STORIA DEI CERONI STORIA DEI CERONI...Certamente qui da noi è originato dal toponimo di Ceruno, in...

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"LA STORIA DEI CERONI" di Don Domenico Mita (1632) nel testo originale e nella versione dal latino di Don GIANCARLO MENETTI solo una breve nota al lettore di questo libro pubblicato in formato pdf. Il libro rispetta scrupolosamente l’originale. Abbiamo qui riportato il libro in formato elettronico come lo aveva preparato Don Giancarlo Menetti. Si differenzia dal formato cartaceo perché non contiene le foto e le immagini che Don Menetti ha poi fornito alla tipografia per integrarlo. Per chi lo desiderasse, la Consorteria dei Ceroni ha ancora alcune copie del libro. Pier Giacomo Rinaldi Ceroni Li 02 aprile 2016

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"LA STORIA DEI CERONI"

di Don Domenico Mita (1632)

nel testo originale e nella versione dal latino

di Don GIANCARLO MENETTI

solo una breve nota al lettore di questo libro pubblicato in formato pdf.

Il libro rispetta scrupolosamente l’originale. Abbiamo qui riportato il libro in formato elettronico

come lo aveva preparato Don Giancarlo Menetti. Si differenzia dal formato cartaceo perché non

contiene le foto e le immagini che Don Menetti ha poi fornito alla tipografia per integrarlo.

Per chi lo desiderasse, la Consorteria dei Ceroni ha ancora alcune copie del libro.

Pier Giacomo Rinaldi Ceroni

Li 02 aprile 2016

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"LA STORIA DEI CERONI"

di Don Domenico Mita (1632)

nel testo originale e nella versione dal latino

di Don GIANCARLO MENETTI

PREMESSA

Se il mio amico, ing. Pier Giacomo Rinaldi Ceroni, un Ceroni puro sangue, avesse insistito meno,

forse i pochi cultori di storia locale non avrebbero fra mano questo modesto lavoro. Quello che qui

si offre sarebbe rimasto sepolto negli archivi della nostra pubblicazione mensile casolana: "Lo Spec-

chio" dove, per anni, ho riportato le mie chiacchierate di cose antiche per i curiosi locali.

Non si tratta che della traduzione dal latino della breve storia del Mita, pietra fondamentale per la

storiografia di Casola Valsenio.

Lo scopo? Portare a conoscenza di tutti questo libretto presentandolo in lingua corrente; chiosarlo

di quando in quando e, nelle mie possibilità, correggerlo da qualche imprecisione.

Pur rivisto e sfrondato, questo lavoro risente della forma discorsiva, quasi giornalistica, con cui è

nato. Erano infatti articoli vari, che negli anni andati "Lo Specchio" andava pubblicando; senza un

preciso ordine cronologico. Dandogli adesso una vesta più impegnativa, sono consapevole che il

lavoro avrebbe richiesto anche un'impostazione più seriosa. Mi è nato però il dubbio che la cerchia

dei lettori, già ristretta per il relativo interesse dell'argomento, sarebbe allora ancor più sguarnita

e ho preferito lasciar lo stile confidenziale originario.

Sarà l'inizio di una nuova storia di Casola Valsenio?

Per scrivere di storia, anche se in tono minore, si richiede profondo rispetto della verità, accurate

ricerche di documenti e competenza onesta nell'interpretarli.

A parte la buona volontà, non sono tanto presuntuoso da attribuirmi queste doti, almeno nel grado

che un lavoro del genere può richiedere, consapevole di non avere neanche il tempo e la possibilità

di accedere a tutti gli archivi e le biblioteche necessarie nè la cattedratica abilitazione.

Il mio è un lavoro artigianale. Ho rovistato con diligenza quanto mi si offriva in loco; tutti gli archivi

parrocchiali, i documenti notarili, relazioni di visite pastorali che ci riguardano, varie pubblicazioni

e soprattutto quelle che riguardano Casola e dintorni. Veramente è un lavoro che continua tutt'ora.

Sarà sufficiente?

Per la modesta cerchia dei miei lettori mi illudo di si. Vari secoli fa, circa nel 1623-25, don Domenico

Mita, ebbe le stesse perplessità e nella chiusa della sua opera agile lasciò scritto: "Se c'è qualcun

altro che ama saper più minuziosamente ulteriori notizie (sui Ceronesi) se le cerchi con maggior

cura e trovi lui ciò che per incapacità io ho tralasciato, perfezionando questo lavoro".

Grazie alla sua iniziativa abbiamo in realtà la prima storia di Casola. È attendibile? Sostanzialmente

si, anche se, secondo il gusto del tempo, si lascia spazio a qualche leggenda e non si vaglia il tutto

con rigorosa critica storica.

Certo ci sono anche delle imprecisioni, ma Settefonti era allora una parrocchia ancor più lontana

dalle biblioteche. Resta il fatto che oggi non possiamo scrivere di Casola senza rifarci al Mita. È la

fonte a cui hanno attinto tutti i successivi storici: i fratelli Linguerri [Giovanni Antonio e Pietro

Salvatore Linguerri Ceroni], il Metelli, il Baldisserri, il Cortini, il Gaddoni, ecc.

Per molti casolani il nome di don Domenico Mita è ormai familiare, per altri invece può risuonare

come Carneade Sarà forse un altro mattone, speriamo a piombo, nell'edificio storico che potrebbe

nascere. Nel mio intento vorrebbe essere anche una piccola "lapide" commemorativa. Nel paese

che don Mita con la sua operetta sui Ceroni ha, in qualche modo, consegnato alla storia, questa

manca.

Non sembra che i Casolani dei tempi passati abbiano sentito il bisogno di ricordare con una via, una

piazza, un monumento qualsiasi, questo concittadino illustre. La presente iniziativa vorrebbe ov-

viare ad una deplorevole ingratitudine..

NOTE DI PRESENTAZIONE DELL'AUTORE E DELL'OPERA

Don Domenico Mita, figlio di Aurelio del fu Roberto, è battezzato a Fontanelice il 20.1.1590. Suo

padre è infatti provvisoriamente convivente coi cugini Gabriello e Fabrizio, notai di Fontana figli di

Raffaele che troviamo massaro a Fontana nel 1586. Don Mita è tuttavia considerato di Tossignano

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dove la famiglia si trasferisce ben presto dopo la morte del padre (1591). Ha un fratello, Cesare,

più anziano di lui, che esercita legge e che nel 1592 è cavaliere governativo a Tossignano. Don

Domenico intraprenderà invece la carriera ecclesiastica.

Nel 1622 è nominato parroco di Settefonti di Casola Valsenio e vi si reca con la mamma Bartolomea

Bertozzi che lassù morirà (23.10.1623).

Nella parrocchia di Settefonti c'è Ceruno. Don Domenico ha certamente conosciuto diverse persone,

fra i Ceronesi, che ricordavano bene la famosa disfatta di 60 anni prima. I racconti, le testimonianze

raccolte, un certo orgoglio di sentirsi discendente di quella consorteria, deve aver generato in lui la

decisione di scrivere le gesta di questa gente.

Nasce così: "Ceroniae Gentis in Aemilia vetusta aliquot monimenta" (alcune memorie della famiglia

Ceroni dell'Emilia ecc.). La storia cioè che ci accingiamo a pubblicare.

Per lunghi secoli questa storia rimase gelosamente custodita dalla famiglia Mita di Tossignano. Poi

qualche copia, ancora manoscritta, cominciò a circolare. Verso la fine del 700 a Casola era cono-

sciuta e certamente una copia era in possesso di Don Giovanni Antonio Linguerri, anche lui buon

latinista e cultore di storia patria. Forse fu la stessa copia che pervenne nelle mani di Mons. Giovanni

Soglia Ceroni, il futuro cardinale, che la fece pubblicare a Roma per le stampe di Filippo e Nicola

de’ Romanis nel 1826. È la prima edizione che si conosca. Ora è molto rara. Ne abbiamo potuto

consultare un esemplare nell'archivio del Prof. Rinaldi Ceroni Augusto. Naturalmente le famiglie

Ceronesi si fecero un dovere di possederla. Una copia appartenente alla famiglia Giacometti Ceroni

di Faenza, fu edita nel 1884, in occasione di nozze, nella tipografia Marabini di Faenza. Porta a

fronte una versione in italiano opera del Prof. D. Filippo Lanzoni. Su quella del 1826 abbiamo fatto

la nostra nuova versione.

Don Domenico Mita rimase a Settefonti fino al 1627. Passò quindi (5.2.1627) alla chiesa parroc-

chiale di Sant'Agnese di Goccianello presso Imola. Lì pubblicò per i tipi di Carlo Zenero di Bologna

un'opera impegnativa sui sermoni di San Pier Crisologo. Morì nel 1648 all'età di 58 anni.

Giulio Pappotti nelle sue "Memorie Storiche Imolesi" T.VI e il Benacci nelle "Memorie Storiche di

Tossignano" lo annoverano fra gli uomini illustri.

Il Card. Giovanni Soglia Ceroni nella prefazione (1831) a una piccola agiografia, in latino, sulla vita

del servo di Dio il casolano Giovan Battista Ridolfi, monaco Fuliense, dice testualmente:"Ho da poco

dato alle stampe alcuni ricordi sulla famiglia Ceroni, opera di Domenico Mita ... libretto piccolo di

mole, tuttavia dai giornali letterari di Milano assai lodato e giudicato degno di essere inserito "in

monumentis rerum italicarum" di Lodovico Muratori." Non è poco davvero.

Casola Valsenio 20 gennaio 1998, nel 408 anniversario della nascita del Mita.

Sac. GIANCARLO MENETTI

Arciprete di Casola Valsenio

N.B. Il testo originale è privo di numerazione. Noi invece ce ne siamo serviti per un più facile

riferimento alle note. È dunque una suddivisione nostra, ma nella seconda parte abbiamo adottato

la stessa numerazione della "Chronica", un manoscritto che non è altro che una copia, abbastanza

sunteggiata, dell'opera del Mita, di autore ignoto, e che si trova presso la Biblioteca Comunale di

Imola.

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INTRODUZIONE

NOTA

Il Mita parte dalla convinzione che qui si tratti di una sola famiglia originaria di tutti i Ceroni e che sia

una delle più antiche dell'Emilia-Romagna.

In realtà di famiglie Ceroni ce ne sono un pò in tutta Italia e in tutte le epoche.

Nel 769 (cfr. Dal Masi, Storia Generale dei Concilii, Tomo XII, pag. 716) al concilio Laterano a Roma

era presente il vescovo di Imola "Georgio Ceronio" cioè Giorgio Ceroni. Un segretario vescovile di

Cesena, secondo il Regesta Pontificum Romanorum, nel 1182 si chiama Zaccaria Ceroni. Il Curzio e il

Villani riferiscono che a Roma, nel 1350, fu eletto Rettore della città Giovanni Ceroni, uomo anziano e

di gran credito, ecc. Ma per stare in casa nostra, ricorderemo un certo Keroldo Ceroni monaco nel

monastero di S. Gallo, verso l'anno 755. Secondo la "Grande Encyclopedie" Tomo X a pag. 64, egli

era nato a Tossignano (Tauxinianum natum) in quel di Forlì (qui evidentemente l'Enciclopedia con-

fonde) e a lui vengono attribuite composizioni in prosa e in versi e traduzioni in tedesco. Dunque, il

cognome Ceroni non è esclusivo della valle del Senio. Certamente qui da noi è originato dal toponimo

di Ceruno, in antico Zirone, Cirone o Cerrone (verosimilmente da "cerro", grossa pianta simile alla

quercia, ma di scorza più grossa) come tanti altri toponimi di casolari nostrani come "Cerro", "Quer-

ceto", "Faggeto", "Castagno" e via dicendo.

- 1 –

Ravenna caput, et metropolis Aemiliæ inter alias

urbes Faventiam habet, ac Forocornelium. Harum

diæcesanus ager ad alpes apenninas producitur

ex quibus Ammonius et Senius amnes progressi

influunt in padum alter secus moenia Faventiæ,

alter inter utrasque urbes pari distantia prolap-

sus.

Ravenna, capoluogo e metropoli dell'Emilia, ha

nella sua giurisdizione Faenza e Imola. Il terri-

torio di questa (ultima) diocesi si estende fino

agli Appennini dai quali nascono i fiumi Amone

e Senio che scorrendo, il primo presso le mura

di Faenza e il secondo a distanza uguale fra le

due città, si gettano nel Po.

Ho sentito raccontare molto spesso come l'ori-

gine dei Ceroni, che fin dai tempi remoti hanno

abitato l'Emilia, e cosi' pure le loro imprese me-

morande, siano varie e non ben chiarite ed ho

pensato che avrei fatto cosa gradita ai miei con-

cittadini se avessi ricercato negli archivi della

nostra antichissima Regione le vecchie carte ri-

maste qua e la' nascoste presso privati e una

volta trovate ed esaminate colla massima dili-

genza, con- frontandole fra loro, avessi con

cura raccolto quanto vi era di certo per salvarlo,

mediante il mio scritto, dalla dimen- ticanza de-

gli uomini. Comunque abbia raggiunto, con

l'aiuto di Dio, (questo) scopo, tentero' col mio

stile un po' rustico di trasmettere il tutto ai po-

steri.

Ceroniensium primordia, qui a veteribus tem-

poribus Aemiliam incoluere, simulque gesta eo-

rum memoratu digna, cum varia perplexaque

sæpenumero a relatoribus accepissem, rem

gratam nostratibus facturum me censui, si ve-

terrimæ regionis nostræ tabularia senescente-

sque memorias, quæ sparsim apud nonnullos

latitabant, conquirerem, et compertas quam di-

ligentissime pervolutarem eisque simul accu-

rate collatis, quidquid certi ea in re esset stu-

diose exciperem, ut ab oblivione hominum mea

scriptione vindicarentur. Utcumque id fuerim

divino favore assecutus ad consequentium an-

norum memoriam rudi hoc calamo totum expo-nere conabor.

***********

D. O. M.

DEO OPTIMO MAXIMO

***********

"Tabula Geographica"

***********

D. O. M

A DIO SOMMO BENE

***********

"Carta Geografica"

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Cis Senium ad aquilonem infra alpinos montes vi-

cus Casulæ visitur, a cujus meridie in ditione Am-

moniæ vallis, et sub Corneliana Diæcesi supra

longiusculum obliquumque montem situs est Ce-

ronius Pagus. Habet is Parochialem Ecclesiam ti-

tulo divæ Margaritæ ab Stiphonte dicatam, cui

proxime sex aliæ circumstant Paroeciæ, Putei

nempe, Scintriæ, Pagnani, Casulæ, Valsenii, et

Mongardini.

Memoriæ proditum est ex domesticis Ceroniorum

tabulis apud ipsos assidua traditione perlatum,

Pagum illum priscis temporibus Cervinum mon-

tem appellatum.

Di là dal Senio, verso Aquilone, fra quegli al-

pestri monti si scorge la borgata di Casola a

sud della quale, in val d'Amone, sotto la dio-

cesi di Imola, alquanto distante e un pò fuori

mano, s'innalza sopra un monte il villaggio di

Ceruno. Questo ha come (sua) parrocchia la

chiesa detta di S. Margherita di Stifonti. Con-

finano con lei altre sei parrocchie, cioè:

Pozzo, S. Andrea in Sintria, Pagnano, Casola,

Valsenio e Mongardino. Dalle memorie della

famiglia Ceroni che ci sono giunte per ininter-

rotta tradizione, si rileva che quel villaggio nei

tempi remoti era chiamato Monte Cervino.

- 3 –

Siquidem ea tempestate, qua Carolus magnus

pulsis ex Italia Longobardis Regnum Pipino filio

tradidit, quidam vir nobilis strenuusque miles (an

exterus, vel provincialis esset vetustate oblitera-

tum) ut a maximis militiæ laboribus, quos stipen-

dia merendo a juventute ad postremam usque vi-

rilitatem vel in acie, vel in castris subierat, se se

subduceret, relicto munere quod gerebat, ut ad

ipsa rura una cum liberis habitanda se referret,

libere dimissus est.

Fin dal tempo in cui Carlo Magno, cacciati i

Longobardi dall'Italia, trasmise il Regno al fi-

glio Pipino, un nobile e valoroso soldato, (se

fosse forestiero o di questa provincia se n'è

perso il ricordo lungo i secoli), per togliersi

dalle grandi fatiche del servizio militare eser-

citato dalla giovinezza fino alla matura età;

sia in tempo di guerra che di pace, abban-

donò l'incarico che aveva e si congedò per po-

ter ritirarsi, insieme ai figli, in queste terre e

abitarle.

NOTE AI PUNTI 1, 2, 3

Col nome di Emilia il Mita intende la provincia di Romagna. Il Lamone e il Senio si gettano nel Reno e

non nel Po. Noi abbiamo inserito in questo primo fascicolo la riproduzione della carta geografica già

edita nel 1826. La carta politica di cui al -2- corrisponde alle divisioni ecclesiastiche in uso nel 1625.

È doveroso ricordare che solo nel 1818 tutto il territorio fra il Senio e la Sintria passò sotto la giurisdi-

zione del governo di Casola; quindi giustamente il Mita dice che Ceruno è in Val d'Amone, cioè sotto

il governo di Brisighella, ma come diocesi è soggetto a Imola. La leggenda del cervo, da cui Monte

Cervino, e del guerriero di Carlo Magno va presa naturalmente come tale; nessun credito storico può

esserle attribuito. Il Mita confonde Carlo Magno con Carlo Martello suo nonno. Pipino è il padre di Carlo

Magno, non il figlio. Secondo questa leggenda l'origine di CERUNO andrebbe collocata verso il 750

D.C. Certamente è una leggenda ricreata in base allo stemma dei Ceroni che porta un cervo in campo

azzurro. Il fatto di portare un cervo sullo stemma era indicativo di gente che abitava in luoghi alpestri,

boscosi, come appunto era Casola a quei tempi. Si noti che la stessa leggenda di un cervo catturato

nei boschi della Pila in Mugello, si ritrova anche nella storia degli Ubaldini, di Giovan Battista Ubaldini,

Firenze 1588: "Storia di sua famiglia"la famiglia nobile che ha dominato per secoli sui nostri Appennini

e che ha come arma appunto due ramose corna di cervo. Forse non è neppure da scartare l'ipotesi

che in antico la zona si denominasse proprio Monte Cervino o Cervone da cui per allitterazione, sia poi

nato CERVNO. Riteniamo tuttavia più verosimile il Ceruno da Cerrone, grosso cerro.

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- 4 –

Veteranus iste miles haud diu post ferarum vena-

tione cum accolis inita, Cervum pergrandem e

saltibus eductum, venaticisque canibus longo

cursu nequicquam consectatum, eo loci, ubi nunc

Pagus est, anhelantem apprehendit, dum Cervus

ipse, ceu supplex ad viri pedes constitit, cervi-

cemque submisit. Hunc nobilis Miles grato animo,

ac summa diligentia altum multos annos supervi-

ventem retinuit; et primo quoque tempore Pagum

cum turri satis firma construxit, sibique et poste-

ris assiduam obfirmans ibidem coloniam auspi-

cato locum a Cervo Cervinum Montem universis

appellandum edixit

Poco tempo dopo, questo vecchio soldato, che

aveva iniziato assieme ai vicini a cacciare le

bestie selvatiche, (proprio) nel luogo dove oggi

c'è il villaggio, catturò un meraviglioso cervo

che i cani avevano stanato dai boschi e inse-

guito invano. Il cervo, ormai senza lena, si

fermò, come in atto di supplica ai piedi di quell'

uomo chinando la testa. Il nobile soldato, che

era di buon cuore, lo allevò con gran cura e lo

tenne in vita per molti anni; poi subito costruì

qui un villaggio con una torre ben salda eleg-

gendolo a stabile dimora per sè e per i suoi

prendendo (il buon) auspicio dal cervo, e volle

che quel luogo fosse da tutti chiamato Monte

Cervino.

- 5 –

Ad hæc novum erigens gentilitium insigne, Cer-

vum sursum erectum in area cerulei coloris, qui

Lilium anteriori dextero pede elatum teneret, fin-

xit; veluti hoc stemmate perbelle auguraretur, in-

colas cervini montis loci, aerisque beneficio flo-

rida, diutinaque vita potiundos: Serpentes,

nempe hostes, ceu immites feras persecuturos:

Homines, hoc est, dominos, et amicos animo, ac

viribus veneraturos, atque amplexuros: quod qui-

dem a priscis Cervini montis hominibus militiæ,

domique peractum fuisse adhuc tot sæculorum

traditione est Posteritas memor.

Labentibus annis variata temporum morumque

vicissitu- dine factum est ut corrupta voce Vicus

sit populi vocabulo Ceronius appellatus, gentilitio-

que stemmate retento gentes hinc oriundæ a Ce-

ronio, seu Ciruno sint dictæ.

In seguito, scegliendosi un nuovo stemma

gentilizio, vi dipinse un cervo in campo azzurro

che, ritto (sulle zampe posteriori), tiene un gi-

glio con la zampa anteriore destra. Era come

se da questo stemma, in modo assai grazioso,

volesse trarre auspicio che gli abitanti di Monte

Cervino avrebbero goduto, grazie alla bontà

del luogo e del clima, vita lunga e felice e

avrebbero perseguitato i serpenti, cioè i ne-

mici, alla maniera delle bestie selvatiche, come

invece avrebbero onorato e abbracciato con

tutto il cuore i Signori e gli amici. I posteri ben

ricordano, per tradizione secolare, tutto ciò che

fu fatto, tanto in guerra come in pace, dagli

antichi abitanti di Monte Cervino. Col volgere

degli anni, mutati i tempi e i costumi, avvenne

che il villaggio, per corruzione della parola, fu

comunemente chiamato CERONIO mentre lo

stemma rimase invariato, e la gente che di qui

ebbe origine fu detta da Ceronio o Ceruno.

NOTE AI PUNTI 4, 5

Quanto al numero 4 sarà bene ricordare che Ceruno fu effettivamente un villaggio fortificato.

Attualmente rimane leggibile solo la parte centrale con la torre e la chiesetta di S. Giacomo, ma tanto

a sinistra della torre e ancor più a levante della stessa si notavano ancora verso la metà dell'800 i

resti di numerose abitazioni civili, come ne fanno fede i disegni di Romolo Liverani.

Sull'origine di Ceruno non ci sono che congetture.

Di torri fortificate la nostra zona è piena; ogni poggiolo sembra possa annoverare la sua. Stando al

Cortini sarebbe una fortificazione voluta dall'Abbazia di Valsenio a difesa degli agricoltori.

Dalle innumerevoli bande organizzate per razziare che scendevano dai confini toscani non c'era altro

mezzo per difendersi che ritirarsi in queste fortificazioni. Ce n'era un'altra più antica al Castellaro di

Settefonti e un'altra alla Tana di Pagnano, per non parlare che di quelle limitrofe.

Ai tempi di Maghinardo Pagani, sul finire del 1200, Ceruno non esisteva ancora o aveva poca impor-

tanza; non se ne fa menzione. Si parla invece della torre o rocca di Settefonti all'assedio della quale

morì un fratello del Pagani. La nascita di Ceruno potrebbe quindi fissarsi con buona probabilità sul

finire del XIII sec. o nella prima metà del XIV sec. Balza subito evidente che non vi abitava un'unica

famiglia, ma diverse, e tutte prendevano dal luogo la specificazione "da Ceruno" o Ceroni.

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Hæ tametsi Principi jugiter subjectæ, nihilominus

uti pro Dominis rem, et vitam libere profundere

unanimes erant: sic fida spe in eos elatæ, insuper

et situ loci, ac hominum, prædiorumque numero,

ad hæc et successu prosperiore rerum duritiem

quamdam, morumque asperitatem imbutæ jus

sibi multifariam dicere, finitimis imperitare, pin-

guiora ex ipsis consequi connubia, injurias suo-

rum juxta et amicorum ulcisci, factionis omnino

capita nuncupari potuerunt.

Questa gente, benchè rimanesse sempre sog-

getta alla stessa autorità, tuttavia era così una-

nime nel sacrificare ai propri Signori gli averi e

la vita da ricavare da questa fedeltà una sicu-

rezza non minore di quella che offriva la posi-

zione del luogo e la quantità dei possedimenti

e degli abitanti. Nel favorevole corso degli

eventi accadde poi che, dotati di una certa ru-

dezza di carattere e di modi, poterono farsi ac-

cettare giudici in diverse parti ed acquisire au-

torità sui vicini ed ottenere con essi vantaggiosi

matrimoni, vendicar le proprie offese e quelle

degli amici, ed essere riconosciuti per gli indi-

scussi capi di fazione.

- 7 -

Ex his vario tempore Duces, Præfectique militum

exiere, qui sæpenumero plenissimam cohortem

ex suis instruxerint, atque in Principum aciem de-

duxerint. Quicquid tamen peculiari scriptione di-

gnum actum sit ab illis, silentio præterire cogi-

mur, dum hostilis flamma, quæ tabulas, tectaque

nostratium pluries cremavit, haudquaquam passa

est ad posterorum memoriam pervenire.

Da questa stirpe uscirono, in epoche diverse,

capitani e prefetti militari che spesso riuscirono

a mettere insieme con i propri parenti una nu-

trita compagnia che unirono all'esercito dei

Principi. Siamo però costretti a passare sotto

silenzio, pur essendo meritevole di particolare

menzione, quanto da loro è stato compiuto vi-

sto che il fuoco dei nemici, che più volte ha bru-

ciato gli scritti e le case dei Ceroni, non ha per-

messo che questo venga a conoscenza dei po-

steri.

- 8 -

Illud tamen ex reliquiis tabularum, et perenni no-

strorum traditione constat, priscæ Ceroniæ genti

additos esse viros ex Perusia civitate oriundos

circa annum a Virginis partu quintum, et vigesi-

mum supra millesimum ducentesimum, qui et ipsi

a Ceronio jugiter sunt appellati. Erant hi stirpis

Ficchiæ in patria civitate, ordinis senatorii nobiles,

præditi opibus, ingenio viribusque potentes, qui

civilibus in seditionibus cum veteres simultates

armata manu sæpius ulti essent, novas tamen

factiones sibi comparabant in dies. Itaque cum

semel aliqui ex Ficchiis, qui dimicando hostes ob-

truncaverant, vinculis obstricti essent, nec ulla

ratione, quin ad supplicium raperentur a Prætore

redimi posse viderentur, cæteri, qui liberi erant,

in apertam vim illico animum intendunt, et coacta

repente suorum, ac sociorum manu, in carcerum

custodes toto impetu irruunt, repugnantes interi-

munt, ac detentos portis vi reseratis educunt,

Sulla base di vecchi documenti e d'una tradi-

zione costante, si ha tuttavia la certezza che

verso l'anno dell'incarnazione 1225, si unirono

alla famiglia dei Ceroni uomini oriundi della

città di Perugia che furono parimenti detti "da

Ceruno". Erano della nobile famiglia dei Ficchi,

dell'ordine dei Senatori, nella loro città d'ori-

gine, forniti di ricchezze, eminenti per ingegno

e potenza. Poichè più volte avevano vendicato

con le armi gli antichi rancori approfittando

delle discordie cittadine, andavano giorno per

giorno raccogliendosi attorno nuove fazioni. Ac-

cadde così che una volta alcuni dei Ficchi che in

una zuffa avevano ucciso dei nemici, furono

messi in carcere e non si vedeva il modo di li-

berarli per impedire che dal Pretore fossero

condotti al supplizio. Gli altri rimasti liberi deci-

sero subito di scarcerarli a viva forza e messa

insieme una schiera di parenti ed amici assali-

rono i custodi del carcere uccidendo quanti loro

si opponevano e spalancate le porte portarono

via i detenuti.

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et urbe protinus egressi nedum inexorabilem ini-

micorum iram, verum maximam Principis indi-

gnationem subeunt. Quare extorres a patria

Guido, Hector, et Sylvester cum aliis sanguine

junctis diversas sedes in exilio quærentes, tan-

dem in Aemiliam, ac Vallem Ammonis descende-

runt, relata eo magna pecuniarum manu. Ibi a

Dominis Manfredis Faventinæ civitatis primoribus

sub fida tutela recepti, uti securiores fierent Am-

monios montes conscendere, pars in pervetusta

Arce Calamelli (quæ ditionis Dominorum de Fan-

tolinis erat), pars in arce ex adverso posita Montis

Albergi consistere jubentur.

Usciti prontamente dalla città, non solo ebbero

addosso l'implacabile ira dei nemici, ma anche

la più viva indignazione del Principe. Perciò

banditi dalla loro patria, Guido, Ettore e Silve-

stro con altri congiunti, dopo aver cercato in

esilio più volte un luogo dove fermarsi, scesero

infine in Emilia e (vennero) in Val d'Amone por-

tandosi dietro gran copia di denaro. Qui furono

accolti sotto la tutela fedele dei signori Manfredi

primati della città di Faenza. Fu loro ordinato,

per loro sicurezza, di salire i monti Amonii e di

stabilirsi parte nella antichissima rocca di Cala-

mello che era in potestà dei signori De Fanto-

lini, e parte in quella di Monte Albergo che le

sta di fronte.

- 10 -

Advenæ loca, gentesque ibi explorare; patriam

agnomenque proprium, ne hostibus, iratove Prin-

cipi locus, ubinam essent pateret, initio dissimu-

lare: munificentia animi fide ac solertia gratiam

magnatum amoremque nobilium, qui finitimas

urbes incolerent, in primis adquirere: indigenis

ore manuque præsto esse, et similia, queis cunc-

torum animos ad se se attraherent, præstare.

Quegli stranieri misero ogni cura per prendere

conoscenza dei luoghi e degli abitanti dapprima

dissimulando sia la loro provenienza che il loro

nome perchè i nemici ed il Principe sdegnato

non venissero a conoscenza del loro nuovo

asilo; soprattutto per guadagnarsi il favore dei

potenti e l'amore dei nobili che abitavano le

città vicine con la magnificenza, la fedeltà e l'in-

dustriosità. Erano pronti a soccorrere con la pa-

rola e l'opera i conterranei e in tal modo attira-

vano a sè gli animi di tutti.

- 11 –

Hæc ubi Ceronii vident, e re sua esse rati, si hosce

sibi socios ad omnem adeundam simul fortunam

adsciscerent, perhumaniter illos invitare, tecta

arvaque coemenda polliceri, nec grata connubia,

si appeterent, defutura spondere. Convenæ con-

tra loca gentesque sibi opportuna censentes con-

ditionem consulto recipere, affinitatem cum Cero-

niensibus contrahere, insigne eorum erigere,

agnomen patriamque ex ipsis assequi, atque

sempiternum foedus cum illis inire.

I Ceroni, considerando che tutto ciò poteva tor-

nare a loro profitto, pensarono bene di render-

seli soci dividendo ogni fortuna con loro e fa-

cendo cortesi inviti promisero di unirsi a loro

per comperare case e poderi, (dichiarando) che

volentieri avrebbero stretto con loro legami di

parentela qualora fosse stato richiesto. Quei fo-

restieri, ritenendo adatti per sè quei luoghi, de-

cisero fermamente di aderire alla proposta di

stringere coi Ceronesi legami matrimoniali

prendendo lo stemma di questi e accettando il

loro cognome e la loro patria e strinsero con

loro una alleanza perenne.

NOTE AI PUNTI 6, 7, 8, 9, 10, 11

I Ceroni, come abitanti della Val d'Amone (o di Lamone), erano sudditi dello Stato Pontificio. Una

sudditanza però che sentivano ben poco. Il Papa è lontano, ad Avignone; in Romagna comandano

i signorotti e qui in particolare la famiglia Manfredi di Faenza aveva già acquistato fin dal 1309 gran

parte dei possedimenti di Fantolino da Zerfugnano.

Francesco Manfredi fin dal 1313 si fa signore di Faenza ed è padrone un pò di tutta la valle del

Lamone. È ben vero che verso la metà del 1300 il Papa Innocenzo VI manda in Italia il card. Egidio

Albornoz per liberare lo Stato Pontificio dall'usurpazione delle varie Signorie e che perciò anche da

Faenza fu cacciato Giovanni Manfredi, il nipote di Francesco, ma nel 1356 egli riuscì a strappare al

cardinale il favore di rimanere padrone della valle e castelli della Val D'Amone. In effetti i Ceroni

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rimasero costantemente fedeli ai Manfredi, abbracciandone anche la fazione guelfa. Penso proprio

che la storia dei Ceroni coincida con la Signoria dei Manfredi. La fedeltà dei Ceroni spiega la fre-

quente custodia loro affidata di varie rocche di proprietà Manfredi e soprattutto l'intervento a Faenza

nel 1488 in seguito all'uccisione di Galeotto di Astorgio Manfredi quando, armati di tutto punto, i

Ceroni scesero ad occupare la piazza, invitati dal Consiglio Faentino che temeva una sollevazione

popolare a favore del Bentivoglio. In breve, i Ceroni si acquistarono nome come tipi rudi e di modi

spicciativi. Presto nella zona ebbero una certa preminenza. In pratica si potevano considerare come

una piccola compagnia di ventura a servizio dei Manfredi o di Firenze. Si parla di capitani. Ritorne-

remo sull'argomento dicendo di Tino da Ceruno. È tuttavia interessante notare che anche il Mita li

considera come una consorteria che in occasione del servizio militare si unisce: parenti, amici,

vicini, un pò tutte le famiglie della zona, al comando di qualcuno più esperto nell'arte militare. Non

andiamo errati se pensiamo che dovesse chiamarsi la COMPAGNIA DI CERUNO o semplicemente I

CERUNI. Il mistero della famiglia Ficchi. Chi sono? Ho esteso le mie ricerche fino a Perugia e con-

servo la risposta giuntami dalle due biblioteche più importanti della città. Niente. A Perugia non c'è

mai stata una famiglia Ficchi o Fichi o Fechi che la storia ricordi, come dovrebbe, visto che, al dir

del Mita, si tratta di una famiglia di riguardo. Non vorrei dar troppo credito alle affermazioni non

comprovate, ma nemmeno mi sento di rigettare la notizia come immaginosa. Ho potuto constatare

che in altra parte il Mita ha ragione e riferisce giusto, come quando ci dirà di un'altra famiglia che

si unisce ai nostri: i Ceroni di Serina. Non ci resta che una ragionata congettura. Intanto faccio le

mie riserve sulla data. Non accetterei il 1225, quando i Manfredi non avevano nessun potere nè in

Faenza nè sulle rocche di Val d'Amone. Nel 1224 a Faenza è podestà Uberto di Uzine di Milano;

rimane perciò poco credibile che questi Ficchi da Perugia siano venuti a mettersi sotto la protezione

dei Manfredi di Faenza i quali poi li avrebbero dirottati per Calamello ecc. Penserei che il Mita abbia

letto male la data e che si tratti invece del 1325 ca. Che fossero dei profughi politici com'è descritto?

Può darsi; come può darsi che si tratti più semplicemente di famiglia dedita alle armi, magari con

qualche debito con la giustizia, che i Manfredi hanno impiegato quassù in mezzo ai monti a custodire

le rocche di Calamello e di Monte Albergo (per i profani Monte Albergo è Monte della Vecchia). Resta

pacifico tuttavia che questa famiglia non è di qui. Qui deve aver fatto fortuna accumulando danaro

visto che si dà al commercio e all'agricoltura acquistando poderi in quel di Valsenio. Anche il fatto

che una volta abbandonato il cognome fittizio di Perugini riprenda quello di Ficchi senza rivendicare

il proprio stemma, mi fa crescere dubbi che si tratti d'una nobile ed antica famiglia. Avremmo

almeno avuto un accenno di come era quello stemma, esattamente com'è successo coi Ceroni di

Serina. Sia i Ficchi che i Ceroni trovarono il modo di unirsi con matrimoni vantaggiosi e da quel

momento si chiamarono anche loro Ceroni a tutti gli effetti. La cosa più singolare sono i nomi precisi

tramandatici: Guido, Ettore e Silvestro. Dovevano essere ben impressi nella memoria degli antichi

Ceroni. Notando poi che là dove parla dei Mita, il nostro storico fa una specie di piccola genealogia,

confrontando i nomi in essa contenuti con quelli risultanti dai rogiti notarili (unici documenti rima-

stici nei secoli XIV e XV) ne notiamo uno in particolare: quello di Mita o meglio Ciruno Ficchi ed è

in un documento del 1492 (Lancia delle Lance, notaio di Tossignano). Calcolando che a quel tempo

Mita avesse circa 5060 anni, la sua nascita va posta verso il 1430/40. Secondo la suddetta genea-

logia, fra lui e il primo Ficchi venuto da Perugia ci sono solo quattro generazioni e ciò ci porta ancora

a datare la venuta dei primi Ficchi appunto verso il 1320 ca.

- 12 -

Ex ea tempestate Ceronius Pagus una a Perusi-

nis habitari cæptus est, qui paullo post uberrima

prædia in Villa Senii, rusque frugiferum Montis

Oliveti ære patrio sibi coementes, non ulterius

Perusini, sed Ficchii Ceronienses communi no-

mine sunt appellati. Tandem ut foedus inter

utrosque pactum diuturnius foret, vir divitiis af-

fluens nomine Cirunus filiam, quæ illi unica erat,

matrimonio junxit Antonio Ficchio, quem ex toto

asse hæredem ea lege dixit, ut quicumque ex

illo conjugio in posterum orirentur, patrio stem-

mate retento a Ceronio jugiter haberetur et es-

set.

Da questo momento il villaggio di Ceruno comin-

cia ad essere abitato anche dai Perugini, i quali

di lì a poco, acquistato con le patrimoniali ric-

chezze dei fondi molto fertili nella valle del Senio

e il podere ubertoso di Monte Oliveto, non si

fanno chiamare più Perugini, ma Ficchi Ceroni. In

seguito, perchè l'alleanza fra le due famiglie

fosse ancora più duratura, un uomo ragguarde-

vole per ricchezza di nome Ciruno, diede in ma-

trimonio la sua unica figlia ad Antonio Ficchi che

dichiarò erede di tutto il suo patrimonio, a patto

però che i figli nati da quel matrimonio, pur rite-

nendo la geneologia paterna, si considerassero e

realmente fossero di discendenza Ceroni.

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- 13 -

Per id ferme tempus Ceronii a Florentinis Veneti-

sque in Centuriones, Ducesque turmarum sæpius

asciti gloriose contra hostes dimicarunt, et opima

spolia ut plurimum reportantes rem familiarem

magnifice augebant, præsentemque gloriam con-

sequebantur in spem majoris amplificationis

erecti. Non procul ab ea tempestate circa annum

Domini 1309 Florentiæ civilibus seditionibus

Guelforum, et Ghibellinorum cæpit Respublica

atrociter agitari; sic tandem pulsis Urbe Guelfis,

frequens pars eorum ad Ceronios veteres amicos

se recepit, a quibus humanissime suscepti, dum

ibi morari censent, quoad propitius sibi ventus

adspiret, ecce non multo post Ugutio Fagiolanus

strenuus miles, Ghibellinæque factionis copiarum

imperator (hic Lucæ, Pisarumque regulus fuit)

Guelfos expugnaturus conscripta castra movet, et

ad Ceronium evertendum properat.

Circa in quel periodo i Ceroni, che spesso erano

assoldati dai Fiorentini e dai Veneziani come ca-

pitani e condottieri di truppe, combatterono

contro i nemici in modo valoroso, ricavandone

spesso ottimo bottino con cui aumentarono no-

tevolmente il proprio patrimonio. Spinti dalla

speranza di accrescerlo ancora, si guadagna-

vano in questo modo la gloria che li contraddi-

stingue. Non molti anni prima di questa data,

circa l'anno 1309, la Repubblica di Firenze co-

minciò ad essere fieramente sconvolta dai civili

dissidi fra guelfi e ghibellini. Furono cacciati i

guelfi dalla città e gran parte di loro si raccolse

presso i Ceroni, loro vecchi amici, presso i quali,

accolti con ogni cortesia, pensavano di fermarsi

fin quando il vento non fosse spirato loro favo-

revole. Ma ecco che poco dopo Uguccione della

Faggiola, prode guerriero e capitano delle sol-

datesche di parte ghibellina (fu questi un reuc-

cio di Lucca e di Pisa) raccoglie un esercito per

abbatter i guelfi e si appresta a distruggere Ce-

runo.

- 14 –

Ceronii ut nobilissimos hospites de se diu bene-

meritos juxta ac semet accuratius quam possent

tutarentur, ex subitariis amiciis, quos repente in

auxilium evocaverant agmine coacto una cum

Florentinis magno impetu hinc illinc e pago

erumpentes in confertos hostes, qui medium

montem subierant, irruunt, et commissa cum

eis atroci pugna plerosque vulnerant, alios ob-

truncant, ceteros turpi fuga per saltus prope in-

vios propulsant. Ugutio pertinaciter dimicans a

suis desertus, et ab hostibus prope circumven-

tus (verba sunt Pauli Jovii, qui hæc in elogiis il-

lustrium virorum de Ugutione scripta reliquit)

cum se se fortiter reciperet, vulnerato altero

crure, et collisa vehementer galea in oblongo

pedestri scuto quatuor tragulas, et tresdecim

veruta ex minoribus balistis infixa ad suos retu-

lit. Ex nostris vero quamplures vulnerati, pauci

admodum interierunt. Florentini supra quam rati

fuerant præsenti periculo erepti, animo reque

ipsa in Ceronios sic grati fuere, ut per occasio-

nes bellorum conducendis militibus, stipendii-

sque recipiendis præcipuos juxta vires ipsis con-

tulerint gradus. Nostri vero acriter strenueque

pro Dominis pugnantes summis tum laudibus

tum muneribus exornati redibant ad suos.

