Storia dell’obelisco e dell’orologio solare di Augusto ... MIEI EDIZIONI...

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Nicola Severino Storia dell’obelisco e dell’orologio solare di Augusto in Campo Marzio Prima edizione Roccasecca 1997 Prima ristampa Roccasecca 2011 1

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Nicola Severino

Storia dell’obelisco e dell’orologio solare di Augusto in Campo Marzio

Prima edizione Roccasecca 1997

Prima ristampa Roccasecca 2011

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Indice : Prefazione pag. 3

Naturalmente Internet 5

I Romani e la misura del tempo 6

Naturalmente Plinio 12

Il primo orologio solare romano 14

Storia, significato, etimologia degli obelischi 23

Il Campo Marzio 28

L’orologio solare di Augusto 29

Le scoperte di Rakob e Buchner 33

Il Rinascimento egizio nella Roma barocca 42

Citazioni sulla scoperta dell’obelisco di Campo Marzio 44

Ricostruzione della storia degli scavi dell’obelisco 59

Il cartiglio di Psammetico II 82

DOCUMENTI : il testo di Plinio 85

Chi era Fecondo Novo ? 88

Interpretazione della versione di La Turre Rezzonici 90

L’obelisco-gnomone di Augusto (di P.G Boffito) 99

L’altezza dell’obelisco 102

Bibliografia 110

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Prefazione Sotto l’imperatore Cesare Augusto, figlio di Giulio, Roma fu abbellita con l’innalzamento di decine di obelischi trafugati nelle molte città egizie assoggettate dagli eserciti romani. Nulla, meglio di questi antichissimi monumenti innalzati dai potenti faraoni egizi, poteva rendere gloria alla sete di divismo degli imperatori romani. Nonostante gli enormi sacrifici richiesti per imbarcarli su enormi navi, i Romani riuscirono a trasportare 42 obelischi a Roma. Uno di questi, in particolare, ha stimolato la curiosità di letterati e scienziati di ogni tempo perchè la sua funzione non era destinata, come in genere lo era, solo a rendere omaggio alla divinità solare, ma a quella più ambiziosa di fungere da gnomone per un gigantesco orologio solare che rientra in un ben più complesso progetto di sistemazione urbanistica di tutta l’area del Campo Marzio. Tale era l’idea e la pretesa del divo Augusto per il quale il sogno fu ben presto realtà. Per questo motivo, l’obelisco del Campo Marzio ha suscitato l’interesse di una ragguardevole mole di illustri personaggi che si sono avvicendati, in ogni tempo, nel cercare di ricostruirne la storia e di spiegare scientificamente l’ambizioso progetto dell’antico imperatore. Negli ultimi tempi, due archeologi tedeschi hanno affrontato seriamente, soprattutto dal punto di vista scientifico, questa ricerca che per le generalità e la storia appartiene all’archeologia e per l’aspetto tecnico appartiene puramente alla gnomonica. Il loro prezioso lavoro ha portato alla luce una parte dell’antica linea meridiana dell’intero orologio solare, confermando il pensiero di quanti in precedenza hanno fermamente creduto che l’obelisco fosse un’enorme gnomone di un gigantesco orologio solare e non di una sola linea meridiana. Ma prima che fossero intrapresi questi scavi archeologici quali erano gli studi relativi all’obelisco di Campo Marzio? E’ principalmente a questa domanda che il presente scritto vuole tentare di dare una risposta, sebbene parziale e sommaria. Infatti, il campo di ricerca storica relativo a questo argomento è

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sconfinato e le possibilità di sondarlo sono molto limitate, almeno per chi scrive che per mestiere non appartiene alla schiera dei ricercatori professionisti. Tuttavia, sarà interessante scoprire cosa scrivevano antichi eruditi a tal proposito, prima che Champollion arrivasse a decifrare correttamente i geroglifici. Prima, quindi, di avere una lettura corretta dei geroglifici scolpiti sull’obelisco; sarà ancora interessante rimaneggiare il testo di Plinio attraverso le Disquisizioni Pliniane di studiosi come Claudio Salmasio (XVII secolo) e La Turre Rezzonici (XVIII secolo), di studiosi di gnomonica come Athanasius Kircher e Francesco Jaquier. Non manca, inoltre, un buon rendiconto storico circa il primo ritrovamento archeologico dell’obelisco, attraverso le numerose citazioni in antichi codici, topografie e libri dal Rinascimento fino al nostro secolo. In Campo Marzio si è scavato, si sta scavando. Forse un giorno tornerà alla luce un altro piccolo tratto dell’orologio di Augusto. Ma siamo ancora ben lontani dalla utopistica proposta del celebre ammiraglio gnomonista Girolamo Fantoni il quale, nel suo eccellente articolo sulla meridiana di Augusto, accarezzava un’idea ambiziosa almeno quanto quella dell’imperatore romano più vecchio di duemila anni: costruire una galleria sotto le case romane del Campo Marzio perchè tutti potessero ammirare la bellezza del più grande orologio solare che il mondo abbia mai conosciuto. Nicola Severino

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Naturalmente internet… La storia dell’orologio solare che Cesare Augusto fece installare nel Campo Marzio circa duemila anni fa, comincia - guarda caso - su Internet. Non nel senso che nella grande rete telematica vi si trovi rappresentata sotto forma digitale la storia del più grande orologio solare che un uomo abbia mai costruito. Ma un semplice indizio, o meglio una data che, secondo l’autore della pagina Web in cui la notizia compare, dovrebbe considerarsi come la “scoperta” archeologica da cui ebbe inizio l’eterno ed ancora incompiuto compito di riportare alla luce il “solarium” di Augusto in Campo Marzio. Ma Internet è un ragnatela in cui è davvero impossibile sperare di trovare il classico “ago nel pagliaio”: da dove può esser saltata fuori una notizia del genere? Da una “sundial link” presente nelle pagine Web dedicate alla Gnomonica che appassionati come Daniel Roth si impegnano a divulgare attraverso Internet. In particolare, la notizia è stata a sua volta presa da una pagina sulle antichità romane intitolata “Other Romes” scritta probabilmente nei primi mesi del 1996. Peraltro l’autore dichiara anche la fonte che risulta essere il Codice Vaticano Latino 8492 fol. 21 recto. Dopo una notizia sul Borromini e sul progetto di Piazza Navona, si legge: “A. Laelius Podager, Record of Discovery of Augustu’s Sundial” Iacopo Mazzocchi, 1521 “Iacopo Mazzocchi’s first printed collection of Roman inscriptions was re-used by many scholars as a field notebook. In this copy a Roman scholar gives a firsthand account of how the remains of Augustus’s huge sundial were discovered early in the sixteenth century, by a baker digging a latrine. As Pope Julius II had no funds to spare, it was rebuired, not to be unearthed until the twentieth century.” L’autore, probabilmente americano, di questa pagina ci regala

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quindi la “registrazione della scoperta dell’orologio solare di Augusto”, avvenuta sotto Papa Giulio II e pubblicata nella collezione di antichità romane di Jacopo Mazzocchi nel 1521. Ma in Italia, e specialmente a Roma, non c’è bisogno di “navigare” in Internet per conoscere la data della “scoperta”, e a dir bene della scoperta archeologica, dell’orologio solare di Augusto. Innanzitutto è possibile dimostrare, come vedremo e documenti alla mano, che la scoperta dei resti dell’obelisco solare che Augusto fece installare nel Campo Marzio come gigantesco gnomone di un orologio solare orizzontale, è anteriore alla data riportata dall’autore della “postilla internettiana”. I Romani e la misura del tempo Come è noto, la scienza dei romani è in gran parte di origine greca. Essi la ereditarono attraverso la loro egemonia imperiale e quindi a seguito dei loro contatti con i filosofi greci che avvennero anche grazie alla mediazione del popolo etrusco. In particolare i Romani ereditarono dagli Etruschi quella che poi divenne la più romana delle discipline: l’agrimensura. E’ questa una scienza che consiste principalmente nella misurazione di limiti e confini. Una pratica quindi che stava molto a cuore ai Romani dal momento che se ne dovevano spesso servire per stabilire i limiti delle proprietà e dei confini delle terre conquistate. Dall’agrimensura, pertanto, deriva il termine groma da cui il popolare appellativo di gromatico. Il termine groma, si riferisce al particolare strumento usato per l’agrimensura e, letteralmente dovrebbe equivalere alla parola greca γνωµων (gnomon). Attraverso lo gnomone, quindi, i Romani arrivarono al concetto di Templum, cioè l’Universo quadripartito, simile ad un immenso cerchio (o sfera), nel cui centro si trova l’uomo. Lo gnomone servì a ritrovare i quattro punti cardinali di questo Universo, cioè il Decumanus, che divide il cerchio in due metà, una settentrionale e l’altra meridionale (linea Est-Ovest); il cardo, rappresentato dalla linea Nord-Sud, divide a metà le

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prime due parti. All’inizio della loro storia, i Romani scandivano il tempo della loro giornata lavorativa, religiosa e sociale solo sulla base dei due momenti principali del giorno-chiaro : l’alba e il tramonto. Essi denominavano dies il giorno e nox la notte e l’indomani era detto postridie e il giorno successivo post diem tertium eius diei (il terzo giorno dopo quel giorno). Allo stesso modo la vigilia era detta pridie e il giorno precedente ante diem tertium 1. Questo avvenne fino a circa 460 anni dalla fondazione dell’Urbe. Infatti, il punto di riferimento principale dell’intera giornata, cioè il mezzogiorno (meridies), venne ufficializzato solo nel 338 a.C. Intorno al 274 a.C. i Romani adottarono finalmente la suddivisione del giorno e della notte in 24 parti uguali con suddivisione duodenaria del giorno-chiaro. E’ il sistema delle ore cosiddette “temporarie” o “ineguali”, di durata variabile a seconda delle stagioni. Al tempo in cui Gerusalemme fu espugnata da Pompeo, cioè 63 anni a. C., era in uso il sistema del “Quadripartito” per cui sia il giorno che la notte erano suddivisi in quattro parti uguali della durata di tre ore ciascuna, ma facendo in modo che in ogni periodo dell’anno, sia la notte che il giorno venisse diviso sempre in dodici ore. Ognuna di queste quattro parti fu denominata “Vigilia”. Una notte era formata da quattro vigilie di tre ore ciascuna che cominciavano al tramonto e terminavano col sorgere del Sole. La prima era chiamata “Vespera”, la seconda “Media-nox”, la fine della terza era detta “Galicinium”, dal canto del gallo, e l’ultima “Conticinium”, contata dal tempo del silenzio, ossia dal tacere del gallo. La descrizione di Macrobio sulla divisione duodenaria del giorno presso i Romani, è alquanto chiara e completa: “Il primo tempo del giorno è chiamato inclinazione della mezzanotte; poi viene Gallicinio e quindi Conticinio, quando i galli tacciono e anche gli uomini allora riposano. Poi viene diluculo, cioè quando si comincia a distinguere il giorno; poi 1 A. Dosi-F. Schnell, Vita e costumi dei Romani antichi, in Museo della Civiltà Romana,, Spazio e Tempo, vol.14, pag. 65, ed. Quasar, Roma, 1992.

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mattino quando il giorno è chiaro. Dal mattino si arriva al mezzogiorno dal quale nasce il “tempus occiduum” cioè il tempo che va fino al tramonto; quindi arriva il supremo momento, “suprema tempestas”, cioè l’ultimo tempo del giorno che viene così espresso nelle dodici Tavole: “Il tramonto del sole sarà il momento supremo”; quindi vi sono i Vespri, il cui nome è tratto dai Greci che furono ispirati dalla stella Hespero, da cui l’Italia è chiamata Hesperia poichè era vicina al tramonto. Da questo momento si dice “prima fax” , cioè prima parte della notte in quanto si accendono le prime fiaccole. Poi viene notte “Concubia”, cioè notte fonda e quindi “Intempesta”, poichè non è favorevole allo svolgersi delle azioni”. Nella tavola 1 è rappresentata la suddivisione del giorno e della notte dei Romani, secondo l’interpretazione di Giovanni Poleno 2. 2 Joannes Polenii, Historiae Fori Romani, Romae, 1737

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L’ora temporaria, che fino ad oggi ha ricevuto diversi nomi, è caratterizzata da una durata variabile per tutto l’anno a seconda della durata del giorno (e della notte), per il fatto che essa deve essere in ogni caso sempre pari alla dodicesima parte del giorno o della notte. E’ evidente che essa cresce a partire dal solstizio d’inverno, ha una durata uguale alle ore notturne solo nei giorni di equinozio (perché la durata del giorno è uguale a quella della notte), raggiunge la sua durata massima nel giorno del solstizio d’estate e quindi comincia a decrescere in modo inverso fino al solstizio d’inverno. Se ne deduce che quando le ore diurne sono

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più lunghe, quelle della notte sono più corte e viceversa. La prima ora temporaria, comincia alla latitudine di Roma, intorno alle 4 e 27 minuti del nostro orologio nel solstizio estivo e alle 7 e 33 del solstizio invernale. Quindi, d’estate, a Roma, l’ora temporaria varia tra 1 ora e 15 minuti delle nostre ore normali e si riduce a circa 45 minuti (sempre rispetto alle nostre ore) nel solstizio invernale. Marziale rileva il fenomeno con le parole: “Hora nec aestiva est nec tibi tota perit” (3). Così, in altre parti si legge “hiberna addito”, per indicare un tempo molto breve. S. Agostino è più chiaro di tutti scrivendo: “Hora brumalis aestiva comparata minor est” (4). Durata delle ore temporarie alla latitudine di Roma: Durata delle ore diurne temporarie al solstizio d’inverno I hora prima 7.33 - 8.17 II hora secunda 8.17 - 9.2 III hora tertia 9.2 - 9.46 IV hora quarta 9.46 - 10.31 V hora quinta 10.31 - 11.15 VI hora sexta 11.15 - mezzogiorno VII hora septima mezzogiorno-12.44 VIII

hora octava 12.44 - 1.29

IX hora nona 1.29 - 2.13 X hora decima 2.13 - 2.58 XI hora undecima 2.58 - 3.42 XII hora duodecima 3.42 - 4.27 Durata delle ore diurne temporarie al solstizio estivo I hora prima 4.27 - 5.42 II hora secunda 5.42 - 6.58 3 Mart. Lib. XII. Epigr. 1 4 De vera Relig. LXXX.

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III hora tertia 6.58 - 8.13 IV hora quarta 8.13 - 9.29 V hora quinta 9.29 - 10.44 VI hora sexta 10.44 - mezzogiorno VII hora septima mezzogiorno-1.15 VIII

hora octava 1.15 - 2.31

IX hora nona 2.31 - 3.46 X hora decima 3.46 - 5.2 XI hora undecima 5.2 - 6.17 XII hora duodecima 6.17 - 7.33 I Romani usavano specificare se l’ ora era estiva (hora aestiva) o invernale (hora brumalis). Inoltre, essi tenevano particolarmente all’organizzazione della giornata quotidiana seguendo un preciso itinerario in funzione delle ore. Tracce di questa organizzazione la possiamo trovare in un famoso epigramma di Marziale :

Prima salutantes atque continet hora; Exercet raucos tertia causidicos:

In quintam varios extendit Roma labores; Sexta quies lassis, septima finis erit:

Sufficit in nonam nitidis octava palaestris, Imperat excelsos frangere nona toros.

Hora libellorum decima est, Eupheme, meorum, Temperat ambrosias cum tua cura dapes; Et bonus aetherio laxatur nectare Caesar,

Ingentique tenet pocula parca manu. Tunc admitte jocos: gressu timet ire licenti

Ad matutinum nostra Thalia Jovem. Erano inoltre assegnate delle ore fisse per i “balnea”, in genere la ottava in estate e la nona in inverno, detta anche “hora lavandi”, ed altre ancora.

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Naturalmente Plinio La gran parte delle cose che sappiamo sulla scienza antica, greca e romana, provengono da opere a carattere enciclopedico, redatte perlopiù attorno all’inizio dell’era Cristiana. Gli autori di queste monumentali opere, rivolte a raccogliere cognizioni relative su tutto il sapere dell’epoca, o solo per alcune discipline, non erano scienziati come lo erano Archimede, Tolomeo o Galeno. Ne è un classico esempio Cicerone il quale, pur avendo elaborato una versione dei Phaenomena di Arato, non era certo un astronomo. Ma forse il maggiore autore di questo caratteristico enciclopedismo romano fu Caio Plinio Secondo Maggiore, vissuto dal 23 al 79 d.C. Pare che per redarre la sua opera “Naturalis Historia, dedicata all’imperatore Tito, e rivolta ai lettori desiderosi di conoscere in modo facile tutta la scienza della sua epoca, abbia letto e compendiato più di duemila opere scientifiche. Nei suoi trentasette libri, Plinio raccoglie informazioni circa la cosmologia, la geografia, l’antropologia, la fisiologia dell’uomo, la zoologia, la botanica e la mineralogia. Anche se l’opera di Plinio è molto lontana dai risultati ottenuti dagli scienziati greci, si deve prendere atto che mai prima di lui fu tentata un’impresa tanto audace. E, soprattutto, bisogna tener conto che senza questa grande enciclopedia antica, gran parte delle conoscenze di allora ci sarebbero oggi ignote. E, in effetti, l’argomento oggetto di questo scritto e molte informazioni sulla gnomonica di quel tempo ci sono pervenute solo grazie a Plinio. E’ anche vero che alcune notizie fanno rimanere perplessi gli studiosi di gnomonica. Per esempio, non si è mai capito per quale motivo Plinio abbia citato Anassimene e non Anassimandro (come è più probabile che sia) quale inventore a Sparta dell’orologio solare. Oppure, come mai non abbia fatto cenno degli innumerevoli orologi solari che erano in uso ai suoi tempi, dal momento che sappiamo dell’esistenza degli orologi citati da Vitruvio. A parte Varrone e Censorino, le uniche citazioni sui primi

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orologi solari che ebbe Roma, come vedremo, sono di Plinio, come sua è l’unica menzione dell’orologio solare di Augusto in Campo Marzio. La Historia Naturalis ci è giunta attraverso una processione infinita di ignoti amanuensi che si sono prodigati nel trascrivere, compendiare, interpretare, arricchire e...purtroppo, modificare a proprio piacimento il testo originale che risulta, oggi, irrimediabilmente e profondamente corrotto in moltissime parti. Questo stato di cose ha portato, soprattutto nei secoli XVII e XVIII, alcuni autori eruditi alla stesura di opere destinate ad emendare, nel possibile e sulla scorta di tutti i codici e documenti antichi allora a disposizione nelle più celebri biblioteche cristiane, i passi che risultavano profondamente modificati dell’opera di Plinio. Tra questi autori, si distinsero particolarmente il francese Claudio Salmasio prima, e Antonio Giuseppe Comite a Turre Rezzonici dopo, con le loro opere “Disquisitiones Plinianae”. Ai nostri tempi si sono scomodati addirittura un’esercito di studiosi, diretti da Jean Soubiran, le cui ricerche, condotte sulla scorta di molti codici e pubblicate dalle edizioni francesi Belle Lettres, hanno portato alla redazione di quella che dovrebbe essere la versione “definitiva” del testo pliniano. Ma come è ovvio supporre, esistono solo correzioni su correzioni. Il vano tentativo non è solo un sogno degli autori moderni. Insomma, il povero Plinio quando scrisse la sua opera, non sapeva affatto che sarebbe stato perseguitato da tutti questi studiosi per più di duemila anni! Ma pare che, soprattutto in diversi passi letterari del testo di Plinio che più ci interessano dal punto di vista della gnomonica, le frasi emendate risultino addirittura più oscure di quelle tramandateci dall’antichità. E’ il caso, per fare un esempio, del “costruttore” dell’orologio di Augusto. Laddove in molti testi rinascimentali, e anche fino al nostro secolo, veniva indicato Manlio Matematico (di cui sappiamo almeno qualcosa), oggi risulterebbe un certo “Facondio Novo” di cui non si può

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supporre nemmeno l’esistenza! Ma di questo parleremo più approfonditamente nelle pagine seguenti.

