STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE - web.uniroma1.it delle... · Tommaso Moro, L’utopia (1516)...

268
STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE Docente Prof. Scuccimarra Lezione n. 14 II SEMESTRE A.A. 2015-2016

Transcript of STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE - web.uniroma1.it delle... · Tommaso Moro, L’utopia (1516)...

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 14

II SEMESTRE

A.A. 2015-2016

Tommaso Moro, L’utopia (1516)

utopia

ou topos: non luogo

eu topos: luogo felice

Tommaso Moro, L’utopia (1516)

Tommaso Moro, L’utopia (1516)

Tommaso Moro, L’utopia (1516)

…Così viaggiando per giorni e giorni, trovò castelli e città e interi

Stati con popolazioni numerose, le cui costituzioni non erano le

peggiori di questo mondo. Sotto l’equatore, infatti, (…) giacciono

vasti deserti, bruciati sempre dal cielo infuocato: ovunque nudità e

triste aspetto, tutto vi è orrido e incolto, vi abitano solo belve e

serpenti o anche uomini, ma più selvaggi delle belve e non meno

nocivi. Ma via via che si esce di là, tutto a poco a poco si addolcisce, il

clima si fa meno aspro, il suolo dolcemente verdeggiante, la natura

delle bestie più mite. Alla fine si scoprono popolazioni, luoghi forti,

città, che fanno per terra e per mare continui commerci, non solo fra

loro e coi vicini, ma anche con popoli posti a grande distanza…

Tommaso Moro, L’utopia (1516)

…Non c’è quasi luogo (…) sulla terra dove non si

trovino Scille e Celeni rapaci e Lestrigoni divorapopoli e

altrettanti orrori prodigiosi; ma non in ogni luogo si

possono incontrare cittadini con sani e savi ordinamenti.

Del resto, a quel modo che, presso quei popoli da lui

scoperti, annotò molte leggi piene di sciocchezze, così ne

osservò non poche che ben potrebbero fornirci un modello

atto a correggere gli errori di queste nostre città e nazioni,

delle regioni e dei regni…

Francisco de Oviedo:

Satana è ormai espulso da quest’isola

(Hispaniola); tuttala sua influenza è

scomparsa ora che la maggioranza degli

indiani è morta. (…) Chi vorrà negare che

usare la polvere da sparo contro i pagani è

come offrire incenso a Nostro Signore?

Gines de Sepulveda:

In prudenza e in accortezza, in virtù e in umanità questi barbari sono

inferiori agli spagnoli come i bambini sono inferiori agli adulti e le donne

agli uomini, fra loro e gli spagnoli corre la stessa differenza che vi può

essere fra gente feroce e crudele e gente di eccezionale clemenza,fra

esseri straordinariamente intemperanti ed esseri temperanti ed equilibrati,

la stessa differenza – oserei dire – che intercorre fra le scimmie e gli

uomini. (...) Le popolazioni di tal fatta per diritto naturale devono

obbedire agli uomini più civili, più assennati, per essere governati da

costumi e abitudini migliori. Ma, qualora ammoniti, rifiutino il comando,

possono essere costretti con le armi, e tale guerra sarà giusta per diritto

naturale, come testimoniano Aristotele, Tommaso e Agostino

Francisco de Vitoria

De potestate civili (1528), § 21:

L’intero mondo, che in un certo senso è una repubblica, ha

il potere di emanare leggi giuste e convenienti per tutti,

che costituiscono il diritto delle genti. Da ciò consegue

che coloro che infrangono il diritto delle genti, sia in pace

che in guerra, commettono crimini mortali, almeno nel

caso delle più gravi trasgressioni come violare l’immunità

degli ambasciatori. Nessun regno può scegliere di

ignorare questo diritto delle genti, perché esso ha la

sanzione del mondo intero (totius orbis authoritate).

Francisco de VitoriaDe Indis recenter inventis (1539)

I diritti naturali dei popoli:

1. Ius communicationis: il diritto naturale di socievolezza e

comunicazione;

2. Ius peregrinandi et degendi: il diritto naturale di circolare e

viaggiare;

3. Ius commercii: il diritto di commerciare con gli altri popoli;

4. Ius occupationis: il diritto di appropriarsi delle cose inutilizzate;

5. Ius migrandi: il diritto di trasferirsi in altri paesi e di acquisirne

la cittadinanza;

Francisco de VitoriaDe Indis recenter inventis (1539)

I diritti naturali dei popoli:

1. Ius praedicandi et annunciandi Evangelium: il diritto

naturale di predicare il Vangelo;

2. il diritto-dovere di correctio fraterna degli indigeni;

3. il diritto-dovere di proteggere i convertiti dai loro

signori;

4. il diritto di difendere i propri diritti anche con la

guerra;

Francisco de VitoriaDe Indis recenter inventis (1539)

Se gli indios volessero impedire agli spagnoli l’esercizio del diritto delle genti,

come il commercio e le altre cose dette, gli spagnoli devono dapprima con

motivazioni e persuasione evitare lo scandalo, e mostrare con ogni mezzo che

non vengono a recare loro danno, ma vogliono amichevolmente risiedere nella

loro terra e percorrerla senza causare loro danno alcuno. Devono mostrarlo non

soltanto con le parole, ma anche con i fatti (…). Nondimeno, se dopo le ragioni

date loro, gli indios non volessero cedere, e ricorressero alla violenza, gli

spagnoli potrebbero difendersi e prendere ogni precauzione necessaria alla loro

sicurezza, poiché è lecito respingere la forza con la forza. E non solo questo: essi

possono anche costruire fortificazioni e difese, se in altro modo non è possibile

essere sicuri; se patissero poi ingiuria, possono con l’autorità del sovrano

vendicarla per mezzo della guerra, e avanzare gli altri diritti della guerra.

Francisco de VitoriaDe Indis recenter inventis (1539)

Questi indios, benché non siano, come si è detto, del tutto incapaci di

giudizio, tuttavia sono poco distanti dagli esseri amenti, per cui

sembra che non siano idonei a costituire e amministrare un Stato

legittimo e ordinato in termini umani e civili. Perciò non hanno leggi

adeguate, né magistrati, e non sono nemmeno capaci di governare

sufficientemente la famiglia. Per questo mancano anche di scienze ed

arti, non solo delle arti liberali, ma anche di quelle meccaniche, e di

una agricoltura accurata, di artigiani e di altre molte cose utili e

perfino necessarie alla vita umana. (…) Sono quasi come le fiere e le

bestie, e consumano alimenti non trattati, né pressoché migliori di

quelli delle bestie. Pertanto potrebbero affidarsi al governo di uomini

più capaci e intelligenti…

Josè de AcostaDe procuranda indorum salute (1571)

Esistono tre classi di barbari:

1) Coloro che non si discostano molto dalla retta ragione e dalla pratica del

genere umano: popoli che possiedono un regime stabile di governo, leggi

pubbliche, città fortificate e magistrati, un commercio ben organizzato e

soprattutto l’uso dell’alfabeto (i cinesi, i giapponesi e una buona parte dei

popoli delle Indie Orientali);

2) Quelli che pur privi della scrittura, della scienza filosofica e civile e di

leggi scritte, posseggono un proprio regime di governo, amministratori

politici, un corpo militare organizzato, un certo splendore nel culro religioso

e precise regole di comportamento (Araucanos, Tucapalenses, Incas);

3) Gli indios che vivono «selvaggiamente e senza legge», senza sovrani né

magistrati, incapaci di darsi stabili regimi di governo (popoli caraibici, i

cileni, i «selvaggi del Perù»).

Josè de AcostaDe procuranda indorum salute (1571)

«A tutti costoro, che a mala pena sono uomini, o sono

uomini a metà, è opportuno insegnare a essere uomini e

istruirli come bambini. E se attraendoli con carezze si

lasceranno istruire, tanto meglio, ma se resistono, non per

questo bisogna abbandonarli (…) ma è necessario

costringerli con la forza ed il potere opportuni, ed

obbligarli ad abbandonare la selva e a riunirsi in villaggi e,

anche in certo modo contro la loro volontà, far loro forza

perché entrino nel regno dei cieli».

Bartolomé de Las CasasApologética historia sumaria (1551)

«Non abbiamo alcuna ragione di meravigliarci dei difetti, delle

usanze non civili e sregolate che possiamo riscontrare presso le

nazioni indiane, né abbiamo ragione di disprezzarle per questo.

Infatti, tutte o la maggior parte delle nazioni del mondo furono

molto più pervertite, irrazionali e depravate, e fecero mostra di

molto minor prudenza e sagacia nel loro modo di governarsi e di

esercitare le virtù morali. Noi stessi fummo molto peggiori al

tempo dei nostri antenati e su tutta l’estensione del nostro

territorio, sia per l’irrazionalità e la confusione dei costumi, sia

per i vizi e le usanze bestiali».

Bartolomé de Las CasasApologética historia sumaria (1551)

«Tutte le nazioni del mondo sono composte di uomini; e di

tutti gli uomini, e di ciascuno di essi, una sola è la

definizione, e questa è che sono esseri razionali: tutti sono

dotati d’intelligenza, di volontà e di libero arbitrio, essendo

formati a immagine e somiglianza di Dio». Perciò, «tutti i

lignaggi umani si riducono a uno» e «le leggi e le regole

naturali e i diritti degli uomini sono comuni a tutte le

nazioni, cristiane o gentili, di qualunque setta, legge, stato,

colore e condizione, senza differenza alcuna».

Bartolomé de Las CasasSeconda memoria a Carlo Quinto

«L’umanità è una sola e tutti gli uomini sono simili per

ciò che concerne la loro creazione e tutte le disposizioni

naturali; nessuno nasce illuminato. Ne deriva che noi tutti

dobbiamo essere guidati e aiutati inizialmente da coloro

che sono nati prima di noi. I popoli selvaggi della terra

possono essere paragonati a un terreno non coltivato, che

produce erbacce e rovi, ma che reca in sé abbastanza

qualità naturali perché il lavoro e la coltura gli facciano

produrre frutti sani e benefici».

Montaigne, Saggi

Ora mi sembra (…) che in quel popolo non vi sia

nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno

riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello

che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non

abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la

ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli

usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta

religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e

compiuto di ogni cosa…

Montaigne, Saggi

Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti

che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in

verità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti

dall’ordine generale che dovremmo piuttosto chiamare selvatici. In quelli

sono vive e vigorose le vere e più utili e naturali virtù e proprietà, che

invece noi abbiamo imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere

del nostro gusto corrotto. (…) Non c’è ragione che l’arte guadagni il

punto d’onore sulla nostra grande e potente madre natura. Abbiamo tanto

sovraccaricato la bellezza e la ricchezza delle sue opere con le nostre

invenzioni, che l’abbiamo soffocata del tutto. Tant’è vero che dovunque

riluce la sua purezza, essa fa straordinariamente vergognare le nostre vane

e frivole imprese

Montaigne, Saggi

Non mi rammarico che noi rileviamo il barbarico orrore che c’è

in tale modo di fare, ma piuttosto il fatto che, pur giudicando le

loro colpe, siamo tanto più ciechi riguardo alle nostre. Penso che

ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo

morto, nel lacerare con supplizi e martìri un corpo ancora

sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere e dilaniare

dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto

recentemente, non fra antichi nemici, ma fra vicini e concittadini

e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà religiosa), che

nell’arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto…

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 15

II SEMESTRE

A.A. 2015-2016

J. Bodin, I sei libri dello Stato, Ci sono di quelli che hanno scritto e parlato degli affari

pubblici in maniera approssimativa e grossolana, senza

conoscenza alcuna delle leggi né del diritto pubblico, lasciando

anzi questo del tutto in secondo piano rispetto al privato, dal

quale si può trarre maggiore profitto; ora io affermo che

costoro hanno profanato i sacri mestieri della filosofia politica,

e ciò inoltre è stato causa di rovina per molti Stati illustri. Si

veda per esempio il caso di un Machiavelli, scrittore che è stato

in gran voga tra i parassiti dei tiranni, e che Paolo Giovio, pur

annoverandolo tra gli uomini degni di nota, dichiara

nientemeno che ateo e ignorante di belle lettere…

J. Bodin, I sei libri dello Stato,

Quanto all’ateismo è lui stesso a vantarsene nei suoi scritti; e

quanto alla cultura, credo che tutti quelli che sono soliti

dissertare dottamente intorno agli alti affari dello Stato saranno

facilmente concordi ch’egli non ha mai realmente tentato il

guado della scienza politica. Giacché essa non consiste in tutte

quelle astuzie tiranniche da lui ricercate accuratamente in tutti

gli angoli di Italia e colate come dolce veleno nel suo Principe,

ove innalza alle stelle e pone a paragone di tutti i re il più

sleale figlio di ecclesiastico che mai vi sia stato…

J. Bodin, I sei libri dello Stato,

Ci sono poi altri di tendenza opposta a quelli di cui

abbiamo parlato, ma non meno pericolosi e forse

ancora di più, che sotto il pretesto dell’esenzione

dai gravami e della libertà popolare, eccitano i

sudditi alla ribellione contro i loro principi naturali,

aprendo la porta a quell’anarchia ch’è peggiore di

qualsiasi tirannide del mondo, sia pure la più

aspra…

J. Bodin, I sei libri dello Stato,

Come la nave non è più altro che legno, senza

più forma alcuna di imbarcazione, allorquando

la chiglia, che ne sostiene i fianchi, la prua, la

poppa e il ponte sono stati tolti, così la

Repubblica senza un potere sovrano, che ne

unisca tutte le membra e le sue parti e tutte le

famiglie e le comunità in un solo corpo, non è

più una Repubblica.

J. Bodin, I sei libri dello Stato,

Per sovranità s’intende quel potere

assoluto e perpetuo ch’è proprio dello

Stato

I caratteri della sovranità:

Assolutezza:

«Chi è sovrano non deve essere soggetto in

alcun modo al comando altrui»

Perpetuità:

Chi è sovrano deve svolgere le sue funzioni in

nome proprio e senza limiti di tempo

Il contenuto della sovranità:

E’ il «diritto di dare la legge collettivamente e

singolarmente non ricevendola da nessuno»

«Sotto questo potere di dare e annullare le leggi

sono compresi tutti gli altri diritti e prerogative

sovrane: cosicché potremmo dire che [il potere

legislativo] è la sola vera e propria prerogativa

sovrana, che comprende in sé tutte le altre»

Il contenuto della sovranità:

«Le leggi del principe sovrano, sia pure

fondate su motivi validi e concreti, non

dipendono che dalla sua pura e libera

volontà»

La sede della sovranità:

Uno solo (monarchia);

Una minoranza del popolo (aristocrazia);

L’intero popolo o la sua maggioranza (democrazia)

La sede della sovranità:

Quando la sovranità è divisa tra più soggetti «si

crea una situazione che può risolversi solo con le

armi, fino a che la sovranità non resti a un principe

o alla minoranza del popolo o a tutto il popolo»

Forma di Stato e forma di governo:

Lo Stato può essere una Monarchia e tuttavia sarà

governato popolarmente (ossia democraticamente) se

il Principe ripartisce ranghi (…) uffici e benefici in

modo uguale fra tutti senza tenere conto della nobiltà

o delle ricchezze o della virtù. Può anche darsi il caso

di una Monarchia che ha una forma di governo

aristocratica e questo avviene quando il Principe

concede ranghi e benefici solo ai nobili o anche solo ai

più dotati o anche solo ai più doviziosi.

Forma di Stato e forma di governo:

Del pari la signoria aristocratica può governare il

suo Stato popolarmente qualora distribuisca onori

e benefici in misura eguale a tutti i suoi sudditi.