Per difendere nel miglior modo possibile, oltre

che se stessi, anche i nobili ospiti da gran

tempo benemeriti, i Ceroni, che avevano messo

insieme un (piccolo) esercito formato dagli

amici pronta mente accorsi all'appello e dai pro-

fughi Fiorentini, uscendo con gran impeto dal

villaggio si precipitano sulle schiere dei nemici

armati che erano già a mezzo il colle e ingag-

giano con loro un fiero scontro; molti ne feri-

rono, altri ne uccisero e il resto volsero in ver-

gognosa fuga attraverso boscaglie senza sen-

tieri. Uguccione, che combatteva con accani-

mento, abbandonato dai suoi e ormai circon-

dato dai nemici (sono parole di Paolo Giovio che

negli "Elogi degli uomini illustri" lasciò scritto

queste cose su Uguccione) mentre si ritirava da

prode, ferito ad una gamba, con l'elmetto

mezzo fracas-sato, riuscì a riunirsi ai suoi, ma

portando infissi nel suo scudo pedestre ben

quattro giavellotti e tredici frecce scoccate da

piccole balestre. Fra i nostri i feriti furono molti,

ma pochi i morti.I Fiorentini che fuor d'ogni loro

speranza scamparono dall'imminente pericolo

rimasero poi tanto grati ai Ceroni sia col cuore

che coi fatti da commettere loro, in occasioni di

guerre e secondo le loro forze, gli incarichi prin-

cipali, cioè sia di guidar truppe che di reclutarle.

I nostri, dopo aver combattuto con valore e im-

pegno per i (loro) Signori, ritornavano alle fa-

miglie carichi di lodi e doni.

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Non longo post temporis intervallo, cum eosdem

Florentinos acri bello premerent Henricus

Cæsar, et Mediolanenses, multi ex nostris pro

Florentina Republica militabant, dumque exerci-

tum recenserent Præfecti, forte evenit, ut Cen-

turio quidam audiretur, qui cum aliquot ex suis

Ceronii nomen usurparet. Nostri colloquio dati

rogitant, quinam hi essent, ubi nomen, et pa-

triam acceperint, at Centurionem nomine Cirro-

num sic respondisse tradunt.

"Nos ex Serina alta agri Bergomensis in Insubria

transpadana a magnanimis viris Cerrono, Carre-

rioque fratribus (qui Serinam ipsam condidere)

ex Alemania oriundi e civitate Oenipontis pri-

scam trahimus originem. Apud Theutonicos tra-

ditione firmatum est priores Oenipontis accolas

fuisse Judæos per Titum Vespasianum Impera-

torem bello varie fusos. Ut cumque ea res sit, id

certum, nostros progenitores Serina ditione jam

dudum potitos fuisse, adhuc usque superviven-

tes in Dominatus possessione permanere; sicut

aliquot ex illis, qui a Bentiono viro conspicuo e

Bentionis suscepere cognomen, Cremæ oppido

olim imperitasse constat; sic enim loquitur gran-

dibus notis in D. Jacobi Serinæ altæ positum

marmor."

Non molto tempo dopo gli stessi abitanti di Fi-

renze vennero molestati dallo imperatore En-

rico e dai Milanesi con aspra guerra. Molti dei

nostri Ceronesi combattevano per la Repubblica

Fiorentina; ora, mentre i prefetti passavano in

rassegna l'esercito chiamando (le squadre) per

nome, si notò che un centurione, con alcuni al-

tri si arrogava il cognome di Ceroni. Il fatto

spinse i nostri, appena ottenuto di poter par-

lare, a richiedere chi fossero, da chi avessero

avuto quel cognome e da qual paese venissero.

Cosi dicono che quel centurione rispose: "Noi

discendiamo da una antica famiglia di Serina

alta nel Bergamasco, nella Lombardia d'oltre

Pò, da due fratelli, fondatori della stessa Serina,

che erano originari dell' Alemagna e precisa-

mente della città di Eniponte. Secondo una tra-

dizione diffusa fra i germanici, si crede che i

primi abitanti di Eniponte siano stati i Giudei di-

spersi in varie parti del mondo dalla persecu-

zione dello imperatore Tito Vespasiano. Co-

munque siano le cose, resta il fatto che i nostri

primi antenati erano già diventati da lungo

tempo padroni di Serina e ancor oggi i discen-

denti ne tengono il possesso; così come è certo

che alcuni di loro che da un illustre uomo chia-

mato Bentione presero il cognome di De Ben-

tioni ressero un tempo la città di Crema. Così

infatti si legge a chiare lettere in una lapide di

marmo posta nella Chiesa di S. Giacomo di Se-

rina alta.

- 16 -

"Nos patrio more Cerrum arborem in area rubri

coloris, Cervumque secus radices jacentem pro

stemmate ferimus. Ceterum superioribus annis

Turriani mediolaneses Guelfæ factionis primores

magna militum manu coacta ad nos, nostraque

expugnanda accesserunt. At nostri impigre re-

pugnantes alios occiderunt, plerosque vulnera-

verunt, cæteros turpi fuga fuderunt. Quapropter

adversarii, quorum iracundiam magis magisque

in dies effervescit adauctis numero et potentia

militibus nostros iniquius persequi minantur.

Cogimur itaque frequenter sævitiam præpoten-

tium declinando patrios lares deserere, et sub

externis militare Principibus, donec finis malo-

rum Numine placato sequatur".

Noi, secondo la tradizione dei nostri padri, por-

tiamo come stemma un albero di cerro in

campo rosso e un cervo accovacciato presso le

sue radici. Nei tempi andati i Torriani di Milano,

capi di parte guelfa, misero insieme un grosso

esercito per venire a impadronirsi delle nostre

proprietà, ma i nostri li respinsero pronta-

mente; alcuni ne uccisero, molti altri ne feri-

rono e il resto volsero in vergognosa fuga; per

questo i nemici, il cui furore andava ogni dì cre-

scendo, aumentarono di numero e di forza le

truppe e minacciarono di perseguitare ancor più

iniquamente la nostra parte (ghibellina). Siamo

così costretti per evitare le frequenti cattiverie

dei prepotenti ad abbandonare la patria e le no-

stre case e a combattere sotto principi stranieri

fino a quando, a Dio piacendo, non arriverà la

fine dei nostri guai".

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Nostri viros et eorum conditionem miserati eos

liberaliter allicere, apud se se confecto bello di-

versari, in socios fortunarum suarum, et perpe-

tuos amicos receptum iri, dummodo Ghibellina

parte dimissa, Guelfam vero partem secum se-

quantur, gentilitium insigne ex se se suscipiant,

et a Ceronio Flaminiæ communi jure cognomi-

neque appellentur futurum ut secundiorem for-

tunam eo coelitus assequantur. Itaque condi-

tione consulto accepta, pactoque inter utrosque

societatis, et amicitiæ foedere, ad Ceronium

cum nostris Insubres accedunt; ibi dignam sup-

pellectilem amplaque tecta recipiunt, atque juri

societatis initæ, hospitiique suscepti proxime

per expetita connubia jus affinitatis addunt.

I nostri Ceronesi provando pietà di quegli uo-

mini e della loro situazione decisero concorda-

mente che una volta finita la guerra, li avreb-

bero presi con sè e accolti come amici renden-

dosi per sempre soci delle loro sfortune a patto

che lasciassero il partito ghibellino schieran-

dosi, come loro in quello guelfo, e accettassero

il loro stemma chiamandosi a tutto diritto Ce-

roni di Romagna. Avrebbero così in futuro pro-

vato una fortuna, grazie a Dio, più benigna. E

così i Lombardi, dopo essersi consultati fra loro,

accettarono la condizione e stabilirono un reci-

proco patto di società ed amicizia e vennero in-

sieme ai nostri, a Ceruno. Qui ricevettero buone

case e degne suppellettili e in seguito oltre al

legame stretto della nuova società e della ospi-

talità ricevuta, si aggiunse anche quello della

parentela grazie a felici matrimoni.

NOTE PUNTI 12, 13, 14, 15, 16, 17

Quanto al numero 12 si può notare che effettivamente in quel di Valsenio (comune di Monte Oliveto)

appaiono sui rogiti notarili del tempo i primi nomi dei Ficchi, fra cui un Perusino, proprietario di

terreni del luogo. Quanto poi all'Antonio Ficchi di cui si parla, dovrebbe trattarsi del figlio di Silvestro

Ficchi e padre di Tommaso dal quale nasce Ciruno chiamato poi Mita per soprannome. Secondo la

piccola genealogia che il Mita riporta, Antonio dovrebbe collocarsi verso il 1450 ca.. Sarebbe, a

quanto si può sospettare, il primo Ficchi a imparentarsi coi Ceroni. Qui sembrerebbe si faccia allu-

sione anche allo stemma paterno dei Ficchi, ma non c'è alcuna descrizione di esso.

GUIDO ETTORE SILVESTRO

PERUSINO FICCHI

|

---------------------------------------

| | |

NUCCIO (*) FECCHIO (*) SILVESTRO

| | |

TINO DA CERUNO (Tutti i FICCHI di (1) ANTONIO

| Casola Valsenio) |

GIOVANNI ANTONIO TOMASO

| |

NUCCIO (2) CERUNO

| detto

PERUSINO (MIDA o MITA)

|

TOMMASO

|

(3) PIETRO

|

CERUNO o MITA

1) Sarebbe il primo Ficchi a sposare la figlia unica di Ciruno Ceroni.

2) Che la figura di Mita non sia leggendaria basterà a provarlo la particola di un rogito notarile di

Lancia Delle Lance (Arch. notarile di Imola Vol. 1. “Al giorno 27.12.1492 (poco più di due mesi

dopo la scoperta dell'America) si legge: "marchus quondam Pauli olim marchi Fabri de Baffado

comitatus Imolae vendidit Ciruno alias Mita filio Tomasii olim Antonii de Ciruno petiam terrae

...". (cfr. anche rog. not. Dionigio Cattani 7.7.1535)

3) Sposa Claradia figlia naturale di Alidosi Ricciardo o di Alidosi Berto fratello di Ricciardo.

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(*) Fratelli di Perusino ?

Quanto al N. 13 va notato che effettivamente in quegli anni (chi non ricorda l'illustre profugo Dante

Alighieri ?) le fazioni guelfa e ghibellina lacerarono Firenze con le loro discordie. Molte famiglie

ripararono nell'Appennino dalle nostre parti. Qui, nella valle del Senio, buona parte di appartenenti

alla fazione dei Neri trovò accoglienza proprio grazie ai Ceronesi che, alleati naturali dei Sassatelli,

proteggevano quelli di parte guelfa.Il piccolo episodio di gloria narrato al N. 14 è verosimile. Uguc-

cione della Faggiola (che non ha nulla a che fare col monte omonimo sopra Palazzuolo) cercò in

effetti di annullare ogni tentativo di riunione dei guelfi che volevano rientrare in patria. Era in quel

periodo il campione indiscusso dei ghibellini. È certo che subì uno smacco e, anche se non vogliamo

credere che la vittoria fosse opera esclusivamente dei nostri, resta il fatto che i Ceroni erano già

dei temibili guerrieri. In quel tempo questa era la loro più ambita attività. Trapela tuttavia dal

racconto un senso d'ammirazione per questo nemico che si battè con coraggio indomito sui nostri

monti. Il fatto tanto simile a quello del 1523 "la battaglia delle botti", può aver indotto il Mita ad

ambientare a Ceruno questa sconfitta di Uguccione; in realtà non conosciamo con precisione il

teatro di battaglia in cui si svolse. Se per i Ficchi le nostre ricerche non hanno approdato ad alcun

risultato, per questa notizia relativa ai Ceroni di Serina, abbiamo ampia documentazione. Ci siamo

recati a Serina, in Val Serina, sopra il lago d'Iseo, in provincia di Bergamo. È oggi un grosso paese,

ma ci hanno indicato poco più in alto una chiesa che fa centro di un'altra piccola borgata chiamata

Lepreno. Quella, ci hanno detto, è il nucleo più vecchio di Serina. La chiesa è dedicata a San Gia-

como. Non abbiamo trovato traccia oggi di quella lapide di cui parla Mita, ma ci è stato mostrato

una vecchia pubblicazione del 1668 (posteriore quindi al Mita) del P. Donato Calvi:"Campidoglio de

guerrieri et altri illustri personaggi di Bergamo"in Milano, MDCLXVIII nella stampa di Francesco

Vigone. A pag. 38 e 40 ci sono notizie riguardanti Serina che combaciano perfettamente con quanto

qui riferito dal Mita. Si tratta di due fratelli: Ceronio e Carrerio che danno inizio alla famiglia. In

realtà abbiamo trovato Serina piena di gente col cognome Ceroni e Carrara. (cfr. il defunto Vescovo

di Imola: Benigno Carrara, nativo appunto di Serina). Dunque il Mita riferisce giusto. Notare poi

che quando a Ceruno si vorrà costruire una chiesa, questa verrà dedicata a S. Giacomo in ricordo

di quella di Lepreno o Serina Alta che è fra l'altro in una valle bellissima. Nel libro del P. Calvi si

parla a lungo di questi Torriani che vengono per assalire Serina. Prima della battaglia, che arrise ai

Serinesi, si vide una lepre fuggire in direzione dei milanesi. Ciò fu di buon auspicio e il luogo fu da

quel giorno chiamato Lepreno. Anche per questi Ceroni della val Seriana ci è tramandato un nome:

Matteo; sarà il capostipite dei Lancieri, Brunori, Baldassarri, Lolli, ecc. si sa per certo che verso il

1390 era ancora in età giovanile, quindi la venuta a Ceruno di questo ceppo omonimo va collocata

verosimilmente pochi anni avanti, forse verso il 1375, 1380. L'amicizia contratta sotto le armi può

aver benissimo originato questa unione che si traduceva in pratica al potenziamento della loro

compagnia con braccia altrettanto vigorose e soldati altrettanto esperti.Il fatto che con facilità si

muti partito li mostra gente d'armi, usa a combattere sotto la bandiera di chi paga meglio.

ENNEPONTO o ENIPONTE è il nome antico di INNSBRUCK città austriaca capitale del Tirolo Tedesco.

- 18 -

Ex Ficchiis seniores aliqui hæc videntes gravius

initio opinione tulere, veriti ne ob avitam Insu-

brium factionem Ghibellinam ex composito cum

adversariis ad eamdem a nostris per tempora

deficere malint; aut hericii instar ipsos indigenas

asperitate morum alio demigrate coarctent. At

quoniam dextera jureque jurando ictum supra

foedus perpetuum fore dixere, ideo ab universis

in suos recepti sunt. Igitur patria, cognomine

atque factione dispares in unm genus sponte

coeunt Ceronii, et in dies multitudine ac viribus

præstantiores effecti, adversa- riis infestiores,

Principibus gratiores evadunt.

Qualcuno fra i più vecchi dei Ficchi vedendo

come andavano le cose, in un primo momento

mal le tollerarono, perchè temevano forse che i

nostri per amore dell'antico partito dei Lom-

bardi si unissero ai Ghibellini e si dessero a

quella parte, oppure che (i nuovi arrivati) a

guisa di ricci spinosi con la loro rozzezza di co-

stumi costringessero gli indigeni ad emigrare;

poi quando fu chiaro che i patti di alleanza sta-

biliti e sanciti col giuramento sarebbero stati

perpetui, (i nuovi) furono da tutti accettati

come di casa. Dunque i Ceroni pur di patrie di-

verse, di casate diverse, di fazioni contrarie, si

uniscono spontaneamente così da forma-re una

sola famiglia E poichè di giorno in giorno diven-

tavano più ragguardevoli sia per numero che

per forza, si resero ancora più molesti agli av-

versari, ma più graditi ai Principi.

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Fuere illo sæculo aliqui e Ceronio oriundi, qui le-

gibus bonarumque disciplinarum studiis operam

navarent. Hi ad Romanam Curiam, uti pro eru-

ditione tempori locoque servirent, accedentes,

tandem eo deduxere coloniam. Ex his anno a

Virginis partu quinquagesimo primo supra mille-

simum trecentesimum Joannes Ceronius hono-

rifico Rectoris Romæ titulo populi suffragiis re-

nunciatus est, etiam Villano, Sansuinoque testi-

bus. Nostra autem tempestate Ceronii Romani

urbem Sessam incolunt, et claros præstante-

sque viros in scientiis alunt qui per occasiones

juventam erudiunt, clientibus patrocinantur, po-

pulis jura dicunt.

In quell'epoca vi furono anche alcuni oriundi

di Ceruno che si dedicarono (allo studio) delle

leggi e si diedero con zelo all' apprendimento

delle buone discipline. Questi giunsero alla

Curia Romana per servirvi, secondo le loro ca-

pacità, a tempo e luogo e (a Roma) stabilirono

infine una loro colonia. Fra questi, come ne fa

fede il Villani e il Sansovino, ci fu un Giovanni

Ceroni che nel 1351, per votazione popolare,

fu elevato all'onorifico incarico di Governatore

della città. Ai giorni nostri alcuni (di questi)

Ceroni Romani abitano nella cittadina di Sezze

e contano fra loro uomini illustri e di valore

nelle scienze, i quali a seconda dell'occasione

si danno o all'educazione dei giovani o all'at-

tività forense o al governo di popolazioni.

- 20 -

Verum ut ad nostrates calamus revertatur, quo

tempore Rex Parthenopæ Robertus erat Flami-

niæ pro Pontifice Rector (id prope annum 1311

fuisse fertur) Visconti Mediolanensis arma ad-

versus Forocornelianos pertimescens, dum sibi

auxiliaria subsidia a Florentina Republica negan-

tur, ut irritos redderet hostium impulsus, Urbem

tueretur, ac populum incolumem servaret, rem

omnem frumentariam stramentaque in Urbem

mox invehi jubet, et cataphractarios milites tre-

centum quinquaginta ex strenuioribus scribit,

pedites vero trecentum ex ferocioribus, qui

montes incolerent, quos ferme universos ex Ce-

ronis gente acciverat, in præsidium vocat, qui-

buscum, et oppidanis æque sibi prospectum

censet, uti ad votum apprime respondit even-

tus.

Ma tornando a parlare dei nostri, debbo no-

tare che al tempo in cui il re Roberto di Napoli

fu Rettore della (regione) Flaminia (della Emi-

lia o Romagna) a nome del papa, e ciò è tra-

dizione fosse circa il 1311, il Visconti di Milano

ebbe gran timore che fosse assediata la città

di Imola, per cui, vistosi negato ogni aiuto

dalla Repubblica Fiorentina, per sventare l'as-

salto dei nemici, difendere la città e salvare la

popolazione, comandò che tutto il grano e il

foraggio fossero portati in città, poi arruolò

350 soldati ben armati e fra i più valorosi e

chiamò in aiuto 300 fanti fra i montanari più

ardimentosi; questi furono scelti quasi esclu-

sivamente fra i Ceroni.

Li unì ai cittadini (nella difesa della città) e

giudicò di aver provveduto a sufficienza

all'uopo, come i fatti confermarono pienamen-

te.

- 21 -

Per ea tempora Francisus Manfredus Faventiæ

Princeps Riccardo ac Thino filiis emancipatis

vendiderat jus ditionemque. mercati Zattaliæ,

Arcem montis majoris, Collis Putei, et Pagi Ce-

roniensis; sed eo vita functo anno Domini mille-

simo trecentesimo supra quadragesimum, Ric-

ciardus paterni principatus hæres efficitur;

Thinus vero Ceronia ditione, et appositorum ut

supra diximus locorum ad liberaliter vivendum

contentus, apud nostrates tranquillam et omnis

perturbationis expertem vitam transigebat. No-

stri viro nobili, ac humanitate referto adeo ob-

sequentes fuere, ut ipse natam ex se filiam (an

legitima, vel naturalis tantum esset, memoriam

abstulit vetustas) uxorem dederit Sylvestro Fic-

chio viro satis civili ac diviti, qui ex ea filium præ

cæteris suscepit, cui Thinum dixere nomen.

In quegli anni avvenne che Francesco Manfredi,

Signore di Faenza, emancipati i figli Riccardo e

Tino, vendette loro i diritti e la signoria di mer-

cato Zattaglia, della Rocca di Monte Mauro, del

Colle di Pozzo e del villaggio di Ceruno. Nel

1340 Francesco (Manfredi) morì ed erede del

principato paterno fu il figlio Riccardo. Tino in-

vece si accontentò della signoria di Ceruno e dei

luoghi suddetti dove, presso i nostri, poteva

trascorrere una libera vita tranquilla e senza

preoccupazioni. I Ceroni furono tanto osse-

quienti e pieni di cortesie col personaggio che

egli diede in moglie una sua figliola, se fosse

legittima o naturale il tempo ha cancellato la

possibilità di ricordarlo; a Silvestro Ficchi, uomo

dabbene e abbastanza ricco, il quale ebbe da

lei, fra gli altri, un figlio chiamato Tino.

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- 22 -

Eo magnæ indolis et eruditionis adolescente vita

functo, tandem revixit ejus nomen in nepote,

qui usque eo strenuus miles, viribusque ferox

natura fuit, ut de quocumque in eadem re glo-

riabundo proverbio sit dictum:

Esset ne forte Thinus a Ceruno? Is bellica animi

virtute pollens vel in castris, vel in præliis fere

semper quoad vixit, fuit; et periculorum om-

nium contemptor tantum Alphonso Arragonio

Calabriæ duci gratus extitit, ut stipendiis eju-

sdem ab anno Domini 1472 ad annum 1490 duc-

tor peditum variis in præliis acri animo, et exer-

cita virtute per occasionem pugnaverit:

Ma questo nipote, di nobile indole e spiccata in-

telligenza, morì ancora adolescente. Un altro

nipote portò però il nome del nonno Tino e fu

un soldato tanto vigoroso e forte che si originò

un detto per chiunque raggiungeva una certa

importanza: "è per caso Tino di Ceruno?". Que-

sto Tino fu per quasi tutta la sua vita un valido

soldato sia nella difesa e sia in campo aperto,

valoroso e sprezzante del pericolo. Fu apprez-

zato da Alfonso Lo Spagnolo, Duca di Calabria,

per il quale Tino militò, come capitano di fante-

ria, dal 1472 al 1490 combattendo in varie bat-

taglia con coraggio indomito e valore infatica-

bile

- 23 -

Ac tandem in acie Alexandri VI. Pont. Max. an-

nos quinque quos supervixit militans, dum belli-

cis laboribus; ætateque se confectum sentit,

tradita cohorte, quam ex suis Ceroniis magna ex

parte contraxerat, Dionisio Naldo Brisichellensi

ex sorore nepoti (Ceronii etenim, et Naldii per

reciproca connubia affines erant) et qui juvenis

licet vir ductor turmarum ejusdem erat, paucos

post dies multa laude nitens migravit e vita.

Trascorse poi gli ultimi cinque anni della sua

vita nell'esercito del Papa Alessandro VI. Sen-

tendosi sfinito e per le fatiche delle armi e per

l'età, affidò la sua compagnia (militare) che si

era formata con gran parte dei suoi Ceroni, a

Dionisio Naldi di Brisighella che gli era nipote

per parte di sorella. I Ceroni e i Naldi, grazie a

vari matrimoni, erano fra loro parenti. Dionisio,

benchè giovane, era anche suo luogotenente al

comando della suddetta compagnia. Morì di lì a

pochi giorni pieno di gloria.

NOTE AI PUNTI 18, 19, 20, 21, 22, 23

Più che naturale questo atteggiamento diffidente dei Ficchi che ci conferma ancora una volta, come

per la stirpe dei nostri Ceroni, si tratti di una coagulazione di diversi ceppi. Quanto agli uomini

illustri di cui si parla al n.19 e ne abbiamo già accennato fin dalle prime pagine di questa storia,

credo sia necessario fare una certa riserva. Certamente il Villani riporta la notizia di Giovanni Ceroni

e certamente dei Ceroni si trovavano alla Curia Romana e in particolare a Sezze, ma che questi

fossero poi oriundi di Ceruno è tutto da dimostrare. Come si è detto, di famiglie Ceroni ce n'erano

diverse e in più parti d'Italia. Probabilmente il Mita leggendo sul Villani quei nomi illustri si è fatto

un pò prendere la mano. Noi rimaniamo per il momento nel prudente dubbio, in attesa di qualche

migliore documentazione. Nel 1310 Papa Clemente V, allarmato dalle insurrezioni dei Ghibellini,

costituì per 8 anni re Roberto di Napoli Rettore di Romagna. Re Roberto vi inviò il suo vicario Nicolò

Caracciolo. Proteggeva i Ghibellini il Visconti di Milano. Quindi il Mita qui è in errore: non il Visconti,

ma il Vicario Regio o il re di Napoli temono l'assalto a Imola e chiamano in soccorso i Ceroni.

L'episodio che non abbiamo ragioni di mettere in dubbio, avvenuto molti anni prima dell'insedia-

mento dei Ceroni di Serina, ci testimonia sia la fama, già diffusa, che i nostri montanari della Valle

del Senio erano temibili e feroci combattenti, sia la consistenza delle forze che i Ceroni potevano

schierare in campo: sulle 300 unità. Francesco Manfredi figlio di Alberghettino era signore di Faenza

dal 1313, come si è detto. Oltre Riccardo e Malatestino, detto Tino, aveva anche un altro figlio,

Alberghettino, che essendo stato accusato di tramare per consegnare Bologna a Lodovico il Bavaro,

venne decapitato, con altri congiurati, nel 1329. Forse per il dolore di questa perdita, o per altre

ragioni politiche, Francesco Manfredi decide di vendere ai due figli maschi ancora viventi, Riccardo

e Tino, un gran numero di beni, fra cui quelli elencati dal Mita, per la somma di 3000 fiorini d'oro.

Però riguardo all'anno di morte di Francesco il Mita confonde. Francesco sopravvive a tutti e due i

figli suddetti e muore il 29 maggio del 1343. Nel 1340 muore invece Riccardo. Quanto a Malatestino,

che muore nel 1336, non sappiamo se avesse avuto figlie naturali, ma è molto probabile. Sappiamo

invece che le figlie legittime furono Margherita, andata sposa al conte Guido di Batifole, e Anna

ancora nubile alla morte del padre. Se tuttavia il Mita registra questa notizia, si rifà certamente ad

una tradizione rimasta viva fra i Ceroni. Come che sia, il Silvestro Ficchi di cui si parla dovrebbe

essere addirittura il primo dei Ficchi venuti da Perugia di cui si è già fatto cenno. Basta fare un paio

Page 16: STORIA DEI CERONI STORIA DEI CERONI...Certamente qui da noi è originato dal toponimo di Ceruno, in antico Zirone, Cirone o Cerrone (verosimilmente da "cerro", grossa pianta simile

di calcoli. Il tanto famoso Tino da Ceruno, zio dell'ancor più famoso Dionisio Naldi, sarebbe morto

circa il 1495, stando sempre al Mita. Quanto alle date riguardanti Tino sono da ritenere autentiche,

precisando però che Papa Alessandro VI viene eletto nel 1492 e perciò Tino ha combattuto anche

sotto Innocenzo VIII. Poichè si è fatto il nome di Alfonso duca di Calabria, non sarà inutile spendere

qualche riga per ricordare chi fosse. Figlio del re Ferrante D'Aragona, Alfonso II, duca di Calabria,

succedette al padre nel 1494 nel regno di Napoli. Fu una trista figura sia di politico che di uomo,

ma di armi se ne intendeva. Un cronista francese del tempo (Filippo de Camines) scrive che Alfonso

era l'uomo più crudele, perverso, vizioso, triviale che si sia mai visto. Detto da un francese, il

giudizio va preso con una certa tara, ma resta il fatto che egli fu un degno figlio di Ferrante. Fu il

padre, per chi ricorda lo sceneggiato sui Borgia, recentemente dato in televisione, di quella Sancia

sposa a un fratello di Cesare Borgia: Jofrè. Dunque Tino è fra i suoi capitani e con Gian Giacomo

Trivulzio, Capitano Generale di Ferrante, partecipò, insieme alla sua compagnia composta in gran

parte da Ceroni e cioè di abitanti di Ceruno, Casola e dintorni, a fatti d'arme abbastanza notevoli

come quello del maggio 1485 presso Montorio dove le truppe del duca di Calabria sconfissero quelle

Pontificie guidate dal condottiero Roberto Sanseverino, che era addirittura un'autorità in campo

militare. Se teniamo d'occhio le date, vediamo che Tino muore vecchio, attorno al 1495, e perciò

non poteva certamente essere il nipote diretto di Malatestino Manfredi morto 159 anni prima, cioè

nel 1336. Evidentemente il Mita fa un pò di confusione nelle date e fra i nomi. Basandomi sulla

piccola genealogia che lui stesso riporta più avanti, sarei propenso a credere Tino figlio di Silvestro

di Fecchio (1370-80), pronipote del vecchio Silvestro al quale fra il 1329-36 il Manfredi diede in

sposa la figlia. Sempre che si tratti della linea diretta dei Ficchi-Mita, vien da dire col Verga (Mastro

don Gesualdo) che le radici dell'albero della famiglia pescano nel "sangue adulterino" di un principe

Manfredi. Come abbiamo accennato, Tino è lo zio per parte di madre di Dionisio Naldi, il famoso

condottiero dei fanti della Serenissima e il fondatore dei terribili Brisighelli (soldatacci senza paura).

Ereditò il nucleo della sua famosa compagnia da Tino, sotto cui si era fatto le ossa come luogote-

nente. Consultando il Metelli e le storie di Brisighella, trovo che Dionisio Naldi è figlio di Giovanni di

Naldi e che sua madre si chiama Violante. Giovanni aveva sposato Violante dei signori di Lozzano.

Non è facile, nemmeno per uno del posto, localizzare oggi Lozzano; ma dai documenti del 1850 si

arguisce che era una località a circa 300 metri dalla chiesa di Pozzo, verso Zattaglia. Vi era un

gruppo di case con "due torri". Le due torri hanno fatto si che la località si chiami oggi "Torracce".

Ebbene, sono del parere che Lozzano fosse l'abitazione di Tino; forse vi è morto. I Ficchi erano

dunque chiamati anche col nome usuale di signori di Lozzano o Lozzani.

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- 24 -

Dionysius ubi primum a Pontificiis dimissus est

exercitus, ad Venetos cum sua cohorte perrexit,

et a serenissima Repub. amanter excep- tus, mo-

xque bello expertus honorifico munere peditibus

imperator præficitur, qui acri fortitudine, summo-

que ingenio feliciter prælians, stirps Naldiæ gloria

spesque fuit. Obiit anno 1510 ætatis anno 45 ejus

ossa jacent Venetiis in templo S.S. Joannis et

Pauli. Emerso anno quinquagesimo quinto supra

millesimum qua- dringentesimum a Virginis

partu, Marsimilia Sfortia Thadei Manfredi uxor,

foemina acris ingenii, elatique nobilitate Regni,

dum ipsa Forocornelii Tussignanique suo marte

Principatum moderatur, ac regit, a Ceroniis, ut ip-

samet rebatur, lacessita, quod quatuor ex suis le-

vis armaturæ equitibus per occasionem cladem

intulissent, publico edicto jubet, Ceronios quo-

scumque in sua ditione inveniendos interfectum

iri. Rem hanc nihili Ceronii facientes, statum Cor-

nelianæ, Tussignanæque ditionis identidem

vexare, homines sibi infensos audacius persequi,

ac trucidare. Foemina injuriarum impatiens, Ce-

roniis infestis qua per se ire obviam arte, atque

ipsorum audaciam compe-scere valeret ignara,

auxiliarios milites ducentos a Mediolanensi Duce

sibi sanguine juncto balistis instructos accivit, si-

mulque ab eo epistolas ad Astorem Manfredum

Faventiæ Ammoniique Regulum, ut Ceroniensium

intollerabilem audaciam una secum comprimere

vellet, impetrat.

Astor accessitos Ceronios amantissime monet,

paternaque voce compellat, utque a noxiis, quas

supra memoravimus se se in gratiam ipsius con-

tineant, multis rationibus suadet. At Ceronii, qui

unice Principem suum diligebant, de quibus ipse

optime meritus erat, nedum libenter ei obsecun-

dant, verum etiam foedere cum Tussignanensibus

icto, et publico exarato documento anno 1459

odium in amorem, severitatem in obsequium ex-

templo commutant.

Dionisio (Naldi) si licenziò poi dall'esercito pon-

tificio e passò, con la sua compagnia, ai Vene-

ziani accolto favorevolmente dalla serenissima

Repubblica dalla quale, visto che era ben

esperto nell'arte militare, fu creato capitano ge-

nerale di fanteria. Combattente valoroso e di

somma capacità, Dionisio fu la gloria e la spe-

ranza della famiglia Naldi. Passato l'anno 1455,

Massimilla Sforza, moglie di Taddeo Manfredi,

donna di carattere forte e orgogliosa per esser

salita alla nobiltà di signoria (aveva infatti il go-

verno d'Imola e Tossignano), provocata dai Ce-

ronesi, così ella pensava, che avevano sconfitto

e ucciso quattro suoi cavalleggeri, con editto

pubblico ordinò di mettere a morte ogni Cero-

nese che venisse trovato nei suoi domini. I Ce-

ronesi, irridendo questo bando, si misero allora

a danneggiare le terre di Imola e Tossignano,

perseguitando e uccidendo con maggior acca-

nimento i loro avversari. La Signora non sop-

portava l'audacia delle offese ond'era fatta se-

gno dai Ceroni suoi nemici, e non sapendo

come poterla rintuzzare, richiese in aiuto dal

Duca di Milano, suo parente, duecento lancieri

e, nello stesso tempo lettere per Astorre Man-

fredi, principe di Faenza e di Val di Amone, in-

vitandolo ad unire a lei le forze per reprimere

l'insopportabile ardire dei Ceroni.

Astorre chiamò i Ceronesi e li ammonì amore-

volmente, li pregò con paterno affetto e molti

ragionamenti, persuadendoli a desistere, per

amor suo dal procurare i danni sopra ricordati.

I Ceronesi, che amavano questo solo loro prin-

cipe, non soltanto gli obbedirono, ma fecero

anzi un'alleanza con quei di Tossignano ratifi-

cata con documento pubblico l'anno 1459, mu-

tando subito l'odio in amore e la fierezza in ri-

verenza.

NOTE AL PUNTO 24

Prima di riprendere a dire di Dionisio è doverosa una rettifica riguardante Tino. Congetturavamo

fosse figlio di Silvestro di Fecchio (1370/80); ora grazie al Metelli che riporta certi atti notarili di ser

Giovanni Zardelli, foglio 108, dobbiamo dire che padre di Tino fu Nuccio di Perusino, certamente

Ficchi e forse abitante a Lozzano o Lauzano e, secondo il Mita, padre anche di Violante madre di

Dionisio Naldi. Venendo ora a dir di lui, notiamo che Dionisio figlio di Giovanni Naldi di Naldo di

Tassuccio dei signori di Vezzano prima ancora di essere a servizio di Venezia era già una autorità

in campo militare. Venuto su alla scuola di Tino era certamente fra i capi Ceroni che nel famoso

fattaccio dell'assassinio di Galeotto Manfredi (1488) scesero a Faenza invitati dal consiglio della

città per tenere custodite le porte e la piazza; ma di tutto ciò diremo in seguito. Ci preme colmare

il vuoto che il Mita lascia fra il servizio di Dionisio sotto la bandiera del Papa e quello definitivo sotto

la Repubblica di Venezia.

Appena un paio di anni dopo la morte di Galeotto, dopo che era già stato giurato fedeltà al giova-

nissimo Astorgio, figlio del defunto, Dionisio Naldi, unitamente a tutti i valligiani, non nasconde le

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sue preferenze per Ottaviano, figlio di Carlo II al quale Carlo, il fratello Galeotto aveva usurpato nel

1467 la signoria di Faenza.

Ottaviano era tenuto prigioniero dalla Repubblica di Firenze a Pisa, ma ecco che con la discesa di

Carlo VIII il giovane principe ottiene insperatamente la liberazione (1495-96).

Dionisio Naldi progetta subito di riportare alla Signoria di Faenza Ottaviano e muove con i suoi

armati alla conquista della città, ma il tentativo non gli riesce.

Faenza sta con Astorgio. Certamente nella scelta gioca anche una certa animosità contro i Valligiani

che non fanno mistero della loro speranza di vivere indipendenti dalla cittàmadre.

I Faentini, che temono le armi di Dionisio, si danno alla tutela di Venezia, che manda a Faenza

Bernardino Contarini con 1400 soldati. Vengono imprigionati molti aderenti di Ottaviano, fra i quali

anche il giovane fratello di Dionisio, Pier Francesco, che pagherà con la morte il tentativo fallito. È

un dolore per Dionisio che deve ritirarsi con Ottaviano. Si rifugia in Toscana dove, col Manfredi, si

mette al soldo della Repubblica di Firenze. Siamo circa nell'anno 1499 e Dionisio è venuto in con-

tatto con Caterina Sforza la quale ha un giovane figlio di nome Ottaviano anche lui. I due Ottaviani

diventano presto molto amici e si ritrovano a Forlì. Naturalmente protettore del Manfredi è Dionisio;

ma un brutto giorno Ottaviano Manfredi viene trucidato in un agguato presso San Benedetto in

Alpe, alle Cellette, da sicari delle famiglie nemiche ai Naldi: i Bosi e i Corbizi di Castrocaro.

Al dolore di Dionisio si unì quello di Caterina Sforza e soprattutto del figlio Ottaviano. Il Naldi non

perdonò mai più ai Bosi.

Di lì a poco a Castrocaro menò la sua vendetta uccidendo Galeotto e Carlo Bosi. Intanto si adden-

sava sulla Romagna, e soprattutto sulle Signorie romagnole, quel turbine che fu chiamato il Valen-

tino: Cesare Borgia.

Negli ultimi mesi del 1499 anche per Caterina Sforza arrivano i giorni della sconfitta. Imola è asse-

diata. Nella Rocca c'è naturalmente il nostro Dionisio con larga schiera di soldati reclutati qui da noi

e anche nella vallata del Lamone che resiste valorosamente.

Caterina non è precisamente la persona che si fida ad occhi chiusi; ha affidato a Dionisio la difesa

della Rocca previa consegna nelle sue mani della moglie Dianora di Paolo Valgimigli e anche dei

suoi figlioletti. Ma anche la resistenza ha un limite e quando il Valentino, grazie alla spiata di un

falegname pratico della Rocca che gli indicò il punto più debole della difesa, si appressò a dare

l'attacco conclusivo, il Naldi venne ad onorevoli patti e gli aprì le porte (11-12-1499).

Il Valentino indubbiamente sapeva apprezzare il valore di un bravo capitano e offrì al Naldi di en-

trare al suo servizio. Quando Dionisio seppe che Cesare Borgia marciava contro Faenza accettò

subito. Aveva ruggine contro i faentini per via della morte di Pier Francesco suo fratello e del bando

che avevano messo contro di lui.

Presto anche Faenza è assediata. Il Naldi è mandato dal Valentino ad occupare tutti i luoghi fortifi-

cati della Val d'Amone.

Dopo strenua difesa Faenza deve cedere. Il giovane Astorgio III si consegna a Cesare Borgia il

quale, in dispregio di tutti i patti fatti, lo fa trasferire a Roma, insieme al fratellastro Giovanni

Evangelista, e rinchiudere in Castel S. Angelo dove i due giovani principi troveranno presto ignomi-

nosa morte. Si estingue così casa Manfredi.

E Dionisio? Per tutto il tempo che il Valentino rimase in Romagna, Dionisio gli fu fedele. A Forlì, con

la cattura di Caterina Sforza, aveva riabbracciato i suoi familiari sani e salvi. Abitava allora stabil-

mente a Cotignola.

Collaborò, con Francesco Spada e molti della Val d'Amone, alla riconquista della Rocca di San Leo

per il Valentino.

Ma con la morte di Alessandro VI la fortuna di Cesare Borgia crollò all'improvviso. Ad una ad una

le città di Romagna ritornarono ai vecchi signori.

Faenza ricevette come suo principe un bastardo di Galeotto Manfredi, Francesco, che si chiamò

Astorgio IV.

Della disfatta del Valentino approfittò più di tutti Venezia che tanto brigò da avere presto nelle sue

mani non solo tutta quanta la Valle d'Amone, ma la stessa Faenza.

Fu in questa occasione che Dionisio passò al soldo della Repubblica di San Marco, dove già militava

il nipote Vincenzo. Nel 1504 il Doge Leonardo Loredano con apposto breve concedeva vasti favori

a tutta la famiglia Naldi.

