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STEFANO ETTORE LA BORDONA PRESENZA MILLENARIA NEL MONFERRATO

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STEFANO ETTORE

LA BORDONA

PRESENZA MILLENARIA

NEL MONFERRATO

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Introduzione

Sin da bambino, quando con gli amichetti esploravo le campagne fubinesi, la Bordona era una delle mete preferite per il fascino misterioso che l'avvolgeva. Il rudere, come si presentava allora, trasudava interessanti vicende storiche e, anche ad un occhio inesperto, lasciava intravedere il suo glorioso passato. Con il trascorrere degli anni il mio puerile interesse si trasformò in una più profonda curiosità che mi spingeva a cercare i segni lasciati nelle trame della storia dagli antichi abitanti del luogo. Oggi, finalmente, con questa piccola opera siamo riusciti a raccontare un po’ di questa storia millenaria. Questo lavoro, analizzando i documenti storici trovati, non vuole semplicemente enumerare le vicende della Bordona, ma cerca di collocarla all’interno dei vari panorami storico-culturali che via via si sono succeduti. Un viaggio attraverso i secoli che, partendo dai fasti iniziali, attraversa periodi di decadenza per arrivare alla maestosa rinascita dei giorni nostri.

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“Se vogliamo conservare la cultura dobbiamo continuare a creare cultura”

(J. Huizinga)

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1041, La prima attestazione scritta

Nel cuore del Medioevo, all’alba del secondo millennio, le condizioni di vita dei popoli europei erano tutt’altro che facili. Nonostante la storiografia collochi proprio in questo periodo la famosa rinascita dell’anno Mille, in cui una rinnovata religiosità e lo sviluppo dei commerci cominciavano a muovere i primi passi in quelli che saranno considerati i Secoli Bui, un clima tempestoso afflisse il continente Europeo, compreso il Nord Italia. Solo grazie alle parole di uno dei maggiori cronisti dell’età medievale, il monaco Rodolfo il Glabro, riusciamo a comprendere quanto disperata fosse la situazione:

“Poco tempo dopo [rispetto al 1033, ndr] in tutto il mondo la carestia cominciò a far sentire i suoi effetti, e quasi tutto il genere umano rischiò di morire. Il tempo diventò in effetti così inclemente che non si riusciva a trovare il momento propizio per alcuna semina né il periodo giusto per il raccolto, soprattutto a causa delle inondazioni. Gli elementi sembravano essere in guerra tra loro: sicuramente invece essi erano lo strumento di

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cui Dio si serviva per punire l’orgoglio degli uomini. Tutta la terra era stata talmente inzuppata dalle continue piogge che nell’arco di tre anni non si poterono preparare solchi adatti alla semina. Al tempo del raccolto le erbacce e l’inutile loglio avevano ricoperto tutta la campagna. Un moggio di semente, quando rendeva tanto, dava al momento della mietitura uno staio, e lo staio a malapena riempiva un pugno. Questo flagello vendicatore era iniziato in Oriente, e dopo aver devastato la Grecia si abbatté sull’Italia, da dove si diffuse nelle Gallie arrivando poi a colpire tutta la terra degli Angli. Non vi fu chi non risentisse allora della mancanza di cibo: i grandi signori e la gente di media condizione alla pari dei miseri: tutti la fame aveva reso smunti. L’indigenza comune aveva avuto come effetto quello di far cessare la violenza dei potenti. Se qualcuno aveva del cibo, poteva venderlo al prezzo che voleva, anche il più elevato, sicuro di ottenerlo. In più di un caso il costo di un moggio di grano salì a sessanta soldi, in qualche altro un sestario fu venduto addirittura a quindici soldi. Quando non vi furono più animali o uccelli da mangiare, gli uomini, spinti dai morsi terribili della fame, dovettero risolversi a cibarsi di ogni tipo di carogne e di altre cose che destano ribrezzo al solo parlarne. Alcuni per scampare alla morte fecero ricorso alle radici degli alberi e alle erbe dei fiumi, ma inutilmente, perché non vi è scampo contro la collera di Dio se non in Dio stesso.”

(Rodolfo il Glabro, Storie dell’anno Mille, ediz. 2004)

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In quegli anni di perenni conflitti i confini territoriali dei regni europei erano soggetti a continui mutamenti e comunque difficilmente paragonabili a quelli degli Stati contemporanei. Più di metà della Penisola Iberica era soggiogata dagli arabi mentre la parte centro-settentrionale del nostro Paese era giurisdizione del famoso Sacro Romano Impero Germanico e prendeva il nome di Regno d’Italia. Nello specifico, il nostro territorio faceva parte del primo nucleo in cui si sviluppò il Marchesato del Monferrato. Nella prima metà del X secolo, infatti, i Re d’Italia Ugo e Lotario donarono un vasto territorio, che si estendeva dal vercellese all’acquese, al “fedele conte Aleramo”. Quest’ultimo, sepolto ancora oggi a Grazzano Badoglio, ottenne in dono dall’Imperatore di Sassonia Ottone I tutte le terre che si estendevano dal Tanaro al Mar Ligure. All’interno di questo grande possedimento, tuttavia, esistevano dei nuclei urbani che godevano di grande autonomia ed erano guidati dai loro vescovi grazie ad un diritto concessogli dagli Imperatori stessi. Era questo il caso di città come Savona ed Acqui Terme, ma anche di Asti che, benché non facesse parte del Monferrato, ne controllava molte località. Nel 1039 venne proclamato il nuovo Rex Romanorum, titolo che, in abbinamento a quello di Re d’Italia, era conferito agli Imperatori del Sacro Romano Impero prima che venissero formalmente incoronati dal Papa.

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Parliamo di Enrico III di Franconia, detto “il Nero” che con il diploma datato 26 gennaio 1041 confermava al vescovo-conte Pietro II di Asti, suo vassallo, tutti i possedimenti oggetto delle precedenti donazioni. Si tratta di un vero e proprio elenco di luoghi con brevissime descrizioni in cui troviamo, dopo aver menzionato Fubine e prima di citare Frassinello, un’altra località per anni rimasta sconosciuta o meglio, conosciuta, ma non identificata: “Medietatem de castro quod dicitur Bulgare et de corte cum capella, usque in granam cum suis pertinencijs”. È questo il primo nome della Bordona: Bulgare. È qui che si la più antica attestazione della sua esistenza e da qui partiamo per scoprirne la sua storia millenaria. In questo breve paragrafo, si confermava al vescovo di Asti metà del castrum, che non è da intendersi solo come castello, ma può anche identificare un centro fortificato in generale. All’epoca i castrum non rappresentavano solo il nucleo della vita di una comunità, ma erano anche fulcro del potere giuridico e religioso del luogo. Per questo motivo Bulgare viene ceduto con la corte, che possiamo definire come l’azienda agricola fonte del sostentamento del villaggio, e la capella cioè la chiesa. Questo insediamento, come era tipico dell’epoca, doveva trovarsi sulla sommità di una collina per ovvi motivi difensivi e venne ceduto unitamente alle pertinenze che si estendevano fino al torrente Grana, storico spartiacque tra i territori di Fubine e Vignale Monferrato.

