenza, un legame o un semplice sospetto. Di fatto, la procedura dei processi per eresia rientrava nelle nuove norme elaborate da Graziano. L’indagine si poteva quindi aprire non più solo in seguito all’accusa di un testimone, ma anche per vox populi. I sospetti dovevano essere poi confer-mati da almeno due testimoni e, se possibile, da prove materiali; il ricorso all’ordalia era definitivamente rifiutato – anche per questa ragione divenne fondamentale la confessione dell’imputato, nella doppia accezione di con-fessione di un peccato e di ammissione di un crimine.

La struttura delle modalità di conduzione di un processo per eresia fu ulteriormente precisata e formalizzata alla metà del secolo XIV. I primi testi a fissare con precisione le procedure sono stati probabilmente i due

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manuali scritti dagli inquisitori Bernard Gui, tolosano, e Nicolau Eymeric, catalano. L’opera di Gui ci informa su quali fossero le categorie di persone soggette a indagine inquisitoriale: oltre ai prevedibili eretici conclamati e ai sospetti di eresia incontriamo i caelatores, ovvero chi veniva meno al dovere di denunciare gli eretici, i receptores, vale a dire chi ospitava eretici consapevole che erano tali, e i defensores, cioè chi difendeva gli eretici con le parole o con le azioni. Nel testo di Eymeric spicca una serie di suggerimenti che, lo si può affermare senza timore di errore, hanno fatto scuola nei secoli: invitava, ad esempio, di servirsi di tutte le simulazioni utili all’ottenimento della confessione, come «le buone e paterne maniere, il far credere all’imputato che altri abbia già rivelato tutto al giudice, l’uso delle spie».67

Gli inquisitori disponevano di fondi per le spese che venivano talvolta utilizzati per pagare i delatori e le spie. Si conoscono casi di eretici rei con-fessi obbligati a lavorare come informatori per tutta la vita, quasi schiavi dell’inquisitore. Il frate predicatore Lanfranco da Bergamo, inquisitor hae-reticae pravitatis dal 1292 al 1305, ha tenuto un quaderno pergamenaceo ricco di annotazioni di varia natura. Tra le informazioni più sorprendenti ci sono registrazioni contabili dalle quali emerge che il frate riceveva del denaro a sostegno del lavoro svolto. Solo in due occasione egli è stato chiamato a render conto dell’uso che ne faceva. Ma qual’era, appunto, la funzione di questo denaro? Serviva a pagare tante spese connesse alla sua attività, naturalmente, in particolare i costi degli spostamenti; ma la desti-nazione che colpisce la nostra attenzione è un’altra: i soldi andavano anche ad alimentare una rete di informatori, costituita in massima parte da eretici rei confessi e riammessi in seno alla Chiesa e che l’inquisitore teneva or-mai in pugno: essi erano costretti a lavorare come informatori a vita in quanto «l’abiura di un eretico implicava la collaborazione perpetua con gli inquisitores haereticae pravitatis».68 C’era, ad esempio, l’ex-catara Elena che «riceve 6 soldi e mezzo per i multa servicia offerti. Dal 1294 faceva parte della familia dell’inquisitore e lo era diventata – frate Lanfranco lo scrive esplicitamente – propter eius paupertatem [per la sua povertà], ricevendo così un alloggio, doni di Natale e tutto ciò che le sue necessità

67. Adriano Prosperi, Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino, Einaudi, 1996, p. 205.

68. Marina Benedetti, Benedetti, Le parole e le opere di frate Lanfranco (1292�1305), «Quaderni di Storia Religiosa», 2002, pp. 111-182, p. 145.

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richiedevano».69 E c’era Folia da Albino, un eretico che dopo la cattura abiurò e venne arruolato come spia: «alla fine del 1299 una nota informa che vengono dati denari a una certa spia, un tempo povero di Lione, vale a dire Folia da Albino».70

La costruzione di una società repressiva

Nell’alto medioevo la teoria del complotto pare avere attraversato una fase di bassa intensità. Il lettore potrebbe stupirsi nell’apprendere che accuse di maleficio documentate nel secolo IX potenzialmente interpretabili in tale direzione furono invece trattate con una serenità maggiore rispetto a quanto sarebbe avvenuto in tempi più moderni. Il vescovo di Lione Agobardo testimonia (in un breve testo dall’eloquente titolo Liber contra insulsam vulgi opinionem de grandine et tonitruis) un fatto avvenuto nella sua diocesi che aveva richiesto il suo intervento: alcune persone erano state trascinate al cospetto di un’assemblea in quanto responsabili, addirittura rei confessi, di avere provocato tempeste e sparso per i campi una polvere velenosa. Ebbene, Agobardo pensò, sì, all’azione del demonio, ma, a differenza dei giudici e degli inquisitori attivi tra XIV e XVII secolo, la vide nell’ottenebramento delle menti di quei poveracci che si autoaccusavano di un crimine impossibile e ridicolo, soprattutto tenendo conto che anche i loro miseri poderi erano stati danneggiati dalla violenza delle intemperie.

