Storia e teoria - Aracne · del linguaggio creativo e intrattenitivo radiofonico all’interno del...

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ARACNE Storia e teoria Lucia Esposito Un’introduzione al radiodramma inglese

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ARACNE

Storia e teoria

Lucia Esposito

Un’introduzioneal radiodramma inglese

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I edizione: maggio 2005

INDICE

Premessa 7

Introduzione: La ‘sfida’ della radio alla cultura del Novecento 11 1. Trasversalità mediali, p. 11; 2. Orizzonti di attesa nuovi, p. 18; 3. La sintonizzazione col pubblico, p. 28

Capitolo 1: Teorie inglesi dell’‘ottava arte’ 41 1. Problemi di definizione e di distinzione dal teatro, p. 41; 2. Le affinità con la narrativa, p. 54; 3. Il percorso di fondazione teorica, p. 61 Capitolo 2: Storia del radiodramma inglese 83 1. Le prime sperimentazioni, p. 83; 2. Nascita e sviluppo del feature, p. 88; 3. La stagione d’oro del radiodramma, p. 94; 4. Sviluppi moderni e nuove tecnologie, p. 101 Antologia di testi 107

Testi teorici e critici: Gordon Lea, Radio Drama and How To Write It (1926), p. 107; Lance Sieveking The Stuff of Radio (1934), p. 111; Louis MacNeice, “Introduction to Christopher Columbus” (1944), p. 114; Donald McWhinnie, The Art of Radio (1959), p. 117; Martin Esslin, “The Mind as a Stage” (1971), p. 120; Ian Rodger, Radio Drama (1982), p. 123; Angela Carter, “Preface to Come Unto These Yellow Sands” (1985), p. 125; Alan Beck, “Cognitive Mapping and Radio Drama” (2000), p. 127; Frances Gray “Carry on Echo: The Dissident Body” (2000), p. 131; Tim Crook “Principles of Writing Radio Drama” (1999), p. 134; Testi radiodrammatici: Richard Hughes, A Comedy of Danger (1924), p. 138; Louis MacNeice, The Dark Tower (1946), p. 140; Dylan Thomas, Under Milk Wood. A Play for Voices (1954), p. 145; Giles Cooper, Under the Loofah Tree (1958), p. 149; Harold Pinter, A Slight Ache (1959), p. 155; Angela Carter, Come Unto These Yellow Sands (1979), p. 161; Tom Stoppard, In the Native State (1991), p. 164

Bibliografia 169

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Premessa Il radiodramma ha più di ottant’anni. È un genere maturo, che

nell’arco del secolo scorso ha sperimentato ed espletato tutte le possibilità che le sempre più moderne tecnologie gli hanno messo a disposizione. Il suo sviluppo, tuttavia, dopo i significativi esperimenti iniziali e dopo la fase di entusiasmo creativo che accompagnò la massiccia richiesta degli anni Trenta, non ha seguito un tracciato uniforme, ma ha subito fasi alterne, seppure con marcate differenze tra paese e paese.

In generale si può affermare che su tutte le scene sonore dei paesi interessati maggiormente dalla seconda guerra mondiale, quest’ultima abbia funzionato da spartiacque, concludendo il primo ciclo di vita del genere – in cui il radiodramma ha trovato una propria fisionomia attraverso un processo graduale di esplorazione – e inaugurando la sua fase più consapevole, compresa a grandi linee tra la fine degli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta, in cui il radiodramma ha potuto finalmente essere messo alla prova come linguaggio del tutto autonomo.

La ragione di una svolta così vantaggiosa non è da addebitare unicamente al carattere di rottura della guerra che, in Inghilterra, per l’impossibilità di recarsi a teatro, contribuì a fare della radio il “National Theatre of the Air”, ma anche al fatto che il suo concludersi segnò il pieno riprendersi delle trasmissioni televisive, interrotte cautelativamente durante il conflitto. A partire dai primi anni Cinquanta, infatti, la radio risentì immediatamente della forte competizione della sorella minore e dovette ritagliarsi uno spazio più ristretto e più specifico, dal quale trasse particolare giovamento l’attività di ricerca nell’ambito dell’arte radiodrammatica, finalmente libera dalle fameliche richieste di un pubblico troppo ampio e indifferenziato e totalmente diversa dal linguaggio del nuovo mezzo audiovisivo.

A partire dalla seconda metà del secolo la sua sperimentazione godeva, inoltre, anche dei passi che la tecnica compiva sempre più velocemente. Dopo l’introduzione del registratore, con la biauralità, la

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stereofonia e le bande in modulazione di frequenza si ottenne un sostanziale miglioramento della qualità della ricezione, mentre, grazie ai transistor, gli apparecchi radio divennero piccoli e facilmente trasportabili ovunque, inaugurando un modo completamente nuovo di rapportarsi al mezzo radiofonico e, con esso, una nuova fenomenologia dell’ascolto. Ognuna di queste innovazioni ha rappresentato ogni volta una nuova sfida e un cambiamento importante nel campo sia della creazione che della ricezione. Di certo la tecnica ha portato a una crescente meccanizzazione del processo costruttivo dei radiodrammi e quindi a un allentamento dei rapporti tra le figure umane coinvolte, ma ha anche consentito ricerche sempre più ardite e la sperimentazione di nuove strade percorribili dal genere radiofonico.

Dopo un così lungo periodo di ricerca e sviluppo accompagnato da gratificanti conferme, il dilemma se la radio sia o no uno strumento di creazione artistica non ha più ragione di esistere. Il repertorio radiodrammatico britannico, in particolare, si presenta ricco e prestigioso grazie al valore inconfutabile dei contributi più disparati, molto spesso provenienti da autori meglio conosciuti per la loro attività al di fuori della radio: autori che hanno inaspettatamente esordito sulle scene sonore del mezzo radiofonico prima di passare a quello per cui sono più noti; o che vi sono arrivati quasi per destino dopo aver già raggiunto la fama di narratori o uomini di teatro, come ad esempio il romanziere e drammaturgo irlandese Samuel Beckett.

