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Storie dell’arte contemporanea 1 Gli artisti di Ca’ Pesaro L’Esposizione d’arte del 1913 a cura di Nico Stringa e Stefania Portinari Edizioni Ca’Foscari

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Storie dell’arte contemporanea 1

—Gli artisti di Ca’ PesaroL’Esposizione d’arte del 1913a cura di Nico Stringa e Stefania Portinari

EdizioniCa’Foscari

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Storie dell’arte contemporanea

Serie diretta da Nico Stringa e Stefania Portinari

1

Gli artisti di Ca’ Pesaro

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Storie dell’arte contemporanea

Direzione scientifica Nico Stringa (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Stefania Portinari (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia)

Comitato scientifico Luca Massimo Barbero (Fondazione Giorgio Cini Venezia, Italia) Giuseppina Dal Canton (già Università degli Studi di Padova, Italia) Stefania Portinari (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Jean-François Rodriguez (già Università degli Studi di Verona, Italia) Sileno Salvagnini (Acca-demia di Belle Arti di Venezia, Italia) Nico Stringa (Università Ca’ Foscari Venezia, Italia) Valerio Terraroli (Università degli Studi di Verona, Italia)

Comitato di lettura Guido Bartorelli (Università degli Studi di Padova, Italia) Riccardo Caldura (Accade-mia di Belle Arti di Venezia) Massimo De Grassi (Università degli Studi di Trieste, Italia) Silvia Grandi (Alma Mater Studiorum Università degli Studi di Bologna, Italia)

Direzione e redazione Dipartimento di Studi UmanisticiUniversità Ca’ Foscari VeneziaPalazzo Malcanton MarcoràDorsoduro 3484/D | 30123 [email protected]

URL http://edizionicafoscari.unive.it/it/edizioni/collane/storie-dellarte-contemporanea/

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VeneziaEdizioni Ca’ Foscari - Digital Publishing2017

Gli artisti di Ca’ PesaroL’Esposizione d’arte del 1913a cura diNico Stringa e Stefania Portinari

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Gli artisti di Ca’ Pesaro. L’Esposizione d’arte del 1913Nico Stringa, Stefania Portinari (a cura di)

© 2017 Nico Stringa, Stefania Portinari per il testo © 2017 Edizioni Ca’ Foscari - Digital Publishing per la presente edizione

cbQuest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 InternazionaleThis work is licensed under a Creative Commons Attribution 4.0 International License

Qualunque parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, memorizzata in un sistema di recupero dati o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, senza autorizzazione, a condizione che se ne citi la fonte.Any part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted in any form or by any means without permission provided that the source is fully credited.

Edizioni Ca’ Foscari - Digital PublishingUniversità Ca’ Foscari Venezia, Dorsoduro 3246 | 30123 Veneziahttp://edizionicafoscari.unive.it | [email protected]

1a edizione dicembre 2017ISBN 978-88-6969-197-3 [ebook]ISBN 978-88-6969-198-0 [print]

44

URL http://edizionicafoscari.unive.it/it/edizioni/libri/978-88-6969-198-0/DOI 10.14277/978-88-6969-197-3/SAC-1

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Gli artisti di Ca’ PesaroL’Esposizione d’arte del 1913a cura di Nico Stringa e Stefania Portinari

Sommario

INTRODUZIONI

PremessaNico Stringa 9

Il Progetto di Ateneo jr 2014 Venezia ’900: gli artisti di Ca’ Pesaro dal 1908 al 1925L’Esposizione d’arte del 1913Stefania Portinari 11

1 CA’ PESARO 1913

Bevilacqua La Masa 1913Cronaca di una mostra dagli archivi di Ca’ PesaroLaura Poletto 19

«Colla speranza di combattere insieme a Ca’ Pesaro più aspre battaglie»Gino Rossi alla collettiva della Bevilacqua La Masa del 1913Pierpaolo Luderin 39

Tullio Garbari alla mostra di Ca’ Pesaro del 1913«Un altro principio, più selvaggio e più solo»Stefania Portinari 69

Adolfo Callegari, pittore e archeologoVirginia Baradel 93

Un capesarino trevigiano. Aldo VoltolinEugenio Manzato 115

La pittura di paesaggio tra scuola del vero e moda simbolistaElisa Prete 125

L’anno 1913 in Accademia. Alcune annotazioniSileno Salvagnini 145

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2 MOSTRE DEL 1913

Bice Levi Minzi (Bice Rossi Minzi) e l’Esposizione Internazionale Femminile di Torino del 1913Vittorio Pajusco 159

1913. La I Esposizione d’Arte VenetaCristina Beltrami 185

Udine, novembre 1913: alla prima Esposizione degli artisti friulaniIsabella Reale 201

IN MEMORIAM

Guido Perocco (1916-1997)Matteo Piccolo 213

APPENDICI

Catalogo dell’Esposizione d’Arte raccolta nel Palazzo Pesaro a Venezia l’anno 1913 225

il contrarioUn giornale a fianco degli artisti di Ca’ Pesaro a Venezia nel 1913Nico Stringa, Viviana Pongan 319

Note su Pietro Pancrazi e Ubaldo Oppi: Di Ca’ Pesaro e d’altroVittorio Pajusco 335

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Figura 1. Articolo di Gino Damerini su La Gazzetta di Venezia, 18 maggio 1913

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Storie dell’arte contemporanea 1DOI 10.14277/6969-197-3/SAC-1-3ISBN [ebook] 978-88-6969-197-3 | ISBN [print] 978-88-6969-198-0© 2017 | cb Creative Commons Attribution 4.0 International Public License 69

Gli artisti di Ca’ PesaroL’Esposizione d’arte del 1913a cura di Nico Stringa e Stefania Portinari

Tullio Garbari alla mostra di Ca’ Pesaro del 1913«Un altro principio, più selvaggio e più solo»Stefania Portinari(Università Ca’ Foscari Venezia, Italia)

Abstract The painter Tullio Garbari, even before taking part into the collective exhibition held at the Venetian palace Ca’ Pesaro in 1913, had a foreshadowing: his works of art would appear transformed and he would look like “a new Garbari: or dying or unborn”. He meant that a stylistic metamorphosis was happening in his paintings, but also in his life. Relationships with the Florentine milieu, particu-larly with Ardengo Soffici, Giovanni Papini and Giuseppe Prezzolini, orbiting around the journal La Voce, actually brought about changes in the influences of the Vienna Secession he fostered in his early education in Trentino, in northern Italy, and in the Decadent fascination acquired at the Fine Art Academy in Venice. The artist, the writer Carlo Belli called “the Angel in civilian clothes”, was of course influenced by ‘capesarini’ artists such as Gino Rossi, Umberto Moggioli and Teodoro Wolf Ferrari, but maybe even more by his staying in Florence, where those new friends were rediscovering and celebrating Post Impressionists.

Keywords Tullio Garbari. Ca’ Pesaro. Venice. Nino Barbantini. Gino Rossi. Umberto Moggioli. Teo-doro Wolf Ferrari. Florence. Ardengo Soffici. Giovanni Papini. Oscar Ghiglia. Post Impressionism. Paul Gauguin. Paul Cézanne.

Il 22 maggio 1912 Tullio Garbari scrive da Pergine a Nino Barbantini che dalla mostra di Ca’ Pesaro del 1913 ne uscirà «un Garbari nuovo: o mo-ribondo o nascituro» (Perocco 1972, 235). E davvero in quell’occasione si rivela una metamorfosi nella sua pittura, compiuta attraverso una resa dei contorni semplici e sinuosi ma anche in forme congestionate e fisse.

Per localizzare la sua dedizione a un immaginario naïf, tracciato con un sintetismo incantato, molta parte della letteratura critica richiama co-stantemente la sua predilezione per gli ex voto, in particolare quelli che si troverebbero al Santuario di Pinè, una località nei pressi della sua cit-tadina, dove ne è conservata una ampia e venerata quantità. Se questo può semmai avere una particolare valenza nel primo dopoguerra, quando l’artista, trasferitosi a Trento nel 1924, si riaccosta alla pittura dopo un periodo di immobilità e fonda con Carlo Belli una scuola d’arte collegata proprio a quel luogo di culto e ai manufatti ‘d’arte popolare’ là conservati (Belli 1984, 34-5), altre possono essere le attrazioni e i richiami che lo portano a prediligere una linearità di resa e atmosfere sospese.