Nell’860 la corte di Lotario II, pronipote di Carlomagno, fu turbata da una vicenda quantomeno spiacevole che a un certo punto prese una piega pericolosa. Il re voleva separarsi dalla moglie Teutberga, che non gli aveva dato figli, e sposare la sua amante di lunga data Waldrada. Non potendo però ripudiare arbitrariamente la sposa Lotario montò contro di lei l’accusa infamante di aver avuto rapporti incestuosi con il fratello. Nel frattempo, i partigiani di Teutberga avanzarono forti sospetti che Waldrada avesse sedotto il sovrano facendo ricorso alle arti magiche. L’arcivescovo Inc-maro di Reims, che ci ha lasciato una cronaca degli eventi nel De Divortio Lotharii et Tetbergae, era incline a credere nella colpevolezza di Waldrada, ma nella sua riflessione evita di tirare in ballo il Maligno, limitandosi a condannare chi praticava divinazione, legature e malefici in genere.

69. Ivi, p. 141.Ivi, p. 141.70. Ivi, p. 143.Ivi, p. 143.

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È difficile sottrarsi all’impressione che la rinnovata popolarità della congiura sia paradossalmente da mettere in relazione con la ripresa cul-turale dei secoli XI-XII e al rinnovato slancio della speculazione teologica e politica. Dopo il Mille l’Europa beneficiò di una ripresa economica e culturale; da un lato la cultura del cristianesimo raggiunse territori che ne erano stati toccati marginalmente, dall’altro perfezionò il suo radicamento là dove era da tempo presente. Nello stesso tempo, però, fiorirono vari movimenti destinati presto a essere classificati come eretici e pertanto in quanto tali perseguitati, anche con estrema durezza, da parte delle autorità laiche ed ecclesiastiche.

Il momento che inaugura la repressione su larga scala degli eretici potrebbe forse essere individuato nella scoperta e nel massacro dei “man-ichei” di Orléans, nel 1022. In realtà i contenuti della loro dottrina non sono chiari poiché le accuse non si soffermano tanto sui dettagli teologici quanto su una tristemente famigliare lista di stereotipi. Se il cronista Ademaro di Chabannes si appella all’indicibilità di crimini che sarebbe peccaminoso perfino riferire, Paolo di Chartres, nel suo resoconto del sinodo tenuto a Orléans per organizzare la reazione all’eresia, parla esplicitamente di orge, sacrifici di bambini e fabbricazione di pozioni omicide.

Si radunavano in notti stabilite in una casa designata, tenendo ciascuno in mano un lume e sotto forma di litanie cantavano i nomi dei diavoli fino a che non vedevano improvvisamente discendere fra loro il demonio in forma di qualche animale. A quella visione, subito si spegnevano tutti i lumi e ognuno afferrava la donna che gli capitava sotto mano per abusarne senza riguardo al peccato. Se poi si trattava della madre, della sorella o di una monaca, consideravano quel rapporto sessuale santo. Il bimbo nato da tale atto impuro veniva presentato l’ottavo giorno dopo la nascita: si accendeva un gran fuoco e lo si cremava come fra gli antichi pagani. Le ceneri venivano raccolte custodite con la stessa venerazione con cui i cristiani sono soliti custodire il corpo di Cristo, da dare agli ammalati e ai moribondi come viatico.71

Questo passo presenta evidenti affinità con le orge notturne della vauderie di Arras, dove però mancano riferimenti al sacrificio umano. Il tremendo olocausto è invece presente nella descrizione dell’erudito bizan-tino Michele Psello di un rito dei bogomili di Tracia, definito «sacrifico

71. Citato in Andrea Del Col, Citato in Andrea Del Col, L’inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo, Milano, Mondadori, 2006, p. 35.