(…) Se poi ad essere detentrice della sovranità è la

maggioranza dei cittadini, ma poi il popolo assegna

le cariche onorifiche, i benefici e gli stipendi ai soli

nobili (…), lo Stato avrà la forma di Stato

popolare, ma il suo governo sarà aristocratico

J. Bodin, I sei libri dello Stato:

Per Stato si intende il governo giusto che si

esercita con potere sovrano su diverse

famiglie e su tutto ciò che hanno in comune

fra loro

J. Bodin, I sei libri dello Stato:

Quelli che affermano in generale che i

principi non sono soggetti alle leggi e

nemmeno ai loro patti, se non eccettuano le

leggi di Dio e della natura, e le giuste

convenzioni e i trattati fatti con i sudditi,

offendono Dio e la natura

J. Bodin, I sei libri dello Stato:

Quanto meno [il potere sovrano] si

estende, a parte quelle che sono le vere e

specifiche prerogative della sovranità,

tanto più è sicuro

J. Bodin, I sei libri dello Stato:

«Non discuto qui quale sia la religione migliore fra

tutte (anche se, in realtà, non vi è che una

religione, una verità, una legge divina, in quanto

promulgata dalla bocca stessa di Dio); dico solo

che il principe che, perfettamente convinto di

essere nella vera religione, voglia conquistare ad

essa i sudditi divisi in sette e fazioni, a mio parere

non deve usare la forza»

J. Bodin, I sei libri dello Stato:Può accadere infatti «che l’appoggio e il favore della

nobiltà e del popolo a una nuova religione o a una nuova

setta sia così forte e solido da rendere impossibile o

estremamente difficile ogni intervento teso a reprimerla o

ad alterarla, se non con pregiudizio grave di tutto lo Stato.

(…) Quando una setta o una religione non possa essere

spazzata via senza rischiare la distruzione dello Stato, sarà

meglio tollerarla, giacché la salvezza e il bene dello Stato

costituiscono lo scopo principale della legge»

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 16

II SEMESTRE

A.A. 2015-2016

I caratteri del giusnaturalismo moderno:

1) Laicità

Hugo Grotius, De Iure Belli ac Pacis, Prolegomena, § 6:

«…Se l’uomo è un animale è un animale di ordine molto

elevato, che ha molti vantaggi su tutte le altre speci di animali

che non differiscono tra loro, come emerge da diversi tipi di

azione che sono del tutto particolari del genere umano. Ora,

una di queste cose proprie all’uomo è il desiderio di società,

vale a dire una certa inclinazione a vivere con i suoi simili, non

in una qualsivoglia maniera, ma pacificamente e in una

comunità di vita così ben regolata come i lumi della ragione gli

suggeriscono »

I caratteri del giusnaturalismo moderno:

1) Laicità

Hugo Grotius, De Iure Belli ac Pacis, Prolegomena, § 8:

«Questa attività conforme alla ragione umana, rivolta a

conservare la società (…) è la fonte del diritto

propriamente detto; il quale comprende l’astenersi dalle

cose altrui, la restituzione dei beni altrui e del lucro da

essi derivato, l’obbligo di mantenere le promesse, il

risarcimento del danno arrecato per colpa propria e il

poter essere soggetto a pene tra gli uomini»

I caratteri del giusnaturalismo moderno:

1) Laicità

Hugo Grotius, De Iure Belli ac Pacis, Prolegomena, § 11:

«Tutto ciò che abbiamo detto finora sussisterebbe

in qualche modo ugualmente anche se

ammettessimo – cosa che non può farsi senza

empietà gravissima – che Dio non esistesse o che

Egli non si occupasse dell’umanità»

I caratteri del giusnaturalismo moderno:

2) Scientificità

Hugo Grotius, De Iure Belli ac Pacis, Prolegomena, § 39:

«Anzitutto mi sono preoccupato di ricollegare le prove

riguardanti il diritto naturale a nozioni così evidenti che

nessuno possa negarle senza far violenza a se stesso:

infatti i principi di tale diritto se appena si guardi

attentamente, sono manifesti di per sé ed evidenti quasi

come ciò che percepiamo per mezzo dei sensi esterni».

I caratteri del giusnaturalismo moderno

2) Scientificità

Hugo Grotius, De Iure Belli ac Pacis, Prolegomena, § 39:

«In verità io dichiaro esplicitamente che, come i

matematici considerano le figure facendo astrazione dai

corpi, così io, nel trattar del diritto, ho distolto il pensiero

da qualsiasi fatto particolare».

I caratteri del giusnaturalismo moderno:

3) Individualismo

Christian Wolff, Ius naturae methodo scientifica

pertractatum, Prol. § 3:

«Ogni qual volta noi parliamo di diritto naturale

non intendiamo mai la legge di natura ma piuttosto

il diritto che appartiene all’uomo in forza di quella

legge, cioè a dire naturalmente».

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 17

II SEMESTRE

A.A. 2015-2016

Thomas Hobbes, De Cive

I geometri in verità hanno molto ben amministrato la loro

provincia. Infatti, tutto l’aiuto che si può trarre per la vita

umana dall’osservazione delle stelle, dalla descrizione

della terra, dal computo del tempo, dalle navigazioni più

lunghe; tutte quello che è bello negli edifici, resistente

nelle fortificazioni, prodigioso nelle macchine; tutto ciò

che, insomma, distingue il tempo odierno dalla barbarie

antica, è quasi per intero un beneficio della geometria.

Thomas Hobbes, De CiveInfatti, quello che dobbiamo alla fisica, la fisica lo deve alla

stessa geometria. Se i filosofi morali avessero assolto al loro

compito con esito altrettanto felice, non vedo come l’industria

umana avrebbe potuto contribuire di più alla felicità di questa

vita. Se infatti la ragione delle azioni umane fosse conosciuta

con la stessa certezza con cui conosciamo la ragione delle

grandezze nelle figure, l’ambizione e l’avidità, la cui potenza si

sostiene sulle false opinioni del volgo circa il diritto e il torto,

sarebbero disarmate, e la gente godrebbe di una pace tanto

costante, che non sembra si dovrebbe più combattere.

L’albero hobbesiano della

conoscenza

Geometria

Fisica

Etica

Politica

Thomas Hobbes, De CiveQuanto al metodo, ho ritenuto che l’ordine dell’esposizione, per

quanto chiaro, non sia da solo sufficiente, ma che si debba iniziare

dalla materia dello Stato, quindi procedere alla sua generazione e

forma e alla prima origine della giustizia. Infatti ogni oggetto viene

conosciuto nel modo migliore a partire dalle cose che lo

costituiscono. Come in un orologio o in un’altra macchina un poco

complessa non si può sapere quale sia la funzione di ogni parte e di

ogni ruota, se non lo si scompone, e si esaminano separatamente la

materia, la figura, il moto delle parti, così nell’indagine sul diritto

dello Stato si deve se non certo scomporre lo Stato, considerarlo

come scomposto.

Thomas Hobbes, De CorporeLa filosofia civile è strettamente legata alla filosofia morale, dalla

quale tuttavia può essere staccata: infatti, le cause dei movimenti

della mente possono conoscersi non soltanto con il ragionamento,

ma anche con l’esperienza attraverso la quale ciascuno osserva i

propri movimenti. E perciò, quelli che con metodo sintetico,

partendo dai principi primi della filosofia, siano giunti alla scienza

delle passioni e dei turbamenti dell’animo, procedendo per la stessa

strada, arriveranno alle cause necessarie della costituzione delle

comunità e conseguiranno la scienza del diritto naturale e dei doveri

civili, nonché dei diritti che si devono alla comunità in ogni genere

di comunità, e di tutto il resto che spetta alla filosofia civile…

Thomas Hobbes, De Corpore

…per il fatto che i principi della politica derivano dalla

conoscenza dei movimenti della mente, mentre la

conoscenza dei movimenti della mente deriva dalla

scienza dei sensi e dei pensieri; ma anche quelli che non

hanno imparato la parte della filosofia precedente, cioè la

geometria e la fisica, possono tuttavia giungere ai principi

della filosofia civile con il metodo analitico.

Thomas Hobbes, LeviatanoQuesti piccoli inizi di movimento entro il corpo umano,

prima che appaiano nel camminare, nel parlare, nel

percuotere, e in altre azioni visibili, sono comunemente

chiamati sforzo. Questo sforzo, quando è volto verso

qualcosa che lo causa si chiama appetito o desiderio. (…)

Quando lo sforzo è per tenersi lontano da qualcosa di

chiama generalmente avversione. Questi vocaboli,

appetito e aversione, che noi abbiamo dai latini,

significano entrambi dei movimenti, l’uno quello di

avvicinarsi, l’altro quello di ritirarsi…

Thomas Hobbes, Leviatano…Quelle cose che non desideriamo, né odiamo si dice che

le dispregiamo, dato che il dispregio è nient’altro che una

immobilità…

E per il fatto che la costituzione del corpo umano è in

continuo mutamento, è impossibile che tutte le stesse cose

causino sempre nell’uomo gli stessi appetiti e avversioni;

molto meno tutti gli uomini possono consentire nel

desiderio di un solo e medesimo oggetto, quale che sia, o

quasi.

Thomas Hobbes, LeviatanoMa qualunque esso sia, l’oggetto dell’appetito o desiderio

di un uomo è ciò che egli, per parte sua, chiama buono;

l’oggetto del suo odio e della sua avversione cattivo, e

quello del suo dispregio, vile e trascurabile. Infatti queste

parole, buono, cattivo e spregevole, sono sempre usate in

relazione alla persona che le usa, dato che non c’è nulla

che sia tale semplicemente e assolutamente, e non c’è

alcuna regola comune di ciò che è buono e cattivo che sia

derivata dalla natura degli oggetti stessi…

Thomas Hobbes, De CiveTutto ciò che sembra bene, è piacevole, e si riferisce agli

organi o all’animo. Ogni piacere dell’animo consiste nella

gloria (cioè nell’avere una buona opinione di sé), o si

riferisce in ultimo alla gloria. Gli altri beni sono sensuali, e

possono tutti essere designati col nome di utile…

Ciascuno è portato a desiderare ciò che per lui è bene, e a

fuggire ciò che per lui è male, soprattutto il massimo dei

mali naturali, che è la morte; e questo con una necessità

naturale non minore di quella per cui una pietra va verso il

basso.

Thomas Hobbes, Leviatano

…Pongo in primo luogo, come una

inclinazione generale di tutta l’umanità, un

desiderio perpetuo e senza tregua di un

potere dopo l’altro che cessa soltanto nella

morte

Thomas Hobbes, LeviatanoNella natura umana troviamo tre cause principali di contesa: in

primo luogo, la competizione, in secondo luogo la diffidenza, in

terzo luogo la gloria. La prima fa sì che gli uomini si aggrediscano

per guadagno, la seconda per sicurezza, e la terza per reputazione.

Nel primo caso gli uomini usano violenza per rendersi padroni delle

persone di altri uomini, delle loro donne, dei loro figli, del loro

bestiame; nel secondo caso per difenderli; nel terzo caso per delle

inezie, come una parola, un sorriso, un’opinione differente, e

qualunque altro segno di scarsa valutazione, o direttamente nei

riguardi delle loro persone, o di riflesso nei riguardi della loro

parentela, dei loro amici, della loro nazione, della loro professione o

del loro nome

Thomas Hobbes, LeviatanoLa natura ha fatto gli uomini così uguali nelle facoltà del corpo e della

mente che, sebbene si trovi un uomo manifestamente più forte

fisicamente o di mente più pronta di un altro, pure quando si calcola tutto

insieme, la differenza tra uomo e uomo non è così considerevole, che un

uomo possa di conseguenza reclamare per sé qualche beneficio che un

altro non possa pretendere, tanto quanto lui. Infatti riguardo alla forza

corporea, il più debole ha forza sufficiente per uccidere il più forte, o con

segreta macchinazione o alleandosi con altri che sono con lui nello stesso

pericolo. E quanto alla facoltà della mente (…) io trovo tra gli uomini

una eguaglianza ancora più grande di quella della forza. Infatti la

prudenza non è che esperienza, ed un tempo eguale la conferisce in egual

misura a tutti gli uomini, in quelle cose in cui si applicano in egual

misura…

Thomas Hobbes, LeviatanoDa questa eguaglianza di abilità sorge l’eguaglianza nella speranza

di conseguire i nostri fini. E perciò, se due uomini desiderano la

stessa cosa, e tuttavia non possono entrambi goderla, diventano

nemici, e sulla via del loro fine (…) si sforzano di distruggersi o di

sottomettersi l’un l’altro. Onde accade che dove un aggressore non

ha più da temere che il potere singolo di un altro uomo, se uno

pianta, semina, costruisce o possiede un fondo conveniente, ci si

può probabilmente aspettare che altri, preparatisi con forze riunite,

vengano per spossessarlo e privarlo non solo del frutto della sua

fatica, ma anche della sua vita o della libertà. E l’aggressore è di

nuovo in un pericolo simile a quello in cui era l’altro…

Thomas Hobbes, LeviatanoDa ciò è manifesto che durante il tempo in cui gli uomini

vivono senza un potere comune che li tenga in soggezione,

essi si trovano in quella condizione che è chiamata guerra e

tale guerra è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. La

guerra, infatti, non consiste solo nella battaglia o nell’atto del

combattere, ma in un tratto di tempo, in cui è

sufficientemente conosciuta la volontà di contendere in

battaglia. (…) Così la natura della guerra non consiste nel

combattimento effettivo, ma nella disposizione verso di esso

che sia conosciuta e in cui, durante tutto il tepo, non si dia

assicurazione del contrario. Ogni altro tempo è pace.

Thomas Hobbes, LeviatanoPerciò tutto ciò che è conseguente al tempo di guerra in cui ogni

uomo è nemico ad ogni uomo, è anche conseguentemente al tempo in

cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza di quella che la propria

forza e la propria inventiva potrà fornire loro. In tale condizione non

c’è posto per l’industria, perché il frutto di essa è incerto e per

conseguenza non v’è cultura della terra, né navigazione, né uso dei

prodotti che si possono importare per mare, né comodi edifici, né

macchine per muovere e trasportare cose che richiedono molta forza,

né conoscenza della faccia della terra, n^ calcolo del tempo, né arti,

né lettere,né società, e quel che è peggio di tutto, vì è continuo

timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria,

misera, sgradevole, brutale e breve.

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 18

II SEMESTRE

A.A. 2015-2016

Thomas Hobbes, LeviatanoSi può per avventura pensare che non vi sia mai stato un

tempo né una condizione di guerra come questa, e io

credo che non ci sia mai stata generalmente in tutto il

mondo, ma ci sono parecchi luoghi ove attualmente si

vive così. Infatti, in parecchi luoghi dell’America, i

selvaggi, se si eccettua il governo di piccole famiglie la

cui concordia dipende dalla concupiscenza naturale, non

hanno affatto un governo, e vivono, oggigiorno, in

quella maniera brutale che ho detto prima.

Thomas Hobbes, Leviatano

Comunque si può percepire quale maniera

di vita ci sarebbe ove non ci fosse il timore

di un potere comune, dalla maniera di vita

in cui sono usi degenerare gli uomini che

hanno già vissuto sotto un governo

pacifico, una guerra civile..

Thomas Hobbes, LeviatanoMa anche se non ci fosse mai stato un tempo in cui i

particolari fossero in condizione di guerra l’un contro l’altro,

tuttavia in tutti i tempi, i re e le persone dotate di autorità

sovrana, a causa della loro indipendenza, si trovano ad avere

continue gelosie, e ad essere nello stato e nella posizione dei

gladiatori che stanno con le armi puntate e gli occhi fissi l’uno

sull’altro, cioè, con forti, guarnigioni e cannoni alle frontiere

dei loro regni e con spie continuamente nei territori che sono

vicini a loro; ciò è una posizione di guerra. Ma per il fatto che

così essi sostengono l’industria dei loro sudditi, non segue da

ciò quella miseria che accompagna la libertà dei particolari.

Thomas Hobbes, LeviatanoPer il fatto che la condizione dell’uomo (…) è una condizione di guerra

di ogni uomo contro ogni altro uomo, e, in questo caso, ognuno è

governato dalla propria ragione e non c’è niente di cui egli può far uso

che non possa essergli di aiuto nel preservare la sua vita contro i suoi

nemici, ne segue che in una tale condizione ogni uomo ha diritto ad

ogni cosa, anche al corpo di un altro uomo. Perciò, finché dura

questo diritto naturale di ogni uomo ad ogni cosa, non ci può essere

sicurezza per alcuno (per quanto forte o saggio egli sia) di vivere per

tutto il tempo che la natura ordinariamente concede agli uomini di

vivere. Per conseguenza è un precetto o regola generale della ragione,

che ogni uomo debba sforzarsi alla pace, per quanto abbia speranza di

ottenerla, e quando non possa ottenerla, cerchi e usi tutti gli aiuti e i

vantaggi della guerra.