Anche Casola passò sotto Venezia e venne inviato qui da noi un vicario veneto: Ser Giacomo Baruzzi

di Brisighella. Dionisio da quell'anno in poi rimase costantemente al servizio della Serenissima e

numerose furono le sue imprese sia in terra che in mare. I suoi soldati diventano quasi leggendari:

sono i Brisighelli il cui nome soltanto mette in timore i nemici. Il valore di questi uomini è stato

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ricordato da parecchi storici. Con il Metelli ci fermeremo a riportare ciò che ha scritto Simondo

Simondi (Storia delle Repubbliche Italiane dei secoli di mezzoTomo 13, pag. 522): "Ma la fanteria

italiana di Brisighella, che era distinta dalle sue casacche mezzo bianche e mezzo rosse, si rese

degna della sua nuova reputazione; perciocchè, sebbene costretta a ripiegare fino ad un aperto

piano, ed ivi esposta agli attacchi della cavalleria, mai non ruppe le sue linee. Circondati, serrati,

oppressi, questi fanti romagnoli si fecero quasi tutti uccidere, dopo avere a caro prezzo venduto la

loro vita". Si tratta della famosa battaglia di Agnadello o Ghiaradadda del 14 maggio 1509. Dionisio

morirà l'anno dopo in dicembre. Venezia gli eresse un monumemto nella Chiesa dei SS. Giovanni e

Paolo in Venezia, dove è sepolto. Nel comando dei Brisighelli gli subentrò poi Vincenzo Naldi. Si fa

qui un breve riferimento alla situazione politica del 1448-1460 che conviene delucidare per una

migliore comprensione del testo. Ci rifacciamo al 1447 come data più significativa; infatti in tale

anno a Roma muore papa Eugenio IV, il papa del Concilio Fiorentino, e gli succede Papa Nicolò V.

A Milano muore il duca Filippo Maria Visconti e subito due grossi aspiranti alla successione impu-

gnano le armi per contendersela: il Re Alfonso di Napoli e un francese, nipote per parte di sorella

del defunto, cioè il Duca D'Orleans. Filippo Maria è morto senza figli legittimi e ha lasciato una figlia

naturale, Bianca Maria, sposata al celebre condottiero Francesco Sforza, romagnolo, perchè la sua

famiglia è originaria di Cotignola di Lugo di Romagna. I Milanesi non vorrebbero come Duca nè il

Re di Napoli nè il Duca d'Orleans; anzi non vorrebbero nessun Duca desiderando trasformare il loro

Ducato in Repubblica. Per togliere di mezzo tutti quei pretendenti, specie il francese che è già alle

porte con un'armata, ingaggiano i più celebri condottieri dell'epoca e le compagnie di ventura più

accreditate. Vi troviamo in prima fila anche due fratelli Manfredi: Guido Antonio, detto Guidaccio, e

Astorgio II. Nelle file dell'uno e dell'altro militano certamente parecchi soldati della nostra valle;

infatti i due Manfredi dominano le città di Imola e Faenza e il fiume Senio è precisamente il confine

della Giurisdizione di Guidaccio che governa Imola e di Astorgio (o Astorre) che governa Faenza.

Dunque sono tutti e due al soldo dei Milanesi in Lombardia. A tutto questo esercito però era neces-

sario un solo generale e, malauguratamente per loro, i Milanesi lo trovarono in Francesco Sforza e

non s'accorsero che in tal modo non gli affidavano il solo comando militare, ma la stessa corona

ducale. Francesco non se lo fece ripetere e in breve fu il nuovo Duca in forza di quella moglie che

era pur sempre l'unica Visconti riconosciuta. Certamente lo Sforza conosceva bene i due Manfredi

e li apprezzava come due validi uomini d'arme. Con Guidaccio poi addirittura s'imparentò quando

il figlio di questi, Taddeo, sposò Massimilla Sforza. Taddeo era molto giovane al tempo di queste

guerre, ma seguiva il padre e lo zio nei loro spostamenti militari. Sembrava ci fosse buona armonia

fra di loro. Poi Guidaccio nel 1448 s'ammalò e venne a morire a Siena, affidando alla Repubblica

Fiorentina Taddeo il suo rampollo. I Fiorentini vigilarono bene perchè Taddeo potesse tranquilla-

mente prendere possesso di Imola, certi che non erano sufficienti i legami del sangue per scongiu-

rare usurpazioni possibili da parte di Astorgio. La prova è presto fatta nell'anno seguente quando

Astorgio, in risposta, come sembra, ai tentativi fatti da Taddeo per togliergli la vita, con l'appoggio

del Re di Napoli, per il quale ora combatte, occupò diversi luoghi di giurisdizione imolese, fra i quali

Settefonti (Stifonte), Baffadi e la rocca di Montebattaglia. Gli storici non lo nominano, ma certa-

mente c'è nel numero anche Casola. Non contento di ciò, l'anno 1450 occupò il castello di Riolo

Secco (=Riolo Terme) e minacciò di prendere anche Imola. S'interpose la mediazione di Francesco

Sforza e di Cosimo dei Medici e la cosa fu scongiurata, ma il dissapore fra zio e nipote rimase a

lungo. Nel maggio del 1460, e precisamente il giorno cinque, Taddeo tentò di sorprendere Faenza

di notte e l'assalì, ma Astorgio e i Faentini vigilavano e fu vergognosamente respinto. Una pace un

tantino più sicura fra i due l'ottenne nel 1462 il Commissario pontificio Mons. Angelo Gherardini da

Amelia, Vescovo di Sessa, inviato in Romagna dal Papa Pio II. Si venne alla decisione che ad Astor-

gio rimaneva Montebattaglia e Riolo, mentre a Taddeo restavano le terre di Pediano, Marzanello,

Monte Medola, Pubico e Turiano. Ma la vicenda riportata al n.24 ha stranamente come protagonista

la moglie di Taddeo, Massimilla (o Massimilia come trovo altrove); come mai? Probabilmente Tad-

deo fa agire la sposa, parente di Francesco Sforza, per ottenere più facilmente aiuto dal Duca di

Milano, oppure il carattere di Massimilla assomiglia molto a quello della ben più famosa parente

Caterina Sforza, per cui certe imprese, come appunto l'assalto a Faenza, sono frutto della sua

ambizione più che del marito Taddeo. Una virago che può aver messo in ombra Taddeo stesso. Può

essere illuminante ricordare che il nostro Taddeo, nel 1470, verrà in gravi dissapori con il figlio

Guidaccio (spalleggiato dalla madre?), il quale lo farà carcerare e ciò segnerà praticamente la fine

della dominazione Manfredi sulla città di Imola. Tornando alla vicenda di Massimilla, è facile arguire

che i Ceroni hanno le spalle coperte dalla protezione di Astorgio II, loro diretto principe, al quale

con ogni probabilità hanno dato una mano all'espugnazione di Montebattaglia, di Baffadi e di Riolo,

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senza ricordare Settefonti dove non ci sarà stato nemmeno bisogno di combattere. Sono infatti

incondizionatamente fedeli a lui.Divertirsi, con uccisioni e saccheggi, a far dispetto a Taddeo, do-

veva stuzzicare troppo i nostri guerreschi Ceroni. A questo punto della storia però deve essere già

intervenuta la pace del 1462 fra i due Manfredi, e da ciò l'accondiscendenza di Astorgio alle lettere

di Francesco Sforza e il conseguente mutamento da parte dei Ceroni nel loro atteggiamento con

quei di Tossignano

- 25 -

Paucis ab inde lustris Galeottus Manfredus,

Astore tertio e vivis sublato, Faventina, Ammo-

niaque ditione, postmodum a Francisca con-

juge, quæ Joannis Bentivoli, qui Bononiæ ty-

rannus fuit, filia erat, colapho ab ipso viro la-

cessita, jugulatur; quod plerique Bentivoli as-

sensu actum fuisse rebantur. Faventini metu

foedissimi parricidii perculsi, Ceronios, quorum

in Manfredos obsequium noverant, in urbis

subsidium accersiri jubent. Hi repente arma

capere, et ex suis ammoniisque amicis tre-

cento-rum fere armatorum agmine conferto

properantes Faventiam concedere, et a Senatu

Aulæ Forique tutandi negotium suscipere.

Non passarono molti lustri che Galeotto Man-

fredi, dopo la morte di Astorre III, entrato in

potere di Faenza e Val d'Amone, fu trucidato

dalla consorte Francesca, figlia di Giovanni Ben-

tivoglio tiranno di Bologna, a ciò provocata da

uno schiaffo del marito. I più pensarono che ella

avesse agito d'accordo col padre, per cui i faen-

tini, presi da timore per questo turpe uxoricidio,

vollero fossero chiamati i Ceroni, dei quali co-

noscevano il riverente amore verso i Manfredi,

per difendere la città. I Ceroni presero subito le

armi e allestita una schiera, fra parenti e amici

di Val d'Amone, di circa trecento soldati, parti-

rono subito per Faenza dove ricevettero dal Se-

nato l'incarico di custodire il palazzo del Prin-

cipe e la Piazza.

NOTE AL PUNTO 25

Col n.25 il Mita compie un salto eccessivo di anni, dal 1460 circa al 1488, cioè l'anno della morte di

Galeotto Manfredi. Ma, e ce ne duole, tace completamente sulla vita e le opere di Carlo II il fratello

dell'appena nominato Galeotto, che meritava invece almeno il ricordo storico di aver per primo

fondato il Contado o la Contea di Valdisenio che ci interessa particolarmente. Sarà allora bene dire

qualcosa su questo Carlo e la sua Contea. Attingiamo ampliamente da due fonti: gli appunti di Don

Giovanni Antonio Linguerri come ci sono pervenuti dai manoscritti Zampieri (Biblioteca di Imola) e

Poggiali (Biblioteca Piancastellana di Forlì) e dal breve, ma lucido lavoro di Leonida Costa, il più

serio e documentato ricercatore di storia della Valle del Senio ("Carlo II Manfredi e la Contea di

Valdisenio"Faenza, Lega 1979). Della discordia di Astorgio II col nipote Taddeo già abbiamo parlato;

qui basta ricordare che grosso modo tutta l'alta Valle del Senio con le rocche di Montebattaglia e

Riolo erano rimaste di proprietà di Astorgio. Quando però questi si staccò dalla lega dei Fiorentini

per aderire a quella dei Veneziani, la nostra valle ne fece le spese per una specie di punizione

eseguita dalle truppe fiorentine guidate dal Duca di Urbino. Si voleva così punire Astorgio del suo

voltafaccia. La valle fu saccheggiata e non si ebbe riguardi per nessuno; si uccise a man bassa, si

depredarono le case di masserizie, di grano, di bestiami, di biancherie "le quali cose vendiano cum

poco presio, si che desfeceono una parte de quella vallata ...". Per tutto questo disastro, anche per

i morti insepolti, si temette una epidemia. Astorgio II parò come potè il colpo, ma forse si sentiva

già poco bene in salute, perchè tre mesi dopo il saccheggio faceva il suo testamento col quale

chiamava a succedergli il figlio Carlo. Astorgio morì il 12 marzo del 1468 e fu sepolto, un sabato,

nel Sagrato davanti alla porta dell'Osservanza. La domenica, cioè il giorno dopo, Carlo ottenne il

Principato. Dal 1468 al 1477 Carlo II Manfredi resse Faenza e le due valli del Lamone e del Senio

che aveva eretto in Contee. La nostra cominciava col comune di Montefiore (praticamente tutta la

vallata della Cestina), di Castelpagano (S. Apollinare, Mercatale, ecc. fino a Baffadi). Baffadi, Ca-

sola, Riolo Secco, Mazzolano, Toranello, Gallisterna, ecc. cioè tutto escluso Monte Mauro, la Sintria,

Valdifusa. Mai principe Manfredi fu più di questo sollecito del benessere della valle. Restaurò le

rocche di Montebattaglia e di Riolo, riportò l'ordine compromesso da continue rivalità fra le varie

famiglie, favorì il commercio, l'agricoltura e, specie a Faenza, diede mano a lavori di risanamento

e di abbellimento della città. Per ciò che ci riguarda, riportò nella nostra valle una buona prosperità.

Creò centro della contea di Valdisenio Riolo Secco, visto che a quel tempo Casola non aveva più

rocca e veniva chiamata semplicemente "trivio" o "contrada". A Riolo si istituì la casa della comu-

nità, dove si riuniva il Consiglio della valle presieduto dal Massaro Generale della valle. Ogni Comu-

nità però si eleggeva a piacimento il suo massarolo che aveva l'incarico di riscuotere le tasse a

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nome del Massaro Generale, di vigilare sopra gli eventuali delitti e riferirne al Massaro, discutere

nel Consiglio, a nome della Comunità, sulle spese necessarie, le nuove imposte, ecc. Tanto il Mas-

saro che i massaroli stavano in carica per un anno intero e potevano essere riconfermati, previo

però il "sindacato", che era un giudizio cui dovevano sottostare per vedere se avevano agito,

nell'amministrazione, da "buoni padri di famiglia". Ricevevano, per questo incarico, uno stpendio

stabilito. A Riolo, conseguentemente, si trasferì anche il mercato più grosso, rimanendo però a

Casola quello del martedì che consisteva soprattutto nel commercio del bestiame. Dai rogiti del

Cattani sappiamo che l'area del boro boario era di pertinenza e di diritto dell'Ospedale di S. Lucia e

dell'antichissima fraternità di S. Maria eretta in S. Lucia. A Riolo si trasferì anche il "Bancum Juris"

o Tribunale della Contea per le cause civili e penali. Giuristi di valore lo ressero, fra cui Giovanni

Spavaldi e Ser Antonio di Ser Nicola Baruffaldi. Carlo II promulgò anche gli Statuti di Valsenio a cui

spesso si rifanno gli atti pubblici, ma di questi Statuti non c'è rimasto traccia. È ricordato dalle storie

con alti elogi, il capitano della valle Ser Andrea di Peruzzo Maglori sotto la cui guida la Contea fiorì

in ogni campo. Con tutto questo buon governo ci si aspetterebbe una lunga vita al principe Carlo

Manfredi e invece ... Intanto il cugino Taddeo di Imola non si stancava di rendere difficile la vita a

Carlo. Certo Ugolino Viarana aveva tramato una congiura per dare in mano di Taddeo il Castello di

Calamello e venne bandito. La famiglia riparò a Imola e poi a Milano, dove il Duca la onorò, e salì

poi in buona fama. Sotto sotto intanto anche Galeotto Manfredi, fratello di Carlo, giocava a sop-

piantarlo nel governo. Un altro fratello, il Vescovo di Faenza Federico Manfredi con la sua avarizia

gettava ombra sul Governo di Carlo. Tutto congiurò dunque perchè i giorni di governo di questo

buon principe fossero ormai contati. Ebbe la gioia di sposare una buona moglie, Costanza di Rodolfo

Varano di Camerino, da cui ebbe un figlio Ottaviano, e la soddisfazione di vedere il famoso Taddeo

spodestato dal figlio Guidaccio che lo fece incarcerare a Imola; ma nel 1477 una sommossa popo-

lare decretò la fine del governo di Carlo. Il principe, ammalato, dovette abbandonare il trono sul

quale la plebe chiamò tosto Galeotto, il segreto artefice della sommossa. Carlo II morirà in esilio a

Rimini nel 1484, forse di peste. A questo punto siamo arrivati alla vicenda che il Mita ricorda al

n.25, cioè al fattaccio dell'uccisione di Galeotto Manfredi.

- 26 -

Postera die per Arcis portam, quam foemina

parricida tenebat, ingressi Jo: Bentivolus, Ran-

gonii, Mutinenses, et ingens turba militum ur-

bem invadunt, inque forum se se recipere ten-

tant. Populus universus accurrens necem hos-

tibus vociferando inclamat, eosque circum-

venit trucidaturus. Bentivolus, qui extrema sibi

suisque a populo furenti armatoque imminere

animum advertit, Ceronios appellatos ad collo-

quium vocat, et se suosque in fidem eorum

permittit. Moxque amicos, non hostes, auxilia-

rios, non expugnatores se se accitos obtesta-

tur, urbe tamen exire paratos, si senatui, po-

puloque id parum credenti magis arrideat. Ce-

ronii qui apud Faventinos authoritate valebant,

et gratia, tumultuante plebe dextere sedata,

pacatisque nobilium animis, Joannem cum suis

incolumes Urbe egredi patefacta porta permit-

tunt, et oppidanos ab imminenti clade exi-

munt. Bentivolus periculo ereptus tam grato

dehinc animo in Ceronios fuit, ut nummos,

subsidiariosque milites adversus eorum hostes

sponte per occasionem exhibitos sæpenumero

tradiderit; Rangonii vero Ceroniensium con-

suetu-dine delectati, non raro eorum opera ho-

norifico munere sint usi.

Il giorno dopo Giovanni Bentivoglio, i Rangoni,

quelli di Modena con gran turba di armati en-

trando per la porta della rocca che era occupata

dalla donna uxoricida, invasero la città e cerca-

rono di impadronirsi della piazza. Tutto il popolo

si sollevò al grido di "morte ai nemici" e li accer-

chiò da ogni parte deciso a farne strage. Il Ben-

tivoglio si rese allora conto di correre, lui e i suoi,

sicuro pericolo di vita perchè il popolo era armato

e furibondo e chiamò i Ceronesi a trattativa met-

tendosi, coi suoi, nelle loro mani, e protestò an-

zitutto di aver invitato con sè degli amici, non

truppe nemiche in aiuto per espugnare e si di-

chiarò pronto ad allontanarsi subito dalla città se

ciò tornava di maggior gradimento al senato e al

popolo. I Faentini gli credevano poco. I Ceronesi

che avevano sui Faentini buon ascendente sia

per autorità che per amicizia, calmarono con abi-

lità la plebe e l'animo dei nobili e aperte le porte,

concessero a Giovanni e ai suoi di uscire dalla

città. Distolsero così i cittadini da una strage im-

minente. Il Bentivoglio, salvato da quel pericolo,

ebbe in seguito tanta gratitudine verso i Ceronesi

da inviare loro, secondo l'occasione, denaro e

soldati in aiuto contro i nemici. I Rangoni poi,

entrati in amabile famigliarità coi Ceronesi non

di rado si servirono dell'opera loro per onorifici

incarichi.

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NOTE AL PUNTO 26

Il fattaccio che il Mita ricorda al N. 25, l'uccisione cioè di Galeotto Manfredi, accadde poco dopo

mezzogiorno del sabato 31 Maggio 1488 a Faenza nella camera della moglie di Galeotto, Francesca

Bentivoglio.

Ma sarà bene spender una parola sulla figura di questo discusso principe Manfredi che spieghi

almeno per quanto può, la dinamica del delitto stesso e le cause che lo originarono.

Galeotto, come si disse, era succeduto, ma meglio sarebbe dire che aveva soppiantato, il fratello

Carlo, il 17 Novembre 1477 nel principato.

Se Carlo impersonò nella teoria dei Manfredi il principe saggio, pacifico e aperto agli influssi culturali

del rinascimento, Galeotto impersonò quello passionale , impulsivo, amante dello intrigo e molto

più aperto al fascino della cabala e dell'astrologia che alle serene attrattive della cultura e dell'arte.

Certo che i tempi in cui regnò erano intrisi di violenze, congiure, colpi di mano a ripetizione e

Galeotto, cui mancava certamente il talento per essere un "principe" alla Macchiavelli, ne respirava

il fascino e il timore. Già ai primi mesi del suo principato, a Firenze c'era stata la congiura dei Pazzi

dalla quale Lorenzo il Magnifico era scampato per vero miracolo.

Il fratello Vescovo Mons. Federico Manfredi, che si era stabilito a Lugo, non faceva misteri della sua

intenzione di minar il trono a Galeotto contro il quale ora fomentava il partito che sosteneva Otta-

viano, il figlio di Carlo. Galeotto era terrorizzato da tutto ciò e per esorcizzare questo pericolo non

aveva trovato di meglio che l'amicizia di Girolamo Riario, nipote del Papa e imparentato, tramite

Caterina Sforza sua moglie, col duca di Milano. Girolamo Riario era ora il Signore di Imola, acqui-

stata dal Duca Galeazzo Sforza coi soldi del cardinale di San Sisto e con la dote della moglie stessa.

Quest'amicizia doveva facilitargli anche l'investitura di Vicario da parte del Papa legittimando così

la sua elezione al principato.

Nel 1480 poi il Riario aveva ottenuto dal Papa anche l'investitura di Forlì e così Galeotto si sentì al

sicuro sia a levante che a ponente. Con Lorenzo il Magnifico, cioè a sud, i rapporti erano cordiali.

Lorenzo garantiva Galeotto dai colpi di mano di Ottaviano che manteneva rinchiuso come in una

prigione a Pisa. Con tutto ciò Galeotto era sempre sospettoso e cercava il modo di tutelarsi. Nel

1481 aveva sposato Francesca la figlia di Giovanni Bentivoglio Signore di Bologna.

Purtroppo nel campo degli affetti familiari Galeotto lasciava molto a desiderare. Tutt'altro che uno

specchio di fedltà coniugale, disseminava per Faenza la sua progenie. Due figli naturali di nome

Francesco e Scipione avevano libero accesso a corte e questo non è che facesse molto piacere a

Francesca; ma ciò che più la indispettiva era l'aperta relazione che Galeotto manteneva con una

certa Cassandra, oriunda di Ferrara, che era una donna ambiziosa e molto vanitosa. Passeggiava

per Faenza sempre vestita in gran pompa per cui i Faentini le appiopparono subito il nomignolo di

"La Pavona". Anche da lei Galeotto ebbe discendenza: un maschio di nome Giovanni Evangelista.

Finalmente il 20 Gennaio del 1485 alle 10,30 anche Francesca gli diede un erede: Astorgio o Astorre

III. Penso che ciò basti a sottolineare il carattere passionale del principe e a giustificare il rancore

di Francesca verso il marito infedele. Ma la passione per l'astrologia, vista come divinazione del

futuro, decretò la sua crudele morte.

Appassionato di questa misteriosa materia, Galeotto aveva contratto una tale amicizia con un frate

francescano dei minori osservanti: frà Silvestro da Forlì, matematico ed esperto in astrologia da

trascurar anche il buon governo del principato per discutere col frate di congiunzioni di astri benefici

e malefici per lunghe ore. Il frate pian piano fu l'uomo più influente. Aveva tale accesso a corte che

tutte le pratiche del governo passavano per le sue mani.

Francesca si vide così doppiamente trascurata. Quando poi un giorno spiò, nascosta, la conversa-

zione dei due che erano venuti nella convinzione che le stelle avvertivano della morte violenta o di

Galeotto o del figlio per mano di un congiunto e forse si fece anche il nome di Giovanni Bentivoglio,

Francesca non resistette e uscì dal nascondiglio gridando improperi allo indirizzo del frate e del

marito. Galeotto indispettito le allungò un ceffone facendola uscire dalla stanza. Fu la goccia fatale.

Francesca decise in cuor suo di vendicarsi tremendamente. Il ceffone o guanciata come si diceva

allora, rappresentava l'offesa maggiore. Nella stessa famiglia Manfredi un paio di secoli prima, un

gesto simile determinò una strage: quella ricordata da Dante compiuta da quell'Alberico delle

"Frutta del mal orto". Francesca se ne fuggì a Bologna col piccolo. Per diversi mesi si cercò di

raggiungere una riconciliazione e Galeotto dovette accettare alcuni patti . Scacciare frà Silvestro,

far rinchiudere "la Pavona" nel monastero di S. Maglorio, dimostrarsi pentito del fatto. Francesca

tornò nel 1488, se veramente convinta o meno di rifarsi una famiglia lo giudichi chi può. Nello

stesso anno, 1488, il 14 Aprile, a Forlì Girolamo Riario cadde sotto il pugnale di congiurati. Suo zio

Papa era già morto nel 1484 e ora sulla sedia di Pietro sedeva Innocenzo VIII (Gianbattista Cibo)

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e ciò facilitò la decisione degli assassini che non temevano troppe vendette. La notizia fu accolta

con dolore da Galeotto. Si era incontrato con l'amico pochi giorni prima nella chiesa dei Servi di

Faenza dove, insieme con la moglie Caterina Sforza si era fermato per per vedere il sepolcro del

beato Giacomo. Nessuno di loro due sospettava che nel giro di 50 giorni li avrebbe accolti, colpiti

dalla stessa sorte, il sepolcro. La morte del Riario rimbalzò anche da noi della Valle del Senio con

una singolare reazione. Quelli di Monte Battaglia, evidentementi scontenti del governo Riario sotto

il quale erano andati a finire con Riolo e Casola per alterne vicende, giudicando che loro erano

sempre stati sudditi dei Manfredi, con uno stratagemma si impadronirono della rocca ingannando

il custode e la offrirono a Galeotto che però pensò bene di non accettarla. Venendo ora a dir del

delitto, si deve riconoscere che l'artefice principale fu Francesca Bentivoglio, ed è possibilissimo che

in ciò fosse consigliata dal padre.

Galeotto venne invitato dalla moglie che diceva di non sentirsi troppo bene, in camera sua. Qui

l'attendevano tre uomini nascosti sotto il letto. La camera era quasi al buio tanto che Galeotto

chiese al servo di aprire un pò le imposte . Ebbe come risposta una gran spinta che lo gettò nelle

mani degli assassini. Breve, ma energica fu la lotta di Galeotto che quasi quasi riusciva a sfuggire

ai tre sicari, ma ecco la moglie che balzata dal letto e raccolto un pugnale caduto gli fu sopra

vibrandogli un gran colpo nel ventre. Fu finito dagli altri.

Il delitto suscitò a Faenza e dintorni un'enorme impressione. Il popolo non fu dalla parte di France-

sca perchè subodorò che sotto tutta quanta la faccenda ci giocasse l'aspirazione di Giovanni Ben-

tivogli di impadronirsi di Faenza. Francesca si rifugiò nella rocca ed ecco subito muoversi da Bologna

Giovanni con armati di Modena, con il Bergomi e squadre di soldati chiamate da Forlì dal Bentivoglio.

Il terrore invase il popolo che si armò in gran fretta. Fu radunato il consiglio generale che proclamò

principe il piccolo Astorgio e invitò quei di val d'Amone, cioè i Ceroni a scendere a Faenza per

presidiare la piazza e le porte. Ciò che fecero immediatamente. Con ogni probabilità li capeggiava

Dionisio o Vincenzo Naldi. Siamo così al racconto del Mita che, per amore di verità, dobbiamo dire

che non corrisponde troppo a ciò che si trova nella storia del Tonduzzi.

Qui si legge che il Bentivoglio fu consegnato nelle mani dell'ambasciatore Antonio Boscoli che Fi-

renze aveva inviato a Faenza. L'ambasciatore lo avrebbe portato a Modigliana per evitare la val-

dell'Amone dove insieme ai Ceroni c'erano troppi nemici del Bentivoglio e da Modigliana alla villa di

Cafaggiolo, in Mugello, dove Lorenzo il Magnifico lo fece proseguire per Bologna. Anche il Metelli

abbraccia in parte questa tesi. Va però notato che questa parte della "storia" del Tonduzzi è stata

corretta e rimaneggiata da Pietro Maria Cavina quando, per la morte dell'autore, fu incaricato di

curare la stampa che era ormai a metà.

Il Cavina era un naturale avversario dei Ceroni e non ci si poteva aspettare che proprio lui facesse

risaltare quella pagina di lode per i Ceroni. Del resto il Mita scrive molto prima del Tonduzzi e doveva

pertanto essere a conoscenza di come erano andate le cose. Tutto quello che Tonduzzi, cioè il

Cavina, sa dire sull'opera dei Ceroni si trova a pag. 533 in queste laconiche parole: "...fecero ancora

armare il popolo, e convocate le milizie di tutto lo Stato, massime di Valdilamone ...." Non una

parola di ciò che hanno fatto una volta arrivati a Faenza questi Ceroni. Quando poi c'è da dirne

peste, ecco: "Quelli di Valdilamone tra gli altri fecero maggior strepito, e maggior fatica fu a salvarlo

dalle loro mani, che più e più volte tentarono d'ucciderlo" (pag.534).

Qui c'è addirittura il capovolgimento di quanto affermato dal Mita e sinceramente si stenta ad am-

mettere che i Ceroni chiamati a mantener l'ordine in Faenza fossero invece quelli che fecero maggior

strepito spingendo al linciaggio del Bentivoglio.

Ammettiamo pure che il Mita si sia lasciato un pò prendere la mano facendone i protagonisti d'una

scampata strage, ma certamente qualcosa di buono i Ceronesi lo compirono davvero e se anche

non vogliam credere a tutte le manifestazioni di riconoscenza del Bentivoglio verso i nostri, dob-

biamo ammettere che non vi fu in seguito da parte sua nessuna manifestazione di rancore, nessun

tentativo di vendetta come sarebbe stato naturale se i Ceroni si fossero comportati nel modo voluto

dal Cavina.

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Roma regressus Sacerdos quidam ex Ceronia

stirpe sub annum ferme 1490 remeabat in Pa-

triam cum diplomate plebem Apri a Sum. Pont.

sibi collatam indicante. Cæterum in Apennino a

sicariis circumventus, diplomate surrepto, con-

tumeliis, ictibus plurimis afficitur. Ceronii id

jussu aliquorum ex Rondaninis, qui et ipsi ad

Plebem eamdem adspirabant, actum rati, tam

gravem injuriam vel dissimulandam, vel diu fe-

rendam minime censentes Caesari Rainaldi filio

ultionis negotium mandant. Is cum undecim ar-

matis Faventiam ingressi Sixtum Rondaninum a

secretis Dominorum de Manfredis, virum prope

aulam ipso in foro inventum telis confossum

enecant, et fuga exeunt ex urbe. Cæterum cum

unus eorum fugiens alio flexisset viam, nec dum

videretur se se foras ejecisse, extemplo urbem

regressi, qui exierant, ut consorti præsto essent

ad periculum, res aliter ac rati fuerant evenit.

Si quidem jussu Prætoris portis repente clausis,

cum ad arma signo dato milites concurrissent,

comprehensi omnes, qui in noxa fuere, vincti in

custodiam arcis lictoribus dantur. Ceronii pro

redemptione captivorum Florentiam concedunt,

et a Magnifico Laurentio Mediceo Reipublicæ

primario favores exposcunt; is enim tutor dati-

vus Astoris quarti, qui Galeotto successerant in

Principatu, erat. Laurentius, cui admodum ac-

cepti erant Ceronienses, jubet, ut quatuor ex

eis in vinculis retentis, cæteri vadimonio

præstito liberi fiant; retentorumque, ac Fisci

æqua lance jura pendantur. Cæterum dum res

protrahi nimis videtur, Brunorius Ceronius, qui

Ductor peditum pro Florentina Republica domi,

militiæque stipendia merebat, cum aliquot ex

suis iterum Laurentium adiit, et ut captivi hone-

sta tandem compositione liberi fiant, humiles

porrigit preces. Mediceus Ceronios e carcere li-

berandos ait, cæterum amicum eorum e Foroli-

vio una cum ipsis vinculis constrictum, ut justi-

tiæ, læsisque justa persolvantur, supplicio dan-

dum. Hoc ubi Ceronii audiunt, universi una voce

conclamant: Absit a nobis probum hoc detesta-

bile cunctis, ut amici periculo salvi nostri fiant,

quin imo diris cruciatibus ex nostris quicumque

mactentur, dummodo incolumis e vinculis emit-

tatur amicus.Hæc Laurentius miratur universis,

qui circa se erant in aula stupentibus, Ceronios

priscis Damoni Pithiæque adæquans, Bruno-

rium ad aures docuisse ferunt, uti carcerati

omnes vitæ periculo eripi possent. Fidentes ita-

que in patriam regressi, moxque suorum ag-

mine conferto Faventiam accedunt, et duodevi-

ginti ex aula Principis viros, qui ad templum

Observantum extra moenia declinabant, cir-

cumve niunt inopinantes, et ad arcem Montis

Un sacerdote della famiglia Ceroni verso l'anno

1490 ritornava in patria da Roma con un di-

ploma col quale il Sommo Pontefice lo nomi-

nava Parroco della Pieve di Apro (Pideura).

Sull'Appennino venne assalito da sicari, deru-

bato del diploma e fatto segno a molte ingiurie

e percosse. I Ceronesi, persuasi che ciò fosse

accaduto per ordine della famiglia Rondanini,

che pure aspiravano a quella Pieve, giudicarono

di non dover nè passare sopra, nè tollerare a

lungo un'ingiuria così grave e inacaricarono Ce-

sare, figlio di Rinaldo, di farne vendetta. Questi

allora, con undici uomini armati entrò in Faenza

e in piazza si imbattè con Sisto Rondanini, se-

gretario dei principi Manfredi e uomo di corte;

lo uccise a frecciate e scappò dalla città. Uno

del gruppo però, nella fuga, smarrì la via giu-

sta. I suoi compagni, non vedendolo uscir fuori,

torna-rono in città per dargli una mano. La fac-

cenda però andò in modo diverso da come ave-

vano pensato; per ordine del Pretore, infatti, si

chiusero subito le porte e fu dato l'allarme. I

soldati corsero alle armi, i colpevoli furono tutti

arrestati e tradotti dalle guardie nelle carceri

della Rocca. Per liberare i prigionieri i Ceronesi

si portarono a Firenze ad implorare la grazia da

Lorenzo dei Medici, il Magnifico, capo della Re-

pubblica, poichè egli era per decreto tutore del

principato di Astorre IV succeduto a Galeotto. I

Ceronesi erano molto cari a Lorenzo per cui egli

ordinò che solo quattro del gruppo fossero trat-

tenuti in carcere e che si liberassero, dietro ga-

ranzia, gli altri e intanto si valutassero i prò e i

contro degli accusati di fronte alla legge. Ma

sembrò ai Ceronesi che la cosa si menasse

troppo per le lunghe e così Brunorio Ceroni, che

militava stabilmente per la Repubblica di Fi-

renze come Capitano di fanteria, con alcuni dei

suoi, si presentò di nuovo a Lorenzo pregandolo

umilmente di liberare i prigionieri a convene-

vole condizione. Il Medici allora sentenziò che

fossero liberati i Ceronesi, ma per soddisfazione

della giustizia e della legge fosse giustiziato un

loro amico forlivese che era in carcere con loro.

All'udir questo tutti i Ceronesi gridarono ad una

voce:"Lungi da noi una così detestabile vergo-

gna da essere noi salvati a scapito di un amico;

sia piuttosto messo a morte crudele ognuno di

noi ma sia salvo il nostro amico!" Lorenzo ne

restò ammirato e ne fecero meraviglia anche i

cortigiani che gli stavano attorno i quali para-

gonarono i Ceroni agli antichi Damone e Pizia.

Corre voce che Lorenzo stesso insegnasse in

segreto a Brunorio il modo di sottrarre i prigio-

nieri alla morte. I Ceroni, ritornati pertanto

pieni di fiducia a casa loro, raccolsero una

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NOTE AL PUNTO 27

Il Mita riporta un grave fatto del 1491: l'assassinio per vendetta di Sisto Rondanini. Abbiamo letto

la dinamica del delitto. Possiamo chiederci:"chi è il prete derubato del diploma?".

Ci può illuminare in ciò il notaio Ser Franco Macolini (foglio 112) che riporta la lite fra i Ceroni e i

Carroli (o Caroli), o meglio, registra una delle tante e mai mantenute paci fra i casati. Nel 1494,

dice il Macolini, i Caroli figli e nipoti di Francesco di Dodo di Montecchio di Pozzo, reclamarono il

saldo di un debito di danaro di cui erano creditori coi Ceroni, ma questi risposero picche per cui i

Caroli, per dispetto chiusero o distrussero alcuni sentieri campestri che passavano nella loro pro-

prietà e dei quali si servivano quelli di Ceruno. Ciò provocò una violenta reazione da parte dei

Ceroni che incendiarono le case dei Caroli, previo saccheggiamento. Di rimbalzo i Caroli se ne

andarono alla chiesa di San Leonardo e la saccheggiarono asportando tutto il grano che trovarono.

Qui era priore Don Melchiorre fratello di Rinaldo e zio di Cesare nonchè di un'altro nipote, sempre

fratello di Cesare che si chiama Don Cristoforo. Sono del parere che sia proprio quest'ultimo ad

essere rapinato del diploma e il fatto che venga scelto il di lui fratello per la vendetta può essere

illuminante. Fra Caroli e Rondanini c'era una buona intesa. Compiere un assassinio per uno sgarbo,

sia pur grave come quello di rapinare un prete, non meravigli nessuno. Si uccideva per molto meno

e i Ceroni erano gente da non accettare soprusi da nessuno senza lavarli nel sangue.

Parlando di Cesare di Rinaldo convien fermarsi brevemente a dir qualcosa sulla famiglia.

Il capostipite dei Rinaldi Ceroni è appunto il padre di Cesare e di Don Cristoforo: Rinaldo figlio di

Giovanni soprannominato il "Lanciere" per una certa bravura nel manovrare il giavellotto o lancia.

Tutti i discendenti di questo Giovanni erano indicati come "Lancieri", e così si sarebbero sempre

chiamati come famiglia, ma, stranamente, ogni figlio di Giovanni diede invece origine a un nuovo

casato, come ci dirà presto il Mita. Da Rinaldo prendono nome i "Rinaldi". Con Cesare e Don Cristo-

foro Rinaldo ha altri maschi: Benedetto soprannominato Comparino, Filippo detto Doro, Pier Anto-

nio, Achille, Uguzzone, Gentile e Giovanni. Come il padre, quasi tutti i figli erano uomini d'arme.

Rinaldo sappiamo che era stato scelto da Galeotto Manfredi a custode della rocca di Calamello e

questo già il 19 Settembre 1481. Pier Antonio (cfr. notaio Lancia delle Lance) è stato custode della

rocca di Monte Mauro e Comparino sarà poi custode di Monte Battaglia prima di essere il valoroso

difensore di Monte Mauro dagli assalti delle truppe di Cesare Borgia. La loro casa natale potremmo

localizzarla al Castelletto di Pagnano; qui infatti si rogano vari atti notarili in uno dei quali si trovano

elencati i figli di Rinaldo. A Pagnano muore nel 1513 Pier Antonio. Da Castelletto (ora Casoletto)

emigreranno verso Baffadi, Valsenio e nel Borgo stesso di Casola.

Dunque una famiglia in cui il mestiere delle armi era una tradizione. Cesare, primogenito di Rinaldo,

deve essere un uomo di audacia e perciò quanto mai atto all'impresa di guidare il gruppo degli

undici armati fin dentro il cuore della città. È il 10 Settembre 1491 (cfr. Metelli). Non si sa se la

vittima designata dovesse essere proprio Sisto, segretario e agente di Manfredi, ma si cercava

certamente uno dei Rondanini. La famiglia, ben conosciuta e stimata, abitava appunto in città da

tanti anni, ma era originaria della valle del Lamone. L'assalto al prete era stato portato da scono-

sciuti sicari, la vendetta doveva apparire altrettanto misteriosa: un colpo di balestra e la fuga e ad

ogni evenienza il gruppo doveva rimaner compatto per poter dar manforte. La cosa andò come

andò. Non dimentichiamo che a Faenza il principe Astorgio III ha appena sei anni e la cosa pubblica

è in mano del Consiglio che agisce però all'ombra del Commissario fiorentino rappresentante di

Lorenzo dè Medici tutore del piccolo Astorgio. È quindi più che naturale che i Ceroni si rivolgano a

Firenze per ottener clemenza. Sarà effettivamente andata così la liberazione dei prigionieri? È pos-

sibilissimo e non abbiamo motivo di dubitarne. Dalla diplomazia di Lorenzo il Magnifico ci si può

aspettare di tutto, anche il consiglio di sequestro di persona come si dice abbia dato a Brunoro di

Majoris veluti obsides e vestigio in custodiam

ducunt, nec dimittuntur, donec memorati qua-

tuor vinculis obstricti, misso omni vadimonio

cum ipsis Aulicis, pari compensatione permu-

tantur.

schiera di uomini, andarono a Faenza e assaliti

all'improvviso diciotto ragguardevoli persone di

corte che si recavano alla chiesa dell'osser-

vanza, posta fuori delle mura, li sequestrarono

e li condussero subito sotto scorta, come

ostaggi, nella rocca di Monte Mauro e li libera-

rono soltanto quando i quattro prigionieri in ca-

tene di cui si è detto non furono scambiati con

questi personaggi, senza condizioni, così, alla

pari.