In un panorama mondiale di diffusione molto articolata del genere, la Gran Bretagna si è dunque particolarmente distinta per il costante raggiungimento di alti standard quantitativi e qualitativi che le hanno consentito di costruire nel tempo «one of the finest and strongest traditions of radio drama in the world, perhaps even the best» (Lewis 1981: 7). La fertilità del suo terreno ha favorito l’ultilizzo del linguaggio radiofonico da parte di autori anche molto noti in altri campi della cultura, letteraria e drammatica. Tra questi spiccano i nomi di Tyrone Guthrie, di Louis MacNeice, di Giles Cooper, di Samuel Beckett, di Harold Pinter, di Muriel Spark, di Susan Hill, di John Arden, di Tom Stoppard, di Angela Carter e di tantissimi altri, a testimonianza di una dignità artistica del genere alla quale

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erroneamente la critica non ha mai reso particolare omaggio, relegando i suoi prodotti ai margini della visibilità culturale.

Scopo di questo studio introduttivo sarebbe dunque quello di attirare attenzione verso un genere di cui si sente difficilmente parlare, ma che in realtà in Gran Bretagna ha ancora un’ampia circolazione. La radio inglese contribuisce tutt’oggi a tener viva la sua tradizione trasmettendo prodotti di qualità che ne giustificherebbero ampiamente lo studio nelle scuole e nelle università, dove il radiodramma, specialmente da noi, è purtroppo deliberatamente e ingiustamente ignorato.

Si è scelto perciò di strutturare questo volumetto in modo da fornire un ampio ventaglio di testimonianze da parte di coloro che hanno lavorato sul campo, sia a livello teorico che pratico.

L’introduzione traccia per grandi linee il percorso di inserimento del linguaggio creativo e intrattenitivo radiofonico all’interno del sistema della cultura del Novecento, rilevando sia l’avvenuto incontro/scontro tra i generi letterari preesistenti e quelli introdotti dalla radio ai principi del Novecento, sia le reazioni dell’intellighensia rispetto all’avvento di una cultura mass-mediatica. Il primo capitolo, di impianto più teorico, e il secondo capitolo, di carattere storico, vogliono essere invece una discussione ricognitiva dei contributi forniti all’evoluzione del radiodramma inglese. Ad essi segue un’antologia di testi estratti prima da articoli, saggi e volumi dedicati al genere, e poi da alcuni radiodrammi considerabili per molti versi esemplari.

In entrambi i casi, la selezione è stata motivata sia dall’esigenza di ricoprire in modo quanto più uniforme possibile l’intero arco storico di sviluppo del genere, dalle prime voci alle testimonanze più recenti, sia dal tentativo di fornire una presentazione prismatica dei suoi vari aspetti, e dal punto di vista della discussione teorica, e da quello della realizzazione pratica. Resta, tuttavia, un cruccio fondamentale. Come si troverà espresso più volte nelle pagine che seguiranno, un radiodramma per essere pienamente apprezzato e compreso deve essere ascoltato. Deve cioè essere fruito secondo i criteri e le strategie che costituiscono la base della sua grammatica compositiva e della sua modalità ricettiva, le quali, com’è ovvio che sia, si riferiscono immediatamente al senso dell’udito e alla facoltà immaginativa

Premessa

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innescata dall’attività sensoria dell’ascolto. È pur vero, però, che gran parte dei meriti di un autore radiofonico possono e devono essere rilevabili già nel copione; meriti ravvisabili nell’attenta architettura dell’insieme secondo i principi di essenzialità e di polifonia costruttiva che ne sottendono la riuscita. E se, per certi versi, il radiodramma si dimostra affine alla narrativa, proprio perché, come la narrativa, lascia ampio spazio alla facoltà immaginativa del destinatario, si fa appello a quella del lettore perché supplisca, almeno in parte, alla mancanza della giusta atmosfera aurale e dei dati sonori che la completano. Fermo restando che ciò che anima questa introduzione è esattamente la speranza di introdurre i lettori al genere, di stimolarli all’approfondimento e alla ricerca delle fonti originarie per trovare in esse il complementare, necessario appagamento sensorio.

Introduzione La sfida della radio alla cultura del Novecento

1. Trasversalità mediali Quando la radio nacque, ai principi del secolo scorso, le reazioni

del pubblico non furono omogenee. Se da un lato non mancò un istintivo entusiasmo, dall’altro si registrò un profondo disagio. Dopo la radicata abitudine alla lettura, l’introduzione della ‘diabolica’ scatola parlante – un potente strumento di esaltazione dell’espressione esclusivamente sonora – non poteva, infatti, non costituire un cambiamento importante, quantomeno nell’ambito della sfera delle percezioni. Gli organi uditivi non erano allenati a un impegno così prolungato che prescindesse dal senso della vista, per cui, nota Franco Malatini (1981) – uno dei più attivi addetti ai lavori della radio italiana nel secondo Novecento – dopo un lungo ascolto era naturale che una sorta di sonnolenza psico-fisica, con la tendenza ad assorbire il segnale-parola come segnale-rumore, rappresentò un problema di un certo rilievo, almeno nei primissimi tempi. Sarebbe dovuto passare del tempo prima di farvi l’abitudine, così come per comprendere la vera forza che la comunicazione radiofonica possedeva. L’intuizione della sua potenziale enorme diffusione era, tuttavia, già contenuta nel termine metaforico inglese broadcast che, analogamente a quello di “cultura”, traslato dalla pratica agricola della coltivazione, era nuovamente riferibile al mondo manuale contadino, in particolare al concetto di “disseminazione” o “semina a spaglio” (Briggs 2002: 195)1.