Il primo orologio solare romano. Come si è detto, le notizie relative all’uso degli orologi solari in Roma sono quelle tramandateci da Plinio nella famosa “Storia Naturale”. Il capitolo 60 del libro secondo di tale opera riassume tutto quello che sappiamo a tal proposito. Noi lo riproponiamo in una moderna traduzione in quanto il testo pliniano è più semplice e chiaro di quanto hanno scritto finora gli gnomonisti nei loro trattati5. “Il terzo accordo riguardò la divisione del tempo in ore...(...). Anche questa innovazione giunse con ritardo in Roma. Nelle leggi delle dodici tavole6 si parla solo di alba e di tramonto; alcuni anni dopo fu aggiunto il mezzogiorno, che era annunciato dal messo dei consoli quando scorgeva il sole fra i Rostri e la Grecostasi7. Quando poi il sole si era inclinato dalla colonna Menia verso il carcere, il messo annunziava l’ultima ora del giorno; ma questo soltanto nei giorni sereni. Tale uso durò fino alla prima guerra punica. Fabio Vestale8 racconta che, undici anni prima della guerra contro Pirro9, Lucio Papirio Cursore 5 Plinio II il Giovane, Storia Naturale, C. 60, 212 p. 131, lib. II. Edizione Einaudi, Torino, 1982. 6 composte secondo la tradizione, tra il 451 e il 450 a.C. 7 I Rostri erano la tribuna da cui parlavano gli oratori; la Grecostasi era il luogo dove gli ambasciatori attendevano prima di essere introdotti in Senato. 8 Di Fabio Vestale, antico scrittore romano, non si sa quasi nulla. 9 Dunque nel 293 a.C. Il Commentaire di Jean Soubiran al testo di Plinio delle “Belles Lettres”, riporta: “Le primier cadran solaire aurait été installé en 293 avaint J.-C., onze ans avant la guerre de Pyrrhus. Seloc la juste observation du P. Hardouin, le chiffre “onze”, donné par la plupart del ms., est à maintenir. En effet la guerre de Pyrrhus est datée par Pline lui-meme (8, 16) de

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collocò il primo orologio solare presso il tempio di Quirino, nel momento in cui consacrava tale tempio sciogliendo il voto fatto da suo padre. Ma Fabio Vestale non descrive il funzionamento di questo orologio, non dice il nome del suo costruttore, nè il luogo dove fu costruito; e tace anche il nome della fonte da lui tenuta presente. Marco Varrone10 afferma che il primo orologio collocato in un luogo pubblico fu quello fatto sistemare su una colonna presso i Rostri durante la prima guerra punica dal console Mario Valerio Messalla dopo la presa di Catania in Sicilia; questo orologio fu trasportato da Catania 30 anni dopo la data a cui la tradizione attribuisce l’orologio di Papirio, cioè nell’anno 491 di Roma (263 a.C.). Le linee di questo orologio non corrispondevano con precisione alle ore; tuttavia esso rimase la massima autorità per novantanove anni, finché Quinto Marcio Filippo, che fu censore insieme a Lucio Paolo11, fece installare accanto a quello antico un nuovo orologio diviso con maggiore precisione; e questo dono risultò fra gli atti più graditi della sua censura...”. Ritornando al capitolo 60 del Libro II di Plinio, come si vede, nelle versioni moderne si riporta che Roma ebbe il suo primo orologio solare “undici anni prima della guerra contro Pirro”, mentre in diverse versioni precedenti è scritto “dodici anni prima...” (ante duodecim annos...), e Claudio Salmasio (XVII secolo) indica altri codici che riportano “ante III decim annos”, cioè 30 anni prima della guerra contro Pirro e quindi il primo orologio solare dei Romani potrebbe datarsi al 311 a.C, ma è un’ipotesi da scartare, in quanto la dedica del tempio di Quirino avvenne nel 293 a.C., e quindi è questa la data in cui Roma ebbe il suo primo orologio solare. l’an de Rome CCCLXXII (=282 avant J.-C.) et la dédicace du temple de Quirinus a eu lieu en 293 avant J.-C. (Tite-Live, 10 46, 7). L’événement aurait donc eu lieu onze ans avant cette guerre...”. 10 Antiquitates rerum humanarum XV, fr. 3 Mirsch. 11 nel 164 a.C.

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A dimostrazione di come sia stato corrotto il testo di Plinio e di come sia possibile anche per autorevoli studiosi cadere in errore quando gli avvenimenti sono incerti, è interessante notare che Claudio Pasini, autore di uno dei più popolari ed accreditati libri sulla gnomonica di questo secolo (almeno in Italia) Orologi Solari, 1900, riporta (e con lui anche diversi altri scrittori) la data del 263 a.C12. per il primo orologio solare di Roma, ma egli si confonde forse con la frase di Varrone (citato da Plinio subito dopo) che menziona quello che dovrebbe essere il primo orologio solare installato nel Foro di Roma, ma il secondo che ebbe Roma. Infatti, anche Censorino scrive: “Illud satis constat nullum in foro prius fuisse quam id quod M. Valerius ex Sicilia advectum ad Rostra in columna posuit”, supponendo che si tratti del primo orologio solare posto nel foro di Roma. Si tratta di un orologio trafugato dai Romani molto tempo dopo aver sconfitto l’esercito di Pirro e dopo aver assoggettato la città di Catania. Ma come è ovvio, l’orologio, costruito per la latitudine di Catania, non poteva funzionare bene per la latitudine di Roma e quindi, secondo quanto è sempre stato scritto nei libri, indicò ai Romani le ore inesatte per 99 anni (nec congruebat ad horas ejus linea: patuerunt tamen ei annos undecentum). Fu solo nel 164 12 Pirro attaccò per la prima volta i Romani nel 281 a.C., quando accorse in aiuto dei Tarentini che si ribellavano a Roma, ma con l’ambito disegno di annettere al suo regno anche la Magna Grecia. Il Commentario di J. Soubiran riporta: “ M’. Valerius Maximus Messala obtint, en meme temps que son collègue M’. Otacilius Crassus, dès 263 avant J.-C. - c’est-àdire, la seconde année de la I° guerre punique - le consulat et la conduite de la guerre en Sicile. La meme année 263 (= an de Rome 491) marque la prise de Catane. Ce chiffre - an de Rome 491 - correspond à l’intervalle de temps - trente ans - qui, seloc Pline, s’est écoulè depuis l’installation en 293 avant J.-C. (= an de Rome 461) du cadran solaire de Papirius”.

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a.C. che M. Filippo censore ne fece costruire uno più preciso per la latitudine di Roma. Anche a questo proposito gli autori, soprattutto storici non esperti di gnomonica, non si sono dispensati dal fare osservazioni eccessive e fuori luogo. Jérome Carcopino, nel suo libro La vita quotidiana a Roma, edito dalla Universale Laterza nel 1967, scrive: “...M. Valerio Messalla aveva riportato tra il suo bottino di Sicilia il quadrante solare di Catania, e lo fece rimontare tal quale sul comitium, dove per più di tre generazioni, le linee tracciate sul polos per un’altra latitudine dispensarono ai romani ore senza rapporto alcuno con la realtà...(...) ci è lecito credere che durante questo lungo periodo (99 anni), rimasero con ostinazione più che nel loro errore, nella loro ignoranza...”. Innanzitutto, è molto probabile che l’orologio trafugato a Catania fosse del tipo “hemyciclum ad enclima succisum”, che pochi decenni prima aveva inventato Beroso Caldeo in Grecia, e non il “polos” che è invece il vecchio “hemisphaerium”. Inoltre, stando alle parole di Plinio, l’hemicyclium è forse l’orologio antico più adatto ad essere installato su una colonna, come quello che si vede nell’antica Pompei, non certo l’hemisphaerium nel quale, essendo a calotta emisferica, diventa difficile leggere le ore se posto troppo in alto come su una colonna da piazza. E’ probabile che Messalla sia stato anche attirato dalla novità di un orologio solare nuovo, mai visto prima. Comunque, l’orologio di Catania avrebbe si indicato a Roma ore inesatte, ma con un’approssimazione non maggiore di 5-10 minuti che all’epoca non poteva essere tanto evidente da fare scalpore, se si considera che anche oggi, nonostante gli innumerevoli impegni della vita quotidiana, 5-10 minuti rientrano nelle approssimazioni “umane”. E’ sbagliato quindi asserire, solo sulla base di questo fatto citato da Plinio, che i Romani furono poco accorti nelle scienze. Il modo di fare storia della gnomonica è stato sempre caratterizzato, dal Rinascimento ad oggi, da una ingiustificabile

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negligenza da parte di molti autori, nel raccogliere citazioni e fonti senza mai verificarne la veridicità. E’ per questo che i libri di gnomonica contengono moltissimi “luoghi comuni” storiografici i quali non fanno altro che ripetere le approssimazioni e gli errori di autori poco accorti, o di quanti hanno inteso la storia degli orologi solari materia “bistrattata” adatta solo a formare una breve introduzione ai trattati tecnici sull’argomento. Per curiosità si riporta il breve passo che riguarda i primi orologi solari di Roma, nelle versioni di due celebri autori di gnomonica, Oddi Muzio da Urbino, in “Orologi Solari”, del 1614 e di Claudio Pasini, in “Orologi Solari” del 1900. Il lettore noterà senz’altro la ripetizione, quasi letterale, delle informazioni fornite da Muzio circa trecento anni prima e date ormai per scontate. Oddi Muzio : “...E perciò fu molto stimato l’horologio, che doppo la presa di Catania vi trasportò M. Val. Messala, e l’altro che trent’anni dopo, vi fu condotto da L. Papirio Cursore per adempiere il voto fatto da Papirio suo Padre ; che sebbene né l’uno, né l’altro mostrava l’hore puntualmente giuste, per essere fabbricati al Clima di Sicilia, se ne servirono nondimeno per lo spatio quasi di cento anni, finche da Q. Marcio Filippo Censore, ne fu posto un’altro vicino a questi due, fabbricato dalla propria latitudine di Roma....” . Claudio Pasini : “La prima meridiana fu portata a Roma da Catania al tempo della prima guerra punica (263 a.C.) da Marco Valerio Messala e fu posta, come narrano Varrone e Plinio, fra le colonne (rostra vetera) della tribuna del Foro. Trent’anni dopo un altro ne fu condotto da L. Papiro Cursore, e sebbene né l’uno né l’altro indicassero esattamente le ore, essendo fatti per la latitudine di Sicilia, i Romani se ne servirono per circa cent’anni, finchè da Q. Mario Filippo Censore ne fu posto un terzo vicino a questi due, costruito per la latitudine di Roma...”.

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In seguito furono costruiti molti altri orologi solari sparsi per tutta la città, tanto da far disperare il parassita della Boeotica di Plauto che si lamenta dicendo:

Ut illum Di perdant, primus qui horas repperit, Quique adeo primus statuit hic solarium,

Qui mihi comminuit misero articulatim diem. Nam me puero venter hic erat solarium

Multum omnium istorum optumum ac verissumum. Ibi iste monebat esse, nisi cum nihil erat,

Nunc etiam quod est, non estur nisi soli lubet. Itaque jam oppletum est oppidum solariis

Major pars populi aridi reptant fame. Il cui significato è: “Possano gli Dei perdere colui che è stato il primo a portar quest’orologio; un tempo la fame era per me la migliore e la più certa ora che mi avvertiva; ma oggi non posso che mangiare quando piace al sole: bisogna consultarne il corso e tutta la città è piena di orologi” (13). Il termine “solarium” per indicare un orologio solare, era molto diffuso presso i Romani. Leo Allazio, nel De mensura Temporum, del 1645 (cap. VI), scrive che “i Romani chiamavano Solario non solo il luogo costruito sulla sommità delle case (solaio), nel quale ci si riscalda, ma anche un luogo frequentato e celebre perchè qui, come ipotizza Pietro Vittorio, c’era disegnato in qualche parete una “ratio horarum”, ovvero un orologio solare. E’ certo che al tempo di Vitruvio i Romani dovevano servirsi abitualmente sia degli orologi solari che delle clessidre a sabbia o ad acqua, ne è una prova il capitolo IX dell’Architettura, dedicato alla gnomonica e alle diverse specie di orologi solari. Sicuramente il famoso architetto dovette avere sott’occhi tutti gli 13 Il testo latino l'ho trascritto dall'opera di Salmasio e sono evidenti alcune parole non uguali alle altre versioni, d'altra parte lui assegna a queste dei diversi significati.

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orologi elencati di cui Roma e le Province ne dovevano essere piene. A noi sono pervenuti un buon numero di esemplari e, oltre ai già citati ritrovamenti di orologi solari, possiamo aggiungere un interessante elenco che fece P. Romano (14): “Nella tenuta di Grotta perfetta, in occasione di scavi, si rinvenne un orologio solare marmoreo con lo stilo di ferro. A Tor Paterno, negli ultimi anni del 1700 se ne trovò uno di grande interesse. Purtroppo, però, fu portato in Inghilterra e solo una copia in gesso se ne riservò il Museo Vaticano. Il Settele rilevò che le linee orarie che negli altri orologi sono delimitate dai circoli dei tropici, in questo erano prolungate fin quasi alla base dello stilo. Lorenzo Re, professore all’Università La Sapienza di Roma, possedeva nel 1815 un orologio solare trovato presso il Circo di Caracalla. L’Antonini (1790), riprodusse in incisione ben diciotto altri orologi solari rinvenuti in Roma e nella Provincia. Il cosiddetto orologio solare “capitolino” fu trovato presso Castelnuovo di Porto. Benedetto XIV (1751) lo fece restaurare, mettervi lo stilo e collocare su una finestra del Museo Capitolino affinché anche oggi - secondo quanto dice l’iscrizione incisa sopra - ci potesse mostrare le ore ineguali degli antichi”. A queste citazioni vorrei aggiungere, per non dimenticarmene, un interessante orologio ritrovato nel vecchio Porto di Anzio. Senz’altro non se ne sono visti altri uguali. Sembrerebbe appartenere alla famiglia degli Scaphen perchè si tratta di un orologio descritto in uno scafio e poggiato su un piedistallo. 14 P. Romano, Orologi di Roma, Anonima Romana Stampa, Roma, 1944. p. 6. Esemplare edito in sole trecento copie.

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Storia, significato, etimologia degli obelischi C’era una volta l’Egitto... Quando i Greci cominciarono ad interessarsi ai monumenti degli antichi Egizi, rivolsero particolare attenzione agli obelischi e alle piramidi. Attorno al 3000 a.C. sembra che qualcosa di somigliante ad un blocco di pietra, o forse proprio un monolito a quattro facce, e modellato sul vertice a forma di cuspide piramidale (detto alla greca pyramidion), fosse consacrato al dio sole primordiale: e Re, o He-Harakhti o Khepri (il sole all’alba), Ra (il sole allo zenit) e Atum (il sole al tramonto). Tali pietre erano denominate ben, o benben le quali, secondo la tradizione, erano da tempo immemorabile esistite a Junu (significa “pilastro”), luogo denominato successivamente dai Greci “Heliopolis”, la città consacrata al dio sole. Anche Plinio testimonia che gli obelischi simboleggiavano i raggi del sole, e perchè questa funzione fosse più evidente, gli egiziani ricoprirono d’oro e di altro metallo riflettente le cuspidi di questi monoliti. Gli Egiziani, chiamavano anticamente gli obelischi col nome man e, successivamente, tekhen, o tekhenu, la cui etimologia è incerta. Essi erano considerati l’espressione più antica ed astratta della luce solare. Il vertice figurava il punto di partenza del raggio, il centro stesso del potere solare; la base invece la materia informe che la luce solare, simbolo di quella divinità, trasformava in cosmo15. Athanasius Kircher così definisce gli obelischi: “Columnae hieroglyphiacae quadrilaterae sensim versus apicem gracilescentes et, deinde in parvam pyramidem truncatae”16. Una iscrizione dovuta all’imperatore Teodosio (347-395 d.C) sulla base dell’ obelisco da questi eretto nell’ippodromo di Costantinopoli (originario di Karnak e fatto costruire da Tutmosis III), riporta: “ΚΙΟ‘ ΝΑ ΤΕΤΡΑΠΛΕΥΡΟΝ , etc.”, in latino “Columnam quadrilateram simper terrae incubans onus Solus erigere Theodosius Imperator Ausus est, etc.”. 15 Simboli, miti e misteri di Roma, Newton Compton, p. 49 16 A. Kircher, Obeliscus Phamphilius, Romae, 1650

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I primi grandi ed importanti obelischi furono innalzati proprio ad Eliopolis, città che doveva poi essere tormentata dalla furia degli eserciti romani, tanto che un solo obelisco, quello di Sesostri I (1971-1928 a.C.) sembra sia rimasto in piedi in quell’antica città. Ma anche a Tebe, pilastro meridionale di Eliopolis, furono eretto molti obelischi, ed anche qui ne sono rimasti in piedi solo tre! Infine, Pi-Ramesse, la città del più megalomane faraone dell’Egitto, Ramsete II, fu riempita di questi “spiedi” calcarei, anche a costo di usurpare il suolo delle altre antiche città, trafugando blocchi interi degli obelischi innalzati dai faraoni precedenti17. I Greci, coniarono per il termine tekhen la nuova parola obelìskos che significa “spiedino” dalla sua caratteristica forma sottile e allungata. Mentre gli arabi lo denominarono messalah, con riferimento ad un grosso ago. Le occasioni per costruire ed erigere gli obelischi certo non mancavano ai faraoni egizi. Oltre che a consacrarli al dio sole, venivano eretti anche accanto ai templi nei giorni in cui veniva festeggiato il giubileo del sovrano che, in genere, si rinnovava al trentesimo anno di regno e successivamente ogni tre anni. Altra occasione era data dalle vittorie delle battaglie militari. Di conseguenza, su quasi tutti gli obelischi si trovano raffigurate le iscrizioni in geroglifico che attestano il significato della loro erezione. Ma raramente i fatti narrati rispecchiano la storia vera. Particolarmente sospette, per esempio, sembrano le vanterie riportate sugli obelischi innalzati da Ramsete II, mentre più veritiere sembrano quelle di Tutmosis III. La maggior parte degli obelischi sono di granito, ma ne esistono anche altri di quarzite e basalto. Grandi cave di granito rosso si trovano in Egitto presso l’area di Aswan, soprattutto dall’isola Elefantina e di Seheil. Non si conoscono testi egizi che attestino le procedure di costruzione degli obelischi, ma ci resta una importante testimonianza dalla quale è stato possibile dedurre 17 Habachi L., I segreti degli obelischi, Newton Compton, Roma, 1978, p.11 e segg.

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quasi ogni particolare sul procedimento di fabbricazione usato dagli Egiziani: un obelisco incompiuto che è rimasto nell’originario sito di Aswan (fig.3). Questo obelisco è un monumento mancato a causa di una spaccatura verificatasi nel banco di roccia. Dopo i necessari sondaggi per accertare la natura della roccia e la sua compattezza, si procedeva al distacco delle fiancate del monolito. Tale distacco poteva avvenire, presumibilmente, mediante colpi di percussori realizzando una trincea attorno al monolito. Dopo che era stato staccato dalla roccia madre, doveva essere trasportato fino al pianoro e quindi fino al Nilo per essere poi imbarcato e trasportato nella città di destinazione. Per l’innalzamento dello stesso, il lettore può farsi un’idea osservando la fig. 4 18.