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Sebbene Carlo Carrà riporti ad esempio che Garbari sostenesse di aver saputo del Doganiere Rousseau solo nel 1916, grazie ad Ardengo Soffici egli lo conosceva invece almeno dal 1910 (Pontiggia 2007, 118); Silvio Branzi indica invece in Gino Rossi il tramite da cui gli sarebbe giunta sia l’influenza di un simbolismo derivato da Millet e da Segantini che la suggestione degli stilemi di Van Gogh e Gauguin,1 secondo una lettura ri-presa anche da Renato Barilli – in un intervento beffardamente intitolato Sei morto o sei revival? – che ricorda come al momento di quel debutto capesarino ci si trovasse già in un’area di revenants, in «anni di ritorni», in quello che chiama un «espressionismo nostrano» di cui pone a capo proprio Rossi in quanto portatore, a vent’anni di distanza, delle «sagome schiacciate», dei «contorni rozzi e barbarici» e delle tinte vivaci di Gauguin e degli artisti di Pont Aven.2 Per intendere allora qualche altra possibile traiettoria, occorre ricominciare daccapo.

Un connotato fondamentale della pittura di Garbari, scrive Dino Buz-zati (un altro innamorato di ex voto), «è un’aria di montagna» – tanto da valutare che i suoi dipinti più intensi e commoventi siano «quelli piccoli e piccolissimi che in pochi centimetri quadrati raccontano tante piccole saghe valligiane»3 – e dunque tout court il tema del paesaggio, che occupa quasi in monopolio le prime opere e rimarrà sempre importante per lui, anche più tardi, in epoca di ossessioni religiose, sullo sfondo ad esempio del San Sebastiano (1927-28) e del Sant’Antonio (1930).

Branzi rimarca come i suoi esordi siano contaminati da cenni divisionisti, con suggestioni accolte «dai pittori della sua terra», come Giovanni Segan-tini, Eugenio Prati o Bartolomeo Bezzi e che il contatto con i capesarini è determinante per condurlo altrove. Cercando di attenuare l’apporto del suo misticismo, precisa come sia un equivoco considerarlo «più nella veste del credente che in quella del pittore», poiché le opere che più volgono a un anelito spirituale sono in realtà quelle che giungono dopo il 1926, quando l’artista, guarito dalla malaria contratta sotto le armi che lo aveva condotto all’inattività e alle letture religiose, torna a dipingere: è in quel frangente che a suo avviso si acuirebbero anche le influenze delle sugge-stioni arcaiche e dei primitivi italiani.

Lo stesso Garbari riconosce la sua ammirazione per Segantini – sul quale già aveva scritto ne L’Alto Adige del 23 dicembre 1908 – additandolo co-me un modello capace di «visioni chiare, limpide, sintetiche» e lodandolo in quanto «trasformatore meraviglioso d’ogni umile cosa», ma capace di essere anche scrittore e pensatore, in un ulteriore articolo dedicato a Me-dardo Rosso e Segantini che esce sul primo numero de La Voce Trentina del

����UDQ]L��6LOYLR%ݱ1�����m7XOOLR�*DUEDUL}��Il Gazzettino, 30 agosto.

����DULOOL��5HQDWR%ݱ2�����m6HL�PRUWR�R�VHL�UHYLYDO"}��L’Espresso, 24 febbraio, 163-4.

����X]]DWL��'LQR%ݱ3�����m7XOOLR�*DUEDUL}��Il Corriere della Sera, 9 ottobre.

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1911, un giornale che lui stesso aveva fondato assieme a Alfredo Degasperi con l’intenzione di emulare La Voce, la rivista creata a Firenze nel 1908 da Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini.4 La sua devozione a Segantini è anzi tale che nel 1921 gli verrà proposto di scrivere una biografia dell’ar-tista, che poi non ha esito. Così pure il pittore confermerà il suo interesse per Prati, annotando sull’edizione della sezione di Trento del giornale La Libertà del 28 agosto 1925 quanto questi gli paia un «disegnatore acuto», capace di cogliere il «quadro paesano» di pastorelle e paesaggi in uno spi-rito non «grossolanamente arcadico», quanto piuttosto «umano e religioso, domestico e gentile»5 e di questa sua attenzione se ne legge l’ascendenza nella posa e nel patetismo che da un dipinto come Poesia della Montagna o Pastorella che prega (1903) si trasfondono al suo Bambina che gioca con la bambola (1908, Accademia degli Agiati di Rovereto, Rovereto).

Non trascurabili e semmai maggiori sono però le consonanze legate a suggestioni secessioniste che gli si sono inoculate fin dalla frequenza del-la Scuola Reale Elisabettiana di Rovereto, orientata alle arti decorative, dove può avvicinare riviste come Jugend, Simplicissimus, Die Ghaphishen Künste, che influenzano le sue realizzazioni quali certi manifesti e carto-line, come risulta già nel bozzetto a china per una cartolina dedicata al paesetto di Serso Viarago, una frazione di Pergine Valsugana, raffigurante una madre che regge un lume e un figlioletto proteso verso un albero, che aveva approntato per partecipare a un concorso della Lega Nazionale (un’associazione creata nel 1891 per ‘la difesa dell’italianità’) in occasio-ne delle celebrazioni natalizie del 1908, che non viene però poi prescelta per essere stampata. L’operetta, creata a sedici anni quando già, a partire proprio dal novembre del 1908, frequenta l’Accademia di Belle Arti di Venezia – a cui rinuncerà però nel 1910 –, apre a lavori in cui il grafismo secessionista si applica a una serie di vedute della laguna venate di de-cadentismo, intitolate Isole di sogno e compiute tra 1908 e 1909, quali la china su carta Paesaggio veneziano (1908) o i due disegni La Punta della Motta e Polifonia, che sono tra i tre pubblicati su Vita Trentina nel 1909 sotto lo pseudonimo di ‘Ars’, così come negli insistiti ghirigori che venano ad esempio il dipinto Piazza rustica (1909, Fondazione di Venezia, Venezia).

Un’influenza postimpressionista aleggia invece sul paesaggio già più sintetico che si staglia nel disegno con il progetto di una Villa suburbana in riva al fiume (1912) che però, come i Prospetti di edifici con torretta e il Prospetto per la canonica di Pergine del 1913-14, mostrano interessi architettonici affiliati a un gusto neorinascimentale o neogotico. Da un lato il suo carattere impetuoso, e dedito anche a inclinazioni reazionarie, tende

4 Garbari, Tullio (1908). «Giovanni Segantini». L’Alto Adige, 23 dicembre; (1911). «Rosso e Segantini». La Voce Trentina, 1. Articoli ora anche in Villari Cataldi 1971.

5 Garbari, Tullio (1925). «L’eredità di Eugenio Prati». La Libertà, 28 agosto.

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ad amare una certa visione nostalgica delle cose, come rivela in un suo articolo del 23 dicembre 1908 su L’Alto Adige, intitolato «Delendae Vene-tiae?» ispirato al titolo di un noto articolo di Pompeo Gherardo Molmenti apparso nel 1887 su Nuova Antologia, in cui esprime preoccupazione per la città modificata dal progresso e che sente mortificata dagli affarismi nel lasciare che si scambino le «leggere abitazioni archiacute» del passato con le moderne «muraglie enormi nude massicce». Esprime così il suo odio per i palazzi nuovi dalle pareti lisce e la sua contrarietà per la ricostruzione del campanile di piazza San Marco, che parrà falso, dichiarando invece il suo amore per «i muriccioli scrostati dall’acredine marinara».