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Proprio in riferimento a questi due paesi monferrini la cultura popolare tramandava un aneddoto che riportiamo grazie alle parole di Enri Bo: “...fino ad una cinquantina d'anni orsono, tutti gli scolari potevano apprendere le vicissitudini di Vignalone, sterminata ed opulenta «città», che, posta tra Vignale e Fubine – proprio dove noi localizzammo lo scomparso Burgarum – sarebbe stata distrutta dal Barbarossa quando «bruciò Vignale». Ennesimo «misfatto» di Federico I (solo in Piemonte si citano decine e decine di casi simili), imputabile più facilmente ad un «riflesso di certa letteratura e storiografia risorgimentale diffusa a tutti i livelli», che allo sbiadito ricordo di qualche distruzione effettivamente compiuta dall'imperatore tedesco” (Enri Bo, “Il popolamento rurale nel Basso Monferrato durante il Medioevo” in Arte e Storia n.4, febbraio 1992). Qui troviamo il secondo nome della Bordona: Burgarum. Come vedremo proseguendo nella storia, a seconda dei documenti la possiamo trovare indicata come Bulgare, Bulgari, Burgarum, Burgaria, ma si tratta sempre dello stesso nucleo abitativo. La memoria di questo luogo leggendario perdura così fortemente che ancora all’alba del terzo millennio lo storico Marco Battistoni, in una delle “Schede storico-territoriali dei comuni del Piemonte”, ed in particolare in quella relativa al Comune di Fubine, censisce alla voce “Luoghi scomparsi” la corte incastellata di “Castrum Burgari”, in località Borghi, o Cascine Fugassa, località

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situata proprio sul confine tra Fubine e Vignale Monferrato.

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(Testo completo dell’atto di Enrico III, corredato da note e commento in lingua tedesca, tratto da Monumenta Germaniae Historica, Tomus V, 1931)

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1156, Gli avi di Cristoforo Colombo

Durante il XII secolo i discendenti di Aleramo, primo Marchese di Monferrato, accrebbero di molto il loro potere e diventarono la principale dinastia feudale del Piemonte meridionale. Essi tentarono l’espansione sia a scapito delle città comunali circostanti, Asti, Alessandria ed Alba, sia oltremare partecipando alle guerre in Terrasanta. Il nuovo Marchese Guglielmo V, infatti, era cognato di Luigi VI Re di Francia. Contemporaneamente, nel nostro piccolo Monferrato andava affermandosi una famiglia, i Colombo, che iniziava ad esercitare la propria giurisdizione su alcune località. “Principali motivi allegati nel Sommario della causa agitatasi in Ispagna, per dimostrare che Colombo era uscito dalla famiglia de’ Feudatarj di Cuccaro. Tuttochè gli argomenti indubitati, e le prove e le testimonianze che da Baldassarre Colombo, e da chi

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patrocinava la causa di lui in Ispagna si presentarono per dimostrare che Cristoforo Colombo era uscito dalla famiglia de feudatarj di Cuccaro, sieno stati di tanto peso, che obbligarono, senza aspettar sentenza veruna, i suoi avversarj ad arrendersi all’evidenza; [...] Una delle prove che il rinomato Colombo fosse dei Consignori di Cuccaro è ricavata dalla fama pubblica. [...] E che ne sia il vero, che Cristoforo Colombo ed i suoi fratelli fossero discendenti da’ feudatarj del Castello di Cuccaro, e fossero figliuoli di Domenico Colombo, figliuolo di Lancia, del qual Lancia era pur figliuolo Franceschino Consignor di esso castello in Monferrato, da cui discendeva Baldassarre in linea retta, è quello appunto che si ricava e si verifica mediante la deposizione giurata di trentanove testimonj. E questi testimonj rendono ragione dell’asserzion loro, specificano i tempi e le persone da cui il sentirono affermare, e sono tutti nativi de’ luoghi e castelli più vicini a Cuccaro, come Vignale, Fubine, Conzano, e de’ più cospicui del Monferrato, come Cocconato, e la città stessa di Casale. Merita pure riguardo la qualità de’ testimonj maggiore d’ogni eccezione, persone di Chiesa, gentiluomini della primaria condizione, tra’ quali parecchi de’ Conti di Cocconato. Si fa inoltre osservare in esso Sommario che i testimonj si riferiscono a cento e venti otto persone, da cui udirono asserir tal cosa, ed è notabile che quattro di essi, tra’ quali tre dello stesso luogo di Vignale, assicurano di averla intesa dalla propria bocca di Secondo Cornacchia

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di Vignale, persona assai attempata, che aveva conosciuto lo stesso Ammiraglio Cristoforo e navigato con lui”.

(Gian Francesco Galleani Napione, “Della patria di Cristoforo Colombo”, Firenze, 1808)

Perché parlare di Cristoforo Colombo? Forse non è cosa nota, ma dopo la sua morte si aprì un lungo processo, durato più di trent’anni, per decretare a chi spettasse il maggiorasco (ossia il diritto del primogenito di ereditare tutto il patrimonio del padre). Una clausola specifica implicava la ricerca di eventuali parenti di sesso maschile che avrebbero dovuto essere aiutati con delle rendite. Dall’Italia vennero ammessi al processo e riconosciuti come facenti parte della famiglia “Colombo” due personaggi:

1. Don Bernardo Colombo, con credenziali della Repubblica di Genova;

2. Don Baldassarre Colombo, di provenienza monferrina e piacentina.

Degli avi di quest’ultimo conosciamo il primo possedimento in Monferrato grazie ad un piccolo frammento di testo risalente al 1156. Gli ascendenti di Don Baldassarre compaiono, infatti, in un documento di cui non possediamo la trascrizione completa, ma grazie agli Atti del II Congresso Internazionale Colombiamo, troviamo un riferimento al “primo luogo su cui è attestata la probabile giurisdizione