18 Ibid. pag.33

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Il Campo Marzio Prima di parlare dell’Obelisco di Augusto, sarà utile qualche informazione storica sul luogo per il quale l’imperatore aveva deciso di effettuare la sua bonifica e i suoi progetti di

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sistemazione architettonica. Il termine Campo Marzio indica, generalmente, la pianura compresa tra il Campidoglio e il Tevere che si estende fino alle pendici del Quirinale e del Pincio. Tuttavia, la zona orientale della Via Lata, fu esclusa dal Campo Marzio attorno al 221 a.C., dopo che fu costruita la via Flaminia. Ma Campo Marzio, poteva anche significare una grande zona sgombra di edifici pubblici e destinata a zona militare, oppure, in senso più ristretto, la zona destinata ai comizi centuriati e poi a quelli elettorali. La leggenda sulle origini di Campo Marzio lo ricollega ai Tarquini che ne dovevano essere i proprietari in qualità di agro regio. Quando invece i Tarquini furono espulsi da Roma, l’area del Campo Marzio divenne pubblica. Nella zona centrale sorgeva un santuario molto antico, l’Ara di Marte, che assumeva evidentemente un significato più propriamente militare. Al centro erano i “Saepta”, una grande piazza rettangolare dove si riunivano in età repubblicana i comizi centuriati e quelli elettorali. Della prima fase repubblicana, restano solo alcuni santuari quale testimonianza edilizia. Nel II secolo a.C. comincia a svilupparsi un tipo di urbanistica monumentale, soprattutto nell’area circostante il Circo Flaminio. Nel periodo augusteo il Campo Marzio fu oggetto di opere di bonifica da parte dell’imperatore il quale rivolse la sua attenzione all’urbanizzazione della parte centrale della pianura ed al rifacimento integrale del complesso di edifici circostante il Circo Flaminio. L’orologio solare di Augusto L’Imperatore, a decorazione del Campo Marzio, pensò di far erigere un orologio solare grandioso che fosse a un tempo calendario e indicatore delle ore, e fra l’Ara Pacis e i portici di Agrippa, nel mezzo di un gran parco innalzò un obelisco, destinato a proiettare l’ombra sopra un gran pavimento di

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travertino. L’obelisco-gnomone, fu rimosso dalla sua sede originaria ad Eliopolis, in Egitto, nell’anno 12 a.C.; esso fu eretto dal faraone Psammetico II, seicento anni prima della rimozione. Fu trasportato con una grossa chiatta fino al porto di Pozzuoli e trasferito su un’altra imbarcazione con la quale raggiunse la foce del Tevere. La descrizione dell’orologio ci è stata lasciata, come al solito, dal naturalista Plinio il Vecchio nel seguente passo della sua Historia Naturalis tratto dalla traduzione di Antonio Corso, Rossana Mugellesi e Giampiero Rosati, recentemente pubblicato dalla Einaudi (vol. V, Libro XXXVI, .15,pag. 627): All’obelisco che è nel Campo Marzio il divino Augusto attribuì la mirabile funzione di segnare le ombre proiettate dal sole, determinando così la lunghezza dei giorni e delle notti: fece collocare una lastra di pietra che rispetto all’altezza dell’obelisco era proporzionata in modo che, nell’ora sesta del giorno del solstizio d’inverno l’ombra di esso fosse lunga quanto la lastra, e decrescesse lentamente giorno dopo giorno per poi ricrescere di nuovo, seguendo i righelli di bronzo inseriti nella pietra: un congegno che vale la pena conoscere, e che si deve al matematico Facondo Novio. Questi aggiunse sul pinnacolo una palla dorata, la cui estremità proiettava un’ombra raccolta in sé, perchè altrimenti la punta dell’obelisco avrebbe determinato un’ombra irregolare - a dargli l’idea fu, dicono, la testa umana. Questa registrazione del tempo da circa trent’anni non è più conforme al vero, forse perchè il corso del sole non è rimasto invariato, ma è mutato per qualche motivo astronomico, oppure perchè tutta la terra nel suo complesso si è spostata in rapporto al suo centro (un fatto che - sento dire - si avverte anche in altri luoghi), oppure semplicemente perchè lo gnomone si è smosso in seguito a scosse telluriche, ovvero le alluvioni del Tevere hanno provocato un abbassamento dell’obelisco, anche se si dice che se ne siano gettate sottoterra fondamenta profonde tanto quanto è alto il carico che vi si appoggia. Quindi Plinio ci fa sapere che la lettura dell’ora “dopo trent’anni non corrispondeva più, sia che il sole stesso avesse mutato il suo corso per qualche rivolgimento celeste, sia che tutta la Terra si

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fosse spostata dal suo centro, -come riferiscono essere stato osservato anche in altri luoghi- sia che lo gnomone si sia inchinato sul posto a causa dei terremoti, sia infine che il terreno abbia ceduto in seguito alle inondazioni del Tevere”. Ma il commento di Plinio fa sorridere alcuni archeologi i quali non ammettono che un matematico romano potesse sbagliarsi nei suoi calcoli, e ancor meno che un architetto facesse delle cattive fondazioni, anche con tutti i terremoti ed alluvioni possibili. Ma è evidente che le cause sono da ricercare, molto probabilmente, in un semplice dissesto del suolo a causa di qualche terremoto, con un conseguente spostamento dell’obelisco che, sebbene all’apparenza non risulti, si rende evidente nella lettura dei punti d’ombra. Ma per questo aspetto, si veda più avanti il paragrafo relativo al testo di Plinio commentato dal Rezzonici. L’orologio fu inaugurato il 9 a.C., per integrare un progetto architettonico ed urbanistico speciale : “ Il gigantesco “solarium” venne finito e inaugurato nel gennaio del 9 a.c., insieme con un altro elemento del grande progetto, la famosa “ara pacis”. Il complesso risultava composto dal “solarium”, dall’”ara pacis”, dal “mausoleo” (tomba imperiale) e dall’”ustrino” (inceneritore), elementi tutti collegati tra loro geometricamente, topograficamente e simbolicamente, raccolti in una tematica unitaria dominata dall’esaltazione della divinità imperiale”19. In effetti, è molto probabile che la disposizione dell’orologio solare di Augusto fosse tale che “l’ombra della boccia collocata sulla cima dell’obelisco, che simboleggiava Augusto, il sole Apollo, toccava l’Ara Pacis (l’altare della pace) in un dato momento a confermare che Augusto era nato per la pace. Infatti, quest’altare segnala la linea equinoziale che coincideva con la data di nascita dell’imperatore (23 settembre). Inoltre, l’asse tracciato dall’obelisco all’altare della pace formava un angolo retto con quello dell’obelisco del Mausoleo di Augusto”20. 19 G. Fantoni, La meridiana di Augusto, Orologi. Le misure del tempo, ed. Technimedia, Roma, n° 10, 1988, p. 107. 20 A. Dosi-F. Schnell, Spazio e tempo, in Vita e costumi dei Romani antichi - Museo della civiltà romana, edizioni Quasar, Roma, 1992, p.75.

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Il testo di Plinio, già fortemente discusso dagli eruditi di tre o quattro secoli fa, dà delle indicazioni piuttosto precise sulla natura calendariale del monumento, ma non sulla funzione di orologio. Il Bandini, nel secolo XVIII, per meglio chiarire la descrizione di Plinio, suppose che “verso tramontana si formasse un lastricato di pietre quadrate, di lunghezza proporzionata all’altezza dell’obelisco, cioè di tale lunghezza, che potesse da tutta l’altezza del monolito ricevere l’ombra meridiana nel giorno del solstizio d’inverno, la quale ombra è la più lunga fra quelle meridiane, che sieno gettate dal sole in tutto l’anno e quindi che si facesse segnare in questo strato per lungo con delle lamine o regole di bronzo indorato le lunghezze delle ombre meridiane in diversi tempi dell’anno, e che, finalmente, si volesse che si denotassero ancora le grandezze o quantità dei giorni e delle notti parimente con delle righe di bronzo indorate e incastrate nel detto pavimento. Queste linee dovevano giacere perpendicolarmente a traverso della meridiana e dovevano essere di diverse grandezze, corrispondendo da una parte alla lunghezza dei giorni e dall’altra a quelle delle notti. Onde, battendo l’ombra della palla, posta in cima all’obelisco, in una di esse o vicino ad alcuna delle medesime, doveva mostrare il rapporto che la lunghezza di tutto quel giorno aveva con tutta quella notte, o con qualunque altro giorno e l’altra notte dell’anno, col mostrare il rapporto di quelle righe alle altre righe di bronzo” (21). Probabilmente la linea meridiana calendariale venne realizzata dopo che fu innalzato l’obelisco, e non si conosce come fosse stata posata la sfera sulla sua cima. Si crede che il globo fosse inserito in maniera che non superasse l’altezza della guglia, o dopo aver recisa tanta parte della guglia stessa, quanta era la grandezza della sfera; oppure poteva, questa, essere incastrata nella cuspide in modo che l’uno e l’altro avessero uguale altezza (22). Il Fantoni ha calcolato gli intervalli tra i regoli delle date che avrebbe dovuto disporre il costruttore Facondio Novo, o Manilio matematico, disposti perpendicolarmente alla linea meridiana. 21 P. Romano, op. cit. pag. 10 22 Idem, p. 10

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Egli ha trovato che lo spazio tra ogni regolo è nullo ai solstizi, quando anche la variazione della lunghezza d’ombra è praticamente nulla, e raggiunge un massimo di 56 cm nei periodi di febbraio e novembre. Inoltre egli ha calcolato che per un’altezza dell’obelisco pari a 29.42 metri, l’eventuale orologio solare avrebbe avuto i suoi punti orari estremi (ore 1 e 11 temporarie) lontani 260 metri dallo stesso obelisco-gnomone. In un orologio solare di tali dimensioni è difficile pensare che vi siano state inserite tutte e sette le linee di declinazione solare. Sicuramente vi era riportata la linea equinoziale perché, come detto, rientrava nel progetto urbanistico dell’imperatore(23).. Plinio pare facesse riferimento anche ad una eventuale indicazione sullo strumento della durata dei giorni e delle notti. Ciò si ottiene mediante due segmenti compresi tra il punto estremo della linea meridiana e i punti mediani degli spazi orari tra le 3-4- e 8-9 sulla curva del solstizio estivo. Ma pare che non siano state ancora ritrovate tracce di queste linee. Le scoperte di Buchner e Rakob Nel 1976, l’archeologo tedesco Buchner, insieme poi al suo collega Rakob, dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma, intrapresero le ricerche dell’antico “solarium” di Augusto, sulla scorta di tutte le possibili informazioni disponibili. Lo studio di Buchner rappresenta soprattutto una sintesi dell’immenso progetto augusteo di urbanizzazione del Campo Marzio, e perciò le notizie sull’orologio solare si fondono insieme ad una marea di altre considerazioni archeologiche sui monumenti del luogo. Anche se lo studio di Buchner si presenta oggi come la soluzione al dilemma se l’obelisco campense fosse un gigantesco gnomone per la sola linea meridiana o per un intero orologio solare, è tuttavia doveroso precisare che già nel XVI secolo il Masi, e nel 23 G. Fantoni, op. cit., pag. 110

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XVII secolo, il Kircher, sostennero che dovesse trattarsi di un intero orologio solare ad ore temporarie. Addirittura Kircher, nel suo volume Obeliscus Pamphilius, del 1650, ci regala un disegno di come doveva essere l’orologio di augusto. Ed è assolutamente sorprendente vedere, oggi, come quel disegno combaci perfettamente con i moderni progetti dell’antico tracciato (fig. 32). Nel XVIII secolo, il noto Francisco Jaquiero, scriveva una erudita nota al testo di Antonio Giuseppe Comes Turre Rezzonici, “Disquisitiones Plinianae” (che riprenderemo tra breve) in cui è molto esplicito a tal riguardo : “Insignem Campi Martii Obeliscum, non unicè ad meridianum tempus indicandum (ut Mathematicis videtur) ab Augustus positum, sed integras Sciotherici horologii vices praestisse, ostendere confido ex verbis”. Inoltre, la scoperta di Buchner del tracciato originale è solo una “riscoperta”, in quanto, come si vedrà meglio nelle citazioni storiche, esso fu ritrovato nel 1463. La ricostruzione dell’intero orologio solare, secondo Buchner, rispetto alla moderna topografia di Roma, è visibile nella fig. 8, in cui si vede pure che non sono comprese le linee orarie 1 e 11, perché troppo distanti dalla base dell’obelisco e perché comunque con questa soluzione si rispettava l’intera lunghezza della linea meridiana, in accordo con le parole di Plinio “...in modo che l’ombra fosse pari alla larghezza del selciato all’ora sesta del solstizio invernale...”. Nel 1979 Buchner mette mano ai picconi e comincia a scavare, insieme a Rakob, nella Via di Campo Marzio, ma senza successo. Lo scavo successivo, invece, effettuato nella cantina dell’edificio che porta il numero civico 48, della stessa strada, portò insperatamente alla luce un tratto del pavimento con il tracciato antico, per una lunghezza di circa 20 metri quadri che comprende la linea meridiana con i regoli disposti in questo punto a una distanza di circa 26 cm l’uno dall’altro, e una tratta di linea diurna (la quale è difficile dire se sia intera o solo la

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parte che si vede) relativa ala fine dei segni dell’Ariete e del Leone e l’inizio della Vergine e del Toro. Pare che ci sia qualche perplessità sul fatto che l’antico selciato è stato ritrovato ad una profondità di scavo di circa 6,30 metri sotto il livello stradale, in quanto gli archeologi si aspettavano di trovarlo ad almeno 8 metri di profondità. Ciò ha fatto ipotizzare che l’originario complesso gnomonico, messo fuori “servizio” - come scrive Plinio - a causa delle inondazioni, o dei terremoti, o da un colossale incendio, fosse stato ripristinato da qualche successore di Augusto che lo avrebbe ricostruito ad una quota più elevata. La datazione degli archeologi, per questa nuova ristrutturazione dell’impianto, è all’incirca l’epoca di Domiziano. Ma, a questo punto, ci viene da pensare se fu mai più possibile ricostruire, e con precisione, un tale gigantesco orologio solare dopo che fu quasi completamente distrutto dalle calamità naturali e perché mai, un imperatore romano come Domiziano non si sia degnato di lasciare memoria di un così importante “restauro” come, per esempio, una semplice frase scolpita sulla base dell’obelisco originario. Proprio come aveva fatto Augusto a memoria del suo mega progetto. Altri dettagli degli scavi si leggono ancora in Fantoni 24 : “Ai lati della meridiana, con stupende lettere in bronzo di 25 cm, sono indicati i nomi greci dei segni zodiacali...si leggono le ultime due lettere di Leon (...ΩΝ) e le prime quattro lettere di Parthenos, la Vergine (ΠΑΡΘ...) ; dall’altra parte di trovano le ultime due lettere di Krios, l’Ariete (...ΟΣ) e le prime quattro di Tauros, il Toro (ΤΑΥΡ...). Sulla striscia bronzea che divide i segni zodiacali, dove finisce il Leone e comincia la Vergine, vi è un’indicazione meteorologica stagionale : CESSANO I VENTI ETESI (ΕΤΗΣΙΑΙ ΠΑΥΟΝΤΑΙ) ; si tratta di quei venti periodici settentrionali che soffiano in Egeo d’estate e cessano all’avvicinarsi dell’autunno...(...)...All’estremo sud dello scavo è stata messa in luce la scritta INIZIO ESTATE (ΘΕΡΟΥΣ ΑΡΧΗ) sistemata presso i regoli dei primi giorni di maggio...”. 24 G. Fantoni, op. cit. p. 114.

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Sembra che in tempi recenti Buchner e Rakob siano riusciti a trovare il punto esatto dove era installato l’obelisco-gnomone, ma nel frattempo gli scavi e le ricerche sul solarium di Augusto sono stati congelati. Così, in attesa di buone novelle, o che in occasione del futuro Giubileo si faccia strada l’utopistica proposta di Fantoni, cioè di realizzare una galleria turistica sotterranea per poter ammirare da vicino l’antica meraviglia gnomonica, dobbiamo accontentarci di ciò che è possibile estrapolare dalle fonti storiche, ormai quasi completamente esaurite e sviscerate da quanti sono stati attratti, nel corso di secoli, da questa leggenda gnomonica.

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Il rinascimento egizio nella Roma barocca Possiamo solo cercare di immaginare quale fu lo stupore dei Romani quando videro arrivare nelle piazze di Roma i giganteschi monoliti trafugati in Egitto. Fu proprio Cesare Augusto che cominciò ad innalzare i primi obelischi in Roma, e ne adottò anche il simbolismo solare. Il primo, proveniente da Eliopolis (XIV-XIII secolo a.C.), si trova oggi a Piazza del Popolo. Il secondo, stessa provenienza con iscrizioni di Psammetico II (VI secolo a.C.) volle destinarlo a gigantesco gnomone di un monumentale orologio solare, ed è quello che più ci interessa. Oggi si trova in Piazza Montecitorio. Ne seguirono parecchi altri, non sappiamo quanti, forse una trentina, ma sicuramente erano molti di più dei tredici che sono stati ritrovati fino ad oggi25. Ma dei tanti obelischi che adornavano le piazze della Roma imperiale solo uno non fu abbattuto dalla furia pagana dell’Alto Medioevo: quello eretto nel circo Vaticano. Non bisogna dimenticare che da quando l’Egitto entrò a far parte dell’Impero romano, il culto di Iside si diffuse in tutta l’Europa. Già il De mirabilis urbis Romae, di Magistro Gregorio, sul finire del XII secolo, testimoniava che l’interesse per la cultura egizia era vivo nel medioevo. Il “mistero del paganesimo” e i “misteri egizi”, come erano definite le iscrizioni geroglifiche sulle facciate degli obelischi, furono oggetto di rinnovato interesse a cominciare dal XV secolo con il domenicano Nanni da Viterbo che pubblicava una raccolta di apocrifi con il culto di Osiride e influenzando il Papa Alessandro VI. Nacquero così gli affreschi del Pinturicchio negli appartamenti dei Borgia e il romanzo Hypnerotomachia Poliphili, di Francesco Colonna, illustrato con disegni di geroglifici.. Ma il primo documento da cui scaturì questo clima 25 Secondo Pubblio Vittore e Michele Mercati, furono trasportati a Roma 48 obelischi. C. Tempesti, Storia della vita e geste di Sisto V, Roma, 1754 tomo I, p. 22, riporta: “Quarantadue obelischi, tra grandi e piccoli, furon da’ Cesari innalzati in diversi luoghi per ornamento della città, capitale di tutto il mondo”. In un manoscritto di Andrea Asulano Aldi del 1518 è scritto “Obelisci parvi XLII”, mentre in un’altra edizione della stessa opera: “Obelisci parvi quadraginta duo”.

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di rinascimento egizio a Roma, provocando un vero sincretismo religioso fra paganesimo e cristianesimo, fu forse una versione greca del codice Hieroglyphica di Orapollo (un autore egiziano del IV secolo d.C.), acquistata nel 1419 dal sacerdote fiorentino Cristoforo de’ Buondelmonti26 che arrivò a Firenze nel 1422. Così anche il Corpus Hermeticum di Ermete Trismegisto, il De Iside et Osiride di Plutarco e il De misteriis di Giamblico, tradotti dal greco e divulgati da Marsilio Ficino, ebbero molta eco fra gli eruditi. La fame di geroglifici e di reperti egizi, dunque, muoveva gli studiosi alla ricerca di questi antichi monumenti e, nonostante fosse nota l’ubicazione esatta di alcuni degli obelischi sparsi per le piazze di Roma, si dovette attendere l’operato di Sisto V perchè alcuni di essi venissero di nuovo innalzati al cielo e riacquistare così l’antico splendore. Ma Sisto V, nel suo pur nobile intento, non fu mai mosso da alcuna passione per gli Egizi, considerati piuttosto idolatri, dall’ambizione di elevarsi all’altezza dei faraoni e degli imperatori. A questo proposito scrive Giovanni Cipriani:27 Sisto V, a differenza di numerosi suoi predecessori, non amò mai in podo particolare le testimonianze del mondo antico. Deciso avversario di ogni forma di paganesimo vide nelle opere della classicità la tangibile sopravvivenza della passata idolatria e non esitò a distruggerle per far trionfare l’immagine di una nuova Roma, una Roma cristiana ancor più doviziosa e superba di quella dei Cesari. La sua instancabile attività edilizia e di pianificazione urbana è strettamente connessa a questo ideale...destinato a trasformare in un breve volger d’anni una città pigra e sonnolenta in un vasto cantiere pulsante di vita. Solo in pochi casi Sisto V non solo ebbe rispetto ma vera e propria ammirazione per il frutto del lavoro e dell’ingegno degli antichi. L’esempio degli obelischi egizi è forse il più significativo...”. Durante tutto il XVI secolo, il fascino esercitato da questi 26 A. Cattabiani, op. cit., p.54 27 G. Cipriani, Gli obelischi egizi. Politica e cultura nella Roma barocca., Leo Olschki Editore, Firenze, 1993, p. 9

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“misteri egizi”, conquistò l’animo dei più grandi artisti e l’ingegno delle menti più feconde. Giovanni Pierio Valeriano scriveva la sua sintesi sull’argomento, dal titolo Hieroglyphica; Vincenzo Cartari evocava gli dei egizi nel suo Imagini de i dei de gli antichi, Marsilio Ficino e Giordano Bruno pubblicavano i loro studi sull’ermetismo, mentre il grande architetto Domenico Fontana escogitava i più incredibili metodi per trasportare gli obelischi da una piazza ad un’altra e per innalzarli. Nacquero addirittura specifici trattati sul modo di trasportare obelischi, come quello mitico di Camillo Agrippa, Trattato di trasportar la guglia, e quelli più generici sugli obelischi di Roma (uno per tutto quello di Michele Mercati del 1589). L’unico obelisco rimasto in piedi dal medioevo, quello Vaticano che giaceva presso l’antico Circo di Nerone, fu eretto nel Vaticano, sotto Sisto V, il 27 settembre 1586. Una nuova era cominciava, e due anni dopo altri obelischi furono eretti, in Piazza Santa Maria Maggiore, in Piazza del Popolo e in S. Giovanni in Laterano. E nei versi del fiammingo Filippo Poelarius “non si scorgeva alcun accento critico nei confronti del passato paganesimo, emergeva solo la sacralità del monumento (obelisco Vaticano), una sacralità che non sarebbe venuta meno con il trascorrere dei secoli e che sarebbe giunta fino a noi”, scrive Cipriani nell’opera citata. Era questa la strada che portò paradossalmente ad una interpretazione cristiana dei favolosi monumenti egizi, ulteriormente rafforzata nel secolo successivo dal gesuita Athanasius Kircher e la sua fantastica interpretazione dei geroglifici associando il simbolismo delle steli egizie con la Trinità cristiana. Raccolta di citazioni sulla scoperta dell’obelisco di Campo Marzio La documentazione principale relativa al ritrovamento archeologico dell’obelisco “campense”, come viene anche denominato l’obelisco di Augusto in Campo Marzio, e la documentazione relativa ai primi tentativi di recupero, è