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mistico»:

Dunque, dopo aver acceso le luci della sera, quando noi celebriamo la passione del Signore, portano delle ragazze iniziate ai loro santi sacrifici nella casa scelta; poi spengono le luci per non averle testimoni – come dicono – dell’esecrabile infamia. Allora si rivoltano libidinosamente con qualunque ragazza capiti loro a tiro, fosse pure loro sorella o figlia. In questo modo pensano di fare cosa grata ai demoni violando le leggi divine in cui si fa divieto di contrarre matrimonio con il proprio sangue. Compiuto questo sacrilegio se ne tornano a casa. Nove mesi dopo – quando è venuto il momento della nascita per l’infame frutto di seme infame – si riuniscono di nuovo nello stesso luogo ed il terzo giorno dopo il parto quei figli sventurati sono strappati alle madri, vengono incise con un rasoio le loro carni; il sangue che sgorga viene poi raccolto in ampolle. Quindi li bruciano sul rogo mentre ancora agonizzano. Infine compongono un abominevole farmaco mescolando le loro ceneri con il sangue delle ampolle e con questo impregnano di nascosto i cibi e le coppe come quelli che spargono veleno con il miele.72

Psello scrisse Le opere dei demoni intorno al 1050; le somiglianze tra il suo testo e quello di Paolo di Chartres sono tali da far pensare che i due passi siano riconducibili, se non a una fonte testuale comune, almeno a una medesima filiera narrativa – alla quale rimanda probabilmente anche il resoconto dei turpi raduni dei catari veronesi scritto da Cesario di Heister-bach verso il 1220 e incluso nel suo Dialogus miracolorum:

Spento il lume, ciascuno di loro si lanciò sulla donna a lui più vicina, non ris-pettando la distinzione tra quante avevano un legame legittimo e quante non lo avevano, tra la vedova e la vergine, tra la signora e l’ancella e – ciò che è più terribile – tra sorella e figlia.73

I sacrifici umani dei primi cristiani

L’immagine del sabba è il frutto dell’incontro, o della collisione, tra credenze folkloriche, soprattutto dell’area alpina, e demonologia dotta; si

72. Citato in Norman Cohn, Citato in Norman Cohn, I demoni dentro. Le origini del sabba e la grande caccia alle streghe, Milano, Unicopli, 1997, p. 58.

73. Citato in Del Col, Citato in Del Col, L’inquisizione in Italia, p. 69.

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deve però tener conto, lo abbiamo appena verificato, anche di un altro fi-lone polemico antiereticale. Le radici di questo terzo filone, che potremmo definire orgiastico sacrificale, vanno cercate nell’antichità. Agostino, ad esempio, riporta voci inquietanti sui cosiddetti montanisti della Frigia:

La gente dice che hanno sacramenti molto deplorevoli. Si racconta che pren-dono il sangue di un bambino di un anno cavandolo da piccoli tagli fatti su tutto il corpo, e allo stesso tempo producono la loro eucaristia mescolando questo pane con la farina e facendone del pane. Se il bambino muore lo considerano un martire, ma se vive lo trattano come un grande sacerdote.74

L’accusa di sacrificare gli infanti e di abbandonarsi all’orgia, motivi che confluiranno nello stereotipo del sabba, non fu d’altra parte una creazi-one del vescovo di Ippona e dei suoi contemporanei. Agostino non inventò nulla, si limitò a trasferire a quei cristiani che deviavano dall’ortodossia dominante – che non necessariamente era la stessa in differenti tempi e luoghi – argomenti che erano stati parte della polemica anticristiana che aveva investito le prime comunità di credenti in Cristo.

In effetti, l’accusa di celebrare riti omicidi e sacrifici umani era stata spesso rivolta anche ai cristiani, come testimoniano, tra gli altri, Minucio Felice e Tertulliano. Quest’ultimo, enfatizzando un contesto di effettiva tensione, riferisce che durante il regno di Marco Aurelio di ogni evento nefasto erano ritenuti responsabili cristiani: «Se il Tevere sale sulle mura, se il Nilo non allaga la campagna, se il cielo rimane immutato e la terra trema, se la fame e la peste dilagano, non è che un grido: i cristiani al leone!».75 Uno degli episodi più noti si verificò nel 177 d.C. A Lione, dove i membri della comunità cristiana locale subirono l’accusa di praticare ce-rimonie orgiastiche nel corso delle quali si perpetravano i crimini di magia nera, incesto, infanticidio e cannibalismo.