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da parte degli avi dei Colombo di Cuccaro”. Questo luogo era proprio la Bordona; il loro feudo era situato, appunto, “...nel Bolgaro, osij Borgo”. Questo Bolgaro, negli Atti, viene localizzato nei pressi dell’ “odierna Borghi, frazione di Fubine”, ma il riferimento è chiaramente ascrivibile al primitivo insediamento della Cascina Bordona. Oggi la frazione di Fubine situata al confine con Vignale prende il nome di Fugassa (o Fugazza) ma, come riportato da Enri Bo in una nota della sua tesi (E. Bo, “Le “Rationes” vercellesi e l'insediamento rurale nel Basso Monferrato”, Università di Torino, 1979) riferendosi proprio a questa frazione di Fubine: “...indicata dai più anziani come Burghi. Solo in questi ultimi anni è invalso l’uso di chiamare tutta la borgata Fugazza (propriamente per Fugazza dovrebbe soltanto intendersi la cascina della Fam. Vergano)”. Il documento del 1156 si trovava custodito, ancora nel XVIII secolo, in un archivio di casa Colombo e oggi ne rimane in un regesto solo la data topica e cronologica. Questo riferimento è molto importante, nonché veritiero, perché ritroveremo il legame con questa nobile famiglia anche in un documento leggermente posteriore.

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(Due versioni dell’arma dei Colombo di Cuccaro)

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1164, Federico Barbarossa

“Dopo la morte di Currado di Sassogna re de' Romani fue eletto imperadore Federigo Barbarossa detto Federigo Grande, overo primo, della casa di Soave, e chi il sopranomò di Stuffo. Questi, rimesse le boci degli elettori in lui, si chiamò sé medesimo, e poi passò in Italia, e fu coronato a Roma per papa Adriano quarto gli anni di Cristo MCLIIII, e regnò anni XXXVII che re de' Romani e che imperadore. Questo Federigo fu largo e bontadoso, facondioso e gentile, e in tutti suoi fatti glorioso. [...] I maladetti nomi di parte guelfa e ghibellina si dice che essi criarono prima in Alamagna, per cagione che due grandi baroni di là aveano guerra insieme, e aveano ciascuno uno forte castello l'uno incontro all'altro, che l'uno avea nome Guelfo e l'altro Ghibellino, e durò tanto la guerra, che tutti gli Alamanni se ne partiro, e l'uno tenea l'una parte, e l'altro l'altra; e eziandio infino in corte di Roma ne venne la questione, e tutta la corte ne prese parte, e l'una parte si chiamava quella di Guelfo, e

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l'altra quella di Ghibellino: e così rimasero in Italia i detti nomi”

(Giovanni Villani, Nuova Cronica, XIV sec.) Facendo un salto in avanti di circa otto anni, rispetto alla data del documento precedente, ritroviamo il conquistatore ed innovatore citato nell’aneddoto su Vignalone: Federico I detto “il Barbarossa”. In terra germanica morto Enrico V, discendente di Enrico III, promulgatore del diploma del 1041, si aprì una contesa per la successione alla guida del Sacro Romano Impero. Per il controllo del trono tedesco si scontravano le due famosissime fazioni: Guelfi e Ghibellini. Dopo decenni di lotte e di alterni sovrani, prevalse il Barbarossa poiché imparentato con entrambe le casate. Federico, invocato da alcuni comuni del nord Italia, colse l’occasione per accrescere le sue mire espansionistiche e scese nel nostro Paese in più occasioni, cinque per la precisione. È durante la cosiddetta “terza discesa” in Italia, che ebbe inizio nell’ottobre 1162, che accadde qualcosa di importante. Nell’autunno del 1164, infatti, Federico si avviava al ritorno in Germania col proposito di radunare un poderoso esercito. Durante il viaggio di ritorno l’imperatore soggiornò presso il castello di Belforte, nei pressi di Varese e il 5 ottobre concesse, per mezzo di due diplomi, molte terre situate nell’Alto e nel Basso Monferrato al Marchese Guglielmo V degli Aleramici, nonché alleato di Federico.

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Gugliemo fiancheggiava il Barbarossa nella lotta contro l’egemonia territoriale delle Chiese locali, prima tra tutte la Chiesa d’Asti alla quale, ricordando il diploma del 1041, il nostro Burgarum apparteneva, e prese parte all’assedio di Asti nonché alla battaglia per la presa di Tortona. Nell’atto tutte le terre menzionate vengono concesse a Guglielmo e ai suoi eredi con “omnes possessiones et castra et villas cum omnibus suis pertinentiis”. Proprio in questo nuovo elenco, dopo Alfianum vediamo comparire Bulgari e Monscravarium. Essendo un vero e proprio atto notarile, venne redatto in presenza di testimoni che erano tutti alti funzionari e dignitari imperiali. Per di più, il notaio che rogò l’atto venne eletto arcivescovo di Magonza e nominato cancelliere di Germania, una carica molto prestigiosa che veniva concessa solo ai fedelissimi dell’imperatore. Alessandro Aleramo che ha tradotto questo atto tiene a precisare che “...molte delle località citate nel diploma di concessione sono state abbandonate nel corso dei secoli e quindi scomparse: la loro collocazione nei pressi di insediamenti tuttora abitati è spesso oggetto di controversia tra gli storici. [...] Sarà utile quindi fare alcune precisazioni”. A questo punto passa in rassegna tutte le località citate nel documento fino ad arrivare a situare “Bulgari e Monscravarium in territorio di Fubine”. Tenete a mente questi due nomi perché anche in futuro si presenteranno insieme.

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(Testo completo dell’atto di Enrico III, corredato da note e commento in lingua tedesca, tratto da Monumenta Germaniae Historica, Tomus X, 1931)

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1224, Il mutuo per le Crociate

Altissimu, onnipotente bon Signore, tue sò le laude, la gloria e l’honore

et onne benedictione. Ad te solo, Altissimo, se konfane

et nullu homo éne dignu te mentovare.

Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,spetialmente messor lo frate Sole,

lo qual è iorno et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cun grande splendore:

de Te, Altissimo, porta significatone.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora Luna e le stelle: in celu l’ài formate clorite et preziose et belle.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento

et per aere et nubilo et sereno et omne tempo, per lo quale a le Tue creature dài sostentamento

Laudato sì’, mi’ Signore, per sor ’Acqua,

la quale è multo utile et humile et preziosa et casta.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu,

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per lo quale enallumini la nocte: et ello è bello, et iocundo et robustoso et forte.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,

la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba.

Laudato sì’, mi’ Signore per quelli ke perdonano

per lo Tuo amore et sostengono infirmitate et tribolazione.

Beati quelli ke ‘l sosteranno in pace, ke da Te Altissimo, saranno incoronati.

Laudato sì’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,

da la quale nullu homo vivente po’ skappare: guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;

beati quelli ke troverà ne le Tue santissime voluntati, ka la morte seconda no ‘l farrà male.

Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate

e serviateli cum grande humilitate.

(San Francesco, Cantico delle Creature, ca. 1224) Le cronache non parlano molto della giovinezza di Francesco d’Assisi, ma quasi certamente “fu partecipe della cultura e della mentalità del proprio ceto di appartenenza e della propria area di provenienza: una società in cui, tra gli ultimi anni del secolo XII e i primi del XIII, il figlio di un ricco mercante, certo anch'egli mercante, poteva aspirare a divenire miles” (Roberto

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Rusconi, Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 49, 1997). Con questo spirito, nei primissimi anni del ‘200, Francesco decise di dirigersi in Puglia per unirsi alla corte di Gualtieri III di Brienne e raggiungere Gerusalemme insieme ai suoi cavalieri. Partecipare ad una crociata, infatti, costituiva il massimo onore a cui potesse aspirare un giovane nobiluomo dell’Europa medievale. Arrivato a Spoleto, però, si ammalò gravemente e rinunciò all’impresa. Sembra che proprio durante questa malattia Francesco cominciò a prendere coscienza del suo percorso futuro che lo avrebbe portato alla santità. Medesima sorte, eccezion fatta per la vita monastica, capiterà circa venti anni più tardi al Marchese di Monferrato. Nel 1224, infatti, ritroviamo due nomi a noi ormai noti Federico e Guglielmo. Il primo, Federico II (nipote del Barbarossa), fu una figura ancora più carismatica e moderna di quella di suo nonno. Uomo straordinariamente colto, molto energico e poliglotta (parlava sei lingue) venne conosciuto con l’appellativo di stupor mundi. Riuscì a mettere in piedi nell’Italia meridionale una struttura amministrativa centralizzata dotata di un apparato efficiente degno di un regno moderno. Sotto il suo dominio proliferarono le arti e la cultura essendo lui mecenate e protettore di artisti e intellettuali.

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Guglielmo VI, anche lui come Federico, era nipote del suo omonimo Gugliemo V che abbiamo già incontrato nella narrazione. Pur con qualche titubanza iniziale, Guglielmo finì per appoggiare l’imperatore Federico II e lo accolse, insieme ad altri rappresentanti, il 14 luglio 1212 a Genova. Il Marchese di Monferrato, ansioso di vendicare la morte del padre Bonifacio, avvenuta durante la partecipazione alle crociate, dovette rimandare spesso la partenza a causa delle continue liti territoriali piemontesi e delle sue ristrettezze economiche. Riuscì finalmente a piegare alcune città e le obbligò a fornirgli combattenti. Contemporaneamente, per finanziare la sua impresa volta a Tessalonica, si recò a Catania dove risiedeva la corte di Federico II ed impegnò il Marchesato di Monferrato direttamente all’Imperatore per mezzo di quello che sarà conosciuto come “Trattato di mutuo di Catania” redatto proprio nel 1224. Con questa carta Guglielmo impegnava tutti i suoi possessi feudali ed allodiali, ricevendo in prestito dall’Imperatore novemila marchi d’argento. La raccolta di questi fondi non fu risolutiva poiché Guglielmo, come Francesco d’Assisi, si ammalò gravemente in Puglia prima della partenza. La spedizione subì un tale ritardo che fu fatale per la riuscita dell’impresa. Il documento di mutuo ha nuovamente la forma di un elenco, questa volta non solo di località, ma anche dei

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milites legati al Marchese da un rapporto di vassallaggio. Troviamo la trascrizione integrale dell’atto all’interno della terza edizione, uscita nel 1780 a cura di Onorato Derossi, della “Cronica di Benvenuto Sangiorgio, Cavaliere Gerosolimitano”. Come ci viene detto nell’apertura dell’opera: “Le due croniche, Italiana e Latina, del Conte Cavaliere Benvenuto Sangiorgio sono per consenso di tutti considerate come due dei migliori libri che abbiamo in genere d’istoria patria. Nella prima ei raccolse in buon numero importantissime carte di privilegi e diplomi sovrani e di altri pubblici atti. Nella seconda restrinse il discorso ad accennare le azioni principali dei Marchesi di Monferrato; la genealogia dei quali era l’argomento di amendue le opere. Quindi essendomi nota la rarità di queste due croniche, pensai di far cosa grata agli studiosi procurandone la terza edizione accompagnata dalla vita dell’autore”. Ecco allora che, verso la metà dell’atto di mutuo, viene riportato: “Iacobus de Fibin quicquid tenet in Burgaria et in castello Montis Capralis; domini de Valle et Columbi tenent Burgarum et Montem Capralem et in aliis locis; Albertus de Cellis tenet decimam, quam habet in Finibus”. Seguendo l’ordine con cui vengono elencati abbiamo i beni tenuti da Giacomo di Fubine in Burgaria e nel castello di Montis Capralis; poi ci sono i luoghi di Burgaria e Montis Capralis tenuti dai signori de Valle e

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Columbi più i beni che gli stessi detengono in altri luoghi; infine compare un Albertus de Cellis proprietario di una decima di cui era titolare in Fubine. Del primo, Iacobus da Fibin non sappiamo nulla così come dei signori “de Valle”. Invece, a noi ben noti, ritroviamo i Columbi (Colombo) che già esercitavano la loro giurisdizione in questi luoghi almeno dal 1156 e che potrebbero essere gli avi di Cristoforo Colombo. L’ultimo ad essere menzionato è tale “Albertus de Cellis”, probabilmente membro della nobile famiglia Cane originaria di Casale Monferrato. Questa famiglia, tramite il ramo di Cellamonte (de Cellis), era feudataria di Fubine e del suo castello già da un centinaio d’anni. Lo sappiamo grazie ad una copia autentica del 1322 dell’atto originario datato 1116 in cui l’imperatore Enrico V alla presenza dei Marchesi di Monferrato confermava a Gerardo e Guido Cane la completa autorità sugli abitanti di Celle (Cellamonte), Frassinello, Fubine e Cuccaro.