1 I primi esperimenti non ufficiali di diffusione ad ampio raggio delle trasmissioni furono fatti prima negli Stati Uniti e poi in tutta Europa tra il secondo e il terzo decennio del secolo scorso. In America, il primo servizio regolare si ebbe nel novembre del 1920 a Pittsburg quando la stazione nota come KDKA incominciò a trasmettere notizie saltuarie sull’andamento della competizione tra Cox e Harding per le elezioni presidenziali. Nel luglio del 1921, la stessa emittente trasmise la radiocronaca dell’incontro di pugilato tra Dempsey e Carpentier per il campionato mondiale dei pesi massimi. Di lì in poi altre numerosissime piccole stazioni inondarono l’etere, dando origine al vertiginoso sviluppo della radio americana. In

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Da strumento di connessione punto-punto, la radio divenne presto, infatti, nonostante la non intenzionalità del suo inventore, Guglielmo Marconi, un mezzo di comunicazione circolare, uno strumento potente e risonante capace di raggiungere una moltitudine virtualmente illimitata di ascoltatori. Se già il telefono aveva avuto il merito di consentire i collegamenti a distanza e persino di sperimentare forme rudimentali di audizione musicale – come nella sala allestita a Parigi nel 1881 con 20 telefoni in collegamento con l’Opéra, ai quali si alternavano 4.000 persone al giorno – la rivoluzione del nuovo mezzo segnò lo sfondamento definitivo dei limiti ancora imposti dalla telefonia (Costa 1990). Propria della radio era, infatti, la trasmissione diretta e simultanea di suoni provenienti da lontano ma percepibili contemporaneamente e ovunque da individui che il messaggio univa idealmente in ampie comunità. Tutto questo senza più barriere di età, sesso, classe, razza e persino, forse, di nazione, se si considera il ruolo importante che essa avrebbe svolto durante la seconda guerra mondiale, non solo come mezzo propagandistico nelle mani delle dittature, ma anche come strumento di formazione di un fronte comune di opinioni anti-fasciste e anti-naziste2.

La radio aveva lo straordinario potere magico, essendo senza fili, di penetrare tra le mura di ogni casa e di moltiplicare all’infinito la sua voce, realizzando quello che nel 1936 Rudolph Arnheim definì il suo “grande miracolo”: «l’onnipresenza di tutto ciò che gli uomini dicono e fanno in ogni parte del mondo, l’eliminazione delle frontiere, il superamento dell’isolamento spaziale, l’importazione di culture attraverso le onde sonore: lo stesso menù per tutti, la presenza del rumore nel silenzio» (1993: 7). Con la sua ubiquità e istantaneità, ovvero con la sua smisurata dilatazione dell’hic et nunc, essa consentiva all’ascoltatore di sentirsi «un dio o perlomeno un Gulliver» Europa, invece, il passo fu un tantino più lento. Nonostante i molti esperimenti di trasmissioni per lo più musicali anche molto precoci, come in Belgio nel 1914 e nei Paesi Bassi nel 1919, si considera che le prime trasmissioni regolari iniziarono in Gran Bretagna il 14 novembre 1922, per poi diffondersi in Francia, Germania e Cecoslovacchia nel 1923, in Italia e Spagna nel 1924, e così via.

2 Si confronti a questo proposito il volume di C. Pagetti, riferito in particolare all’impegno radiofonico di George Orwell: “Guerra alla radio: i radio days di George Orwell” (1994: 35-46).

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e di «scombussolare il mondo girando un bottone» consentendogli di «seguire avvenimenti che sembrano così concreti come se avessero luogo nella tua stessa stanza e al tempo stesso così lontani come se non fossero mai esistiti» (Ivi: 11).

Oltre allo scavalcamento dei confini spazio-temporali, questo nuovo strumento (affascinante e mostruoso insieme) metteva in atto, però, anche un altro tipo di trasgressione. Si presentava come un enorme contenitore di generi diversi; un intero sistema organizzato della comunicazione dai confini interni ed esterni estremamente fluidi e in continua ridefinizione. Di fatto, il suo microcosmo comunicativo era, soprattutto all’inizio, totalmente nel segno della contaminazione, essendo il frutto del laborioso processo di intrecci e di commistioni cominciato a partire dai primi anni del XX secolo tra i generi più propriamente letterari (il teatro, la narrativa e la stampa) e i nuovi media (il cinema e la radio). Il nuovo, delicato e complesso rapporto di transcodificazione che veniva a essere intessuto rispondeva a un naturale processo di mutazione e riconfigurazione delle strutture simboliche della cultura in base a criteri trasformazionali che, secondo Fernando Ferrara (1993), uno dei più intuitivi interpreti dei nostri tempi, occorreva individuare e comprendere per aggiornare la riflessione stessa sulla cultura e sulle sue forme codificate3. Nel prendere coscienza del fondamentale moto di ridefinizione del sistema novecentesco dei generi innescato dall’introduzione dei media, lo studioso considerava quanto fosse ormai impraticabile l’idea di un’immutabile relazione tra genere e codice. Questo in considerazione della sempre mutevole e possibile codificabilità di un messaggio in differenti linguaggi a seconda dei canali attraverso i quali si può e si desidera farli passare, cosicché uno stesso testo può anche essere contemporaneamente o successivamente tradotto in più linguaggi (letterario, radiofonico, cinematografico, ecc.) e adattato per differenti canali attraverso un processo di transmedialità.

L’idea di una trama intricata di relazioni e dell’esistenza di molteplici possibilità di infratessitura insite nel sistema della

3 Per una più ampia panoramica sulla storia e sulle teorie dei generi letterari, si

vedano anche: P. Bagni (1997 e 2001); A. Fowler (1982); N. Frye (1969); C. Segre (1999).

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codificazione culturale risponde a una visione inclusiva, polifonica e metamorfica della cultura, in forte sintonia con i presupposti anti-idealisti e democratici dei britannici cultural studies. Per uno dei loro fondatori, Raymond Williams, ogni espressione culturale – la stessa letteratura un tempo considerata autonoma e superiore rispetto alle altre forme sociali – è da intendersi all’interno di un generale processo in continuo mutamento, dove la cultura, ricorda Stuart Hall nel citare lo studioso di Cambridge, non va considerata come un’entità astratta, ma come una sorta di organismo vivente «intessuto attraverso tutte le pratiche sociali»; anzi, come la «somma della loro interrelazione» (Hall 1986: 36). L’ottica allargata e socializzata degli studi culturali include necessariamente la pratica dei media, alla stregua di quella letteraria e artistica, all’interno dell’interrelato macroprocesso della comunicazione, in cui anche i generi appaiono vicini a un atto discorsivo piuttosto che a una severa, quanto astratta, norma di codificazione.