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sintetizzata nell’eccellente ed insostituibile opera di Rodolfo Lanciani, Storia degli scavi di Roma. Si tratta soprattutto di citazioni tratte da opere generiche sull’antica topografia romana, da avvisi urbani e da opere archeologiche sulle antichità di Roma. Gran parte di questa documentazione può essere qui riassunta come segue : 1) “Nel 1484, poco dopo la morte di Papa Sisto IV, avvenuta il 13 agosto, furono composte da un discepolo di Pomponio Leto (morto nel 1498), le “excerpta a Pomponio dum inter ambulandum cuidam dominio ultramontano reliquias ac ruinas urbis ostenderet”. Queste note di topografia romana furono inserite nella raccolta “de Roma prisca et nova varii auctores” dell’Albertini, edizione del Mazzocchi 1510 (poi del 1515 e 1522) sotto il titolo “Pomponius Laetus de vetustate urbis”. Il De Rossi ne ha ritrovato il testo genuino nel codice Marciano latino X, n. 195 e l’ha divulgato negli Studii e documenti di Storia e Diritto, anno III, 1882, p. 49 e sgg.” Come si capisce da questo breve stralcio dell’opera del Lanciani, la notizia divulgata su Internet, di cui abbiamo detto all’inizio, si riferisce all’edizione del Mazzocchi del 1522 (e non 1521) da cui l’autore ne ricava che la data della scoperta dell’obelisco è il 1521, senza peraltro tenere conto delle precedenti edizioni del 1515 e la prima del 1510. E’ evidente che la vera scoperta dovrebbe essere retrodatata di almeno 25 anni circa, attorno al 1484 anno in cui furono redatte le “note di topografia romana” stampate poi dal Mazzocchi. Ma è ancora più probabile che i resti dell’obelisco siano stati ritrovati prima della pubblicazione delle note di topografia romana, attorno al 1463 quando furono effettuati i primi scavi della cappella del Cardinal Calandrino nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina, come dice appunto la prossima citazione. 2) Il codice originale, rintracciato dal De Rossi, riporta al foglio 27 “Ubi est domus nova facta, quae est cappellanorum cuiusdam

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cappellae s. Laurentii (edificata dal card. Calandrino circa il 1463), fuit basis orologii nominatissimi” - cioè il piedistallo dell’obelisco di Augusto - “ubi est ephm (ephebeum?) capellanorum, ibi fuit efossum horologium: quod habebat VII gradus circum, et lineas distinctas metallo inaurato. Et solum campi erat ex lapide amplo quadrato, et habebat lineas easdem: et in angulis quatuor venti ex opere musivo cum inscriptione ut BOREAS SPIRAT etc”. Quindi, insieme al ritrovamento del piedistallo dell’obelisco, fu rinvenuto anche un orologio solare di marmo, sicuramente del tipo “discum in planitia”, cioè un orologio orizzontale ad ore temporarie con le curve dei solstizi e la linea equinoziale del tutto simile all’orologio impropriamente denominato “pelecinum” di Aquileia28. 3) Il testo del Lanciani offre anche una nota molto interessante in cui dice che il de Rossi ha fatto notare come tutti gli scrittori che pendono dal testo pomponiano ripetano in coro l’errore dell’ut 28 E’ parere dell’autore che gli orologi orizzontali del tipo rinvenuto ad Aquileia e a Pompei, nonchè il famoso orizzontale trovato negli scavi di Sante Amendola nel 1814 presso la Vigna Cassini, a destra dell’Appia Antica, a Roma, ed illustrato da Francesco Peter negli Atti dell’Accademia Romana di Archeologia del 1823, siano da identificare con il “Discum un planitia” di Vitruvio e non con il “Pelecinum”, come in voga attualmente, perchè quest’ultimo è stato finalmente identificato dal vostro autore con il “Pelignum” descritto da Cezio Faventino nel XXXVII libro della sua opera De diversis Fabricis Architectonicae, del IV secolo d.C., di cui un esemplare è visibile nel Calendario di Lambecio, sempre del IV secolo d.C., su un sarcofaco cristiano a vasca del III secolo e soprattutto nel noto mosaico romano (I-II secolo) di Treviri, ora conservato nel Landesmuseum di Trier. A tale proposito si veda N. Severino, “Storia della Gnomonica” e “Pelecinum, o Pelignum?” in Bulletin n° 97.2, 1997, della British Sundial Society.

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facente parte della iscrizione VT BOREAS SPIRAT. Solo Iacopo Lauro nella sua “Origin. Urb. Rom.”, edizione del 1612, scrive correttamente “additis his verbis BOREAS SPIRAT”. Nel 1512, Antonio Lelio, ovvero il Lilius Podager della notizia comparsa su Internet, scrive una postilla al foglio n.12 del codice vaticano 1108, contenente la silloge epigrafica stampata in Roma da Jacopo Mazzocchi nel 152129: 4) “Sub Julio II pont. max. in regione Campi Martii post aedem D. Laurentii in Lucina, et prope domum cardinalis Crassi, in domunculae cujusdam tonsoris horticulo, dum in eo pro conficienda latrina foderetur, detecta est basis obelisci omnium, qui in urbe extent, ut conspicari erat maximi. Obeliscus jacebat, nec videri poterat an totus integer esset, quippe cuius ima tantum pars videbatur. In basi erat inscriptio, quam ego legi, sed non recte de ea memini (CIL, VI, 702)... In hoc obelisco gnomon olim ille erat percelebris de quo Plinius meminit. Quin vicini, qui circa illum insulas habent, asseverabant omnes pene se ipsos, dum pro conficiendis cellis vinariis alias fodissent, invenisse varia signa caelestia ex aere, artificio mirabili, quae in pavimento circa gnomonem hunc erant. Iulio principi in bellis tunc, ut semper, implicitissimo, ut obeliscum hunc iterum erigi...facere, suasere quidem permulti, persuasit autem nemo. Ideo tantum antiquitatis miraculum a tonsore illo iterum sepultum est”. Sono le stesse cose descritte nel codice 11400, già di Gio. Battista Bandini, postillato da Antonio Agostini, e da quest’ultimo offerto in dono a Giovanni Metello. 29 Il Lanciani inserisce ancora una nota importante per le ricerche bibliografiche. Pare che Antonio Lelio mandò a regalare questo libro con le sue note “marginalia” manoscritte a Felice Trofimo, vescovo di Chieti. Dopo di lui, sembra sia venuto in possesso di Antonio Colozio.

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L’iscrizione del piedistallo fu copiata anche da Giuliano Sangallo nei pugillari Sanesi 8. VI. 5 (obelisco di champo marzio). 5) Ligorio (Bodl. 76) descrive l’obelisco “in casa di Spandocchi”; forse si tratta di un nuovo ritrovamento, al quale sembra anche accennare Panvinio in “Descr. Urbe Romae”, Libro I, c. XX de ludis Circensibus. Nel codice vaticano 3439 f. 2’, sono segnati geroglifici “in obelisci sub aedibus Campi Martij jacentis parte”. 6) Dall’Opusculum de mirabilibus novae et veteris Urbis Romae...” di Andrea Fulvio, con le stampe del Mazochio del 1510, si ricava: “in loco ubi nunc est domus nova Capellae apostolorum Philippi et Jacobi in ecclesia S. Laur. in Lucina fuit Basis nominatissima Urbis: non longe a qua est obeliscus semisepultus: ubi effossum fuit Horologium cum lineis et gradibus deauratis: in angulis vero. iiii. venti ex opere musivo” f. 29’, 30. 7) Da un’altra fonte, questa volta più tarda, del 1526, si ha: “l’obelisco solare si vede oggi spezzato in molte parti et ricoperto di terra à pie del monte Accettorio che da noi poco fa è stato veduto scoperto con la sua base, ove sono intagliate le infrascritte lettere”. 8) “Superioribus diebus 1587 detectus fuit celebris obeliscus qui pro gnomone steterat in campo martio, igne ferroque excisus”. Da Bargaei, Epist. De Urbis eversoribus, apud Bandini, p. 102. 9) Al tempo parimente di Sisto V, presso s. Lorenzo in Lucina, dalla parte verso Campo Marzo il cavaliere Fontana vi trovò una

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gran guglia di granito Egiziano... maltrattata dal fuoco... Fu risoluto di lasciarla stare”. Da Vacca, mem. 45. 10) Nel Campo Martio ancora hoggidi si passa sopra l’obelisco dietro la chiesa di San Lorenzo in Lucina per quella strada che và all’arco di Domitiano... Questo obelisco si vede oggi spezzato in molte parti et ricoperto di terra a piè del monte Acetorio verso il Tevere, che da noi poco fa è stato veduto scoperto, con la sua base, ove sono intagliate le...lettere”. Da Fulvio-Ferrucci, p. 138 11) 1587, 14 marzo “s’è cominciato a dare un taglio in Campo Martio per dissotterrare un’altro obelisco, et forza sarà di mandare a terra alcune case in quei contorni per questo... (21 marzo). I manuali rendono in Campo Marzo il terreno alla fossa fatta da loro per disotterrare l’obelisco... tutto in pezzi et cotto dal fuoco”. Da Avvisi Urb. 1055, c. 101 e 113. 12) “... l’Obelisco del Sole, il quale collocato da Augusto nel Campo Marzo, e dissotterrato dal Regnante Sommo Pontefice Benedetto XIV amatissimo delle Antichità, giace al presente nel sito detto la Vignaccia, non lungi dal luogo, da cui fu cavato. Si legge in esso :

....ESAR. I..IVI. ..VGVSTVS.

.....NTIFEX.M......MVS PXII. COS. XI TRIB. POT. XIV ..EGVPTO. IN POTESTATEM

...OPVLI. ROMANI. REDACTA SOLI. DONUM. DEDIT

(da Storia Romana, del padre G. Granara, Roma, 1744). Una prima osservazione da fare riguarda la data della scoperta archeologica dell’obelisco. Alcuni autori riportano il 1463 che è l’anno in cui il card. Calandrino edificò la cappella di S. Lorenzo in Lucina. Ma non sappiamo se l’obelisco fu ritrovato durante o

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dopo la costruzione della chiesa. Le note di topografia romana dell’allievo di Pomponio Leto furono composte ventun anni dopo, sicchè non è dato sapere se per tutto questo tempo fu taciuta la scoperta dell’obelisco o se questo fu trovato appunto verso il 1484. Una seconda osservazione ci permette di abolire un luogo comune : quello della seconda scoperta archeologica dell’obelisco che si fa risalire al 1502. Come è evidente, invece, il Lanciani stesso ritiene opportuno precisare che “la notizia relativa al Solarium di Augusto - riportata al n° 4 - ed al pontificato di Giulio II deve riferirsi all’anno 1512 e non al 1502”. Mentre l’opera del Granara ci conferma che l’obelisco era ancora sotto terra nel 1744, cioè appena quattro anni prima degli scavi di Pio VI Braschi. I fatti relativi alle scoperte e agli eventi successivi di riparazione ed innalzamento dell’obelisco sono ben rievocati e narrati con dovizia di particolari da Pietro Romano in un libro ormai introvabile, dal titolo “Orologi di Roma”30. dall’opera di P. Romano: Risulta che l’obelisco nel terzo secolo era racchiuso fra le sontuose fabbriche che in quel tempo decoravano il Campo Marzio, dopo cioè che Aureliano tirò le mura dalla porta Collina sino al sottoposto piano. Sembra però che venisse trascurato, perchè di esso né Publio Vittore, né Ammiano Marcellino fanno menzione. Dall’”Anonimo” dell’artista Einsiedeln (fig.11), sappiamo che era ancora in piedi nell’ottavo secolo e si ritiene che sia caduto allorché nel 1084 ( sotto Gregorio VII) le truppe di Roberto il Guiscardo appiccarono il fuoco nella zona del Campo Marzio. 30 P. Romano, Orologi di Roma, ed. Anonima Romana Stampa, 1944.

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In una iscrizione si leggeva che avendo Augusto, pontefice massimo, imperatore, ridotto l’Egitto in signoria del Popolo Romano, dedicò tale obelisco al dio Sole (Soli donum dedit). Quanto alle epigrafi ritrovate nelle vestigia dell’obelisco, il De Rossi giustamente osserva: “Se quattro soli venti erano effigiati ed indicati con lettere ai quattro angoli, è difficile intendere come nella escavazione che mise in luce uno solo dei quattro punti cardinali e precisamente il lato boreale, poterono essere vedute le vestigia delle simili epigrafi di lati rimanenti. Il bellissimo orologio solare scoperto nel 1879 in Aquileia ci mostra otto venti segnati in cerchi. In altri orologi solari ed anemoscopi con epigrafi greche-latine i venti sono dodici. Cosiffatto probabilmente fu quello di Augusto nel Campo Marzio, cioè non quattro soli, ma otto o dodici quivi furono i venti designati da epigrafi latine”. Caduto l’obelisco, questo rimase a poco a poco sepolto sotto le rovine delle fabbriche del Campo Marzio. Tuttavia, Pomponio Leto ne potè vedere qualche resto, perchè così l’indicò “dove è la chiesa di S. Lorenzo in Lucina con gli orti, ivi fu il Campo Marzio nel quale si tenevano i comizi, e dove è stata fabbricata la nuova casa che è dei Cappellani di S. Lorenzo, ivi fu la base dell’orologio...(..)..Nel Campo Marzio, dove è l’Epitaffio de’ Cappellani, ivi fu scavato un orologio che aveva sette gradi nell’intorno e le linee listate di metallo indorato; il suolo del terreno era di grosse pietre quadre e aveva le medesime linee e negli angoli i quattro venti colla iscrizione: Ut boreas spirat”. Nel Cinquecento si occuparono dell’orologio anche il Volterrano, il Fulvio (che però fece molta confusione), il Marliano e il Gamucci, non dando però maggiori particolari. Solo Lucio Fauno rileva: “Un trar di mano da questo tempio (di S. Lorenzo in Lucina), si vede oggi rotto in molti pezzi quel obelisco di CX piedi che Augusto collocò nel Campo Marzio, nel quale dice Plinio che era scritta l’interpretazione della Filosofia degli Egizi... In uno dei lati di quest’obelisco era questo titolo che anco si legge: Caesar etc. Qui presso è stato in questa età, cavandosi, trovato un orologio da sole, antico, colle sue linee e gradi distinti, di metallo indorato, e negli angoli erano quattro

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immagini di venti, lavorati di mosaico, con queste parole: Ut Boreas spirat” (31). Antonio Lelio, quasi dello stesso tempo, in una sua nota, riferisce che “Imperando Giulio II P.M. nelle vicinanze della chiesa di S. Lorenzo in Lucina, presso la casa del Card. Grassi, nell’orto di una casuccia di un certo barbiere, mentre si scavava per fare una fogna, si scoperse la base del più grande obelisco...Era in questo obelisco quel celebre gnomone insigne per l’autorità di Plinio. Che anzi i vicini che avevano delle corti all’intorno, affermavano che nello scavar le cantine avevano trovato vari segni celesti di bronzo di un artificio mirabile, disposti nel pavimento all’intorno dello gnomone. Giulio, benché ne fosse avvertito, impedito dalla guerra, né eresse, né accordò quest’obelisco, laonde quel barbiere lo ricoprì di terra sì come stava poco avanti”. L’obelisco fu scoperto la seconda volta al tempo di Sisto V e precisamente nel 1587, come riferisce pure Pietro Angelico da Barga, nell’Epistola de privatorum Urbis eversoribus. Conferma il Vacca nelle sue Memorie (si veda Fea, in Miscellanee): “Al tempo di Sisto V, presso S. Lorenzo in Lucina, dalla parte verso Campo Marzio, il cav. Fontana vi trovò una gran guglia di granito egiziaco e pervenuto alle orecchie di S.S. commise che si scoprisse, con intenzione di drizzarla in qualche luogo, ma il suddetto cavaliere, trovandola maltrattata dal fuoco e datane ragguaglio a S.S. fu risoluto di lasciarla stare”. Il Mercati, dal canto suo, assicura che “fu ritrovata alquanto scantonata e qualche poco corrosa dal fuoco”, e Jacopo Lauro aggiunge “che non si potè scavare per certi impedimenti, come fu fatto negli altri, dei quali il Pontefice aveva comandato che se ne facesse ricerca”. Sembra che anche Alessandro VII avesse in animo di far dissotterrare l’obelisco, incaricando dei relativi studi il Gesuita Athanasius Kircher, il quale risulta aver fatto degli scandagli, e sconsigliata l’opera. Risulta, però, da una lettera di Kircher ad Alessandro VII, pubblicata nel Tomo I della Miscellanea Filologico-critica antiquaria del Fea (sec. XVIII), che consigliò 31 ibid. pag. 10 e segg.

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di innalzare l’obelisco nelle Terme Diocleziane, davanti alla basilica di S. Maria degli Angeli. Nel 1744 vide la luce il libro “Le vestigia e rarità di Roma Antica ricercate e spiegate da Francesco di Ficoroni”, aggregato alla Reale Accademia di Francia. Libro Primo dedicato alla santità di nostro signore Benedetto XIV, Nella stamperia di Girolamo Mainardi, in Roma MDCCXLIV, dove in un breve passo si legge: “Il grande obelisco solare ripieno di Geroglifici Egizi riman sepolto, e serve per materiale di fabbrica in una piazzetta dietro il convento di S. Lorenzo in Lucina, vedendosene una porzione della maggior grossezza sotto d’una bottega; e questo è il più vasto obelisco di granito Tebaide de i portati in Roma da Augusto”. Il merito di aver fatto tornare alla luce gli avanzi dell’obelisco spetta a Benedetto XIV, che nel 1748, quindi solo quattro anni dopo, incaricò della bisogna il romano Nicola Zabaglia, capo dei Sampietrini. La felice operazione compiuta dallo Zabaglia gli aumentò la popolarità al punto che si cantò per le strade di Roma, in quella circostanza:

“Passai per Campo Marzio e viddi buglia. E dissi che robb’è tanta canaglia? Me fu risposto ch’era per la guglia

Che facea mette su mastro Zabaglia.”32 Dalle relazioni del tempo si legge: “Principiato lo scavo del terreno nel cortile della casa, si scoperse la cima del piedistallo che esisteva in piedi senza esser niente mosso dalla sua prima fissazione, sopra la di cui estremità restava ancora appoggiata la parte inferiore della guglia, caduta verso l’aspetto di mezzogiorno. Questa giaceva 32 Il Cancellieri, nella “Lettera sopra lo scoprimento e la traslazione della colonna di Antonino Pio e con varie notizie intorno all’obelisco solare...”, in Roma, 1821, riporta un’altra frase che era stata trovata scritta su un cartello presso la colonna Antonina che doveva esser trasportata: “Levatemi dal cul tanta canaglia; Chi vuol, ch’io vada al destinato luogo, Faccia venir da me Mastro Zabaglia”.

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infranta in cinque pezzi, colla parte inferiore più elevata e posava al principio sopra del piedistallo; il rimanente poi declinava, ma più immerso nel suolo, essendo la cuspide più sprofondata del rimanente di esso. La superficie di questo obelisco, che in parte restava occupata nel muro divisorio delle cantine dello stabile e in parte restava sotto la strada pubblica, scoperta che fu, si trovò tutta scortecciata e spogliata di geroglifici, la quale scortecciatura si estendeva anche dai due lati, per la metà incirca della loro lunghezza, e il lato che riposava sopra il terreno con la metà incirca degli altri due lati, poco o niente era danneggiato nella superficie, conservando impressi i geroglifici. Continuatosi a sprofondare lo scavo nel luogo del piedistallo, cominciò a scoprirsi in quella parte che riguardava ponente, l’iscrizione scolpita in bellissimi caratteri e consecutivamente l’altra in caratteri egualmente grandi nel lato opposto e rispettivamente all’aspetto di levante, le quali iscrizioni sono del tutto uniformi. Gli altri due lati, poi non avevano iscrizioni. Trovato lo zoccolo in travertino dell’obelisco, si rinvenne il pavimento della stessa pietra, il quale restava sott’acqua talmente, che per poter estrarre i suddetti marmi e il suo piedistallo, si abbisognò giorno e notte l’opera di molti uomini ad asciuttare l’acqua per mezzo delle trombe. Sotto il pavimento fu ritrovata altra platea di sassi di peperino di più pezzi, che nella superficie mostravano la stessa grandezza di quelli di travertino. Questi poi erano ben connessi tra di loro e murati sopra il masso del fondamento, quali vi sono rimasti, non mettendo conto scavarli” (33). Perchè non si perdesse la memoria del sito presso cui giaceva l’obelisco, fu murata una lapide sulla casa segnata con il numero civico 3 al Largo dell’Impresa (oggi Piazza Gabriele D’Annunzio (34)). La lapide, dice: “Benedictus XIV Pont. Max - Obeliscum hieroglyphicis notis eleganter insculptum Aegypto in potestatem Populi Romani redacta - Ab imp. Caesare Augusto Roman advectum - Et strato lapide regulisque ex aere inclusis - Ad deprehendendos solis umbras - Dierumque ac noctium 33 Idem, pag. 16, 17 34 Ai tempi di P. Romano, cioè al 1946.