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(Trascrizione dell’atto del 1224, in “Cronica di Benvenuto Sangiorgio, Cavaliere Gerosolimitano”, 1780)

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1355, Sant’Eusebio e la peste

“E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano”

(Giovanni Boccaccio, Decameron, 1353) Dopo due secoli di ininterrotto sviluppo economico e sociale, l’Europa attraversò una fase di stallo cominciata nei primissimi anni del Trecento e perdurata almeno fino agli anni ‘60 di quel secolo. Le cause di questa brusca frenata erano molteplici ma interconnesse tra loro. Improvvisamente il clima europeo mutò e divenne più freddo ed umido. Questo, unitamente al forte aumento

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della popolazione nei decenni precedenti, portò a diverse ondate di grandi carestie. Il colpo finale però arrivò negli anni 1347-1353: la peste nera. Questa terribile epidemia fece scomparire un terzo della popolazione europea e modificò di molto la gestione del territorio. Molti luoghi vennero abbandonati e le rendite dei terreni diminuirono fortemente, comprese le decime ecclesiastiche. È proprio il caso della chiesa della Bordona. Sebbene in questo secolo perdiamo le tracce del castrum, le uniche notizie che abbiamo sono per via indiretta, attraverso la sua capella che, come ricorderete, nel primo documento veniva citata unitamente al castrum. La più antica traccia di questa chiesa la troviamo all’interno dell’elenco che venne stilato nell’anno 1355. Tale elenco, come riporta il Chenna: “...fu fatto non già per porre insieme le chiese della città, e diocesi, ma affine di fissare il registro, e l’estimo delle possessioni loro” (“Del vescovato, de' vescovi e delle chiese della città e diocesi d'Alessandria”, Tomo I, 1785). Ecco, infatti, che a fianco al nome di ogni chiesa troviamo la rendita espressa in lire del tempo. “Ecclesia S. Eusebii de Burgaro” con una rendita di Lire 1. Date le basse entrate da essa derivanti possiamo quindi presumere che, anche se un tempo grande, fosse ora sulla via del declino. La peste, infatti, aveva lasciato il segno anche nelle nostre zone; probabilmente il castrum non esisteva più e sopravvivevano soltanto il villaggio e la sua chiesa intitolata a Sant’Eusebio.

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Nei paesi circostanti sono molte le dediche a Sant’Eusebio, sia di chiese non più esistenti sia di quelle tutt’ora in uso, vedasi Camagna. Questo poiché tutto il territorio del casalese fino al confine con Fubine era sotto la giurisdizione dell’arcidiocesi di Vercelli, il cui primo vescovo e fondatore fu appunto Sant’Eusebio di Vercelli. Ancora oggi, il luogo su cui verosimilmente sorgeva questa parrocchiale porta il nome del santo e si trova proprio sul confine tra il comune di Fubine ed il comune di Vignale, nei pressi del torrente Grana. Riferita a questa chiesa, troviamo anche una breve nota all’interno della “Bibliografia storica degli Stati della monarchia di Savoia” pubblicata nel 1898. Nella sezione dedicata a Fubine, dopo aver descritto la chiesa parrocchiale ancora oggi esistente sulla piazza del comune, si può leggere: “Esisteva un’altra parr. dedicata a S. Eusebio, detta de Bulgero o de Burgalo (oggi Borghi), che fu soppressa verso la metà del sec. 16°. Se ne conosce il parr. Giovambattista de Camaniis, da Fubine, nel 1513”. Infine, l’edificio di culto viene elencato tra le “Chiese distrutte” con anche indicazione dell’anno: 1540. È importante notare come questa non fosse una semplice pieve campestre, ma viene definita “parrocchiale”. Comunemente la parrocchia viene identificata come una porzione della diocesi. In particolare, nel Codice di Diritto Canonico, viene così definita: “La parrocchia è una

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determinata comunità di fedeli che viene costituita stabilmente nell'ambito di una Chiesa particolare, e la cui cura pastorale è affidata, sotto l'autorità del Vescovo diocesano, ad un parroco quale suo proprio pastore. Spetta unicamente al Vescovo diocesano erigere, sopprimere o modificare le parrocchie; egli non le eriga, non le sopprima e non le modifichi in modo rilevante senza aver sentito il consiglio presbiterale. La parrocchia eretta legittimamente gode di personalità giuridica per il diritto stesso” Da questo si intuisce quanta importanza rivestiva una chiesa parrocchiale che, specie nei secoli medievali, e a maggior ragione in località rurali, costituiva il centro della vita, non solo religiosa, della popolazione. La peste prima e le guerre che seguiranno in Monferrato poi, potrebbero essere i motivi dell’abbandono e della rovina completa di questa chiesa. (Immagini che seguono: Chenna, “Del vescovato, de' vescovi e delle chiese della città e diocesi d'Alessandria”, Tomo I, 1785)

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1479, Leonello di Occimiano

“Dico adunque, che l’armi, con le quali un Principe difende il suo Stato, o le sono proprie, o le sono mercenarie, o ausiliarie, o miste. Le mercenarie ed ausiliari sono inutili e pericolose; e se uno tiene lo Stato suo fondato in su l'armi mercenarie, non starà mai fermo nè sicuro, perchè le sono disunite, ambiziose, e senza disciplina, infedeli, gagliarde tra gli amici, tra li nimici vili, non hanno timore di Dio, non fede con gli uomini, e tanto si differisce la rovina, quanto si differisce l'assalto; e nella pace siei spogliato da loro, nella guerra da’ nimici. La cagione di questo è, che non hanno altro amore, nè altra cagione che le tenga in campo, che un poco di stipendio, il quale non è sufficiente a fare che e' voglino morire per te. Vogliono bene essere tuoi soldati mentre che tu non fai guerra; ma come la guerra viene, o fuggirsi o andarsene. La qual cosa dovrei durar poca fatica a persuadere, perchè la rovina d'Italia non è ora causata da altra cosa, che per essere in spazio di molti anni riposatasi in sull'armi mercenarie, le quali feciono già per

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qualcuno qualche progresso, e parevano gagliarde tra loro; ma come venne il forestiero, elle mostrarono quello che l'erano. [...] I Milanesi, morto il Duca Filippo, soldarono Francesco Sforza contro a’ Veniziani; il quale, superati li nimici a Caravaggio, si congiunse con loro per opprimere i Milanesi suoi padroni”

(Niccolò Machiavelli, Il Principe, 1513) La situazione europea ed italiana era profondamente mutata da un paio di secoli. La nostra penisola era suddivisa in una dozzina di Ducati, Marchesati e Repubbliche. Essendo il territorio così finemente frazionato frequenti erano le guerre per ampliare i confini e quindi grande era l’instabilità politica. I governanti di questi “staterelli” facevano grande uso di soldati mercenari che prestavano servizio al miglior offerente e, di conseguenza, la loro fedeltà era dettata semplicemente dalla paga riscossa. È proprio per questo che Machiavelli individuò nel grande uso delle compagnie di ventura uno dei principali motivi dell’incapacità dell’Italia di ergersi a grande potenza unitaria. Uno di questi capitani di ventura fu proprio il Marchese di Monferrato Guglielmo VIII Paleologo, la cui dinastia succedette a quella degli Aleramici alla guida del marchesato. Guglielmo guidò “una compagnia di ventura