Nel solco della riflessione pragmatica sui generi, che considera imprescindibile il rapporto tra un emittente e un ricevente all’interno di un dato contesto che li determina e li modifica a seconda dei propri mutamenti interni, mai lineari e costanti, le riflessioni culturaliste di Fernando Ferrara sono quindi tanto più interessanti perché la radio è già in sé un microsistema della comunicazione contenuto nel più ampio macrosistema della cultura, e la concezione di una fondamentale commistione e contaminazione delle sue espressioni convalida l’idea che l’entrata in scena della radio (come, prima, quella del cinema e, dopo, quella della televisione) sia stata un propulsivo agente di trasformazione, sia delle modalità attraverso cui una cultura comunica i suoi valori, sia di quelle attraverso cui una comunità ne recepisce i messaggi. Quest’ultima, di conseguenza, si trova naturalmente a riconfigurare le proprie strutture di percezione e di decodificazione e, in ultima istanza, le proprie “strutture del sentire” (Williams: 1987).

Tale processo di disgregazione e riformulazione dinamica all’interno della trama di relazioni generiche che caratterizza la modernità fu indiscutibilmente all’origine di espressioni creative nuove, variegate, metamorfiche. Da un lato, la letteratura scritta incorporava il dinamismo e la simultaneità delle moderne tecnologie;

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dall’altro nascevano prodotti che usavano direttamente il linguaggio espressivo dei nuovi media, adottandone le convenzioni, gli scenari dell’invenzione e le iconografie specifiche. Di fatto, pur avallando l’idea che oltre a una forma di determinismo di tipo socioeconomico, come ad esempio quella proposta dalle formulazioni marxiste, ne esista anche una di tipo tecnologico, non occorre arrivare all’estremizzazione della formulazione mcluhaniana – «il mezzo è il messaggio» – per riconoscere che nel processo della comunicazione mediale tra l’emittente principale (l’autore) e il ricevente (l’ascoltatore, lo spettatore), il messaggio subisce un’importante trasformazione, perché in presenza di un codice e di un canale nuovi, che implicano una formulazione e una ricezione diverse delle forme e dei contenuti – ovvero del tipo di rapporto particolare e complesso che si instaura tra forma e contenuto e che, a monte, determina un genere. Tutto questo nel rispetto della natura specifica del medium in quanto filtro, ma anche in quanto zona intermedia di transito, di passaggio, di traduzione; come ‘medium’ è lo stesso autore quando trasmette al destinatario i mondi altri dell’immaginazione.

Perciò, sono generi in transito i generi soggetti al processo di deformazione e modificazione innescato dall’incontro/scontro con le nuove tecnologie, secondo quel principio di “interfaccialità” menzionato da Marshall McLuhan, secondo il quale, analogamente a quello che accade nella fisica moderna «due culture e due tecnologie possono penetrare l’una dentro l’altra senza entrare in collisione, ma non senza che muti la configurazione di ciascuna» (1976: 205). Sono generi in transito perché si collocano, seguendo la metafora di uno spazio dei generi, in un luogo di scambio (tra la carta stampata o il palcoscenico e il mezzo) dove la questione del limite, del confine o dell’appartenenza diventa un elemento di grande problematicità. Luoghi di correlazione e di tensione dinamica, i generi mediali sono anche infatti, applicando il taglio derridiano, soglie che si attraversano e riattraversano, zone di liminalità dominate piuttosto dall’enigma del genere, consistente nella capacità di includere all’interno stesso della norma della purezza che dovrebbe governarli, la legge dell’impurità, un intrinseco, ineludibile principio di contaminazione, di “partecipazione senza appartenenza” (Derrida 1981). In questa prospettiva, i generi diventano zone di frontiera, di separazione e di

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con-fusione, in cui avviene un prolifico interscambio tra testi, modi, argomenti, toni diversi della comunicazione, ma come su di una strada a doppio senso, in cui forme provenienti da luoghi diversi transitano, condizionandosi reciprocamente e ibridandosi.

Questo tipo di riflessione, che si inserisce nel più ampio dibattito moderno sulla irriducibile pluralità dei testi letterari – per cui entrano in gioco termini riferibili ad aspetti del post-moderno, come bordo, soglia, contaminazione, gioco ed esplosione della forma, assenza di cornice, trasgressione ecc. (Curti 1993) – ha trovato una sua importante collocazione anche nell’ambito della teoria dei generi contaminati del Novecento, da considerare non più come forme chiuse e immutabili, ma come insiemi mobili e duttili, reti infinite dai confini imprecisati, continuamente soggette ad arricchimenti e attraversate da dinamiche fluide di destrutturazione e ristrutturazione, da rotture e spostamenti, in un moto di tormentosa ambivalenza tra vecchio e nuovo, fra tradizione e sperimentazione. Forme che trovano la loro espressione letteraria più rappresentativa nell’indefinibile categoria “romanzo” e la manifestazione culturale più evidente in quella ibrida dei nuovi media.

