STORIE DALLA PRIMA LINEA - Fausto Biloslavo · si chiude accompagnata dal rumore sordo di uno...

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wu ) magazine_in deep STORIE DALLA PRIMA LINEA VITE DEDICATE ALL’INFORMAZIONE, TRASCORSE A RINCORRERE I FATTI PER VIVERLI E RACCONTARLI IN PRIMA PERSONA. PER CAPIRE COSA SIGNIFICHI FARE L’INVIATO OGGI, ABBIAMO PARLATO CON FAUSTO BILOSLAVO , REPORTER DI GUERRA PER IL GIORNALE , JASON BURKE , FIRMA DI THE OBSERVER, E LORENZO CREMONESI , PENNA DEL CORRIERE DELLA SERA E PRIMO GIORNALISTA ITALIANO AD ENTRARE NELLA STRISCIA DI GAZA DURANTE IL RECENTE CONFLITTO DI MARCO CROSETTO 28.29

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STORIE DALLA PRIMA LINEAVITE DEDICATE ALL’INFORMAZIONE, TRASCORSE A RINCORRERE I FATTIPER VIVERLI E RACCONTARLI IN PRIMA PERSONA. PER CAPIRE COSA SIGNIFICHIFARE L’INVIATO OGGI, ABBIAMO PARLATO CON FAUSTO BILOSLAVO,REPORTER DI GUERRA PER IL GIORNALE, JASON BURKE, FIRMA DI THE OBSERVER,E LORENZO CREMONESI, PENNA DEL CORRIERE DELLA SERA E PRIMOGIORNALISTA ITALIANO AD ENTRARE NELLA STRISCIA DI GAZA DURANTE ILRECENTE CONFLITTODI MARCO CROSETTO

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e non il fine. Ci sono redattori che cercanocontinuamente notizie improbabili sul web,dando la precedenza alla curiosità e non allaverifica, alla spettacolarità e non alla serietàdell’informazione. A volte mi è capitato diavere storie esclusive che non potevo scrivereperché le grandi agenzie non le avevano battute.Dovevo quindi dare loro degli hints, affinché neparlassero e io potessi farne un articolo: unaprocedura assurda. È un meccanismo perversoche premia il lavoro in redazione e non laricerca”. Una situazione complessa che lecrescenti difficoltà della stampa sulcampo non aiutano a risolvere: “Ilproblema di oggi non è il giornalismo embedded(sotto la protezione di uno dei due schieramenticontendenti, N.d.R.), c’è sempre stato e si puòessere liberi ed obiettivi anche se scortati da unesercito. Ciò che è cambiato è lo scenario, conl’acuirsi dello «scontro di civiltà» il raggiod’azione degli inviati si è ridotto alle green zoneo alle aree di perlustrazione delle pattuglie.Sovente un giornalista è percepito come un saccodi dollari con due gambe, si può essere rapitinon per quello che si pensa o si scrive, ma perquello che si rappresenta: Mastrogiacomo,

Sgrena e le due Simone docent”.Una professione che, nonostante le altepercentuali di rapimenti e agguati, restacomunque impareggiabile per chi lasvolge, e di vitale importanza per chi nelegge i frutti. Un mestiere alla cui basedevono esserci una grande passione euna solida fede nella libertà: “Credo che lastampa abbia un ruolo fondamentale, ma deveessere libera e non condizionata”, concludeCremonesi.Per saziare questa sete c’è chi tra gliinviati sceglie di raggiungere le zone piùa rischio del pianeta, attratto da quelloche Chris Hedges, inviato del New YorkTimes, ha definito “il fascino oscurodella guerra”. Reporter come FaustoBiloslavo che, nel 1982, a soli vent’anni,partì per seguire l’invasione israelianadel Libano: “Cercavo l’avventura e mipiaceva scrivere. Fu un reportageindimenticabile, fui l’unico a fotografare la fugadi Arafat e ci riuscii per pura fortuna: nellacalca di giornalisti che assediavano la colonnadi macchine in partenza, aprii la portieradell’ultimo veicolo. Mi trovai faccia a faccia con