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al servizio di Filippo Maria Visconti, ma nel 1452 passa al soldo dei veneziani” (Roberto Maestri, “Monferrato, uno Stato europeo”) proprio come descritto da Machiavelli. Nella mutata geografia politica italiana il Monferrato si ritrovava incuneato al centro di un triangolo delimitato dal Ducato di Savoia dal lato nord-occidentale, dal Ducato di Milano dal lato nord-orientale e a sud dalla Repubblica di Genova. Questo stretto territorio, inoltre, era condiviso con il vicino Marchesato di Saluzzo. Nel 1479 tra le nostre colline, accadde una vicenda interessante. Vitullo, nella sua opera “Uomini e Vicende di Vignale Monferrato”, racconta che in quell’anno “il Marchese Guglielmo VIII vendeva altri beni a Vignale confiscati dopo la morte di Travaglino de Bordono che li teneva quale possesso feudale; erano costituiti da domos, cassina, possessionis, podere Vignali; la casa, nel cantone Monterotondo ed i terreni in regione Castiglione; questi possedimenti vennero dati a Leonello di Occimiano, Camerario marchionale e Tesoriere Generale delle Entrate straordinarie del Monferrato. [...] La vendita venne registrata il 25 maggio 1479: si conoscono i nomi dei coerenti la casa del cantone Monterotondo: Samuel de Agionzale, Leonardus Cornaglia, Stephanus Cornalia, Anthonio Borhacco; nell’istrumento sono nominati Andreas de la Valle, Germano Raviola dimorante a Montemagno e Cristoforo Palazolio”. Cosa aveva fatto di tanto grave questo Travaglino de

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Bordono (altrove citato come Travaglinus de Vignalis) per meritarsi tale confisca? Esaminando il documento originale Travaglino viene definito “nequissimus proditor” (dal latino medievale: malvagio/indegno traditore). Il suddetto tradimento era stato rivolto al Marchese di Monferrato Guglielmo VIII, il quale, come punizione, confiscò tutte le terre e i possedimenti di Travaglino. Il documento non esplicita quale sorte toccò a quest’ultimo, ma certamente il suo crimine non venne perdonato. Nell’atto di confisca si passano in rassegna tutti quelli che furono i suoi beni; troviamo perciò riferimenti al centro urbano di Vignale suddiviso nei vari “cantoni” (una sorta di primordiali quartieri costituiti sia da spazi urbani che rurali). Oltre a questi si hanno elencate le terre ed i possedimenti situati “ultra Granam” (oltre il torrente Grana, quindi in direzione Fubine) nonché quelli sul territorio di Fubine (“Item super posse Fubinarum pecia una boschi coheret Bertus de Palazilio habitator Vignalis...”). Tutte queste terre furono vendute a tale Leonello di Occimiano. Conoscendo i suoi vasti possedimenti, Travaglino doveva ricoprire una posizione rilevante prima di macchiarsi di alto tradimento. Ancora più importante era il nuovo proprietario di questi beni, Leonello. Beatrice del Bo, nella sua opera “Uomini e strutture di uno stato feudale. Il Marchesato di Monferrato (1418-1483)”, ci racconta la vita di questo personaggio: figura

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di spicco dei suoi tempi fu anche un grande innovatore. La carriera di Leonello iniziò a Rosignano con la podesteria del paese affidatagli, o meglio vendutagli, nel 1463 dal Marchese Giovanni IV. Contemporaneamente al suddetto incarico, Leonello prendeva sempre più confidenza con gli aspetti contabili e con le transazioni finanziarie lavorando nella domus dei marchesi di Monferrato, in cui, già dal 1466, ricopriva il ruolo di cameriere. La sua personale ricchezza funse da volano per la sua brillante carriera che evolse molto velocemente: “Egli passò dalla domus marchionale dove era stato scutifer (1463) e cameriere (1466-1478) alla tesoreria”. Non fu solo tesoriere, ma venne anche nominato “tesoriere delle entrate straordinarie” e ricoprì tale ruolo almeno fino al 1481 anche sotto Bonifacio III che, oltre a confermarlo nell’incarico, gli affidò la gestione delle entrate ordinarie. “Durante il governo di Bonifacio III la presenza di Lionello si fece ancora più pervasiva, poiché oltre a quello di tesoriere egli ricoprì il ruolo di siniscalco, “prefectus omnibus militibus” e di commissario per la distribuzione del soldo agli armati”. Durante tutta la sua attività continuò ad acquistare possedimenti, redditi e castellanie in moltissimi paesi del Monferrato tra cui, solo per citarne alcuni, Rosignano, Castelletto Molina, Roncaglia (Casale Monferrato), Vignale Monferrato, Calliano, San Giorgio Monferrato, Rocchetta Tanaro, Orio. Tutto ciò dimostra come “Agli

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officiali delle finanze monferrini che non provenivano dall’ambiente mercantile o bancario era richiesta più che una competenza giuridica una buona disponibilità pecuniaria e una qualche capacità di contrattazione e, per dirla con le parole del marchese, una “innata industria et circumspectio”. Dato l’appellativo “de Bordono” di Travaglinus, la collocazione dei suoi beni ed alcune conferme che troveremo nei documenti che seguono, possiamo ipotizzare con buona probabilità che Travaglino sia stato non solo il proprietario, ma proprio l’eponimo (cioè colui da cui prende il nome) della Bordona. (Immagini che seguono: atto registrato il 25 maggio 1479 conservato presso l’Archivio di Stato di Torino, Paesi, Monferrato, Protocolli, Guiscardi Antonio, Mazzo 9, Autorizzazione a pubblicare – Prot. n. 935/28.28.00-26)

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1606, La “Bordona”

“E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l’amparo del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l’Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl’Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl’altri Spettabili Magistrati qual’erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d’atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl’huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché l’humana malitia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con occhij d’Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici emolumenti”

(Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Introduzione, 1821)