Frutto e causa delle prime ibridazione mediali fu proprio la radio. Essa si offriva di per sé, sin dall’inizio, come una forma complessa e difficilmente catalogabile della comunicazione, includendo e mescolando al suo interno tutti e quattro i modi della comunicazione culturale elencati da Ferrara nel suo saggio sui generi (1973): finzione, informazione, suggestione e istruzione. Il fatto di prestarsi ecletticamente, con il suo codice nuovo di zecca, rappresentato da un linguaggio esclusivamente sonoro, sia alla funzione informativa, sia a quella educativa o intrattenitiva, dapprima detenute solo dai quotidiani e dai periodici, dai teatri e dalle sale concerto, rendeva la radio un mezzo camaleontico, capace di trasformarsi di volta in volta e di recitare metamorficamente il ruolo del mezzo a lei preesistente, di cui sperimentava i linguaggi (narrativo, teatrale, informativo), in cerca sia di un pubblico che di una materia prima. Per cui, scrive Bertolt Brecht, che collaborò attivamente alla radio tedesca tra gli anni Venti e Trenta:

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All’inizio ci si arrangiò rinunciando a pensare. Ci si guardò intorno per vedere in quale posto qualcuno diceva qualcosa a qualcun altro e si tentò di intrufolarsi, semplicemente entrando in concorrenza e dicendo qualcosa a qualcuno. Questa fu la radio nella sua prima fase, quando svolgeva la funzione di sostituto. Sostituto del teatro, dell’opera, del concerto, delle conferenze, del caffè concerto, della cronaca cittadina, dei giornali [...] Fin dall’inizio la radio ha imitato, più o meno, tutte le istituzioni esistenti che avessero in qualche modo a che fare con la diffusione di ciò che si può dire o cantare: da questa torre di Babele venne fuori un incrociarsi e accavallarsi di suoni che non era possibile ignorare (Brecht 1975: 44-45). E furono proprio le spiccate caratteristiche di duttilità, agilità e

trasversalità che facevano della radio una sorta di “cavalleria leggera della comunicazione” (Ortoleva 2001), cioè uno strumento versatilmente disposto ad applicazioni onnivore in qualsiasi campo dell’espressione – dalle notizie al talk show, dai programmi musicali ai documentari, dal dramma e dal romanzo letti o adattati al radiodramma originale – a fare apocalitticamente temere, in principio, la scomparsa dei generi tradizionali di informazione, ricreazione e spettacolo. Sulla scia, forse, di un evoluzionismo darwiniano applicato alla materia, che vedeva centrale nello sviluppo dei generi l’idea della lotta per la sopravvivenza, sia il teatro che la stampa guardavano all’inarrestabile crescita e pervasività della radio con palese ostilità e attuando, talora, offensive forme di boicottaggio. Entrambi si sentivano minacciati dal nuovo mezzo, che si insinuava attraverso l’etere nelle case di tutti e poteva togliere al loro pubblico, rispettivamente di spettatori e di lettori, il desiderio di recarsi a teatro e di leggere. Ma se è vero, come scrive Jérome Bourdon, che «i media hanno fagocitato, riciclato e trasformato tutte le forme di spettacolo e di divertimento preesistenti» per cui a poco a poco «queste forme di spettacolo si sono irrigidite e piegate alle esigenze dei media, mentre questi ultimi creavano generi propri» (Bourdon 2000: 9), di fatto, nota invece Roberto Grandi (1995), la radio non uccise le altre forme di comunicazione culturale, ma le costrinse a ripensarsi, a uscire dagli stretti confini della loro identità precedente e a cercare uno spazio diverso che inglobasse la presenza del nuovo mediante un processo che Marshall McLuhan ha definito di ibridazione e Martin Esslin di cross-fertilization, cioè di fertile scambio, prestito e mescolanza. Per

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cui è vero, come sottolineano fortemente sia Martin Esslin che Ian Rodger (1982), che la radio non ha solo inglobato tutto ciò che trovava a sua disposizione alla ricerca di ciò che più le si manifestava come congeniale, ma ha anche finito per influenzare le altre forme letterarie, spingendole, tra le altre cose, verso il recupero dei valori ritmici e sonori del linguaggio parlato.

Assodate oggi tali dinamiche di scambio, non si può ignorare, tuttavia, che l’incalzante processo di appropriazione generica della radio giustificava, almeno all’inizio, un reale motivo di preoccupazione. La radio era in grado di tradurre mirabilmente i messaggi degli altri mezzi per un pubblico molto più dilatato con un’opera di mediazione culturale amplificata che si avvantaggiava, oltre che della possibilità di raggiungere gli strati illetterati della popolazione, anche della più stretta connessione del suo linguaggio, irriducibilmente ‘parlato’, con la dimensione emotiva, calda e partecipativa del sinestetico mondo dell’orecchio (McLuhan 1976). Attraverso le sue voci disincarnate, la radio incantava il pubblico perché sembrava riconquistare quell’aura, quella magia dell’antica cultura orale che Walter Ong considerava svanita dal momento in cui la stampa aveva allontanato la parola dalla sua tradizionale associazione col suono, trattandola come un oggetto nello spazio fisico della pagina scritta. Con la trasmissione nell’etere, tale riferimento spaziale spariva, restituendo alla parola il suo potere perduto – quella sua straordinaria capacità di evocare innescando l’immaginazione – e facendo rivivere nella storia della cultura una nuova forma di oralità, seppure secondaria e tecnologica, che generava un «senso di appartenenza a gruppi incommensurabilmente più ampi di quelli delle culture a oralità primaria» (Ong 1987: 92).

2. Orizzonti di attesa nuovi È un fatto assodato che la fascinazione che la radio produceva sul

pubblico derivava in gran parte anche dal rinnovato senso di collettività in cui immergeva gli ascoltatori, facendo loro percepire gli echi di un’antica tradizione comunitaria, di matrice essenzialmente popolare. E, sebbene in un’ottica democratica della cultura come

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quella degli studiosi culturalisti britannici come Richard Hoggart (1970) o Raymond Williams (1987), questo dovesse essere l’obiettivo e il compito di ciascuna espressione culturale in quanto pratica sociale basata sulla condivisione di valori comuni, nei fatti, fu la nuova tecnologia della radio a essere recepita come più vicina alle masse e più sensibile ai loro bisogni, favorendo un commento entusiasta come quello di Arnheim: «[la radio] favorisce nel modo più spregiudicato tutto ciò che ha a che vedere con la diffusione e la comunanza, mentre si oppone alla segregazione e all’isolamento» (1993: 136).