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Ceruno. La bella figura poi che il Mita si affretta a sottolineare dei nostri Ceroni pronti a morire

piuttosto che tradire l'amico forlivese, anche se infiorettata d'un immagine così tipicamente "rina-

scimentale" come quella di Damone e Pizia (*) rientrava nel gioco del buon chiedere e l'accettiamo

senz'altro. Quanto tempo saranno rimasti in prigione a Faenza gli ultimi congiurati ? Non certo un

lungo periodo come potrebbe far pensare il racconto del Mita. Il colloquio col Magnifico è certamente

avvenuto verso la fine del 1491, forse poche settimane dopo il fattaccio; nei primi mesi dell'anno

dopo infatti Lorenzo il Magnifico era infermo e l'8 Aprile del 1492 rendeva l'anima a Dio. Prima di

quella data dunque era avvenuto anche il sequestro dei notabili di Faenza e il loro trasferimento

nella rocca di Monte Mauro. luogo certamente inespugnabile per qualsiasi drappello di soldati faen-

tini che fossero stati inviati a liberarli e soprattutto custodito da un'altro Rinaldi, come si è detto,

cioè Pier Antonio. Tutto calcolato bene.

(*) Damone e Pizia, filosofi pitagorici, amici, furono calunniati per invidia al tempo di Dionigi il

Giovane, tiranno di Siracusa. Pizia fu condannato a morte, ma avendo bisogno di allontanarsi per il

disbrigo di gravi suoi affari prima di morire, ottenne dall'amico Damone di essere sostituito in car-

cere, a rischio della stessa vita, fino al ritorno. Pizia ritornò, Damone venne liberato e Dionigi am-

mirato graziò Pizia e fu loro amico.

- 28 -

Præerat ejusdem Arcis custodiæ pro Ammonia

ditione anno a Virginis partu quingentesimo su-

pra millesimum Compadrettus Raynaldi, eju-

sdem qui supra Cæsaris frater, qui cum militibus

ferme quinquaginta ex suis tutabatur Arcem,

cum Vitelloccius Cæsaris Borgiæ copiarum

Præfectus cum acie instructa ipsam arcem op-

pugnaturus illuc accessit. Verum Compadrettus

arce erumpens hostibus obviat, plures obtrun-

cat, cæteros levi suorum jactura fundit, ac fu-

gat. Borgias his auditis ira percitus summa vi,

atque omnibus copiis arcem oppu-gnare parat,

et qua potest obsidione cingit, atque oppidanos

ad unum obtruncare execratur. Tandem decimo

post die deficiente commeatu speque subsidii

destitutus Compadrettus arce cum suis ab-

scedit, et per occultos tramites nigrore noctis in-

columis evadit: exinde arx, nemine repugnante,

capta diruitur. Compadrettus dehinc sub Julio II.

Pont. Max. Ductor peditum ad Bastiam acri for-

titudine dimicans vulneratus concidit, sed brevi

convalescens magnis muneribus ab ipso Pon-

tifice decoratur.

Nell'anno 1500 era custode della rocca di Monte

Mauro, a nome dei signori di Val d'Amone,

Comparino di Rinaldo fratello di quel medesimo

Cesare qui sopra ricordato e la difendeva, con

una cinquantina di soldati scelti fra la sua

gente, dallo assalto di Vitellozzo capitano delle

truppe di Cesare Borgia, mandato ad espu-

gnare la rocca. Comparino (resisteva, anzi) fa-

cendo una sortita, si gettò contro i nemici fa-

cendone strage e mettendoli in fuga e ripor-

tando invece lievi perdite. Il Borgia allora, ap-

presa la notizia, bollì di rabbia e si accinse a

stringere d'assedio la rocca con tutte le solda-

tesche giurando che non avrebbe lasciato vivo

nessuno dei difensori. Dopo dieci giorni ven-

nero a mancare i viveri e svanì la speranza di

ricevere soccorso per cui Comparino in una

notte buia abbandonò coi suoi soldati la rocca

e, attraverso sentieri sconosciuti, si mise in

salvo. Senza più alcuna difesa, la rocca fu su-

bito conquistata e distrutta. In seguito Compa-

rino militò sotto l'arme del Papa Giulio II, come

capitano di fanteria e anzi combattè valorosa-

mente presso la Bastia. Riportò grave ferita

dalla quale però si rimise presto. Ricevette dallo

stesso Papa onori e doni.

NOTE AL PUNTO 28

Sull'episodio della difesa di Montemauro abbiamo la conferma anche del Tonduzzi, alias Cavina, che

precisa addirittura il numero dei nemici uccisi da Comparino nella famosa sortita: dodici. L'assalto

di cui si parla dovrebbe essere avvenuto nel mese di Novembre del 1500 in occasione del primo

tentativo di prendere Faenza da parte di Cesare Borgia. Il Valentino si era mosso all'impresa cir-

condato dai più valenti capitani: Paolo e Giulio Orsini, Vitellozzo, Giampaolo Baglioni, Onorio Savelli,

Ferdinando Farnese e altri. Commissionatagli dal Borgia la presa di tutti i castelli della Val d'Amone,

Vitellozzo se ne venne da noi con 500 cavalli. La capitolazione di Brisighella e delle rocche vicine fu

un facile gioco anche perchè i Naldi, ostili ad Astorgio e ai faentini, facilitarono la resa, ma non fu

così per Montemauro dove Comparino, fedele ai Manfredi si comportò come abbiamo visto. Che la

rocca fosse imprendibile è facile intuirlo e pertanto il Valentino non si azzardò ad assalirla d'impeto,

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ma la strinse d'assedio. Come facesse poi Comparino a sfuggire al cerchio degli assedianti resta un

mistero. La zona di Montemauro è ricca di grotte e gallerie sotterranee scavate nella vena del gesso.

Saremmo tentati di credere ad un passaggio segreto che dalla rocca portasse in una di queste. Si

favoleggia infatti di qualche passaggio misterioso che nei tempi andati collegava la rocca con la

Tana del Re Tiberio. Certamente un'assurdità, ma effettivamente uno stratagemma di proporzioni

molto minori, una galleria magari scavata nei blocchi di gesso può aver portato alle spalle dei soldati

del Borgia il piccolo gruppo dei valorosi Ceroni i quali, c'è da immaginarselo, raggiunsero Ceruno

dove si poteva organizzare una difesa più consistente. Il Borgia non attaccò mai Ceruno. Conosceva

che i Ceroni non eran facile preda se nella sua corrispondenza coi capitani troviamo la raccoman-

dazione di farsi amici i Ceroni e "specialmente i Rinaldi" perchè potevano creare notevoli grane.

Fatto da un condottiero di quel calibro, anche se indirettamente, è pur sempre un bell'elogio per i

nostri guerreschi Ceroni.

Tornando a Comparino non ci rimane che stabilire quando fu ferito in battaglia e dove finì i suoi

giorni. Poichè si fa cenno della Bastia, ciò dovette avvenire nel Maggio del 1509 quando il Duca di

Urbino venne con l'esercito pontificio in Romagna. Era Legato pontificio il Card. Francesco Alidosi

di Castel del Rio. Siamo all'indomani della lega di Cambrai e per Venezia comincia il declino della

sua potenza in terra di Romagna. Muovendosi da Solarolo che si era arreso prontamente al Legato,

l'esercito marciò verso la Val d'Amone appena contrastato al ponte di S. Procolo (ponte sul Senio

tra Castel Bolognese e Faenza) dove c'era una rocca chiamata appunto Bastia. Qui Comparino

venne ferito e ricevette, probabilmente dal Legato stesso, le attestazioni d'onore di cui si parla.

Comparino, che ebbe casa anche a Riolo, finì i suoi giorni al Cozzo di Baffadi nel 1510. Qui, celibe,

conviveva con il fratello Achille, che lasciò suo erede. Qui lontano dalle guerre si dedicò ad opere

di pace. Lo troviamo anche priore dell'ospedale della Cestina. Venne sepolto nella chiesa di Baffadi.

Resta nella storia come il campione e la gloria di casa Rinaldi Ceroni.

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- 29 -

Sed hic non indignum videtur aliqua referre,

quæ ad hanc familiam generatim pertingunt,

priusquam partes singulas attingam. Ficchiæ

igitur gentes per tempora adeo propagatæ

sunt, ut propter multitudinem plerique a pa-

rentibus digressi diversas colonias habuerint.

Siquidem Romani montis Ammoniæ ditio-nis

prædia aliquot, ubi ædes construxere amplas,

tenuere coempta: extinctaque Maghi-nardi Pa-

gani progenie, castroque diruto jus illud fere

totum, prædiaque nonnulla in villa Baffadii

possiderunt Nutius, Ficchiusque; Alii montis

Oliveti, Pagnani, Sancti Ruffili, Stiphontis, Pu-

tei, et S. Andreæ, emptis ibi pluribus terris, et

tectis honestis ædificatis incolæ fuerunt. Ditio-

res ex eis partem vici Casulæ, qui olim supra

collem situs a Faventinis anno Domini 1200 di-

rutus erat, in planitiem secus flumen Senium

ampliori structura exædificarunt habita-

runtque, emporium, varias artes, atque mer-

caturas inibi instituentes, et exercentes ex

parte. Non enim tunc erat ex eis, qui se se lu-

xui, aut inertiæ corrumpendum daret: sed qui

coeteris animo, reque familiari præstabat ac-

curatius arma tractare, militiæ strenue per oc-

casiones inservire, venari, equitare, Domino-

rum, amicorumque negotiis studiose operam

navare, plurimos eorum apud se se, vel dum

animi causa rura peragrantes ad nostrates di-

verterent, vel judicium timentes, aut exules

facti ad eos, ceu ad asilum refugerent, reci-

pere, victumque pro dignitate præbere. Prædia

namque eorum. quæ in Ammonia, Imolensi-

que ditione, ac circa possidebant, omnium re-

rum, quas ad victum, et cultum natura deside-

rat, abundantiam suppeditabant, quam in dies

augebat parsimonia: ita ut nedum frugalem,

sed et opiparam mensam hospitibus extemplo

præberent, inque ampla tecta dignissima sup-

pellectili, argenteisque patinis ex spoliis ur-

bium præcipue collectis, ornata reciperent. Si

qui ingenio juxta ac pietate præditi erant, cle-

ricali militiæ initiati, sacerdotia ex finitimis Pa-

roeciis assequi, vel monasticæ disciplinæ sub-

mitti. Alii legibus studentes, vel patroni cau-

sarum, vel judicis, aut scribæ officium exer-

cere. Cæteri, qui omnino agrestes erant, aut

quibus res familiaris nimis erat angusta, affi-

nium in primis arva colere, artes exercere, aut

militiæ inservire, et a suis omnino foveri. Foe-

minæ vero suapte natura lino lanæque, veluti

tot Cajæ, apprime intendere, et in admini-

stranda conservandaque re familiari, arte, in-

dustriaque multas anteire. Ita ut Ficchios præ

ceteris Ceroniis abundantioribus opibus prædi-

tos esse haud fuerit difficile factu.

Ma a questo punto non sarà inutile riferire le vi-

cende riguardanti la famiglia Ceroni in generale

prima di venir a trattare d'ogni singola parte.

Dirò dunque che i Ficchi col passar degli anni si

moltiplicarono e crebbero in numero tale che

molti di loro si separarono dai parenti e costitui-

rono varie colonie. Occuparono in questo modo

alcuni poderi di Monte Romano nella Signoria di

Val D'Amone dove costruirono belle abitazioni.

Nuccio e Ficchio soppiantando quasi del tutto la

stirpe di Maghinardo Pagani, ormai estinta e il

castello diroccato, Nuccio e Ficchio diventarono

proprieta-ri di quasi tutto quel territorio, ma ave-

vano anche alcuni terreni nel villaggio di Baffadi.

Altri si stabilirono a Monte Oliveto, a Pagnano, a

San Ruffillo, a Stifonte (Settefonti), a Pozzo e a

S. Andrea dove comperarono terre e costruirono

case in buon numero. Quelli di loro che erano

dotati di maggiori mezzi ricostruirono, nella

piana verso il fiume Senio, con ampiezza mag-

giore, parte del borgo di Casola che un tempo

era posto sopra il colle (Chiesa di sopra) e che

era stato distrutto dai Faentini nel 1200. Abita-

rono qui nel borgo, vi aprirono un mercato eser-

citandovi vari mestieri di artigianato e, in parte,

il commercio. Non erano allora di quelli che si

lasciano corrompere dal lusso e dall'ozio, ma

piuttosto di quelli che con coraggio e forza si de-

dicavano con passione all'arte delle armi e,

quando se ne offriva l'occasione, servivano con

valore nella milizia, andavano a caccia, cavalca-

vano e si prendevano cura degli affari dei loro

signori ed amici. Accoglievano lietamente molti

che per divertimento se ne andavano in campa-

gna e facevano loro visita o che, timorosi di pene

o esuli, si rifugiavano presso di loro cercando un

asilo. A tutti questi fornivano il vitto in confor-

mità del loro stato. I poderi che possedevano nel

territorio di Val d'Amone, di Imola e luoghi circo-

stanti fornivano loro quanto può naturalmente

desiderarsi e per il vitto e per il vestiario. Tutta

questa ricchezza aumentava ogni giorno grazie

alla loro frugalità. Agli ospiti giunti anche all'im-

provviso approntavano una mensa non certo

parca, ma addirittura splendida, e li alloggiavano

in buone case arredate con ottime suppel-lettili

e vasi d'argento, tutto frutto del bottino fatto

nelle città. Se qualcuno poi si segnalava per in-

gegno e pietà, cercava di mettersi nella carriera

ecclesiastica e di conseguire il ministero delle

parrocchie vicine o di consacrarsi alla disciplina

monastica. Altri, interessati alle leggi, esercita-

vano l'ufficio di avvocato, di giudice o notaio. I

restanti, che erano solo contadini e molto poveri

di mezzi, coltivavano per lo più i poderi dei con-

giunti, esercitavano mestieri, si dedicavano

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NOTE AL PUNTO 29

Il n.29 contiene l'elogio idilliaco dei Ficchi. Il Mita che si considera a tutto diritto un loro discendente,

si entusiasma al ricordo della frugale e serena vita degli antenati. Gente dedita al lavoro, schiva

dell'ozio, cordiale, generosa, ecc. Un quadretto da Bucoliche Virgiliane.

Che fosse proprio così? Uno sguardo storico tende purtroppo a sfrondare un pò. Già abbiamo visto

l'epoca piena di contrasti di parte e fra le righe dell'elogio si può anche intravvedere che i pacifici

Ficchi non erano poi tanto estranei a tutti i maneggi e i raggiri della politica corrente. Si impadro-

niscono di gran parte del territorio di Monte Romano soppiantando la stirpe di Maghinardo Pagani,

così dice il Mita, e distruggendo il castello. Certamente i Ficchi abitarono Monte Romano, ma non

credo abbiano avuto bisogno di soppiantare nessuno in quanto (cfr. "Testamento di Maghinardo"

del 1302) il territorio di Fontana Moneta, Fornazzano Valdifusa, Pian di Castello, e penso anche

Monte Romano, viene lasciato da Maghinardo a Bernardino Pagani, figlio del suo fratello Paganino,

che è Priore di Popolano. Un prete, cioè. Di castelli, niente. Maghinardo, in quel di S. Martino in

Gattara, lasciò appena una rocca o come si chiamava allora una tomba: "La Cittadella", di nessuna

importanza, e la lasciò a Ugolino, un bastardo, suo fratello. Non penso però si tratti di questa nel

racconto del Mita.

Verissimo poi che Nuccio di Perusino e Fecchio avevano proprietà in quel di Baffadi. Fecchio, e in

particolare i suoi discendenti, abitarono in prevalenza a Casola. Voler però attribuire ai Ficchi la

riedificazione del paese distrutto nel 1216 (e non nel 1200) dai Faentini mi sembra un pò troppo. I

Ficchi probabilmente hanno acquistato case nella Casola risorta presso la riva del fiume Senio, visto

che al tempo della distruzione suddetta i Ficchi, stando sempre al racconto del Mita, non erano

ancora giunti in Val d'Amone. Penso che Casola nuova ricostruita dai vecchi Casolani, fosse già una

discreta piazza di mercato e forse da un secolo quando vi comparvero i Ficchi. Ho il dubbio che

qualche mio lettore non abbia avuto sott'occhio una delle chiacchierate riportate da LO SPECCHIO,

quella, voglio dire, della distruzione di Casola nel 1216. Per questi riassumerò brevemente che

appunto in quell'anno, dal 2 al 16 giugno, i Faentini, che già in precedenza avevano usurpato agli

Imolesi il territorio di Casola, vennero a porre assedio alla Rocca o Castello di Casola e a quella di

Montefortino dove gli abitanti asserragliati resistettero con incredibile audacia sperando invano di

essere soccorsi dagli Imolesi. Non ebbero soccorso alcuno e dovettero perciò arrendersi al Podestà

di Faenza Guido di Lambertino il quale assicurò la vita ai difensori, ma decretò che il Castello di

Casola, che sorgeva nei pressi della Chiesa di Sopra, e tutte le case fossero rase al suolo. Si salvò

solo la vecchia chiesa, che restò attonita spettatrice dei nostri antenati che scesero in fondo "ai

campi di Casola" nei pressi d'una sorgente (di qui via della Sorgente), sulla riva del fiume, dove

costruirono un pò di baracche e in seguito nuove case. Niente vieta di pensare che già prima vi

fosse qui un'area da mercato. Da queste considerazioni viene da chiedersi: a che epoca risale allora

la fondazione di Casola? Se si parla della Casola attuale, cioè del paese vero e proprio, rispondiamo

senz'altro: nel 1216. Se intendiamo la parrocchia con relativa fortificazione, sarei portato a fissarla

almeno un secolo o due prima, e cioè verso il 10001100, e ciò significa che dei paesi della valle del

Senio, Casola è di gran lunga la più antica. Più di Riolo più di Castel Bolognese, più di Brisighella,

tanto per parlare dei nostri viciniori. Ciò significa anche che quello che rimane della Chiesa di Sopra

è un monumento di tale importanza storica che già da tempo avrebbe dovuto essere meglio tutelato

e valorizzato per la sua straordinaria vetustà. È stata la chiesa madre del nostro paese; certamente

una succursale della pieve di S. Maria Assunta di Montemauro, che estendeva la sua giurisdizione

fino ai confini toscani. Ebbe anche lei come titolare la Madonna Assunta, titolo che si ritrova facil-

mente nelle più antiche chiese (Baffadi, Valmaggiore, etc.) fin dai tempi dei Longobardi.

Ritornando ai Ficchi, dei quali, per le note vicende che andremo vedendo, non v'è rimasto traccia

alcuna nella nostra valle, concordiamo nel considerarli famiglie industriose e benestanti. Fra i Ce-

ronesi avevano la parte dei parenti ricchi. È anzi probabile che questa loro superiorità in fatto di

mezzi economici sulla consorteria abbia fatto ombra determinando le successive inimicizie e le

furiose faide.

all'arte militare, sempre aiutati in tutto dai pa-

renti. Le donne poi per loro natura si dedicavano

a lavori di lino di lana come tante Caie e nel go-

vernare e custodire la casa erano superiori a

molte. E capitò così facilmente che i Ficchi diven-

nero più ricchi degli altri Ceroni.

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Non dispar cultus, habitusque animorum Cero-

niis, qui huc e Serina alta concesserant, erat:

Cæterum in propaganda sobole ita demum

aliis prævaluere, ut unus Matthæus, qui anno

a Virginis partu nonagesimo supra millesimum

trecentesimum florentis ætatis erat, tres

habuerit ex se natos, qui sæculo uno stirpium

novem fuerint authores: siquidem dum ille

Ceccum, isque Salvutium generat, ex hoc pro-

diit Brunorius Brunoriæ stirpis origo: Ad hæc

Ceccus gignens Sylvestrum, qui pater Bal-

thasaris fuit, progenies Balthasarum incoatur.

Alterum natum habuit Matthæus nomine Chri-

stophorum, cui Laulus ortus est, qui Lauleæ

genti dedit principium. A Matthæo tandem gi-

gnitur Joannes dictus Lancerius ob eximiam il-

lius virtutem in vibrandis, jaciendisque brevio-

ribus lanceis, qui præter Melchiorem sacerdo-

tem sex alios procreat liberos, a quibus toti-

dem soboles prodiere diversæ: Ravalei nempe

ex Bartholomæo nuncupato Ravaleo; Rinaldi

ex Raynaldo: Berti ex Bertone; Poli ex Paulo;

Jacobetti ex Jacobo, Marondoli ex Michaele Ma-

rondolo appellato: universique numero, ac

multiplicatione aucti, dum loci angustia e Ce-

ronio pago egredi coguntur, propiora rura, ac

partem vici Casulæ initio tenuere.

Quei Ceroni che si erano qui trasferiti da Se-

rina Alta non erano diversi per carattere e co-

stumi e non si differenziavano dagli altri se

non per la prolificità tanto che il solo Matteo,

la cui gioventù fioriva nell'anno 1390, ebbe tre

figli grazie ai quali in un solo secolo egli fu

ceppo di nove generazioni. Generò infatti

Cecco, e questi Salvuzio, da cui nacque Bru-

norio, capostipite dei Brunori. Cecco inoltre

generò Silvestro, che fu padre di Baldassarre,

da cui derivano i Baldassarri. Matteo ebbe

come secondo figlio Cristoforo, dal quale è

nato Laulo, che ha dato origine alla famiglia

Lauli (Lolli o Loli). Infine sempre da Matteo

nacque Giovanni, detto "Il Lanciere" per la sua

bravura nel vibrare e scagliare la piccola lan-

cia. Questi, oltre a Melchiorre sacerdote, ebbe

altri sei figli da cui ebbero origine altrettante

diverse famiglie e cioè: i Ravagli, da Bartolo-

meo, soprannominato Ravaleo; i Rinaldi da

Rinaldo; i Berti da Bertone; i Poli da Paolo; i

Giacometti da Giacomo; i Marondoli da Mi-

chele detto Marondolo. Tutti questi si moltipli-

carono e crebbero tanto di numero da essere

costretti ad abbandonare il villaggio di Ceruno

e ad occupare i casolari sparsi e parte del

borgo di Casola.

NOTE AL NUMERO 30

Il n.30 è dedicato invece ai Ceroni discendenti di Matteo da Serina Alta (Lepreno) in provincia di

Bergamo. Qui c'è addirittura un piccolo albero genealogico quanto mai interessante per tante fami-

glie casolane. Cominciamo dalla data riportata, e cioè il 1390. In quest'anno probabilmente Matteo,

nel pieno delle sue forze, cioè nel fiore della gioventù, viene a Ceruno e vi si accasa. Non possiamo

ritornare a descrivere ciò che già dicemmo a proposito dei Ceroni di Serina qui trapiantati, ma ci

fermiamo appena alla considerazione che se quella data è l'inizio dell'innesto, i nostri Ceroni pos-

sono avere conosciuto quelli di Serina in occasione della lega che i Fiorentini, il Signore di Carrara

e Astorgio Manfredi di Faenza fecero contro il Signore di Milano Gian Galeazzo Visconti per la difesa

di Bologna. Fu un assembramento di forze le quali non vennero però a vera e propria battaglia, ma

si produssero in leggere scaramucce. Dunque Matteo ha preso in moglie una nostra Ceroni, di cui

ignoriamo il nome, dalla quale ha almeno tre figli maschi: Cecco, Cristoforo e Giovanni. L'alberetto

che riportiamo qui sotto ci sembra più chiaro di qualsiasi nota.

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Brunorii, qui parvo numero propagabantur

rerumque affluentia, atque authoritate cæte-

ros anteibant, quamquam amplas ædes Ca-

sulæ habebant, Ceronium tamen pagum, una

cum aliquot ex Ficchiis, villamque Renzonii

jugiter incoluere; et ad similitudinem Serinæ

altæ unanimes cum Ficchiis, Mitisque sibi

mutus affinitate junctis aedem D. Jacobo sa-

cram, ubi Divinis interessent, defunctorum

corpora tumularent, stipe etiam in annos ce-

lebranti assignata, in ipso construxere vico.

Nutius vero insignis bello vir, qui in Galliis re-

gia stipendia diu meruerat, quique Ceroniis

universis assensum Regium, quo aurea Lilia,

quæ sunt ipsius Regis gentilitium superne re-

ceptum stemmati nostro adderentur gratuito

impetravit, satis locuples factus Altare de

suorum jure patronatus in D. Luciæ Casulæ,

titulo Assumptionis Beatæ Virginis erexit, et

idoneo prædio nuncupato Turricchia (id jacet

in villa Putei) ad victum cultumque Rectoris

donavit. Prisci vero Ceronii ex succedentium

propagatione maxima parte extincti, vera

esse, quæ Sallustius protulit, comprobarunt,

omnia orta occidi, et aucta senescere. Re-

mansere tamen aliqui, qui Galli, Linguerri, et

a Solea nuncupantur, et adhuc exiguo nu-

mero levique potentia supersunt, qui, cum ex

Matthæo a Serina oriundo propagati non re-

periantur, priscam originem se se habere

profitentur.

I Brunori furono poco prolifici, ma superavano

gli altri per prestigio e ricchezze, e pur avendo

buone dimore in Casola, preferirono abitare

sempre, unitamente a diversi dei Ficchi, nel vil-

laggio di Ceruno e nel vicino casolare di Ren-

zuno. Inoltre, in pieno accordo coi Ficchi e coi

Mita loro parenti per via di matrimoni, costrui-

rono anche a Ceruno una Chiesa dedicata a S.

Giacomo, imitando così Serina Alta (dove c'è ap-

punto una chiesa dedicata allo stesso Santo).

Qui potevano assistere alla S. Messa e seppellire

i loro morti. Fissarono perciò un congruo stipen-

dio annuo al sacerdote officiante. Nuccio, valo-

roso uomo d'armi che aveva a lungo militato in

Francia sotto la bandiera di quel Re e aveva ot-

tenuto il consenso reale per aggiungere allo

stemma dei Ceroni i gigli d'oro che sono l'inse-

gna ricevuta dal cielo per i Re francesi, arricchi-

tosi sufficientemente eresse nella chiesa di S.

Lucia a Casola un altare dedicato alla Assunta,

che dotò di un podere detto Turricchia (nella

parrocchia di Pozzo), per il mantenimento del

Rettore, riservandosi, per i suoi, il diritto di pa-

tronato. Ma col susseguirsi delle varie genera-

zioni la maggior parte degli antichi Ceroni si

estinse, confermando la verità di quella sen-

tenza di Sallustio: "tutto ciò che nasce e cresce

è destinato ad invecchiare e a morire". Ne ri-

masero tuttavia alcuni che sono chiamati Galli

Linguerri e Dalla Soglia e sopravvive ancora un

piccolo numero, di modeste condizioni, di quelli

che, non riconosciuti come discendenti di Matteo

da Serina, dichiarano di provenire dalla vecchia

origine.

NOTE AL PUNTO 31

Il Mita ci parla dei Brunori, succintamente si intende, ma abbastanza per stuzzicare la nostra cu-

riosità. La casata Brunori ha nella consorteria Ceroni l'indubbio primato del prestigio, avendo svolto

per secoli il ruolo di famiglia custode della Rocca di Ceruno e avendo espresso dal proprio seno

capitani insigni dei quali il più famoso rimane quel Raffaele (1490 circa1533), di cui si dirà meglio

in seguito. Ci è venuto fra le mani il libretto di Luigi Baldisserri, lo storico imolese, dal titolo di

"Brunori della val del Senio", edito diverse decine di anni fa. Siamo rimasti perplessi per l'allegra

facilità con cui qualifica i Brunori della Bassa pianura, specie verso Mordano e Bubano, come di-

scendenti dei nostri Brunori. Non abbiamo tanto ardire di seguirlo in questa affermazione, peraltro

niente affatto suffragata da documenti, eccetto l'omonimia del cognome. Evidentemente il cognome

Brunori è patronimico, cioè deriva da un padre di famiglia di nome Brunorio, e sa il cielo quanti

Brunori ci saranno stati in quel tempo. I nostri sono precisamente i Brunori di Ceruno, i Brunori

Ceroni. Con buona pace dell'anima di quello storico, dobbiamo avanzare forti dubbi che si tratti

della stessa casata.

Torniamo al Mita. Indubbiamente, anche ad un semplice confronto coi Lancieri e coi Ficchi, i Brunori

sono stati poco prolifici. È una delle ragioni per cui attualmente, qui da noi, il cognome è ormai

pochissimo rappresentato. Sono rimasti per secoli ancorati a Ceruno e nella vicina Renzuno, con

una esigua rappresentanza a Baffadi e a Pagnano fin verso la fine del 1800. Sui più recenti non

abbiamo voluto indagare; chi ne ha interesse può rivolgersi direttamente all'anagrafe. L'albero ge-

nealogico dei "Brunori", qui di seguito riportato , pur non avendo la pretesa di essere esatto al

cento per cento, cosa impossibile del resto, è convalidato da atti di battesimo, di matrimonio, di

morte che siamo andati a trascrivere scrupolosamente dall'archivio di Settefonti (la parrochia di

Page 32: STORIA DEI CERONI STORIA DEI CERONI...Certamente qui da noi è originato dal toponimo di Ceruno, in antico Zirone, Cirone o Cerrone (verosimilmente da "cerro", grossa pianta simile

Ceruno e Renzuno) e che in gran parte sono registrati dallo stesso Don Domenico Mita, lo storico

che stiamo appunto commentando. Inoltre nel 1976 abbiamo avuto modo di consultare memorie

custodite dalla ora defunta signora Luisa Giacometti Ceroni ved. Poletti di Brisighella, una simpatica

signora fedele custode delle carte dei suoi antenati, che gentilmente ci mise a disposizione disegni

e memorie relativi agli antichi abitanti di Ceruno. Don Domenico Mita, con la sua bella calligrafia

che i registri conservano intatta, ci avverte di avere trascritto gli atti da libri "qui vetustate consu-

mpti", e cioè ormai logori per l'antichità, che minacciavano di andar perduti. Una nota qua, una là

ci hanno permesso di farci, di questi Brunori, un'idea abbastanza leggibile, anche per quanto ri-

guarda la loro genealogia.

Potrebbe forse farci lume l'atto notarile di Silvestro Soglia del 8.3.1692 o l'istrumento del

10.10.1691 sempre dello stesso, dove si parla dell'onere di messe gravante sull'oratorio di S.Gia-

como. Rilevo tutto ciò dalla relazione della visita pastorale del Vescovo Marelli (Arcivescovo di

Imola)dell'anno 1741. In detta relazione si legge fra l'altro che l'oratorio in questione risulterebbe

eretto da quelli di Ceruno verso il 1300. Poichè si agitava una lite fra quelli di Ceruno e il Vescovo

che aveva imposto come sacerdote della detta chiesina un certo Camillo Campellozzi (non so come

il Gaddoni legga Campidori) di Casola, e i Brunori si erano appellati alla Santa Sede dichiarando di

essere in possesso del Giuspatronato, nella supplica avranno calcato un pò la mano alterando le

date. In realtà (cfr. il notaio Giovanni Cattani) S.Giacomo di Ceruno venne edificato verso il 1476

da Brunorio di Salvuzzo che ottenne dal Vescovo di Imola Mons. Giorgio Buchi da Carpi il detto

Giuspatronato il 12 Aprile 1476. Nella lite vinsero appunto i Brunori. Il Papa Gregorio XIII concesse

per questa sentenza una pergamena che il Vescovo Marelli riceve per consultazione dalle mani di

Rosa Brunori Ceroni, figlia di Carlo e sorella di Don Pietro Antonio Brunori Ceroni, ultimo possessore

del detto Oratorio. Si tratta appunto della Rosa che figura ultima del ramo riportato poco sopra.

Aggiungiamo, così per completezza, che forse i Brunori miravano, con l'erezione di quell'Oratorio,

a trasformare in Parrocchia Ceruno; o almeno questo fu il sospetto del Vescovo del 1574, che esortò

a stare in guardia perchè non era la prima volta che i Ceroni, con queste manovre, non sempre

limpide, avevano usurpato beni della chiesa. Probabilmente anche lo stesso ospedale di Renzuno

aveva fatto la medesima fine. L'Oratorio restò in verità sempre come Chiesina gentilizia di quelli di

Ceruno, e molti dei Brunori riportati nell'alberetto vi dormono il sonno eterno. L'oratorio di Ceruno

nel 1741 possedeva 4 tornature di terra arativa, saldiva e gineprata; altre due tornature di terra

lavorativa, un pezzo di pascolo, altri ritagli di terreno che in tutto fruttavano appena 6 scudi l'anno.

C'era invece l'obbligo per il Sacerdote di dire ben 40 messe all'anno; praticamente una alla setti-

mana. Sempre di un Patronato, ma questa volta a Casola in S.Lucia si parla nel N. 31: quello

dell'Assunta eretto da Nuccio di Perusino Ficchi, dotato col podere Trucchia. Un beneficio di tutto

rispetto, neppure paragonabile con quello di Ceruno. Poichè qui parlando di Nuccio, si tirano in ballo

anche i gigli dello stemma Ceronese, va detto subito che la notizia è da prendersi con molto bene-

ficio d'inventario. In realtà i tre gigli d'oro sono spesso il segno della longa-mano della Repubblica

Fiorentina, come si può rilevare da diversi altri stemmi di famiglie nobili del nostro Appennino, che

hanno parimenti nel capo i tre gigli d'oro.

Page 33: STORIA DEI CERONI STORIA DEI CERONI...Certamente qui da noi è originato dal toponimo di Ceruno, in antico Zirone, Cirone o Cerrone (verosimilmente da "cerro", grossa pianta simile

- 32 -

Et quoniam Mitas supra memoravimus non abs

re fuerit subtexere, quanam ratione Ficchium

cognomen transierit in Mitam. Inter primores

ex ipsis, qui Perusia in Aemiliam concesserant,

fuit vir opibus, bellicaque virtute pollens, qui

natum habuit ex cognomine Fecchium, a quo

Ficchii, qui postremis temporis Casulam inco-

luere, prodierunt. Is secumdo loco Sylvestrum

Ceronii pagi accolam gignit, ex quo sex

haudquaquam interruptis generationibus toti-

dem viri fortissimi, atque bellica virtute

præditi, qui ordines duxerunt processere. Ex

Sylvestro ortus est Antonius, et ex eo Cirunus

cognomento Midas allusione vocabuli a Mida

Rege Phrigiæ arrepta, qui cunctos Reges pecu-

niæ abundantia antecesserat: Quippe ubi vi-

dent accolæ huic uni Ciruno felicem rei fami-

liaris, nummorumque affluentiam supra cæte-

ros convenas esse, hujusmodi agnomime illum

vocitabant: quamquam vel Scriptorum injuria,

vel ignorantia vulgi Midæ nomen transivit in

Mitam. Mita genuit Thomam, is verum Petrum,

qui Claradiam Berti, qui Ricciardi Alido-sii, Tus-

signani, Fontanæ, ac Castri Rivii comitis frater

erat, filiam duxit uxorem: genuit pariter

Cirunum, cui ab avi similitudine Mitæ nomen

inditum est, isque ad posteros tale transmisit

agnomen.

E giacchè più sopra abbiamo fatto un cenno ai

Mita, non sarà male riferire in qual modo il co-

gnome Ficchi si è tramutato in Mita. Fra i più

ragguardevoli di quelli che per primi giunsero

qui in Romagna da Perugia vi fu uno importante

sia per ricchezza che per valore militare che

ebbe un figlio e lo chiamò Fecchio, da cui disce-

sero poi i Ficchi, che hanno abitato Casola fino

a pochi anni fa. Ebbe quindi un secondo figlio di

nome Silvestro, che abitò nel villaggio di Ce-

runo, e dal quale, per non interotte sei genera-

zioni, trassero origine altrettanti personaggi

pieni di valore, forti in battaglia e capitani di

compagnie. Da Silvestro nacque Antonio, che

fu padre di Ceruno, che ebbe il soprannome di

Mida per analogia con Mida re di Frigia che su-

perava in ricchezza tutti i re. I suoi coetanei,

che lo consideravano in confronto a tutti gli altri

come il più ricco di beni e di danaro, lo sopran-

nominarono così. Mida poi, sia per errore di tra-

scrizione sia per ignoranza popolare, si tra-

sformò in Mita. (Questi) fu il padre di Tommaso,

dal quale nacque Pietro che sposò Clarice, figlia

di Berto fratello di Riccardo Alidosi conte di Tos-

signano, Fontana e Castel del Rio. Pietro fu il

padre di Ceruno che, per analogia col nonno, fu

soprannominato Mita e questo cognome lo ere-

ditarono i posteri (suoi discendenti).

NOTE AL PUNTO 32

Col n.32 il nostro storico ci traccia le linee della sua genealogia. Si sente a tutto diritto un Ceroni e

non manca di metterlo bene in vista. Siamo stati tentati di considerare tutte quelle successioni il

frutto di una fantasia tipica del XVII sec. che mirava a crearsi patenti di nobiltà a buon mercato;

poi, considerando con più serenità tutta la cosa, ci siamo dovuti ricredere. Ciò che dice il nostro

storico è la pura e semplice verità e la prova da noi trovata sta in un documento notarile del 27

dicembre 1492 del notaio Lancia delle Lancie di Tossignano (cfr. vol. n.1) e vi troviamo infatti il

passo che recita: "Marchus quondam Pauli olim Marchi Fabri de Baffado comitatus Imolae, vendidit

CIRUNO alias MITA filio Tomasii olim Antonii de Ciruno petiam terrae ... ecc." e cioè, per chi non

avesse compreso la dicitura latina: "Marco di fu Paolo figlio di fu Marco Fabbri di Baffadi comitato

di Imola ha venduto a Ceruno detto Mita, figlio di Tommaso di fu Antonio di Ceruno, un pezzo di

terra ... ecc." Il buon notaio ci conferma pari pari la genealogia che il nostro storico ci ha presentato.

Già altre volte Domenico Mita ci ha sorpreso per la sua precisione nel racconto e l'indagine più

onesta in questo procedere storico raccomanda di non farci prendere troppo dal nostro ipercritico

gusto di mancar di fuducia nella capacità d'indagine dei nostri vecchi storici. Qui decisamente siamo

stati presi in contropiede. Purtroppo, per le vicende che vedremo in seguito, dei Ficchi e natural-

mente dei Mita non c'è rimasta molta documentazione per poterne tracciare un albero genealogico

di rispetto. Verso la metà del 1500 per le rivalità coi Lancieri i Ficchi dovettero abbandonare la valle

e, a quanto mi risulta, il cognome è pressochè estinto in Emilia Romagna. Per i Mita, cioè per i

discendenti di Ceruno Ficchi che abitarono in quel di Pagnano, e precisamente nel fondo detto

Fontanella, deboli indizi ci portano a rintracciarli dapprima verso monte Battaglia (gli antenati del

nostro storico sembra abbiano abitato anche il Torrione), poi verso Osta di Castel del Rio, dove il

22 maggio 1546 proprio il Mita figlio di Tommaso, "in domo et habitatione propria", fa un atto dei

suoi beni che possedeva alla Smirra, agli Ortali e in comune di Montebattaglia. Da questo atto

risulta che, oltre Tommaso ricordato dalla nostra storia, il Mita aveva altri due figli maschi, e cioè

Babbone e Gabriele, e tre nipoti: Antonio, Paolo e Raffaele che non sapremo indicare se erano figli

di un solo dei primi due o chi era figlio dell'uno e chi dell'altro. Ritroviamo Raffaele, forse figlio di

Gabriele, come Massaro di Fontana nel 1586. Qui a Fontana troviamo un certo Roberto Mita col

Page 34: STORIA DEI CERONI STORIA DEI CERONI...Certamente qui da noi è originato dal toponimo di Ceruno, in antico Zirone, Cirone o Cerrone (verosimilmente da "cerro", grossa pianta simile

figlio Aurelio che è cugino o parente stretto dei figli di Raffaele: Gabriele e Fabrizio. Qui a Fontana

nascerà anche il nostro storico Domenico Mita il 20 gennaio 1590. In seguito la famiglia Mita gra-

viterà soprattutto su Tossignano. In quel di Castel del Rio tuttavia anche nel 1576 restano alcuni

Mita (un certo Sebastiano di Bellone per esempio), che in seguito da un certo Vigo Mita danno

origine alla famiglia Vighi o Vicchi che esiste tuttora nella zona. Quanto a Clarice o Claradia Alidosi,

per debito di precisione debbo dire che trovo due versioni: questa che la dà come figlia di Berto e

un'altra tratta dalla Chronica (manoscritto di ignoto che trascrive dall'operetta del Mita, facendo a

volte lievi digressioni, e che si conserva presso la biblioteca di Imola) che la fa figlia naturale di

Ricciardo. Come che sia Pietro, il nipote di Mita, potè permettersi questo matrimonio con casa

Alidosi. Sulle nozze pesò certamente il fatto che la famiglia Mita aveva un certo patrimonio che

poteva far gola sia a Ricciardo, infeaudato da Clemente VII conte di Tossignano e Fontanelice (ma

non di Castel del Rio) il 28 febbraio 1526, e ancor più al fratello povero, Berto. Ci è impossibile

conoscere se Perusino Ficchi debba identificarsi con quel famoso personaggio di cui al n.32 o se sia

invece un suo fratello. Purtroppo a questa data non ci possono venire in soccorso gli archivi par-

rocchiali che datano solo dalla fine del secolo XVI e i vari atti notarili da noi reperiti non ci hanno

illuminato in proposito. Troviamo invece numerosi atti di comprevendita di Ceruno Ficchi e del padre

Tommaso (cfr. Dionisio Cattani 7-7-1535) che ci confermano la veridicità di quanto asserisce il

nostro storico sull'agiatezza della casata

- 33 –

Page 35: STORIA DEI CERONI STORIA DEI CERONI...Certamente qui da noi è originato dal toponimo di Ceruno, in antico Zirone, Cirone o Cerrone (verosimilmente da "cerro", grossa pianta simile

Ex Brunorio prodiit Raphael, qui militarem in-

dolem armorum studiis sacratam apud Vene-

tam Rempublicam variis in præliis, summo la-

bore, ac periculo peditibus præfectus ea tem-

pestate exercuit, qua inter summos Principes

Cameraci adversus ipsam Rempublicam con-

foederatum erat. Is cum aliquando Bononiæ

sub Ramazotto Alexandri a Scaricalasino sti-

pendia mereret (quippe nomen hoc Ramazotti

Ceroniis maxime exercrandum) amore Luciæ

ejusdem natæ accensus illam a patre sibi in

uxorem petiit. Ramazottus vel quia filiam di-

gne collocaret, vel quia vaferrimus mortalium

tali affinitate accessum ad Ceronias regiones

perlustrandas, moresque hominum, qui Guel-

fas partes sequebantur, exploran-dos sibi cen-

suit tutum, Raphaelis cupidini facile obsecun-

dat, quod nostratum funestæ tragediæ exor-

dium fuit. Etenim Ficchii præ aliis subdolum

Ramazotti ingenium, virtutem in armis Ghibel-

linæque factionis alpinis in regionibus prima-

tum satis superque agnoscentes, id gravius tu-

lere supra quam quisquam cogitaverit, veriti

ne Raphael, qui Patriam arcem tenebat ad avi-

tas partes soceri fraude traheretur, et a nostris

deficeret, vel conjuratione aliqua Ceronien-

sium robur deleret, et nomen. Jurgia itaque, et

discordiæ ultro citroque exortæ singulorum

animos in diversa pertrahebant.