un Kalashnikov, gridai di essere un giornalistaitaliano e la guardia del corpo che puntaval’arma mi rispose con uno spiccato accentobolognese. Mi prese e mi nascose sull’autofinchè non fu possibile uscire e fotografare lascena”. Una scelta professionalepericolosa che in oltre vent’anni haportato a Biloslavo numerosi successi,ma anche momenti tragici: “Bisognasempre avere paura, altrimenti si è dei pazziincoscienti. La paura va però controllata se sivuole rispondere all’attrazione fatale per leguerre”, prosegue Biloslavo, chesottolinea come la professione abbiasubìto diverse “rivoluzionicopernicane” nel corso degli anni: “Hoiniziato pestando i tasti di una Olivetti 32 esono arrivato in Iraq, nel 2003, a connettermila sera sul cofano del mio fuoristrada con iltelefono satellitare e il portatile, riuscendo atrasmettere il pezzo direttamente in redazione.Tuttavia viviamo in una sorta di paradosso,abbiamo più strumenti ma, nel contestointernazionale post 11 settembre, siamodecisamente più limitati. C’è stata unainvoluzione nei teatri operativi e ora anche i

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La chiave gira nella serratura, la porta di casasi chiude accompagnata dal rumore sordo diuno sbadiglio. Soprabito lustro, la fragranzadi un profumo appena messo, la routine diuna mattina qualsiasi. Movimenti e gesti daripetere centinaia di volte nel corso diun’intera esistenza. Non che questo portinecessariamente all’alienazione, ma in unistante di riflessione alla scrivania dell’ufficiosi possono immaginare vite più frizzanti, piùavvincenti, di sicuro meno standardizzate.Forse per deviazione professionale,immagino qualcuno che in quello stessomomento sta raccogliendo, dall’altra parte delpianeta, le testimonianze dei sopravvissuti adun attentato. O magari qualcun altro che, nelfango di un campo di battaglia, staraccontando la guerra e i suoi orrori.Fare l’inviato per una grande testata è unmestiere non adatto a chi ama le comoditàdomestiche o a chi è privo di curiosità epassione. Difficile, pericoloso, appagantecome tante altre professioni, è però avvoltoda un velo di fascino e leggenda quasi fosse lapiù plausibile reincarnazione moderna di unesploratore vittoriano o di un eroe romantico.

“Non sono abituato a raccontarmi, lavoro dal campoe solitamente sono io che faccio parlare gli altri”, diceLorenzo Cremonesi, corrispondente ecollaboratore del Corriere della Sera daGerusalemme per oltre vent’anni, “ho iniziatoscrivendo articoli per un settimanale dell’hinterlandmilanese, è stata un’ottima scuola perché la piccolarealtà e l’assenza di mansioni fisse mi hanno apertola testa”. E mentre cresceva la passione per ilgiornalismo, di pari passo aumentaval’interesse per le grandi questioniinternazionali: “Avevo una nonna ebrea che miraccontava la storia del suo popolo e della Shoah”,prosegue Cremonesi, “ciò mi convinse ad andarein Israele per approfondire la conoscenza della realtàlocale, e alla fine vi restai. Ebbi poi la fortuna discrivere per il Corriere della Sera ancora moltogiovane, i miei primi articoli uscirono nel 1984, ecredo di essere uno dei pochi corrispondenti ad esserestato assunto direttamente dall’estero”. Una lungacarriera che permette a Cremonesi diparagonare lucidamente il giornalismo diqualche anno fa a quello, sempre più criticato,di oggi: “Purtroppo c’è pochissima ricerca dei fattiperchè le nuove tecnologie ci hanno reso pigri. Internetnon è una maledizione, ma deve essere uno strumento

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NELLE PAGINE PRECEDENTIAFGHANISTAN, TASK FORCE 45FARAH (FOTO DI FAUSTO BILOSLAVO,WWW.FAUSTOBILOSLAVO.COM).

IN QUESTA PAGINA(FOTO DI ELIO COLAVOLPE /EMBLEMA SOCIETÀEDITORIALE):

IRAQ 2003. FAUSTO BILOSLAVOE ORTENSIA VISCONTI, INVIATADEL WASHINGTON POST,DURENTE L’ATTACCO ALLEATOA BASSORA.

IRAQ 2003. FAUSTO BILOSLAVODURANTE L’ATTACCO ALLEATOA BASSORA.

IRAQ 2003. FAUSTO BILOSLAVONELL’ACCAMPAMENTODEI GIORNALISTI.