Può essere utile ricordare che negli anni quaranta dell’Ottocento venne pubblicato un libro di G. F. Daumer, Die Geheimnisse des christilichen Altertums, che sosteneva la fondatezza di tali accuse. Karl Marx lesse il saggio e in un intervento a un congresso dei lavoratori lo commentò con entusiasmo, poiché confermava la sua convinzione che fosse tempo di farla finita con le religioni. Daumer pretendeva di aver dimostrato che i primi

74. De hearesibus, XXVI, citato in Cohn, I demoni dentro, p. 56.75. Citato in Ivi, p. 31.Citato in Ivi, p. 31.

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cristiani praticarono davvero l’omicidio rituale e il cannibalismo. A suo avviso ciò spiegava sia le persecuzioni da parte dei Romani, altrimenti noti per la loro tolleranza religiosa, sai «perché più tardi i cristiani distrussero tutta la letteratura pagana che era diretta contro di loro».76 In seguito Daumer rinnegò il suo lavoro e si convertì al cattolicesimo, mentre Marx espresse scetticismo riguardo alla teoria di cui si era fatto per un giorno megafono. In ogni caso, si tratta di un curioso indizio di come il movimento rivoluzionario presentasse fin dai suoi inizi una sorta di disponibilità ad accogliere l’idea di avversari riuniti in una setta, se non diabolica, crudele e ostile – idea che, come abbiamo visto, era stata condivisa anche dai giacobini francesi e da tanti altri prima di loro.

L’inquietante ombra dell’orgia licenziosa che, con la sua amoralità sregolata, ha turbato le coscienze della Roma classica ha un’origine facil-mente rintracciabile nei culti misterici che giunsero a Roma dall’oriente. Essi, come il culto anatolico di Cibele e Attis, contenevano spesso ele-menti di promiscuità sessuale, per quanto probabilmente enfatizzati dalla polemica avversa, e accoglievano gli iniziati senza riguardo alla classe sociale d’appartenenza. L’ingresso di nuovi membri nella confraternita, inoltre, presumeva un’iniziazione e il severo divieto di rivelarne i conte-nuti all’esterno della setta. Quest’ultima peculiarità rappresentava un ul-teriore motivo di preoccupazione poiché intorno al mistero fiorivano più agevolmente le congetture e le dicerie. Da iniziati a congiurati sovversivi, insomma, il passo era breve. Prova ne fu quanto si verificò a Roma nel 186 a. C.

76. Ibidem.

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conclusIone. l’affare deI baccanalI

Nel 186 a. C. Roma fu scossa dalla vicenda conosciuta come l’affare dei baccanali. La seconda guerra punica si era conclusa da quindici anni. Il contributo determinante di Publio Cornelio Scipione detto l’Africano alla vittoria militare su Annibale aveva consolidato il potere della sua famiglia in città, ma nel 187, un anno prima dei fatti che ci interessano, la leadership degli Scipioni era stata messa violentemente in discussione. Un fratello di Publio, Lucio, aveva subito un processo e una condanna per peculato, men-tre la corrente rivale, capeggiata dal bilioso tradizionalista Catone, accusa-va l’ambiente vicino agli Scipioni di eccessive aperture verso le culture straniere, in primo luogo, ovviamente, quella greca. Catone e i suoi seguaci consideravano la visione dell’entourage degli Scipioni – del quale faceva parte il commediografo Terenzio – una minaccia all’autentica tradizione romana. Per Catone l’influsso greco sui costumi romani, i sacri costumi degli antenati, era nefasto: l’austera virilità romana stava per essere cor-rotta dal lassismo morale dei greci degenerati.

È in questo contesto che esplose il caso dei seguaci di Bacco, che sem-brava fatto apposto per confermare i sospetti del focoso censore. Il reso-conto di Livio si apre, guarda caso, con una metafora epidemica: «Questo flagello dall’Etruria si propagò a Roma come in un’epidemia». A intro-durre il morbo sarebbe stato un misterioso greco «sacerdote di riti segreti e notturni: misteri, quelli, a cui pochi in origine furono iniziati, e che poi cominciarono a diffondersi senza distinzione fra uomini e donne».1 Sono i primi passi di una pericolosa società segreta.