Da Brunorio nacque Raffaele che, secondando la

sua inclinazione, si dedicò alla professione delle

armi al soldo della Repubblica Veneta e fece pra-

tica in diverse battaglie come capitano di fanteria

nel tempo in cui fra i principi della lega di Cam-

brai c'era un patto d'alleanza contro la stessa Re-

pubblica (10.12.1508). Poichè per un certo pe-

riodo di tempo si trovò a Bologna a militare sotto

Ramazzotto figlio di Alessandro da Scaricalasino,

(questo nome di Ramazzotto era addirittura

odioso ai Ceroni), si innamorò della di lui figlia

Lucia e gliela chiese in moglie. Ramazzotto ben

volentieri acconsentì al desiderio di Raffaele sia

perchè reputava ben collocata la figlia, sia per-

chè, da uomo astuto qual'era, vedeva offrirsi,

con questa parentela, il modo di introdursi tran-

quillamente fra i Ceroni per spiare e conoscere il

modo di vivere di questa gente che parteggiava

per la parte guelfa. Questo (matrimonio) fu

come l'inizio della tragica rovina dei nostri Ce-

roni. I Ficchi che conoscevano molto meglio degli

altri l'infida natura di Ramazzotto e la sua bra-

vura nelle armi e che sapevano come egli te-

nesse un pò il comando, su quegli Appennini, di

tutto il partito Ghibellino, accolsero il fatto più a

malincuore di quanto si potesse pensare. Forse

temevano che Raffaele, che aveva il comando

della patria rocca, venisse raggirato e attratto

dalla fazione del suocero abbandonando i nostri

o che per una congiura venisse distrutta la po-

tenza ed il nome dei Ceroni. Le discussioni e i

dissapori sorti fra le due parti tenevano gli animi

(dei Ceroni) divisi su due fronti.

NOTE AL PUNTO 33

Si è trattato la casata più illustre dei Ceroni; ora il Mita illustra le gesta del personaggio più famoso:

il Capitano Raffaele. Figlio di Brunorio, Raffaele nasce attorno al 1490 in una famiglia dove l'attività

principale era quella delle armi. Il fratello Alessandro sarà Capitano e custode della rocca di Monte

Battaglia nel 1505 per la Repubblica Veneta e Giacomo, altro fratello, è Capitano d'armata anche

lui. Il sogno di Raffaele è di poter, non dirò imitare le leggendarie figure dei Capitani di ventura

come i romagnoli Alberico da Barbiano o Giacomazzo di Attendolo Sforza di Cotignola, ma di poter

far una certa strada sulle orme di quell'ormai famoso Dionisio Naldi, che fra l'altro è anche un pò

parente coi Ceroni. Dionisio è passato, nel momento in cui si apre il racconto, al totale servizio di

Venezia e si è già imposto come un'autorità in campo militare. Dionisio Naldi sta appunto reclutando

soldati di fanteria dalle nostre parti come si rileva anche da lettere scritte dal Magistrato della

Repubblica Fiorentina al vicario di Firenzuola: "...Impiegati ancora di ritrovare se Dionigio Naldi fa

fanteria e ritrovandone cosa alcuna, ce ne avviserai" (Missiva del 23.5.1502 Archivio di Stato di

Firenze). Forse già in questo periodo Raffaele inizia il suo servizio militare per Venezia. Avrà avuto

così modo, pur giovane, di mettersi in bella mostra. Oltre Dionisio Naldi, fedelissimo a S. Marco,

un'altro oriundo dei nostri Appennini stava facendosi gran nome: Ramazzotto da Scaricalasino; un

uomo piuttosto tozzo e di non bell'aspetto, ma con un coraggio ed una crudeltà a tutta prova: le

qualità fondamentali d'un condottiero del tempo. Ramazzotto è figlio di Alessandro, come si rileverà

anche dal suo testamento, di Scaricalasino a Monghidoro. Suo padre, detto appunto Sandro, gli fu

ucciso quando era ancora un ragazzo. La sua sete di vendetta lo portò ad attendere con determinata

spietatezza di raggiungere l'età per menar vendetta. Fece strage degli assassini di suo padre e ne

bruciò le case. Per potersi poi sottrarre alla giustizia di Bologna, sotto cui stava il suo paese, riparò

in Toscana e si mise al servizio dei Medici. Qui si distinse presto come un uomo sagace e con doti

di comando ed in breve ebbe la sua piccola condotta di militari coi quali vagò un pò per tutta l'Italia

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vendendo i suoi servizi ora a questo ora a quello. Non sappiamo quale fu il motivo per cui Raffaele

contattò Ramazzotto, ma notando che ciò avviene a Bologna, dobbiamo arguire che Ramazzotto

facesse incetta d'armati. Il suo terreno di ricerca erano le zone delle nostre vallate già riserva di

centinaia di soldati. A Bologna c'erano appunto i Medici esiliati da Firenze: il Card. Giovanni e Giu-

liano figli di Lorenzo il Magnifico. Questi tentavano il ritorno a Firenze con l'aiuto del Valentino,

l'astro politico emergente; Ramazzotto, fedelissimo di casa Medici, corre a Bologna e si mette al

loro servizio. Siamo verso il 1510 ca. Due anni dopo i Medici rientrano a Firenze a prezzo di spa-

ventosi saccheggi che le armate di Ramazzotto e degli Spagnoli fecero ai danni di Borgo S. Lorenzo

e Prato. Che fra i saccheggiatori ci fosse anche Raffaele? Difficile saperlo, ma sta di fatto che in

questo periodo nasce l'idillio fra la figlia di Ramazzotto, Lucia, ed il nostro Raffaele Brunori. Ci fu il

matrimonio che sorprese grandemente il resto dei Ceroni. Ramazzotto non era certamente guelfo

viste le amicizie che praticava come il Vaina ed il Gozzadini, ma all'occorrenza sapeva anche cam-

biar bandiera. Tutti però conoscevano Ramazzotto come uomo pieno d'ambizioni e di perfidie ed il

minimo che potevano fare era di disapprovare una tal parentela. Non avevano torto. L'unica cosa

buona era forse il fatto che i due giovani si univano per vero amore e che Lucia seppe cattivarsi la

stima di tutti i Ceroni che alla fine l'accettarono. Il padre invece fece di tutto per farsi detestare.

Cominciò a rifiutare il pagamento della dote promessa che eluse ripetutamente rivelando un animo

gretto perfino con la propria figlia che difficilmente glielo perdonò.

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Hæc ubi audit, videtque Ramazzottus, amplam

ad novos affines perdendos opportunitatem ra-

tus rem omnem Guidoni Vainæ consociato

amico aperit, et ex composito in nostrorum

perniciem uterque conjurat, ut vires nostra-

tium, qui Guelfas partes tutabantur, et

Raphaelis audaciam, qui pactam sibi uxoris do-

tem petulantius forte quam par esset, a socero

flagitabat, compri-mant. Negotium itaque

propa-lam exequendum Vaina suscipit, cætera

Ramazottus fraudolenter molitur ex occulto.

Erat Guido ex Forocornelio militum Præfectus

Dominis carus, opibus, et authoritate potens,

simul Ghibellinæ factionis nostra in regione fa-

cile princeps. Hunc post Ravennatem cladem

(in qua ex nostris aliquot pugnando occubuere,

et Ramazottus ipse ingenti securis ictu in ter-

ram depulsus, semivivus a proximis Hispanis

servatus est) cupido maxima invaserat domi-

nandi; sed ægre id assequi posse rebatur, ni

prius universos Guelfos, qui montanas incole-

rent regiones, subegisset, sicuti eosdem in pla-

nitiis commorantes sibi dudum subjecerat:

Cæterum Ceronios haud mediocriter pertime-

scebat, quos nulla adhuc inimicorum potentia

subactos, domitosve novisset: illis attamen in

dies nimio plus succensebat quia Saxatellis

Vainæ apertis hostibus adhærentes sibi pecu-

liari odio infensos arbitrabatur. Hæc ubi Vaina

varius animo volvit, tandem Rectori Provinciæ

deferuntur Ceronii, quod Pontificium vectigal

pendere renuentes, lictores ad distrahenda pi-

gnora missos a finibus suis laceratos repule-

rint. Ramazottus, et Vaina ea occasione incitati

Rectori peropportune suadent, universa Cero-

niensium tecta armato milite circumveniri, ab

eisque vi pignora capi, nullum omnino aliud sa-

lutare remedium esse. Idque astu consulunt,

quo repugnantes Ceronios trucident, ac ædifi-

cia comburant. Rector dictis annuens Chiappi-

num Vitellium, qui ductor equitum levioris cur-

sus pro Pontifice erat accersit, et ut cohorte in-

structa, auxiliariisque sociis accitis, quæ supra

consulta sunt, mature exequatur, jubet.

Appena Ramazzotto ebbe sentore di tutto ciò, gli

parve che gli si offrisse un ottimo pretesto per

rovinare i nuovi parenti e confidò il tutto al suo

amico e socio d'armi Guido Vaina e di comune

accordo giurarono di distruggere i nostri pen-

sando così di fiaccare le forze dei Ceroni fautori

del partito guelfo e di reprimere la insolenza di

Raffaele che con insistenza, forse oltre il conve-

nevole, esigeva dal suocero la dote della moglie

come era stato pattuito. Il Vaina dunque si as-

sunse il compito di agire in modo scoperto nella

vicenda, Ramazzotto invece tramava nascosta-

mente per il resto. Guido, Capitano di milizie, in

buone relazioni coi Signori, era di Imola. Ricco e

potente, era il capo indiscusso del partito ghibel-

lino nelle nostre contrade. Dopo la sconfitta su-

bita a Ravenna, dove combatterono e morirono

anche alcuni dei nostri (Ceroni), e dove lo stesso

Ramazzotto colpito da un gran colpo di scure era

ruzzolato a terra mezzo morto e tratto in salvo

dagli Spagnoli che gli erano accanto, si era fatto

prendere dalla smania di dominio, ma pensava

che difficilmente avrebbe realizzato i suoi pro-

getti prima di avere sottomesso tutti i guelfi della

montagna così come aveva fatto con quelli di

pianura. Aveva anche timore dei Ceroni perchè

sapeva che nessun nemico li aveva ancora do-

mati e sconfitti. La sua rabbia verso di loro cre-

sceva continuamente anche per il fatto che i Ce-

roni si erano alleati con i Sassatelli suoi nemici

dichiarati e pensava per questo di essere da loro

odiato in modo particolare. Mentre il Vaina va ri-

muginando tutto ciò nel suo animo irrequieto,

capita che i Ceroni vengono denunziati al Rettore

della provincia d'essere renitenti a pagar le tasse

al Papa e di aver malmenato e scacciato dalle

loro terre gli incaricati a riscuoterle. Il Ramaz-

zotto ed il Vaina cogliendo al balzo l'occasio- ne,

suggerirono subito al Rettore di mandar soldati

ad assediar il villaggio dei Ceroni, come il rimedio

più salutare, e di esiger con la forza le tasse ne-

gate. Con questo consiglio miravano a trucidar

tutti i Ceroni che si fossero opposti e ad incen-

diarne le case. Il Rettore accolse la proposta e

chiamato Chiappino Vitelli, capitano della caval-

leria leggera, che militava per il Papa, gli ordinò

di formar una squadra e di eseguire, con l'aiuto

degli alleati, quanto, come sopra detto, era stato

consigliato.

NOTE AL PUNTO 34

Raffaele viene a trovarsi tra due fuochi; da una parte i Ficchi e più in generale i Ceroni che non

approvano il matrimonio, dall'altra lo stesso suocero che rifiuta di mantenere i patti della dote

nunziale. Per inciso va detto che Ramazzotto specie dopo il suddetto sacco di Prato e dintorni, si

era grandemente arricchito e aveva un palazzo a Bologna dove ammassava specialmente opere

d'arte, argenterie tutto frutto dei saccheggi. Più tardi si farà costruire una splendida sepoltura di

marmo a S. Michele in Bosco dal Lombardi (La si può ammirare ancora oggi nella Pinacoteca-Museo

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di Bologna) e un sontuoso palazzo a Tossignano. Non aveva quindi motivo di essere tanto taccagno,

eppure ... . Certo Raffaele insisteva e forse con una eccessiva petulanza per essere soddisfatto. Ma

il dissidio per la dote doveva essere il meno. Ramazzotto frequentava già precise amicizie in campo

ghibellino e ciò significava che per quel partito Ramazzotto sarebbe anche passato sopra il suo

sangue. Si è già accennato all'amicizia con la casa Gozzadini, ghibellina; ora entra in scena addirit-

tura il campione dei ghibellini di Imola: Guido Vaina o Vaini. Era questi un arrabbiato avversario

dei guelfi o per meglio dire della casa Sassatelli che a Imola e per tutta la nostra Romagna, capi-

tanava questa fazione. Già da tanti anni Guido capeggiava i Ghibellini e Giovanni Sassatelli detto

"Cagnaccio" i Guelfi. Ambedue validi capitani avevano servito sotto Giulio II, che li aveva arruolati

insieme cercando così di sedare le continue lotte fra le due casate. Nel 1504 i Sassatelli rispondono

acremente ad un assalto dei Vaini che avevano fatto strage di questi e praticamente assoggettata

la città. I nostri Ceroni sono sempre stati Guelfi e di conseguenza sostenitori della casa Sassatelli

(oriunda fra l'altro di Sasso sopra Borgo Rivola). Possiamo anzi ritenere che nella valle del Senio i

Ceroni erano i fedelissimi degli interessi della casa Sassatelli. Qui non c'era spazio per i Ghibellini.

Dal 1503 la Repubblica di Venezia aveva conquistato tutta la valle del Lamone e la parte alta della

valle del Senio, cioè Casola e Baffadi (e giù fino a Gallisterna) e sulla Rocca di Monte Battaglia

sventolava lo stendardo col Leone di S.Marco. I Ceroni, che parteggiavano sicuramente anche per

Venezia, avevano favorito questa espansione dietro la pressione dei Naldi; ma nel 1505, dopo

appena due anni, Venezia aveva restituito in gran fretta al Papa tutte queste terre occupate pen-

sando di farselo amico. Il Papa che rispondeva al nome di Giulio II, non si accontentava di così

poco, voleva indietro Faenza, Ravenna, Cervia, ecc. cioè tutto il territorio che la Repubblica Veneta

aveva strappato alla Chiesa già da un secolo almeno. All'atto della consegna di Monte Battaglia il

castellano che cede le chiavi al Teodoli, delegato del Papa, è Brunori Alessandro, il fratello di Raf-

faele. Torniamo al Vaini. Sono passati parecchi anni da che Guido Vaini si è imparentato col Card.

Francesco Alidosi di Casteldelrio del quale ha sposato la sorella. Il Card. Alidosi, legato di Bologna,

è la figura più influente nella corte di Giulio II e quindi è per Guido un grande protettore. Però casa

Alidosi si è imparentata anche con i Sassatelli perchè un fratello del Cardinale ha sposato una sorella

di Cagnaccio, così siamo pari. Il 24 Maggio 1511 a Ravenna avviene un fattaccio di cui si parlò a

lungo. Il nipote del Papa, Francesco Maria della Rovere, che odiava a morte il Card. Alidosi, avendolo

incontrato in via S. Vitale gli si avventò addosso e lo passò da parte a parte con un pugnale. Accanto

al Cardinale c'era appunto il cognato Guido Vaini che lo assistette come potè. La morte di questo

discusso personaggio segnò per lui una gran perdita. Un anno dopo, sempre a Ravenna, ci fu una

terribile battaglia fra le forze del Papa ed i Francesi. Vinsero questi ultimi, ma ci rimise la vita il loro

capo: Gastone de la Foix e ciò fu come una sconfitta. È di questa battaglia, che si combattè il giorno

di Pasqua 11.Aprile 1512, che parla il Mita quando ricorda che il Ramazzotto venne colpito da un

colpo di scure e si salvò per miracolo. Penso proprio che un gruppo dei nostri Ceroni fossero su quel

campo di battaglia e quasi certamente anche Raffaele che in questo tempo aveva già conosciuto e

forse deciso di sposare la sua Lucia. Nell' agosto il Ramazzotto con gli Spagnoli (il Valentino è già

in disgrazia e scompare dalla scena) va a riportare i Medici a Firenze. Il Card. Giovanni Medici di lì

ad un anno diventa Papa e per Ramazzotto questa elezione è la fortuna più ambita. Diventerà il

fedelissimo del Papa. Guido Vaina ha dunque tutti i vantaggi a legarselo con amicizia. Nella battaglia

di Ravenna c'è anche Cagnaccio, ma per lui c'è una piccola crisi di fortuna. Una sua figliola ha

sposato un Bentivoglio e questo non è un vantaggio per goder del favore del Papa. Per di più il

nuovo presidente di Romagna si dimostra piuttosto imparziale e uomo di polso anche con i Sassatelli

guelfi. Nel 1517 troviamo Cagnaccio al servizio della Serenissima e quindi lontano da casa. Il 1

Dicembre 1521 muore Papa Leone X e un mese dopo viene eletto Adriano VI che però è lontano da

Roma. C'è come un prolungamento della sede vacante. Un tentativo dei Bentivoglio per riprendersi

Bologna vede i Sassatelli al loro fianco e questo provoca lo sdegno del legato del Papa, Giulio dè

Medici, che autorizza Ramazzotto a venir a Imola per catturare Gentile Sassatelli come guelfo tra-

ditore. È arrivato per il Vaini il momento tanto atteso per rifarsi delle uccisioni del 1504. Siamo al

maggio del 1522. La vendetta del Vaini sui Sassatelli pareggiò abbondantemente il conto. Il mas-

sacro impressionò un pò tutti ed ebbe fra i Ceroni larga risonanza. Si parlò di oltre cinquanta morti.

Molti palazzi furono distrutti e si saccheggiò anche nelle case dei guelfi dei dintorni. A Croara in un

agguato ci lasciò la vita anche Don Paride fratello di Don Domenico Cornetta parroco di Casola

Valsenio che proveniva dal Poggio di Casola. Si moltiplicarono le vendette individuali e le imman-

cabili rapine e uccisioni sotto pretesto di lotta di parte.

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- 35 –

Igitur pridie nonas Decem-bris, qui dies Divæ

Barbaræ Virgini ac Martyri solemnis erat, anno

a Virginis partu vigesimo secundo supra mille-

simum quingentesimum, Vitellius cum equiti-

bus centum, Vainaque fere cum totidem Ghi-

bellinæ factionis armatis Casulam Senii conce-

dunt, et arma in Ceronios vertunt. Cæterum

ubi primum arva CAsulana occupant, ibi secus

rivum subsistere compelluntur, armatis passim

arcendo adventantes inspectis, ac necem, si

propius accede-rent, inclamantibus. Mox a Ce-

roniis missi percunctatum oratores ad Vitel-

lium: Quidnam rei esset, ut instructa cohorte,

armatisque hostibus ad eos accederet? Quibus

Vitellius se Pontificis authoritate missum,

haud-quaquam hostilia facturus, sed justa

nonnulla cum eis acturus, quæ si obsides den-

tur, pacifice explicabit. Ad hæc facturos se ex

animo, quæ velit, Oratores respondent, si Gui-

donem et adversæ sibi factionis milites

quoscumque primum omnium ad suos remit-

tat. Vaina hæc audiens libenter abstitit

incæpto, tum quia artes suas sibi perire cen-

suit; tum quia ictu veruti, quod dudum e prox-

ima turricula Galbettus balista ejecerat sibi de-

trac-tus e capite pileus, Ghibellinis occultæ

fraudis pavorem incusserat; quare celeriter

cum suis qua venerat revertitur: moxque ut

Vainæ reces-sum nostri vident, obsides dant

Chiappino Io. Petrum Ficchium, et Babinum a

Solea, quibus ad arcem Rioli sicci in custodiam

deductis, Vitellius cum equitatu omni triduum

apud Ceronios mansit, et egregie habitus ad

Rectorem postmodum justa æque ac nostris

grata relaturus rediit.

Così il 4 Dicembre del 1522, S.Barbara, il Vitelli,

con cento cavalli ed il Vaina con quasi altrettanti

armati del partito ghibellino raggiungono Casola

del Senio e schierano le truppe contro i Ceroni.

Appena entrati nei campi di Casola devono però

fermarsi presso il rio perchè i nostri Ceroni re-

spingono gagliardamente i primi che si avanzano

e minacciano di strage chi osa avvicinarsi. Si

mandano subito, da parte dei Ceroni, ambascia-

tori al Vitelli per conoscere le ragioni di tutto

quello apparato militare contro di loro. Il Vitelli

rispose che non era mandato dalla autorità per

muovere guerra, ma per discutere di giuste ra-

gioni che egli avrebbe pacificamente loro esposto

se gli avessero inviato degli ostaggi. Gli amba-

sciatori sentito questo ben volentieri promisero

di aderire a quanto richiesto a patto che egli al-

lontanasse immediatamente Guido Vaina e gli al-

tri armati del partito (ghibellino) loro contrario.

Ciò udendo il Vaina abbandonò liberamente l'im-

presa vedendo che i suoi raggiri andavano a

vuoto e anche perchè poco prima con un colpo di

balestra scoccato dalla cima di una piccola torre

vicina dal balestriere Galbetto, gli era stato sfi-

lato il cappello dalla testa e questo aveva messo

spavento di oscura imboscata nelle file dei Ghi-

bellini. Vaina tornò dunque donde era venuto im-

mediatamente coi suoi. Come videro partirsene

il Vaina i Ceroni consegnarono a Chiappino i due

ostaggi: Gian Pietro Ficchi e Babino dalla Soglia

che furono condotti a Riolo Secco (Riolo Terme)

per esservi custoditi nella rocca. Il Vitelli poi con

tutta la cavalleria si fermò ospite dei Ceroni per

tre giorni, trattato splendidamente e se ne tornò

quindi dal Rettore dando una relazione giusta e

favorevole sul conto dei nostri.

NOTE AL PUNTO 35

È in questo contesto che si svolge il primo tentativo di piegare i guelfi Ceroni. Ormai Guido è padrone

di Imola e Cagnaccio non ha ardire di entrarvi. Ramazzotto e Guido deliberano di far cavalcata a

Casola, ma ci vuole un pretesto. Non ci è facile capire in che consistette il fatto della recusazione

di pagar i contributi da parte dei Ceroni.

Sembrerebbe che questi non avessero accettato l'imposizione di certe tasse e che si fossero resi

rei di alcune condanne capitali nei confronti di Alberto Orsi e Giovanni Marocchi, due imolesi che

per motivi sconosciuti erano stati fatti impiccare dai Ceroni dopo regolare processo.

Le accuse sono formulate al presidente di Romagna, Mons Carretti Orlando di Savona, dallo stesso

Ramazzotto. Mons. Orlando era appena entrato nell'ufficio e non conosceva minimamente l'animo

di Ramazzotto; credette tutto sulla parola e diede ordine al capitano Chiappino Vitelli di unirsi ai

fanti di Guido Vaina per cavalcare contro Casola e ridurre all'ordine i Ceroni. Ramazzotto però, per

ovvie ragioni, non volle apparire come attore effettivo di questa spedizione e si limitò a fornir Guido

Vaina di armi e munizioni.

La spedizione si mosse il venerdì 4 Dicembre 1522 e si svolse come racconta il Mita. Notiamo solo

che il capitano di Casola in quel periodo era Pantaleone di Giovanni Pantaleoni di Imola che però

non pare entrare minimamente nella vicenda nè per sventare la minaccia delle armi nè per rendersi

mediatore col Vitelli. Il tutto si risolse nel migliore dei modi per i nostri Ceroni e Guido Vaina dovette

riprendere, scornato, la via di casa. Forse se il Vitelli non avesse avuto quei duecento e passa cavalli

di cui parlano le memorie di Tossignano, Guido avrebbe anche potuto sperare in un colpo di mano

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forzando la situazione; ma capì che non era il caso e, se vogliamo dar credito al Mita, era anche

fresco di un certo terrore per aver scampato la vita per pochi centimetri. Infatti dalla Torre di

Galbetto, che non era altro che la porta (detta la Purtaza) del paese, Antonio Ficchi, detto Galbetto,

gli aveva scoccato un colpo di balestra da maestro. Purtroppo il dardo aveva solo sfilato via dalla

testa il cappello al Vaina che sul guado del rio Casola (fra il ponte delle Poggi e la casa di Pietro

Tabanelli, esattamente dove ora si trova il nuovo palazzo delle sorelle Masini) cercava di incitare i

suoi all'attacco. I Ceroni si erano dunque rinserrati nelle case che si affacciavano sul rio pronti a

fare difesa ad oltranza a tutta la soldatesca. Fortunatamente Chiappino Vitelli fu un uomo di cervello

e volle prima trattare con i Ceroni che lo convinsero delle accuse ingiuste. Gli ostaggi: Gian Pietro

Ficchi e Babino Soglia sono due capitani dei Ceroni. Per pochi giorni sono custoditi nella rocca di

Riolo Secco e quindi restituiti sani e salvi ai Ceroni

- 36 -

Ramazottus, et Vaina ira flagrantes, quod

primæ amborum insidiæ Ceroniis nil attulerint

detrimenti, novas in dies sine effectu struunt

machinationes. Coeterum abeunte e vivis Adri-

ano Sexto Pontifice Maximo XVIII. Kal. Octobris

anno 1523, qua tempestate apud Flaminienses

ex conditione temporum jus omne erat in armis,

iidem, quos supra dixi, postquam dolis viam ob-

septam vident, bellum ut creditur, per speciem

negati vectigalis, ut supra significavimus, aperte

moliendum censent.

Ramazzotto e Vaina scoppinado di rabbia perchè

i piani di entrambi non avevan fruttato alcun

danno ai Ceroni, si misero, ma inutilmente, a tra-

mar nuove insidie. Essendo morto il 14 Settem-

bre dell'anno 1523 Papa Adriano VI, in Romagna,

data la situazione del momento, si ricorreva alle

armi per ogni questione. Ramazzotto e Vaina ve-

dendo che la strada dell'inganno non era prati-

cabile, decisero di muover guerra apertamente

ai Ceroni con il pretesto di quelle tasse di cui si

è accennato.

NOTE AL PUNTO 36

Lo smacco subito a Casola al contrario di calmare i bollenti spiriti di Ramazzotto e Vaina ne fomentò

le ire. I Ceroni erano un osso duro anzi il più duro della zona visto che ancora nessuno li aveva

messi in ginocchio. L'anno 1523 si aprì, si può dire, con la visita del Presidente della Romagna,

sempre l'Arcivescovo di Avignone mons. Orlando Carretti, a Imola. Non credo che in quel frattempo

nè il Ramazzotto nè il Vaina avessero modo di riproporgli l'affare dei Ceroni. Del resto mons. Or-

lando si fermò poco ad Imola. Guido Vaina in Aprile parte per Roma dove ha un incontro con il

Papa. Non sappiamo bene se il Papa avesse qualcosa da rimproverargli, ma è probabile, visti i

continui omicidi che insanguinavano Imola e dintorni. Fu l'ultimo colloquio che Guido ebbe col Papa.

Di li a pochi mesi infatti Adriano VI morì. La notizia arrivò da noi dopo un paio di giorni dalla morte

avvenuta a Roma il 14 Settembre 1523. Si apriva un nuovo periodo di Sede Vacante e ciò significava

che ognuno si faceva vendetta e giustizia a piacimento. Le cronache elencano un numero impres-

sionante di delitti compiuti in città e nei paesi vicini. Anche a Tossignano ci furono morti per un

assalto dei guelfi al paese. Si uccideva, si bruciavano le case degli avversari, si rubava a man bassa

soprattutto.

E a Casola?

Qui si rimaneva fermi alla causa dei guelfi e si aspettava che prima o poi il magnifico messer

Giovanni Sassatelli venisse a ripristinar l'ordine e all'occorrenza i Ceroni sarebbero scesi. Tipico il

caso successo ad Imola a un povero montanaro di quassù che era sceso per vendere il carbone: "li

fu domandato non so da chi che fa e che fanno quelli di Ceruno e lui respose: "non fanno altro se

non gridare Cagnazo Cagnazo!" (Dal diario di G.B.Cattani-Archivio Sassatelli). Mal gliene incolse

perchè come fosse lui un Ceroni lo pestarono ben bene con con i bastoni e con il calcio dei fucili

portandolo da Guido Vaina. "Como fu christo nante Pilato". La tensione è dunque alta. Per giunta il

24 Ottobre verso le parti di Cotignola, dove sembrava ci fosse il Cagnaccio, i ghibellini diedero

caccia ai guelfi uccidendone una decina e strappando loro due bandiere e due tamburi. Imbaldanzito

da questa vittoria Guido Vaina sempre affiancato e questa volta in modo scoperto dal Ramazzotto,

decide di dar nuovo assalto ai Ceroni di Casola e in fretta e furia obbliga il consiglio ad approvare

una tassa per armare i difensori della città, ma in realtà per armare la cavalcata che intende fare

contro Ceruno. In gran segreto infatti, si fa giurare dai consiglieri di non dire parola sulle sue

intenzioni che sono appunto di incendiare il paese di Casola Valsenio e di ridurre all'obbedienza i

Ceroni. Tutti giurano e così il giorno dopo che era il martedì 27 Ottobre, la masnada si mosse da

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Imola che non era ancora giorno, tagliando verso i monti per raggiungere la vallata del Senio come

si dirà in seguito.

- 37 –

Guido igitur quatuor millium Ghibellinæ factio-

nis armatorum acie contracta, quos inter

agnitæ sunt gentes diversarum supra quadra-

ginta quatuor familiarum, quæ plurimæ volun-

tarie confluxe-rant, visique experti milites du-

centi ferrea tormenta plumbea glande in-

structa ferentes, quos e Ramazotica cohorte

secreto acciverat, paratisque universis, quæ

ad expugnationem, bellumque ciendum oppor-

tuna videbantur, VI. Kal. Novembris eodem

adhuc vertente anno 1523 Forocornelio citato

profectus agmine Casulam recta pergit, et

quaqua armata multitudo pertransit, agrestes

obvios una secum proclamare compel-lat: Vi-

vat, Vivat Guido, qui Ceronios perditum vadit.

Guido Vaina dunque armò una schiera di 4.000

Ghibellini nella quale si potevano numerare

componenti di ben 44 casati diversi, che parte-

cipavano per lo più spontaneamente, ma non

c'erano che 200 soldati (veramente) addestrati

alla guerra e armati di archibugi a palle di

piombo (ferrea tormenta plumbea glande in-

structa!) che egli aveva fatto venire di nascosto

dagli arsenali di Ramazzotto.

Fatto ogni preparativo per l'espugnazione e la

guerra, il giorno 27 Ottobre dello stesso 1523

partì da Imola e,per la strada più corta, rag-

giunse Casola. Lungo la traversata i soldati co-

stringevano i contadini che incontravano a gri-

dare con loro:"Evviva Guido che va a stermi-

nare i Ceroni!".

NOTE AL PUNTO 37

Inizia col capitolo 37 la pagina epica delle gesta dei Ceroni che il Mita ci riporta in un latino alla

Tacito intingendo spesso la penna nel più genuino entusiasmo. Noi dovremo tuttavia , per amor del

vero, sfrondarla dai troppi allori, ma soprattutto ridimensionare le cifre non suffragate da documenti

sicuri. Da dove attinge il Mita per questa storia? Certamente dai quaderni di Tossignano, come

confermerà anche il Linguerri nel suo libretto, ma purtroppo di detti quaderni (Specie di storia locale

conservati per lunghi secoli negli archivi di quella comunità) non c'è attualmente più traccia. Altra

fonte dovettero essere quelle tradizioni scritte od orali che lo storico consultò presso i Ceroni del

suo tempo e alle quali accenna nella prefazione dell'operetta; ma si sa, le tradizioni ingigantiscono

sempre per un verso o l'altro e alle cifre su riportate dobbiamo fare un po’ di sconto.

Penso si possa accettare quella dei 200 soldati ben addestrati, ma ridurre a un 300 o 400 persone

tutti gli altri. Conoscendo come andavano le cose in occasione di "Cavalcate" o saccheggi, possiamo

ben credere che all'armata vera e propria si siano aggiunti un bel numero di sciacalli pronti a far

man bassa di ciò che i soldati potevan lasciar indietro. A questi anche i soliti curiosi.

Che strada avranno preso Vaina ed i suoi? Certamente la strada carreggiabile che, oltrepassato il

Santerno, si inerpica verso Pediano e Mazzolano per poi scendere nella piana di Gallisterna. Il 27

Ottobre di quell'anno era un Martedi.

Da "Ricordi" di Ser Battista dei Cattanei di Toranello (biblioteca di Imola) tratto dal libro di S.

Bombardini "Il diavolo nel tamburo":

- adi 27 d octovere 1523 el marte matina a lalba

Recordo como guido vaino insieme cun la parte gubellina ando a casula de valde senno e comen-

zorno a brusare case asai e el primo che apizo el focho in casula fu fra zuano antonio de dondo

brocardo e dapoi che hebene brusato tutto quello che parsene a lori como veri e legiptimi traditori

brusorno la giesia de santa lucia de casula e una altra giesia da pogio e la casa del comune dela

villa da casula e non sacii de mal fare operare e robare presene ardire de andare a ciruno...-

27 ottobre 1523, all'alba del martedì.

Guido Vaini e i ghibellini andarono a Casola Valsenio e cominciarono ad incendiare case in gran

numero e il primo che appiccò il fuoco in Casola fu frà Giovanni Antonio di Dondo Broccardi e dopo

che ebbero arso tutto ciò che parve loro, come veri e legittimi traditori incendiarono la chiesa di

Santa Lucia di Casola, un'altra chiesa a Poggio e la casa del Comune della villa di Casola, quindi,

non sazi di compiere del male e di saccheggiare, ebbero l'ardire di dirigersi a Ceruno.

-secondo che se disse ne muri circha da quaranta o cinquanta e de quilli da ceruno mori tolomeo e

dui o tri altri compagni cun lui e notta che quilli da ceruno zoe rafaello insieme cun li altri messene

in fuga la parte gubelina e li tolseno doe boche da focho zoe dui sagri (26) e uno tanburo el quale

tolseno lori suso quello de cudignola a quilli de messer zuano sassatello e anchora quilli da ceruno

li tolseno una bandiera e multi butorno via li schiopi e le arme e veste e scharpe per fugere de

modo e sorte che se non era guido vaino erano tutti tagliati in pezi perche lui senpre mai secondo

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che se disse se retirava conbatendo e cusi furni fugati da li cerunischi fino lontano uno miglio a

tauxiniano...

A quanto si disse, ne morirono circa quaranta o cinquanta, mentre fra i Ceronesi morì Tolomeo e

altri due o tre suoi compagni e nota che quelli di Ceruno, cioè Raffaello e i suoi, misero in fuga la

parte ghibellina e le tolsero due bocche da fuoco, cioè due sacri e un tamburo, che essi avevano

preso a quelli di messer Giovanni Sassatelli in quel di Cotignola, e anche una bandiera, e molti

buttarono via gli schioppi, le armi, le vesti e le scarpe per fuggire, in modo che se non c'era Guido

Vaini sarebbero stati fatti a pezzi tutti perchè lui, a quanto fu detto, si ritirava sempre combattendo.

Così furono inseguiti dai Ceronesi fino a un miglio da Tossignano.

-e nota che cezaro de traiano brochardo fu ferito de septe ferite e multi furni presi apresuni e li

bravi da jmola zoe vangelista brochardo sipione tartagno enea de guido vaino christofano zavatiero

e jacomo e michele de vaino e multi altri che tuta la speranza de guido era in loro tuti fugirno e lo

abandonorno e lui quasi remase in le peste e se volesse scrivere ad plenum como fu ad plenum

questa rotta non poteria perche non era li presente per audito scrivo e li cerunischi cridavano

cagnazo o ceruno o ramazotto suficit.

Sappi che Cesare di Traiano Broccardi ebbe sette ferite e molti furono presi prigionieri e i più spa-

valdi d'Imola, cioè Evangelista Broccardi, Scipione Tartagni, Enea di Guido Vaini, Cristoforo ciabat-

tino e Giacomo e Michele Vaini e molti altri, sui quali si fondava tutta la speranza di Guido, fuggirono

in massa, abbandonandolo, cosicchè lui rimase quasi in pericolo di vita e se volessi descrivere

pienamente come fu completa questa rotta non potrei perchè io non ero presente e scrivo per

sentito dire. I Ceronesi gridavano "Cagnaccio Cagnaccio, e Ceruno, o Ramazotto!" Basta.

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- 38 –

Hæc ubi Ceroniensium gentibus initio relata

sunt, plurimi eorum unanimes Raphaelem Bru-

norii, qui Patriæ Arci præsidebat, adeunt, et in

illum tamquam imminentium malorum causam

indignabundi verba aspera vertunt, necem ni

primus omnium in confertos hostes ipse irruat

militan-tes. Raphael gnarus militiæ, ejusque

periculis assuetus suis se placidum insinuans,

eos bono animo esse suadet, neque rem in

summo periculo, ubi imbellis turba veretur,

monet: neque ausuros per ardua, atque iniqua

loca, subire latrones verius, quam hostes

justos cum majoribus, ut ajunt, tormentis, se

opinari obtestatur: quod si conentur, vel parva

manu prohiberi, aut deturbari posse, cum ipsa

asperitas loci insuetos avertere, et Deus Opt.

Max. qui primus agens est, plectere sontes

maxime soleat. Neque multitu-dinem adven-

tantium timendam ait, dum magis industria,

quam numero superantur hostes; Sæpe enim

ante adversus multitudinem a paucis strenuis

bene pugnatum scire; idque Deo propitio fu-

turum nunc se confidere, si solita animi, cor-

porisque virtute utantur; insuper et auxiliarios,

quos possint periculorum socios adsci-scant,

ut arte sociata viribus multitudinem haud as-

suetam montibus parva manu superent, fu-

gientesque, asperrima quæque ad laborem,

periculumque subeundum ipse deposcens.

Hæc audientes approbant Ceronii, universo-

rumque eadem vox fuit pro Patria, pro liberis,

pro uxore, insuper et pro gloria, dum verbis

Raphaelis facta respondeant, ex indicando sibi

loco impigra manu se se pugnaturos usque

dum aut opprimantur, aut vincant. Itaque ex

composito cunctis in unum coeuntibus Cero-

niis, pagum turrimque eorum muniunt, eo pre-

tiosiorem suppellectilem convehunt, subsidia-

ria auxilia e montibus evocant, loca dispo-nunt

insidiis; foeminas in unum redactas intra

domum arci proximam strue lignorum sub-

strata claudunt, ut si forte hostes victoria læta-

bundi vicum occupent, igne mox per custodes

immisso, foeminæ ad unam, ne adver-sariis

ludibrio existant, incendantur. Et quamquam

Ceronium montem universi ferme ex suis, re-

liquisque accolis concesserant, pars tamen in-

solita rerum bellicarum trepidans exinde pro-

ximos montes occupaverant, ut per occasio-

nem vel eo se se abderent vel ad summa mon-

tium cacumina refugerent. Itaque vix dum tre-

centi ex Ceroniis, auxiliariisque sociis armis in-

structi Raphaelem sequun-tur, quibus trifariam

divisis, unicuique parti proprium assignavit

munus.