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magnitudinem - In Campo Martio erectum et soli dicatum - Temporis et barb. injuria confractum jacentemque - Terra ac aedificiis obrutum - Magna impensa ac artificio eruit - Publicoq. rei literariae bono propinquu. in locu transtulit - Et ne antiquae sedis obelisci memoria - Vetustate exolesceret - Monumentum poni iussit - Anno rep. sal. MDCCXLVIII pont. IX” (35). Tuttavia, soltanto quarantasei anni dopo che era stato rimesso alla luce, l’obelisco solare veniva restaurato dall’Architetto Antinori (per ordine di Pio VI), mediante alcune lastre ricavate dai blocchi del fusto della colonna Antonina, e collocato sulla piazza di Montecitorio”. Verso la metà del XVIII secolo, molti tra i più eruditi letterati si pronunciarono sulla questione se l’obelisco fosse lo gnomone della sola linea meridiana o di un intero orologio solare. Innanzitutto è necessario premettere che non abbiamo oggi nessuna testimonianza dell’uso nell’antichità di strumenti solari che utilizzavano solo la linea meridiana quale unica indicazione del mezzogiorno. E’, anzi, difficile convincersi che in quell’epoca fossero costruiti orologi solari a tale scopo, perché non se ne conosce un motivo preciso. Contrariamente a quanto, invece, accadeva dal Rinascimento in poi, quando si comincio a sentire la necessità, sia dal punto di vista astronomico che gnomonico, di costruire le grandi linee meridiane con gnomoni 35 L'obelisco elegantemente inciso con geroglifici, portato dall'Imperatore Cesare Augusto in Roma, dopo che l'Egitto era stato ridotto in potestà del Popolo Romano, eretto nel Campo Marzio e dedicato al sole su un pavimento marmoreo con indicazioni in bronzo per segnare le ombre che fa il sole e la durata dei giorni e delle notti, spezzato e giacente per le ingiurie de tempo e de' barbari, ricoperto di terra e da edifici, Benedetto XIV, Pont. Mass., con grave spesa e maestria lo disseppellì e a pubblico vantaggio della cultura, lo trasportò in un luogo vicino e ordinò che venisse posta questa lapide, affinchè la memoria dell'antica sede dell'obelisco non venisse a cadere per il trascorrere del tempo.

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altissimi il cui scopo, però, era sostanzialmente quello di studiare e migliorare il calendario e le osservazioni astronomiche relative al calcolo dell’obliquità dell’eclittica e varie altre cose. Ma senza tener conto di queste semplici osservazioni, Scipione Maffei scriveva : “Il fine dell’obelisco adunque era per conoscere e per contrassegnare ogni giorno le ombre del sole, e con ciò la lunghezza dei giorni e delle notti. Di additar le ore (nel testo di Plinio) non si parla. Una meridiana con segni che si facciano a luogo nel campo, può servire facilmente anche di orologio solare in parte : ma che a ciò servisse quella di cui parliamo, Plinio non indica”. L’enciclopedico Ludovico Antonio Muratori, al contrario, sosteneva che : “era destinato dell’obelisco ad insegnare quant’ore in ciaschedun giorno lucesse il sole sopra terra, e le righe di bronzo additavano, non solo queste, ma o chiaramente o per illazione quelle ancora della notte”.

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Ricostruzione della storia degli scavi dell’obelisco. Avvertenza : la ricostruzione qui proposta della storia degli scavi relativi all’obelisco di Augusto in Campo Marzio, prende in considerazione la raccolta precedente di citazioni, derivanti dalle opere di Rodolfo Lanciani, alcuni spunti del libro di P. Romano, di cui si è comunque riportato tutto l’essenziale sull’argomento. I paragrafi che seguono, invece, sono riassunti, o trascritti per intero dall’opera di Cesare D’Onofrio, “Obelischi di Roma”, libro ormai consultabile solo in qualche grande biblioteca. Dall’opera di D’Onofrio Seguendo le citazioni che abbiamo tratto dalle fonti originali, dopo l’unica informazione relativa all’Alto Medioevo, e cioè che l’obelisco era ancora in piedi nell’VIII secolo come testimonia l’Itinerario di Einsiedeln, troviamo le note di topografia romana di Pomponio Leto che scrisse forse attorno al 1475. Ma è bene specificare che le note di Leto, furono riprese da un suo discepolo, come ci avverte Lanciani, e come è stato detto prima. Pomponio Leto era un colto umanista che vestiva ancora da vero romano antico ed abitava in una casa sul Quirinale. Il passo che ci interessa è il seguente : “ “Dove è la chiesa di S. Lorenzo in Lucina con gli horti, ivi fu il Campo Marzo... E dove è stata fabbricata la nuova casa che è dei Cappellani di S. Lorenzo, ivi fu la base dell’orologio rinomatissimo...(...)...Nel Campo Marzo, dove è l’epitaffio dei Cappellani, ivi fu scavato un orologio...”. Questa notizia riguarda il ritrovamento di un normale orologio solare orizzontale con la scritta Borea Spirat, di cui abbiamo già detto prima. L’altra interessante notizia, è tratta da Antonio Lelio Podager ( a cui si riferisce la notizia in Internet). Proponiamo ora la versione tradotta in italiana del testo originale presentato prima nella raccolta di citazioni al n° 4):

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Al tempo di Giulio II (1503-1513) nella regione del Campo Marzo, poco lontano dalla chiesa di S. Lorenzo in Lucina, e vicino alla casa del cardinal Grassi, in un orticello di una casetta di un certo barbiere, mentre vi si scavava per fare una fogna, è stata scoperta la base d’un obelisco, il più grande di tutti quelli che si ritrovano a Roma come possiamo capire. L’obelisco stava giacente, né si poteva conoscere se era tutto intero, perché di esso di vedeva solo la parte inferiore. Nella base era una iscrizione, che io lessi, ma non me ne ricordo bene, benchè benissimo mi sovviene il nome di D. Augusto, e le parole “Aegypto in potestatem populi romani redacta Soli donum dedit”. In questo obelisco era una volta quel celebre gnomone, di cui fa menzione Plinio. Perché anzi i vicini che posseggono del terreno all’intorno di esso, quasi tutti asseveravano che nello scavare altrove per farvi delle cantine avevano trovato varj segni celesti di bronzo di un artifizio mirabile, che erano nel pavimento all’intorno di questo gnomone. Molti persuasero il Principe Giulio, allora intrigatissimo, come lo fu sempre, nelle guerre, di alzare nuovamente questo obelisco, e di ridurlo all’antica sua forma, insieme con lo gnomone ; ma nissuno lo poté di ciò persuadere. Per la qual cosa un si gran miracolo dell’antichità fu di nuovo da quel barbiere sepolto”36. Per quanto riguarda la citazione al n° 11), “si trattava degli operai di Sisto V che, Domenico Fontana alla testa, erano andati con picconi e badili in Campomarzio nell’abitazione di quell’antico barbiere (ora passata a un “tessitore”), e lì avevano cominciato a mettere in luce i resti di quell’obelisco per vedere esattamente di cosa si trattava”37. Dopo uno scavo molto superficiale, e forse scoraggiato dalle cattive condizioni in cui era l’obelisco ed in previsione dei troppi lavori di restauro che sarebbero occorsi, nonché della possibilità di far crollare alcune case nei dintorni, e fors’anche per le enormi spese da sostenere, 36 Il testo latino è del codice vaticano 1108 la cui traduzione è quella data dal Bandini, L’obelisco di Cesare Augusto nel Campo Marzo, Roma, 1750, riportata anche da Cesare D’Onofrio, Gli obelischi di Roma, Bulzoni, Roma. 37 Cesare D’Onofrio, op. cit., p. 283.

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“fu coperta di nuovo di terreno la guglia che ivi dirizzò Augusto, stata scoperta quattro dì prima per cavarla ; ma vedendo che per il fuoco come per il tempo era consumata assai et le littere jeroglifice tutte spente la lasciarono stare, et era in detta piazza dove vi era la punta sottoterra da otto palmi et il culo di detta guglia sta nel cortile di una casetta di un tessitore sopra terra un terzo et è grossa più assai di quella di san Pietro”. Così, recita il codice Chigi G. IV, 108, c. 179v, in data 18 marzo 1587. Lo stesso scavo e la stessa rinuncia ad estrarre l’obelisco è narrata dal Vacca nelle sue Memorie del 1594 (per il testo si confronti il capitolo sul libro di P. Romano). “Una mattina del luglio 1666 l’obelisco ricevette una visita illustre : si trattava del gesuita Atanasio Kircher, il quale era andato - certamente per incarico di Alessandro VII - a rendersi conto di persona di quella famosa reliquia, spinto a ciò anche dalla sua fame di geroglifici38...(...)...La sua relazione al pontefice terminava così : “Essendo dunque la presente guglia spartita in più frammenti, sarà più facile il cavarla fuori, e di meno spesa, come anche ad alzarla ; nel resto io mi rimetto al parere degli Architetti”39. Tre anni dopo il medesimo Kircher tornava sull’argomento e in un’altra lettera suggeriva al pontefice di innalzare l’obelisco nella piazza delle Terme di Diocleziano dinanzi a S. Maria degli Angeli e di dedicarlo alla Immacolata Concezione40. Alessandro VII, tuttavia, pur interessandosi l’anno seguente dell’obelisco venuto in luce alla 38 Infatti Kircher fu il pioniere dell’Egittologia e il suo interesse, che varcava ogni confine del sapere, per i geroglifici in un periodo in cui era proprio intento a ricercarne il più recondito significato per la tanto attesa decifrazione, lo spinse sicuramente ad effettuare dei sopralluoghi nel sito dell’antico obelisco. 39 La lettera in latino fu pubblicata dal Bandini nell’opera citata (p. 102). Qui la citazione è tratta da Cesare D’Onofrio, op. cit., p. 284. 40 Lettera del 27 ottobre 1666, pubblicata dal Fea in Miscellanea, I, pp. 22, e CCCXXI. Cit. tratta da Cesare D’Onofrio, op. cit. pag. 284.

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Minerva, di questo non volle o non ebbe il tempo di occuparsi (egli morì nel maggio del 1667)41. Sempre dal D’Onofrio si ricavano ulteriori preziose informazioni, anche da vari Diari dell’epoca : “In un libro pubblicato nel 1685 col titolo “L’arte di restituire a Roma la tralasciata navigazione del suo Tevere”, ma che finiva col trattare un po’ di tutto, l’olandese Cornelio Mayer, curiosa figura di ‘inventore’, dopo aver suggerito di adattare a meridiane gli obelischi di Roma, per quella ancora giacente nel Campomarzio ne proponeva il recupero (ivi compreso anche il sistema di estrazione con certe sue infallibili “viti” per cavarlo fuori) e l’innalzamento dinanzi al Quirinale fra i Dioscuri. Quindi, aggiungeva (p. 85) : “Mi venne desio d’insinuare che volendo far servire la medesima guglia al primevo suo uso si potrebbe lasciare nella sommità sotto la Croce una apertura à foggia d’un piccolo cerchio per il quale traguardando la stessa della Tramontana potrebbesi formare sopra il piano opposto ad essa guglia un horologgio da sapere l’hore notturne”. Ma la proposta del Mayer non fu presa in considerazione, sicchè l’obelisco continuò i suoi sonni ; come pure i Romani, i quali non furono spinti dalla curiosità di alzarsi di notte per andare lassù a Montecavallo a vedere l’ora. Finalmente arrivò l’ora decisiva : nel 1748 Benedetto XIV, il simpatico bolognese papa Lambertini, ne ordinò l’estrazione. In data 6 aprile di quell’anno scriveva un giornale :42 “In congiontura di essere stato demolito per farvi nuova Fabrica un sito spettante alli P.P. Agostiniani della Congregazione di Lombardia in S. Maria del Popolo, esistente al portone del Palazzo dell’E.mo Tanari in Campo Marzo, vi si vede sotterraneamente una Guglia, la quale, per quanto se ne scopre fin’ora, che è meno della metà della di lei lunghezza, è lunga palmi 50, in circa, occupando lo spazio di due cantine, nelle quali si è sempre veduta, e vi era fabbricato sopra il muro divisorio fra una Casa, e l’altra di quelle, che già si sono demolite. La di lei larghezza nel piede è di palmi 9 per ogni 41 Cesare D’Onofrio, op. cit., p. 284. 42 “Diario ordinario”, n. 4791.

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verso, e dal rimanente di essa, siccome si estende sotto la Piazzetta avanti il portone del Palazzo dell’Impresa del Loto, non se ne può sapere la precisa lunghezza, ma per quanto può congetturarsi sempre si accosterà in tutto alli palmi 150”. Benchè nota la sua esistenza forse da sempre, l’improvvisa rimessa in luce dell’obelisco suscitò una certa emozione : tanto che lo stesso pontefice un mese dopo quel fortuito riscoprimento volle degnarsi di andarlo a vedere coi propri occhi. “Nostro Signore il giorno volle portarsi ad osservare l’antica Guglia...ultimamente riscoperta... si condusse il Santo Padre a dirittura al Palazzo dell’E.mo Lercari, e quivi smontato, e salito in quell’appartamento, dove erasi fatta aprire preventivamente per comodo di Sua Santità una porta corrispondente all’appartamento dell’altro contiguo Palazzo dell’E.mo Tanari, per questa passò Sua Beatitudine, e da quelle finestre, come più vicine a detto sito, osservò la medesima Guglia, sempre servito dalli due Portatori, oltre la sua Corte Nobile”43 Il Papa Benedetto XIV - contrario di Sisto V - era determinato nel tirar fuori la guglia e “per questa impresa - scrive il Bandini -44venne prescelto tra tutti gli altri quel rinomatissimo Niccolò Zabaglia45, che morto ultimamente46, benchè in un’estrema vecchiezza, fu generalmente compianto in Roma da tutti quelli che hanno qualche impegno per lo pubblico bene. Questi era estremamente rozzo, giacchè non solo non aveva tintura alcuna di lettere...(...)...Ma pur dotato essendo dalla natura di una incredibile acutezza di mente, era nell’inventare delle macchine semplicissime per sollevare, e trasportare de’ gran pesi, talmente ingegnoso, e nell’adoperar le medesime così assiduamente esercitato, che avea eccitata l’ammirazione di tutta Roma. Chiamato pertanto dal Pontefice, si addossò l’incumbenza commessagli, promise di sodisfare al suo impegno in breve tempo, e con pochissima spesa, e per se non richiese altra mercede, che quella sola de’ semplici volgari operai, a’ 43 “Diario ordinario” n. 4803, in data 4 maggio 1748. 44 Op. cit. p. 103 45 di cui si è già detto nella parte dedicata al libro di P. Romano 46 Morì il 27 gennaio 1750, quando aveva 86 anni

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quali viene pagato il travaglio delle lor braccia, e non l’industria della lor mente”. Ed ecco come dalle parole del Renazzi47 : “dopo un certo spazio di tempo comincia dallo scavo a spuntar fuori uno de’ cinque gran pezzi della guglia ; ecco che s’appoggia sul labro del terreno, e finalmente vi resta collocato. L’aria risuonò allora di evviva, tutto il popolo giulivo e festoso, battendo palma a palma fece eco agli elogi, de’ quali gli spettatori più intelligenti e più culti a gara ricolmavano l’ingegnoso Inventore di una macchina sì semplice e sì operante”. Dalla metà di maggio ai primi di agosto 1748, mastro Zabaglia aveva estratto “con una facilità maravigliosa” i pezzi dell’obelisco, per accantonarli provvisoriamente “nel cortile contiguo al Palazzo dell’Impresa del Lotto”48, nell’orto detto della Vignaccia, corrispondente all’incirca all’attuale area compresa dalla piazza del Parlamento. Nello stesso giorno (3 agosto) in cui fu estratta la base con l’iscrizione e che fu esposta nel medesimo cortile, la Santità Sua “si compiacque portarsi prima ad osservare non solo quella, ma anche tutti gl’altri pezzi ivi collocati, il che fece dismontato dalla sua carrozza, e con molta sua soddisfazione, per veder terminata con tanto buon ordine un opera si difficile, commendandone benignamente l’Autore ivi presente”49. A perpetua memoria dell’impresa “sopra una delle porte del nuovo casamento nella strada di Campo Marzo spettante ai PP. Agostiniani... ultimamente rifabricato, nel sito appunto dove giaceva l’antica Guglia d’Augusto” fu murata una epigrafe nella quale (tutt’ora al suo posto) prima viene riassunto il brano di 47 Renazzi, Castelli e ponti, , 1824, p. 26 (si noti che la stesura del libro di Renazzi era già pronta nel 1739). 48 “Diario ordinario”, n. 4809 in data 18 maggio 1748 49 ibid. n. 4842, del 3 agosto 1748

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Plinio, quindi si dice che Benedetto XIV tale obelisco “trasferì nelle adiacenze a pubblico godimento delle belle arti”50. Stando a questa espressione si direbbe, quindi, che tutta la fatica e i progetti di papa Lambertini consistessero nella estrazione del monumento augusteo per renderlo, così steso a terra, di pubblica ragione. Ed infatti, di innalzamento vero e proprio, al tempo di Benedetto XIV, non si parlò mai. Dovranno trascorrere - continua D’Onofrio - all’incirca altri 40 anni perché finalmente l’antico obelisco eliopolitano, dai geroglifici osannanti alle glorie del faraone Psammetico II (594-589 a.C.), potesse nuovamente sorgere in piedi ; non solo, ma addirittura con l’ambizione di tornare alle augustee funzioni di gigantesco “horiuolo”. Ma prima dell’innalzamento, ci si doveva mettere d’accordo come e dove impiantarlo di nuovo e questo costituiva certo un problema di non poco conto, almeno dal punto di vista topografico e dunque dell’urbanistica della città. L’architetto che al tempo di Pio VI Braschi si stava specializzando proprio negli innalzamenti degli obelischi era Giovanni Antinori. Egli si trovò in polemica col cavaliere Nicola d’Azara, Ministro di S.M. Cattolica, in quanto sosteneva, nel 1787, “doversi ritrovare un punto (in cui si doveva erigere l’obelisco) in cui veggasi il Salustiano, il Flaminio, e il Marzio. Questo punto lo veggo nella piazza di Spagna, ove posato il piè nell’imbocco di Strada Condotti, girando intorno lo sguardo vedremo l’obelisco Flaminio, il Pincio e il Marzio, situato che questo sia verso il Collegio di Propaganda più lontano dalla Barcaccia che si può, perché l’occhio abbia in ogni linea conducente a questi oggetti una conveniente distanza”51. 50 “Publicoque rei literariae bono propinquum in locum transtulit”. 51 A. St., Camerale II, Ant. E B. Arti, busta 6, fasc. 150 : la lettera (in copia) non ha data, ma si può da altri elementi dedurre che sia degli inizi del 1787. Anche l’architetto Giovanni Antonio Antolini propose a Pio VI “tre diversi siti” con altrettanti

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E’ evidente l’intenzione di Antinori di sistemare gli obelischi come fondali di rettifili in modo che essi apparissero in un discorso urbanistico coordinato. In risposta al progetto di Antinori, così scriveva qualcuno ispirato dalle opposte ragioni del cavalier d’Azara : “Santo Padre, la lodevole smania antiquaria d’inalzare l’obelisco solare e la vituperosa idea di condannarlo colà ai due Macelli ad una posizione diametralmente opposta alla sua natura, diede luogo ad un lungo ragionamento fra il valoroso Cavaliere D. Niccolò Azara, e l’Antinori...Piacque al medesimo (cavaliere) umiliare in voce queste proposizioni alla S. Vostra, la quale... approvò benignamente il pensiero dell’Architetto, fuori che il luogo ove innalzare quest’obelisco. Il sito proposto dall’Antinori era soltanto per secondare l’impegno di “situare le guglie su linee terminabili” in un punto quasi concentrico, perché lo spettatore di là ne vedesse più d’una, come oggi veggonsi alle Quattro Fontane, unico vantaggio nel progetto miserabile de’ due Macelli. La deliberazione della S.V. di alzare questo solare obelisco innanzi alla Curia Innocenziana è la più convenevole e la più nobile, si perché lo restituisce al Campo Marzio poco distante dal sito dove giacque...”. Dopo di che, l’anonimo autore della lettera proponeva il trasferimento della base istoriata della colonna Antonina che si trovava giacente nella piazza dal 1704, e purtroppo consigliava di restaurare l’erigendo obelisco di Augusto proprio con la stessa colonna Antonina, sulla quale del resto erano già stati messi gli occhi addosso per segarne i pezzi necessari a rattoppare l’obelisco sallustiano che in quei mesi lo stesso Antinori stava erigendo. A questo proposito si ha la testimonianza di Francesco Cancellieri52 sia sul destino della colonna Antonina, di cui ne modelli : cfr. “Diario ordinario” n. 1272, del 10 marzo 1787. Cfr anche il dispaccio dell’agente lucchese Bottini del 4 agosto : “Si parla seriamente di far inalzare avanti il palazzo di Montecitorio l’obelisco Solare... e sotto la direzione del noto arch. Sig. Antinori...”, in “Arch. St. Ital.”, serie IV, vol. XX, 1887, p. 425. 52 Lettera di F. cancellieri “... sopra lo scoprimento e la traslazione....”, op. cit., p. 21.