In effetti, dato l’inarrestabile allargamento della base dei suoi fruitori in un fulmineo lasso di tempo, il nuovo strumento non tardò a mostrare la sua natura di mezzo di comunicazione di massa, e, se da un lato questo confermava una sorta di sua inscritta vocazione popolare, dall’altro, per la speciale capacità di amplificazione del microfono – che dotava la parola di enorme risonanza – e per il suo carattere più emozionale e immaginativo – che le conferiva potere psicologico e persuasività – essa non mancava di provocare critiche e giustificate preoccupazioni circa la sua altrettanto insita possibilità di agire su tali masse, ai fini di una manipolazione ideologica e/o propagandistica, con l’utilizzo del mezzo come fabbrica del consenso.

Del resto, se è mancata una tradizione critica sostanziosa e ragguardevole per le forme creative della radio, in particolare per il radiodramma, questo è in gran parte dovuto proprio al pregiudizio mai disgiunto dalla parola “massa”. Pregiudizio che ha impedito di valutare con attenzione e scrupolo l’importante contributo artistico del mezzo, spesso messo in secondo piano rispetto a considerazioni di tipo più generale, come appunto quelle sugli effetti della radio e quelle sulla possibilità di trasmettere a un pubblico quanto mai vasto un reale valore culturale. Tematiche, queste, intorno alle quali si sono schierati in fazioni opposte, sin dall’inizio, sociologi, filosofi e letterati che, a seconda dell’orientamento più o meno specialistico degli studi sul campo, sono stati definiti empirici o critici e, a seconda dell’opinione più o meno ottimistica, “apocalittici” o “integrati” (Eco 2001).

Non potendo qui tracciare che alcune linee di sviluppo delle differenti correnti, sembra tuttavia necessario specificare che il problema nacque essenzialmente quando, a causa della tecnologia che impattava sulla quantità, sulla velocità e sulla razionalità dei processi

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di comunicazione, oltre che sulla determinazione dei nuovi mercati, si cominciò ad applicare, accanto alla definizione di cultura di massa, anche quella di industria culturale. I grossi numeri, l’organizzazione del lavoro su base imprenditoriale e la divisione delle mansioni sull’esempio della catena di montaggio aziendale tesero, nell’insieme, a screditare l’idea che la radio potesse essere uno strumento di creazione e di trasmissione genuinamente artistica. La commistione con la tecnica e con la massa non favoriva l’adesione critica degli intellettuali che, in certi casi erano timorosi di veder svanire l’idea di un’arte autonoma svincolata dalle pastoie della produzione di merci culturali, in altri erano terrorizzati dal pensiero che il reale potere del nuovo mezzo risiedesse nella capacità di modellare le menti di acritici fruitori da parte di organizzazioni economiche e politiche dagli intenti programmatici fintamente egualitari.

Tuttavia, le voci che si alzarono dalla schiera degli intellettuali non formarono subito un coro unico. Spiccano, ad esempio, per la loro dissonanza, quelle di Walter Benjamin e di Bertolt Brecht, data la visione utopistica che caratterizza sia le loro riflessioni teoriche, sia le loro realizzazioni pratiche. Entrambi, infatti, oltre a elaborare una propria teoria che vedeva nella radio un potente mezzo di democratizzazione e diffusione della cultura, ne hanno anche arricchito il repertorio con esperimenti radiodrammatici dall’esito originale e dimostrativo.

Il caso di Benjamin è decisamente esemplare. Nei suoi due brevi scritti “Colloquio con Ernst Schön”, apparso sulla rivista Literarische Welt il 30 agosto 1929 e “Due generi di popolarità”, pubblicato sul mensile radiofonico Rufer und Hörer nel settembre del 19324, l’autore esplicitò la convinzione che occorresse riformare la radio, abbandonando l’idea di poterne usufruire come di uno «strumento per una gigantesca impresa di istruzione popolare attraverso cicli di conferenze, corsi d’insegnamento, manifestazioni didattiche d’ogni genere e pompate in grande stile», e opponendo alla «Cultura, scritta con una C grande come una casa» la proposta di programmi educativi

4 Entrambi gli scritti sono contenuti in W. Benjamin Tre drammi radiofonici

(1978). Si veda sull’argomento anche il saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (2000).

Antologia di testi 1. Testi teorici e critici Gordon Lea, “Radio Drama and How To Write It” (1926: 34-41) “Radio Drama”

What is this new medium which is to offer greater opportunities to the dramatist?

It is the medium of Radio and the method is that of Radio Drama. Much experimenting has been indulged in since the inception of wireless broadcasting, but it was the British Broadcasting Company, through its Productions Department, that made the first serious attempt to find the right form for radio drama.

[…] Since this is in the first instance a comparison with the stage-

method, it will be as well to compare the two point by point. The result will be a series of negations as far as radio is concerned – negations albeit of the inessential, bringing us nearer to the bone.

The dramatist can have actors to speak his play, but, unlike the stage-method, they will not be seen. Their acting, as a means of interpretation of the play, must be moulded to a new technique. They have none of the aids of gesture or facial expression to give point to the spoken word. All that on the stage is seen as part of the actor’s art has to be conveyed by voice alone. This sounds impossible and at first would appear not to be a breaking through of limitations into a freer sphere, but a multiplication of limitations. We must of course admit that radio drama has its own conditions and certain limitations, but they are of such sort that they only hamper the development of the inessential. We shall see later how this is so.

Just as the visible element of the actor’s art is impossible by radio, so have we to rule out all actual presentation of scene. The scenic artist can contribute nothing to radio drama. All the art of the theatre is lost in this new medium, and stage-craft counts for nothing. “How is it possible to give a play without scenery?” is the inevitable question – a

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question, as it happens, quite unnecessary. The radio dramatist can command such a scene and setting for his play, as no scenic artist ever produced could hope to emulate. All that is spectacular on the stage, all the pageantry of it, becomes in radio drama actual and real, with not a trace of the artificiality which is inevitable on the stage.