Non appena i Ceroni ebbero notizia di tutto ciò si

recarono in massa da Raffaele (Brunori) che cu-

stodiva la Rocca (di Ceruno) e pieni di sdegno,

come fosse lui la causa prima di quella immi-

nente sventura, lo affrontarono con aspre parole

minacciandolo anche di morte se non si fosse per

primo avventato contro i nemici in armi. Raf-

faele, pratico di guerra e ben uso ai rischi delle

armi, li tranquillizza dicendo che non bisognava

valutar il tutto così tragicamente come temeva il

popolino. Li rassicura affermando d'essere con-

vinto che quel branco di briganti più che veri ne-

mici, non avrebbero osato inoltrarsi in quei luo-

ghi erti ed impraticabili con le artiglierie pesanti,

ma se lo avessero tentato, sarebbe stato possi-

bile fermarlo e disperderlo con un pugno di uo-

mini grazie alla stessa asperità del luogo del

quale quelli non sono pratici e (pensa) infine che

Dio Onnipotente, prima causa d'ogni cosa, è so-

lito punire in modo tremendo gli ingiusti. Racco-

manda di non aver paura di quella gentaglia che

si avvicina perchè, dice, i nemici si vincono di più

con l'abilità che col numero. Sapeva come

spesso nei tempi antichi con pochi, ma valorosi

soldati si erano sostenute vittoriose battaglie

contro una moltitudine di nemici e afferma di es-

sere fiducioso che, con l'aiuto di Dio, ciò sarebbe

accaduto anche in questa occasione purchè (i

Ceroni) si fossero impegnati con il consueto va-

lore del cuore e del braccio. Raccomanda che si

radunino amici nel maggior numero possibile per

compagni di battaglia in modo che unita l'abilità

alla forza sia possibile con piccola schiera battere

la preponderanza numerica degli avversari ine-

sperti di questi luoghi di montagna e così metterli

in fuga. Per conto suo egli era pronto ad affron-

tare qualsiasi prova e a sostenere fatiche e peri-

colo. I Ceroni accolsero con approvazione queste

parole e gridarono ad una voce di voler combat-

tere valorosamente, se i fatti daran ragione alle

parole di Raffaele, per la patria, i figli, le mogli e

la gloria fino alla vittoria o alla morte, sceglien-

dosi anche il luogo di battaglia. Deciso questo, i

Ceroni tutti uniti si mettono a fortificare il villag-

gio e la rocca dove ammassano tutte le loro mas-

serizie più preziose. Chiamano dai monti i loro

amici in aiuto, preparano il luogo degli agguati,

raccolgono insieme le donne in un'abitazione

presso la Rocca e ve le rinchiudono dopo aver

messo sotto la casa delle cataste di legna che.

nel caso i nemici avessero occupato il villaggio, i

custodi avrebbero incendiate, bruciando così le

donne piuttosto che lascirle come oggetto di lu-

dibrio per i nemici.

Benchè quasi tutti gli amici chiamati in aiuto fos-

sero accorsi al monte dei Ceroni (Ceruno) tutta-

via una parte non usa alle armi e paurosa aveva

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NOTE AL PUNTO 38

Al N. 38 giganteggia la figura di Raffaele Brunori "Defensor Patriae". Costituisce un pò la figura del

protagonista quasi il Mita avesse tracciato, senza avvedersene, la trama di un piccolo romanzo nella

vicenda Ceroni. L'eroe che per amore si è messo contro i propri familiari e dai quali è emarginato e

offeso che però nel momento del pericolo si rivela il salvatore di tutto il parentado e strumento della

vendetta divina contro l'usurpatore. Certamente Raffaele rimane nella tradizione dei Ceroni la figura

più significativa e, dopo questo fatto d'arme, l'indiscussa guida. Il particolare delle donne rinchiuse

e pronte ad essere sacrificate ci documenta a sufficenza a quale spirito di combattimento aveva

saputo portare i suoi Ceroni.

La cifra di 300 (fra i nostri e gli alleati) è accettabilissima. A tanto assommava infatti la forza militare

di Ceruno. Quanto ai soci abbiamo più avanti notizia di un certo Francesco da Pietramala capo di

balestrieri che raggiunge Ceruno con 40 armati. Vista la distanza, è da pensare che per questi

preparativi fossero occorsi diversi giorni. La spedizione del Vaina dunque non doveva aver colto i

nostri di sorpresa, cioè solo con un giorno appena di anticipo, ma o da giorni ne era trapelato

sentore o quei balestrieri erano già nei pressi di Ceruno fra i contingenti di armati che (cfr nota al

N.36) il povero carbonaio del 17 Settembre dice si vanno ammassando verso Ceruno. In realtà i

Ceroni, dall'anno precedente non avevano deposto nè la paura del Vaina e del Ramazzotto, nè le

armi.

- 39 –

Ficchii, quorum rationibus supra narratis aba-

lienati ab Raphaele animi quamplurimum

erant, non satis in re dubia eidem fidentes, Ar-

cis, Pagique tutandi suscepere munus; et ut

periclitantibus subsidio esse possent, Franci-

scum a Petra mala virum impigrum, et exper-

tum militiæ socium, qui cum quadraginta bali-

stis armatis, animis, corporibusque rigentibus

ad eos accesserat, assumunt. Joannes Baptista

Ravalei filius cum sexaginta non longe a Pago

ad occidentem inter virgulta, et saltus ad obsi-

denda itinera latitat intra vallum. Raphael cum

centum triginta ex strenuioribus prope Meletæ

locum secus monticulum, et arbores ad clau-

dendum regressum delitescit; et Luciam

uxorem, quæ Ramazotto, ut dixi, genita erat,

prælonga hasta armatam, et una in hostes

propriumque genitorem si forte, uti fama erat,

adesset, irruat, adducit, et universi adventan-

tes hostes dispositis speculatoribus, præsto-

lantur.

I Ficchi che per i motivi ricordati più sopra si

eran ormai alienati dall'amicizia con Raffaele, in

quella occasione tanto pericolosa si fidavano

ben poco di lui. Avevano perciò scelto il compito

di presidiare la Rocca ed il villagio (di Ceruno).

Pronti poi a dar man forte ai combattenti, ave-

vano ingaggiato Francesco da Pietramala uomo

valido ed esperto nelle armi che era accorso con

40 vigorosi e coraggiosi balestrieri. Gian Batti-

sta figlio di Ravaleo (Bartolomeo detto Rava-

glia) con sessanta sol- dati si nascose nella bo-

scaglia come in una trincea, verso ovest, poco

lontano dal villaggio, allo scopo di tendere ag-

guato sulla strada dei nemici. Raffaele poi, con

130 dei più valorosi si appostò presso Meleta

ripa- rato dal colle e dagli alberi per tagliare la

ritirata. Aveva preso con sè la moglie Lucia, fi-

glia di Ramazzotto, che si era armata d'una

lunga picca pronta a gettarsi sui nemici e an-

che sullo stesso padre qualora, com'era presu-

mibile, l'avesse incontrato. In questo modo, le

sentinelle al loro posto, aspettavano l'arrivo dei

nemici.

NOTE AL PUNTO 39

Siamo convinti che tutti questi preparativi dovevano richiedere più tempo di 24 ore e che quindi o

una spiata aveva messo in allarme i Ceroni o già da tempo meditavano qualche intervento a favore

di Cagnaccio ed erano già in armi. Sulla disposizione del piano difensivo il Mita ha certamente

attinto dalla voce dei più vecchi che in seguito tramandavano nei particolari questa vicenda gloriosa.

Il teatro di battaglia è ben individuabile: a sinistra, verso nord di Meleta e verso sud-sud ovest il

bosco dello Smuraglio o meglio la cresta del monte che lo sovrasta. La strada per Ceruno, atta a

preso la via dei monti vicini in attesa o di ricon-

giungersi con i propri familiari o di cercare

scampo sulle vette. Appena trecento fra Ceroni e

soci, tutti forniti di armi, seguirono Raffaele che

li divise in tre schiere assegnando a ciascuna il

suo compito particolare.

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trainarvi grossi pezzi di artiglieria, è praticamente quella attuale che dal piazzale della chiesa scende

verso il fiume per poi inerpicarsi verso la Soglia. Di qui si saliva, più o meno come adesso, tagliando

la valletta dei Pavarotti. Raffaele e Ravaglia hanno dunque ideato di prendere a tenaglia il grosso

del nemico appena a metà della valletta.

- 40 -

Igitur v. Kal. Novembris, quo die Apostolis Si-

moni, et Thadæo sacrum anniversarium erat,

Guido cum instructa acie Senii planitiem occu-

pare, lateque terrorem agrestibus incutere visi-

tur: præmissisque ad Casulæ vicum explorato-

ribus, ubi deserta habitatoribus tecta præsentit,

eo cum tota armatorum manu properus accedit,

et quæ inter festinationem aut exportari, aut oc-

cultari a nostris nequiverant, ea militibus initio

diripienda permittit. Inde suorum agmine bipar-

tito, partem expeditioribus armis instructam

ante præire jubet, et ut primi omnium flumine

supra pontem trajecto Ceronium montem dispo-

sitis ordinibus subeant, loca præoccupent, et

vici oppugnationem adoriantur, mandat; se se

cum tormentis muralibus, ac altera aciei parte

ad expugnandam arcem, tectaque diruenda pro-

xime accessurum. Mox igne subjecto ædes Ce-

ronias Casulæ palatim et circa ad octoginta in-

cendit, damno juxta ac terrori nostris ut esset,

quod tamen haud parum fuit in hostes irrita-

mentum.

Il 28 Ottobre, festa degli apostoli S. Simone e

Taddeo, si vide Guido Vaina, con truppa schie-

rata, occupare la piana del Senio e seminar

ovunque terrore fra quei contadini. Dopo aver

mandato avanti esploratori fino alla borgata di

Casola e saputo che gli abitanti ne avevano ab-

bando- nato le case, l'occupò con la truppa e per-

mettendo così fosse preda dei soldati ciò che per

la fretta i nostri non avevan nascosto o portato

via. A questo punto Guido divise in due parti il

suo esercito ordinando a quelli d'armatura leg-

gera di precederlo attraversando il ponte sul

fiume e affrontando in ordine la salita del monte

fino a Ceruno dove dovevano cercar di espu-

gnare il villaggio, lui subito li avrebbe seguiti con

l'altra parte dell'esercito e coi cannoni per atter-

rare la Rocca e le case. Per recar danno e incu-

tere terrore ai Ceroni cominciò quindi ad incen-

diare le case che avevano in paese e furono

un'ottantina, ma questo atto servì ad eccitar an-

cor di più l'ira dei Ceroni contro i propri nemici.

NOTE AL PUNTO 40

Rimandiamo a questo punto a ciò che il già citato Gian Battista Cattani scrive nel suo diario (Archivio

SassatelliPresso Bibl.Com. d'Imola) a questa data.

"Adi 27 d'octovere 1523 el marte matina a lalba.

Recordo come Guido Vaino insieme con la parte gubellina andò a Casula de Val de Senno e comen-

zorno a brusare case asai e el primo che apizò el focho in Casula fu fra Zuan Antonio de Dondo

Brocardo e dapoi che ebene brusato tutto quello che parsene a lori, come veri e legiptimi traditori

brusorno la giesa de S. Lucia de Casula e una altra giesa da pogio e la casa del Comune de la villa

de Casula e non sacii (sazi) de mal fare, operare e robare presene ardire de andare a Ciruno ..."

È una notizia di prima mano. Il Cattani, di parte guelfa, è per i Ceroni, ma la sua testimonianza va

presa tranquillamente perchè conosce a menadito tutti i personaggi più ragguardevoli che presero

parte alla spedizione e può citar nomi e imprese con la meticolosità d'un cronista. Impariamo così

che oltre tutte quelle case il Vaina fece dar fuoco anche alla chiesa di S. Lucia dove si erano appena

sistemati i padri Domenicani e alla Chiesa di Sopra (giesa da pogio) e alla casa comunale. Il Cattani

però registra tutto sotto il giorno 27, cioè al momento della spedizione da Imola, e sembra far tutto

concludere in una giornata; in realtà la traversata con quei grossi pezzi d'artiglieria ha richiesto

molte ore e quindi ci par attendibile accettare il 28 come giorno della battaglia.

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Maximam montis partem arduo, difficilique

ascensu subie-rant adversarii, cum Ravaleus

ex latebris erectus pauca tormenta in antesi-

gnanos hostes tonitru displosit, ac repente oc-

culitur. Consistere parumper Ghibellini, dein

missilium globorum tormenta, adversus dispo-

sitas insidias displodunt, eoque mox animum

dirigunt, et corpus. At illico Ficchii dolia plena

lapidibus superne devolventes in hostem, per-

terrefactam, læsamque aciem dissipant. Pro-

tinus Raphael a tergo, et sinistro latere exil-

iens, primum clamore omnium sublato exterri-

tat ipse hostes, dein proximos quosque cir-

cumfre-mentibus missilium globorum fulmin-

ibus petit, vulnerat, necat. Eodem tempore Ra-

valeus e latebris a fronte cum omni comitatu

prosiliens in propinquiores, qui jam tormenta

disploderant, atque diffundebantur doliorum

pavore, inclamata nece acri impetu irruit, et

plumbeas glandes, telaque varii generis jacit.

Ghibellini infesto loco insidiis circumventi, vul-

nerati-que non sustinent impetum, sed terga

dant hostibus, et per aspera, et insolita loca,

non secus quam torrentis modo ruunt cæci:

nulla præcipitia, nulla invia, nullæ rupes

obstant, nil præter hostem metuunt: Ita pleri-

que præci-pites per vastam altitudinem in flu-

men prolapsi exanimantur. Nostri hostes jam

fugientes insequuntur, eosque natura etiam

loci adjuvante post ingentem cædem fuderunt,

profligarunt, et majori pro parte delerunt.

Intanto questi nemici erano giunti quasi alla

cima del monte su per una salita erta e difficile,

quando Ravaleo, uscendo dall'agguato sparò

con gran fracasso addosso a loro un pò di arti-

glieria. I Ghibellini s'arrestarono, sparando di

rimando contro gli assalitori e si apprestarono

ad inseguirli, quando dall'alto del colle ecco

precipitare botti (da vino) ripiene di sassi, fatte

ruzzolare appositamente dai Ficchi. Ciò spa-

venta e mette in fuga la turba.

All'improvviso ecco uscire dal fianco sinistro del

monte Raffaele coi suoi che con alte grida get-

tano il terrore nei nemici fulminando i più vicini

con archibugiate. Nello stesso tempo dà fuori,

con tutti i suoi, Ravaleo dall'ag-guato e urlando

minacce di strage contro i più vicini, con già gli

archibugi scarichi, e presi dal panico per il fatto

delle botti, scarica (sui fuggiaschi) archibugiate

e frecce. I Ghibellini feriti ed accerchiati da ogni

parte non riescono a sostenere l'urto; fanno

dietrofront e come un torrente impetuoso, bal-

zando su dirupi e luoghi per loro sconosciuti, si

precipitano verso il basso. Non vi sono precipizi,

balzi, rupi che li trattengano. Non hanno altra

paura che quella dei nemici (Ceroni). Fu così

che la maggior parte precipitò nel fiume (sotto-

stante) da grande altezza e vi perì.

I nostri, grazie anche alla particolare natura del

posto, li incalzarono nella fuga menando strage

e sbaraglian doli.

NOTE AL PUNTO 41

Nelle note precedenti abbiamo opinato che il Mita abbia attinto i particolari della famosa "Battaglia

delle botti" (28.10.1523) dai vecchi Ceronesi del suo tempo ai quali i padri li avevano trasmessi

con appassionato ricordo. Sarà questo infatti l'ultimo segno di unità della Consorteria Ceronese. A

questo fatto d'arme segue l'inarrestabile decadenza dei Ceroni che si lacereranno in faide fratricide

come vedremo. Fra i vecchi consultati, primo fra tutti, va certamente ricordato don Sebastiano

Carretti, Arciprete di Fontanelice, alla cui scuola il Mita mosse i primi passi sulla strada del sapere.

Don Sebastiano era una figura singolare. Dotato d'una certa cultura che gli permetteva di reggere

discussioni con i più versati in teologia, per aver contrastata l'affermazione di un frate (fra Cornelio

da Codogno) che in una predica di quaresima a Fontana aveva assicurato che Adamo ed Eva ave-

vano peccato mangiando "un fico", ebbe noie tali da parte dei frati Serviti da essere denunziato

all'Inquisizione. A Imola don Carretti subì un severo processo in cui si fece anche uso degli strumenti

di tortura secondo l'uso del tempo, ma dal quale ne uscì prosciolto dall'accusa di eresia e potè

tornare a far il parroco a Fontana. Ebbene, da don Sebastiano il Mita non imparò solo i primi rudi-

menti della grammatica e del latino, ma anche le affascinanti storie dei nostri paesi e in specie

quelle dei Ceroni con la descrizione minuziosa di questa ormai famosa battaglia "delle botti" che

don Sebastiano si sarà sentito ricordare infinite volte dai vecchi della famiglia Rinaldi Ceroni, abi-

tanti al Casoletto, o della famiglia Ravaglia, abitante ai Paverotti.

Egli, don Sebastiano Carretti, era stato parroco di Pagnano dal 1563 per alcuni anni e quella strada

che dal ponte della Soglia costeggia la rupe sul fiume, a piedi o a cavallo, l'avrà percorsa forse ogni

giorno. E così salendo su per la strada, avrà fissato a sinistra i campi della Soglia e a destra il

pauroso balzo che fu tomba a tanti ghibellini terrorizzati.

Ecco spiegata la vivacità del racconto, pari a quella di un inviato particolare.

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Guido equo insidens more cataphractorum ar-

matus vixdum ponte trajecto, qua fugam cernit

suorum cum præsidio omni occurrit; et stare

primo, deinde redire ad conflictum jubet; pavo-

rem ex paucis agrestibus conceptum, et turpem

ipsorum fugam increpans. Minæ exinde erant, in

perniciem suam cæcos ruere, ni dicto parerent:

postremo dat signum subsidiariis, ut primos fu-

gientium cædant, turbam insequentium ferro,

vulneribusque in hostes redigant, se cum tor-

mentis majoribus subsidio per ardua, utcumque

possit properaturum. Hic major timor minorem

vicit: ancipiti coacti metu primo consistere,

deinde et ipsi se verterunt ad pugnam: sed ite-

rum urgentibus ab alto Ceroniis, et Ficchiis sub-

sidiariis, e vico paulatim erumpentibus, quo nu-

merus eorum amplior vero videretur, magnis

clamo-ribus, ac tonitru tormentorum valle cir-

cumsonante, saxisque in proclive pondere suo

graviter provolutis in hostem, tantus terror

aciem adversariorum incessit, ut iterum terga

darent, atque integrata fuga cominus, eminu-

sque a nostris petebantur telis. Nec potuit unus

Guido inconditam, trepidamque turbam ulterius

infesto loco retinere, ne fugeret, dum neque su-

stinere alii super alios inferentes se se valebant.

Haud parum abfuit, quin ipse Guido extrema in-

dignatione perculsus tor-menta majora in suos

turpiter fugientes explodere librato-res cogeret,

et necem, quam nostris paraverat, suis co invito

sic terga dantibus inferret: iram tamen, qua po-

tuit ratione cohibet, et a cunctis desertus certa-

men, periculumque declinare compellitur. Ita-

que universa, quæ ad expugnationem advexe-

rat deserens, citato cursu invios colles Tussigna-

num versus subit; cæteris ferme universis per

arva plena retro, qua venerant, se se recipienti-

bus.

Guido Vaina (seduto) sul suo cavallo e tutto ri-

coperto d'una armatura da corazziere, ha ap-

pena attraversato il ponte (della Soglia) quando

si accorge della precipitosa fuga dei suoi. Si getta

subito contro di loro con tutta la guardia di scorta

ordinando di fermarsi e tornar a combat-tere.

Rinfaccia loro di aver avuto paura di quattro con-

tadini dandosi vergognosamente alla fuga; li mi-

naccia di sterminarli tutti se non tornan indietro

e dà ordine alla guardia di passare per le armi i

primi che cercano di fuggire e di spinger di

nuovo la turba al combattimento intanto che con

quelle grosse artiglierie non verrà tosto a portar

manforte in cima all'erta. Il timore più grosso

vinse il minore. Si fermarono e tutti si volsero di

nuovo per combattere. Ma ecco che i Ceroni in-

calzavano di nuovo e quegli alleati dei Ficchi

scendevano a gruppetti, per far credere d'essere

un maggior numero, dal villaggio (di Ceruno) gri-

dando selvaggiamente. La valle rimbombava per

il tuono dei cannoni e grossi massi ruzzolavano

lungo il declivio piombando sui nemi ci. Gli imo-

lesi ne furono tanto spaventati che rin- novarono

la fuga bersagliati anche da lontano dalle frecce

dei nostri.

Guido Vaina non riuscì da solo a trattenere la

turba terrorizzata e disordinata che fuggiva e

dalla rabbia mancò poco che costringesse i can-

nonieri a sparare sui fuggitivi rivolgendo contro i

suoi la strage che avevano preparato per i nostri

(Ceroni).

Frenò come potè l'ira e, rimasto solo, dovette riti

rarsi dalla battaglia. Lasciò sul posto quanto ave-

vano portato per l'assalto e attraversando le ri-

pide colline si portò a Tossignano. Gli altri, se-

guendo il fondovalle,fecero ritorno alla loro città

da dove erano partiti.

NOTE AL PUNTO 42

La descrizione della rotta degli Imolesi e l'ira di Guido Vaini è degna d'un Tacito o di un Giulio

Cesare. Traspare la segreta gioia di vedere il Vaini umiliato e la sua impresa banditesca non solo in

fumo, ma ritorcersi in proprio danno.

L'arrabbiato capo ghibellino che in arcione corre incontro ai suoi in fuga imprecando e minacciando

ci conferma a sufficenza l'orgoglio e l'impetuosità di questi caratteri singolari di capitani di ventura

del XVI secolo. Non è improbabile che un qualche sventurato ghibellino sia rimasto vittima dell'ira

di Guido impotente a frenar la fuga.

L'entrata in campo dei 40 balestrieri di Pietramala che scendono a gruppetti con urla selvagge

dev'esser stata di indiscusso effetto. La posizione offriva loro buon gioco per bersagliare i fuggiaschi

con colpi di balestra. Verso questa nuova insidia deve essersi rivolto il Vaini salendo in tutta fretta

verso Meleta col suo bel cavallo.

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Ficchii nullum ulterius imminere vico certaminis

periculum rati eductas e custodia foeminas, quo

fuga, atque formido hostium latius cresceret,

tamquam armatos milites circa vicum circum-

spiciendas proponunt, et modico seniorum ibi

relicto præsidio, hostes haudquaquam a tergo

insequi, sed per obliquum cum sociis flectere

iter, hortantibus Thesuccio, et Galbetto, cen-

sent; Sic amne subter Casulam vadato magnis

passibus agrum Bur-rattæ subeunt, et hostibus,

et se se recipientibus occursant. Consistunt Ghi-

bel-lini, qui necdum cum nostris conseruerant

manus, et æquiore loco, et multitudine freti,

coacti prælium incipiunt, et exiguum tempo-ris

utrinque aliqua forma pugnæ confligitur. Præda

si quidem ab hoste cis flumen deserta Raphae-

lem, ne fugientes ulterius insequeretur, morata

fuerat, aliis, quod satis actum esse cum hoste

dicerent, prosequi renuentibus. Cæterum ubi

cum Ficchiis renovatum certamen vident, exiguo

præsidio mox ad prædæ custodiam relicto, fre-

quentes arva Casulana subeunt, et hostes jam

primo fusos a tergo invadunt. Pars hostium a

tergo sic petita converso agmine, parsque a

fronte cum Ficchiis pertinaciter dimicans passim

cæsa, vulnerataque prosternitur, donec reliqui,

qui integri erant, in fugam concitati, qua pos-

sunt per invia per aspera, magis pedes, quam

arma tutati ad proximas latebras elabuntur, in-

deque noctis tenebris effusi patrios repetunt la-

res: Sic cæde, fuga hostium certamine dirempto

Ceronii dant receptui signum.

Quando i Ficchi furono rassicurati che nessun

altro pericolo d'assalto minacciava il villaggio,

condussero fuori le donne dalla casa dove le

avevano rinchiuse, e per intimorire i nemici le

schierarono torno torno alla rocca come tanti

soldati in armi. Lasciato quindi un piccolo pre-

sidio di vecchi, pensarono di aggirare alle spalle

i nemici tagliando loro la stra da. Tesuccio e

Galbetto caldeggiavano questo progetto. Gua-

darono dunque il fiume sotto Casola e di gran

corsa entrarono nei campi della Buratta paran-

dosi così di faccia ai fuggiaschi. I Ghibellini si

arrestarono. Non si erano ancora azzuffati coi

nostri e il terreno era pianeggiante. Rassicurati

dal loro grosso numero e del resto costretti a

farlo, diedero mano alle armi. Presto e da una

parte e dall'altra si accese quasi una vera bat-

taglia. Raffaele intanto era rimasto ancora al di

qua del fiume trattenuto dall'abbondante bot-

tino lasciato sul campo dai nemici e stava in

pensiero se inseguirli o meno poichè gli pareva

che si fosse già fatto abbastanza per la loro di-

sfatta; così pure gli consigliavano altri che si

fermavano dallo inseguimento. Quando però

arrivò la notizia che i Ficchi avevano ripreso a

combattere, lasciarono qualcuno a guardia

della preda e tutti presero la corsa attraverso i

campi di Casola e assalirono alle spalle gli Imo-

lesi già prima sconfitti. Così i nemici presi tra

due fuochi: i Ficchi di fronte e alle spalle Raf-

faele, già feriti e malmenati, furono nuova-

mente battuti. Gli scampati, fidando ormai più

nelle proprie gambe che nelle armi, cercarono i

più vicini nascondigli e col favor della notte, per

sentieri impervi, così come poterono, ripara-

rono alle loro case. Con la sconfitta e la fuga del

nemico ebbe fine il combattimento e i Ceroni

suonarono allora la ritirata.

NOTE AL PUNTO 43

Il pieno successo della strategia di Raffaele ha inorgoglito i Ceroni che non paghi d'aver messo in

fuga il nemico, cercano ora di anniettarlo impedendogli anche la ritirata. Tesuccio e Galbetto pren-

dono quasi l'iniziativa autonoma di tagliar loro la strada. Per Raffaele si è già fatto abbastanza. Per

loro invece ci vuole la disfatta totale. Scendendo da Ceruno verso la Buratta, scendono al Senio

sotto il Molino d'Arsella e si trovano così di fronte alla turba sorpresa e disordinata. Forse è una

mossa audace e non giustamente valutata. L'atto poteva tramutarsi in una rivincita dei Ghibellini

che ora si trovavano su terreno pianeggiante e in numero preponderante sui Ceroni. Quest'atto

strategico ha certamente il pregio del coraggio, ma non quello della prudenza. Difficilmente, senza

il decisivo intervento di Raffaele, i Ceroni avrebbero cantato definitiva vittoria. Tesuccio e Galbetto

avranno magari ricevuto una lavata di testa da Raffaele a fatto concluso, con l'accusa di aver messo

a repentaglio la vittoria ormai certa; ma tant'è che anche il coraggio e l'audacia hanno il loro fascino.

Per ciò che riguarda la ritirata degli imolesi, va detto che i nostri Ceroni mirarono a spingerli verso

la collina del Poggio lasciando aperta loro quell'unica via di scampo. Si era ormai verso sera e la

maggior parte, quelli si intende che non eran nè feriti nè prigionieri si gettarono tra la boscagliae

le vigne di Prugno puntando verso Tossignano, da dove, via Santerno, riparare a Imola. Scendeva

il buio della notte e questo facilitava ... l'imboscata. I Ceroni li inseguirono su su verso la vetta della

collina che guarda campiuno e si arrestarono al suono della ritirata.

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Ravaleus arrepto equo Vainam fugientem an-

tea cum aliquot ex suis insequutus, pluribus

missilium tormentis ipsum nequidquam petit,

firmissimo undequaque ferro, quo tectus erat

illum protegente. Is tamen in periculo fuit,

dum circa profundam latamque fossam ad in-

star præaltæ rupis equo est imprudenter ad-

vectus: ubi enim exitum non videt retroque re-

dire nostris insequentibus ducit periculosum,

dum varius incertusque agitatur, unus ex Ce-

roniis aduncum sparum inter commissuras il-

lius armaturæ figit, et ipsum ab equo præcipi-

tare conatur. At Vaina factus periculo intrepi-

dus, subdens calcaria equo, saltu unico liber ad

alteram fossæ partem prosiliit, rostrumque

spari confractum secum pertrahens vitæ inco-

lumis ad patriam rediit, cognomenque fossæ

saltus Vainæ factum indidit. Fuere ex nostris,

qui Ravaleum imperitiæ, aut avaritiæ accusa-

rent; Is enim Guidonem captivum haud semel

habere cum posset, si in cædem equi, cui insi-

debat tela vertisset, ubi spe potiundi equi id

agere detrectat, uno tempore pre-tiosum

equum, nobilem ascensorem, et supremam

omnium gloriam victor, aut imperi-tus, aut

avarus declinavit.

Fusis, cæsisque hostibus spolia collecta sunt.

Aenea tormenta duo ingentibus ponderibus

(Bombardam vocant) quorum alterutrum juga

boum quatuor trahebant, altero Senatus

Imolæ, altero Vainæ domus insignia præsefe-

rente, Ferrea octo alternis plaustris vecta, hæc

omnia ad arcem devexere Ceroniam, ubi fue-

runt usque ad annum Domini 1610, quo tem-

pore Aenea in frusta collisa a Mario Raphaelis

nepote Florentiam ad magnum Ducem sunt

advecta, Ferrea ab Stephano Marii filio in va-

rios usus distracta. Ad hæc commeatus omnis,

et tormentaria materies, plaustra, et boves. Ex

interfectis, fugatisque diversa armorum ge-

nera, signa militaria, indumenta haud vilia,

prædaque non consumpta e domibus nostro-

rum surrepta: Hæc plurima in suos sociosque

Raphael ex composito militum divisit, bobus,

ac prætio-sioribus rebus pro uxoria dote, quam

socer spoponderat, et signis militaribus sibi re-

tentis. Dehinc hostium cadavera eo fere loci

humata, ubi ceciderunt: In arvis Burattæ pau-

lominus trecentum, cis flumen juxta Soleam

pæne centum. Ex nostris aliquot vulnerati,

quatuor occubuere tantum, Virgilius nempe, et

Fridericus Jacobetti, Ptolemæus Cilotti Ficchii,

et Masottus a Petra mala: Horum corpora in D.

Mariæ Casulæ a suis delata honorifico condita

sunt sepulcro. Deim quotannis Deo Opt. Max.

gratias agendas ipsa die solemnitatis Aposto-

Ravaleo (Giambattista Ravaglia) afferrato un

cavallo si era messo, con un gruppo dei suoi,

alla caccia del Vaina in fuga prendendolo di

mira con molte archibugiate che però non rag-

giungevano lo scopo essendo il Vaina tutto ri-

coperto d'una solida armatura. Guido Vaina

corse tuttavia un pericolo di morte quando il

cavallo lo portò sopra un fossato largo e pro-

fondo come sopra un'alta rupe. Egli vedeva

com'era pericoloso tornar indietro coi nostri alle

calcagna e non trovava via d'uscita. Mentre gi-

rava su e giù incerto, uno dei Ceroni gli piantò

la punta di una lunga roncola fra le connetture

dell'armatura facendolo quasi cadere da ca-

vallo. Fatto intrepido dal pericolo, il Vaina cac-

ciò gli speroni nel fianco dell'animale e saltò con

un balzo dall'altra parte, libero, ma con ancora

la punta della roncola indosso e potè così sano

e salvo ritornarsene a casa. Per questo fatto

quel fossato porta il nome di "Salto del Vaina".

Fra i nostri ci fu chi accusò il Ravaleo di avarizia

e di incapacità perchè aveva avuto più di un'oc-

casione di far prigioniero Guido Vaina, solo che

con l'archibugio avesse mirato al cavallo su cui

quello stava; ma il Ravaleo sperava invece

d'impadronirsi della bella bestia e non volle uc-

ciderla perdendo così o per incapacità o per

avarizia la possibilità di conquistare la gloria più

ambita, il prezioso cavallo e il nobile cavaliere.

Sbaragliati i nemici si raccolse il bottino di

guerra. C'erano due pesantissimi cannoni di

bronzo chiamati "bombarde" ognuno trainato

da quattro paia di buoi. Il primo con lo stemma

del senato d'Imola e il secondo con quello del

casato dei Vaini. C'erano otto cannoni di ferro,

ognuno su un carro. Tutti furono sistemati nella

rocca di Ceruno dove vennero custoditi fino

all'anno 1610 quando Mario, il nipote di Raf-

faele, fatti a pezzi quelli di bronzo, li fece tra-

sportare a Firenze (regalati o venduti) al Gran

Duca. Quelli di ferro furono impiegati per vari

usi da Stefano figlio di Mario. Ai cannoni va ag-

giunto il bottino delle vettovaglie, delle muni-

zioni per l'artiglieria e poi gli archibugi, i carri, i

buoi, i vari tipi di armi, le bandiere militari, le

vesti preziose e inoltre tutta la roba depredata,

ancora intatta, dalle nostre case. D'accordo coi

soldati, Raffaele divise tutto fra i soci. Tenne

per sè i buoi e le cose più preziose come risar-

cimento della (mancata) dote promessa dal

suocero e tenne per sè pure le bandiere militari.

I cadaveri dei nemici furono sepolti pressochè

dov'erano caduti. Nel campo della Buratta ne

erano morti un trecento e un altro centinaio

erano caduti al di là del fiume vicino alla Soglia.

Dei nostri i feriti furono un certo numero, ma

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NOTE AL PUNTO 44

Nel racconto della disfatta un fatto particolare. Ravaleo, uno degli artefici della vittoria e valido

collaboratore di Raffaele, ha visto il prode Guido Vaina inerpicarsi col cavallo verso i Paverotti e

Meleta. Decide di inseguirlo. Forse dalla casa paterna, i Paverotti appunto, preleva un cavallo e con

pochi altri si mette alla caccia del Vaina che come un leone si difende da eroe. C'è qui un omaggio

all'audacia del nemico. Ravaleo lo incalza seguito da altri e spara all'indirizzo di Guido diversi tiri di

archibugio che però non sortiscono effetto alcuno. Il Vaina è ben protetto dall'armatura. Ed eccoli

così giunti al fosso che sta sotto Meleta e i Ronchi sulla riva del fiume alta in quel punto diverse

decine di metri. Era un momento da non perdere. il nemico poteva essere facile bersaglio, ma

ceratmente qualcosa ha impedito a Ravaleo di approfittarne. Il desiderio d'impadronirsi del bel

Cavallo? La soggezione di fronte a questo indiscusso campione di coraggio? Non lo sapremo mai,

come non sapremo mai il nome del Ceroni che con la lunga roncola arpionò il Vaina.

Certo furono pochi attimi, ma sufficenti per Guido per salvarsi dalla morte e per il Ravaleo a rodersi

il fegato per l'accusa di avaro e poco furbo che l'accompagnò per il resto della sua vita.

Quanto al racconto sul bottino di guerra e il numero dei morti, dobbiamo fare qualche riserva.

Indubbiamente bottino ci fu e in specie i due grossi cannoni e bombarde furono il pezzo forte. Avrei

invece dei dubbi su tutto il ben di Dio che il Mita enumera. Certo un pò d'armi e di vettovaglie, vesti

e scarpe comprese, visto che i fuggitivi si sbarazzavano di tutto, posso passargliele, ma tutti quei

cannoni sono un pò troppo forse. Ricuperarono certamente ciò che avevano rapinato gli Imolesi

nelle case di Casola, ma poco più. Tutto vero invece per i tamburi e la bandiera.

Anche sul numero dei cadaveri va fatta una buona riserva. Stando al racconto si parla addirittura

di 400 morti fra i ghibellini e appena 4 fra i Ceroni. Sono troppi, e ci atterremo piuttosto a ciò che

scrive il pluricitato Ser Battista dei Cattani di Toranello (Cfr manoscritto, Bibliot. Com. di ImolaDia-

rioal giorno 27.10.1523) che qui riportiamo:

"...presene ardire di andare a Ciruno e cusì andorno e se afrontorno insieme de modo e de sorte

che vene morto per divino judicio, fra Zuan Antonio zia (fu) de Dondo Brocardo che era andato per

robare e per brusare e non per combattere e Marochio de Matio de Vigo e quello traditore de

Baptistone di Zucheli de Favenzia immeritatamente capo de scopitieri e vene morto quello ladro

assassino de Zan Piero dela Voltolina e Piero Antonio de Zantomie e multi altri e multi altri forastieri

furono morti che io non lo so e secondo che se disse ne murì circha da quaranta o cinquanta e de

quilli da Ciruno morì Tolomeo e dui o tri altri compagni cun lui e notta (nota) che quilli de Ciruno

zoe (cioè) Rafaello insieme cun li altri messene (misero) in fuga la parte gubelina e li tolseno doe

boche da focho zoe dui sagri e uno tamburo el quale tolseno lori suso quello de Cudignola a quilli

de messer Zuano Sassatello (Cagnaccio) e ancora qilli da Ceruno li tolseno una bandiera e multi

butarono via li schiopi e le arme e veste e scharpe per fugire ... e cusì furni fugati da li Cerunischi

(Ceroni) fino lontano un miglio a Tauxiniano". Quella bandiera e quel tamburo erano dunque stati

un trofeo di una sortita che il Vaina aveva compiuto in territorio di Cotignola contro i Guelfi e questo

il giorno 24 Ottobre 1523 cioè appena quattro giorni prima della nostra battaglia. Accettiamo allora

quei 40/50 morti? Probabilmente saranno stati proprio così tanti, ma visto che anche il Cattani

afferma per sentito dire, possiamo pensare a qualche decina in più, tutto qui. Forse nemmeno gli

Imolesi sapevano fare un calcolo dei caduti giacchè molti erano quelli che si erano aggregati alla

turba con la speranza di far bottino nelle rapine. Per i nostri invece il conto torna: appena quattro

dei quali si registrano i nomi religiosamente. Il bravo Masotto di Pietramala pagò dunque con la vita

l'alleanza coi Ficchi e riposa con gli altri tre Ceroni entro le mura della Chiesa di Sopra per sempre.

Certamente si fece voto di solennizzare il 28 Ottobre in perpetuo, ma l'usanza durò per vari secoli

e fino a pochissimi anni fa e si esauriva celebrando una S. Messa nella chiesina di Ceruno. Non

sarebbe un'idea malvagia ripristinare l'usanza abbellendola con qualche raduno folkloristico che

abbia come meta la passeggiata a Ceruno.

lorum Simonis, et Thadæi a se posterisque pie

concelebran-da, communi edixere voto.

quattro solamente i morti: Virgilio e Federico

Giacometti, Tolomeo di Cilotto Ficchi e Masotto

di Pietramala. I loro corpi furono portati (solen-

nemente) alla chiesa di S. Maria di Casola per

una onorevole sepoltura. Si decretò infine con

voto pubblico, come ringraziamento a Dio, di

solennizzare la festa dei SS. Apostoli Simone e

Taddeo (28 Ottobre) ogni anno in perpetuo.

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- 45 –

Guido paucos post dies litteris ad Raphaelem

conscriptis illum Montanæ regionis Regulum,

et ab se corona donatum appellat; ejusque, et

suorum exinde consuetudinem exposcit; hinc

eadem tempestate simultas Vainam inter ac

Ceronios evanuit.

Pochi giorni dopo Guido Vaina scrisse una lettera

a Raffaele nella quale lo qualificava, come coro-

nandolo lui stesso, del titolo di "Piccolo Re" (Re-

gulus) di questi monti e con calorose espressioni

chiedeva di poter stringere con lui e i Ceroni un

patto di amicizia. Si spense così, da quel mo-

mento, quasi ogni inimicizia fra i Vaina e i Ceroni

- 46 -

Plurimi ex finitimis Civitatibus ad nostros de in-

signi victoria gratulatum concesserunt. Alii epis-

tolis conscriptis Ceroniensium glo-riam summis

extulere laudi-bus. Fuere aliqui ex Hetru-ria, qui

nostros Romanis Fabiis comparantes dicerent,

ut quemadmodum illi fere omnes agrorum cul-

turam exercentes tanta Romæ fuere potentia, ut

soli cum clientibus, ac servis ex levibus aliquot

præliis sæpius victoriam retulerint: Ita Ceronii

plerique agre-stes, nequaquam imperio, sed au-

thoritate, et potentia montana loca regentes,

propriis viribus, et indu-stria prosternere

hostes, exercitus fundere, et pro parte necare

potuisse. Quin imo in spem apud aliquos ventum

erat, Ceroniensium robur in dies actum iri, atque

sempiternum fore, ubi neque posteri a parenti-

bus degenerent, neque intestina discordia, aut

seditione inter se met desæviant. Id quippe pro-

batum Jacobo Florentiæ nobilissima Salvia-to-

rum gente orto, cui cum nunciatum esset, Cero-

nios a Forocornelianis coram Clemen-te VII.