NELLA PAGINA A FIANCO:AFGHANISTAN, 1987.IL COMANDANTE AHMAD SHAHMASSOUD, IN PRIMO PIANO,CON I SUOI LUOGOTENENTI.(FOTO DI FAUSTO BILOSLAVO,WWW.FAUSTOBILOSLAVO.COM)

giornalisti sono percepiti come nemici. Essere embedded spesso divental’unica possibilità, si ha certamente una visione più ristretta ma sipossono comunque fare ottimi servizi. L’importante è rimanereobiettivi”, prosegue Biloslavo. “Io sono un cronista e racconto le storiedei conflitti, reportage di cui ho raccolto alcune immagini in un libro e inuna mostra. Sono gli occhi della guerra di un bambino soldato inUganda, dei feriti che hanno nelle orbite l’ultimo anelito di vita, di unbambino iracheno a cui una granata ha staccato di netto un braccio. Sonoperò anche gli occhi dei giornalisti che vanno in prima linea per raccontarequeste tragedie e spesso non tornano a casa. Un lavoro che è una passionee che mi ha permesso di vivere e raccontare emozioni profonde: su untreno dal Montenegro a Belgrado sotto i bombardamenti Nato, duranteil genocidio in Rwanda nel ’94 dove c’erano talmente tanti morti che icadaveri spuntavano dalle fosse e i cani ne facevano scempio, in Iraq suuna jeep a fianco di un sergente riservista americano, ex poliziotto diNew York, che sull’elmetto aveva scritto «11 settembre. Dio perdona, iono»”, conclude Biloslavo.Capire se il perdono è possibile o meno non è però compitodell’inviato. Sensazioni, emozioni, pareri non devonoprendere il sopravvento, altrimenti guasterebbero i fatti: “Ionon sono un giornalista di guerra ma ho coperto molti conflitti, capendoche gli elementi importanti sono le persone coinvolte e le cause stesse dellacrisi. Il bravo giornalista deve capire le origini di un fatto e analizzareesattamente cosa è successo”, dice Jason Burke, senior foreigncorrespondent di The Observer, “c’è a volte la tendenza a farprevalere le opinioni, bisogna però ricordare che i commenti sono liberi

mentre i fatti sono sacri. Un giovane giornalista deve tenerlo bene amente, così come deve ricordarsi che per crescere ed imparare a fondoquesta professione, bisogna faticare e non interessarsi solamente alleguerre per impressionare gli amici”.I pensieri tornano al loro posto, la scrivania, il computeracceso, la routine di sempre. Forse non è solo l’avventura cheinvidiamo a professioni come l’inviato, né il senso di pericoloche spesso attrae l’animo umano. Forse quello che più ciincuriosisce è quel contatto diretto che hanno con i fatti, maimonotono e sempre profondo. Un intimo rapporto chepermette loro di guardare la Storia negli occhi e di riportarneal grande pubblico i contorni più affascinanti, tragici eimmortali.

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LORENZO CREMONESINato a Milano nel 1957, segue da oltreventicinque anni le questionimediorientali per il Corriere della Sera.Recentemente ha coperto la crisi nellaStriscia di Gaza, dove fu rapito nel2005. Dai nostri inviati (Rizzoli, 2008) èil suo ultimo libro.

FAUSTO BILOSLAVOTriestino classe 1961, reporter diguerra per numerose testate. Oltrevent’anni di carriera e reportage diguerra da tutto il mondo. Nel 1987 èstato imprigionato per sette mesi inAfghanistan, paese dove ha trascorsol’agosto 2008 embedded con i Marinese le truppe italiane. Il suo libro, Gliocchi della guerra, è acquistabile sulsito www.gliocchidellaguerra.net.

JASON BURKENato nel 1970, è senior foreigncorrespondent di The Observer,ha scritto numerosi servizi sulMedioriente e l’Asia sudoccidentaleper i quali è stato più volte premiato.Sulla strada per Kandahar (Longanesi,2008) è il suo ultimo libro pubblicatoin Italia.

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IRAQ 2003, UN BIMBO FERITO DURANTEL’ATTACCO ALLEATO.

(FOTO DI FAUSTO BILOSLAVO,WWW.FAUSTOBILOSLAVO.COM)

ANGOLA 1985. RIBELLI DELL’UNITA.(FOTO DI FAUSTO BILOSLAVO,

WWW.FAUSTOBILOSLAVO.COM)

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