1. Tito Livio, Storie, XXXIX, 8, a cura di Alessandro Ronconi e Barbara Scardigli, Torino, Utet, 1980, pp. 525-527.

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Al rito si aggiunsero le delizie del vino e dei banchetti, perché fossero di più le menti attratte dall’errore. Quando i fumi del vino, la complicità della notte e il trovarsi confusi maschi e femmine, fanciulli e adulti ebbero cancellato ogni limite posto dal pudore, cominciarono a commettersi depravazioni […]. E non ci si limitò a un solo genere di malefici, come violenze indiscriminate su uo-mini liberi e su donne, ma anche false testimonianze, falsificazione di suggelli nei testamenti e delazioni uscivano da una stessa fucina, e sempre di là azioni di magia e delitti famigliari, al punto che a volte non restavano neppure i corpi da seppellire. Molto si osava con l’insidia, ma di più con la violenza.2

Le pratiche della setta costituivano ormai una trama che congiurava contro l’ordine stesso della Res publica romana. Ciò che realmente av-veniva, con ogni probabilità, era che il culto azzerava le differenze di ceto e che il raggiungimento di uno stato di ebbrezza era lo strumento di comuni-cazione estatica con la divinità. L’immagine che del culto veniva divulgata ne enfatizzava eccessi e degenerazioni.

Gli uomini come impazziti vaneggiavano gesticolando da invasati con tutta la persona, le matrone in atteggiamento di baccanti, coi capelli sparsi, correvano giù fino al Tevere con torce accese e, dopo averle immerse nell’acqua, poiché queste contenevano zolfo vivo e calce, le estraevano con la fiamma intatta.3

Fin qui si è ancora all’interno della verosimiglianza. In città, però, le dicerie andavano ormai ben oltre lo sconcerto di fronte a pratiche cultuali eccessive e straniere.

Si dicevano rapite dagli dei persone che invece, legate a un ordigno, erano sot-tratte alla vista in spelonche nascoste; ed erano quelle che non avevano voluto congiurare né associarsi a misfatti o subire oltraggio. Erano una folla numerosa, ormai un secondo popolo e, fra questi, taluni cittadini e donne della nobiltà.4

La portata sovversiva era tale da giustificare il coinvolgimento diretto dei consoli e del senato nella repressione della setta. Il console Postumio condusse un’inchiesta accurata al termine della quale riferì gli inquietanti risultati al cospetto dei senatori.

2. Ivi, XXXIX, 8, p. 527.3. Ivi, XXXIX, 13, pp. 537-539.4. Ivi, XXXIX, 13, pp. 539.

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Il senato deliberò di ringraziare il console per aver condotto l’indagine con particolare oculatezza evitando ogni disordine. Quindi affida ai consoli la pro-cedura straordinaria contro i Baccanali e i riti notturni in genere; si dispone di evitare che ai due delatori Ebuzio e Fecennia la cosa porti pregiudizio, e di atti-rare con premi altri delatori. Si fan ricercare non solo a Roma, ma per tutti i fori e i «conciliaboli» i sacerdoti di quei riti, uomini o donne che fossero, per darli in mano ai consoli; ancora si fa decretare nella città di Roma, e analoghi editti si mandano per tutta Italia, che chi fosse già iniziato ai Baccanali si astenga dal partecipare a riunioni a scopo cultuale e dal compiere atto alcuno di simili riti; soprattutto si proceda contro coloro che abbiano congiurato o si siano adunati per commettere stupro o altra infamia […]. I consoli ordinarono agli edili cu-ruli di ricercare tutti i sacerdoti di quel culto, e, trattenendoli in libera custodia, tenerli a disposizione per l’inchiesta.5

I consoli convocarono una pubblica assemblea e un clamoroso dis-corso di Postumio svelò al popolo la supposta vera natura della setta:

Qualunque cosa io dica, sappiate che sarà sempre poco per l’atrocità e la vastità della cosa […]. Quanto al numero di questa gente, se vi dirò che sono molte migliaia, è naturale che subito vi spaventiate prima che io aggiunga chi e di che risma sono. In primo luogo dunque sono gran parte donne, e da qui è scaturito un simile flagello; poi maschi che sembrano femmine, stuprati e stupratori, forsennati, sconvolti dalle veglie, dal vino, dalle grida, dagli strepiti notturni. La congiura non ha ancora forze, ma ha in sé grandi possibilità di sviluppo perché costoro diventano ogni giorno più numerosi.6