Lighting is impossible as a distinct art in this new drama, since that is a visual thing. Yet here again we can have real lighting – not an art but an actuality.

The radio drama does not make its appeal to a crowd but to an individual. This widens the dramatist’s scope – for what will appeal to a crowd will almost certainly appeal to the individual, but it is by no means certain that what will appeal to the individual will appeal t the crowd. Here there is lacking the help which crowd-psychology may give to the illusion of a play – but there is gained the direct reaction of an individual soul.

Music is possible in this new medium – so that all the help which music can give to a stage-play can be counted on in a radio-play to represent a character as being present at the performance of an opera, and what is more, it is possible to represent it as taking place anywhere. Setting is no difficulty – it can actually take place anywhere.

Such stage-effects as thunder – the racket of a storm – the patter of rain and the swish of the sea are all possible in radio drama, and anything which can be translated into sound.

I promised a series of negations, and we have faced them. What, then, remains? The medium of radio drama can offer positively the sound of the human voice and all the sounds of nature, either actual or mechanically reproduced in imitation of nature. In other words, the means of interpreting the dramatist’s work are the Human Voice, Music and Sound Effects.

It seems a pitiable array by comparison with all the paraphernalia of the stage – a poor substitute for all the art of the theatre. And yet is it?

[…] Instead of a theatre capable of holding large numbers of people, we

have an ordinary domestic room. For audience, actually hundreds of thousands of people, not gathered together in one place, but

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individualized in their own homes. Ultimately the audience is a vast number of individuals, geographically and psychologically disparate. By means of headphones or loud-speakers they “listen” to the play. Objectively, they see nothing, but subjectively they can see everything. This is what the radio dramatist has to bear in mind. Let us see, then, what this method offers to the dramatist.

He writes his play in a form to be discussed later and offers it for radio-production. The only means of interpretation are players, music and sound-effects. Had it been for stage-production, he would have had to select his players for their voices and their appearance. Here appearance does not matter. Voice is the all-important factor. A cast is got together, whose voices are suitable for the parts and flexible enough to interpret any shade of emotion. If the dramatist has indicated the characters clearly in his text, those characters will be clearly conveyed by the agency of the player’s voice to the listener. Nay, more, they will be conveyed in essence, without any of the restrictions which a visible personality might impose. The dramatist will not be worried by any considerations of unsuitability in the appearance of the players, or by any of the individual characteristics which actor unconsciously develops in movement and in face-expression. What is written in the text will be given pure and untrammelled to the mind of the listener.

Here at last the dramatist may be sure of getting his message direct to the minds of men, uncoloured by the actor’s personality. True, the voice of the player may be, and indeed must be, individualized, i.e. it must be recognizable on hearing, so that when heard it connotes throughout the play the same character – but it is much easier to find the right voice for a part than the right person. The dramatist runs less risks by employing this medium. He, as the author of the play, is of paramount importance. There is no danger of it being made an excuse for popularizing certain individuals – it cannot be exploited in the way that many a stage-production can. It is the play, as a play, that counts.

We saw that in stage-work the “Aside” and the “Soliloquy” were incapable of sincere use. In radio-work they can be used with every appearance of sincerity and truth. An “Aside” can in radio drama be made to sound and be absolutely natural, and that and the “Soliloquy” can have as wonderful an effect as the “still small voice” in the Mount

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of Horeb. The technique of this is fairly simple and will be indicated in the chapter on Radio Actors.

He may indicate any setting for his play. There are no restrictions whatever. Stage-settings are limited by the possibility of stage-craft and the scene-builder’s art. Not so in radio drama. Any scene may be suggested and it will be adequate. A stage-scene is after all only the scenic artist’s idea of it, and whether it is our idea or not, there it remains for the duration of the play.

In radio drama the scene is built up in the imagination of the listener, and actual experience goes to the building. Each individual supplies his own idea of the scene, an idea based on reality, and so sees the play in its ideal setting. It will differ in each individual case, but that will not matter. If the scene suggested is a room, I the mind of each listener will be visualized a room he knows and the play will take on a new meaning for him. It will become something intimate to himself, enacted in a setting provided by himself.

All art is an expression of imagination – so that at the best a stage-scene is a second-hand affair – whereas the radio-scene is beyond art – it is reality itself, not an isolated expression of imagination, but imagination itself.

This avoids the convention of the missing wall, the difficulty of the Fourth Dimension – for the scene in the imagination will be real and complete. So also will the problem of perspective be solved, since no longer has distance to be suggested by artificial means within a narrow compass, but is decided by actual vision and is based on experience.

This removes all barriers for the dramatist. Anything that is conceivable in his imagination is capable of complete expression and interpretation to the imagination of his world. If he wishes to set his play in the heart of a buttercup, the imagination of his hearer will provide the setting.

This opens a new world to the dreamer of dreams, and releases for drama all the things which are difficult, if not impossible, on the stage.

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Lance Sieveking, “The Stuff of Radio” (1934: 64-78) “The Real Stuff of Radio”

If there is a part of the daily broadcast programme which is essentially and peculiarly the stuff of radio, it is, in the widest possible interpretation, the Sound Effect. And in its widest interpretation “Sound Effect” covers a very large field indeed. In fact it covers everything that could come out of a loud speaker, except what is specifically known as “music” or “speech”, and both of these from time to time are forced by imaginative producers to do jobs as Sound Effects. […] It would be a great mistake to think of Sound Effects as analogous to punctuation marks and accents in print. They should never be inserted into an already existing programme. The author and producer ought to use Sound Effects as bricks with which to build, treating them as of equal value with speech and music. […] There are six totally different primary genres of Sound Effect, which, regarded casually, might appear to approximate one to another, but which on closer examination, turn out to be quite individual and separate, both in quality and function. They are as follows:

1. The Realistic, Confirmatory Effect, which amplifies without adding to the dialogue: e.g. the sounds of a ship labouring in a storm (storm referred to in the dialogue); or the sound of a bath-tap running (bathe referred to).