Thomas Hobbes, Leviatano

La prima parte di questa regola contiene la

prima e fondamentale legge di natura, che è

cercare la pace e conseguirla. La seconda, la

somma del diritto di natura, che è, difendersi con

tutti mezzi possibili .

Thomas Hobbes, Leviatano

Il diritto di natura (…) è la libertà che ogni

uomo ha di usare il suo potere, come egli vuole,

per la preservazione della propria natura, vale a

dire della propria vita, e, per conseguenza, di fare

qualunque cosa nel suo giudizio e nella sua

ragione egli concepirà essere il mezzo più atto a

ciò.

Thomas Hobbes, Leviatano

Una legge di natura è un precetto o una regola

generale scoperta dalla ragione, che vieta ad un

uomo di fare ciò che è lesivo della sua vita o che

gli toglie i mezzi per preservarla, e di omettere

ciò con cui egli pensa possa essere meglio

preservata.

Thomas Hobbes, LeviatanoDa questa fondamentale legge di natura che

comanda agli uomini di sforzarsi alla pace,

deriva questa seconda legge, che un uomo sia

disposto, quando anche altri lo sono, per quanto

egli penserà necessario per la propria pace e

difesa, a deporre questo diritto a tutte le cose; e

si accontenti di avere tanta libertà contro gli

altri uomini, quanta egli ne concederebbe ad

altri uomini contro di lui.

Thomas Hobbes, LeviatanoQueste sono le leggi di natura che dettano la pace

come un mezzo per la conservazione degli

uomini in moltitudine e che concernono

solamente la dottrina della società civile. (…) Per

non lasciare a tutti gli uomini scusa alcuna, tali

leggi sono state compendiate agevolmente in una

sentenza, intelligibile anche alla mente più tarda,

questa: non fare agli altri quello che non vorresti

fosse fatto a te.

Thomas Hobbes, LeviatanoLe leggi di natura obbligano in foro interno, vale a

dire vincolano a desiderare che si attuino, ma non

sempre in foro externo, cioè a porle in atto. Infatti

colui che fosse modesto e trattabile e adempisse a

tutto ciò che promette in un tempo e in un luogo in cui

nessun altro uomo facesse ciò, non farebbe altro che

darsi in preda agli altri e procurarsi la propria certa

rovina, contrariamente al fondamento di tutte le leggi

di natura che tende alla preservazione della natura…

Thomas Hobbes, LeviatanoLa massima parte di coloro che hanno trattato delle

repubbliche, suppongo o pretendono, o postulano, che

l’uomo sia un animale atto per nascita alla società, i greci

dicono zoon politikon; e su questo fondamento edificano la

dottrina civile, come se per conservare la pace e governare

l’intero genere umano non occorresse altro che il consenso

degli uomini riguardo certi patti e condizioni, che chiamano

senz’altro leggi. Questo assioma, benché accolto, è falso; e

l’errore è derivato da una considerazione troppo superficiale

della natura umana…

Thomas Hobbes, De Cive…Infatti, esaminando più a fondo le cause per cui gli uomini

si riuniscono e godono della società reciproca, risulterà

senz’altro evidente che ciò non avviene in modo che per

natura non possa accadere diversamente, ma per accidente.

Se infatti l’uomo amasse l’uomo naturalmente, cioè in

quanto uomo, non vi sarebbe alcuna ragione perché ciascuno

non dovesse amare ugualmente ciascun altro, in quanto

ugualmente uomo, o perché dovesse preferire di frequentare

coloro, dalla cui società possono derivare a lui (piuttosto che

ad altri) onore e utile. Quindi non cerchiamo per natura dei

soci, ma per trarre da essi onore e vantaggio…

Thomas Hobbes, Leviatano

Mentre l’accordo tra le creature irrazionali è

naturale, quello tra gli uomini è solo per patto ed

è artificiale; nessuna meraviglia quindi se (oltre

il patto) si richiede qualcosa d’altro per rendere il

loro accordo costante e durevole, cioè, un potere

comune che li tenga in soggezione e che diriga le

loro azioni verso il comune beneficio.

Thomas Hobbes, LeviatanoLa sola via per erigere un potere comune che possa

essere in grado di difendere gli uomini dall’aggressione

straniera e dalle ingiurie reciproche, e con ciò di

assicurarli in modo tale che con la propria industria e

con i frutti della terra possano nutrirsi e vivere

soddisfatti, è quella di conferire tutti i loro poteri e tutta

la loro forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini

che possa ridurre tutte le loro volontà, per mezzo della

pluralità delle voci, ad una volontà sola...

Thomas Hobbes, LeviatanoQuesto è più del consenso o della concordia; è

un’unità reale di tutti loro in una sola e

medesima persona fatta con il patto di ogni uomo

con ogni altro, in maniera tale che, se ogni uomo

dicesse ad ogni altro, io autorizzo e cedo il mio

diritto di governare me stesso, a quest’uomo, o a

questa assemblea di uomini a questa condizione,

che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le

sue azioni in maniera simile…

Thomas Hobbes, LeviatanoFatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene

chiamato Stato, in latino Civitas. Questa è la generazione di

quel grande Leviatano, o piuttosto (per parlare con più

riverenza) di quel dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto

il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, per

mezzo di questa autorità datagli da ogni particolare nello

stato, è tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state

conferite e di cui ha l’uso, che con il terrore di esse è in

grado di informare le volontà di tutti alla pace interna e

all’aiuto reciproco contro i nemici esterni…

Thomas Hobbes, Leviatano

…In esso consiste l’essenza dello stato che (se si

vuole definirlo) è una persona dei cui atti ogni

membro di una grande moltitudine, con patti

reciproci, l’uno nei confronti dell’altro e

viceversa, si è fatto autore, affinché essa possa

usare la forza e i mezzi di tutti, come penserà sia

vantaggioso per la loro pace e comune difesa.

Thomas Hobbes, LeviatanoUna moltitudine di uomini diventa una persona,

quando è rappresentata da un uomo o da una

persona, per modo che diventi tale con il consenso

di ciascun particolare componente della moltitudine.

Infatti è l’unità del rappresentante, non l’unità

del rappresentato che fa una la persona, ed il

rappresentante che sostiene la parte della persona e

di una persona soltanto; l’unità in una moltitudine

non può non intendersi in altro modo.

Thomas Hobbes, LeviatanoIl diritto di natura, cioè la libertà naturale dell’uomo,

può essere ridotta e ristretta dalla legge civile: anzi, il

fine del fare le leggi non è altro se non tale restrizione.

La legge civile è un’obbligazione ed essa ci toglie la

libertà che la legge di natura ci ha dato. La natura ha

dato ad ogni uomo il diritto di assicurarsi con la

propria forza e di aggredire un vicino sospetto a scopo

preventivo, ma la legge civile toglie quella libertà.

Thomas Hobbes, Leviatano

Il suddito resta libero nel «silenzio della

legge»:

Nei casi in cui il sovrano non ha prescritto

una regola, il suddito ha la libertà di agire o

di astenersi dall’agire a sua discrezione.

Thomas Hobbes, Leviatano

L’uso delle leggi non è quello di vincolare i

sudditi in tutte le azioni volontarie, ma di

dirigerli e di tenerli in un movimento tale che

non si nuocciano con i loro impetuosi desideri,

con la loro temerarietà, o con la loro mancanza di

discrezione, come si pongono delle siepi non per

arrestare i viaggiatori, ma per tenerli sulla via.

Thomas Hobbes, LeviatanoCome gli uomini, per conseguire la pace e per

conservare con essa se stessi, hanno fatto un uomo

artificiale, che chiamiamo Stato, così hanno fatto

anche delle catene artificiali, chiamate leggi civili,

che essi, con mutui patti, hanno attaccato per

un’estremità alle labbra di quell’uomo o assemblea

di uomini cui hanno dato il potere sovrano e per

l’altra estremità alle proprie orecchie

Lezione n. 19

II SEMESTRE

A.A. 2015-2016

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

Il modello giusnaturalistico:

1) Il punto di partenza dell’analisi

dell’origine e del fondamento dello Stato è

lo stato di natura, cioè uno stato non-

politico e antipolitico.

Il modello giusnaturalistico:

2) Tra lo stato di natura e lo stato politico

c’è un rapporto di contrapposizione nel

senso che lo stato politico sorge come

antitesi allo stato di natura (di cui è

chiamato a correggere e eliminare i difetti).

Il modello giusnaturalistico:

3) Lo stato di natura è uno stato i cui

elementi costitutivi sono principalmente e

primariamente gli individui singoli non

associati seppure associabili.

Il modello giusnaturalistico:

4) Gli elementi costitutivi dello stato di

natura (cioè gli individui) sono liberi ed

eguali gli uni rispetto agli altri, cosicché lo

stato di natura è raffigurato come uno stato

in cui regnano la libertà e l’eguaglianza.

Il modello giusnaturalistico:

5) Il passaggio dallo stato di natura allo stato

civile non avviene necessariamente per la forza

stessa delle cose, ma mediante una o più

convenzioni, cioè mediante uno o più atti

volontari e deliberati degli individui interessati a

uscire dallo stato di natura, con la conseguenza

che lo stato civile viene concepito come un

“ente” artificiale .

Il modello giusnaturalistico:

6) Il principio di legittimazione

della società politica è il consenso.

John Locke, Secondo trattato sul governo

Lo stato di natura è uno stato di perfetta

libertà di regolare le proprie azioni e disporre

dei propri beni e persone come meglio si crede

(…) senza chiedere l’altrui benestare o

obbedire alla volontà d’altri. (…) In tale stato

potere e libertà sono reciproci perché nessuno

ne ha più degli altri (§ 4)

John Locke, Secondo trattato sul governo

Benché sia incondizionatamente libero, in questo stato, di

disporre della sua persona e dei suoi beni, l’uomo non è libero

di distruggere se stesso o altra creatura umana che gli

appartenga, se non quando lo imponga un motivo più nobile

della semplice sopravvivenza. Lo stato di natura è governato

da una legge di natura che è per tutti vincolante; e la ragione,

che è poi quella legge stessa, insegna a chiunque soltanto

voglia interpellarla che, essendo tutti gli uomini eguali e

indipendenti, nessuno deve ledere gli altri nella vita, nella

salute, nella libertà o nei possessi (§ 6)

John Locke, Secondo trattato sul governo

La legge naturale (…) ci dice che gli

uomini, una volta nati, hanno diritto alla

sopravvivenza, e dunque a cibo, bevanda

e a tutto ciò che la natura offre per la

loro sussistenza (§ 25)

John Locke, Secondo trattato sul governo

Dio, che ha dato la terra in comune agli

uomini, ha dato loro anche la ragione,

onde se ne servissero nel modo più

vantaggioso per la vita e il benessere

loro. La terra, e tutto ciò che essa

contiene, viene data agli uomini per la

sussistenza e il piacere di vivere (§ 26)

John Locke, Secondo trattato sul governo

Per quanto tutti i frutti che (la terra) naturalmente

produce e gli animali che sostenta appartengano in

comune all’umanità, essendo prodotti dalla spontanea

mano della natura, senza che nessuno ne abbia

originariamente un privato dominio a esclusione del

resto degli uomini, pure, tutto ciò è inteso all’utilità degli

uomini, dev’esserci di necessità un mezzo di

appropriarselo in un modo o nell’altro, prima che possa

essere d’un qualche vantaggio o beneficio a un singolo

individuo… (§ 28)

John Locke, Secondo trattato sul governo

Benché la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli

uomini, ciascuno ha tuttavia la proprietà della sua persona: su questa

nessuno ha diritto alcuno al di fuori di lui. Il lavoro del suo corpo e

l’opera delle sue mani, possiamo dire, sono propriamente suoi.

Qualunque cosa dunque egli tolga dallo stato in cui natura l’ha creata

e lasciata, a essa incorpora il suo lavoro e vi intesse qualcosa che gli

appartiene, e con ciò se l’appropria. Togliendo quell’oggetto dalla

condizione comune in cui la natura lo ha posto, vi ha aggiunto col suo

lavoro qualcosa che esclude il comune diritto degli altri uomini. Tale

lavoro essendo infatti indiscutibile proprietà dellavoratore, nessun

altro che lui può avere diritto a ciò cui esso è stato incorporato, almeno

là dove avanzano, per la comune proprietà degli altri, beni sufficienti e

altrettanto buoni (§ 27)

John Locke, Secondo trattato sul governo

Colui che si nutre delle ghiande raccolte ai piedi di una quercia o

dei pomi raccolti dagli alberi della foresta si è senza dubbio

appropriato quei frutti. Nessuno può negare che quel cibo sia suo.

Ora mi chiedo: in quale momento quei frutti hanno cominciato a

esser suoi? Nel momento in cui li ha digeriti? Oppure quando li ha

mangiati? O quando li ha arrosistiti? Quando se li è portati a casa,

oppure quando li ha colti? E’ chiaro che se non se li è appropriati col

primo atto del raccoglierli, con nient’altro può averlo fatto. Quel

lavoro ha fondato una distinzione fra questi beni e i beni

comuni; vi ha aggiunto più di quanto non avesse fatto la natura,

madre a tutti comune, e così sono divenuti suo diritto privato.

(§ 28)

John Locke, Secondo trattato sul governo

A ciò si obietterà forse che, se la raccolta delle bacche o di

altri frutti della terra costituisce un diritto sopra di essi,

allora chiunque può accumularne a suo piacimento. Al che

rispondo: no. La stessa legge di natura che in questo modo ci

conferisce la proprietà, vi pone pure dei limiti. “Dio ogni cosa

ci somministra copiosamente” (I Tim. VI, 17): così dice la

ragione e la rivelazione lo conferma. Ma a quale condizione?

Per il nostro godimento”. Quanto ciascuno può usare a

vantaggio della propria vita, prima che si deteriori, tanto col

suo lavoro può appropriarsi; quanto ciò eccede è più di

quanto gli spetta e appartiene ad altri…

John Locke, Secondo trattato sul governo

…Nulla Dio ha fatto perché l’uomo sciupi o distrugga.

Se si considera dunque la sovrabbondanza dei beni

naturali a lungo disponibili nel mondo e il piccolo

numero di consumatori; se si pensa a quale piccola parte

di quei beni si possa estendere l’operosità d’un sol

uomo, e quanto poco egli possa accumulare a

pregiudizio degli altri, specie se si attiene ai limiti, posti

dalla ragione, di quanto può servire al suo uso, poco

adito è dato per discussioni e contese circa la proprietà

così fondata (§ 31)

John Locke, Secondo trattato sul governo

Ma principale oggetto di proprietà non sono oggi i

frutti della terra o gli animali che su di essi si

pascono, bensì la terra stessa, come cosa che tutte le

altre comprende e porta con sé. Mi sembra chiaro

che anche la proprietà della terra è acquisita allo

stesso modo. Quanto terreno un uomo zappa,

semina, migliora e coltiva, e di quanto può usare il

prodotto, tanto è di proprietà sua. Col suo lavoro egli

lo ha, per così dire, recinto dalla terra comune. (§ 32)

John Locke, Secondo trattato sul governo

Né quest’appropriazione d’una parte di terra al fine

di coltivarla era di pregiudizio ad altri, poiché ve

n’era ancora a sufficienza e di altrettanto buona, più

di quanto ne potessero usare coloro che non ne erano

ancora provvisti. Così, in realtà, la recinzione fatta a

proprio vantaggio non riduceva la parte che restava

a disposizione degli altri, poiché chi lascia tanto

quanto un altro può usare è come se nulla avesse

preso (§ 33)

John Locke, Secondo trattato sul governo

Non è così strano come a prima vista può

sembrare che la proprietà del lavoro potesse

contare più della comunità della terra. E’ infatti

il lavoro che crea in ogni cosa la differenza del

valore. (…) Credo si possa dire con un calcolo

ancora molto modesto che dei prodotti della terra

che servono alla sussistenza dell’uomo nove

decimi sono effetto del lavoro. (§40)

John Locke, Secondo trattato sul governo

Non v’è di ciò dimostrazione più chiara di quella offerta da

diversi popoli d’America, ricchi di terra e poveri di tutti I

beni della sussistenza. La natura ha donato loro non meno

generosamente che ad altri popoli la materia prima della

ricchezza, cioè un suolo fertile, capace di produrre in

abbondanza tutto ciò che può servire per il cibo, il vestiario

e il piacere; ma, quella terra non essendo messa a frutto dal

lavoro, essi non hanno la centesima parte dei beni di cui noi

godiamo; e il sovrano d’un ampio e fertile territorio

mangia, alloggia e veste peggio d’un bracciante inglese

(§41)

John Locke, Secondo trattato sul governo

La maggior parte delle cose realmente utili alla vita dell'uomo

(…) sono in generale cose di breve durata; cose che, non

consumate, spontaneamente si guastano e perdono, mentre oro,

argento, diamanti, sono cose alle quali per arbitrio e

convenzione, più che per un'utilità reale e per la necessità della

sussistenza, è stato attribuito un valore... (§ 46).