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traccia liberamente la storia affinchè ne resti almeno qualche memoria, sia del progetto di erigere l’obelisco: “Ivi è rimasta giacente per terra (la colonna Antonina), quasi del tutto inosservata, e senza onore, finchè Pio VI, mosso da improvvidi Consiglieri, che glie la fecero credere inservibile ad ogni altro uso, non si determinò di far tassellare, e riattare con le sue lastre l’Obelisco Solare, col proprio suo Piedistallo, avendo però avuto l’avvertenza di far segare a parte le due Iscrizioni Greche dell’imo, e del sommo scapo della stessa Colonna, che furono trasportate al Museo Vaticano, come si dichiara nel Diario del Chracas n. 1664, 11 Dic. 1790...”; e ancora: “Io ebbi la sorte di essere il principal Promotore, non solo dell’erezione dell’Obelisco Solare, ma eziandio di altri due, con la Supplica da me presentata a quel gran Pontefice, a nome del Sallustiano, per farlo erigere fra i due Colossi sul Quirinale, coll’Augusteo sul Colle Pincio, gemello dell’altro innalzato da Sisto V sull’Esquilino, e col Barberino sul Torrione di Porta Pia, a fine di nobilitare, con la vista di quattro Obelischi, il Quadrivio delle quattro Fontane. La medesima Supplica fu da me stampata a parte per Saggio della Carta, e de’ nuovi Caratteri, coì quali doveva stamparsi in 4 Volumi in 4. la mia Opera de Secretariis Ethnicorum, Christianorum, ac veteris, et novae Basilicae Vaticanae, e presentata a quell’immortale Pontefice, che si degno di adottarne il progetto, con la sola diversità di aver eretto al Quirinale l’Augusteo, in vece del Sallustiano, innalzato alla Trinità dei Monti”. E per fortuna che andò così. Perchè spodestare lo gnomone di Augusto della sua principale funzione era un’operazione errata almeno quanto quella di restaurare lo stesso obelisco con la Colonna Antonina! Il consiglio dell’Azara quindi prevalse, e la Piazza Montecitorio fu prescelta per il nuovo innalzamento.

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Nell’agosto del 1788 veniva steso un contratto privato tra l’Antinori e la Reverenda Camera, di cui ecco i brani più importanti : “Inoltratasi la magnificenza del Nostro Sovrano nel pensiero nobilissimo di rendere a Roma il più superbo antico decoro col ristaurare, ed erigere i giacenti e guasti obelischi, de’ quali sola può coronarsi la Città Regina : è piaciuto al Santo Padre di ordinare il difficile risarcimento dell’obelisco solare abbandonato finora, come incapace di più reggersi, e di determinarne il nuovo collocamento nel centro della piazza si Monte Citorio, ove presentemente si stà il piedistallo istoriato Antonino, e questo trasportare nel Vaticano, come degnissimo di gelosa custodia nel Pio Museo. Per tale gloriosa impresa degnatasi Santità Sua di richiamare la mano del suo suddito Giovanni Antinori già clementemente esperimentata in simili opere, il medesimo Architetto si obbliga per la somma di scudi 24 mila a quanto distingue qui appresso. I. Di trasportare il piedistallo di Monte Citorio al Museo Pio nel

Vaticano...

IV. Trasportare il piedistallo di granito, su cui posar dee l’obelisco dalla vignaccia al Montecitorio ; tassellarlo e collocarlo al luogo destinato. V. Risarcire ad uso d’arte tutto l’obelisco, lasciando intatti i

geroglifici, com’essi sono : aggiungendovi le facce mancanti, senza però richiamare su d’esse per mezzo della impostura i non intesi egiziani misteri ; sostituirvi il primo pezzo di nuovo...

VI. ...Finalmente dare perfetta e compita l’opera nel termine di 3 anni, incominciandola il mese di agosto dell’anno corrente 1788”53

Tolto dalla piazza di Montecitorio il basamento istoriato che per circa 80 anni aveva invano sperato di funzionar nuovamente da 53 Nel contratto notarile, che fu rogato il 5 settembre, si stabilì che i lavori cominciassero col gennaio seguente.

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sostegno alla colonna Antonina, l’Antinori nel gennaio 1790 ci pose la base dell’obelisco con la duplice iscrizione di Augusto.54 Ci vollero tuttavia due anni e mezzo perché l’opera arrivasse a compimento, anche a causa dei numerosi e difficili restauri all’assai danneggiato obelisco. Finalmente : “Martedi mattina (15 giugno 1792) alla presenza di un’infinità di popolo, fu innalzato grosso pezzo dell’obelisco solare innanzi alla Curia Innocenziana, la quale operazione, diretta dall’Architetto Antinori, riuscì felicemente, e fu con piacere osservata dalle Madame di Francia, dall’appartamento di Monsig. Albani, Uditore della Camera che le fece servire di scelti gelati”55. Stando ad alcuni documenti56, sembra che il Tesoriere cardinal Ruffo avesse avuto a cuore non solo l’erezione dell’obelisco, ma che ne avesse propugnato anche il ripristino ad orologio solare. Il capo scalpellino che nel 1793 aveva steso sulla piazza una serie di selci-guida sui quali sarebbero andati progressivamente a cadere i raggi solari raccolti e convogliati nel foro della grande palla di bronzo fissata sull’obelisco, scriveva che il card. Ruffo aveva “bastanti lumi nella gnomonica, non solo per farla eseguire a qualunque vivente, quasi oserei dire ad un automa”. Del resto, benchè ormai la palla di bronzo ornata con i bellissimi Eoli che soffiano vento con le gote gonfie (emblema araldico di papa Braschi)57, fosse stata fissata lassù, i più accreditati 54 Dispacci del Bottini, pp. 427, 432, 434 e 435. 55 Ibid. p. 440, in data 19 giugno 1792. 56 Nello stesso fascicolo citato alle note precedenti. Un frammento di questo obelisco, col cartello del faraone Psammetico, fu di proprietà del conte Camillo Orlando-Castellano di cui diremo alle pagine seguenti. 57 Dal volume “Gli Orologi”, Fabbri, 1966-1984, p. 15, si legge : “L’architetto fece un modello (della cuspide) con le stelle, l’arbusto e il cherubino sbuffante - lo stemma di papa Braschi - e il Papa lo approvò. Ma gli astronomi del Collegio Romano modificarono il progetto : allungarono il collo della cuspide e abbassarono la finestrella oblunga per permettere ai raggi del sole di segnare anche durante i mesi estivi il mezzogiorno sul

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“professori” si erano pronunciati contro il vano disegno che l’obelisco potesse funzionare da orologio solare. Ecco due brani (1794) di illustri personaggi : Gioacchino Pessuti si opponeva “per ragioni...ovvie per chiunque abbia non leggiera tintura di ottica ed astronomia... la destinazione, ch’ebbe anticamente il nostro obelisco di servir di pubblico orologio, fu dettata dalla mancanza degli orologi a ruota che abbiamo noi...”, e opponendo a quello degli antichi Romani l’intenso traffico stradale della fine del Settecento riteneva assurdo pensare ad una stabilità assoluta dell’obelisco appunto “per il continuo passaggio di gente e carrozze” in quella piazza. L’abate Giuseppe Calandrelli a sua volta sosteneva, ironizzando, che quell’adattamento “non potrà non dare un ridicolo al paese, come se fosse privo de’ lumi dell’astronomia” e che volersi proprio ridurre a conoscere il mezzodì “coll’uso di uno gnomone sia impresa non che da Sovrano, ma bensì riservata al povero laico cappuccino il quale nel suo egualmente povero orticello con un chiodo fitto nel muro... indica ai suoi confratelli il prossimo punto di mezzogiorno”. Come risulta evidente, questi ampi passi testimoniano che l’opera di D’Onofrio sugli obelischi di Roma, è tra le più ricche di citazioni e riferimenti che sia stata pubblicata in epoca relativamente moderna ed è una fonte preziosa soprattutto per il periodo relativo allo scavo di benedetto XIV e all’innalzamento dell’obelisco sotto Pio VI Braschi. Per questo motivo, e per l’ottimo lavoro di sintesi svolto dal D’Onofrio, abbiamo scelto di trascrivere i passi più importanti come sopra riportati. lastrico della piazza. E’ possibile, nelle belle e assolate giornate, vedere il raggio del sole che segna il mezzogiorno esatto dell’ora solare. Ma è molto difficile, senza le opportune tabelle recanti le indicazioni circa la differenza con l’ora media, sapere l’ora esatta. Così, la più vecchia meridiana di Roma, e forse anche dell’Europa intera, dà il segno del mezzogiorno - che come tutti i Romani ben sanno - non serve a nessuno”.

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Il cartiglio di Psammetico II. Come si è visto, i “misteri egizi” erano ancora tali all’epoca in cui fu innalzato l’obelisco. Infatti, l’illuminante e tanto attesa decifrazione dei geroglifici avvenne per merito di Champollion solo nei primi decenni dell’Ottocento e confermata universalmente solo mezzo secolo dopo. Quindi, all’epoca di Benedetto XIV e di Pio VI si credeva ancora, seguendo anche le errate indicazioni di Plinio, che l’obelisco fosse appartenuto in Egitto, al faraone Ramsete il Grande, ovvero Sesostri (come pure arbitrariamente l’attribuisce l’iscrizione alla base dell’obelisco) della XII Dinastia egizia. Mentre nell’erudita dissertazione di Rezzonici, nelle sue “Disquisizioni Pliniane”, ritiene di dover attribuire l’obelisco non a Sesostri ma a Sochide58. Ora invece che sono stati letti correttamente tutti i geroglifici che si sono salvati sull’obelisco, siamo sicuri di aver trovato il suo vero antico padrone in Psammetico II. A tal riguardo, mi sembra interessante riportare un’altro prezioso documento che ho rintracciato nell’articolo Frammenti dell’obelisco di Montecitorio, scritto dal conte Camillo Orlando-Castellano, il quale conservava in casa un pezzo sicuramente appartenente alla guglia di Augusto, sfuggita quindi al rimescolamento di pezzi effettuato durante il restauro e l’innalzamento. L’articolo fu pubblicato nella rivista “L’Urbe”, n° 5, XXVII, Roma, 1964 : ...Per buona fortuna dell’insigne monumento e per buona pace di quanti amano Roma sopravvenne, il 16 giugno 1964 la notizia che l’obelisco - a seguito degli esami e delle ispezioni effettuate in ogni parte di esso - presenta qualche sconnessione dei pezzi di 58 La Turre Rezzonici, Disquisitiones Plinianae”, 1767 (vedi oltre), p. 288 : “sed decantatum Campi Martii Obeliscum non a Sesostre, sed a Sochide excisum indubiis ostendam argumentationibus”. E ancora : “Adde Riccardianum codicem, qui infra Campi Martii Obeliscum a Sochide excisum testatur”. Ne parla anche il Bandini nell’op. cit., praefat. Pag. XVIII.

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sienite59 per sfaldatura delle grappe in ferro (poste nel 1792), consunte dal tempo, e taluni più notevoli danni al globo di bronzo e alla cuspide. E tali opere sono state subito affrontate ; l’obelisco ingabbiato durante i lavori ; la circolazione nella piazza parzialmente ripristinata con cautele sagge ed opportune ; il portone di Palazzo Montecitorio, peraltro, venne per un certo tempo chiuso per ridurre il traffico... V’è da dire che l’allarme è sorto durante l’esame dell’obelisco nelle periodiche indagini tecniche e statiche, assai opportune, degli antichi monumenti ... Probabilmente è meno noto che un frammento di quest’obelisco, andato disperso, non fu incluso all’epoca della ricostruzione del 1792. Esso fece parte della collezione del veliterno cardinale Stefano Borgia - piccola ma importante raccolta di antichità egizie - che, nel 1817, si aggiunse al Museo Nazionale di Napoli...Ed è ben strano che il Marucchi, nella sua tanto pregevole opera sugli obelischi egiziani di Roma, di tale frammento non faccia cenno. Quel pezzo si trova ora nel Museo Nazionale di Napoli, “Collezione Egizia”, sala XVII, n. 999, ove è ben visibile. La notizia che precede, nota agli studiosi ed agli egittologi ancor più, va completata con la seguente meno conosciuta : che nelle collezioni della mia Casa vi è altro cimelio (lungh. 0,24, alt. 0,44, profond. 0,20 - misure del cartiglio : alt. 0,26, largh. 0,13), del medesimo obelisco. Fu nel febbraio del 1957 che, avendo avuto la fortuna di conoscere il valoroso giovane egittologo prof. Sergio Bosticco, gli segnalai un frammento che egli, con interesse, esaminò e studiò... Il frammento è in granito rosso (sienite), presenta una faccia levigata con resti di iscrizione geroglifica monumentale accuratamente incisa, il cui breve testo...é, come lo ha letto il Bosticco :

“...(am)ato, Psammetico, v(ivente) co(me) R(e)...” 59 Plinio aveva così denominato la pietra di cui era fatto il monolite e perché essa era originaria di Siene in Egitto.

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...le anzidette dimensioni del cartiglio concordano perfettamente con quelle ricorrenti nell’altro frammento che proviene con sicurezza dalla fascia ornamentale che stava alla base dell’obelisco di Montecitorio. L’autore conclude il suo articolo chiedendosi se questi due pezzi siano i soli “cimeli vaganti” del secolare obelisco, quasi ad esortare a chi per caso conservasse in casa qualche pezzo dello stesso, di portarlo alla luce della conoscenza. Questo frammento offre l’occasione per ricordare uno dei quesiti non ancora risolti riguardo il faraone che volle l’estrazione dell’obelisco. Sopra ciascun lato della cuspide si nota in alto uno scarabeo alato che regge un disco solare e in basso scene in cui il re compare sotto l’aspetto di una sfinge sdraiata. Date le cattive condizioni del monumento, come si è potuto capire dalla precedente ricostruzione storica, una gran parte del testo originale è andata perduta. Ciò che rimane contiene epiteti convenzionali e la menzione dei nomi del re60. : “L’Horus d’oro, colui che abbellisce le Due Terre, amato da Atum, signore di Eliopoli ; il re dell’Alto e Basso Egitto, Neferibre, amato da Re-Harakhti, figlio del suo stesso corpo, colui che prende la Corona Bianca e che unisce la Doppia Corona, Psammetico, amato dalle Anime di Eliopoli. Nel primo (giubileo). L’ultimo elemento dell’iscrizione risulta il più importante, in quanto contiene un riferimento al primo giubileo. Può sembrare strano che Psammetico II, il cui regno durò soltanto sei anni, abbia celebrato un giubileo, ma risulta altresì attestato un altro sovrano che lo celebrò dopo un regno di soli tre anni. Una spiegazione possibile è che tali sovrani abbiano computato i loro giubilei da una data precedente nel regno dei predecessori”. 60 L. Habachi, I segreti degli obelischi, Newton Compton, Roma, 1978, p.104.

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DOCUMENTI Il testo di Plinio L’unica descrizione antica che abbiamo del solarium di Augusto ci è stata lasciata da Plinio nella sua Storia Naturale. Ma, come si è detto prima, il testo pliniano risulta oggi profondamente corrotto. Per questo ci pare interessante mettere a confronto alcune delle versioni più importanti redatte dal medioevo ad oggi. 1) versione di Arduino , Paris, 1685 (da La Turre Rezzonici) “Ei, qui est in Campo, Divus Augustus addidit mirabilem usum, ad deprehendendas Solis umbras, dierumque ac noctium ita magnitudines, strato lapide ad magnitudinem Obelisci, cui par fieret umbra, brumae confectae die, sextam hora, paulatimque per regulas (quae sunt ex aere inclusae) singulis diebus decresceret, ac rursus augesceret: digna cognitu res ingenio foecundo Manlius Mathematici. Apici auratam pilam additit, cujus umbra vertice colligeretur in se ipsa, alias enormiter jaculante apice, ratione (ut ferunt) a capite hominis intellecta”. 2) versione di Cristoforo Heilbronner (Historia Matheseos Universae, 1742) “De illo (obelisco) qui est in Campo Martio pro gnomone. Ei qui est in Campo, Divus Augustus addidit mirabilem usum, ad deprehendendas Solis umbras, dierumque et noctium magnitudines, strato lapide, ad Obelisci magnitudinem, cui par fieret umbra Romae, confecto diei, hora sexta, paulatimque per regulas, quae sunt ex aere inclusae, singulis diebus decresceret et rursus augesceret, digna cognitu res et ingenio foecundo. Manlius Mathematicus, apici auratam pilam additit, cujus vertice umbra colligeretur in semetipsam, alia atque alia incrementa jaculantem, ratione, ut ferunt, a capite hominis intellecta”.

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3) versione di La Turre Rezzonici (Plinianae Exercitationes, 1767): Ei, qui est in Campo Divus Augustus addidit mirabilem usum ad deprehendendas Solis umbras, dierumque ac noctium horas, magnitudine strato lapide ad magnitudinem Obelisci, cui par fieret umbra brumae confectae die, sextam hora; paulatimque per regulas, quae sunt ex aere inclusae, singulis diebus decresceret, ac rursus augesceret. Digna cognitu res et ingenio foecundo Manlii Mathematici. Is apici auratam pilam additit, cujus vertice umbra colligeretur in se ipsam, alia enormiter incrementa jaculante apice: ratione, ut ferunt, a capite hominis intellectam”. 4) versione del codice fiorentino Riccardianus del secolo X-XI “Ei, qui est in Campo, D. Augustus addidit mirabilem usum ad deprehendendas Solis umbras dierumque annotium ita magnitudines strato lapide ad magnitudinem Obelisci cui par fieret umbrarum et confectae die sextam hora, paulatimque per regulas quae sunt ex aere inclusae singulis diebus decresceret, ac rursus augesceret. Digna cognitu res ingenio Facundin’ L. Mathematicus apici auratam pilam additit, cujus umbra vertice colligeretur in se ipsa alias enormiter jaculante apice ratione ut ferunt a capite hominis intellecta”. 5) versione del Codice ambrosiano I. “Ei qui in Campo Divus Augustus addidit mirabilem usum ad deprehendendas Solis umbras dierumque ac noctium horas magnitu. strato lapide ad magnitudinem Obelisci cui par fieret umbrarum effectus dies et hora paulatimque per regulas quae sunt ex ere incluse singulis diebus decrescere ac rursus augescere. Digna cognitu res et ingenio Facundo. Manlius Mathematicus apicis auratam pallam additit, cujus vertice umbra colligeretur in se ipsa aliam Solem imitari jaculante apice ratione ut ferunt a capite hominis intellecta”.