Pont. Max. gravi querela delatos (is tunc tempo-

ris Bononiæ degebat coronam Carolo V. Impe-

ratori Maximo daturus) quod portæ Urbis custo-

dibus, ut illuc se se intruderent, vim maximam

intulerint, summo Pontifici illum dixisse ferunt:

Conscius rerum, Beatissime Pater, quas pro Do-

minis, Principibus per occasiones strenue ges-

sere Ceronii, Sanctitati vestræ obtestari pos-

sum, hosce veluti Pagum Helvetiorum pro Sede

Aposto-lica, ac Medicea Domo suis in montibus

esse, qui labores, et pericula quæcumque ad nu-

tum Dominorum cupide subeunt: dignique in

quos levi hac noxa minime inquiratur. Hæc, et

similia ab iis, qui partes nostras æqui, bonique

fovebant, acta dictaque fuisse comperii.

Parecchi dalle città vicine vennero a congratu-

larsi coi nostri per la bella vittoria riportata e altri

inviarono lettere in cui magnificavano la gloria

dei Ceroni. In Toscana ci fu chi paragonò i nostri

(Ceroni) ai Fabii di Roma dicendo che come ave-

vano fatto loro, pur intenti tutti alla coltivazione

dei campi, raggiungendo in Roma tanta potenza

da vincere con piccole battaglie condotte col solo

aiuto degli schiavi e dei clienti, così pure i Ceroni,

per la maggior parte agricoltori, avevano potuto

battere i nemici sconfiggendo e sbaragliando

eserciti, con la sola loro forza e abilità, domi-

nando su questi monti non con signoria, ma con

autorità e potenza. Si sperava addirittura che la

potenza dei Ceroni sarebbe aumentata ogni

giorno di più e che sarebbe durata in eterno se i

discendenti non avessero tralignato dai padri e

non si fossero fra loro lacerati in discordie e par-

titi. A riprova di quanto s'è detto ecco ciò che

accadde a Jacopo fiorentino della nobile fami-glia

dei Salviati: essendogli stato riferito che quelli

d'Imola avevano mosso querela contro i nostri

(Ceroni) presso Clemente VII (in quel tempo il

Papa si trovava a Bologna per la incoronazione

di Carlo V imperatore) accusandoli di aver usato

violenza ai custodi d'una porta della città per in-

trodursi in Imola, (il Salviati) a quello che si dice,

si rivolse al Papa con queste parole: "Beatissimo

Padre, conoscendo molto bene come i Ceroni nei

momenti di bisogno hanno sempre agito in fa-

vore dei Signori e dei Principi, posso assicurare

a Vostra Santità che essi, come un cantone di

Svizzeri, se ne stanno sui loro monti, sempre in

difesa della Santa Sede e di Casa Medici, pronti

a sostener fatiche e ad esporsi ad ogni pericolo

a un cenno dei (loro) Signori. Penso perciò che

non debbano essere perseguitati per così lieve

mancanza". È fuor di dubbio che così agirono o

parlarono quanti, ben disposti nei nostri con-

fronti ci favorivano.

NOTE AL PUNTO 45

A commento di quanto sopra riportiamo quanto il Cattani scrive sotto il giorno 8 Novembre 1523:

"Recordo come quilli da Ciruno e la parte Gubelina da Jmola se dene la fede de non se offendere

ne fare offendere ne le persone e ne la roba e tolse la fede el Veschovo de Chiusa Presidente de la

Romagna, secondo che se diceva, la quale cosa mi non la credo, e Ramazzotto cun pacto che li dicti

da Ciruni non havessene a dare ne favore ne aiuto ali Sassatelli alias (altrimenti) se intendeva

essere rotta e cusì era susu li capituli". Il Presidente della Romagna è appunto il vescovo di Chiusi

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Mons. Nicolò Buonafede che inteso questo fatto d'arme costringe il Vaina e i Ceroni a far pace.

Interessante la lettera inviata da Guido a Ceruno per chiederla. Certamente Ramazzotto non fu

mallevadore. Un certo peso nel cercar pace, l'avrà avuto anche il desiderio di liberare gli eventuali

prigionieri rimasti in mano ai Ceroni.

NOTE AL PUNTO 46

Fra le lettere gratulatorie che si inviarono a Ceruno fa spicco quella della comunità di Tossignano a

firma del notaio Alessandro Bassi, riportata dal P.S.Linguerri Ceroni "Cenni storici sulla valle del

Senio" pag. 14 che dice tratta dal quaderno autentico di Tossignano.

È indirizzata "Agli illustrissimi Signori Capitano Raffaele Brunoro, Bartolomeo Ravaglio, Vincenzo di

Simone Linguerri e Taddeo Loli, consobrini ed agnati, signori di Cerone".

Abbiamo così ben definito il gruppetto guida della Consorteria Ceronese, cioè i più ragguardevoli, a

un mese e mezzo appena dalla vittoria. Ci stupisce un pò di non trovarvi cenno di Ficchi. C'era già

della ruggine? Forse i meno entusiasti erano loro ed i Tossignanesi lo sapevano certamente. Passate

le smaccate frasi adulatorie ecco invece una frase misteriosa che convien rileggere:

"... pregandovi dal cielo ogni glorioso avvanzamento e mentre attendiamo esaudite le ultimissime

istanze che per bocca del latore Messer Luciano nostro concittadino, vi verranno porte, profonda-

mente inchinandoci restiamo ...". Quali istanze? certamente non è opportuno metterle per scritto;

meglio che il Messer Luciano le esponga a voce. Non è che dalla risposta data da quelli di Ceruno

si sia fatto gran lume, sentite: "...in quanto a ciò che chiedeste per il vostro mandato, quando il

tempo il richiederà saremo sempre intenti al vostro sollievo. Rocca di Cerone 15.12.1523".

Una vaga promessa che a tempo debito interverranno. Non ci vuol troppo accume per scoprire che

i Tossignanesi hanno fatto regolar richiesta ai Ceroni di aiutarli a togliersi dal giogo della signoria

di Ricciardo Alidosi. Ricciardo, come i suoi di Castel del Rio è un piccolo despota. Fortunatamente

non è precisamente nelle grazie del Presidente di Romagna al quale pervengono in continuazione

da Tossignano lamentele contro di lui. I Ceroni sono al momento sulla cresta dell'onda. In pace con

i Vaini, ubbidienti al Presidente che li ha invitati a far pace, in buoni, anzi in ottimi rapporti con i

Sassatelli della fazione Guelfa e soprattutto temibili come corporazione, come la vittoria ottenuta

ha dimostrato. Sono perciò buoni mediatori. Quello però che i Tossignanesi nè i Ceronesi dimostrano

di capire al momento è che sul fuoco di questa ribellione a Ricciardo Alidosi soffia a più non posso

il nostro Ramazzotto che proprio in quei giorni ha una delle sue più grosse soddisfazioni.

Il 19 Novembre 1523 sale al soglio pontificio Clemente VII di casa Medici. Un Papa Medici è per

Ramazzotto un vero terno al lotto! I Medici conoscono bene questo tristo figuro di capitano di

ventura che è odioso fin che si vuole, ma è per loro di una devozione a tutta prova.

Quando i Medici banditi da Firenze ritentarono la presa della città, cosa che riuscì loro anche abba-

stanza facile nel 1512, Ramazzotto si rese tristemente famoso accanto al capitano spagnolo Cor-

dona per il terrore seminato per tutta la valle del Bisenzio e soprattutto col sacco di Prato che fece

un numero impressionante di morti. Gli storici parlano che in quel sacco furono compiute nefan-

dezze degne di barbari. Quel terrore aprì le porte di Firenze. A Roma nel 1518, Leone X, decorò

addirittura il Ramazzotto e lo riempì di onori. Sotto i Papi Medici Ramazzotto era più che sicuro.

Ora, giunto ormai all'età di 60 anni, vagheggiava per sè qualcosa di grande come una contea, per

esempio, e Tossignano, con la sua Rocca imprendibile, pareva fatto apposta per esserne la piccola

capitale. Cosa non avrà fatto il piccolo uomo di Scaricalasino per soppiantar il povero Alidosi, Dio

solo lo sa. Fatto si è che nel giro di appena sette anni, ecco che il Presidente di Romagna che ora

si chiama Lionello Pio da Carpi, muove con armi alla conquista di Tossignano. Troviamo nei docu-

menti che egli si servì "del benefizio delle armi dei signori di Ceruno". I Ceroni mantengono così la

promessa di "esser intenti al sollievo" dei Tossignanesi. Ricciardo Alidosi fu dunque scacciato da

Tossignano nonostante che pochi anni prima Clemente VII lo avesse infeudato (28.2.1526) dello

stesso Tossignano Fontanelice e distretti.

Due mesi dopo Clemente VII creava Ramazzotto Conte di Tossignano, Fontanelice, Belvedere, Val-

maggiore. I Ceroni avevano dunque scavato il nido colle proprie mani al serpe velenoso che sarà la

loro rovina. Sull'episodio che vede protagonista il Salviati, non abbiamo che questo documento del

Mita, ma non possiamo non accettarlo; fatti del genere come quello di attaccar lite anche coi ga-

bellieri eran tipici dei nostri Ceroni di carattere robusto

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Coeterum Ramazottus natus adversus Ceronios

hostis, pravos spiritus in eos jugiter fovens, rem

dolis nequiter incoatam, nequius ad exitum per-

ducere molitur: Mox enim ut Tussignani, Fon-

tanæ, et Saxi leonis Comes a dudum memorato

Pontifice renuncia-tus est (id fuit anno 1530)

propior nostris factus, Raphaelem, aliosque ex

suis crebrius evocat ad colloquium; et primo

purgare se se de conjuratione cum Vaina adver-

sus eos facta nititur: dehinc culpam totius mali

in Ficchios, ut reliquis Ceroniis suspectos eos cri-

minando redderet, vertens, eosdemque struere

insidias, occultaque facinora in Raphaelis, alio-

rumque ex Ceroniis perniciem moliri, cunctaque

propediem in eos eruptura libero mendacio per-

suadere conatur. Nec erat hæc fraus tota a veri

specie dissimilis. Ficchios etenim manu impigra,

acrique animo esse, injurias ægre pati, gloria,

opibus, Principibusque tutelis, quorum stipendia

longo temporum cursu strenue meruerant, coe-

teros anteire, unum Raphaelem tunc eos

æquare, inter nostrates majorum erat opinio.

Cumque iis ædium, suppellectiliumque supra

memorata crematio non minus nummum octo

millium detri-mento fuisset; sociusque insuper,

et consanguineus in Vaino prælio occubuissent,

quippe Raphaelem, mali caput, severo, turbato-

que ore intuebantur. Ad hæc et illud magis ac-

cendit animos, quod quidam e Polis, dum noctu,

ut solent juvenes, per arva vagatur, vel segetes,

vel poma forte populaturus, a quibusdam inco-

gnitis fuste percussus binos post menses obiit

mortem; et quamquam de reis noxæ inter of-

fensos ambigebatur, Ficchios tamen, in quorum

agris hæc facta dicebantur, facile suspectos ha-

bebant, quæ singula, ut ad ultionem percurre-

rent, non parva irritamenta fuere. Ramazzotto

autem frequens sermo cum domesticis erat,

magnum, profundumque flumen, ut vadosum

fiat, in partes deducendum: sic Ceronianum ro-

bur a se facile proster-nendum, si illud in partes

distrahere valeret: et voti compos justo Dei ju-

dicio satis superque factus est.

Ramazzotto invece, nemico nato dei Ceroni, ali-

mentando contro di loro sentimenti malvagi, si

apprestava a condurre a iniquo compimento

quanto malvagiamente aveva incominciato. Era

stato eletto dal già nominato Pontefice (Cle-

mente VII) Conte di Tossignano, Fontana e Sas-

soleone e ciò fu nel 1530, e si era già molto riav-

vicinato ai nostri prima con frequenti abbocca-

menti con Raffaele e altri dei suoi, facendo cre-

dere innanzi tutto che il sospetto di aver egli con-

giurato col Vaina a loro danno era una falsità, poi

mettendo in cattiva luce i Ficchi agli occhi dei Ce-

roni riversando su di loro la colpa dell'accaduto

con l'accusa di macchinazioni segrete contro Raf-

faele e gli altri Ceroni. La quale falsità non man-

cava d'una certa parvenza di vero, soprattutto

perchè i Ficchi eran considerati gente svelta di

mano, d'animo bellicoso e che mal sopportavano

le ingiurie. Poi eran superiori a tutti gli altri per

la gloria, ricchezze e favori dei Principi negli eser-

citi nei quali avevano per lungo tempo combat-

tuto. Non c'era fra i nostri che il solo Raffaele che

potesse stare alla pari con loro. Poichè nell'in-

cendio delle case e delle robe, di cui s'è parlato,

essi avevano avuto un danno valutabile a non

meno di ottomila scudi e inoltre nello scontro (col

Vaina) avevano perduto un loro consanguineo e

un loro socio, riguardavano con astio Raffaele

considerandolo la causa della loro disgrazia.

Inoltre ci fu un'altra occasione che peggiorò le

cose e cioè che uno dei Poli, nottetempo, come

sogliono far i giovani, entrò in un campo a rubar

frutta o grano. Fu sorpreso e da alcuni scono-

sciuti fu bastonato in modo tale che in capo a

due mesi morì. Benchè non si potessero scoprire

i colpevoli, fu gettato facilmente il sospetto sui

Ficchi, perchè, così si vociferava, il fatto era ac-

caduto nei loro campi. Tutto ciò servì da grosso

stimolo per la vendetta. Ramazzotto intanto an-

dava spesso asserendo, coi più intimi, che per

poter passare a guado un fiume largo e pro-

fondo, occorreva dividerlo in ruscelli. Così lui po-

teva fiaccare la potenza dei Ceroni solo se gli

fosse riuscito di dividerli in fazioni. Dio permise

che il suo desiderio fosse appagato.

NOTA AL PUNTO 47

Che il Ramazzotto fosse un'anima nera, d'accordo, ma tanto perfido da decretare la distruzione

definitiva dei Ceroni, suoi stretti congiunti, dovremmo un pò dubitarne. Veramente qui è dipinto

come un vero e machiavellico intrigante con un preciso disegno: rompere l'unità della consorteria.

Sa che il punto debole può essere il rancore che regna tra i Ficchi e il resto dei Ceroni. Suggerisce,

calunnia, inganna. Ci fa meraviglia la grossa ingenuità di Raffaele che accetta tutte le scuse del

suocero quando doveva esser ben chiaro che nella vicenda col Vaina c'era, e preponderante, lo

zampino di Ramazzotto. Forse il fatto di saperlo ora tanto potente per l'amicizia col Papa, e vederlo

pochi anni dopo addirittura Conte, lo avranno un pò abbagliato e anche un pochino lusingato; in fin

dei conti sua moglie Lucia era la figlia del conte Ramazzotto! Purtroppo il dissidio coi Ficchi ha qui

il suo inizio, ma lo stesso inizio ha pure la fine della Consorteria dei Ceroni. Ramazzotto aveva visto

Page 54: STORIA DEI CERONI STORIA DEI CERONI...Certamente qui da noi è originato dal toponimo di Ceruno, in antico Zirone, Cirone o Cerrone (verosimilmente da "cerro", grossa pianta simile

giusto. Qualcuno ci chiederà come se la cavava come Conte di Tossignano. Poche battute tratte dal

Benacci, lo storico di Tossignano: "non dissimile da quello dell'Alidosi fu il governo di Ramazzotto

.. di carattere prepotente, ambizioso, di costumi dissoluti non potea essere che acerbo e duro

padrone."

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Conjurant itaque Ceronii a Serina oriundi, qui

et Lancerii appellabantur, de Ficchiis, qui Ca-

sulam incolebant, interficiendis, eam rem mo-

liente potissimum Raphaele, qui tunc authori-

tate, et opibus eorum omnium longe primus

erat: et beneficam in Ficchios voluntatem initio

simulantes apud eos familiariter esse, una

convivari, seria agere, in communes adversa-

rios ore paratius invehi, aliaque per dissimula-

tionem præstare contendunt, quibus incautos

opprimere queant. Pacta igitur die Morandus

Salvutii, Octavianus Brocoli, Gabronus Feferici,

Beliccus Meri, Octavianus Berti, Ugutio Rai-

naldi, Octavianus Sforzini, Babinus Poli, alii-

sque ex Lanceriis ad numerum vigintiquinque

(aberat Raphael tunc temporis quartana febre

correptus) Thesuccium Catonis et Ser Mengot-

tum Alexandri ex Fecco natos, qui e D. Luciæ

Casulæ. ubi sacro interfuerant cum aliis egre-

diebantur, frequentibus telis inopinatos veluti

ad aras mactant, et cita fuga se se recipiunt in

tutum. Hac cede Lancerii, Ficchiique hostes ef-

fecti, non satis est dicere, qui tumultus, quæ

seditiones, atque insidiæ omnis generis ultro

citroque molirentur, donec authoritate Bartho-

lomæi Valoris Præsidis Aemiliæ inducias inter

se se ad poenam aureorum mille Fisco partim,

partim offensis a nocentibus solvendam spon-

soribus utrinque datis ad certum tempus uni-

versi paciscuntur. Interim Ficchii inter se met

fiunt voluntate diversi. Qui ex Ceronio nuncu-

pato Mida originem trahebant, quoniam Bru-

noriis per reciproca connubia affines erant, et

ob id astu Ramazzotti seducti fuere, tertio idus

Quintilis anni 1532 pactis induciis annorum vi-

ginti quinque cum reliquis Ceroniis, nullo se se

Ficchiis Casulam incolentibus auxilio fore con-

tra eos spondent. Dein binos post menses cum

eisdem perpetuum foedus ineunt, mulcta

pacta aureorum mille in eos eorumque bona,

qui frangerent illud. Cæteri Ficchii, quibus spi-

ritus magis magni, quam utiles erant, in ulci-

scendam suorum necem animum obfirmantes

in personam Raphaelis præcipue conspirant, et

unde tota culpa orta erat, ibi et poena consi-

steret. Igitur pridie Idus maii insequentis anni

1533. Antonius cognomento Galbettus, Anni-

balque fratres ex olim Simone Ficchio a Cero-

nio, comitantibus se se Hectore, agnomine

Temprono, Baptista, Baronioque ex suis,

Raphaelem Brunorium Foro cornelii prope Divi

Quei Ceroni che erano oriundi di Serina, detti an-

che Lancieri, congiurarono per uccidere i Ficchi

che abitavano a Casola ed era soprattutto Raf-

faele (Brunori) che per autorità e ricchezza so-

vrastava tutti i suoi, a caldeggiare questo pro-

getto. Dapprima simularono una grande amicizia

e familiarità verso i Ficchi: inviti a pranzo, affari

in comune, infuocate parole contro i nemici, pro-

getti da realizzare insieme, ma tutto coperto

dalla falsità. Stabilito il giorno adatto, Morando

di Salvuzio, Ottaviano di Brocolo, Gabrone di Fe-

derico, Relicco di Mero, Ottaviano di Berto, Uguz-

zone di Rinaldo, Ottaviano di Sforzino, Babino

Poli (di Paolo) e altri per un numero di 25 per-

sone, Raffaele mancava perchè era stato colpito

da febbre quartana, uccisero a tradimento, vi-

brando numerosi colpi (sulle vittime) Tesuccio di

Catone e Ser Mengotto di Alessandro, ambedue

della famiglia Ficchi. Furono assassinati, come

vittime sacrificate sull'ara, mentre stavano

uscendo con gli altri dalla chiesa di S. Lucia, su-

bito dopo la messa. Gli assassini si misero in

salvo con la fuga immediata. Per questo delitto i

Ficchi e i Lancieri divennero nemici fra loro e non

è facile enumerare i tumulti e le sedizioni nate

da questo contrasto, dall'una e dalla altra parte

si macchinò ogni sorta di insidie finchè per l'au-

torità del Presidente di Romagna Bartolomeo Va-

lori, tutti fecero pace promettendo tregua sotto

pena di 1.000 scudi d'oro da versare metà al fi-

sco e metà agli offesi; il tutto con garanti a

tempo determinato. Nacque nel frattempo una

divisione anche tra i Ficchi. Quelli che erano di-

scendenti da quel Ceruno detto Mida, avendo

contratto parentele coi Brunori, il 13 Luglio 1532

si staccarono dagli altri (Ficchi) facendo patto

con gli altri Ceroni di far tregua per 25 anni e di

non aiutare in nessun modo i Ficchi di Casola.

Questo grazie alla scaltra perfidia di Ramazzotto.

Altro patto, due mesi dopo di osservare in per-

petuo detta tregua con gli stessi, sotto pena di

1.000 scudi d'oro a chi rompe la fede, a garanzia

i beni (terreni o case) posseduti. Il resto dei Fic-

chi, con sentimenti di orgoglio più che di sag-

gezza, giurarono di far vendetta della morte dei

loro congiunti soprattutto con l'uccisione di Raf-

faele come per punire la sorgente dell'intera

colpa. Ecco perciò che il 14 Maggio dell'anno

dopo, 1533, i fratelli Antonio detto Galbetto e

Annibale figli di fu Simone Ficchi da Ceruno, in

compagnia di Ettore Temprone, Battista e Baro-

nio, a Imola presso il Duomo di S. Cassiano, si

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NOTA AL PUNTO 48

L'innesto dei Ceroni della val Serina in provincia di Bergamo presumibilmente è avvenuto verso la

metà del 1300. Non sappiamo di quanti soggetti fosse composto il gruppo dell'innesto. Si trattava

di una piccola compagnia di soldati perseguitata dal Torriani di Milano e vaganti per l'Italia a servizio

ora di questo ora di quel principe. Una volta insediatisi qui si sposano e danno origine a un ben

definito gruppo di Ceroni. Il capostipite è un certo Matteo che ha figli: Cristoforo, Giovanni e Fran-

cesco. Anche i figli fanno carriera militare e di Giovanni la tradizione ci dice che sapeva destreggiarsi

bene con la lancia per cui ebbe il soprannome di LANCIERE.

Mentre da Cristoforo ha origine Laulo, capostipite dei Lauli o Loli o Lolli, da Francesco detto Cecco

nascono Salvuzio e Silvestro. Salvuzio è il padre di Brunoro da cui i Brunori e Silvestro è il padre di

Baldassarre da cui i Baldassarri.

Giovanni ha invece ben sette figli maschi: Alberto detto Bertone o Berto da cui discende la famiglia

Berti; Paolo o Polo da cui i Poli; Michele detto Marondolo da cui i Marondoli; Bartolomeo detto

Ravaglio da cui i Ravagli; Rinaldo da cui i Rinaldi; Giacomo o Giacometto da cui i Giacometti ed

infine Don Melchiorre. I Lancieri sarebbero dunque propriamente i Berti, i Poli, i Rinaldi, i Ravagli, i

Giacometti e i Marondoli, ma vi si affiancano i Brunori, i Baldassarri e i Loli come stretti cugini.

Per quest'alberetto si è data un'occhiata, ma con prudenza, ai manoscritti dell'Abate Ferri di Imola,

ma ci siamo attenuti soprattutto agli atti notarili cfr G. Cattani 4 Luglio 1463 e Baldo Rocca di

Tossignano 19 Novembre 1506)

Sono estremamente interessanti i nomi dei congiurati.

Nella traduzione del 1884 sono stati evidentemente letti male i nomi che qui abbiamo tranquilla-

mente corretto: Morando di Salvuzio è un Brunori, Ottaviano di Brocolo è un Ravagli, Gabrone di

Federico è un Giacometti, Relicho di Mero è un Loli, Ottaviano di Berto è un Berti, Uguzzone è un

Rinaldi, Ottaviano di Sforzino è un Baldassarri, Babino un Poli.

Le vittime sono cugini fra loro. Catone e Alessandro sono infatti i figli di Feco Ficchi.

Quando avvenne il delitto? Il Mita non cita l'anno, ma arguendo dalle paci fatte, l'assassinio dei

Ficchi va collocato fra la fine del 1530 e la primavera del 1531 certamente in giorno di festa o di

Domenica. Il fatto che Raffaele sia a letto con la febbre potrebbe confermare il periodo invernale.

Visto poi l'uso locale anche allora in auge di girare nei mesi freddi tutti avviluppati in larghi mantelli

"le capparelle", fa sospettare che i congiurati potessero nasconder sotto il mantello il pugnale as-

sassino. Niente possiamo arguire sulla scelta dei due Ficchi da uccidere.

Il fatto che Mengotto è qualificato come "Ser" ce lo fa ritenere o un notaio o comunque una persona

di riguardo. Forse è il fratello di Giampietro, il proprietario, come vedremo, del grosso podere di

Montecatone che fa gola a Ramazzotto. In Ottobre, precisamente al 10, sempre del 1531 i Ficchi

Mida stringono un primo patto di tregua coi Ceroni staccandosi dagli altri Ficchi. Ciò si rileva dalle

carte del notaio Conti che stilerà l'atto trascinato al Corso di Orsara nella piccola chiesa di S.Maria

del Carmine dove un pugno di frati carmelitani reggevano il minuscolo convento. Il conventino del

Corso era sotto la giurisdizione di Ramazzotto conte di Tossignano e non si poteva dir di no al conte.

Nuovo patto il 13 Luglio 1532 e il definitivo e perpetuo due mesi dopo. Sulla vendetta dei Ficchi c'è

da sottolineare che Raffaele, come avveniva spesso, era ospite in città della famiglia Sassatelli che

aveva appunto una casa (ora Palazzo Monsignani) con cortili che davano sulla piazza di S.Cassiano.

È certamente dopo questo nuovo delitto che interviene anche il Presidente di Romagna Bartolomeo

Valori per far stringere le paci.

Cassiani aliquot stipatum armatis inventum di-

micando interimunt, et Octavianum Berti in

dextero brachio lethali vulnere sauciatum pro-

sternunt, qui ægre supervixit ad mensem, et

Urbe protinus exeunt incolumes.

imbatterono in Raffaele Brunori che camminava

in mezzo a un gruppetto di armati e, attaccata

baruffa, lo uccisero. Ferirono anche gravemente

Ottaviano di Berto al braccio destro per cui dopo

un mese di sofferenze spirò. Loro invece, inco-

lumi, fuggirono dalla città.

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Plurimi ex amicis casum miserati, ne latius do-

mesti-cum deflagraret incendium, interpositis

rationibus persuadere nituntur, negotium ad

ineundam universorum pacem jam pari digni-

tate esse deductum; et plerique ex nostris hinc

inde ad illam consulto propendebant. Quæ res

ubi ad Ramazottum, qui incendium non aqua,

sed ruina extinguere gestiebat, perlata est,

mature Lanceriis ferme universis in D. Mariæ

de Cursu ad colloquium evocatis, ipse turbavit

omnia. Etenim Raphaelis interitum dum verbis

lacrymisque se condolere simulat, vires suas,

subsidiaque universa Lanceriis adversus Fic-

chios spondet; oreque et manu cunctorum ani-

mos tantopere exasperat, ut eo amentiæ de-

duxerit, ut iniqua multa, ac stulta, quæ mox

dicentur, intra semet fuerint adstricto jura-

mento pacti. Videlicet, ne quis ex Ceroniis pa-

cem inire, inducias pacisci, fide aut securitatis

pactione obstringi cum Ficchiis, cæterisque eo-

rum hostibus audeat; nisi id ex Ramazotti, Mo-

randique, Marci Antonii, et Jacobi e Brunoriis

unanimi consensu fiat. Ad hæc ut injurias uni

eorum factas, vel quæ fient omnibus commini-

ter illatas statuant, ita ut vicissim alter pro al-

tero rem, vitam, honorem profundat, ut sin-

gulorum honos, utilitasve quoquomodo incolu-

mis permaneat. Præterea nequis eorum

Guelfas, aut Ghibellinas partes tueatur, aut im-

pugnet. Romanæ Ecclesiæ, ac Mediceæ Domui

fidelitatem, ac eorum (qui supra) ministris

studium, et obedientiam singuli præstent:

quod si secus fiat, poenam biscentum aure-

orum Ramazoti Cameræ persolvant. Hic tan-

dem nostrorum fortunis, dignitatique magis il-

lusurus, dum furor rationem a mentibus eorum

ablegaverat, tam foeda, abominandaque alia

eodem instrumento quod Alexander Bassus

octavo Kal. Maii ipso anno 1533 describebat,

notari compulit, ut nisi libens ea omnia præte-

riissem, risum simul et stomachum procul du-

bio Lectori movissent.

Il triste caso mosse alla commiserazione un

gran numero di amici i quali, per impedire il di-

lagarsi di questo domestico incendio, si inter-

posero preoccupandosi di convincere con buone

ragioni le due parti a stabilire una decorosa

pace per tutti.

Sia gli uni che gli altri erano già sul punto di ac-

condiscendervi quando Ramazzotto, che cer-

cava di spegnere l'incendio non con l'acqua, ma

con la rovina, venutone a conoscenza, convocò

subito tutti i Lancieri nella Chiesa di S.Maria del

Corso mandando a monte ogni progetto di

pace. Con false lacrime e parole deplorava l'uc-

cisione di Raffaele promettendo loro ogni suo

aiuto contro i Ficchi. Si diede da fare anima e

corpo in modo da inasprire l'animo di tutti e

portarli al punto di pazzia, come in seguito si

dirà, da legarsi con giuramento a molti patti in-

giusti e stolti; cioè che nessuno dei Ceroni po-

tesse osare di far pace o armistizio coi Ficchi o

essere indotto a trattati di alleanza o difesa con

loro e gli altri nemici senza l'unanime assenso

di Ramaz-zotto, Morando, Marc'Antonio e Gia-

como Brunori. Che inoltre le offese ricevute o

da riceversi anche da uno solo di loro venissero

considerate come offese rivolte a tutti loro in

modo che vicendevolmente l'un per l'altro im-

pegnasse il patrimonio, la vita e l'onore onde

mantener in ogni modo intatto e l'onore e l'in-

teresse di ciascuno. Che nessuno di loro par-

teggiasse nè per la parte guelfa nè per quella

ghibellina, che prestassero devozione alla Ro-

mana Chiesa e alla casa dei Medici obbedendo

ai ministri delle sunnominate autorità; in caso

contrario si pagassero 200 monete d'oro alla

Camera (=cassa) di Ramazzotto. Così infine lu-

singando i nostri nell'interesse e ancor più

nell'onore, nell'ardore della passione ogni buon

senso aveva abbandonato le loro menti, fece

redigere per mano di Alessandro Bassi un atto

notarile in data 24.04.1535 con tante altre ri-

pugnanti e vergognose clausole che se non de-

cidessi di passar tutto sotto silenzio certamente

muoverei al riso e al voltastomaco il lettore.

NOTA AL PUNTO 49

Di nuovo la povera chiesa del Corso deve accogliere Ramazzotto per le sue sceneggiate di suocero

affranto e far da teatro agli ennesimi raggiri. Il conventino del Corso venne fondato verso il XV sec.

dai padri Carmelitani come luogo di preghiera e ritiro. Qui nel 1506, nel mese di Ottobre, sostò

Papa Giulio II nel suo viaggio da Palazzuolo a Tossignano. Era piuttosto stanco ed ebbe modo di

essere ristorato un poco dai frati. Del convento non è rimasto più nulla eccetto una vecchia cisterna

sulla destra della strada , subito dopo la discesa della casa Sellustra. Il convento venne soppresso

nel 1783 anche perchè, a torto o a ragione, i superiori ritennero che la vita religiosa condotta dai 5

o 6 frati in questa zona molto isolata era calata di tono e i frati si interessavano soprattutto di

caccia.

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- 50 –

Haud multo post foedus Ramazotti animus

etiam bona nostra devorare cupidus apparuit,

dum prædium satis pingue in agro Montis Cato-

nis vilissimo mille centum viginti septem aureo-

rum pretio a Fisco recepit, quod Joanni Petro

Alexandri Ficchii ob ruptas Lanceriis inducias

ademerat, septingen-tos Brunoriis, Bertisque,

reliquos Fisco soluturus: a quo jura mille num-

mum, quos Lancerii ob neces in Ficchios patra-

tas Apostolicæ Cameræ pendere justi erant, si-

mul adquirens, septigentos aureos Lanceriis ob-

noxios eorum jussu Fisco persolvit, ac quadru-

plum in Prædio lucratus est.

Non molto tempo dopo l'animo turpe di Ramaz-

zotto si rivelò avido di divorare i nostri beni.

Aveva infatti acquistato dal Fisco un ottimo po-

dere in quel di Montecatone pagandolo con la

misera somma di 1127 scudi d'oro; il podere

era stato confiscato a GianPietro di Alessandro

Ficchi per la rottura coi Lancieri. Poichè doveva

pagare ai Brunori e ai Berti 700 scudi e il rima-

nente al Fisco Ramazzotto, acquistò da questo

ultimo il diritto di 1000 scudi che i Lancieri (me-

desimi) dovevano sborsare alla Camera Apo-

stolica per l'uccisione dei Ficchi e soddisfece a

nome dei Lancie-ri con 700 scudi d'oro. Fece

così fruttare per sè quell'acquisto quattro volte

tanto.

NOTA AL PUNTO 50

Sul balletto finanziario che il nostro Ramazzotto sa intrecciare nella faccenda del podere dei Ficchi

a Montecatone non è che il Mita sia precisamente trasparente; ritengo che voglia dire in sostanza:

prezzo del podere 1127 scudi. Di questi 427 vanno al Fisco e 700 ai Lancieri. È il frutto di una pace

infranta. Però i Lancieri ne debbono pagare 1000 per altra pace infranta al Fisco e incaricano il

Ramazzotto di soddisfare per loro. Non si sa come, ma al Fisco Ramazzotto versa solo 700 scudi.

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NOTA AL PUNTO 51

Stranamente il Mita tutto intento a descrivere lo svolgimento della drammatica fine dei suoi cari

Ficchi, (non dimentichiamoci che è lui stesso un Ficchi-Mida) passa sotto silenzio un avvenimento

che che avrebbe dovuto invece mettere in rilievo: l'elevamento a Contea di tutta l'alta valle del

Senio. Forse la breve vita di questa contea non ha lasciato traccia nella memoria dei casolani e il

Mita ne tralascia l'annotazione. La contea comprendeva: Casola, Prugno, Mongardino, Valsenio,

Baffadi, Settefonti, Montefiore (Valle di Budrio), proprio il 14 Gennaio 1532, con decreto pontificio,

Ficchii domesticos inter hostes positi, infestum

sibimet Ramazotti in exitium suum, nati, domi-

natum horren-tes, simul Principis iram, suorum-

que furorem vitabundi, patria excedere sta-

tuunt. Consultant itaque ad Alexandrum Medi-

ceum Hetruriæ Ducem, veluti ad asilum, profu-

gere: reque per amicos cum magno illo Principe

acta, Antonius Galbettus, et Hector Tempro-

nus, qui jam pridem experimentis serenissimo

cogniti erant, in Duces peditum ab eodem, tran-

smisso diplomate, eliguntur, reliquis ex suis ad

alia militiæ decora ascitis. Dumque opportuna

paucos per dies ad commigrandum parant, Mar-

radii apud Fabronios diversantur. Hæc ubi Lan-

ceriis per exploratores renunciata sunt, re ut

creditur, quia non abhorret a cætero scelere,

cum Ramazotto consultata, posteaquam per

homines proditionis artifices negotia, itinera

egressusque Ficchiorum, postea loca atque tem-

pora cuncta Lancerii explorata habent, armata

suorum, et sociorum cohorte supra Marradium

in locum, cui infaustum Biffurci nomen est, noc-

turnis itineribus conscendunt, et per saltus ac

nemora apta insidiis se multifariam occultant,

Ficchios illac postera die transituros expecta-

bundi. Prima luce viri quatuordecim ex Ficchia

gente vix dum ensibus armati, exiguo colonum

comitatu, qui sarcinas ducebant, Marradio pro-

ficiscuntur; ac paulo post, ubi minus proditionis

timebant, sclopis, balistisque ex insidiis uti su-

pra dispositis petuntur. Hi districtis gladiis, qua

possunt, vertunt se in hostes, et periculosa di-

micatione armorum disparitate initia, satis diu-

que propugnant, donec Galbettus, Christopho-

rusque plumbeis globulis iterato transfixi conci-

dunt exanimes: Temprono autem Viro omnium

fortissimo, nullique Ceronensium ea tempestate

secundo ictu tragulæ spina dorsi configitur. Ubi

vident Lancerii ad votum sibi adspirasse multa,

veriti, ne si diutius eo loci digladiando moraren-

tur, ab agrestibus, et oppidanis sublato clamore

ad subsidium confluentibus obsideri possent,

cita fuga retro, quam venerant, turmatim rever-

tuntur. Tempronus Marradium regressus ex-

tracta sibimet e dorso tragula vulnus haud

lethale ratus æquo animo erat: verumtamen

quia cuspis fuerat infecta veneno, ante quadra-

gesimum diem migrat e vita, et vita Lanceriis

sua morte prorogatur.

I Ficchi si trovavano ora a vivere fra i nemici

domestici. Non sopportavano la signoria di Ra-

mazzotto, loro nemico nato, e non volendo in-

correre nelle ire del Papa nè nel furore dei loro

consanguinei, decisero di abbandonare la loro

patria. Presero dunque la decisione di rifugiarsi

(nei territori) del Gran Duca di Toscana Ales-

sandro dei Medici e con la mediazione di amici

trattarono con lui per quest'asilo. Antonio Gal-

betto e Ettore Temprone erano già da tempo

ben noti al Serenissimo (Principe) e furono

quindi eletti con patenti tosto inviate loro, come

capitani di fanteria; altri loro parenti furono

chiamati ad altre cariche militari. Mentre si pre-

paravano al trasferimento, alloggiarono per al-

cuni giorni presso i Fabroni di Marradi. I Lan-

cieri, per mezzo di spie, vennero presto a cono-

scenza di tutto e dopo aver con ogni probabi-

lità, poichè non perdeva occasione di delitti,

consultato Ramazzotto, informatisi, ancora con

spionaggio, sul percorso e sulla partenza dei

Ficchi, con un drappello armato dei loro, notte-

tempo salirono sopra Marradi in un luogo che

ha il tristo nome di Biforco e si prepararono

all'insidia nascondendosi fra i boschi e atten-

dendo i Ficchi che il giorno dopo dovevano pas-

sare di là. All'alba ecco che i Ficchi, in numero

di 14 uomini, armati di sole spade e accompa-

gnati da un piccolo gruppo di contadini che por-

tavano i bagagli, escono da Marradi, ma appena

arrivano a quel posto che meno sospettavano

di agguato sono subito assaliti da colpi di fucili

e di balestre. Nonostante l'enorme spropor-

zione di forze, i Ficchi con le spade si difesero

valoro- samente combattendo a lungo finchè

Galbetto e Cristoforo caddero crivellati di colpi.

Temprone, valorosissimo e a nessun Ceroni se-

condo, ebbe una freccia piantata nella schiena.

I Lancieri quando videro che ormai il loro desi-

derio si era realizzato, temendo di esser presto

circondati dai terrazzani levatisi a rumore se si

fossero attardati al combattimento, con svelta

fuga, a drappelli, raggiunsero le loro case.

Temprone si tolse con le proprie mani la freccia

dalla schiena e tornò a Marradi non giudicando

la ferita mortale, se ne stava ormai tranquillo,

ma la freccia era stata avvelenata e Temprone

in 40 giorni morì. Colla sua morte allungò la vita

ai Lancieri.

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venivano creati conti di Valsenio e Castro Pagano (Mercatale a S. Apollinare) Domenico Maria Cal-

derini e il nipote Lodovico Calderini di Bologna. Clemente VII, con gran dispetto del nostro Ramaz-

zotto, c'è da immaginarselo, aveva smembrato tutto il nostro territorio dal comune di Imola e creato

la contea. Che Ramazzotto ci avesse fatto più di un pensierino sulla nostra valle è fuor di dubbio,

ma la sua buona stella cominciava ad appannarsi.

Ma per tornare alle note, diremo che al momento della emigrazione dei Ficchi verso la Toscana qui

a Casola c'erano già i Calderini che avevano sede alla Buratta. Loro commissario fu dapprima Valerio

Passeri di Tossignano e quindi il bolognese Urso Caccianemici. A Marradi dove rimangono ospiti dei

Fabroni per alcuni giorni, vengono spiati da un certo Giovanni Maria Manini (cfr. manoscritto Lin-

guerri pag 217) che salito lungo la grossa vite di un pergolato si era avvicinato alla finestrella della

camera dove i Ficchi prendevano gli accordi. In seguito alla strage di Biforco praticamente tutte le

famiglie dei Ficchi abbandonarono Casola e la valle e da questa data non troviamo più cenni di

questa illustre casata che ha avuto tanta parte nella storia del paese e tanta importanza in seno

alla consorteria dei Ceroni. Rimasero solo i Mita prima ad Osta di Castel del Rio poi a Fontana e a

Tossignano.