Già polemico e anche contraddittorio, è ostile però pure all’operato di Augusto Sezanne che, proveniente dall’ambito dell’Aemilia Ars di Bologna, allora docente di decorazione all’Accademia di Belle Arti di Venezia, nel 1910 ha anche l’incarico di creare il manifesto della Biennale. Garbari in un articolo su La Voce Trentina del 1911 lo giudica uno «spirito arretrato» banale e mediocre, accusandolo di aver esposto di recente alla Biennale opere «di cui non vale la pena occuparsi», ma soprattutto lo detesta in real-tà per un suo intervento architettonico nei luoghi familiari da lui prediletti, sia nella ricostruzione della Cassa di Risparmio di Rovereto che nell’in-tervento per la facciata del municipio, i cui risultati gli dispiacciono così tanto da giudicarli una «parodia» degli stili del passato a causa dell’impie-go di un pallido eclettismo che assomma Art Nouveau a Secessionismo e motivi decorativi banali, a forma di festoni. Teme anche il suo intervento sulla Casa d’Arte Trentina, preoccupato che apporti sugli esterni quella che lui ritiene essere un’impropria pittura decorativa, mentre pensa che si dovrebbero amare solo le case bianche, semplici, «logiche» e regolari, che rispondano alle vere esigenze del vivere.6

Il manifesto che Garbari realizza però per la Mostra d’estate in palazzo Pesaro a Venezia nel 1910 è tutto secessionista: stampato in litografia, con un disegno rosso su fondo bianco, staglia al centro un vascello con una polena sul pennone e la sagoma dello skyline di Venezia sullo sfondo. E vi compaiono pure raffigurazioni di ghirlande, a simboleggiare la celebrazio-ne di successi artistici, e serti di rose sulla bordura che contrassegna le scritte, come fosse un Bucintoro dell’arte nuova che muove alla conquista di Venezia – quale lo interpreta Elena Pontiggia (2007, 115): dunque ispi-rato alla grafica viennese proprio tramite la citazione degli elementi delle corone di alloro, dei fiori carnosi e dei giochi di arabeschi che comparivano in abbondanza nelle riviste d’oltralpe.

Questo artista dal carattere difficile sta cercando una dimensione in cui ritrovarsi: il cambiamento di paesaggio e di milieu è stimolante, ma al tempo stesso lo delude e lo ferisce, come dimostra il recente abbandono

����DUEDUL��7XOOLR*ݱ6�����m,O�FDVR�6H]DQQH�H�OD�&DVD�GHOOއ$UWH�7UHQWLQD}��La Voce Trentina, 3.

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degli studi. La sua ambizione e le sue inclinazioni hanno la necessità di trovare altrove altri maestri o personalità affini a cui far riferimento. Il suo posizionamento a Venezia dunque non è facile e a Ca’ Pesaro trova delle sintonie, ha subito un’intesa particolare con Nino Barbantini e con alcuni di quei giovani artisti, che percepisce come una fronda interessante.

Se pure egli rimane impresso a Felice Casorati, pare invece che a Garba-ri sia questi che Arturo Martini in un primo tempo paiano persone «sgrade-voli», sebbene sia assolutamente affascinato dalla loro arte (Perocco 1972, 63). Edoardo Persico, che nel 1931 presenterà la sua mostra alla Galleria al Milione di Milano, in un articolo commemorativo scritto in occasione della morte del pittore, lo connota in effetti come un montanaro sceso in città che prova un profondo senso di delusione verso i cittadini, come un «provinciale timido e duro» ma buono.7 Carlo Carrà su L’Ambrosiano di Milano del 1 febbraio 1936 scrive che l’ha conosciuto proprio alla mostra veneziana del 1910, annotando come quei suoi lavori lo interessarono «moltissimo» e che diventarono amici di un’amicizia che durò fino alla fine, avendo modo così di seguirlo in quei suoi ulteriori cambiamenti sti-listici avvenuti a partire dal 1915, che interpreta come un’influenza del Doganiere Rousseau che avrebbe poi compimento definitivo nei quadri del 1916 – come Intellettuali al caffè – e del 1917, esposti assieme ai suoi nella galleria Chini di Milano. Un altro suo grande sodale, Carlo Belli, lo defini-sce un apostolo, però arrabbiato, che si presenta «scarno e duro come un guerriero da affresco», e che gli fu per un primo lungo tempo «antipatico»: questo suo «Angelo in borghese» – come intitola il noto libretto a lui dedi-cato – gli pare abbia pagato la sua inflessibilità con una sorta di congiura del silenzio caduta attorno al suo nome dopo la morte, e risulta dunque meno conosciuto rispetto a quanto meriterebbe, al punto da essere per molti, in quegli anni Trenta, un «ignoto contemporaneo» (Belli 1937, 10).

La matrice di un primo mutamento significativo nella pittura di Garbari, che si mostra proprio all’esposizione di Ca’ Pesaro del 1913, è letto da Silvio Branzi come influsso di certi dipinti di Gino Rossi, tra cui La piccola parrocchia (Pagnano) (1910-12) o Primavera in Bretagna (1909-12), che l’artista avrebbe visti a Venezia e che attorno al 1912 avrebbero indotto dei ritmi arabescati, decorativi e cloisonné nella sua pittura, producendo «un disegno agevole e largamente ondulato»8 come traccia-guida delle sue opere, di cui indica come risultato ad esempio Primavera trentina (1913), Paesaggio animato e Paesaggio del Perginese (1916).

C’è effettivamente un salto tra le sue opere in mostra alla collettiva del 1910 e a quella del 1913.

����3HUVLFR��(GRDUGRݱ7�����m7XOOLR�*DUEDUL}��L’Ambrosiano, 20 ottobre; ora anche in Villari Cataldi 1971, 21.

����UDQ]L��6LOYLR%ݱ8�����m7XOOLR�*DUEDUL}��Il Gazzettino, 30 agosto.

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Figura 2. Ardengo Soffici, Scena di vendemmia. 1907. Olio su carta riportato su tela, 50 × 35 cm. Vicenza, Collezione Banca Popolare di Vicenza

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La Mostra d’estate in Palazzo Pesaro a Venezia, che si tiene dal 17 luglio al 20 ottobre del 1910, è un’edizione importante, che ha gran risonanza, in ragione delle polemiche e degli avvenimenti: contiene l’esposizione perso-nale di Umberto Boccioni, presentata in catalogo da Marinetti (cf. Bianchi 2010) e sono presenti nomi come Arturo Martini, Guido Cadorin, Guido Marussig, Alessandro Pomi, Luigi Scopinich, Oreste Licudis, Brenno del Giudice. Garbari è presente per la prima volta ma ha una folta sequenza di opere: ben tredici oli, cinque acquerelli e una ventina di disegni, tanto che la sua sezione è una delle più consistenti, oltre a quelle di Boccioni, Teodoro Wolf Ferrari e Mario Cavaglieri.

I titoli delle sue creazioni suonano di Decadentismo e Simbolismo, da Cimitero alpino a Isola misteriosa, da Sfinge plenilunare a L’anima di Ofe-lia, attraversano fugacemente paesaggi malinconici in Impressione di una fondamenta, Un tramonto d’autunno: impressione o Fantasmi autunnali; svelano ascendenze secessioniste e comprendono una piccola serie di di-segni ideati come illustrazioni in omaggio al libro Così parlò Zarathustra (1885) di Nietzsche.9 Da un lato, in parte, sono il prosieguo di alcune opere precedenti in cui un segno grafico quasi elettrico percorre una costruzione prospettica ancora solida, con figurette che marcano le dimensioni spa-ziali della tela, come Piazza rustica (1909), o del simbolismo dichiarato di disegni come Romanticismo (1909) o del segantiniano Danza plenilunare (1909), dall’altro sono delle prime prove di qualcosa di differente, in cui le pennellate si fanno larghe, dense, e lo spazio si svuota come in Anime sorelle: frammento polifonico (1910). E proprio quest’ultimo, composto da due alberi che si stagliano in lontananza sul farsi di un sentierino, ai piedi di una montagna, e che paiono più pioppi che cipressi, è oramai lontano dal precedente senso di naturalismo e dalla leggerezza di segno, composto piuttosto di un magma di colore chiazzato e più pastoso, al modo in cui vive di malinconica solitudine Salice piangente (1910, MART, Rovereto) dello stesso anno, vicino a dipinti meditativi di Guido Marussig come Laghetto dei salici (1909, Museo Revoltella, Trieste). Garbari in una sua poesia canta