…Così nacque l'uso del denaro, qualcosa di durevole che gli

uomini potevano conservare senza che si deteriorasse, e che

per comune consenso poteva essere preso in cambio dei veri e

propri, ma deteriorabili, beni di sussistenza (§ 47).

John Locke, Secondo trattato sul governo

E, come i diversi gradi d'industria erano capaci di dare agli

uomini ricchezze in proporzioni diverse, così l'invenzione del

denaro diede loro l'opportunità di accrescerle ed estenderle. (…)

Dove non c'è nulla che sia insieme duraturo e raro, e tanto

pregiato da essere accumulato, gli uomini non possono estendere

la loro proprietà della terra, per ricca che questa sia e facile a

prendersi: che valore potrebbero avere infatti per un uomo

diecimila, o centomila, acri di terra eccellente, bell'e coltivata e

ricca di bestiame, nel cuore delle regioni interne dell'America,

dove non ci fosse alcuna speranza di commerciare con altre parti

del mondo e guadagnare denaro con la vendita dei prodotti? (§48)

John Locke, Secondo trattato sul governo

Ma, poiché oro e argento, essendo di poca utilità per la vita

dell’uomo in confronto a cibo, vestiario e mezzi, acquistano il

loro valore soltanto dal consenso degli uomini, e di questo valore

il lavoro costituisce in gran parte la misura, è evidente che gli

uomini hanno concordemente accettato che la terra fosse

posseduta in modo sproporzionato e ineguale, avendo con un

tacito e volontario consenso escogitato il modo in cui uno può

legittimamente possedere più terra di quella di cui può usare il

prodotto, ricevendo in cambio del sovrappiù or e argento che può

accumulare senza far torto a nessuno, dato che quei metalli non si

deteriorano né vanno perduti nelle mani del possessore . (§50)

John Locke, Secondo trattato sul governo

Mi pare perciò assai facile comprendere come il lavoro poté

originariamente fondare il diritto alla proprietà dei comuni beni di

natura, e come il limite di quella fosse fissato dal consumo che

possiamo farne per I nostri usi. Non v’era dunque ragione di discutere

quel diritto, né v’erano dubbi quanto all’estensione della proprietà che

questo conferiva. Diritto e utilità andavano insieme, perché, avendo

diritto su tutto ciò su cui poteva esercitare il suo lavoro, un uomo non

era mai tentato di lavorare più di quello che poteva usare. Ciò escludeva

ogni contesa circa la legittimità, e ogni usurpazione dei diritti altrui: la

porzione che ogni uomo si tagliava per sé era facilmente visibile, ed era

inutile, oltre che disonesto, tagliarsi una porzione troppo grossa o

prendere più di quanto poteva servire. (§51)

John Locke, Secondo trattato sul governo

Una cosa è certa, che all'inizio, prima che il desiderio di possedere

più del necessario avesse alterato l'intrinseco valore delle cose,

che dipende solo dalla loro utilità per la vita dell'uomo; prima che

si fosse convenuto che un pezzetto di metallo giallo, che si poteva

conservare senza che si deteriorasse o andasse perduto, valeva per

un grande pezzo di carne o un mucchio intero di frumento, per

quanto gli uomini avessero diritto di appropriarsi, col loro lavoro,

ciascuno per sé, tanto quanto potevano usare degli oggetti della

natura, pure ciò non poteva esser mai troppo, né recare pregiudizio

ad altri, poiché pari ricchezza avanzava per coloro che fossero

altrettanto industriosi.

Lezione n. 20

II SEMESTRE

A.A. 2015-2016

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

John Locke, Secondo trattato sul governo

...Sebbene la legge di natura sia evidente e

intelligibile ad ogni creatura ragionevole, tuttavia

gli uomini, in quanto influenzati dai loro interessi

la ignorano per mancanza di studio, sicché

tendono a non riconoscerla come una legge che li

obblighi ad applicarla ai loro casi particolari

John Locke, Secondo trattato sul governo

…Se l'uomo nello stato di natura è così libero come si è detto, se è

padrone assoluto della propria persona e dei propri beni, pari al

più grande fra tutti e a nessuno soggetto, perché mai rinuncia alla

sua libertà ? Perché cede il suo imperio e si assoggetta al dominio

e al controllo d'un altro potere ? La risposta ovvia è che, per

quanto nello stato di natura egli possieda il diritto connesso con

quello stato, la fruizione di esso è assai incerta e continuamente

esposta alle altrui interferenze. Infatti, tutti essendo re alla stessa

stregua di lui, tutti essendo suoi pari, ed essendo per lo più poco

rispettosi dell'equità e della giustizia, il godimento della

proprietà in questo stato è per lui assai incerto, molto

insicuro...

John Locke, Secondo trattato sul governo

Ciò lo induce ad abbandonare una condizione

che, per quanto libera, è piena di rischi e di

continui pericoli: e non è senza ragione ch'egli

desidera e ambisce unirsi a una società che gli

altri abbiano costituito o abbiano in mente di

costituire per la reciproca salvaguardia della

loro vita, libertà e beni, cioè con quello che

definisco con il termine generale proprietà. (§

123)

John Locke, Secondo trattato sul governo

Il grande è fondamentale intento per cui dunque gli uomini si

uniscono in Stati e si assoggettano a un governo è la salvaguardia

della loro proprietà. A tal fine lo stato di natura è per molti

rispetti inefficiente.

Vi manca in primo luogo una legge stabile, fissa e

notoria, accettata e riconosciuta per comune consenso come

criterio del giusto e dell'ingiusto e come comune misura Per

decidere di ogni controversia. Per quanto infatti la legge di natura

sia chiara e intelligibile a tutte le creature razionali, gli uomini,

traviati dall'interesse e ignari di essa per mancanza di riflessione,

non sono portati a riconoscerla come legge per loro vincolante

nell'applicazione ai loro casi particolari. (124)

John Locke, Secondo trattato sul governo

In secondo luogo, manca nello stato di natura un giudice

riconosciuto e imparziale, dotato dell'autorità di risolvere

ogni contrasto sulla base della legge istituita. Essendo infatti

in quello stato ciascuno giudice ed esecutore della legge di

natura, e gli uomini essendo parziali nei propri confronti, la

passione e lo spirito vendicativo tendono a spingerli troppo

oltre, e a infiammarli in modo eccessivo, quando si tratta di

casi propri, così come la negligenza e il disinteresse tendono

a farli noncuranti dei casi altrui. (§ 125)

John Locke, Secondo trattato sul governo

Infine, nello stato di natura manca spesso il potere, atto

a sostenere e appoggiare la sentenza giusta e

renderla debitamente operante. Coloro che hanno

commessa ingiustizia raramente, potendo, si astengono

da far valere con la forza quella trasgressione; e questa

resistenza rende spesso pericolosi e talvolta fatali per

chi li compie i tentativi di punizione.(§ 126)

John Locke, Secondo trattato sul governo

Nello stato di natura l'uomo ha due poteri, oltre alla libertà

di godere dei piaceri innocenti.

Il primo consiste nel fare tutto ciò che ritiene

opportuno per la conservazione sua e altrui nei limiti

consentiti dalla legge di natura. (…)

L'altro potere che un uomo ha nello stato di natura è

quello di punire i reati commessi contro la legge naturale. A

entrambi i poteri egli rinuncia quando entra in una società

politica per così dire privata o particolare e si incorpora in

uno Stato distinto da tutto il resto del genere umano.

John Locke, Secondo trattato sul governo

...Un uomo si spoglia della sua libertà naturale e accetta i vincoli

della società civile solo quando decide insieme con altri uomini di

associarsi e unirsi tutti in una comunità, per viver bene, nella

tranquillità e nella pace reciproca, assicurandosi il godimento delle

loro proprietà e una maggiore protezione contro coloro che a quella

società non appartengono. Questo può esser fatto da un gruppo di

uomini, perché non lede la libertà di tutti gli altri, che restano come

prima nell'indipendenza dello stato di natura. Quando un certo

numero di uomini in tal modo consente di istituire una comunità o

stato politico, essi vengono immediatamente associati in modo da

costituire un solo corpo politico, in cui la maggioranza ha diritto di

decretare e decidere per il resto (§ 95).

John Locke, Secondo trattato sul governo

Infatti quando un gruppo, col consenso di ciascun individuo, costituisce

una comunità, di quella comunità fa con ciò stesso un sol corpo, che ha

il diritto di deliberare come un sol corpo, cioè solo in base alla volontà e

alla decisione della maggioranza. I decreti d'una comunità non essendo

infatti se non il consenso degli individui a essa appartenenti, e, essendo

necessario che ciò che costituisce un sol corpo si muova in una sola

direzione, è indispensabile che quel corpo si muova nella direzione in

cui lo spinge la forza maggiore, e cioè il consenso della maggioranza.

Gli sarebbe altrimenti impossibile decretare e continuare a sussistere

come un sol corpo, come una sola comunità, quale consenso di ciascun

individuo a esso consociato ha convenuto che fosse; onde ciascuno è

tenuto da quel consenso ad essere determinato dalla maggioranza.

John Locke, Secondo trattato sul governo

…E' dunque inteso che chiunque, uscendo dallo stato di

natura, si unisca ad altri in una comunità, cede tutto il

potere, necessario ai fini per cui tutti si sono uniti in

società, alla maggioranza della comunità stessa, a meno

che non si sia convenuto un numero maggiore, appunto,

della maggioranza. E ciò avviene col semplice fatto di

decidere concordemente di unirsi in una sola società

politica: ecco tutto il patto che interviene, e deve

intervenire, fra gli individui che entrano a far parte d'uno

Stato o lo costituiscono…

John Locke, Secondo trattato sul governo

…Così, ciò che dà origine a una società

politica, e realmente la istituisce, non è se non

il consenso d'un certo numero di uomini liberi,

capaci d'una maggioranza, a riunirsi e

associarsi in una società siffatta. Questo e

questo soltanto ha dato e poteva dare origine a

un legittimo governo nel mondo (VIII, 99)

John Locke, Secondo trattato sul governo

Avendo naturalmente in sé, come s'è dimostrato, l'intero potere della

comunità fin dal momento in cui gli uomini si uniscono in società, la

maggioranza può servirsi di tutto quel potere per fare di tanto in tanto

leggi per la comunità e renderle operanti per mezzo di funzionari da essa

stessa designati. In questo caso la forma di governo è una perfetta

democrazia. Oppure può affidare il potere di legiferare a pochi prescelti

e ai loro eredi e successori, e allora si tratta di un'oligarchia. O, ancora,

può affidarlo a uno solo, e allora è una monarchia. Se è affidato a un sol

uomo e ai suoi eredi, è una monarchia ereditaria; se a un sol uomo per

tutta la durata della sua vita, ma a condizione che alla sua morte il solo

potere di nominare un successore venga restituito alla maggioranza,

allora è una monarchia elettiva. Così con queste forme, la comunità può

creare forme di governo composite o miste, secondo che paia opportuno.

John Locke, Secondo trattato sul governo

…E, se il potere legislativo viene dapprima dato dalla

maggioranza a una o più persone per la sola durata della loro vita,

o per un periodo comunque limitato, dopo di che il supremo

potere torna di nuovo a essa, quando ciò avviene la comunità può

disporne di nuovo affidandolo a chi vuole e costituire così una

nuova forma di governo. La forma di governo dipende dalla

collocazione del potere supremo, che è il legislativo; dunque,

essendo impossibile che un potere inferiore prescriva leggi a uno

superiore, o che un potere che non sia il potere supremo legiferi,

quale è la collocazione del potere di legiferare tale è la forma dello

Stato (X, 132). .

John Locke, Secondo trattato sul governo

...Vorrei che i miei obiettori tenessero presente che i monarchi

assoluti altro non sono che uomini; e se il governo dev'essere

rimedio ai mali che necessariamente scaturiscono dal fatto che gli

uomini sono giudici di se stessi, onde lo stato di natura non può

essere a lungo accettato, mi chiedo che genere di governo sia, e in

che senso sia migliore dello stato di natura, quello in cui un sol

uomo, regnando su molti, abbia la libertà di giudicare se stesso e

possa fare ai suoi sudditi tutto quello che vuole, mentre tutti gli

altri non hanno la minima libertà di discutere o controllare coloro

che eseguono il suo volere, e qualsiasi cosa egli faccia - sia

guidato da ragione, da errore o da passione - devono obbedirgli…

John Locke, Secondo trattato sul governo

…Molto meglio lo stato di natura, in

cui gli uomini non sono costretti a

sottomettersi all'ingiusto volere di un

altr'uomo e in cui colui che giudica, se

giudica male della causa propria o

altrui, deve risponderne al resto degli

uomini .

John Locke, Secondo trattato sul governo

…Entrando in società gli uomini rinunciano all'eguaglianza, alla

libertà e al potere esecutivo di cui godevano nello stato di natura,

affidandolo alla società perché il legislativo ne disponga come

richiede il bene della società stessa. Ma, poiché ciascuno fa questo

con l'intenzione di meglio salvaguardare la propria libertà e

proprietà (ché non è mai pensabile che una creatura razionale muti

con l'intento di star peggio), è lecito aspettarsi che il potere della

società, o il legislativo costituito, non oltrepassi mai i limiti del

bene comune, ma sia tenuto ad assicurare la proprietà di ciascuno

prendendo misure contro i tre difetti sopra menzionati, che

avevano reso lo stato di natura tanto incerto e difficile.

John Locke, Secondo trattato sul governo

…Così, chiunque disponga del potere legislativo o supremo d'uno

Stato è tenuto a governare secondo leggi istituite e stabili,

promulgate e rese note al popolo, e non sulla base di decreti

estemporanei; per mezzo di giudici imparziali e retti, che devono

risolvere i conflitti in base a quelle leggi; ed è tenuto ad usare la

forza della comunità, in patria, solo per l'esecuzione di quelle

leggi; e, fuori, al fine di prevenire e risarcire offese esterne e

mettere la comunità al sicuro da scorribande ed invasioni. E tutto

ciò non dev'essere ispirato ad altro fine che la pace, la sicurezza e

il pubblico bene del popolo. (§ 131)

John Locke, Secondo trattato sul governo

Il potere legislativo, sia esso affidato a una o più persone, sia vigente

di continuo o solo a intervalli, è sì il supremo potere in ogni Stato,

ma ciò nonostante occorre considerare quanto segue:

In primo luogo, non esercita, né può assolutamente esercitare

l'arbitrio sulla vita e i beni del popolo. Non essendo infatti se non il

potere congiunto di ciascun membro della società, conferito a quella

persona o assemblea che appunto legiferano, non può essere nulla

più di quanto quelle persone possedevano nello stato di natura prima

di entrare in società e che hanno rimesso alla comunità. Nessuno

infatti può trasferire ad altri più potere di quanto non abbia, e

nessuno ha, su se stesso o su altri, un assoluto arbitrario potere di

togliersi la vita o strappare ad altri la vita o i beni...