La procedura straordinaria, quaestio extra ordinem, conferiva poteri speciali di inchiesta e di arresto e la facoltà di celebrare processi che pre-vedevano sentenza di morte non appellabili. L’azione dei consoli fu capil-lare, spietata e, almeno nell’immediato, efficace. Essi annunciarono che era stato autorizzato

un premio per chi avesse condotto loro dinanzi un colpevole o l’avesse denun-ciato anche assente […]. Sciolta l’adunanza, grande panico si sparse per tutta Roma; e non si limitò alla città e al territorio latino, ma si cominciò a tremare qua e là per tutta Italia, man mano che vi arrivavano lettere di immigrati che

5. Ivi, XXXIX, 14, pp. 541.6. Ivi, XXXIX, 15, pp. 543-545.

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parlavano del senatoconsulto, dell’assemblea e dell’editto dei consoli. Nella notte che seguì al giorno nel quale la scoperta era stata resa di pubblica ragione dinanzi al popolo, quelli che tentavano di fuggire, con posti di blocco presso le porte furono fermati e portati indietro; molti furono denunziati. Alcuni di loro, uomini e donne, si uccisero. Si diceva che i congiurati fra uomini e donne fos-sero oltre settemila. Si sapeva che a capo della congiura erano M. e C. Attinio della plebe romana e il falisco L. Opicerno, e Minio Cerrinio della Campania […]. Condotti davanti ai consoli, confessarono per la parte loro e non tardarono a passare alle denunce.7

Confessarono e non tardarono a passare alle denunce. È una sceneg-giatura che da allora non cessa di essere rappresentata.

7. Ivi, XXXIX, 17, pp. 549-551.

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ePIlogo

L’affare dei Baccanali, come bene illustra l’ultima citazione, contie-ne elementi che prefigurano, nell’atmosfera generale e nella conduzione dell’inchiesta, le modalità di affioramento, diffusione, interpretazione e repressione del panico stregonesco. Che le pagine di Livio abbiano funzio-nato da archetipo letterario per le posteriori retoriche del complotto elabo-rate in ambito colto – lentamente assorbite a ogni livello della società – è possibile, per non dire probabile. Prima i politeisti contro i cristiani, poi i cristiani contro gli eretici hanno trasmesso e sviluppato il motivo delle efferatezze compiute da misteriosi congiurati con il favore delle tenebre. Dopo il Mille, questo filone polemico conobbe un rilancio in corrisponden-za di una nuova stagione, più accanita e duratura, di lotta all’eresia e, nel corso del secolo XV, si saldò con l’interpretazione demoniaca di una serie di credenze folkloriche. In quel momento, seconda metà del ‘400, eresia e stregoneria divennero le facce di una stessa sulfurea medaglia. Si andò de-lineando il fosco quadro del complotto diabolico e si elaborarono contro il complotto nuove armi giuridiche in cui il ricorso alla tortura e la centralità della confessione occupavano una posizione centrale, strategica. Nel corso dei secoli XVIII e XIX il diavolo si fece lentamente una presenza via via più sfumata; malgrado ciò, l’idea che una società o una comunità siano minacciate, oltre che da fattori critici visibili alla luce del sole (crisi eco-nomiche, evoluzioni dei costumi), anche da oscuri e spaventosi complotti non ha perso affatto vigore. Essa è anzi ancora qui tra noi. E da molte parti si è ritenuto, e si continua a ritenere, che sia ancora indispensabile ricorrere alle tecniche processuali messe in campo contro eretici e streghe: tortura,

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privazioni, la confessione degli imputati come unica prova adeguata, suf-ficiente e determinante.

La ricostruzione di una filiera di trasmissione culturale – in cui si integrano e si intrecciano credenze popolari, religione, filosofia, teologia e diritto – non risolve però del tutto la questione. Rimane, anzi, l’interrogativo di fondo: perché si è tanto facilmente disposti a credere in certe cose e non in altre? In particolare, perché la disponibilità ad accettare la teoria del complotto è così diffusa da rappresentare per molti aspetti un problema endemico e ubiquitario?