9 Cf. Mostra d’estate in Palazzo Pesaro 1910; Garbari espone in mostra più di 36 opere: le pitture a olio Anime sorelle: frammento polifonico, Bosco: impressione, Impressione di una fon-damenta, Un tramonto d’autunno: impressione, Pace: impressione, L’intrusa, Ricordo trentino, Parco Vendramin: impressione, Fantasmi autunnali, Connubio d’anime, Amore di terra lontana, Agonie: impressione, Torrente Fersina; gli acquerelli Giardini Clary a Venezia, Cimitero alpino, Isola misteriosa, Castel Pergine, Frammento; i disegni Piazza rustica (disegno acquerellato), Danza plenilunare (disegno tricromo), Sfinge plenilunare (disegno tricromo), Il tumulo del poeta (monocromo verniciato), Filosofo (disegno tricromo), Romanticismo (disegno tricromo), il trittico L’anima di Ofelia (disegno a penna), La tomba del distruttore e Nirwana (disegni a penna intesi come «illustrazioni per il libro Così parlò Zarathustra di Nietzsche»), Remis velisque (disegno a penna), Ipnosi (disegno a penna), L’edera, Sentinelle di Trento (monocromo azzurro), Leitmotif della notte (disegno a penna), Visione, Sigla, altri disegni a penna con ex libris e sigle, «macchiette» e altri disegni a penna. Sugli esordi di Garbari cf. anche Boschiero 2012. Sulle mostre di Ca’ Pesaro cf. anche Alessandri, Romanelli, Scotton 1987; Barbero 1999.

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di queste presenze silenziose, scrivendo come «Lungo i greti | S’innalza-no | le piccole albere assommate | Le pioppe | anime selvatiche | come una giovinezza | vergine»; e in un’altra le visualizza proprio allo stesso modo del dipinto, in cui «Accennano due pioppe sorelle | dai prati oscuri, il greto biancheggia» (Tullio Garbari 1971, 120).

Il quotidiano L’Adriatico ne scrive come di un «giovane promettentissi-mo», le cui opere hanno «gusto letterario» ma «dotato di grande fantasia e di una infinita finezza»; e la Gazzetta di Venezia lo tratteggia in quanto «mite anima elegiaca», fine disegnatore dal tocco grazioso e elegante, capace di trasmettere un sottile sentimento, anche se di intonazione ma-linconica, segnalando quanto il trittico sulla Pazzia di Ofelia sia liricamente suggestivo (Perocco 1972, 231). Pare insomma un talento che testimonia la sua necessità di aggiornamento e la ripresa di tematiche impressioniste e postimpressioniste, così come una consonanza di ricerche con alcuni altri capesarini: già lo manifesta la presenza di sei opere che accompagnano il titolo con definizione di ‘impressione’ (Bosco: impressione, Impressione di una fondamenta, Un tramonto d’autunno: impressione, Pace: impressione, Parco Vendramin: impressione, Agonie: impressione).

Se i temi simbolisti sono adottati anche da Vittorio Zecchin nelle due collettive (d’estate e d’autunno) del 1909 e in quella di primavera del 1910 e il clima secessionista permea pure i cataloghi delle due mostre del 1910 curati graficamente da Omero Soppelsa, sono altre le prossimità che emergono per lui: in primis una certa consonanza con Umberto Moggioli, che alla collettiva d’estate del 1909 aveva presentato una personale con una quarantina di paesaggi in qualità di ‘impressioni dal vero’ e di cui di-viene particolarmente amico (cf. Perocco, Scotton 1982); poi per i rimandi proprio al soggetto del salice – sia per il suo dipinto Salice piangente che per il disegno a penna Giardino (Venezia, collezione Guarnieri) entrambi del 1910 – a Guido Marussig, che a quella stessa mostra del 1910 porta una Notte veneziana, ma che aveva avuto una personale importante alla prima esposizione d’estate del 1908, aveva inoltre due dipinti in quella autunnale (tra cui Salice piangente, che era già stato mostrato nella Sala del Sogno alla Biennale del 1907) e aveva poi presentato tre disegni con vedute alla collettiva d’autunno del 1909.

Un altro riferimento significativo è Teodoro Wolf Ferrari, che in quella stessa occasione allestisce la sua prima grande mostra a Venezia dopo il soggiorno monacense e decora anche gli ambienti dell’ammezzato di Ca’ Pesaro, presentando opere che evocano nei titoli suggestioni di riflessi, in-terni di boschi, bufere e arie torbide, nuvole, tramonti e nostalgie, oltre che vedute veneziane. L’artista, che esporrà nuovamente nel 1911, realizzando anche il manifesto della collettiva, nel 1912 sarà sia alla Biennale che alla collettiva dell’Opera Bevilacqua La Masa, dove si rivelerà particolarmente d’effetto il suo tentativo di creare un movimento di rinnovamento delle arti decorative tramite il gruppo dell’Aratro.

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Indice di queste ‘consanguineità’ di rapporti, percepiti con intensità e risonanza, è una lettera inviata da Garbari a Barbantini il 10 settembre del 1910, inerente a un possibile ma probabilmente frainteso pagamento per la realizzazione del manifesto, in cui l’artista chiede di far recapitare i suoi saluti per primo proprio a Wolf Ferrari, seguito da Licudis e Boccioni.10 Lo stesso Boccioni, che ha aderito nel febbraio del 1910 al Manifesto dei pittori futuristi ma alla mostra di Ca’ Pesaro – che si pone anche per lui come una sorta di spartiacque – ha presentato ancora opere prefuturiste, è comunque impressionato dalla personalità di Garbari, che pure ha dieci anni meno di lui, e in una lettera di quell’anno a Barbantini incoraggia i reciproci rapporti, incalzando un «Dica a Garbari che mi scriva» (Perocco 1972, 231).

Il 1910 è un anno elettrizzante: a Venezia si tiene anche la Biennale, dove oltre alla mostra individuale del secessionista monacense Ludwig Dill con opere come Prima neve o Pianure con brughiera e salici, suscita controversie e attenzioni Gustav Klimt, che sarà così importante, tra gli altri, anche per Guido Cadorin, Zecchin e Casorati. Leggendo proprio quanto ne scrive Barbantini su La Perseveranza del 24 maggio 1910, laddove rimarca alcuni valori da lui ritenuti importanti tout court, come l’essere la sua «un’arte che appartiene ai giovani», il suo mostrarsi co-me «un artista sentimentale, un pittore di anime», prima ancora che un «decoratore», la necessità che il paesaggio «moderno» debba esprimere «l’anima umana in faccia alla natura»,11 si può provare a intuire, per tra-slato, quali fossero i motivi di una sua predilezione anche solidale, anche umana, per Garbari.

Oltre a un avvicinamento a Gino Rossi – i cui lavori Garbari aveva già potuto vedere alle collettive dell’Opera Bevilacqua La Masa fin dal 1908, essendo iscritto da quell’anno all’Accademia – che in quel 1910 già è volto a una restituzione pittorica sintetica, con stesure piatte di colore smaltato circoscritte da marcati profili di contorno come ne Il muto (1910) (cf. Scot-ton 1999, 35), si possono captare anche suggestioni provenienti da altrove. Il pittore infatti dopo aver partecipato nel 1911 all’Esposizione Internazio-nale di Belle Arti di Roma, tenutasi per i cinquant’anni dell’unità d’Italia, dove espone l’opera Il sogno dei monti, nel 1912 soggiorna per un po’ di tempo a Firenze, dove stringe contatti con gli artisti e gli intellettuali che

10 Venezia, Ca’ Pesaro – Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Venezia, Archivio Fon-dazione Bevilacqua La Masa (AFBLM), Lettera di Garbari a Barbantini, Pergine 10 settembre 1910: «Egregio Barbantini,/ torno dalla mia solitudine alpestre e trovo la sua lettera di quat-tro settimane fa (dunque vede c’era proprio solitudine)! Si, si io non discuto circa il cartello. Avrò inteso male. Piuttosto la prego di notificarmi quando l’Esposizione si chiuderà perché verrò a ritirare la mia roba e resterò qualche giorno a Venezia./ La prego di salutarmi Wolf Ferrari, Licudis, se lo vede, Boccioni e quei colleghi ch’Ella crede./ Vendite? Neanche una, m’immagino! È il migliore dei successi», ora in Perocco 1972, 240.