John Locke, Secondo trattato sul governo

…Il suo potere, nella massima estensione è

comunque limitato dal criterio del pubblico bene

della società. E' un potere che non ha altro fine

che la conservazione, e non può dunque avere mai

diritto di distruggere, ridurre in schiavitù o

deliberatamente in miseria coloro che vi sono

soggetti...

John Locke, Secondo trattato sul governo

In secondo luogo, l'autorità legislativa, o autorità suprema, non può

arrogarsi il potere di governare per mezzo di estemporanei arbitrari

decreti, ma è tenuta a dispensare la giustizia e stabilire i diritti dei sudditi

con leggi promulgate e stabili e per mezzo di giudici abilitati e noti...

In terzo luogo, il potere supremo non può togliere a un uomo una parte

della sua proprietà senza il suo consenso. Infatti, la conservazione della

proprietà essendo il fine del governo e la ragione per cui gli uomini

entrano in società, è necessariamente presupposto e richiesto che il

popolo abbia una proprietà; altrimenti bisognerebbe supporre che,

entrando in società, si perda ciò che era appunto il fine in vista del quale

vi si era entrati: un'assurdità, questa, troppo grossolana perché qualcuno

la accetti...

John Locke, Secondo trattato sul governo

...E' dunque un errore pensare che il potere supremo o potere legislativo

d'uno Stato possa fare ciò che vuole e disporre arbitrariamente dei beni

dei sudditi, o prenderne una parte a suo piacimento. Questo non è un

vero pericolo nei regimi in cui il legislativo consiste, del tutto o in parte,

in assemblee che variano, i cui membri, a scioglimento avvenuto,

tornano a esser sudditi sottoposti alle leggi comuni del paese, al pari

degli altri. Ma nei regimi in cui il legislativo risiede in una sola

assemblea sempre ininterrottamente in carica, o in un sol uomo, come

nelle monarchie assolute, c'è sempre il pericolo che costoro ritengano di

avere un interesse diverso da quello del resto della comunità, e di sentirsi

dunque autorizzati ad accrescere la propria ricchezza e il proprio potere

togliendo al popolo quello che vogliono" (XI, 138).

John Locke, Secondo trattato sul governo

…In uno Stato che poggi su proprie basi e operi secondo la propria natura,

cioè per la salvaguardia della comunità, non ci può essere se non un solo

supremo potere, che è il legislativo, al quale tutti gli altri sono e devono

essere subordinati. Tuttavia, essendo il legislativo solo un potere fiduciario

inteso a certi fini, resta al popolo il supremo potere di destituire o mutare il

legislativo quando constata che esso agisce in modo contrario alla fiducia in

esso riposta. Infatti, ogni potere dato in affidamento per il conseguimento di

un fine è limitato appunto a quel fine, e ogni qualvolta quest’ultimo venga

manifestamente trascurato o calpestato, l’affidamento non può non venir

meno e il potere non ritornare nelle mani di coloro che l’hanno conferito, e

che possono di nuovo collocarlo dove credono più opportuno per la loro

sicurezza e tutela. (XI, 149).

John Locke, Secondo trattato sul governo

…Così la comunità conserva sempre il

supremo potere di difendersi dai tentativi e

disegni di chiunque, sia pure dei legislatori

quand’essi siano così stolti o malvagi da

formulare o perseguire piani contrari alla

libertà o ai beni dei sudditi. (XI, 149).

John Locke, Secondo trattato sul governo

Quando si maltratta il popolo e si calpesta il suo diritto, esso

è sempre pronto alla prima occasione a scrollarsi di dosso un

giogo che sente gravare su di sé. Sospirerà e cercherà il

momento opportuno, che, data la mutevolezza, la fragilità e la

natura fortuita delle cose umane, di rado tarda molto a venire.

(…) rivoluzioni del genere non avvengono per abusi minimi

nell'amministrazione della cosa pubblica. Grandi errori da

parte dei governanti, molte leggi sbagliate e inopportune, tutti

i cedimenti della debolezza umana saranno sopportati dal

popolo senza ribellione o manifestazioni di dissenso…

John Locke, Secondo trattato sul governo

…Ma, se una lunga serie di abusi, prevaricazioni ed

espedienti tutti intesi a una cosa sola, manifesta al popolo

una trama e mostra inequivocabilmente che cosa incombe su

di esso, in quale direzione lo si trascini, non stupisce allora

che esso si scuota e s'adoperi a porre il potere in mani capaci

di garantire i fini in vista dei quali il governo fu

originariamente istituito e senza i quali nomi antichi e

istituzioni formali non solo non sono migliori dello stato di

natura e della pura anarchia, ma sono addirittura peggiori, gli

inconvenienti essendo altrettanto gravi e pressanti e il

rimedio più remoto e difficile.

John Locke, Secondo trattato sul governo

…Chi giudicherà se il principe o il legislativo

agiscono conto il mandato ricevuto? …Sarà il

popolo a giudicare. Chi infatti potrà giudicare se

il suo delegato o deputato agisce bene, in

conformità al mandato affidatogli, se non colui

che appunto lo ha deputato e che deve per ciò

stesso avere ancora il potere di destituirlo quando

viene meno al mandato?

John Locke, Secondo trattato sul governo

…Se alcuni si ritengono lesi e pensano che il sovrano agisca

contro il mandato o al di là del mandato, chi meglio del corpo del

popolo (che appunto gli ha fin dall’inizio affidato quel mandato)

può giudicare circa l’ampiezza che intendeva dare al mandato

stesso? Ma se il sovrano, o chiunque sia incaricato

dell’amministrazione civile, rifiuta questo modo di risolvere il

conflitto, allora solo arbitro è il cielo. L’uso della forza che non

riconoscono superiori sulla terra, e in casi che non consentono

l’appello a un giudice terreno, è infatti propriamente uno stato

di guerra, il cui arbitrato solo al cielo compete; e in quello stato

la parte lesa deve giudicare per suo conto quando sia il momento

di ricorrervi e affidarvisi…

Dichiarazione d’indipendenza americana

(1776)…Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse

evidenti, che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono

stati dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra

questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità;

che allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini

i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei

governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di Governo

tende a negare tali fini, è Diritto del Popolo modificarlo o abolirlo,

e creare un nuovo Governo, che si fondi su quei principi e che

abbia i propri poteri ordinati in quella guisa che gli sembri più

idonea al raggiungimento della sua sicurezza e felicità…

Dichiarazione d’indipendenza americana

(1776)…La prudenza, invero, consiglierà di non modificare per cause

transeunti e di poco conto Governi da lungo tempo stabiliti, e,

conformemente a ciò, l’esperienza ha dimostrato che gli uomini

sono maggiormente disposti a sopportare, finché i mali siano

sopportabili, che a farsi giustizia essi stessi abolendo quelle

forme di Governo cui sono avvezzi. Ma quando un lungo

corteo di abusi e di usurpazioni, invariabilmente diretti allo

stesso oggetto, svela il disegno di assoggettarli ad un

Dispotismo assoluto, è loro diritto, è loro dovere, di abbattere

un tale Governo, e di procurarsi nuove garanzie per la loro

sicurezza futura...

John Locke, Lettera sulla tolleranza

…La causa delle anime non può appartenere al magistrato civile,

perché tutto il suo potere consiste nella costrizione. Ma la

religione vera e salutare consiste nella fede interna dell’anima,

senza la quale nulla ha valore presso Dio. La natura

dell’intelligenza umana è tale che non può essere costretta da

nessuna forza esterna. Si confischino i beni, si tormenti il corpo

con il carcere o la tortura, tutto sarà vano, se con questi supplizi si

vuole mutare il giudizio della mente sulle cose. Occorre fare luce

perché muti una credenza dell’anima; e la luce non può essere

data in nessun modo da una pena inflitta al corpo.

Lezione n. 21

II SEMESTRE

A.A. 2015-2016

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

Baruch Spinoza, Ethica:

Il conatus è lo «sforzo col quale ciascuna cosa si sforza di

perseverare nel suo essere». Allorché il conatus «è riferito soltanto

alla mente si chiama volontà; ma quando è riferito insieme alla

mente e al corpo si chiama appetito (appetitus). Questo, quindi,

non è altro se non l’essenza stessa dell’uomo, dalla cui natura

segue necessariamente ciò che serve alla sua conservazione, e

quindi l’uomo è determinato a farlo. Non c’è poi, nessuna

differenza tra l’appetito e il desiderio (cupiditas), tranne che il

desiderio si riferisce per lo più agli uomini in quanto sono

consapevoli del loro appetito e perciò si può definire così: il

desiderio è l’appetito con coscienza di se stesso» (III, XV)

Baruch Spinoza, Ethica:

…Libero è chi «non è guidato dalla paura della

morte, ma desidera direttamente il bene, cioè

agire, vivere, conservare il proprio essere avendo

quale fondamento la ricerca del proprio utile;

perciò a nulla pensa meno che alla morte e la sua

saggezza è meditazione della vita» (IV, P LXVII).

Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico :

…il diritto naturale è dunque determinato e

definito non da una saggia razionalità, bensì dal

proprio desiderio (cupiditas) e dalle proprie

possibilità; (…) ne segue che ogni individuo

[nello stato di natura] ha un diritto sovrano su

tutto ciò che cade sotto il suo potere, ossia che il

diritto di ciascuno si estende fin là dove giunge la

sua particolare potenza…

Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico :

Il governo democratico è «quello che più si accosta

all’ordinamento naturale e che meglio corrisponde a quella

libertà che la natura concede a ciascuno. In regime

democratico, infatti, nessun individuo aliena il proprio diritto

a favore di un altro, in modo da precludersi la facoltà di

prendere nuove decisioni; bensì aliena il suo diritto a favore

della totalità del corpo sociale di cui egli costituisce una

parte. Ed è appunto perciò che tutti gli individui restano

uguali, come lo erano prima nello stato di natura» (XVI)

Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico :

…Lo scopo di una repubblica (…) non è di convertire

in bestie gli uomini dotati di ragione o di farne degli

automi, ma al contrario di far sì che la loro mente e il

loro corpo possano con sicurezza esercitare le loro

funzioni, ed essi possano servirsi della libera ragione e

non lottino l’uno contro l’altro con odio, ira o inganno,

né si facciano trascinare da sentimenti iniqui. Il vero

fine di una repubblica è, dunque, la libertà (Cap. XX)

Lezione n. 22

II SEMESTRE

A.A. 2015-2016

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

Voltaire, Il secolo di Luigi XIV

Si è visto che una repubblica letteraria si era insensibilmente stabilita in Europa,

nonostante le guerre, e le diversità di religione. Tutte le scienze, tutte le arti

hanno così goduto di scambievoli aiuti; le accademie han creato tale repubblica.

La letteratura ha unito l’Italia colla Russia; gl’inglesi, i tedeschi, i francesi

andavano a studiare a Leida. Il celebre medico Bourhave veniva consultato a un

tempo e dal papa e dallo zar. I suoi migliori allievi attiravano allo stesso modo

gli stranieri, e son diventati in certa guisa i medici delle nazioni: i veri

scienziati, in ogni ramo del sapere, hanno stretto i legami di quella grande

società degli spiriti, dappertutto diffusa, e dappertutto indipendente. Tale

carteggio dura ancora, ed è una delle consolazioni dei mali che l’ambizione e la

politica procurano all’umanità

Voltaire, Dizionario filosofico

Il teista è un uomo fermamente convinto dell’esistenza di un Essere supremo

altrettanto buono che potente, che ha formato tutti gli esseri estesi, vegetanti,

senzienti e pensanti; che ne perpetua la specie, ne punisce senza crudeltà le colpe e

ne ricompensa con bontà le azioni virtuose. (…) Il teista non segue alcuna setta,

consapevole che tutte si contraddicono. La sua religione è la più antica e la più

diffusa di tutte, perché la semplice adorazione d’un Dio precedette tutti i sistemi del

mondo. Egli parla una lingua che tutti i popoli capiscono, mentre essi non

s’intendono affatto tra loro. Ha fratelli da Pechino sino alla Caienna e considera

come suoi fratelli tutti gli uomini saggi. Stima che la religione non consista né nelle

opinioni d’una metafisica inintelligibile né in vani apparati, ma nell’adorazione e

nella giustizia. Fare il bene, ecco il suo culto; esser sottomesso a Dio, ecco la sua

dottrina. Il musulmano gli grida: «Guai a te se non farai il pellegrinaggio alla

Mecca!»; e il recolletto lo ammonisce: «Sventura a te se non ti rechi alla Madonna di

Loreto!». Egli ride della Mecca e di Loreto; ma soccorre il misero e difende

l’oppresso.

Encyclopédie, Voce Humanité

L’umanità è un sentimento di benevolenza

per tutti gli uomini che si accende solo in

anime grandi e sensibili. Questo nobile e

sublime entusiasmo soffre per le pene degli

altri e per il bisogno di alleviarle; vorrebbe

percorrere l’universo per abolire la

schiavitù, la superstizione, il vizio e

l’infelicità

P.T. d’Holbach, Systeme social ou principes naturels

de la morale et de la politique

L’umanità, questa virtù distintiva dell’uomo così sovente calpestata da esseri che si

dicono ragionevoli, è una branca dell’equità. Essere umano significa essere disposti a

rendere giustizia, a prestare soccorso, a fare del bene indistintamente a tutti gli individui

della specie di cui facciamo parte. Questa disposizione così lodevole è fondata sulla

ragione, l’esperienza, la riflessione che ci dimostrano che, come uomini, come esseri

sensibili e deboli che hanno bisogno ad ogni istante di soccorso, dobbiamo prestare il

nostro a tutti quelli che ne hanno bisogno, se vogliamo essere in diritto di esigere quello

dei nostri simili. È sufficiente essere uomini, per avere dei diritti sull’uomo. L’umanità è

un nodo fatto per legare invisibilmente il cittadino di Parigi a quello di Pechino. È un

patto che impegna egualmente tutti i membri della grande famiglia, di cui i differenti

popoli del mondo non sono che gli individui sparsi. Questo patto è la salvaguardia della

nostra razza; esso mette ciascuno di noi in diritto di reclamare la giustizia, la pietà, i

benefici di ogni essere sensibile, di qualunque paese, di qualunque religione, di

qualunque condizione egli sia. La guerra, la crudeltà, le conquiste, l’intolleranza, la

durezza sono cose contrarie all’umanità.

C. S. de Montesquieu, Pensieri

Se io sapessi d’una cosa utile alla mia

nazione che fosse dannosa ad un’altra

non la proporrei al mio principe, perché

io sono uomo prima d’essere Francese,

o, meglio, perché sono necessariamente

uomo, e Francese solo per caso…

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Ho dapprima studiato gli uomini e sono giunto alla

convinzione che, in quell’infinita diversità di leggi e di

costumi, essi non siano guidati esclusivamente dalle loro

fantasie. Ho posto dei principi e ho veduto i casi

particolari conformarvisi quasi spontaneamente e li ho

veduti operanti nelle storie di tutte le nazioni; ho

compreso infine come ogni legge particolare sia legata a

un’altra o dipendente da una legge più generale

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Parecchie cose governano gli uomini: il clima, la

religione, le leggi, le massime del governo, gli

esempi delle cose passate, i costumi e le maniere.

Da tutto questo risulta uno spirito generale. A

seconda che in ogni paese una di queste cause

agisce con maggior forza, le altre fanno sentire in

proporzione una forza minore…

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

La legge in generale è la ragione umana, in quanto

governa tutti i popoli della terra e le leggi politiche e

civili di ogni nazione non debbono essere che i casi

particolari in cui questa ragione umana viene applicata.

Esse debbono essere talmente adatte al popolo per cui

sono state fatte, che solo eccezionalmente le leggi di una

nazione possono convenire a un’altra; e debbono

conformarsi alla natura e al principio del governo

stabilite o che si deve stabilire…

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Esse debbono essere corrispondenti alla natura fisica

del paese; al clima gelido, torrido o temperato; alla

qualità del terreno, alla sua situazione ed estensione;

al genere di vita dei popoli, agricoli, cacciatori o

pastori, debbono esser conformi al grado di libertà

che la costituzione concede; alla religione degli

abitanti, alle loro inclinazioni, alle loro ricchezze, al

loro numero, al loro commercio, ai loro costumi, ai

loro modi di vita.