A tal proposito, merita di essere citata l’opinione di Dan Sperber, secondo il quale «le credenze misteriose o comprese a metà sono mol-to più frequenti e importanti culturalmente di quelle scientifiche. Dato che esse non sono completamente comprese [...] sono quindi aperte a reinterpretazione».1

Rispetto alle più rigide convinzioni razionali, insom-ma, le credenze misteriose sarebbero meglio plasmabili, malleabili, adat-tabili alla realtà e alla sua incertezza, mutevolezza e contraddittorietà. I misteri culturali sono competitivi anche perché facili da memorizzare e da tradurre in emozione – soprattutto i misteri culturalmente vicini a quelle rappresentazioni della realtà per le quali manca una spiegazione definitiva o una spiegazione emotivamente adeguata. Il sistema cognitivo umano, infatti, risponde meglio a stimoli che coinvolgono entrambi gli emisferi, destro e sinistro, ed entrambi i sistemi di rappresentazione della realtà, emotivo e razionale. Accade sovente, quindi, che le risposte puramente razionali risultino meno soddisfacenti di quelle che lasciano aperta la porta del mistero e della paura.2

Osservata sotto questa luce, la credenza nel complotto, o la disponibilità a credervi, appare una categoria antropologico-cognitiva prima che culturale. Essa si configura come una pre-condizione latente la cui apparizione effettiva, e il suo grado di intensità, dipenderà da variabili come le dinamiche culturali e il contesto politico. Come si è avuto modo di verificare, vi sono terreni che più di altri ne incoraggiano lo sviluppo. Un contesto di contrapposizione bipolare è certamente favorevole alla valorizzazione perversa del concetto di patto con il Nemico: i conflitti che opposero la Riforma protestante alla Controriforma cattolica (che non

1. Dan Sperber, Il contagio delle idee, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 27.2. Ivi, p. 76.

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Epilogo 125

casualmente coincise con uno dei picchi d’intensità della caccia alle streghe), oppure il Comunismo al Capitalismo ne sono l’illustrazione migliore. Come abbiamo visto, infine, la teoria del complotto è ancora uno strumento vitale all’inizio di questo XXI secolo che da molte parti si vorrebbe nato all’insegna della contrapposizione tra cultura occidentale e islam radicale – il quale, tuttavia, come si è già avuto modo di notare, ha in realtà mutuato dal Nemico molto dell’arsenale concettuale (e anche tecnologico, nel caso delle azioni terroristiche) che rivolge contro l’avversario.

Un altro aspetto da menzionare, infine, è il carattere epidemiologico che sovente assume la diffusione della credenza una volta uscita dallo stato latente. Osservando la cronologia e la progressione geografica dei processi per stregoneria si è autorizzati ad affermare che il panico e i conseguenti processi si diffusero sul territorio europeo come una lenta epidemia segu-endo un percorso da sud ovest a nord est, grosso modo simile a quello della peste nera del 1348. Analogamente, il modello delle persecuzioni stalin-iane che presero il via nell’URSS degli anni ’30 del Novecento si diffuse nel secondo dopoguerra nelle democrazie popolari dell’Europa orientale insieme allo stalinismo stesso, ma toccò anche gli USA, benché in forma attenuata, nei contemporanei anni del maccartismo. In entrambi i momenti, «caccia alle streghe» e processi staliniani, anche la progressione delle de-nunce interna ai singoli casi assunse il carattere di contagio epidemico.

Anche qui si è ipotizzabile la presenza di un perequisito antropologico-cognitivo al quale si sovrappongono specifiche dinamiche culturali. Un sistema culturale potrebbe essere considerato come una variante di «sistema selettivo di riconoscimento», di cui un esempio è il sistema immunitario. Secondo Gerald Edelman tali sistemi sono basati, appunto, su procedure di «riconoscimento» (o mancato riconoscimento) «tra gli elementi di un dominio fisico e le novità che si presentano tra gli elementi di un altro dominio fisico, più o meno indipendenti dal primo».3 Se all’espressione «dominio fisico» sostituiamo «sistema culturale» possiamo includere nella definizione, con un linguaggio interdisciplinare e pertinente, le dinamiche di adattamento, reazione e innovazione che si verificano costantemente nella storia umana. Le «epidemie» di panico e di persecuzione dovute all’affioramento e alla diffusione di credenze in complotti tessuti da

3. Gerald M. Edelman, Sulla materia della mente, Milano, Adelphi, 1993, p. 118.

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malvagi congiurati costituiscono una forma estrema, ma drammaticamente esemplare, di immunologia culturale.

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* La bibliografia include anche titoli non citati, ma da me consultati nel corso delle ricerche, e che rappresentano utili riferimenti per tutti i lettori interessati a un approfondi-mento preliminare dell’argomento trattato.

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