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6) versione del Codice ambrosiano II. “Ei qui est in Campo Divus Augustus addidit mirabilem usum ad deprehendendas Solis umbras dierumque ac noctium horas magnitudine strato lapide ad magnitudinem Obelisci, cui par fieret umbrarum effectus dies et horas, paulatimque per regulas quae sunt ex aere inclusae singulis diebus decrescere ac rursus augescere. Digna cognitu res et ingenio facundo. Manilius Mathematicus apici auratam pilam additit cujus vertice umbra colligeretur in semetipsam, alias incrementa jaculante apice, ratione, ut ferunt a capite hominis intellecta”. 7) versione delle “Belles Lettres” a cura di Jean Soubiran. “Ei qui est in Campo Divus Augustus addidit mirabilem usum ad deprehendendas Solis umbras dierumque ac noctium ita magnitudines, strato lapide ad longitudinem Obelisci, cui par fieret umbra brumae confectae die sexta hora paulatimque per regulas, quae sunt ex aere inclusae, singulis diebus decresceret ac rursus augesceret, digna cognitu res, ingenio Facundi Novi mathematici. Is apici auratam pilam additit, cujus vertice umbra colligeretur in se ipsam, alias enormiter jaculante apice, ratione, ut ferunt, a capite hominis intellecta. Haec observatio XXX iam fere annis non congruit, sive solis ipsius dissono cursus et caeli aliqua ratione mutato sive universa tellure a centro suo aliquid emota (ut deprehendi et aliis in locis accipio) sive urbis tremoribus ibi tantum gnomone intorto sive inundationibus Tiberis sedimento molis facto, quanquam ad altitudinem inpositi oneris in terram quoque dicuntur acta fundamenta”. La corrispondente traduzione in francese è: “Le divin Auguste donna à celui qui est au Champ de Mars la fonction remarquable de marquer les ombres projetées par le soleil et de déterminer ainsi la longueur des jours et des nuoits. Il fit exécuter un dallage proportionnel à la longueur de l’obélisque de facon que l’ombre, à la siexième heure du solstice, d’hiver égalàt la longueur du dallage, ensuite, peu à peu, décrùt, puis augmentàt jour après jour en passant par des réglettes de bronze incrustées, système qui mérite d’étre connu et qui est dù au génie

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inventif du mathématicien Facundus Novius. Celui-ci fin encore placer sur la pointe de l’obélisque une boule dorée dont l’ombre du sommet se ramassàt sur elle-mème, autrement la point proietait une ombre démesurée. Il avait pris’ dit-on, pour principe la tète humaine...”. Il commento delle “Belles Lettres” al passo di Plinio: “ En 10 av. J.-C., Auguste dédia cet obélisque au soleil et en fit l’aiguille d’un cadran solaire constitué par un pavement de marbre disposé au pied de l’obélisque. Des lignes dorées, incrustées dans le marbre, indiquaient midi aux différentes saisons de l’année. Des fragments du pavement avec les lignes dorées, ainsi que des fugures exécutées en mosaique et rapreésentant les vents et les corps célestes, furent mis au jour à la fin du XV° siècle et au cours du XVI° siécle. Ils ont été recouverts par la suite. L’bélisque lui-mème fut dégagé et redressé au XVIII° siécle; il se trouve aujourd’hui Piazza Montecitorio”, e dopo alcuni riferimenti bibliografici aggiunge Soubiran “On ne sait rien sur Facundus Novius, en dehors de la notice de Pline”. Notificando che nulla si sa su questo ignoto Facondo Novio all’infuori della notizia di Plinio. CHI ERA FECONDO NOVO? Ma forse sarebbe meglio dire che nulla si sa di questo ignoto matematico all’infuori del suo nome arbitrariamente o volutamente introdotto nelle traduzioni. Ma c’è di più: nella “Storia Naturale” di Plinio pubblicata da Einaudi, da cui abbiamo tratto la versione italiana del passo che ci interessa, riportata precedentemente in questo testo, Facondo Novio viene addirittura presentato come se fosse un personaggio a tutti ben noto: “Matematico ideatore dell’orologio solare in Campo Marzio promosso da Augusto intorno al 10 a.C.: probabilmente a lui si deve la reinterpretazione dello gnomone in chiave urbanistica e l’idea di adottare un obelisco a un tempo come asta dello gnomone e perno spaziale della piazza adibita a orologio

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solare”. E per fortuna che in una nota al testo venga detto che “Facondo Novio è altrimenti sconosciuto”, se no per questo scritto di Plinio. Se tra cinquecento anni andassero perduti tutti i codici della “Storia Naturale” di Plinio e si salvasse solo questa traduzione della Einaudi, probabilmente Facondo Novio, da illustre personaggio sconosciuto, godrebbe tra i futuri studiosi, di una fama (gratuita) al pari degli enciclopedisti romani. E’ anche da annotare che se nelle note al testo ufficiale delle “Belles Lettres” sono state riportate con zelante precisione le corrispondenti parole trovate nei codici antichi consultati, nessun riferimento, invece, è stato dato sul termine Facundus Novius. Infatti, ecco le annotazioni al testo delle Belles Lettres, relative al capitolo 10 che abbiamo trascritto dall’originale: “ac noctium; ac noetium; anno etium; longitudinem; magnitu-; fieret; -re; umbra brumae; umbrarumae; -rum romae; decresceret; -scere; novi; non; mathematici is; ticis; thici; in se; ipse; in; ipsam; ipsa”. Si tratta naturalmente di parole ricavate da diverse versioni antiche dei codici dell’opera di Plinio. Ma, come si vede, nulla si ricava sulla giustificazione dell’adozione del termine “Facundi Novi”. Come si può vedere dai testi trascritti prima, nel codice fiorentino Riccardiano (X-XI secolo) è riportato il nome “Facundin’ L.”, dove L. potrebbe significare “Liberti”, ma nulla dice l’autore, e il commentatore, su questo ignoto personaggio; mentre nei due Ambrosiani (e in un altro detto Principe editione), peraltro non citati nelle Belles Lettres, è distintamente riportato “Manilius Mathematicus”. Nei codici Vaticani 1951. 1952, 1957, citati da Rezzonici, si legge “foecundo ingenio”, mentre Harduino cita altri codici che riportano “ingenii majestate, ingenii magnitudine, ingenii non importuni, sagacis ingenii, ingenio audaci”, e via dicendo.

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D’altra parte anche autorevoli studiosi moderni di gnomonica si fanno meraviglia chiedendosi chi possa essere questo eterno sconosciuto, denominato Facondo Novio, così come giustamente fa l’Ammiraglio Fantoni nel suo eccellente articolo La meridiana di Augusto (61). Egli ipotizza, inoltre, che possa trattarsi di un autore greco sconosciuto e latinizzato con questo nome per esaltare la divinizzazione imperiale. Più propenso sarei per l’identificazione con il celebre romano Manilio, visse proprio al tempo di Augusto, autore del “Poema Astronomicon”. Dello stesso parere furono il Vossio e Albertus Fabricius. Anche il Bandini (62) riporta il nome di Manlio matematico, come è indicato nell’Enciclopedia Popolare, alla voce gnomone, del 1846. Ma, purtroppo, è difficile oggi stabilire con precisione quale doveva essere il passo originale, dopo tutte le modifiche apportate dagli amanuensi nei codici antichi. In ultimo, non è da tenere a conto anche un certo Epigene di Bisante che, secondo Seneca (63), si distinse proprio al tempo di Augusto come un affermato studioso di Gnomonica dopo essersi formato presso la scuola caldea, per cui fu soprannominato Epigene Gnomonico. Ciò potrebbe, inoltre, spiegare anche il perchè furono adottati i nomi greci per abbellire le indicazioni della linea meridiana di bronzo ricavata nell’antico pavimento. Interpretazione della versione di La Turre Rezzonici (vers. 4) Cercheremo ora di rendere alcune osservazioni fatte da La Turre Rezzonici nella sua opera relativamente ad alcuni importanti passi da lui stesso emendati. Ei, qui est in Campo(1) Divus Augustus(2) addidit mirabilem usum(3) ad deprehendendas Solis umbras, dierumque ac noctium horas(4), magnitudine strato lapide ad magnitudinem Obelisci(5), cui par fieret(6) umbra brumae confectae die, 61 In Orologi le Misure del tempo, n. 12, ottobre 1988, Ed. Technimedia, Roma. 62 Dell'obelisco di Cesare Augusto, Roma 1750 63 Questioni naturali, Lib. VII, cap. 3

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sextam hora(7); paulatimque per regulas, quae sunt ex aere inclusae, singulis diebus decresceret, ac rursus augesceret(8). Digna cognitu res et ingenio foecundo Manlii Mathematici(9). Is apici(10) auratam pilam additit, cujus vertice umbra(11) colligeretur in se ipsam(12), alia enormiter incrementa jaculante apice: ratione, ut ferunt, a capite hominis intellectam(13)”. (1) Si tratta del Campo Martio, citato poco prima dallo stesso Plinio. (2) Nel codice Riccardiano appare D. nel modo in cui i Romani usavano scrivere il prenome e quindi “Divus” in questo caso. (3) L’uso mirabile dell’obelisco deve essere quello di destinarlo non solo a gnomone di una linea meridiana, ma di un gigantesco orologio solare e calendario gnomonico: “Quod velim adnotares, est usus mirabilis deprehendendis Solis umbris, dierum, et noctium horis adjectum, ut omnibus perpensis emergat sciothericum horologium a Plinio describi, non unice lineam illam, quam Neoterici meridianam vocant...” D’altra parte già il Masi e il Kircher, erano dell’opinione che l’obelisco gnomone era destinato per un intero orologio solare-calendario e ciò è ben visibile nell’eccellente disegno effettuato da Kircher nel suo libro “Obeliscus Pamphilius” (fig.32). (4) dierumque ac noctium horas. Si trova nei codici Ambrosiani, in tutti i codici Politiani, nei Vaticani nn° 1951 e 1953, e presso Aleriensis Episcopi, Beroaldi, Dalecampii ed altri codici. “Dierum ac noctium” si trova invece nei codici Vaticani 1950. 1952. 1954. 1955. e lo stesso si legge in Flavus Blondus (Rom. instaurat. lib. II, num. LXXV - Bandini. Praefat. pag. XVIII). Aleriensis Episcopus scrive: “dierumque ac noctium magnitudines: strato lapide ad Obelisci magnitudinem”; mentre Dalencampius emenda in : “dierum que ac noctium magnitudines etiam, ac horas strato lapide ad Obelisci magnitudinem, cui par fieret umbrarum ejectus, paulatimque, etc.” (edizione Hack, sec. XVIII, tomo III,

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p. 650). Weidler infine riporta: “strato lapide ad umbrae Obelisci magnitudinem, cui par fieret umbra, bruma confecta fere hora sexta” (Consul. epistol. Weidler. ad Marinon. apud Bandinium num X fol. LX). 5) Obelisci. Qui nasce la questione se Plinio intendesse un orologio solare completo di linee orarie o se l’obelisco fosse lo gnomone per la sola linea meridiana del mezzogiorno. Per Harduino, Plinio non scrive “horarum” (nullam horarum mentionem fecisse Plinium praeter unicam horam sextam) per indicare un orologio. Ma per Marinonius, Maffejus, Muratore, Bosium, Wolfium, Heinsiumque, ed altri, Plinio intendeva con “horam”, od “horarum” proprio un orologio solare completo. D’altra parte, se con “dierumque ac noctium ita magnitudines”, Plinio intendeva parlare di una costruzione che indicasse in senso calendariale la durata dei giorni e delle notti in tutto l’anno, ciò poteva farsi solo attraverso le linee ipotizzate da Buchner nel suo studio, disposte trasversalmente sulle rette orarie. 6) Par fieret. Tutti d’accordo su questo passo in cui si dice che il pavimento doveva essere grande per l’equivalente lunghezza dell’ombra dello gnomone nel giorno del solstizio invernale, all’ora Sesta. Zieglero e Dalecampio si presero lo scomodo di calcolare questa grandezza, considerando alla latitudine di Roma e nel giorno del solstizio estivo, nell’ora Sesta, un obelisco di cubiti 48 e 3/4 gettava un’ombra pari alla nona parte della sua altezza, cioè pari a 43 cubiti, 1/4 e 10/12. 7) Sexta hora. In Episcopus Aleriensis, manoscritti del 1470 e 1472, si legge “cui par fieret umbrarum Romae confecto die sexta hora”, ma il Hermolai Barbari, in Castigationes Plinianae, nel 1473, corregge in umbra, alla quale segue decresceret et augesceret. Il codice Riccardiano riporta: “umbrarum et confecte die hora sexta”; l’Ambrosiano I. :”cui par fieri umbrarum effectus dies et horas”;

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il Laurentianus e Vaticanus 1951: “Umbrarum Romae confecto die”. Il Vaticanus 1559, e il Palatino: “Romae umbrarum confecto die”. Il Codice A, o I. Politianus: “Umbra Romae confecto die”. Il Codice B, o II. : “umbra tum Romae”. In Rezzonici ed in Salmasio, vi è una notevole dissertazione erudita su questo passo di Plinio. Trattandosi di un orologio solare e riferendosi Plinio alla lunghezza dell’ombra dell’obelisco al mezzogiorno del solstizio invernale, gli autori hanno pensato bene di emendare il passo riportato degli antichi codici, come “Umbra Romae confecto die”, che non ha senso, nel modo in cui suggerisce anche Salmasio e Scaligero:

“ad deprehendendas solis umbras, Brumae confecta diei, hora sexta”.

Salmasio fa notare che anche Manilio, nel terzo libro (sicuramente parla del Poema Astronomicon) usa il termine “Brumae sidus”. Infatti, è facile credere che il termine “Brumae” sia stato trasformato in “Romae”. La frase “Brumae confecta die”, però non corrisponde al modo di dire degli scrittori antichi quando parlavano del solstizio invernale. Infatti, in Vitruvio si legge “dies brumalis”, e non “dies Brumae confectae”;Manilio scrive: “Ternis fuerit si longior horis Brumali nox forte die...”. Ed anche qui si legge “brumali die”, e non “brumae confectae”. Nell’antichissimo codice Politiani, si legge “rume”, che appartiene senz’altro alla parola “brume”. Volendo proprio mescolare le varie citazioni, si potrebbe anche scrivere, come suggerisce Scipionis Maffei (Cit. epist. ad Bandin. fol. XLV): “cui par fieret umbra Romae brumali die sexta hora”, riferendosi più precisamente al giorno del solstizio invernale di Roma. Ma siccome Plinio parla già dell’obelisco situato nel Campo marzio, è evidente che sarebbe stato superfluo scrivere anche “Romae”.

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8) Ac rursus augesceret. Per questa frase le differenze fra i vari codici sono molto contenute. Essa comunque si riferisce all’andamento della durata dei giorni la quale cresce e decresce nel corso dell’anno. 9) Ingenio foecundo Manilii Mathematici. Si veda il paragrafo “Chi era Fecondo Novo?”. 10)- 11)- 12)-13) Is apici... Cuius vertice umbra...colligeretur in se ipsa...intellecta. Nei codici vaticani citati da Rezzonici con i numeri 1950. 1952. 1955. 1957, si legge “cujus vertice cum umbra”. Il Pigafetta descrive il globo che sarebbe stato posto sulla sommità dell’obelisco: “E questo pomo di rame finissimo, e coperto di fogli d’oro... non è mescolato l’oro col metallo, ma sopraposto, ed il rame è dorato con molte coperte e lame d’oro”. Sembra che anche Ammiano Marcellino parlasse di sfere sovrapposte ad obelischi, come riporta Rezzonici: “...quanquam non ignorem Ammiani Marcellini verba, ex quibus colligunt Eruditi aliorum etiam Obeliscorum vertici pilam fuisse impositam, eamquae aeneam, auro circumductam: “Sphaera superimponitur ahenea, aureis laminis nitens” (Lib. XVII.4.) Anche Montucla si esprime a tal riguardo scrivendo, ma evidenziando che il matematico Manlio aveva disposto il globo sull’obelisco non per la rassomiglianza alla testa umana, ma per meglio convogliare sull’orologio il punto gnomonico di proiezione: “Le mathematicien Manlius qui dirigea cet ouvrage, termina l’obeliscque par un globe, non pour lui donner de la ressemblance avec la figure humaine, come le dit Pline souvent peu heurex dans ses coniectures, mais asin que le sommet de l’obélisque étant censé au centre de ce globe, le milieu, de l’ombre, qu’ il projetteroit, designàt la hauteur du centre du Soleil”. Il codice Dalecampii (edizione Hack, tomo III, p. 650), riporta: “an pilam sic imposuerit, ut extaret tota humani capitis similitudine”, che è quanto riportato anche nelle versioni moderne. Si sbagliava, quindi, Montucla nel suggerire la

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“ressemblance avec la figure humaine”, in quanto il globo sull’obelisco doveva rassomigliare proprio ad una testa umana (intellecta). Dopo la descrizione dell’orologio, Plinio, scrive che le indicazioni orarie non sono più attendibili e per spiegarne le ragioni ricorre a varie cause naturali, tra cui un presunto errore del cammino del sole, uno spostamento dell’asse terrestre (!), inondazioni e terremoti. Il passo ufficiale è quello delle “Belles Lettres”: Haec observatio XXX iam fere annis non congruit, sive solis ipsius dissono cursu et caeli aliqua ratione mutato sive universa tellure a centro suo aliquid emota (ut deprehendi et aliis in locis accipio) sive urbis tremoribus ibi tantum gnomone intorto sive inundationibus Tiberis sedimento molis facto, quamquam ad altitudinem inpositi oneris in terram quoque dicuntur acta fundamenta. La cui traduzione francese è: Les données de l’observation initiale ne sont plus valables depuis environ trente ans; c’est que ou bien la course du soleil lui-meme est differente et a changé pour quelque raison due à l’économie céleste; ou bien la terre entièere s’est un peu dèplacée par rapport à son propre centre (et j’apprends qu’en d’autres lieux aussi on l’a observé); ou bien les secousses particuliérs ressentier à Rome ont tordu le gnomon; ou bien enfin les inondations du Tibre ont produit un affaissement de la masse, bien que, dit-on, l’on ait poussé aussi les fondations en terre à proportion de la hauteur de la charge imposée. Il Codice Riccardiano recita: Haec deservatio XXX iam fere annis non congruit sive solis ipsius dissono cursu, et caeli aliqua ratione mutato, sive universa tellure a centro suo aliquid emota (ut deprehendi et aliis in locis accipio) sive urbis tremoribus ibi tantum gnomone intorto, sive inundationibus Tiberis sedimento molis facto quamquam ad actitudinem impositione res in terram quoque dicuntur acta fundamenta

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Codice I. Ambrosiano: Haec dies XXX. iam fere annis non congruit, sive solis ipsius dissono cursu et caeli aliqua ratione mutato sive universa tellure a centro suo emota (ut deprehendi et aliis in locis accipio) sive urbis tremoribus ibi tantum gnomone intorto sive inundationibus Tiberis et imenso facto mol’ q q,aptitudinem inpositione intraris quoque dicuntur iacta fundamenta. Codice II. Ambrosiano: Haec observatio XXX. iam fere annis non congruit, sive solis ipsius dissono cursu et caeli aliqua ratione mutato sive universa tellure a centro suo emota (ut deprehendi et aliis in locis accipio) sive urbis tremoribus ibi tantum gnomone intorto sive inundationibus Tiberis sedimento facto molis qq. aptitudinem inpositione interra quoque dicuntur iacta fundamenta. Il termine dierum observatio, compare in molti codici antichi e nn si capisce per quale ragione la parola dierum sia stata abolita. In ogni caso essa vuole indicare

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L’Obelisco-gnomone di Augusto di Padre Giuseppe Boffito64 Molta importanza avrebbe potuto avere nella storia dell’astronomia e della cronografia l’obelisco-gnomone di Augusto, se fosse durato più a lungo nell’uffizio a cui era stato principalmente destinato. Con l’esatta determinazione infatti degli equinozi e dei solstizi avrebbe potuto servire di perpetuo controllo al calendario di recente riformato, risparmiando il dissesto secolare che doveva rendere necessaria nel Cinquecento la riforma Gregoriana. L’obelisco rimane, ed è quello di Montecitorio, uno dei due obelischi per ordine di Augusto asportati dall’Egitto, ma lo scopo, per cui era stato collocato nel Campo Marzio, venne meno non molto tempo dopo, quando forse non era ancora trascorso il mezzo secolo dal suo innalzamento. Plinio è degli scrittori antichi quello che meglio ci informa nella sua Historia, XXXVI, 10 (15), di questa degna opera di Augusto, ma presentando il passo qualche difficoltà di lettura e d’interpretazione, ho creduto bene di ricorrere al vetusto codice pliniano della Biblioteca Riccardiana (sec. X.XI)65, trascrivendovelo esattamente e aggiungendo quella che secondo me dovrebbe essere fedele traduzione. “Ei (obelisco) qui est in campo, Augustus addidit mirabilem usum ad deprehendendas solis imbras dierumque ac (testo: an) 64 Questo articolo venne pubblicato nella rivista “La Bibliofilia” del dicembre 1937. Come è evidente, il padre Boffito era convinto che l’obelisco fosse lo gnomone per la sola linea meridiana calendariale e non per un intero orologio solare. Noi abbiamo deciso di trascrivere le parti più importanti di questo articolo perchè in linea con il tipo di ricerche e considerazioni storiche proposte in questo volume, e anche perchè la rivista è ormai consultabile solo nelle grandi biblioteche. 65 Si tratta dello stesso codice Riccardiano citato da Rezzonici e del quale abbiamo riportato numerosi stralci.