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Infine, esse hanno rapporti reciproci; ne hanno

con la loro origine, con il fine del legislatore, con

l’ordine di cose su cui si fondano. Bisogna

dunque considerarle sotto tutti questi punti di

vista. Tale è lo scopo che perseguo in questa mia

opera. Esaminerò tutti questi rapporti: essi

costituiscono nel loro insieme ciò che viene

chiamato lo spirito delle leggi.

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

La teoria delle forme di governo:

Repubblica

Democrazia Aristocrazia

Monarchia

Dispotismo

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Il governo repubblicano è quello in cui tutto il

popolo, o soltanto una parte di esso, detiene il

potere sovrano; il monarchico, quello in cui

governa uno solo, ma per mezzo di leggi fisse

e stabilite; mentre nel dispotico uno solo,

senza legge e senza regola, trascina tutto con

la sua volontà e i suoi capricci. Ecco quello

che io chiamo la natura di ogni governo…

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Fra la natura del governo e il suo

principio c’è questa differenza, che la sua

natura è ciò che lo fa essere quello che è,

e il suo principio ciò che lo fa agire. L’una

è la sua struttura particolare, e l’altro le

passioni umane che lo fanno muovere.

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Forma di governo Principio

Democrazia Virtù

Aristocrazia Moderazione

Monarchia Onore

Dispotismo Paura

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Non ci vuole molta probità perché un governo monarchico

o un governo dispotico si mantenga o si sostenga. La forza

delle leggi nell’uno, il braccio del principe sempre alzato

nell’altro, regolano e tengono a freno tutto. Ma in uno stato

popolare ci vuole una molla in più che è la VIRTU’.

(…) Gli uomini politici greci ,che vivevano in un governo

popolare, non riconoscevano altra forza che potesse

sostenerli, se non quella della Virtù. Quelli di oggi non ci

parlano che di manifatture, di commercio, di finanze, di

ricchezze e perfino di lusso.

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Quando tale virtù cessa, l’ambizione entra nei cuori che

possono riceverla, e in tutti entra l’avarizia. I desideri

cambiano oggetto; quello che si amava, non lo si ama

più; si era liberi con le leggi, si vuol essere liberi contro

di esse; ogni cittadino è come uno schiavo fuggito dalla

casa del padrone. (…) Un tempo i beni dei privati

formavano il tesoro pubblico; ma ora il tesoro pubblico

diventa il patrimonio dei privati. La repubblica è un

guscio vuoto; e la sua forza non è più che il potere di

alcuni cittadini e la licenza di tutti…

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Il governo aristocratico ha di per sé una certa forza che

la democrazia non ha. I nobili vi formano un corpo che,

per la sua prerogativa e il suo interesse privato, esprime

il popolo: basta che vi siano delle leggi, perché vengano

messe in esecuzione a tale scopo.

Ma per quanto questo corpo è altrettanto facile reprimere

gli altri, quanto è difficile reprimere se stesso. La natura

di questa costituzione è tale, che sembra mettere le stesse

persone sotto la potestà della legge , e insieme sottrarle

ad essa.

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Ora un corpo siffatto può reprimere se stesso in due

modi soltanto: mediante una grande virtù, che faccia

sì che i nobili si trovino in qualche modo uguali al

popolo, il che può formare una grande repubblica; o

mediante una virtù minore, cioè una certa

moderazione, che rende i nobili perlomeno uguali a

se stessi, il che fa la loro conservazione.

L’anima di questi governi è dunque la

moderazione…

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Il governo monarchico presuppone (…) delle

preminenze, dei ranghi e perfino una nobiltà

originaria. La natura dell’onore è di richiedere

preferenze e distinzioni; dunque, per la cosa stessa, è

al suo posto in questo governo.

L’ambizione è perniciosa in una repubblica. Produce

buoni effetti nella monarchia; dà la vita a questo

governo; e offre questo vantaggio, che in esso non è

pericolosa perché può esservi continuamente repressa.

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Si direbbe che avvenga come nel sistema dell’universo, dove una

forza allontana senza posa dal centro tutti i corpi e una forza di

gravità ve li riporta. L’onore fa muovere tutte le parti del corpo

politico, le leggi con la sua azione stessa, e accade che ognuno va

verso il bene comune, credendo di andare verso i propri interessi

particolari.

E’ vero che, da un punto di vista filosofico, è un falso onore quello

che guida tutte le parti dello Stato; ma questo falso onore è

altrettanto utile al pubblico lo sarebbe quello vero ai privati che

potessero averlo. E non è già molto obbligare gli uomini a

compiere le azioni difficili, e che richiedono forza, senza altra

ricompensa che la risonanza di quelle azioni?

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Come in una repubblica ci vuole la virtù, in

una monarchia l’onore, così in uno stato

dispotico ci vuole la PAURA: quanto alla

virtù, non vi è necessaria, e l’onore vi

sarebbe pericoloso

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

E’ vero che nelle democrazie, il popolo sembra fare ciò

che vuole: ma la libertà politica non consiste affatto nel

fare ciò che si vuole. In uno Stato, cioè in una società dove

vi sono delle leggi, la libertà può solo consistere nel fare

ciò che si deve volere, e nel non essere costretti a fare ciò

che non si deve volere. Occorre avere ben presente che

cosa sia l’indipendenza e che cosa sia la libertà. La libertà

è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono: infatti,

se un cittadino potesse fare tutto ciò che esse proibiscono,

non avrebbe più libertà, poiché anche gli altri

acquisterebbero un tale potere…

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

La libertà politica, in un cittadino, consiste in

quella tranquillità di spirito che proviene

dall’opinione nutrita da ciascuno circa la

propria sicurezza; e perché si abbia questa

libertà, occorre che il governo sia tale che un

cittadino non debba temere un altro cittadino.

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Un’esperienza di secoli mostra come qualsiasi uomo

che si trovi ad avere il potere, sia portato ad

abusarne, finché non gli vengano posti dei limiti. Chi

lo direbbe! Persino la virtù ha bisogno di limiti:

perché non si possa abusare del potere, bisogna che,

per la disposizione delle cose, il potere argini il

potere. Una costituzione può essere tale che nessuno

sia costretto a fare le cose a cui la legge non lo obbliga

e a non fare quello che la legge permette…

Lezione n. 23

II SEMESTRE

A.A. 2015-2016

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

Le caratteristiche dell’uomo naturale:

1) Amor di sé, ovvero un impulso costante a

preservare la propria vita;

2) Pietà, ovvero la compassione per le

sofferenze degli altri membri della stessa

specie

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

Le caratteristiche dell’uomo naturale:

3) Perfettibilità, ovvero la capacità non solo

di cambiare le sue qualità essenziale, ma

anche di migliorarle;

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

Le caratteristiche dell’uomo civilizzato:

Amor proprio, ovvero una preoccupazione

per se stesso, mediata dal confronto con gli

altri;

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

Mettendo (…) da parte tutti i libri scientifici che ci insegnano solo a

vedere gli uomini come si son fatti, e riflettendo sulle prime più

semplici operazioni dell’anima umana, io credo di scorgervi due principi

anteriori alla ragione: di questi, uno suscita in noi vivo interesse per il

nostro benessere e la nostra conservazione, l’altro ci ispira una

ripugnanza naturale a veder morire o soffrire ogni essere sensibile e in

particolare i nostri simili. Mi pare che dal concorso e dalla

combinazione che il nostro spirito può fare di questi due principi senza

dover ricorrere a quello della socievolezza scaturiscano tutte le norme

del diritto naturale; norme che in seguito la ragione è costretta a

ristabilire su altri fondamenti, quando per i suoi successivi sviluppi, è

giunta al risultato di soffocare la natura… (Prefazione)

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

(…) Per decreto di una provvidenza molto saggia le

facoltà che [l’uomo] aveva in potenza dovevano

svilupparsi solo con le occasioni di esercitarle, perché

non lo gravassero anzitempo di un peso superfluo per

divenire inutili e tardive al momento del bisogno. Nel

solo istinto aveva tutto ciò che gli occorreva per vivere

nello stato di natura; in una ragione coltivata ha solo ciò

che gli occorre per vivere in società…

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

Sembra a prima vista che gli uomini, in questo stato, non

avendo tra loro rapporti morali di nessuna specie o

doveri riconosciuti, non potessero essere né buoni né

cattivi, né avere vizi o virtù a meno di assumere questi

termini in senso fisico chiamando vizi nell’individuo le

qualità che possono ostacolare la sua conservazione e

virtù quelle che possono contribuirvi--.

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

(…) Soprattutto non finiamo col concludere con Hobbes che l’uomo, non avendo alcuna

idea di bontà, sia naturalmente cattivo, che sia vizioso perché non conosce la virtù, che

rifiuti sempre ai suoi simili dei servizi che non crede di dover loro, e che ritenendo a

ragione di aver diritto alle cose di cui ha bisogno, immagini follemente di essere il solo

padrone di tutto l’universo. Hobbes ha visto molto bene il difetto di tutte le definizioni

moderne del diritto naturale, ma le conseguenze che ricava dalla sua definizione

dimostrano che le dà un senso non meno falso di quello delle altre. Ragionando sui

principi da lui fissati questo autore doveva dire che lo stato di natura, essendo quello in

cui la cura della nostra conservazione è meno suscettibile di recar pregiudizio alla

conservazione altrui, era, di conseguenza, il più adatto alla pace, il più conveniente al

genere umano. Mentre dice precisamente il contrario per avere introdotto

inopportunamente nella cura della conservazione dell’uomo selvaggio il bisogno di

soddisfare una molteplicità di passioni che sono opera della società e che hanno reso

necessarie le leggi.

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

(…) Ma c’è un altro principio di cui Hobbes non si è accorto, un

principio che dato all’uomo per raddolcire in certe circostanze la ferocia

dell’amor proprio, o prima che questo amore nascesse, l’istinto di

conservazione, tempesta l’ardore che nutre per il suo benessere con

un’innata ripugnanza a veder soffrire il proprio simile. Non ho alcun

timore di cadere in contraddizione accordando all’uomo la sola virtù

naturale che sia stato costretto a riconoscergli il detrattore più spinto

delle virtù umane [Mandeville]. Parlo della pietà, disposizione che ben

si adatta a esseri così deboli e soggetti a tanti mali come siamo noi; virtù

tanto più universale ed utile all’uomo in quanto precede in lui qualunque

riflessione; così naturale che anche le bestie ne hanno talvolta segni

tangibili…

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

(…) E’ assolutamente certo che la pietà è un sentimento naturale, volto a

moderare in ciascun individuo l’attività dell’amor di sé contribuendo così alla

mutua conservazione dell’intera specie. La pietà ci porta a soccorrere senza

riflettere quelli che vediamo soffrire; la pietà tiene luogo, nello stato di natura,

di leggi, di costumi e di virtù, con questo vantaggio: che nessuno è tentato di

disobbedire alla sua dolce voce; la pietà distoglierà ogni selvaggio robusto, che

appena creda di poter trovare altrove il proprio cibo, dal portar via a un debole

fanciullo o a un vecchio malato quello che si è procurato con fatica; è la pietà

che, invece della massima sublime di giustizia razionale, fai agli altri ciò che

vuoi sia fatto a te, ispira a tutti gli uomini quest’altra massima di bontà naturale,

molto meno perfetta, ma forse più utile della precedente: fai il tuo bene col

minor male possibile per gli altri… (Pt. I).

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

(…) Finché gli uomini si contentarono delle loro capanne rustiche, finché si

limitarono a cucire le loro vesti di pelli con spine di vegetali o non lische di pesce, a

ornarsi di piume e conchiglie, a dipingersi il corpo con diversi colori, a perfezionare

o abbellire i loro archi e le loro frecce, a tagliare con pietre aguzze canotti da pesca

o qualche rozzo strumento musicale; in una parola, finché si dedicarono a lavori che

uno poteva fare da solo, finché praticarono arti per cui non si richiedeva il concorso

di più mani, vissero liberi, sani, buoni, felici quanto potevano esserlo per la loro

natura, continuando a godere tra loro le gioie dei rapporti indipendenti; ma nel

momento stesso in cui un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, da quando ci si

accorse che era utile a uno solo aver provviste per due, l’uguaglianza scomparve, fu

introdotta la proprietà, il lavoro divenne necessario, e le vaste foreste si

trasformarono in campagne ridenti che dovevano essere bagnate dal sudore degli

uomini, e dove presto si videro germogliare e crescere con le messi la schiavitù e la

miseria.… (Pt. I).

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

(…) Questa grande rivoluzione nacque dall’invenzione di due arti:

la metallurgia e l’agricoltura. (…) Da quando ci fu bisogno di

uomini per fondere e forgiare il ferro, ci vollero altri uomini per

dar da mangiare a questi. Più il numero degli operai si veniva a

moltiplicare, mentre erano le mani impiegate a fornire il

sostentamento comune, senza che ci fossero meno bocche a

consumarlo; e poiché gli uni avevano bisogno di derrate in cambio

del loro ferro, gi altri scoprirono alla fine il segreto di impiegare il

ferro per moltiplicare le derrate. Ne nacquero da un lato l’aratura e

l’agricoltura, dall’altro l’arte di lavorare i metalli e di

moltiplicarne gli usi… (Parte II)).

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di

affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza

semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società

civile. Quanti delitti, guerre, omicidi, quante miserie ed

orrori non avrebbe risparmiato al genere umano colui

che, strappando i pioli e colmando il fossato, avesse

gridato ai suoi simili: 'Guardatevi dall'ascoltare questo

impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono

di tutti, e che la terra non è di nessuno!

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

Giunte le cose a questo punto, è facile immaginare il resto. (…) Ecco tutte

le nostre facoltà sviluppate, la memoria e l’immaginazione in gioco, l’amor

proprio risvegliato, la ragione resa attiva e lo spirito portato quasi al

culmine della perfezione che può attingere. Ecco tutte le qualità naturali in

azione, la posizione sociale e la sorte di ogni uomo stabilite non solo in

base alla consistenza dei beni e alla possibilità di servire o di nuocere, ma

anche allo spirito, alla bellezza, alla forza o alla destrezza, al merito o ai

talenti, ed essendo queste qualità le sole che potevano attirare la

considerazione, bisognò

ben presto possederle o simularle. Bisognò, nel proprio interesse, mostrarsi

diversi da ciò che si era in realtà. Essere e parere diventarono due cose del

tutto diverse, e dalla distinzione scaturirono il fasto imponente, l’astuzia

ingannatrice e tutti i vizi che ne formano il corteo….

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

D’altro lato, ecco l’uomo, che prima era libero e indipendente,

assoggettato, per così dire, a tutta la natura da una quantità di nuovi

bisogni, e soprattutto assoggettato ai suoi simili di cui diventa in certo

senso schiavo, perfino quando ne diventa il padrone: ricco ha bisogno

dei loro servizi, povero ha bisogno del loro aiuto, e la mediocrità non lo

mette in grado di non farne conto. Bisogna dunque che cerchi senza

posa di cointeressarli alla sua sorte, facendo in modo che, di fatto o in

apparenza, trovino il loro utile a lavorare per il suo utile; ciò lo rende

astuto e ipocrita con gli uni, imperioso e duro con gli altri e lo costringe

ad ingannare tutti quelli di cui ha bisogno, quando non può farli temere

e quando non trova il proprio tornaconto a servirli utilmente...

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

Infine l’ambizione che lo divora, l’assillo di elevare la propria

relativa fortuna, non tanto per un vero bisogno quanto per

collocarsi al di sopra degli altri, ispira a tutti gli uomini una

cupa inclinazione a nuocersi a vicenda, una segreta gelosia,

tanto più pericolosa in quanto, per fare il suo colpo con più

sicurezza si maschera spesso da benevolenza; in una parola,

concorrenza e rivalità da un lato, conflitto di interessi dall’altro,

e sempre il desiderio nascosto di fare il proprio interesse a

spese degli altri. Tutti questi mali sono il primo frutto della

proprietà e il corteo inseparabile della diseguaglianza

nascente...