11 Sulla presenza e l’effetto di Klimt, cf. anche Romanelli 2011; Venezia e la Biennale 1995.

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gravitano attorno a La Voce e proprio questa rivista diviene il marcatore che consente di mappare i suoi spostamenti in quel novero di mesi che pre-cedono la collettiva veneziana del 1913. A questa pubblicazione, fondata nel 1908 da Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, a cui è abbonato dal luglio del 1911, gli viene infatti consegnata dal febbraio del 1912 proprio a un indirizzo di Firenze, poi da maggio a dicembre di quell’anno a Trento (a due indirizzi diversi, quando si sposta in villeggiatura in una località sopra Pergine) e dalla fine del 1912, quando risulta nuovamente a Firenze, ne ritira a mano le copie (Mascherpa 1984, 184).

Non solo egli prova una sintonia intellettuale con Prezzolini, Soffici e Salvatore Minocchi, ma giunge anche al punto di ispirarsi per le sue prime liriche, composte proprio in quell’epoca, alla ‘tecnica vociana’ del frammento: proprio allora scrive quella che è possibile considerare forse come la sua prima poesia ‘compiuta’, composta in occasione della morte del padre avvenuta il 31 luglio del 1912, quando una crisi esistenziale gli fa presagire che con quella scomparsa termina anche una fase della sua vita e che si trova all’imbocco «selvaggio» di una solitudine spirituale, domandandosi: «E non era un altro principio | Più selvaggio e più solo?» (Carmeni 1980, 19).

Dopo che nell’ottobre del 1912 tiene la sua prima personale a Trento, nella Sala della Filarmonica, a fine anno è dunque nuovamente a Firenze, dove nel gennaio del 1913 lo raggiunge una lettera di Nino Barbantini in-dirizzata a suo nome presso la sede della Voce, che ha significativamente indicato come recapito. È lì dunque, in quel momento, il suo campo-base e non più Venezia.

Un indizio importante di quanto siano state rilevanti per lui quella lon-tananza e quella città sta già in una missiva precedente, con cui aveva rifiutato di esporre alla collettiva di Ca’ Pesaro del 1912. Garbari infatti aveva scritto a Barbantini da Pergine il 22 maggio 1912 ringraziandolo «per l’invito», e che si ricordava certamente della mostra, ma che «subito, no», gli era «impossibile moralmente – materialmente» partecipare. Se l’esposizione in quell’anno avesse previsto, come in precedenti occasioni, un’edizione autunnale, magari allora avrebbe potuto considerare di espor-re «molte opere», avendo a disposizione in realtà quadri grandi e piccoli oltre che disegni, al punto da poter riempire due o tre sale, ma quello non era il momento. Insiste soprattutto nel sottolineare che è certo che «sareb-be una cosa nuova. Discussa», perché anche se i suoi amici fiorentini del gruppo della Voce – che elenca proprio facendo i nomi di Prezzolini, Soffici, Ghiglia e Bernasconi – conoscono il suo operato, «le cose ultimissime non le ha viste nessuno». E promette:

Potrebbe essere una mostra diversa dalle solite: non mostra come mo-stra ma per potersi metter in comunicazione con tutti quelli che hanno buona volontà di capire. Cose naturalmente che son diverse da quasi

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Figura 3. Tullio Garbari, Vendemmia. 1917. Trento, collezione privata

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tutto quello che ho fatto fino a qualche tempo fa. Un Garbari nuovo: o moribondo o nascituro.12

Annota anche che non essendo in stato d’animo da prendere decisioni, non ne prende e si nega a quell’esposizione a cui era stato invitato adducendo come ragione che non è pronto: dunque è cambiato, ma è ancora immerso in quel processo.

La necessità di una comunione quasi evangelica di intenti poetici e pit-torici, di avere vicino «quelli che hanno buona volontà di capire», lo porta a cercare lì dei suoi simili. Quei personaggi che ha citato sono talmente importanti per lui che si inserisce nelle loro ossessioni e nei loro amori. È nella città della tradizione, ma dove si respira anche quel nuovo che alcuni hanno portato dall’estero o sotto forma di idee e passioni o come vere e proprie opere d’arte. A Firenze risiede ad esempio Bernard Beren-son, Arnold Böcklin aveva abitato a Fiesole dalla metà degli anni Novanta dell’Ottocento come, tra 1893 e 1894, il nabis Maurice Denis; la località di Bellosguardo era stata luogo di villeggiatura per Adolf von Hildebrandt e Max Klinger, sulle colline di Monturghi ha preso casa Henri des Pruraux, un aristocratico che si diletta di critica e di pittura ed è collezionista di Gauguin, per cui Oscar Ghiglia ancora nel 1908 ha compiuto un ritratto della moglie.

Le consonanze artistiche più sentite – di cui si intravedono anche conse-guenze sulla sua pittura – Garbari le ha soprattutto con il pittore livornese Oscar Ghiglia: postmacchiaiolo, autodidatta, che dal 1900 è a Firenze dove frequenta l’ambiente artistico vicino a Modigliani e che espone alla Bienna-le di Venezia del 1901 e nella sala toscana di quella del 1905 (un’edizione a cui sono posti in mostra pure i Nabis, in particolare Félix Vallotton), le

12 AFBLM, Lettera di Garbari a Barbantini, Pergine 22 maggio 1912: «Egregio Barbanti-ni,/ grazie per l’invito e per le Vostre parole. Si, mi ricordo della Mostra di Palazzo Pesaro e mi ricorderò se dovessi esporre. Ma… C’è sempre quella bestia di buon senso che fa dire = ma…/ Subito, no. Impossibile moralmente – materialmente. Più tardi, volentieri. Si ria-prirà in autunno? Potrei – in quel caso – esporre molte opere. Quadri grandi e piccoli ne ho diversi, disegni etc./ Insomma si potrebbe metter insieme una mostra (anche non volendo espor tutte le cose) di due o tre sale. Sarebbe una cosa nuova. Discussa. Le mie ultime cose vanno anche al gruppo della «Voce»: Prezzolini, Soffici etc. ed anche ad altri, a Ghiglia, a Bernasconi. Anzi so che verrà a Venezia: salutatemelo tanto. Però le cose ultimissime non le ha viste nessuno. Potrebbe essere una mostra diversa dalle solite: non mostra come mostra ma per potersi metter in comunicazione con tutti quelli che hanno buona volontà di capire. Cose naturalmente che son diverse da quasi tutto quello che ho fatto fino a qualche tempo fa. Un Garbari nuovo: o moribondo o nascituro. Ma, come ripeto, per ora, difficilmente. Sono in tali stati d’animo che mi rendono impossibile qualsiasi decisione: l’unica [è] di non pigliarne. Ma qui non faccio una parentesi: diventerebbe troppo lunga e lo so per esperienza; ora poi che, dopo qualche tempo, ritorno al mio antico temperamento ribelle alle lettere e a quelle lunghe, in special modo. E poi anche materialmente… Ma lasciamo le malinconie./ Mi scriva qualche volta. Se mi manderà qualche giornale con l’esito della mostra mi farà piacere./ Suo Tullio Garbari», ora in Perocco 1972, 241.