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noctium ita magnitudines strato lapide ad magnitudinem obelisci, cui par fieret (t.: fiere) umbrarum et confectae die (al : umbra brumae confectae die) sexta hora paulatimque per regulas quae sunt ex aere inclusae singulis diebus decresceret (t.: decrescere) ac rursus augesceret. Digna cognitu res ingenio Facundini (t.: facundin; al. Facundi, Facundi Novi; Faciendi non cod Laurenziano; foecundo Manlius; & c). L. (Liberti) mathematici (t.: mathematic). Is apici auratam pilam addidit, cuius vertice umbra colligeretur in se ipsa; alias enormiter iaculante apice, ratione, ut ferunt, a capite hominis intellecta. Haec deservatio (al. observatio) XXX iam fere annis non congruit, sive solis opsius dissono cursu et coeli aliqua ratione mutato (t.: relato) sive universa tellure a centro suo aliquid emota, ut deprehendi et aliis (t.: alis) in locis accipio, sive urbis tremoribus ibi tantum gnomone intorto sive inundationibus Tyberis sedimento molis facto, quamquam ad altitudinem (t.: actitudine) impositione res (al. ad altitudinem impositi oneris) in terra quoque dicuntur acta fundamenta”. Segue la traduzione in italiano che pochissimo si discosta da quelle già riportate. Il commento di Boffito al testo pliniano è il seguente: “Il passo è irrimediabilmente corrotto qua e là, ma non sì da nascondere del tutto il significato. Esaminiamolo particolarmente, cominciando dall’autore dell’impresa. Che sia stato Augusto a volerla è fuor di dubbio. Alcunchè di simile aveva potuto forse vedere a Sira, o ad Atene o altrove. La conoscenza dell’astronomia era abituale nella famiglia Cesarea: Giulio Cesare aveva scritto un trattato De astris, citato da astronomi di professione, come Tolomeo e Germanico tradusse Arato. Augusto a sua volta ci teneva ad ornare le sue monete e gemme del segno di Capricorno, sotto il quale, se non nato, era stato concepito. Un collaboratore peraltro aveva avuto nell’impresa: un certo Facondino o Facondo Novo, forse liberto (se l’abbreviazione “L.” va interpretata così). Come Cesare nella riforma del calendario s’era associato il greco Sosigene, così Augusto aveva preposto ai lavori questo matematico: fosse greco

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o latino non importa qui definire, sebbene il nome sembri rivelarlo per romano. Ma quele era l’uso, che Plinio esalta come “mirabile”, a cui l’obelisco era stato adattato? Forse quello d’un volgare orologio solare? Gli orologi solari erano divenuti comunissimi in Roma....(...)....Doveva essere quindi qualcosa di più e di meglio per venir detto “mirabile”. Già, l’accenno iniziale al solstizio d’inverno, quando l’ombra meridiana doveva essere due volte e un quinto più lunga dell’altezza dell’obelisco, farebbe escludere per sè che si trattasse d’un comune quadrante solare. Si aggiunge poi la descrizione del lastrico di marmo intersecato da regoli di bronzo, lastrico che si prolungava solo in un senso o direzione e non tutto all’intorno, come sarebbe stato necessario se l’obelisco avesse dovuto far da gnomone o stilo d’orologio solare. Per l’esattezza poi dell’osservazione scientifica si noti l’accorgimento adoperato dal matematico augusteo, la sostituzione cioè alla cuspide, che con la sua penombra avrebbe potuto facilmente trarre in inganno, d’un globo aureo il cui centro d’ombra o linea centrale doveva coincidere col punto preciso della linea meridiana dov’erano segnati i solstizi e gli equinozi. La ricostruzione che io ne ho tentata......” L’autore informa che ha adottato, per il suo disegno effettuato dal padre Giovanni De Bernard barnabita, le misure fornite dal testo di Giacomo Stuart e O. Marucchi ed è quello visibile nella fig. 33. Inoltre, in una nota riporta le sue considerazioni contro le teorie di Kircher e Masi: “ Volendo farsi ragione dell’interpretazione erronea data al testo di Plinio da Atanasio Kircher (Obeliscus Pamphilius, pag. 80, Roma, L. Grignani, 1650) da Giacomo Masi (e forse da qualche altro) i quali ci vedono un comune orologio solare, sebbene più gigantesco, converrà ricordare che di fatto in alcuni scavi fatti sul principio del Cinquecento in Campo Marzio vennero alla luce alcuni avanzi di un quadrante solare, non appartenenti però al gnomone augusteo. Accanto a questo, o più o meno discosto da questo, che non dava l’ora che a mezzogiorno, era una necessità ci fossero dei veri orologi in quella località così frequentata...”.

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Naturalmente, si tratta della scoperta riportata nella nostra citazione n° 2, cioè i frammenti dell’orologio solare orizzontale con la scritta “Boreas Spirat”. Come già si è detto, nell’antichità, soprattutto nell’ambito di un progetto topografico, sebbene di dimensioni imperiali quale quello che Augusto riservò al Campo Marzio, non vi era necessità di avere a disposizione orologi precisissimi adatti a verificare i solstizi e gli equinozi e l’obliquità dell’eclittica, come invece fu fatto nel Rinascimento. L’ambizioso progetto di realizzare un enorme orologio solare, completo almeno delle sue parti essenziali, può benissimo rientrare nel desiderio dell’imperatore di dedicare al Sole, come già avevano fatto gli Egiziani, la piazza del Campo Marzio e l’obelisco. E’ inverosimile quindi che l’imperatore abbia approvato di far realizzare solo una linea meridiana, sebbene questa sia la principale in un orologio solare sulla quale è possibile ricavare dati calendariali, e non i un progetto più grandioso, come appunto quello di realizzare ciò che sembra impossibile: ovvero un intero orologio solare dalle dimensioni eccezionali. E’ pur vero che se si considerano anche le linee orarie estremme, la 1 e la 11 temporaria, si dovette ricorrere ad un pavimento largo circa mezzo chilometro (!), sul quale è alquanto difficile andare (proprio nel senso del movimento ) a leggere l’ora verificando la posizione del vertice d’ombra dell’obelisco. L’ipotesi però di Buchner che prevede un orologio senza le suddette linee orarie, riduce di molto questo inconveniente. Ma, come si è visto, a Kircher, al Masi e agli altri che perseguirono l’idea di un intero orologio solare, è stata resa giustizia dagli stessi scavi archeologici. L’altezza dell’obelisco L’altezza dell’obelisco di Psammetico II è un altro rebus sul quale sono stati scritti paragrafi rompicapo sulla base di varie

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interpretazioni non solo del testo pliniano, ma anche di vari altri riferimenti. Vediamo gli autori moderni cosa propongono in merito :

FONTE misure altezza obelisco Fantoni G. : La meridiana di Augusto, Orologi . Le misure del tempo, Technimedia, Roma, 1988

29.42 metri

Habachi L., I segreti degli obelischi, newton compton, Roma, 1978

metri 21,79 - piedi 71,50

Ravaglioli A., Questa è Roma, TEN, Roma, 1994

metri 21,791 - con basamento e puntale : metri 33,272

Orlando-Castellano C.,Frammenti dell’obelisco di Montecitorio, L’Urbe, n.5, 1964

metri 21.80 - con il piedistallo e il globo e la cuspide : metri 29.

Buchner E. Altezza originale : mt.29,42 - piedi romani 100

Come si vede già da questa breve lista, le misure sono in alcuni autori piuttosto approssimative. Come è evidente, il problema vero e proprio non è l’altezza attuale del monolito la quale dovrebbe essere, tra le più precise, quella indicata da Ravaglio, cioè 21,791 metri e con la base e puntale, 33,272 metri. Ma è l’altezza che esso aveva quando svolgeva le sue funzioni di gnomone alla meridiana di Augusto? Dalla tabella precedente si legge che il prof. Buchner ha calcolato essere, questo valore, pari a 100 piedi romani (assumendo il piede romano antico pari a 0,2942 metri), cioè 29, 42 metri, che è l’altezza ideale assunta dal Fantoni per il calcolo del tracciato orario della meridiana. Ma siamo sicuri che è l’altezza giusta ? Vediamo cosa ne pensavano gli studiosi di qualche secolo fa. Innanzitutto, partiamo dalla fonte principale, Plinio, il quale nella Storia Naturale ci lascia il seguente passo:

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“Is autem quem divus Augustus in Circo Magno statuit excisum est a rege Psemetnepserphreo, quo regnante Pythagoras in Aegypto fuit, LXXXV pedum et dodrantis praeter basim eiusdem lapidis ; is vero quem in campo Martio, novem pedibus minor, a sesothide”.66 E già le note dell’edizione “Les Belles Lettres”, da cui è tratta la citazione, mettono in evidenza che in altri codici antichi sono riportate diverse misure pari a piedi romani LXXXV ; XXCV ; CXXV. Il Buchner ha adottato la lunghezza del piede romano pari a metri 0,2942. Tenendo conto che Plinio indica 9 piedi in meno rispetto alla misura da lui indicata per l’obelisco del Circo Massimo, le precedenti altre misure, indicate negli altri codici, diventano :

LXXXV. 3/4 - IX= 76. 3/4 piedi romani x 0,2942 = 22, 49 metri (senza base)

XXCV. 3/4 è pari sempre a 85. 3/4 e dà lo stesso risultato ;

CXXV. 3/4 - IX = 116. 3/4 piedi romani x 0,2942 = 34, 51 metri

E’ strano che in un codice sia saltato fuori questo valore di CXXV piedi, che sembra piuttosto il contrario di XXCV. Forse il copista avrà voluto indicare il valore compresa la base dell’obelisco.

La versione delle “Disquisizioni Pliniane” di Rezzonici, riporta : “Is autem Obeliscus, quem Divus Augustus in Circo Magno posuit, excisum est a Rege Semetempferteo, quo regnante Pythagoras in Aegypto fuit, XXCII. Pedum, et dodrantis praeter basim ejusdem lapidis. Is vero, quem in Campo Martio, IX. Pedum minor a Sochide”.

Rezzonici fa notare che in alcuni manoscritti è riportato il numero XXCV e in altri LXXXV, e avverte che essi indicano lo stesso numero, 85, in due maniere diverse di scrittura.

66 Plinio il Vecchio, Storia Naturale, lib. XXXVI, cap. 9, 71. Edizione “Les Belles Lettres”, Paris, 1969

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Il Bandini, dal canto suo, si esprime in questo modo :

“At hic jam statim innotescit, quam facile hic numerus in illum 125. Sit a librariis commutatus. Si in vetustis codicibus scriptum fuit XXCII. Admodum facile in primis transposita notula C pro XXC. Scribi potuit CXX. Et quidem huius transpositionis habemus nonnullos Florentinos Riccardianae, ac Laurentianae Bibliothecae codices ; in quibus, ut ex amici litteris ad me Florentia datis nuper accepi, habetur XXCV. Licet editiones omnes passim habeant CXXV. Deinde binae litterae II nonnihil inclinatae admodum facile abire potuerunt in V. Hoc autem pacto salva Plinii fide, ejusque loco consentiente cum re ipsa, jam habebitur XXCII, cum dodrante, pro quo suum illud CXXV. Cum dodrante corrupti codices, atque editiones e corruptis codicibus derivatae, nobis obtrudunt.

In un esemplare membranaceo di Andrea Asulano Aldi, in Venezia, anno 1518, si legge :

“Obelisci magni VI. II. In circo maximo, major est pedum. CXXXII. Minor pedum LXXXVIII. Semis. unus in Vaticano pedum. LXXII. Unus in campo martio ped. LXXII. Due in Mausoleo Augusti pares singuli ped. XLII. Semis. OBELISCI parvi XLII. In plerisque sunt notae Aegyptiorum.”

In una edizione postuma, pubblicata anche da Graevio e Bandini, si legge :

“Obelisci magni sex. Duo in Circo Maximo, major est pedum CXXXII. Minor pedum LXXXVIII. Semis : unus in Vaticano pedum LXXII : unus in Campo Martio ped. LXXII. Duo in Mausoleo Augusti pares singuli pedes XLII. Semis. In Insula Tyberis unus. Obelisci parvi quadraginta duo. In plerisque sunt notae Aegyptiorum”.

Rezzonici riporta altri due esempi tratti da manoscritti antichi, in cui si riporta :

...In Campo Martio unus, altus pedes octoginta duos semis” e l’altro

...In Campo Martio unus, altus pedes LXXII.-S.-.

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dove la S. significa “semis”.

Nel primo caso si ha 82 piedi e mezzo. Nel secondo 72 piedi e mezzo.

Rodulfino Venuto, in una sua opera sulle antichità romane del secolo XVII, scrive :

“Augusto fece collocare nel Campo Marzio il maggiore di quegli obelischi alto cento undici piedi senza contare il piedistallo...” e in una nota si legge : “l’obelisco è lungo XCV. Palmi Romani, la base era il pezzo più conservato, ed in piedi alto palmi XIX....In tutto quest’obelisco era alto palmi CXII” dove è evidente l’errore commesso, in quanto l’altezza compresa la base non è di CXII. Ma di CXIV palmi.

La base, secondo l’indicazione del Venuto, sarebbe alta metri 4,21 (mentre il Fantoni riporta 6 metri).

Non meno confusa è la situazione relativa alla frase “IX. Pedum minor” di Plinio.

Nei codici Ambrosiani I., Riccardianus, Medicaeus, Academicus e Gudianus, si legge IX. Pedum ; in altri è annotato VIIII. Pedum che è lo stesso., ma almeno sembrano tutti indicare la cifra IX.

Secondo il gesuita Athanasius Kircher (sec. XVII), l’obelisco era alto piedi 125. 3/4, meno i 9 piedi come indicato da Plinio, si arrivava a piedi 116. 3/4. Francesco Jacquier, commentando questo passo67 fa notare che un orologio solare con un obelisco di tale altezza, pari a 34.46 metri, necessita di un lastricato di 67 Francisco Jaquerio ad Antonius Joseph Comes a Turre Rezzonici S.P.D., epistola pubblicata in A.J. Comes a Turre Rezzonici, Disquisitiones Plinianae, 1767, Tomo II, pag. 393: Kircherus vulgatae adhaerens lectioni, quae Semetempfertei Obelisco pedes 125. 3/4 attribuit: necessario debeat Sciotherico, novem pedum minori, adscribere pedes 116. 3/4; unde cum Masooani horologii figuram exhibet, cogebatur strati lapidis longitudinem proferre palmorum 1702. Verum si Campi Obeliscus vix attingebat pedes 73. 3/4: strato lapidi sufficient pedes 1071. uncia 1. puncti 5. atomi 2.

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palmi 1702, pari a circa 450 metri. Infatti, la coordinata oraria orizzontale, ovvero l’ascissa del punto orario della Prima ora temporaria per tale orologio (considerando una latitudine di 42° 15’ prossima a quella di Campo Marzio e l’altezza dell’obelisco come anzidetto), dista dalla base dell’obelisco metri 226. Se si considera la stessa estensione dalla parte opposta, cioè l’ascissa dell’ora 11 pari ancora a 226 metri, si ha che il lastricato deve essere largo almeno 452 metri.

Mentre, osserva Jacquier, per un obelisco di piedi 73. 3/4, pari a 21,74 metri, la precedente coordinata diventa di metri 142.6 ed occorre quindi un lastricato di 285 metri di lunghezza.

Tirando le somme, sembra un’impresa impossibile quella di stabilire sulla base dei documenti storici, la vera altezza dell’obelisco, con o senza base.

Assumendo il palmo romano pari a mt. 0,26468, le misure date da Rudolfino Venuto danno per l’obelisco una lunghezza (compresa la base) pari a metri 30,09, in buono accordo anche con la lunghezza prevista da Buchner.

Ma se adottiamo per esempio le misure romane come specificato nel libro “Spazio e Tempo. Vita e costumi dei Romani antichi”, di A. Dosi-F. Schnell, ed. Quasar, già citato nel testo, si ha che il Palmus maior, usato nel tardo Impero, equivaleva a 12 digiti, pari a 0,222 metri, mentre 1 pes = 4 palmi = metri 0,296 ; 1 decempedes o pertica = 10 piedi = 2,960 metri e quindi 1 piede = 0.296 metri.

Quindi, le misure di Venuto, diventano 114 palmi x 0,222 metri = 25,30 metri che sommata alla base di 4,21 metri dà una’ltezza dell’obelisco pari a 29,51 che ci sembra tra le più verosimili, in accordo con quanto scrive Plinio.

Prendendo l’indicazione data in alcuni codici pari a 95 piedi (XXCV), e sottraendo 9 piedi come dice Plinio, si ha 86 piedi, pari a metri 25,456 che sommati alla base di 4,21 metri dà 68 da Dizionario UTET, voce “palmo”.

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un’altezza totale di 29,66 metri, anche questa in ottimo accordo con le misure probanti.

L’indicazione di Buchner, di 100 piedi romani, diventa : 29,63 metri.

Per una latitudine prossima a quella del Campo Marzio , di circa 41° 51’ e adottando tre diverse misure per l’obelisco gnomone, si ottengono i seguenti dati: (i calcoli sono effettuati col programma “Meridiane” dell’ing. Gianni Ferrari di Modena)

Altezza obelisco: 100 piedi romani secondo Buchner = 29.42 metri

Lunghezza linea meridiana (compresa tra le due curve dei solstizi invernale ed estivo): 53.9 metri

Punto estremo dell’ora temporaria 1 dall’obelisco: 249.3 metri

Distanza linea equinoziale dall’obelisco (sull’intersezione con la linea meridiana): 26.7 metri

Altezza obelisco adottando 1 palmo romano antico pari a 0.296 metri = 29.63 metri

Lunghezza linea meridiana: 54.4 metri

Punto estremo dell’ora temporaria 1 dall’obelisco: 251 metri

Distanza linea equinoziale dall’obelisco: 27 metri

Altezza obelisco secondo il testo di Plinio 85.3/4 piedi - 9 piedi = 76.3/4 piedi x 0,296 = 22.62 + 4,21 (base) = 26.84 metri

Lunghezza linea meridiana: 48.3 metri

Punto estremo dell’ora temporaria 1 dall’obelisco: 227.4 metri

Distanza linea equinoziale dall’obelisco: 24.4 metri

Le prime due misure concordano abbastanza bene con il piano topografico e la sovraapposizione dell’orologio come proposto

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da Buchner. La terza misura avvicina la linea equinoziale all’obelisco di circa 3 metri. Troppo pochi per ipotizzare una disconnessione del piano urbanistico di Augusto se rivolto all’esaltazione e divinizzazione della propria immagine. Infatti, se egli in qualche modo volle paragonarsi agli antichi faraoni, e verosimilmente al grande Ramsete II, imitando l’effetto del tempio di Abu-Simbel, (in determinati giorni dell’anno il sole illumina le statue del faraone ricavate dentro una lunga caverna all’interno di una montagna) non lo possiamo sapere. Il sole, nei giorni di equinozio, sorge esattamente ad est, cioè in direzione della linea equinoziale la quale, essendo rivolta perfettamente verso l’Ara Pacis, è ovvio concludere che i raggi del sole nascente vadano ad illuminare il monumento augusteo. Ed è ancora più invitante supporre che l’imperatore avesse predisposto un qualche altare, o qualcosa di simile, su cui i raggi del sole, all’alba del suo compleanno, risplendessero della sua gloria. Tre metri, quindi, non sono molti per sviare una ipotesi del genere, per cui anche un obelisco di 26 metri di altezza, come indicato da Plinio, potrebbe rientrare nelle supposizioni.

Per finire, l’unica cosa che resta da fare per scoprire esattamente quanto era alto l’originario gnomone, sarebbe quella di riuscire a determinare la lunghezza della linea meridiana, mediante altri scavi, conosciuta la quale si ha immediatamente l’altezza dell’obelisco come fatto realizzare da Augusto.

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Montecitorio; L’Urbe, Roma, 1964 n° 5 Plinio il Vecchio; Storia Naturale; Libro XXXVI, cap. 10 Donati; De’ Dittici; sec. XVIII Zaccaria F. A.; Storia letteraria d’Italia; Tomo II, 1750 Muller G.C.; De obelisco gnomone Augusti Caesaris; 1706 Moroni Romano Gaetano; Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica; Vol. XLVIII p. 185, Venezia, 1748 Pietrangeli C.; Via del Corso; 1961 Bosticco S.; Frammenti inediti dell’obelisco campensea; “Aegyptus” XXXVII, 1957 Habachi L; I segreti degli obelischi; newton compton, Roma, 1978 Kastl H, Olaf H.; Gli obelischi di Roma e le loro epigrafi; Roma, Edizioni d’Italia, 1970 Buchner E.; die Sonnenuhr des Augustes, ; Mainz, 1982 Romano P.; Orologi di Roma; Roma, Anonima Romana Stampa, 1943 Fantoni Girolamo; La meridiana di Augusto; Orologi. Le misure del tempo,12 Technimedia, 1988 Pietrangeli C.; Via del Corso; 1961 pp. 39-40 Marchetti Longhi; in “Atti V Congr. Naz. Studi Romani; II, 531-544 Gatti; in “B.C.” ; LXVIII (1940) pp. 266-268 Lanciani R.; L’itinerario di Einsiedeln; Lanciani R.; Storia degli scavi di Roma; De Rossi G.B.; Note di topografia romana; 1882 pp. 49-87 Vacca Flaminio; Memorie...; 1594 AA.VV.; Diario Ordinario; Roma, anno 1748 Albertini; de Roma prisca et nova...; Mazochi 1510 De Rossi G.B.; Pomponius Laetus de vetustate urbis; Studi e docum. Di stora e diritto, anno III, 1882 Boscovich; Epist. Ad Bandinus num III fol. XIV; sec. XVIII Maffei Scipione; Epist. Ad Bandinus num. VI fol. XLVIII; sec. XVIII Flavius Blondus; Romae Instauratae ; lib. II Nardini; Roma Antica; Roma, 1666

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La linea meridiana dell’obelisco di Augusto in piazza Montecitorio. Foto N. Severino

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