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Il Seicento è caratterizzato dalla dominazione spagnola in Italia che conferisce un periodo di generale stabilità e di ripresa economica, anche se, come ci ricorda Manzoni nel brano riportato, gli uomini comuni rimasero preda delle angherie dei signorotti locali. Questo fase di sviluppo prese il nome di “Estate di San Martino” in cui anche la popolazione italiana crebbe notevolmente. Per questo le coltivazioni vennero intensificate e molti territori bonificati. Il 19 luglio 1606 troviamo per la prima volta il termine “Bordona” proprio in un atto di estimo di terreno (“Fede dell’estimo d’una pezza di terra nelle fini di Rosignano alla Bordona di moggia cinque feudale semovente dal castello di detto luogo”). Ad una prima lettura appare insensato situare la Bordona nel territorio di Rosignano (“nelle fini di Rosignano”), ma se ripensiamo a Leonello di Occimiano i fatti cominciano a prendere forma. Il documento, infatti, aggiunge che la Bordona era “feudale semovente” (ossia dipendente) dal castello di Rosignano. Se ben ricordate Leonello acquistò la podesteria di quel comune con la facoltà di trasmetterla ai suoi eredi. Possiamo, quindi, supporre che la Bordona passò di mano in mano rimanendo sempre legata al castello di Rosignano. Addentrandoci nella lettura dell’atto scopriamo le caratteristiche del luogo in cui si situa detta pezza di terra soggetta ad estimo. Si tratta, innanzitutto, quasi certamente di una porzione

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di terreno collinare venendo descritta come “pezza di terra con viti ed caneto”. Inoltre risulta “sita sopra le fini di Rosignano ove si dice alla Bordona, la quale si dice esser feudale del Castello d’esso loco altre volte posseduta per il fu Sig. Eusebio Ferrero di Consignori di detto Castello per lui acquistata dal fu Sig. Pietro Anto Sala di detti Consignori”. Dopo aver riportato coerenze e dimensioni si precisa che la pezza venne valutata “senza però l’edificio della casa ed cassina in detta pezza fabricata”. Considerando che sul territorio di Rosignano non esiste nessuna regione o cascina con nome simile, e nemmeno esistette in passato, possiamo con buona approssimazione credere che questa sia proprio la “nostra” Bordona che, infatti, circondata da terreno coltivato a vite, continuerà a produrre ottimo vino fino ai primi anni del ‘900. (Immagini che seguono: atto del 19 luglio 1606 conservato presso l’Archivio di Stato di Torino, Paesi, Monferrato, Feudi, Feudi per A e B, Mazzo 60, Fascicolo 7, Autorizzazione a pubblicare – Prot. n. 935/28.28.00-26)

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1620, Giovanni Antonio della Noce e Fra’ Giacinto

“Molto Reverendi Padri Osservanti. Stavo con molto desiderio aspettando la venuta del molto reverendo padre Fra’ Giacinto per poterlo goldere te servire qua et particolarmente perché desideravo di effettuare il desiderio che tengo di agitare la loro congregazione, a ciò ogni volta più vadi crescendo et aumentando quella santa institutione a gloria di Signor Dio Misericordioso et salute delle anime. Et ha vendo perduto la speranza che per adesso dico dominus Reverendo Padre posi venire ho voluto con questa mia significarle il mio desiderio et determinata volontà, la quale è di lasciare ala congregatione la mia masaria quadi Fubine nominata La Bordona facendoline donazione irrevocabile, restandone però a me durante la mia vita l'usofruto e con facoltà di poter incaricare la congregatione di pagare acuti mille di floreni nove seguita la mia morte dove et in qual modo che da me sarà declamato per notaro ovvero per mio scriba.

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Et in caso io non venissi a far detta declaratione se intendono essi parimenti donati et insieme tutti li mobili, vitovaglie vini et ogni altra cosa che ala mia morte si troverà in essere tanto nella casa qua di Fubine come ala detta Cassina, dove desidero vi si faccia una chieseta, o capela, intitolata a San Gioseffo, a ciò andandovi li padri potessero celebrare la santa Messa, conoscendo io che mandandovi il Padre Rectore qualche confessore per qualche tempo del anno saria di grande agiuto spirituale. E questo loco, che di tutto mi è parso darline parte, a ciò mentre starò evenire ala vita, che sarà piacendo al Signore questo advento, possono andar pensando in che modo potrò io fare detta donazione che sia secreta et sicura per non mettermi alcuna dilazione et perché molte cose et accidenti posino ala giornata occorrere a ciò non resti defraudato de la mia bona intentione et desiderio. In esiti di questa mia dichiarò esser tale la mia volontà di donare come dono a detta congregatione del Oratorio di Casale la detta masaria della Bordona et ogni altra cosa nel modo specificato di sopra. Spero però che Dio mi concederà vita et tempo di poter venire ala città e far quello giudicarano esser più a proposito per maggior coroboratione, frattanto la paternità loro molto reverendi Padri preghino il Signore per me. Di Fubine li 22 novembre 1620 Servitore et filio nel Signore Giovanni Antonio Della Noce”

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Chi erano i due personaggi nominati nella lettera? Per scoprire la vita del firmatario, Giovanni Antonio della Noce, dobbiamo fare un salto all’indietro nel ‘500 e spostarci nella confinante Repubblica di Genova. Le preziose informazioni che seguono sono frutto delle ricerche di Andrea Lercari che ha svolto, e continua a svolgere, un magnifico lavoro sulle antiche famiglie genovesi. Nello specifico troviamo note sui della Noce nei seguenti lavori: “Il “Catalogo del Monferrato” di Evandro Baronino e i feudi monferrini della nobiltà genovese” (in “I Paleologi di Monferrato: una grande dinastia europea nel Piemonte tardo-medievale”, Atti del Convegno - Trisobbio, 30 ottobre 2006, a cura di E. Basso e R. Maestri); “Repertorio di fonti sul Patriziato genovese” (Soprintendenza Archivistica per la Liguria, Scheda n. 4). In territorio genovese una famiglia decise di cercare fortuna non attraverso il mare, ma spostandosi in Monferrato. Il capostipite fu Giacomo della Noce del fu Giovanni Antonio. Le fonti lo descrivono come “facoltoso mercante di granaglie in Casale” che si stabilì a Fubine. Grazie ai suoi commerci, riuscì ad acquistare molti possedimenti tra cui la parte della signoria di Sala Monferrato che era appartenuta ad Alessandro del Carretto, quest’ultimo facente parte di un’altra grande famiglia al servizio dei Marchesi di Monferrato. Il capostipite Giacomo era imparentato con Pellina della