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cui opere sono pubblicate sulla precedente rivista di Prezzolini e Papini, il Leonardo, edita tra 1903 e 1907, che dimostra una particolare attenzione per il misticismo, un altro dei grandi tormenti di Garbari. Egli trova poi un vitale aggiornamento visivo grazie ad artisti che sono stati a Parigi, come Soffici che, dal ritorno a Firenze nel 1907, divulga la sua predilezio-ne per Paul Cézanne e Maurice Denis, dà conto del Doganiere Rousseau. Sul numero di giugno del 1908 della rivista Vita d’arte quegli scrive per la prima volta di Cézanne, in quello stesso anno in cui Vittorio Pica ha già edito il volume sugli Impressionisti francesi, esaltando «l’unità spirituale» che regna sulle sue composizioni di «uomini, animali, alberi e cieli», che non risultano elementi isolati ma riuniti «in una armonia di linee e di to-ni», senza bisogno di ornare la pittura «di fronzoli o di addobbi», ma anzi seguendo uno «spirito popolano e religioso» cercando «di denudarla, di impoverirla, di renderla ruvida e selvatica» da vero «primitivo», secondo concetti che di certo Garbari sentiva con grande risonanza.13

Questi fermenti avevano portano alla Prima mostra italiana dell’impres-sionismo organizzata da Soffici e Prezzolini tra il 15 aprile e il 15 maggio del 1910 al Lyceum club femminile di Firenze, con opere di Cézanne, Degas, Forain, Gauguin, Matisse, Monet, Pissarro, Renoire, Toulouse-Lau-trec, Van Gogh e sculture di Medardo Rosso che – sebbene alla Biennale di Venezia fossero già stati mostrati nel 1903 Monet, Renoir e Sisley – era risultata un momento molto importante per quei sodali che gravitavano attorno a quegli stessi interessi culturali, malgrado la collocazione in una sede un poco sfortunata, la mancanza di attenzione da parte della critica e nessun acquisto se non di sei sculture di Medardo Rosso da parte del collezionista Gustavo Sforni (cf. Prima mostra italiana dell’Impressioni-smo 1910; Bardazzi 2007; Rodriguez 1994, 212), che in occasione di un viaggio a Parigi in quello stesso anno acquista anche Le paysan (1889) di Van Gogh.

Attorno a questa vicenda ci sono inoltre alcune sintonie che riverbera-no in modo particolare: Soffici, partito per Parigi proprio per organizzare la mostra degli impressionisti e di Medardo Rosso – la cui idea era sorta qualche anno prima e per la quale contava sull’appoggio di Denis, che aveva incontrato a Fiesole nell’ottobre del 1907, – secondo quanto scrive Prezzolini il 17 febbraio 1910 al mecenate che finanzia La Voce – aveva appena scritto un testo intitolato «Primavera», cogliendo delle suggestioni che già aveva riversato in una lettera a Papini nella primavera del 1909, in cui aveva raccontato una passeggiata sui colli toscani durante la quale aveva provato una grande emozione nel vedere «uscir di sotto una zolla tutto terroso» un «fiorellino violetto» a cui non ha saputo dare nome, «sco-nosciuto», ma «che sa di primavera» e che fa sì che egli torni a casa «zeppo

13 Soffici, Ardengo (1908). «Corrispondenze estere. Francia». Vita d’arte, 1(1), 55.

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Figura 5. Tullio Garbari, Primavera trentina o Invocazione. Foto da Esposizione di Palazzo Pesaro 1913

Figura 4. Tullio Garbari, Invocazione. Foto da Esposizione di Palazzo Pesaro 1913

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di poesia» (Rodriguez 1994, 15, 74-5). Primavera, che viene effettivamente pubblicato poi su La Voce del 17 marzo 1910, trasfigura l’esperienza di una passeggiata a Poggio a Caiano, in un momento in cui tutto è ancora madido di pioggia recente e il pittore intravede una margherita bianca, un tarassaco giallo, qualche viola mammola e le foglie del narciso selvatico, mentre tra il groviglio delle piante in crescita appaiono le colline «brulle, sassose, ferrigne», con le case che si arrampicano sui loro fianchi, con vicini cipressi e vigne ancora secche: solo in quel momento la sua anima è «pervasa di luce e di germinazione» e egli ha la perfetta sensazione che quella verità che fino a ieri cercava sui libri ora davvero la sente «concreta in questa serenità di primavera».

L’evocazione di questi temi non poteva non incontrare una profonda concordanza in Garbari, che tanto amava – per traslato – i suoi paesaggi montani, l’aria serena e lo stupore del riconoscersi in comunione con la natura. E Soffici risulta essergli anche indirettamente maître à penser tramite le posizioni che prende nei suoi scritti: nell’esaltare l’arte francese contemporanea, ad esempio, non intende suggerire una mera copia di sti-lemi. Come aveva scritto anche su La Voce del 6 maggio 1909 nell’articolo «L’impressionismo e la pittura italiana», con cui aveva definito la Bien-

Figura 6. Tullio Garbari, Manifesto della Esposizione d’Arte raccolta nel Palazzo Pesaro a Venezia l’anno 1913. Archivio Garbari (Pergine)

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nale una «fiera» piena di fracasso in cui arrivano in ritardo di vent’anni le correnti che l’Europa ha già giudicato ammuffite, come il Verismo e il Simbolismo, ma anche quel Decorativismo che imperversa sulle riviste tedesche e inglesi (su cui anche Garbari aveva ricevuto la sua formazione), non intende suggerire che la nostra arte si contamini seguendo alla cieca l’Impressionismo, ma che se ne possa cogliere un «ammaestramento» che porterebbe soprattutto i giovani a ricerche personali, che abbiano però un «carattere tutto nostro» (Rodriguez 1994, 1, 58, 144, 148-9). E comunque, criticando nuovamente L’Esposizione di Venezia nel numero del 28 ottobre, lamenta che sebbene sia persino stanco oramai di scrivere i nomi, tra gli altri, di Manet, Degas, Cézanne, Renoir, Gauguin, Van Gogh, Medardo Rosso, Toulouse Lautrec e Pissarro, tanto gli stanno cari, nel nostro Pae-se ancora non sono conosciuti, mentre «essi, ed essi soltanto, avrebbero potuto indicare i nuovi cammini dell’arte», mentre il segretario generale della Biennale, Antonio Fradeletto, si ostina invece a non invitarli.

Pur tra questi nomi amati, nei preparativi di quella mostra si delinea meglio quale sia veramente il gusto di Soffici: ancora nel 1909, sperando di ottenere in prestito delle opere, lui e Prezzolini contattano dei conoscenti, tra cui Henri des Pruraux e lo invitano a redigere un articolo proprio su Gauguin, che risulterà talmente ampio da dover essere pubblicato su La Voce in due occasioni, il 23 febbraio e il 2 marzo 1911, e sarà firmato con lo pseudonimo Outis, accompagnato dalle riproduzioni di L’offrande (1902), L’appel, Paysannes qui retunent le foin (1889) e Bonjour, Monsieur Gauguin (1889) con nuvole ‘a masse’ attraversate da alberelli secchi e contorti che paiono aver catturato anche l’interesse di Garbari. L’articolo inoltre viene spedito alla redazione da Venezia, dove des Pruraux soggiorna in quel momento a San Trovaso: un significativo indice di contatti tra le due città e di quali stimoli visivi potessero circolare tra gli interessati. Soffici e Prez-zolini inoltre contano sull’americano Charles Loeser, che risiede a Firenze e possiede dei Cézanne, ma in missione a Parigi nel marzo 1910 scrivono a Papini che Soffici insiste per prendere in prestito dal gallerista Paul Rosenberg soltanto un altro Gauguin – il paesaggio Vegetation tropical (1887) – non solo per i costi di assicurazione e spedizione, ma anche per arginare un’ampia presenza dell’artista, che giudica si sia perso «in ten-tativi pittorici anacronistici, interessanti a prima vista, ma stucchevoli a lungo andare e talvolta odiosi» (cf. Rodriguez 1994, 172-4; Richter 1999).