- 52 –

Qui ex Ficchiis incolumes ab insidiatoribus eva-

serant, et qui propinquiore cognatione eos

contingebant, diversas per Italiam tunc pri-

mum, quo sors detulit, in exilio sibi quæsiere

sedes, haud amplius in Patriam regressi. Ho-

rum familiæ quamplures, quibus res adversæ,

quocumque intenderent, erant, cum parvulis

natis sævam adversariorum insaniam, qui

jure, injuria-que apud Judicem calumniando

proscriptiones vel innoxiorum ad occupanda il-

lorum bona intendebant, timentes, præ-dia,

tectaque propria in partibus Senii, Ammonii-

que hostium potestati derelin-quentes, alio do-

micilia transtulerunt; et ex locupletibus egen-

tes ut plurimum factæ inimicos suis facultati-

bus ditarunt. Mitæ cum agnatis pacto jam su-

pra foederi nequaquam fidentes, Arcem montis

Battaliæ, quæ Comitis Alexandri Bonmercati

ex Foro Cornelio ditio erat, ut ab insidiis, quas

multi-fariam in eos struebant Ceronii sibi ca-

verent, per aliquot annos incoluere.

I Ficchi superstiti dello agguato e i loro parenti

si cercarono qua e là per l'Italia un luogo dove

risiedere affidandosi alla sorte e non fecero

mai più ritorno alla loro patria. Un gran nu-

mero di famiglie perseguitate dalla sfortuna

ovunque andassero, piene di timore per la fe-

rocia dei nemici i quali con la forza del diritto,

con l'ingiuria, la delazione, la calunnia mira-

vano ad occupare i loro beni, se ne partirono

coi propri figlioli abbandonando nelle valli del

Senio e del Lamone le proprie case e i propri

campi diventando per lo più molto povere da

ricche che erano e arricchendo coi loro beni i

propri nemici. I Mita e i loro congiunti non fi-

dandosi per niente dei patti stipulati, per sot-

trarsi a tutte le insidie dei Ceroni, andarono

ad abitare per alcuni anni alla Rocca di Monte

Battaglia che era sotto la giurisdizione del

Conte Alessandro Bonmercati di Imola.

NOTA AL PUNTO 52

L'impietosa faida scoppiata attorno al 1530 prosegue il suo corso. I Ficchi sono costretti, come

perdenti, ad abbandonare la nostra valle. Di loro non sappiamo pressochè più nulla, e non ho modo

di sapere se da qualche parte della Romagna si possa trovare questo cognome. Tempo fa, sfo-

gliando un libro della storia di Brisighella, notai che architetto della Villa Spada era stato un Ing.

Ficchi, ma in provincia non mi risulta che ci sia più un tal cognome. Insieme ai Ficchi partono i Mita

e di questi c'è possibilità di seguirne un pò le tracce. In parte vanno verso la valle del Lamone, in

parte verso quelle del Santerno. Il Mita ha certamente notizie di prima mano, perchè si tratta dei

suoi e quindi va presa come vera la notizia del loro breve soggiorno su Monte Battaglia. Certamente

hanno accettato di diventarne i custodi a servizio del Conte Buonmercati. Verso il 1538 li troviamo

ad Osta di Castel del Rio e più tardi in quel di Fontanelice. Quasi nello stesso tempo sono anche a

Tossignano. Alcuni di loro lasciano il cognome Mita per prendere quello di Vighi o Vicchi da un certo

Vigo Ficchi. A Fontanelice il 20 Gennaio 1590 nascerà lo storico Don Domenico. Il Benacci, storico

di Tossignano e il Vesi, storico di Fontana polemezzano fra loro nel 1840 (cfr Dichiarazione di Giu-

seppe BenacciImola Tipi Benacci 1840 e Risposta alla dichiarazione di Giuseppe Benacci intorno al

ragionamento di Antonio Vesi sulla vera terra natale del sacerdote Domenico MitaFaenza presso

Montanari e Marabini 1840) su quale dei due paesi debba aver la gloria di dirsi patria del nostro

storico. Sembra che abbiano ragione tutti e due anche se Fontana può dirsi vera terra natale e

Tossignano terra di adozione.

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Ritorniamo ai Ceroni. Le faide anche in quel tempo non erano uno scherzo e il Guicciardini, lo

storico, che ha vissuto come Presidente di Romagna proprio le vicende di quegli anni, non è pre-

cisamente tenero coi nostri; dice infatti: "Li Ceroni ... uomini bestiali ... micidiali ... da fare ogni

male" (cfr Opere Inedite volume IX pp. 287). Forse ha dovuto giudicare più d'una volta questi fatti

di sangue. Erano tempi così, quindi da non invidiare come "i bei tempi antichi", no davvero.

- 53 -

Lancerii rem foedam, indignamque in suos, affi-

nesque fecisse rati propriæ existimationi satis

recte consuluisse crediderunt, si publico licet

mendaci docu-mento edicerent, Ficchios nomen

patriamque haudquaquam ex Ceronio Pago tra-

xisse: sed ex quodam Sylvestro Calamelli milite

progenitos Ceroniis tantummodo sociatos fuisse

(perinde ac si et ipsi non acciti, sed post homi-

nes natos Pagum ipsum incoluerint). Igitur gen-

tilitia stemmata utrisque adhuc usque commu-

nia Ramazotti fraude variantes, ut cæteri Cero-

nii natura, et genere a Ficchiis. Mitisque

disjuncti penes omnes haberentur, Lineam fa-

sciam transverso stemmatis Cervo addiderunt,

et ut ad posteros suos tantum, non autem ad

Ficchios et Mitas mos iste transiret, publico edi-

xere documento. Quod ubi Ricciardus Alidosius,

qui Castri Rivii dominus erat, resciit, portentum

id esse ratus, quasi indignabundus procla-

masse dicitur: Ecquidnam restat Lanceriis, qui

talia moliti sunt, nisi intersemet brevi desaevire?

Cervi intersectio astruit, ni fallor, domesticam

internecionem: lintea vero obligandis, abster-

gendisque mutuis vulneribus convenienter ap-

posita stemmati quicumque dicet. Neque exitus,

ut dehinc ostendam, ejus conjecturam fefellit.

Sed primum de Ramazotto dicam, quem magna

ex parte voti compotem factum nec diu divina

justitia passa est in lætitia exilire, nec poenam

suis dignam sceleribus effugere.

I Lancieri compresero di essersi comportati in

modo vergognoso e indegno verso i propri

congiunti e per salvare il proprio onore deci-

sero di pubblicare un documento, completa-

mente falso, attestante che i Ficchi non erano

oriundi di Ceruno, ma discendevano da un sol-

dato di nome Silvestro Calamelli e ai Ceroni si

erano uniti soltanto per patto di società, come

se (proprio loro), i Lancieri, avessero abitato

a Ceruno a memoria d'uomo invece di esservi

stati chiamati. Per istigazione di Ramazzotto

cambiarono pure lo stemma che era fino allora

comune alle due famiglie aggiungendovi una

fascia in lino traversante il cervo dell'arme in

modo da distinguere del tutto i Ceroni dai Fic-

chi e dai mita ed emanarono un decreto che

questo fosse lo stemma riservato ai Ceroni

anche in futuro, sempre Ficchi e Mita esclusi.

Il signore di Castel del Rio, Ricciardo Alidosi,

venuto a conoscenza di tutto ciò sembra sia

uscito, sdegnosamente in questa battuta:

"Dopo questo cosa manca ai Lancieri se non

sbranarsi fra di loro?". L'intersecazione del

Cervo, se non mi sbaglio, simboleggia vera-

mente l'odio mortale nella stessa famiglia e

ognuno converrà che giustamente è stata ag-

giunta allo stemma la fascia di lino (come

benda) per fasciare le reciproche ferite. E que-

sta supposizione si dimostrò purtroppo vera

come più avanti io mostrerò. Ma parlerò per

prima di Ramazzotto al quale, realizzando in

gran parte il (nostro) desiderio, la giustizia di-

vina non permise di spadroneggiare allegra-

mente nè di sfuggire la degna pena delle sue

scelleratezze.

NOTA AL PUNTO 53

È interessante notare come dopo l'unione secolare i due gruppi: Ceroni, o meglio Lancieri e Ficchi

vogliano perfino negare le loro radici. In quel documento falso a noi interessa saper intravedere

che invece del glorioso passato di Perugini ora i Ficchi vengono qualificati come discendenti d'un

semplice soldato: Silvestro Calamelli. La verità è probabilmente più semplice. Nei tempi andati fra

una famiglia di Ceruno e una della Rocca di Calamello c'è stato un matrimonio. Forse proprio un

soldato di quella Rocca, appunto Silvestro, ha sposato una Ceroni. Questa parentela ha dato modo

all'unione sotto la stessa arma: il cervo in campo azzurro. Effettivamente lo stemma antico era

senza la benda trasversale come può far fede lo stemma della famiglia Tozzoni di Imola che per

esser stata vari anni qui a Casola (Proveniva da Ozzano Emilia? Lucca?) prima di scendere a Imola,

come dice lo storico Angeli, verso il 1400, ha adottato lo stemma Ceroni e cioè il cervo azzurro

senza benda. Visto che parliamo di stemma non sarà male notare che le varie famiglie muteranno

in seguito il colore del fondo; così i Rinaldi Ceroni prenderanno il colore rosso, i Soglia Ceroni quello

verde, i Poli quello d'oro mentre altre famiglie lo manterranno azzurro. Per chi ha curiosità di do-

cumentazione suggeriamo l'elenco degli stemmi della città di Imola reperibile in quella biblioteca e

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una scappatina nella chiesa di Pagnano dove restano due cassapanche seicentesche indubbiamente

dei Rinaldi Ceroni allora ancora proprietari del Casoletto e nella chiesa dei frati a Casola dove ancora

sui due primi banchi presso l'altare ci sono gli stemmi del Cardinale Soglia col campo verde.

- 54 -

Mox enim ut ille Paulo III. Sum. Pont. delatus

est, quod Franciscum Montinum a Valle Abbatis

pedibus fenestræ arcis suspensum mori coegis-

set, et alios vel parvulos adhuc lactantes eju-

sdem familiæ a sicariis obtruncari curasset, ut

stupri quod ipse Franciscus in Altiliam Rama-

zotti natam nefarie commisisse criminabatur,

poenas repeteret, aliaque indigna, quorum co-

gnitio Præsidi Provinciæ permissa fuit, patras-

set: dum ad dicendam causam vocatus non

comparet, Præses Ramazottum absentem, uti

Sedis Apostolicæ rebellem læsæque majestatis

reum damnat, atque universa illius bona Fisco

addicit. Tum acie quinque millium pene armato-

rum protinus contracta; Octobri mense anno

1536 a Virginis partu, Tussignanum concedit, et

Castro Oppidanis se se dedentibus potito, ibi ali-

quot dies oppugnanda Arce nequicquam absu-

mit. Dum Ramazotti Procomes, qui ei consobri-

nus erat, nulla vi repugnando, sed tantum ex ea

inscio Ramazotto abscedere renuens, Præsidis

conatus protrahit, ac differt. Coeterum Præses

ratus se procrastinatione delusum, majora tor-

menta ex aptiori loco displodens muros ferreis

globulis incessanter perfrin-gere, atque labefac-

tare non cessat, donec Procomes timore percul-

sus paucos post dies ex composito exit ab arce,

et eam liberam Præsidi dimittit. Hanc Præses re-

ceptam, hosti-literque invasam nimis impie di-

ruit, moxque ad propria cum armatis recedit. In-

terea Ramazottus inops consilii initio ad Alpes

Petræ malæ perfugerat, et apud Altiliam dudum

memoratam, quæ paullo ante cuidam ex dicto

loco nupserat, dehinc vitam omnes omnibus

ærumnis plenam, uti fama est, intra foetida, ob-

scuraque latibula domus, ut Principi cælaretur,

etiam diris Pontificiis execratus, tamdiu traxit,

donec miseram efflaret animam, fideliumque

sepultura caruit, quoad post tempora fuit recon-

ciliatus Ecclesiæ. Coeterum quoad nostrates

tarde fera in tendiculas pedem injecit, tardiu-

sque Ceroniis ab teterrimo hoste insidiæ occide-

runt; quippe jacta inter eos alea erat, jam vires

eorum irreparabiliter expugnatæ.

Venne riferito al Papa Paolo III che Ramaz-

zotto per punire la violenza carnale subita

dalla propria figlia Attilia, attribuita a France-

sco Montino di Val Abate. Aveva fatto morire

costui appendendolo per i piedi ad una fine-

stra della Rocca (di Tossignano) e aveva ordi-

nato la strage di tutta la sua famiglia, com-

preso i figli lattanti. Fu pure accusato di altre

criminali azioni presso il Presidente della Pro-

vincia, per cui fu chiamato a comparire in giu-

dizio, ma egli non si presentò. Venne condan-

nato come contumace e tutti i suoi beni con-

fiscati a pro del Fisco. Il Presidente mise in

armi una compagnia di cinquemila solda-ti e

nel mese di Ottobre dell'anno 1536 marciò

contro Tossignano. Prese tosto il paese per

spontanea resa degli abitanti, ma per diversi

giorni dovette battere la Rocca perchè il Vi-

sconte di Ramazzotto, che era suo cugino, pur

non opponendo attiva resistenza, rifiutava di

abbandonarla prima di aver informato Ramaz-

zotto. Il Presidente fu costretto a prolungare

gli sforzi; poi finalmente irritato per l'indugio,

diede ordine di battere la Rocca da un'altura

opportuna, con le artiglierie pesanti smantel-

lando e sberciando senza sosta le mura con

palle di ferro. Pochi giorni dopo il Visconte

pieno di paura scese ad un accordo e abban-

donò la Rocca vuota nelle mani del Presidente.

Questi la fece assalire ed atterrare senza pietà

prima di ritirarsi colla truppa. Intanto Ramaz-

zotto senza più scampo, si era rifugiato sui

monti di Pietramala presso la figlia Attilia, ivi

maritata, e dovette qui condurre una vita

piena di sofferenza fra i nascondigli più fetidi

e oscuri della casa per restar nascosto al Prin-

cipe, colpito dalle censure ecclesiastiche, fino

al giorno della morte e non ebbe neanche se-

poltura cristiana fin al giorno in cui fu poi ri-

conciliato colla Chiesa. Tornando ai nostri dirò

che troppo tardi la mala bestia aveva messo il

piede nella trappola. E ancora troppo tardi

erano cessate le trame di quel nemico cru-

dele. Ormai fra loro il dado era stato tratto.

Ormai le loro forze erano state fiaccate.

NOTA AL PUNTO 54

Con l'avvento al soglio pontificio di Paolo III (Alessandro Farnese) nel 1534, la stella di Ramazzotto

più che declinare precipita. Sotto il Papa di casa Medici, Clemente VII, aveva potuto arrivare al

rango di Conte, come abbiamo visto, e oltre a governare Tossignano, Fontana, Belvedere, Sasso-

leone, ecc., avrebbe aspirato a fare il conte anche nella nostra valle del Senio, ma qui, inspiegabil-

mente, la famiglia Calderini di Bologna che aveva già vasti possedimenti in Valsenio e Casola frutto

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di enfiteusi concesse dal priore Zilini o Gillini Piero di Bologna verso il 1382/83 sui beni del mona-

stero di Valsenio, viene investita della contea di Casola Valsenio e parrocchie limitrofe costituita

smembrando il nostro territorio dal contado di Imola. Il 14 Gennaio 1532 gli Homines Casulae Vallis

Senni et aliarum villarum suppositarum che sarebbero: Prugno, Valsenio, Settefonti, Montefiore

(Valle della cestina), Baffadi, Castel Pagano (S. Apollinare e Mercatale), Mongardino (cfr atti del

notaio Ser Valerio Passeri di Tossignano riportati dal manoscritto Linguerri) giurarono fedeltà al

conte Domenico Calderini e a suo nipote Lodovico. I nuovi conti ricevono dal Commissario di Casola

Ser Pietro (si ignora il suo cognome e la sua patria) le chiavi del palazzo comunale colle quali aprono

e chiudono la porta in segno di possesso e quindi passeggiando su e giù per la piazza e la strada

sempre come prova di reale possesso, pertinenza, giurisdizione ecc. Sono presenti come testi:

Giovanni Bartolomeo Malvezzi e Gian Francesco Ottoboni di Bologna e il Sig. Carlo di fu Gregorio di

Brisighella e il Sig. Francesco di Giovan Battista Ravagli dei Pavarotti (Territorio) della Valle del

Lamone. Notate dunque come appena di là dal fiume si è già in Val di Lamone, cioè sotto la giuri-

sdizione di Brisighella. I Pavarotti, e così Soglia, Pagnano, ecc., non entrarono nel territorio della

nuova contea. Ma anche questa nuova contea ebbe vita effimera. Il nuovo Papa aveva visioni di-

verse per ciò che concerneva il territorio dello Stato Pontificio e vedeva malvolentieri questo pullu-

lare di Conti che in qualche modo intralciavano il buon governo dell'intero territorio. Quando co-

minciarono a fioccare le accuse di ingiustizie e atrocità commesse dal Ramazzotto, il nuovo Presi-

dente di Romagna, che è il Vescovo di Chiusi Mons. Gregorio Magalotti, imbastì tosto un processo

a carico del truce conte. Uno dei tanti delitti era proprio stato la morte di un certo Francesco Montino

o di Montino di Val Abate in territorio di Belvedere. Forse si tratta di uno dei suoi scherani che lo

seguono anche nel palazzo di Tossignano. La comunanza delle figlie del Conte con questi baldi

soldati creava certi inconvenienti dalle conseguenze imprevedibili e tragiche. Non sarei troppo pro-

penso a credere ad una violenza e del resto Ramazzotto stesso stava dando un pessimo esempio

di moralità alle proprie figlie in questo campo, vecchio e ormai malandato come era; ma sorvoliamo.

Monsignor Magalotti assale Tossignano appunto nell'Ottobre del 1536. Ramazzotto se n'è fuggito

alle Valli di Pietramala. Qui la presunta vittima della violenza carnale, la figlia Attilia, si è sposata

con un certo Adamo di Baldo Pagnoni del luogo e presso di lei si rifugia Ramazzotto bandito dallo

Stato della Chiesa a pena capitale. Nella Rocca di Tossignano c'è rimasto suo cugino: Cornelio di

Michelino che tentenna e poi cede alle prime scariche della artiglieria pesante. Ogni bene di Ramaz-

zotto è confiscato, palazzo e robe e perfino un'arca di marmo per la sua sepoltura che si era pre-

parato come aveva già fatto a Bologna in S.Michele in Bosco. Morì il 14 Agosto del 1539, probabil-

mente a Scarperia, come rileva il Casini (cfr. Dizionario Biografico, Geografico e Storico del comune

di Firenzuola vol. III p.69) che riporta integralmente anche il testamento di Ramazzotto dettato

appunto in Scarperia il giorno 13, cioè un giorno prima di morire. Poichè incorso nelle censure

ecclesiastiche non potè avere sepoltura religiosa che molto più tardi quando i discendenti (che detto

per inciso sono gli attuali rinomati produttori dell'amaro Ramazzotti) lo trasportarono nel suo se-

polcro di Bologna. Dal testamento rileviamo che oltre Lucia sposa di Raffaele Brunori e l'Attilia o

Antilia sposa di Pagnoni Adamo, aveva avuto un figlio, già defunto al'atto del testamento, di nome

Pompeo. Figli di fu Pompeo sono nominati Alessandro e Ramazzottino. Questi sono i suoi eredi

universali. Si ricorda però anche delle figlie e dei nipoti. Stende il testamento il notaio Ser Bernardo

di Benedetto. Colla morte di Ramazzotto si estingue una gran fonte di guai per i Ceroni, ma ormai

l'incendio è stato appiccato e la gloria e la fama della consorteria Ceroni definitivamente fiaccate,

proprio come dice il Mita.

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NOTE AL PUNTO 55

Con la morte di Ramazzotto, si poteva ben sperare in un periodo di pace per i nostri Ceroni, ma la

mala pianta della discordia allignava vigorosa nella "Famiglia" stessa dei Ceroni che pur era note-

volmente diminuita di numero dalla scomparsa di tutti i Ficchi e aderenti. Il Mita ha modo tuttavia

di registrare che in occasione di un arruolamento ordinato dal Card. Legato, il Card. Girolamo Rice-

nati del titolo di S.Giorgio, nel 1552 i Ceroni assommano a 300 uomini atti alle armi. Un numero di

tutto rispetto. Perchè questo arruolamento? Giulio Cesare Tonduzzi, lo storico di Faenza, registra

in quell'anno una piccola sommossa di militari comandati da Carlo Orsini, proprio a Faenza. Sembra

che il tumulto fosse generato da un caso singolare: un soldato moro, arruolato fra le truppe dell'Or-

sini, aveva probabilmente usato violenza o molestato una donna della città. Il popolo rumoreggiò

al punto che l'Orsini fece prendere il disgraziato e lo sottopose a tortura sulla pubblica piazza.

L'infelice ne morì straziato. Ora si sollevarono i commilitoni che si mossero contro la corte e i capi

e ci volle del bello e del buono per riportare la pace. Il Card. Legato, sentita la cosa, ordinò vari

processi specie contro i fautori della sollevazione e minacciò Faenza stessa. In torbidi del genere,

contro la città, si ricorreva con facilità alle compagnie dei territori vicini tutt'altro che tenere verso

la città madre e può essere che fosse precisamente quella la ragione dell'ingaggio. Si sa poi che

tutto si acquietò e anche il Legato venne a più miti consigli.

Quando i Ceroni avevano modo di scaricare sul campo di battaglia le loro energie prepotenti, c'era

pace fra loro, ma appena si ritrovavano di nuovo sulle rive del Senio, scoppiavano invariabilmente

feroci rivalità fra i vari casati. Si sentono importanti, si arrogano diritti sugli altri, si sospettano. Fra

tutti i casati il gruppo più forte è costituito dai Lancieri, i discendenti di Giovanni il Lanciere, che

comprende le ben note famiglie: Rinaldi, Ravaglia, Berti, Giacometti, Poli e Marondoli. Impossibile

Dejectis Ficchiis, uti mox dictum est, tantus Cero-

niorum, qui patrios Lares adhuc tenebant, numerus

supererat, ut anno 1552 Cardinalis Sangiorgius,

qui Flaminiæ Legatus pro Pontifice erat, novam mi-

litum cohortem pro sede Apostolica instauraturus,

viros trecentum ex Ceronia gente, qui supra vige-

simum, ac infra quinquagesimum annum essent, in

numerum militum referri mandaret. Itaque Cero-

niensium propagatio, resque sibi secundæ pavo-

rem exteris, finitimis invedentiam parere, ipsos

vero intollerabili audacia, furentique inter eos pe-

tulantia effere sic potuerunt, id maxime moventi-

bus Gellino, Relicco, atque Garrino, proles genitæ

ad ea, quæ majores pepererunt, subvertenda, ut

quanto altius elati sunt, eo fædius corruerint. Mu-

tuæ igitur simultates, hostiles invidiæ, nefariaque

inter eos odia ab exiguis profecta initiis, ubinemo

omnium, qui nascentem comprimeret flammam,

affuit, tanto incremento aucta sunt, ut Lancerii

præpotentiores bifariam disjuncti, alteram partium

Ravalei amplecterentur, quibus potissimum Lauli,

Polique auxilio erant, alteram Raynaldi, quos Jaco-

betti, Bertique sequebantur. Dumque alter ab al-

tero sibi malum suspicatur, infestis animis mutuo

se se intuentibus, verbisque interdum insultan-ti-

bus, eo tandem deducta res est, ut ab exteris in se

tantum verterent arma, et manus dum affuit occa-

sio, sibi pertinaciter consere-rent, neque data quies

donec intra sex mensium, et anni spacium ex ipsis

numero viginti, qui ferme omnes ex primoribus

erant, hinc atque illinc summa impietate fuerint in-

terempti.

Una volta allontanati i Ficchi, come ho accen-

nato poc'anzi, ad abitare i patrii luoghi non eran

rimasti che i soli Ceroni. Quando il Card. San-

giorgio, legato pontificio della Emilia, nel 1552

dovette rinnovare una coorte di soldati per la

Sede Apostolica, arruolò i Ceroni di età com-

presa fra i venti ed i cinquant'anni e questi as-

som- marono a 300 uomini.

Il propagarsi dei Ceroni e la loro fortuna suscitò

i timori fra quelli lontani, invidia fra i confinanti

e gonfiò di tanta audacia e furibonda prepo-

tenza i Ceroni stessi (e ciò soprattutto a causa

di Gellino, Relicco e Garrino nati per tralignare

dalla razza generata dai nostri antenati),

quanto più si levarono in alto, tanto più vergo-

gnosamente ruzzolarono in basso. Per loro si

destarono inimicizie, feroci invidie, odi scelle-

rati generati da futili motivi, non essendovi al-

cuno pronto a spegnere l'incendio nel suo na-

scere, e crebbero in modo tale che i Lancieri, i

più potenti, si divisero in due partiti; da una

parte i Ravagli sostenuti soprattutto dai Loli e

dai Poli e dall'altra i Rinaldi seguiti dai Giaco-

metti e dai Berti. Si sospettavano di male a vi-

cenda e si guardavano in cagnesco e non di

rado si sbranavano fra loro con liti sanguinose.

La situazione raggiunse un punto tale che non

solo richiamò contro di loro le armi straniere,

ma li accanì ostinatamente a combattersi senza

sosta tanto che nel breve spazio di un anno e

mezzo ci furono e da una parte e dall'altra, ben

venti vittime, e quasi tutte fra i maggiorenti,

uccise con crudele ferocia.

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trovar le cause di questo dissidio che divampa fra le due famiglie più in vista: i Rinaldi e i Ravaglia.

Futili motivi che degenerano in delitti, certamente. Come ieri coi Ficchi, oggi fra loro i due gruppi si

divorano. Si avvera la profezia di Riccardo Alidosi. È la tipica faida delle famiglie protagoniste. In

18 mesi 20 morti: più di uno al mese. Lo spettro funesto del Ramazzotto ghigna di compiacimento.

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Ad hæc apud Pium IV. Pont. Max., Magnumque

Hetruriæ Ducem Cosmum Primum alteri alteros

criminando, infanda-que alia super alia facinora,

quæ in Ditione eorumdem Principum per-

petrasse culpabant, sibi invicem objiciendo, eam

Dominorum indignationem subierunt, ut nullum

jussit omnino prætermissum, quo res per-

sonæque eorum plexæ non fuerint, citatique Rei

absentes, quibus ad causam dicendam adesse

non fuit consilium, exulaverint, bonaque Fisco

fuerint adjudicata.

Gli uni e gli altri sporgevano denunzia o presso

il Papa Pio IV o presso il Gran Duca di Toscana

Cosimo I, accusando gli avversari di aver

commesso numerosi delitti nei territori di quei

Principi.

Si tirarono dunque addosso anche l'indigna-

zione di quei Signori che non tralasciarono

legge alcuna per punirli nei beni e nelle per-

sone. Venivano citati in giudizio e loro non

comparivano, così si attiravano l'esilio e la

confisca dei beni.

NOTE AL PUNTO 56

Fino a quando le rivalità si esauriscono in loco, più o meno le cose rimangono allo stesso punto, ma

se nel gioco si coinvolgono interessi esteriori e soprattutto le autorità, c'è sempre da aspettarsi il

peggio. Capita così ai Ceroni. A cavaliere fra le Romagna e la Toscana, o meglio fra lo Stato Pontificio

e il Gran Ducato, era facile sconfinare nell'attuare le proprie vendette. L'autorità del Duca e quella

del Legato veniva spesso annoiata da un susseguirsi di querele che fruttavano, quando fruttavano,

solo disgrazie per i Ceroni. Il Fisco incamerava e da una parte e dall'altra e i due gruppi contendenti

non si rendevano forse neppur conto che la loro sete di vendetta veniva puntualmente soddisfatta

con l'acqua salata delle punizioni e delle confische.

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Sed omnium sibi perniciosissimum facinus, quod

Possentes e Polis pessimo consilio ausus est mo-

liri, fuit. Is enim a Fabroniis, apud quos duxerat

uxorem, verborum contumeliis laceratus dum

rationem ulciscendæ jnjuriæ molitur, viginti ex

suis Marradium ducit, Fabronios quotquot inve-

nerit interfec-turus: coeterum spe frustratus,

ubi cum armatis ab eo loco se se recipere tentat,

Pellinguerram Zannotti filium, qui Marradianæ

arcis custos, Serenissimoque in primis carus,

atque compater erat, sibi obiter occurrentem,

ne gratuito illinc excederet, interimit, fugaque

incolumis ad propria revertitur. Hæc ubi magno

duci nunciata sunt, indignatione sceleris Prin-

ceps ille percitus necem, supra quam quisquam

cogitaverit, ulcisci molitur; reque omni cum

Pont. Max. acta, exercitum tandem duorum mil-

lium delectorum Angelo Guicciardino tradit, et

quæ agenda sint imperat. Guicciardinus ex Alpi-

nis montibus descendens cum acie instructa,

quæ ex voluntariis, qui Ceroniis infensi erant,

seu prædam rapinasque meditabantur, con-

fluentibus augebatur in horas, Sosenanam per-

venit quarto idus septembris anno a Virginis

partu 1563. Huic ex composito apparitores

multi, ac Pontificiæ copiæ, quas paulo minus

mille armatorum ex proximis civitatibus, et agris

contraxerant Præfecti opem ferendo occurrunt,

et dum adjuncti quatriduum apud nostrates sta-

tiva habent, universa quæ a Baffadio ad Saxa-

tellum circa erant, hostiliter diripiunt, vastant,

populantur, nulla re, cui ferro, aut igne noceri

possit, incolumi relicta: divinaque simul, et hu-

mana jura polluentes, perinde ac si Turcæ,

atheistæve essent nullo sceleri parcunt. Ad hæc,

tecta innoxia Ceroniorum ferme centum omni

prius suppellectili exhausta nemine resistente,

paulatim incendunt: (nostri quippe declinando

milites alio se se receperant, ne armis repu-

gnando sæveriorem Pontificis manum experi-

rentur). Dein Bartholomæum, Laurentiumque

ex Ravaleis jam dudum proscriptos, quorum

apud Cirrum Alidosium in Castro Rivii tuta reba-

tur statio, eo comprehendunt, et in vincula duc-

tos Florentiæ obtruncant. Nefarii prædones

verius quam milites postquam igne, et ferro

constravere cuncta, sero tandem Rectoris Pro-

vinciæ litteris recedere jubentur, et præda om-

nis generis onusti ad propria lætantes re-

vertuntur. Hac clade recepta damni æstimatio

supra octoginta millia aureorum fuit.

Mox Romam missi Legati Petrus e Polis, et An-

nibal Ungania ad pedes Sanctissimi publico

nomine de injuriis, damnis sibi nequiter illatis

conquestum. Casum sera æstimatione Pontifex

miseratus anathematis litteras in surreptores,

Ma il delitto più funesto fu quello che commise

insensatamente Possente Poli. Poichè era stato

profondamente offeso dai Fabroni (di Marradi),

casato nel quale aveva preso moglie, studiava

il modo di vendicarsi. Guidò venti dei suoi a

Marradi con l'intento di sopprimere i Fabroni

che vi trovava, ma non riuscì nell'impresa e

mentre coi suoi armati stava già ritirandosi, si

imbattè in Pellinguerra, figlio di Zanotto, cu-

stode della Rocca, e, per non restare a mani

vuote, lo uccise e se ne fuggì. Era quest'uomo

molto caro al Gran Duca (di Toscana) e suo

compare per cui il Serenissimo, informato

dell'efferato assassinio, profondamente colpito,

decise di vendicarlo nel modo più impensato.

Infatti, dopo aver avuto abboccamento col

Papa (Pio IV), su questa faccenda, affidò ad An-

gelo Guicciardini il comando di duemila soldati

con ordini ben precisi. Il Guicciardini scese dai

monti alpini con l'esercito schierato che andava

ingrossandosi per l'afflusso di volontari, nemici

dei Ceroni, attratti dal miraggio di bottino e

saccheggio, che mano a mano gli venivano in-

contro. Giunse a Susinana il 10 Settembre

1563. Qui lo raggiunsero, secondo quanto era

stato concordato, un circa mille fra guardie e

soldati delle milizie pontificie che i Prefetti ave-

vano arruolato nelle città vicine e nei contadi

allo scopo di prestare aiuto al Guiciardini. Le

truppe si riunirono e per quattro giorni stazio-

narono nella valle mettendo a ferro e fuoco

quanto si trovava fra Baffadi e Sassatello. Vio-

lado diritti umani e divini, al pari di Turchi o di

senzadio, non tralasciando alcuna scellerità.

Un centinaio di case dei Ceroni, del tutto inno-

centi, furono date alle fiamme dopo essere

state saccheggiate, senza che alcuno facesse

resistenza. (i nostri, evitando i soldati, si erano

recati altrove per non incorrere, se avessero

combattuto, nelle più severe repressioni del

pontefice). Infine furono catturati Bartolomeo e

Lorenzo Ravagli, già da tempo proscritti, che si

ritenevano al sicuro a Castel del Rio presso Ciro

Alidosi. Condotti in catene a Firenze qui ven-

nero decapitati. Tutta questa accozzaglia, che

più giusto sarebbe dire di banditi invece che di

militari, ricevette finalmente l'ordine dal Pre-

fetto della Provincia di ritirarsi. Cosa che fecero

lietamente carichi com'erano di robe depre-

date. Il danno di tanta rovina fu stimato a ot-

tantamila monete d'oro. Furono subito spediti

a Roma ai piedi del Papa, come ambasciatori

del Comune: Pietro Poli e Annibale Ungania a

presentar querela per le ingiurie e i danni ingiu-

stamente subiti. Il Papa, conosciuto troppo

tardi come erano andate le cose, ne restò

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NOTE AL PUNTO 57

Siamo già così verso il 1560. Brevemente va ricordato che nel 1555 al Papa Giulio III succede a

Marcello II (Cervini) che però muore 21 giorni dopo e gli succede Gian Pietro Carafa, Paolo IV.

Al Card. Legato di San Giorgio succede il Card. di Fano e nel momento dell'efferato delitto di Pos-

sente Poli è Presidente di Romagna Mons. Federico Martoro. A Paolo IV nel 1559 è succeduto Pio

IV. Il Gran Duca Cosimo gioì grandemente all'udir di tale elezione perchè Pio IV è un Medici anche

lui, sia pure di quelli di Milano, Giovan Angelo Medici detto "il Medichino" e si ripromette di trattare

col nuovo eletto senza più difficoltà.

Ciò spiega dunque come al fattaccio di Marradi si sia potuto rispondere tanto prontamente e defi-

nitivamente.

Se fosse intervenuto solo il Gran Duca, i colpevoli se ne stavano al sicuro nelle terre dello Stato

Pontificio; se fosse intervenuto il Papa, sarebbero in poche ore passati in quelle del Gran Ducato.

Era un giochetto ben collaudato da secoli!

Questa volta invece Duca e Papa si alleano e prendono a tenaglia tutta la valle del Senio. Qualcuno

ha cercato già da tempo di trovar rifugio altrove; per esempio a Castel del Rio dove c'è forse l'anima

più infida e losca che si possa pensare: Ciro Alidosi legato a Firenze per cento catene e che fa il

margiasso ospitando delinquenti vari nel suo castello a dispetto del Papa. È la rovina di Bartolomeo

e Lorenzo Ravaglia, come si vedrà.

Con la breve descrizione della manovra militare che fiacca per sempre la potenza e la grandezza

dei Ceroni il Mita chiude il suo racconto. A queste brevi note non resta che precisare che mentre

l'esercito fiorentino è comandato dal Guicciardini, della famiglia dello storico famoso, quello ponti-

ficio è ai comandi di Francesco Dal Monte. Più che di battaglia, è chiaro, si dovrà parlare di rappre-

saglia condotta all'insegna del piglia e arraffa. Con tanti soldati, dopo 4 giorni, c'era rimasto ben

poco!

damnificatoresque concessit, si ter moniti ablata

reddere, vel danna compensare abnuerent.

Cæterum ubi primum in Florentina ditione Pon-

tificia mandata Parochorum ministerio evulgan-

tur, Legati minis, pavoreque a sicariis perter-

riti, negotio infecto illinc abscedere compellun-

tur. Sic Ceronii, ubi cum moribus fortuna immu-

tata est familiari re destituti, prostrati animo, vi-

ribusque perculsi arma deponere, rei agrariæ

sedulam navare operam, tecta resarcire, foedus

inter semet pacisci, necessitate coarctantur.

Defuncto dehinc Magno Cosmo, ubi suffectus est

illi in regnum Franciscus primus, is cæpit Cero-

nios benevolentia complecti, ad quorum humiles

preces viros ex ipsis centum viginti olim a sua

ditione proscriptos gratis absolvit, exiliaque re-

mittens, universos in suam gratiam rediisse vo-

luit: rem hanc Pauli Manutii, qui Officii Octo

scriba erat, attestante documento IV. Nonas Ju-

lii anno 1577 acto. Itaque ex eo tempore Ceronii

ad veterem servitutem cum Serenissimis illis

Principibus promerendam restituti in annos mul-

tos belli pacisque tempore, et stipendia merue-

runt, et gratiis, atque decoribus cohonestati

sunt ab eis.

scosso e fece inviare lettere in cui si commi-

nava la scomunica ai predatori che, alla terza

ammonizione, non avessero restituito il mal

tolto. Quando, a ministero dei parroci, furono

divulgati in Toscana gli ordini del Papa, i nostri

ambasciatori furono fatti segno a minacce e

paure da parte dei sicari e così a mani vuote

dovettero partirsene. Così i Ceroni dei quali la

fortuna era mutata come i loro costumi, privi di

mezzi, fiaccati di animo e di forze, costretti

dalla necessità, deposero le armi, si diedero

con cura ai lavori agricoli, al restauro delle loro

case e a ricercar di nuovo di strin- gersi fra loro

in buoni accordi. Morto il Gran Duca Cosimo il

Grande, gli successe Francesco I. Questi trattò

con bontà i Ceroni; accolse lo loro suppliche e

fece grazia a 120 dei loro già banditi dai suoi

stati e tutti riammise nel suo favore. Paolo (o

meglio Aldo) Manuzio che era segretario degli

Otto, descrive tutto ciò in un documento scritto

il 4 Luglio 1577. Da quel momento dunque i Ce-

roni, ritornati nell'antica obbedienza di quei Se-

renissimi Principi, li servirono per molti anni sia

in guerra che in pace ottenendo da loro favori

e dignità.

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CONCLUSIONE

Sed de Ceroniis antiquis hæc pauca reperta suf-

ficiant, recentiora describet alter; ego enim ve-

tera hæc meo fideli studio Dei gratia compilata

animis præsentium insinuata velim, ut quales

initio, antiquoque tempore nostri majores fue-

rint ex parte cognoscant, discantque quid sit so-

cietates connubiave cum hoste inire, ejus consi-

lia sequi, jurata foedera violare, pacem poscenti

jurejurando denegatum cavere, in domesticos

veluti in hostes sævire, magistratibus obedien-

tiam pauci pendere, scelera sacramento abne-

gata committere, stemmata intercidere: et in-

telligant, quod si fortitudo præsentium dissipata

est, ipsi sibi posterisque malum progenuerunt.

Plura si quis noscere avet accuratius perquirat,

et quod ego naturali imbecillitate nequivi, ipse

forsan sua sedulitate inveniet, opusque perfi-

ciet.

Laus Deo semper, B. V. Mariæ, ac cunctis Coe-

litibus. Amen.

Ma bastino queste poche cose da me trovate

sulla storia degli antichi Ceroni, qualche altro ne

scriverà le più recenti. Io amerei che queste vec-

chie storie che con fedeltà e coll'aiuto di Dio ho

qui raccolte, si imprimessero nell'animo dei miei

contemporanei perchè conoscano, almeno in

parte, quali furono i nostri antenati nei loro tempi

antichi e imparino a cosa può condurre il fare al-

leanze e parentela coi nemici, seguire i loro con-

sigli, il non mantenere i patti giurati, il negar con

giuramento la pace a chi l'invoca, l'esser crudeli

coi propri consanguinei e trattarli da nemici, la

disobbedienza alle autorità, il commettere azioni

nefande che s'era giurato di non compiere, il ta-

gliare gli stemmi; sappiamo inoltre che se per i

contemporanei è cessata ogni grandezza, questo

danno fu procurato colle proprie mani e tra-

smesso ai posteri innocenti. Se poi qualcuno de-

sidera conoscere più minutamente altre notizie,

se le cerchi con cura maggiore e quanto, per mia

naturale incapacità ho tralasciato, lo trovi lui e

perfezioni l'opera.

Siano sempre lodati Dio, la B. V. Maria, e tutti i

Santi. Amen.

Sac. Domenico Mita