2. The Realistic, Evocative Effect: e.g. the use of morse to suggest a mental conception of ships a great distance away; church-bells, bees buzzing and a moving-machine, evoking an emotion of peacefulness.

3. The Symbolic, Evocative Effect: e.g. a record of abstract rhythm of a churning and insistent nature, definitely not classifiable under the usual heading of “music”, used to express confusion in a character’s mind.

4. The Conventionalised Effect: e.g. the average sounds made for trains and horses in a radio-play, which have long been accepted by the audience just as they have long accepted the “sunset” in the theatre. Though they are, in fact, completely “convinced” by it at the moment, they know subconsciously that it is very far from the real thing.

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5. The Impressionistic Effect: e.g. a quick and comic fanfare used to mark the exits and entrances of a character in a dream; or the use of artificial echo or a voice, to indicate that the speaker is dead: or choral shouting of repeated phrases to startle the listener and mark in his mind the crisis in the character’s mind.

6. Music as an Effect: e.g. a Beethoven Symphony faded against Jazz, symbolic of the sacred and profane love forces in the characters of Kaleidoscope […]. Or the repeated insistent unfinished phrase on the organ in Mr. Petre, used to express his loss of memory.

It is axiomatic that every Sound Effect, to whatever category it belongs, must register in the listener’s mind instantaneously. If it fails to do so its presence in the play cannot be justified. […] A producer remembers also that the words which occur all round an Effect are capable of altering its nature, The dialogue can give an Effect further particular specific character which alone it would not possess.

[…] The Sound Effect, I repeat, is most truly the stuff of radio, because,

whereas everything else that is broadcast existed before wireless was invented, including the father and mother of the radio sound effect, namely, the noises-off of the theatre, the art of painting with pure sound is a new thing, peculiar to radio. And what great painting can be done with sound we shall one day know when a great artist shall use the medium…

[…] “Writing for the microphone”

The art of writing plays for the wireless medium is an art, the practice of which may be treated of in the same general terms as any other art, since it is subject to the same aesthetic and emotional laws as any other art. […] The radio dramatist, once the early stages of technique learning are over […] becomes like the composer of music, in that he hears what he writes, conceives and works out of his play before his mind’s ear. He is more like the composer than the theatre playwright in this respect, for whereas the theatre playwright has to see his play as it goes along and hear it also, the radio dramatist and the musician are dealing only with things to be heard: te radio dramatist having by far the greater orchestra to write for (since he is

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not limited to what are generally accepted as “musical instruments”) and an infinitely larger field of tone, pitch, volume, timbre, and general character of sound, for he deals not only in words, not only in music, but in every sound in the world which may be taken in its original form, or imitated; which may be used realistically or in some abstract way. The radio dramatist writes his play, as it were, with his ear alone. The world his audience and his orchestra…

Next, there will be a difference in the way he goes to work if on the one hand he is his own producer. If so he will write in a kind of shorthand at every point where the spoken words give place to other sounds. This has an obvious reason. It is like any other form of making a note for one’s own guidance. So he writes:

Up orch: out sharp: cross to 6E clock 9: mix distant steps: pause… flash of wind, bird, sea. Quick fade to close up oar + ripple. Flick (6A). PAUL (harshly): Pull! Curse you! Pull! If, on the other hand, he is not his own producer, he does what I

shall to some extent do in the plays in this book. […] For the reader’s sake, I elaborate my shorthand. The radio dramatist who is not his own producer would in the above case write:

Fade up the slow music again. After a little while it stops suddenly. The church-clock in the High Street begins to strike nine. When it reaches about four or five you hear Margaret’s footsteps going sadly down towards the market-place. These sounds trail off into silence. The Scene changes. We are back at Beachey Head. Close up of Paul in the boat with the other two men. The wind is freshening, lashing the sea up. The oars strain against the rowlocks. PAUL (harshly): Pull! Curse you! Pull! […] The dramatist remembers that most of his audience […] are

sitting in rooms alone or at most with one or two others. He remembers that a man’s reactions are very different when he is not surrounded by crowds of other people. And the playwright weighs the “truth” of a line, the inevitability of a piece of dialogue, or movement in the plot, or the goodness of a joke, with an extra, a special care. He knows how magically acute the ear becomes when the eye is not

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functioning to cloud or dress up its impressions. Pretty or interesting faces, dresses, lighting, scenery, nice legs and clever gestures conspire together to deceive the ears of the audience. […] But poor words, second-rate writing, are exposed naked and dreadful by the relentless microphone. Louis MacNeice, “Author’s introduction to ‘Christopher Columbus’: Some comments on radio drama” (1944: 393-402) “Requirements of the Medium”

‘Creative’ works written for broadcasting, while having a vastly larger public than stage-plays, novels or poetry, get, in the ordinary sense, very much less publicity. They are heard once and no one has a chance to go back to them. Only a few periodicals carry radio critiques and these are sometimes written by persons who have not fully taken in the aims and limitations of the medium. If you cannot enjoy the spoken word with your eyes shut, don’t try to criticize radio.

Sound-broadcasting gets its effects through sound and sound alone. This very obvious fact has two somewhat contradictory implications: (1) A good radio play or feature presupposes a good radio script; (2) such a script is not necessarily a piece of ‘good writing’.

This second point needs amplifying. The good writer who writes only for the page concerns himself with words alone; the radio writer has to think of words in the mouths of actors1. Consequently those subtleties which the ordinary writer uses in rhythm or phrasing – or thought – will often be superfluous and sometimes detrimental to the radio writer. An analogy (apart from the legitimate stage, where, thanks to visual compensations, a playwright can often get away with literary excrescences) can be found in the writing of lyrics for music; if you write a lyric to be set it is in most cases unnecessary, if not injurious, to employ to any extent the more fancy tricks of prosody; your significant variations of rhythm, your internal rhymes, your off-

1 The term “actors” is to be taken to include persons from real life enacting themselves.