Come esempio di una pittura ricca di ‘dolcezza’, adatta a svecchiare i nostri artisti, addita piuttosto invece quella di Maurice Denis, come insi-ste su Vita d’arte del dicembre 1909, pubblicando un testo già composto nel 1908: è lui quello che più merita di essere reso noto in Italia, intriso di spirito cattolico, adatto a portare «sensazioni nuove», capace di «no-biltà di forme, di tenerezza, di sentimento» e di essere vicino anche a certi pittori toscani del passato. Evoca inoltre la visione di un suo dipinto esposto al Salon del Champ de Mars, che afferma di non poter mai più

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dimenticare: un paesaggio bretone alle prime ore del mattino, con una pendice rocciosa in primo piano, il cielo livido che va cambiando tinte «da arancione infuocato al verde azzurro tenero come di foglie appena nate», con un contadino che ara il campo con i buoi bianchi e un altro che semina fra le zolle, oltre a tre cipressi «avvolti di silenzio» e cespugli di ginestre. Un immaginario molto vicino a quello che poi comparirà nelle opere mostrate dal pittore trentino nel 1913 (e anche successivamente, in opere quali Vendemmia, 1917, fig. 3; Scena domestica, 1924; La Pigna, 1929), e che già apparteneva anche alla sua stessa pittura, come in Scena di vendemmia (1908; fig. 2)

Garbari, così come segue la nuova rivista Lacerba che Papini e Soffici fondano a Firenze il 1° gennaio 1913 e ne colleziona tutti i numeri fino all’ultimo del 1915, condivide anche altre passioni di Soffici: quella per il Doganiere Rousseau, su cui lo scrittore pubblica un intervento su La Voce del settembre 1910 per ribadire quanto lui adori «quella pittura che le persone intelligenti dicono stupida» e che invece è la «più ingenua, più candida» (Pontiggia 2007, 119); quella per Segantini, che è capace di incantare grazie alla sua voce di «pittore poeta»,14 una qualifica che Garbari vorrebbe altamente incarnare. E se nel 1909 esce il libro di Soffici su Medardo Rosso, anche per Garbari lo scultore è una ‘religione’ in cui credere: lo confessa nel suo articolo del 1911 su La Voce Trentina, prote-stando contro i critici

pronti ad andare in sollucchero per le baggianate esotiche d’un Franz von Stuck o per le scipitaggini d’un Lavery, tanto per le turpitudini e le insulsaggini d’un Zualonga o d’uno Zorn, quanto per le false tisicherie nostrane d’un Bistolfi e per le vuote e ampollose nudità d’un Trenta-coste, o ancora, per le nuove salse romantico-napoletane-cristiane del Morelli (meno male: parce sepulto); e per la fiacchezza d’un Ettore Tito e per le pseudo-fotografie (la fotografia se ne avvantaggia, e come!) di Luigi Nono, di Michetti15

mentre alla I Mostra Internazionale d’arte di Valle Giulia a Roma, dove vede otto sculture di Medardo Rosso su cui «regna la vera bellezza» non può che esclamare «come ci rinfranca, come ci conforta! Come una reli-gione nella quale crediamo», «come si sente il bisogno di esser soli con queste piccole sculture di Rosso!», che ricorda sia conosciuto in Italia solo per merito dell’«imposizione violenta e simpatica d’uno scrittore corag-gioso – di Ardengo Soffici».

14 Soffici, Ardengo (1910). «Scritti e lettere di Segantini». La Voce, settembre; cf. Rodri-guez 1994, 69.

15 Garbari, Tullio (1911). «Rosso e Segantini». La Voce Trentina, 1.

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Finché l’artista pensa ai preparativi della mostra di Ca’ Pesaro del 1913 è lì, immerso in quell’ambiente, e «quelle cose diverse da quasi tutto» quello che ha fatto fino a poco tempo prima nascono a stretto contatto con quella temperie, rimeditando ciò che ha assorbito in precedenza, in sinto-nia piena con quanto già avevano compiuto certi suoi colleghi capesarini, ma anche in modo molto particolare.

Un suo cartoncino da visita, spedito a Barbantini da Firenze il 16 genna-io 1913, che avvisa con una certa brusca sicumera che alla collettiva vene-ziana esporrà «probabilmente uno o due quadri di dimensioni abbastanza vaste oltre a diversi quadri più piccoli e qualche disegno», che disporrebbe «con molta… parsimonia», ovvero allestiti con molto spazio attorno, e perciò necessitanti di «almeno due o forse anche tre sale» e che gli occor-reranno dunque trenta o quaranta cornici o forse anche più, ma che non potrà sobbarcarsi alcuna spesa di eventuali addobbi o decorazioni, indica la Libreria della Voce di via Cavour – ovvero la casa editrice gestita dallo stesso gruppo di intellettuali della Voce – come recapito per una «lettera particolareggiata» di risposta (Perocco 1971, 242). Altri indizi dissemina-no questa assimilazione: dal ricordo di Edoardo Persico, che in occasione delle celebrazioni per la morte del pittore scrive sul quotidiano milanese L’Ambrosiano del 20 ottobre 1931 quanto gli paresse simile a Papini, nel possedere il medesimo «sospiro dell’irrealizzabile», la «stessa timidezza e tristezza», alla presenza di un Ricordo toscano (nr. catalogo 146) tra i disegni alla mostra capesarina del 1913.

Come rileva Elena Pontiggia, il ritmo lineare, cloisonniste, dei suoi pa-esaggi – a cui dà il valore di exempla morali, di una «natura animata dallo spirito» (Pontiggia 2007, 114) – si è mosso sotto il primo influsso di Gino Rossi e Teodoro Wolf Ferrari (cf. Paesaggio con alberi, 1908 o le vetrate Campo di grano esposte alla mostra di Ca’ Pesaro del 1912), che lo av-vicinano alla composizione sintetica e bidimensionale di Gauguin e dei Nabis – e questo ha agito già in opere come Paesaggio (1911, MART, Ro-vereto), dalle grandi masse scure e impastate in toni terrosi, o in Trittico. Paesaggio (1912-13) la cui suddivisione, al modo ancora secessionista, de-linea un processo temporale che descrive le fasi della giornata, ma anche mentale in quanto già tutto improntato a un cambiamento stilistico. Nei pressi del 1913 lo stile di Garbari subisce davvero dunque una metamor-fosi fatta di forme ancor più primarie ma come rapprese, sintetiche e un poco sgraziate, e campioni di questo mutamento in mostra a Ca’ Pesaro nel 1913 sono opere intense come Invocazione (fig. 4), con un cipresso slanciato e silente, quasi ancora simbolista; l’acquerello Paesaggio con rondini (o La Terra) del 1913, con colori aspri e aranciati e una teoria di rondini che viaggiano orizzontali tra i nembi artefatti quasi come in una bordura tessile; ma soprattutto Primavera trentina (o Invocazione) (fig. 5), che scandisce in verticali e orizzontali un paesaggio agreste su uno sfondo montano attraversato da tralci di vite, con al centro un virgulto sinuoso

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che prende ritmo slanciandosi verso l’alto, al modo di un albero della vita. L’opera, che andrà significativamente in dono a Barbantini, secondo quanto recita una cartolina postale del 27 settembre 1913 a lui inviata (Perocco 1972, 242),16 presenta in primo piano proprio dei fiorellini gialli e lilla che escono dalle zolle brulle, al modo di crochi e genziane, come nella passeggiata di Soffici.

Un fiore simile al croco sbuca da un terreno disegnato a grandi grumi, nel mezzo della notte e sotto un cielo stellato punteggiato da goccine che paiono quelle stesse che Oppi nel disegno Notte lunare posto anche in copertina al catalogo chiama «gocce di luce lunare», e compare anche nel manifesto che Garbari ha composto per la mostra, in cui l’immagine è come incorniciata da un esaedro che si chiude nella parte sottostante con uno snodo, attorniato da simboli legati al lavoro: da un lato un’ancora e una bricola; dall’altra un aratro e una spiga. È un simbolismo dunque piuttosto palese e anche l’augurio di una primavera dell’arte che porti frutti proficui, ma ecumenici (fig. 6). Anche la Gazzetta di Venezia del 14 maggio 1913 lo cita come un disegno «stampato in uno smagliante azzurrino», che rappre-senta «i simboli dell’ancora, la spiga, l’aratro, la bricola».17

La mostra inaugura domenica 18 maggio e in quella stessa giornata Gino Damerini pubblica sulla Gazzetta di Venezia (fig. 1) un articolo in cui la giu-dica «eclettica» ma audace e soprattutto segnala che, grazie alla sezione «Garbari – Oppi – Zecchin», «siamo tra i ribelli alla pittura convenzionale o tra i creatori di una nuova convenzione pittorica».