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini(…) Quando i beni ereditari si furono accresciuti in numero ed estensione fino al

punto da coprire l’intero suolo e da essere tutti confinanti tra loro, gli uni non

poterono più ingrandirsi se non a spese degli altri, e quelli che non erano del

numero perché debolezza o indolenza avevano impedito che, a loro volta,

conquistassero una sostanza, diventati poveri senza aver perduto nulla in quanto,

mentre tutto mutava intorno a loro, loro soli non erano mutati, furono costretti a

ricevere o a strappare il loro sostentamento dalle mani dei ricchi; di qui

cominciarono a nascere, a seconda dei diversi caratteri degli uni e degli altri, la

dominazione e la schiavitù, o la violenza e le rapine. I ricchi dal canto loro, avevano

appena gustato il piacere di dominare quando, affrettandosi a disprezzare tutti gli

altri e servendosi degli antichi schiavi per sottometterne di nuovi, pensarono solo ad

assoggettare i loro vicini e ad asservirli; come quei lupi affamati che, se hanno

assaggiato una volta la carne umana, rifiutano ogni altro nutrimento e vogliono solo

divorare uomini..

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

(…) A questo modo, i più potenti o i più miserabili considerando

la loro forza o i loro bisogni come una specie di diritto ai beni

altrui, diritto equivalente, secondo loro, al diritto di proprietà, la

rottura dell’uguaglianza fu seguita dal più spaventoso disodine;

così, le usurpazioni dei ricchi, il brigantaggio dei poveri, le

passioni sfrenate di tutti, soffocando la pietà naturale e la voce

ancora debole della giustizia, resero gli uomini avari, ambiziosi e

malvagi. Si levò tra il diritto del più forte e quello del primo

occupante un perpetuo conflitto che andava sempre a finire in

duelli e uccisioni. La società in sul nascere fece posto al più

orribile stato di guerra...

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

Privo di ragioni valide per giustificarsi e di forze sufficienti per

difendersi; capace di schiacciare agevolemente un singolo, ma

schiacciato lui stesso da torme di banditi; solo contro tutti, non

potendo unirsi, per via delle scambievoli gelosie, con i suoi pari

contro dei nemici uniti dalla speranza del comune saccheggio, il

ricco, incalzato dalla necessità, finì con l’ideare il progetto più

avveduto che mai sia venuto in mente all’uomo; di usare cioè a

proprio vantaggio le forze stesse che lo attaccavano, di fare dei

propri avversari i propri difensori, di ispirare loro altre massime e

di dar loro altre istituzioni che gli fossero favorevoli quanto il

diritto naturale gli era contrario..

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

In questa prospettiva, dopo aver esposto ai suoi vicini l’orrore di una situazione

che li armava tutti gli uni contro gli altri, che rendeva i loro possessi altrettanto

onerosi dei loro bisogni, dove nessuna condizione, né povera né ricca, offriva

sicurezza, inventò facilmente speciose ragioni per trarli ai suoi scopi.

«Uniamoci, disse, per salvaguardare i deboli dall’oppressione, tenere a freno gli

ambiziosi e garantire a ciascuno il possesso di quanto gli appartiene; stabiliamo

degli ordinamenti di giustizia e di pace a cui tutti, nessuno eccettuato, debbano

conformarsi, e che riparino in qualche modo i capricci della fortuna

sottomettendo senza distinzione il potente e il debole a doveri scambievoli. In

una parola, invece di volgere le nostre forze contro noi stessi, concentriamole in

un potere supremo che ci governi con leggi sagge, proteggendo e difendendo

tutti i membri dell’associazione, respingendo i comuni nemici e mantenendoci

in un’eterna concordia».

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uominiCi volle molto meno dell'equivalente di questo discorso per trascinar

uomini rozzi, facili a sedurre, che d'altra parte avevan troppi affari da

sbrogliar fra loro per poter fare a meno d'arbitri, e troppa avarizia ed

ambizione per poter a lungo fare a meno di padroni. Tutti corsero

incontro alle loro catene, credendo assicurarsi la libertà: perché, avendo

abbastanza ragione per sentir i vantaggi d'una costituzione politica, non

avevano abbastanza esperienza per prevederne i pericoli...Tale fu o

dovette essere l'origine della società e delle leggi, che diedero nuove

pastoie al debole e nuove forze al ricco, distrussero senza scampo la

libertà naturale, fissarono per sempre la legge della proprietà e della

disuguaglianza, d'una accorta usurpazione fecero un diritto irrevocabile,

e, per il vantaggio di qualche ambizioso, assoggettarono ormai tutto il

genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria.

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uominiE' qui l'ultimo termine della disuguaglianza, e il punto

estremo che chiude il circolo, e tocca il punto da cui siamo

partiti: qui tutti gli individui tornano uguali, perché non son

più nulla, e non avendo più i sudditi altra legge che la

volontà del padrone, né il padrone altra regola che le sue

passioni, le nozioni del bene e i principi della giustizia

svaniscono di nuovo: qui tutto ti riporta alla sola legge del

più forte, e in conseguenza a un nuovo stato di natura,

differente da quello da cui abbiamo preso le mosse, in quanto

quello era lo stato di natura nella sua purezza, e quest'ultimo

è il prodotto di un eccesso di corruzione

Lezione n. 24

II SEMESTRE

A.A. 2015-2016

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Chi affronta l’impresa di dare istituzioni a un popolo

deve, per così dire, sentirsi in grado di cambiare la

natura umana; di trasformare ogni individuo, che per se

stesso è un tutto perfetto e solitario, in una parte di un

tutto più grande da cui l’individuo riceve, in qualche

modo, la vita e l’essere; di alterare la costituzione

dell’uomo per rafforzarla; di sostituire un’esistenza

parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che

tutti abbiamo ricevuto dalla natura.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

…Trovare una forma di associazione

(association) che protegga e difenda con tutta la

forza comune la persona e i beni di ciascun

associato, mediante la quale ognuno unendosi a

tutti non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti

libero come prima.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Queste clausole, bene intese, si riducono tutte a

una sola: cioè l'alienazione totale di ciascun

associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la

comunità; perché, in primo luogo, se ciascuno si

dà tutto intero, la condizione è uguale per tutti; e

se la condizione è uguale per tutti, nessuno ha

interesse a renderla onerosa per gli altri.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Di più, facendosi l'alienazione senza riserve, l'unione è

perfetta per quanto può essere, e nessun associato ha più

niente da rivendicare; perché, se restasse qualche diritto

ai singoli, non essendoci alcun superiore comune, che

potesse pronunciarsi fra loro e il pubblico, ciascuno,

essendo su qualche punto il proprio giudice,

pretenderebbe ben presto di esser tale su tutti; sicché lo

stato di natura persisterebbe, e l'occasione diverrebbe

necessariamente tirannica o vana.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Infine ciascuno, dandosi a tutti, non si dà a

nessuno; e siccome non c'è associato, sul quale

non si acquisti lo stesso diritto che gli si cede su

noi stessi, si guadagna l'equivalente intero di ciò

che si perde, e più forza per conservare ciò che si

ha.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Ciascuno di noi mette in comune la sua

persona e tutto il suo potere sotto la suprema

direzione della volontà generale; e noi,

come corpo, riceviamo ciascun membro

come parte indivisibile del tutto.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Immediatamente, in cambio della persona privata di ciascun

contraente, quest'atto di associazione produce un corpo

morale e collettivo, composto di tanti membri quanti voti ha

l'assemblea; il quale riceve da questo stesso atto la sua unità,

il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona

pubblica, che si forma così dall'unione di tutte le altre,

prendeva altra volta il nome di città e prende ora quello di

repubblica o di corpo politico, il quale è chiamato dai suoi

membri Stato, in quanto è passivo, sovrano in quanto è attivo,

potenza nei confronti coi suoi simili

J.-J. Rousseau, Il contratto socialeIn realtà ogni individuo può, come uomo, avere una volontà

particolare contraria o dissimile dalla volontà generale, che egli ha

come cittadino; il suo interesse privato può parlargli in modo del tutto

diverso dall'interesse comune; la sua esistenza assoluta, e

naturalmente indipendente, può fargli considerare ciò che deve alla

causa comune, come una contribuzione gratuita, la cui perdita

sarebbe meno dannosa agli altri, di quanto il pagamento ne sia

gravoso a lui; e considerando la persona morale, che costituisce lo

Stato come un emte di ragione, poiché questo non è un uomo, egli

godrebbe dei diritti di cittadino senza voler compiere i doveri di

suddito; ingiustizia, il cui progresso cagionerebbe la rovina del corpo

politico.

J.-J. Rousseau, Il contratto socialeAffinché dunque il patto sociale non sia una vana formula, esso

deve racchiudere tacitamente questo impegno, il quale solo può

dar forza agli altri: che chiunque rifiuterà di obbedire alla

volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo; ciò non

significa altro se non che lo si costringerà ad essere libero;

perché tale è la condizione che dando ogni cittadino alla patria,

lo garantisce da ogni dipendenza personale; condizione che

forma il meccanismo e il funzionamento della macchina

politica, che sola rende legittime le obbligazioni civili, le quali

senza di ciò sarebbero assurde, tiranniche, e soggette ai più

enormi abusi.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Quando tutto il popolo delibera su tutto il popolo,

esso non considera che se stesso; e se una

relazione allora si costituisce, è dell'oggetto

intero, considerato sotto un certo aspetto, con

l'oggetto intero, considerato sotto un altro aspetto,

senza alcuna divisione del tutto. Allora l'oggetto

su cui si delibera è generale, come la volontà

deliberante. Quest'atto io chiamo una legge.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Dico dunque che la sovranità, non essendo che l'esercizio della

volontà generale, non può mai alienarsi, e che il sovrano, che non

è se non un ente collettivo, non può essere rappresentato che da

se stesso; può bensì trasmettersi il potere, ma non la volontà.

Infatti, se non è impossibile che una volontà privata si accordi su

qualche punto con la volontà generale, è impossibile almeno che

quest'accordo sia durevole e costante; perché la volontà singola

tende di sua natura alle preferenze, e la volontà generale

all'uguaglianza. E' più impossibile ancora che ci sia un garante di

tale accordo, quando pure sarebbe necessario che sempre

esistesse...

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Per la stessa ragione che la sovranità è

inalienabile, essa è indivisibile; perché o la

volontà è generale o non è tale; essa o è quella

del corpo popolare o solo d'una parte. Nel primo

caso questa volontà dichiarata è un atto di

sovranità e fa legge; nel secondo non è che una

volontà particolare...

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

La sovranità non può essere rappresentata, per la ragione

stessa che non può essere alienata; essa consiste

essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non

si rappresenta; o è se stessa, ovvero è un'altra non c'è

via di mezzo. I deputati del popolo non sono dunque, né

possono essere i suoi rappresentanti; non sono che i suoi

commissari: non possono concludere nulla in modo

definitivo. Ogni legge che il popolo in persona non

abbia ratificata, è nulla; non è una legge.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Credo di poter fissare come principio incontestabile che

solo la volontà generale può dirigere le forze dello Stato

secondo il fine della sua istituzione che è il bene

comune…

Ora, poiché la volontà tende sempre al bene dell’essere

che vuole, e la volontà particolare ha sempre per oggetto

l’interesse privato, mentre la volontà generale si propone

l’interesse comune, ne consegue che solo quest’ultima è,

o deve essere, il vero motore del corpo sociale.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Governo =

un corpo intermediario istituito tra i sudditi e il

corpo sovrano per la loro reciproca

corrispondenza, incaricato dell’esecuzione delle

leggi e del mantenimento della libertà sia civile

che politica.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Se il sovrano vuol governare, o se il magistrato

vuol dare leggi, o se i sudditi rifiutano

l’obbedienza, alla regola succede il disordine

(désordre), l’azione della forza e quella della

volontà non si accordano più, e lo Stato

dissolvendosi va così a finire nel dispotismo o

nell’anarchia .

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

L’ordine migliore e il più naturale si ha quando i più

saggi governano la moltitudine, purché si abbia la

certezza che la governeranno per il suo vantaggio e non

per il loro.

(…) Non è bene che chi fa le leggi le esegua, né che il

corpo del popolo distolga la sua attenzione dalle vedute

generali per volgerla agli oggetti particolari.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Se ci fosse un popolo di dei si governerebbe

democraticamente.

Un governo tanto perfetto non conviene agli

uomini.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Credo di poter fissare come principio incontestabile che

solo la volontà generale può dirigere le forze dello Stato

secondo il fine della sua istituzione che è il bene

comune…

Ora, poiché la volontà tende sempre al bene dell’essere

che vuole, e la volontà particolare ha sempre per oggetto

l’interesse privato, mentre la volontà generale si propone

l’interesse comune, ne consegue che solo quest’ultima è,

o deve essere, il vero motore del corpo sociale.

J.-J. Rousseau, Discorso

sull’economia politica

Non basta dire ai cittadini: «Siate buoni»; bisogna

insegnar loro ad esserlo; e l’esempio stesso, che è sotto

questo rispetto la prima lezione, non è il solo mezzo che

va impiegato: l’amore della patria è il più efficace; infatti

(…) ogni uomo è virtuoso quando la sua volontà

particolare è conforme in tutto alla volontà generale; e

noi vogliamo di buon grado ciò che vogliono quelli che

amiamo...

J.-J. Rousseau, Discorso

sull’economia politica

Volete che gli uomini siano

virtuosi? Cominciamo, dunque, col

fare in modo che amino la patria

J.-J. Rousseau, Emilio

Ogni patriota è rigido cogli stranieri: essi non sono che

uomini e non sono niente agli occhi suoi. Questo

inconveniente è inevitabile, ma è debole. L’essenziale è

di essere buoni verso quelli coi quali vivamo. Lo

Spartano all’esterno era ambizioso, avaro, iniquo, ma

nelle sue mura regnavano i disinteresse, l’equità, la

concordia…

J.-J. Rousseau, Progetto di

costituzione per la Corsica

Ogni popolo ha o deve avere un

carattere nazionale; se gli manca,

occorre cominciare col dargliene uno…

Diderot, Voce Enciclopedia

Vi sono teste ristrette, anime malnate, indifferenti alle sorti del genere

umano e talmente immerse nella loro piccola cerchia, che non sanno

veder nulla al di là dell’interesse di questa. Costoro vogliono esser

chiamati buoni cittadini, ed io sono d’accordo; purché mi consentano di

chiamarli uomini malvagi. A sentire loro, si direbbe che un’enciclopedia

ben fatta o una storia generale delle arti dovrebbe essere null’altro che un

gran manoscritto gelosamente custodito nella biblioteca del re,

inaccessibile ad occhi che non siano i suoi; libro di Stato, non di popolo.

A che scopo divulgare le conoscenze della nazione (…)? Non è forse a

ciò ch’essa deve una parte della sua superiorità sulle nazioni rivali e

circonvicine? (…) Non si rendono conto che occupano un punto solo

della terra, e vi dureranno un solo momento: e che a tale punto e

momento sacrificano la felicità dei secoli futuri e dell’intera specie…

Fenelon, Dialogues des Morts

Ogni uomo deve infinitamente di più al genere

umano, che è la grande patria, che alla patria

particolare nella quale è nato; è dunque

infinitamente più pernicioso violare la giustizia da

popolo a popolo, che da famiglia a famiglia

all’interno dello Stato. (…) Tutte le guerre sono

guerre civili; perché è sempre l’uomo che sparge

il suo sangue…

Enciclopedia, Voce Patria

Il retore poco logico, il geografo che si occupa solo della

posizione dei luoghi, e il lessicografo volgare prendono

la patria per il luogo di nascita, quale che sia; ma il

Filosofo sa che la parola viene dal latino pater, che

rappresenta un padre e dei figli e, per conseguenza,

esprime il significato che noi leghiamo a quelle di

famiglia, di società, di Stato libero, di cui siamo membri,

e le cui leggi assicurano la nostra libertà e la nostra

felicità. Non vi è patria sotto il giogo del dispotismo…

Voltaire, Dizionario filosofico, voce Patria

Una patria è un composto di più famiglie; e, come ordinariamente si

sostiene la propria famiglia per amore di sé, quando non ci sia un

interesse contrario, così si sostiene, per lo stesso amor proprio, la

nostra città o il nostro villaggio, che chiamiamo la nostra patria. (…)

Chi arde dall’ambizione di diventare edile, tribuno, pretore, console,

dittatore, protesta di amare la propria patria, ma ama solo se stesso.