Il pittore trentino è nella sala settima e

ha tentato di ricompire in sè la secessione netta dalla cultura pittorica compiuta, come s’è detto, dal Cézanne. Fino all’anno scorso egli di-pinse paesaggi normali eloquenti e sapienti – ricordiamo la vasta tela della Mondiale di Roma a Valle Giulia – o disegnò eleganti illustrazioni a penna con un garbo ed un sapore quasi classici. Per una evoluzione spirituale egli ha rinnegato il passato, compreso il proprio passato; ora dipinge per volumi, per ritmi, per masse di colori con un sintetismo che nulla ha da invidiare a quello del Gauguin dell’ultima maniera, con un misticismo e certi avvolgimenti di nubi che rammentano il Previati; con piani prospettici piatti e uniformi che rammentano i piani piatti ed uni-formi dei paesaggi del Laermans. Il Garbari è in un periodo di ricerca, di introspezione, di ansia; in uno di quei periodi nei quali le sofferenze di un artista sono più degne di rispetto e considerazione. La sua collezione

16 Garbari sta preparando una mostra a Trento a palazzo Galasso con Gigiotti Zanini; ha venduto un disegno e scrive a Barbantini: «Tenga per Lei il quadro ‘Primavera trentina’ N. 128 del catalogo».

17 Damerini, Gino (1913). «La mostra – Il manifesto». Gazzetta di Venezia, 14 maggio.

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non persuade ma ciò non toglie che qualcuno dei suoi paesaggi non sia di una raccolta e commossa bellezza.18

Masse di colori e volumi, sintetismo e misticismo, piani piatti e uniformi sono dunque gli strumenti con cui ha compiuto una svolta, che non piac-ciono però a Ettore Romanello che scrive invece su L’Adriatico di quella stessa giornata

Meno ancora del Rossi è sorretto da fine gusto il Garbari, autore del manifesto di questa esposizione. Egli non manca di un certo sentimento della natura, come si può supporre dai particolari dei suoi paesaggi, ma la sua maniera di stilizzare è così povera e ridicola da distruggere irreparabilmente qualsiasi pregio, che potesse per avventura essere nei suoi quadri; egli vede strane forme simili ad uova per tutto, nella terra e nel cielo, e sembra poi ch’egli subisca quasi l’ossessione di un certo albero, ch’egli ripete in quasi tutti i suoi quadri e che somiglia strana-mente a una pannocchia19

o Il Commercio Veneto che ironizza sull’uomo «piccino di fronte alle emozioni della natura, l’emozione del pigmeo» (Pontiggia 2007, 186).

Il giorno successivo ancora Damerini sulla Gazzetta di Venezia riporta che nelle «dispute che si intrecciano qua e là» in occasione della verni-ce, in cui avvengono «piccoli incidenti fortunatamente senza seguito», Garbari «ha aggiunto iermattina alla sua collezione un grande quadro di infinita e sottile poesia montanina» e i suoi alberelli Anime gemelle piacciono pure a Casorati che li definisce «alberi fiamma».20

A questo momento di grande intensità, anche di vivi scambi tra com-pagni, segue come una crisi: Perocco, che la interpreta come la «seconda crisi» dell’artista, dopo quella veneziana, e non dà invece così importanza al primo soggiorno fiorentino del pittore la riconduce alla frequentazione degli ambienti della Voce solo quando nel 1914 Garbari soggiorna di nuo-vo a Firenze per diversi mesi, dove tiene anche una personale all’Istituto Francesce, rei di aver instillato in lui persino dei tentativi di un tardocubi-smo sghembo come nel suo strano Paesaggio futurista (1914) con casette che si inerpicano e smottano tra colori bigi. Nell’agosto del 1914 però, per non essere richiamato alle armi sotto l’imperiale regio esercito dell’Au-stria, in quanto trentino, passa la frontiera clandestinamente con i suoi fratelli e altri irredentisti e si stabilisce a Milano, dove rimane fino al 1919.

18 Damerini, Gino (1913). «L’ottava mostra giovanile d’arte a Ca’ Pesaro. Dalla mostra di Felice Casorati a quella dei postimpressionisti». Gazzetta di Venezia, 18 maggio.

19 Romanello, Ettore (1913). L’Adriatico, 18 maggio; Pontiggia 2007, 185-6.

20 Damerini, Gino (1913). «L’inaugurazione». Gazzetta di Venezia, 19 maggio.

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Le mostre a Ca’ Pesaro riprendono proprio in quel 1919, ma lui non vi partecipa, né a quella dei ‘dissidenti’ del 1920 alla Galleria Geri-Boralevi, quando gli artisti del nucleo ‘storico’ e più eroico di Ca’ Pesaro si disso-ciano dalla collettiva ufficiale a cui – per maneggi di politica e di interessi sindacali – è stato impedito di partecipare a Casorati, al tempo non più veneziano e dunque, secondo una certa fronda retriva di artisti locali in-tenzionati a beneficiare dell’occasione, escludibile dalla manifestazione (in realtà soprattutto in ragione dei significativi successi già da lui ottenuti alla Biennale). Garbari era stato però invitato alla collettiva ‘ufficiale’ del 1920 a Palazzo Pesaro, la cui inaugurazione era prevista per il 14 luglio, ma il 28 giugno di quello stesso anno risponde a Barbantini che non dipinge più da quattro anni e mezzo e i suoi lavori migliori sono a Milano, ma «sono cose diverse da quelle del 1913 a Ca’ Pesaro e di altro valore»: un’altra città dunque, un altro ulteriore cambiamento.21 Alla fine del mese successivo anzi gli scrive ancora, per rimarcare la fedeltà a quei suoi anni giovanili: qualche giornale lo dà come partecipante a quella che ironicamente chiama la «mostra dei protestanti», senza usare il termine di traditori o secessio-nisti, dando valore alle loro idee differenti ma tenendosene fuori. Chiede però a Barbantini di controllare se siano voci infondate: lui non ha aderito all’Esposizione degli artisti dissidenti di Ca’ Pesaro nella Galleria Boralevi, non ha inviato nulla, ma vuol capire se si tratti di «un equivoco da parte dei giornali o di trucco degli espositori», se hanno malinteso o se qualcuno usa inopportunamente il suo nome o, peggio, abbia esposto qualcosa di suo a sua insaputa: il suo carattere aspro e polemico non è cambiato.22

Ricomincerà a mostrare i suoi dipinti alla fine degli anni Venti: nel 1927 con il gruppo di Novecento Italiano (Sarfatti 1927), presentando anche una mostra dell’amico Ubaldo Oppi, a cui è sempre stato molto legato, alla Galleria Pesaro di Milano; nel 1928 è alla XVI Biennale di Venezia e alla Prima mostra di arte trentina; si dedica spesso a soggetti sacri e di tema popolare, di cui sono indizio già le tempere, i disegni, le acqueforti e le xilografie della Biennale tra cui La famiglia del carradore, Paesaggio trentino, Il trionfo di san Tommaso, ma nel 1931 muore all’improvviso a Parigi, dove risiede da un anno. Il «pittore, filosofo, poeta» rimpianto da Carlo Belli, possessore di una purezza superiore e di una moralità profonda, ma dall’anima «arredata con mobili del Trecento» e autore di Madonne che non sorridono, diveniva allora ancora di più per i suoi estimatori «un uomo ideale», capace di indossare abiti rudi per nascon-dere la propria dolcezza, un «angelo in borghese» sceso sulla terra con «incarichi speciali» (Belli 1937, 15).

21 AFBLM, Lettera di Garbari a Barbantini, Pergine 28 giugno 1920, ora in Perocco 1978, 243.

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Le mostre giovanili dell’Opera Bevilacqua La Masa hanno lasciato un’impronta indelebile sull’immagine stessa di Venezia come luogo della modernità, e quindi come sede del rinnovamento promosso da artisti che si sono riconosciuti e hanno operato non in gruppi predefiniti, ma comunque con un senso identitario generazionale, cresciuti in uno spazio intermedio tra Accademia di Belle Arti e Biennale Internazionale d’Arte, tra autodidattismo e apprendimento di nuovi linguaggi grazie a viaggi all’estero verso Parigi, Vienna, Monaco. La mostra di Ca’ Pesaro del 1913 è una delle più significative.