Ognuno vuol essere sicuro di poter dormire tranquillo a casa sua

senza che un altro si arroghi il potere di mandarlo a dormire altrove;

ognuno vuol esser sicuro dei suoi beni e della sua vita. E, poiché

tutti nutrono gli stessi desideri, ne viene che l’interesse particolare

diventa l’interesse generale: quando facciamo voti per la repubblica,

li facciamo in realtà per noi stessi.

Lezione n. 25

II SEMESTRE

A.A. 2015-2016

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del

cittadino (1789)

Art. 1:

Gli uomini nascono e restano liberi ed

eguali nei diritti. Le distinzioni sociali non

possono essere fondate che sull’utilità

comune.

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del

cittadino (1789)

Art. 2:

Il fine di ogni associazione politica è la

conservazione dei diritti naturali ed

imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti

sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la

resistenza all’oppressione.

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del

cittadino (1789)

Art. 3:

Il principio di ogni sovranità risiede

essenzialmente nella nazione. Nessun corpo,

nessun individuo può esercitare un’autorità

che non emani espressamente da essa.

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del

cittadino (1789)

Art. 4:

La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non

nuoce ad altri; così l’esercizio dei diritti naturali

di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che

assicurano agli altri membri della società il

godimento di quegli stessi diritti. Questi limiti

possono essere determinati soltanto dalla legge.

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del

cittadino (1789)

Art. 5:

La legge ha il diritto di vietare solo le azioni

nocive alla società. Tutto ciò che non è

vietato dalla legge non può essere impedito,

e nessuno può essere costretto a fare ciò che

essa non ordina.

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del

cittadino (1789)

Art. 6:

La legge è l’espressione della volontà

generale. Tutti i cittadini hanno il diritto

di concorrere personalmente o

attraverso i loro rappresentanti alla sua

formazione.

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del

cittadino (1789)

Art. 16:

Qualsiasi società nella quale la garanzia dei

diritti non sia assicurata, e la separazione dei

poteri non sia determinata, non possiede una

costituzione.

E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo

stato

Nella prima epoca «vi è un numero più o meno

considerevole di individui isolati che vogliono unirsi tra

loro. Per questo solo fatto, essi già formano una nazione:

ne hanno già tutti i diritti; non resta che esercitarli.

Questa prima epoca è caratterizzata dal gioco delle

volontà individuali. L’associazione è opera loro. Esse

sono all’origine di ogni potere».

E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo

statoLa seconda epoca è caratterizzata dall’azione della volontà

comune. Gli associati vogliono dare consistenza alla loro unione;

vogliono adempierne lo scopo. Per questo si riuniscono, e si

accordano fra loro sui bisogni pubblici e sui mezzi per

provvedervi. Il potere qui appartiene alla comunità. Le volontà

individuali ne sono sempre la fonte, e ne costituiscono gli elementi

essenziali; ma considerate separatamente non avrebbero alcun

potere. Il potere risiede esclusivamente nell’insieme. La comunità

ha bisogno di una volontà comune; senza una unità di volontà essa

non arriverà mai a costituire un tutto che vuole ed agisce. E’ anche

certo che questo tutto non ha nessun diritto che non appartenga alla

volontà comune.

E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo

stato

La terza epoca si distingue dalla seconda in quanto non è più

la reale volontà comune ad agire, ma una volontà comune

rappresentativa. Sono due (…) i caratteri indelebili che le

sono propri: 1° Nel corpo rappresentativo tale volontà non è

piena ed illimitata; essa rappresenta solo una parte della

grande volontà comune nazionale. 2° I delegati non la

esercitano affatto come se si trattasse di un diritto proprio, si

tratta di un diritto che appartiene ad altri; la volontà comune è

presente in loro solo a titolo di procura.

E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo

stato

La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è

l’origine di tutto. La sua volontà è sempre

conforme alla legge, essa è la legge stessa. Prima

di essa e al di sopra di essa non c’è che il diritto

naturale.

E.-J. Sieyès, Discorso sul veto

regioLa Francia non è, e non può essere una democrazia; non deve

assolutamente divenire uno Stato federale, composto da una

moltitudine di repubbliche, unite da un qualunque legame

politico. La Francia è e deve essere un tutt’uno, sottomesso in

ogni sua parte ad una legislazione e ad una amministrazione

comuni. Poiché è evidente che cinque o sei milioni di

cittadini attivi, ripartiti in più di venticinquemila leghe

quadrate non possono assolutamente riunirsi, è certo che essi

possono aspirare solo ad un sistema legislativo per

rappresentanza.

E.-J. Sieyès, Discorso sul veto

regio…Dunque i cittadini che nominano dei rappresentanti

rinunciano e devono rinunciare a fare essi stessi

direttamente la legge: non hanno quindi nessuna volontà

personale da imporre. Ogni influenza, ogni potere

appartengono loro esclusivamente nella persona dei

mandatari. Se imponessero delle volontà questo Stato

non sarebbe rappresentativo; sarebbe uno Stato

democratico

E.-J. Sieyès

Un deputato è deputato della Nazione tutta, tutti i cittadini sono i

suoi committenti. (…) Dunque non esiste, non può esistere per un

deputato altro mandato imperativo o voto positivo, che quello

della Nazione; egli non è tenuto a tener conto dei consigli dei suoi

diretti committenti, se non nella misura in cui questi consigli

saranno conformi al voto nazionale. Questo voto dove può essere,

dove può esprimersi se non nell’ambito della stessa Assemblea

nazionale? (…) In questo caso non si tratta di compilare uno

scrutinio democratico, ma di proporre, ascoltare, accordarsi,

modificare il proprio personale parere, fino a formare una volontà

comune…

E.-J. Sieyès

Il popolo può parlare, può agire

solo attraverso i suoi

rappresentanti

E.-J. Sieyès, Osservazioni sul rapporto del

Comitato di costituzione…Le classi infime, gli uomini più poveri, sono ben più lontani, per

intelligenza e sensibilità, dagli interessi dell’associazione, di quanto non

potessero esserlo i cittadini meno stimati degli antichi Stati liberi. Esiste

dunque fra noi una classe di uomini, cittadini di diritto, che non lo sono

di fatto. Spetta senza dubbio alla Costituzione e alle buone leggi di

ridurre il più possibile il numero degli appartenenti a questa classe. Ma è

comunque vero che vi sono uomini per altro fisicamente validi, che,

estranei a qualunque idea sociale, non sono in grado di assumere un

ruolo attivo nell’ambito della cosa pubblica. Non ci si deve permettere

di discriminarli in quanto persone, ma chi oserà trovare ingiusto che

vengano in qualche modo esclusi, non, lo ripeto, dalla protezione della

legge e dall’assistenza pubblica, ma dall’esercizio dei diritti politici?

E.-J. Sieyès, Preliminari alla costituzione

Tutti gli abitanti di un paese debbono godervi dei diritti di cittadino

passivo: tutti hanno diritto alla protezione della propria persona, della

proprietà, libertà, ecc., mentre non tutti hanno diritto di esercitare un

ruolo attivo sulla formazione dei pubblici poteri, non tutti sono

cittadini attivi. Le donne, per lo meno nella condizione attuale, i

bambini, gli stranieri, coloro che non contribuiscono minimamente a

sostenere il sistema delle pubbliche istituzioni, non devono avere

un’influenza attiva sulla cosa pubblica. Tutti possono godere dei

vantaggi della società, ma solo coloro che fanno parte del sistema

delle pubbliche istituzioni rappresentano i veri azionari della grande

impresa sociale, solo loro sono i veri cittadini attivi, i veri membri

dell’associazione

E.-J. Sieyès

Farsi/lasciarsi rappresentare è l’unica fonte della

prosperità civile… Moltiplicare gli strumenti/poteri per

soddisfare i nostri bisogni; godere di più, lavorare di

meno, questo è il naturale accrescimento della libertà

nello stato sociale. Ora, questo progresso della libertà

segue naturalmente l’istituzione del lavoro

rappresentativo

E.-J. Sieyès

Tutto è rappresentanza in uno stato sociale. Essa

è presente ovunque, nell’ordinamento privato

come nell’ordinamento pubblico; essa è la madre

dell’industria, della produzione e del commercio,

come pure di ogni progresso liberale e politico.

(…) Essa si confonde con l’essenza stessa della

vita sociale.

Lezione n. 26

II SEMESTRE

A.A. 2015-2016

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

Martin Wight, International Theory. The Three Traditions

1) La tradizione realista: Hobbes

2) La tradizione razionalista: Grozio

3) La tradizione rivoluzionaria: Kant

Alle origini del modello «cosmopolitico»

I progetti di pace perpetua:

1) Il Grand Dessein di Enrico IV (1598);

2) William Penn, An Essay Towards the Present

and Future Peace of Europe (1693);

3) Abbè de Saint-Pierre, Projet pour rendre la

paix perpétuelle en Europe (1713);

4) Immanuel Kant, Zum ewigen Frieden (1795)

Saint-Pierre, Projet pour rendre la paix perpétuelle

en Europe (1713)

1) I sovrani che aderiscono si garantiscono

reciprocamente una sicurezza totale contro i

grandi mali delle guerre esterne e delle guerre

civili;

2) Ogni alleato contribuirà alle spese comuni

della grande alleana in proporzione alle

entrate attuali e delle spese del suo Stato;

Saint-Pierre, Projet pour rendre la paix perpétuelle

en Europe (1713)

3) Gli alleati rinunciano alla voce delle armi e

convengono di prendere la strada della conciliazione

attraverso la mediazione di un’assemblea generale

perpetua, la Dieta generale d’Europa;

4) Se la potenza condannata non ottempererà,

l’alleana si armerà e agirà contro di essa in modo

offensivo per contrastarla;

5) Queste disposizioni non possono essere modificate

se non con il consenso unanime di tutti;

I. Kant, Per la pace perpetua:

Articoli preliminari:

1. Nessun trattato di pace deve considerasi tale,

se è stato fatto con la tacita riserva di pretesti

per una guerra futura;

I. Kant, Per la pace perpetua:

Articoli preliminari:

2. Nessuno Stato indipendente (non importa se

piccolo o grande) può venire acquistato da un

altro per successione ereditaria, per via di

scambio, compera o donazione;

I. Kant, Per la pace perpetua:

Articoli preliminari:

3. Gli eserciti permanenti (miles perpetuus)

devono col tempo scomparire interamente;

I. Kant, Per la pace perpetua:

Articoli preliminari:

4. Non si devono contrarre debiti pubblici in

vista di controversie fra Stati da svolgere

all’estero;

I. Kant, Per la pace perpetua:

Articoli preliminari:

5. Nessuno Stato deve intromettersi con la

forza nella costituzione e nel governo di un

altro Stato;

I. Kant, Per la pace perpetua:

Articoli preliminari:

6. Nessuno Stato in guerra con un altro deve

permettersi atti di ostilità che renderebbero

impossibile la reciproca fiducia nella pace futura:

come, ad esempio, l’assoldare sicari ed avvelenatori,

la rottura della capitolazione, l’istigazione al

tradimento nello Stato al quale si fa la guerra, ecc…

I. Kant, Per la pace perpetua:

La guerra è (…) solo il triste mezzo necessario allo stato

di natura (dove non esiste tribunale che possa giudicare

secondo il diritto) per affermare con la forza il proprio

diritto, non potendo in tale stato esser considerata

nemico ingiusto nessuna delle due parti (perché ciò

presuppone già una sentenza giudiziaria) e decidendo

solo l’esito del combattimento (come nel cosiddetto

giudizio di Dio) da quale parte stia il diritto:

I. Kant, Per la pace perpetua:

ma tra due Stati non è concepibile una guerra punitiva

(bellum punitivum) poiché tra essi non sussiste un rapporto di

superiore ad inferiore. Ne segue che una guerra di sterminio

in cui la distruzione può colpire contemporaneamente

entrambe le parti ed ogni diritto venire soppresso, darebbe

luogo alla pace perpetua unicamente sul grande cimitero del

genere umano. Una simile guerra, e con essa l’uso dei mezzi

che vi conducono, dev’essere pertanto assolutamente vietata.

I. Kant, Per la pace perpetua:

Primo articolo definitivo:

“La costituzione civile di ogni Stato

dev’essere repubblicana”

I. Kant, Per la pace perpetua:

La costituzione fondata in primo luogo secondo i

principi della libertà dei membri di una società

(in quanto uomini), della dipendenza di tutti da

un’unica legislazione (in quanto sudditi), in terzo

luogo dell’uguaglianza di tutti (in quanto

cittadini) è quella repubblicana

I. Kant, Per la pace perpetua:

Secondo articolo definitivo:

“Il diritto internazionale deve

fondarsi su un federalismo di liberi

Stati”

I. Kant, Per la pace perpetua:

I modelli di unione internazionale:

Lo «Stato di popoli (Völkerstaat)» o

«Civitas gentium»

I. Kant, Per la pace perpetua:

«Per gli Stati, nel rapporto tra loro, è impossibile

pensare di uscire dalla condizione di della mancanza di

legge, che non contiene altro che la guerra, se non

rinunciando, esattamente come fanno i singoli individui,

alla loro libertà selvaggia (senza legge), sottomettendosi

a pubbliche leggi costrittive e formando uno Stato dei

popoli (civitas gentium), che dovrà sempre crescere, per

arrivare a comprendere finalmente tutti i popoli della

terra»

I. Kant, Per la pace perpetua:

I modelli di unione internazionale:

La «federazione di pace» o

«federazione di popoli (Völkerbund)»

I. Kant, Per la pace perpetua:

«Questa federazione non si propone la costruzione di

una potenza politica, ma semplicemente la

conservazione e la garanzia della libertà di uno Stato

preso a sé e contemporaneamente degli altri Stati

federati, senza che questi si sottomettano (come gli

individui nello stato di natura) a leggi pubbliche e alla

costrizione da esse esercitate »

I. Kant, Per la pace perpetua:

Per gli Stati che stanno tra loro in rapporto reciproco

non può esservi altra maniera razionale per uscire dallo

stato naturale senza leggi, che è soltanto stato di guerra,

se non rinunciare, come i singoli individui, alla loro

libertà selvaggia (senza leggi), consentire a leggi

pubbliche coattive e formare così uno Stato di popoli

(civitas gentium) che si estenderebbe sempre più ed

abbraccerebbe infine tutti i popoli della terra.

I. Kant, Per la pace perpetua:

Ma poiché essi, secondo la loro idea del diritto

internazionale, non vogliono ciò affatto e rigettano quindi in

ipotesi ciò che in tesi è giusto, così, in luogo dell’idea

positiva di una repubblica universale (e perché non tutto

debba andare perduto) rimane soltanto il surrogato negativo

di una lega permanente e sempre più estesa, come unico

strumento possibile che ponga al riparo dalla guerra e arresti

il torrente delle tendenze contrarie al diritto, sempre però con

il continuo pericolo che queste erompano nuovamente

I. Kant, Per la pace perpetua:

Terzo articolo definitivo:

“Il diritto cosmopolitico dev’essere

limitato alle condizioni dell’universale

ospitalità”

I. Kant, Per la pace perpetua:

…Ospitalità significa che il diritto che uno straniero ha

di non essere trattato come un nemico a causa del suo

arrivo sulla terra di un altro. Questi può mandarlo via, s

ciò non mette a repentaglio la sua vita, ma fino a quando

sta al suo posto non si deve agire verso di lui in modo

ostile. Non è un diritto di accoglienza a cui lo straniero

possa appellarsi (…) ma un diritto di visita, che spetta a

tutti gli uomini…