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Noce fu Geronimo, sposa di Giovanni Battista Lodrone del fu capitano Annibale dei signori di Morsasco. Chi conosce la storia monferrina ha ben noto il cognome Lodrone (o Lodron). Questo capitano Annibale era il figlio naturale nato da una relazione extra-coniugale di Giovanni Battista Lodron, grande guerriero probabilmente originario del Trentino e giunto in Monferrato insieme ad una truppa di Lanzichenecchi di Carlo V. Nella prima metà del XVI secolo il conte Lodron pose l’assedio e saccheggiò moltissime città e paesi tra cui Vignale Monferrato, Fubine, Tortona, Cassinelle e Nizza Monferrato. Ecco come Donato Testa, nella sua Storia del Monferrato, riporta l’assedio di Fubine del 1527: “Negli anni seguenti (al 1525) le angherie delle soldataglie spagnole sul suolo monferrino non si contano più. Su ordine di Antonio de Leyva, rappresentante di Carlo V, scesero fra noi duemile (?) Lanzichenecchi tedeschi comandati dal terribile conte o Barone Lodròn. Come altri suoi pari il Lodron, una volta accampatosi, cominciò a tiranneggiare gli abitanti con la richiesta di esosi balzelli, alloggi, viveri e foraggi. La storia di Fubine ricorda un tristissimo fatto avvenuto nel 1527. Il Lodròn, giunto sotto il paese, intimò che fossero preparati alloggio e vitto per la truppa, ma i fubinesi per tutta risposta spararono contro i suoi soldati alcune archibugiate. Non fu difficile agli Spagnoli occupare il

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borgo, salire su fino al castello, incendiare, devastare e saccheggiare. Le vittime si contarono a centinaia: una relazione manoscritta del secolo scorso, custodita presso quell’archivio comunale, riporta addirittura seicento morti! Inoltre dice che il comandante spagnolo non se ne andò prima che gli avessero pagati 8600 scudi. Il terrore di quel giorno fu così grande che per secoli a Fubine il nome di Baròn Ludròn restò come sinonimo di spavento e di finimondo”. Tornando al nostro Giacomo della Noce sappiamo che ebbe tre figli maschi: Nicolò (riportato anche come Nicolao), Giovanni Paolo e Giovanni Antonio. Tutti e tre ricevettero la porzione paterna di Sala Monferrato il 29 novembre 1600. Giacomo e suo figlio Giovanni Paolo si dedicarono al commercio del sale genovese in Lombardia; in seguito Giovanni Paolo si stabilì a Genova per curare gli interessi del padre. Il 16 agosto 1586 sposò la nobile genovese Marietta, del fu Giovanni de Lazario, rafforzando così la sua posizione in città. Quest’ultimo, infatti, era parente del primo doge biennale della Repubblica di Genova nominato dopo la riforma del 1528, Oberto Cattaneo Lazzari. Da una patente del 1593, sappiamo che anche il figlio Nicolò si occupò del commercio di sale in pianura padana (“Contratto stipulato nel palazzo e camera di S.A. con il della Noce, cittadino di Genova, per mezzo di suo figlio Nicolao, per la condotta del sale di Genova nelle

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terre di la’ dai monti al prezzo di 15000 scudi all’anno”, Archivio di Stato di Torino). Sempre grazie ad altre patenti, ma risalenti al 1597, scopriamo che la medesima professione venne ricoperta anche dal terzo figlio di Giacomo, Giovanni Antonio. Quest’ultimo, acquistò la Bordona e si stabilì a Fubine. Non avendo prole ed essendo uomo di grande fede decise che, alla sua morte, avrebbe donato la proprietà ai padri dell’Oratorio di San Filippo Neri di Casale Monferrato. La sua lettera manoscritta è giunta fino a noi allegata all’atto notarile di donazione e la trascrizione è riportata in apertura a questo capitolo. La scelta di donare i suoi possedimenti all’Oratorio di Casale fu tutt’altro che casuale. Dopo la morte di San Filippo Neri avvenuta nel 1595 il suo culto si stava diffondendo in tutta Italia comprese le regioni del Nord. In Piemonte si svilupparono ben dodici congregazioni, la prima delle quali nacque proprio a Casale Monferrato: Casale (1613), Murazzano (1646), Torino (1649), Fossano (1649), Chieri (1658), Savigliano (1674), Carmagnola (1681), Demont (1693), Asti (1696), Mondovì (1704), Crescentino (1730), Villafranca (1737), e Biella (1742). A Casale la congregazione rimase attiva fino ai primi anni dell’800, quando venne colpita prima dall’editto napoleonico di soppressione degli ordini religiosi e poi dalle leggi del regno sabaudo. Oggi delle dodici comunità originali solo tre rimangono in vita: Torino, Mondovì e Biella.

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Dalla lettera possiamo intuire le nobili origini della famiglia della Noce puntando l’attenzione sull’interlocutore a cui si rivolge Giovanni Antonio, tale Fra’ Giacinto. Questo nome ai più non dirà nulla, ma è stato uno dei personaggi più importanti nella storia italiana del Seicento. Si tratta di Frate Giacinto Natta, nato Federico, il 21 gennaio 1575 a Casale Monferrato dal conte Gabriele Natta d’Alfiano e dalla contessa Maria Polissena Biandrate di San Giorgio, sorella del potente cardinale Giovanni Francesco Biandrate di San Giorgio. Dopo gli studi compiuti in Italia ed all’estero si trasferì in Veneto dove, nel 1600, entrò nell’Ordine dei Cappuccini con il nome di Giacinto da Casale e tra il 1606 ed il 1607 ritornò nella sua terra d’origine. A Fubine i primi Cappuccini apparvero verso il 1610 e l’anno successivo fondarono un convento nella parte alta del paese che ancora oggi nel dialetto del luogo porta il nome di capisin. Questo convento venne abbandonato e distrutto nei primi anni dell’Ottocento in seguito all’editto napoleonico di soppressione degli ordini religiosi minori e sul suo sedime venne edificata la cappella mortuaria dei Conti Cacherano di Bricherasio. Molte fonti dei secoli passati ci delineano a fondo la figura di Fra’ Giacinto. In “Catalogo degli illustri scrittori di Casale e di tutto il Ducato di Monferrato” (Morano, 1771) viene descritto come “Religioso Cappuccino di grande stima presso i

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Sommi Pontefici Paolo V, e Gregorio XV, come anche presso l’Imperador Ferdinando II, ed il Duca di Baviera Massimiliano, di cui si sono serviti per trattare affari di grande importanza. Questo era un predicatore eloquentissimo, e Religioso di grande spirito”. Sin da subito Fra’ Giacinto fece affluire copiose donazioni all’Oratorio di San Filippo Neri in Casale: “Ebbe diverse onorevoli legazioni, tra le quali non si può a meno di ricordare quella che con lettera scritta di proprio pugno dal pontefice Gregorio XV gli ordinava di recarsi all’imperatore Ferdinando II a fine di persuaderlo a continuare la guerra contro l’inimico della Chiesa cattolica romana e del suo impero, e di conferire al duca Massimiliano di Baviera il voto elettorale, dal quale era decaduto il palatino del Reno per l’invasione da lui fatta nella Boemia contro l’Imperatore. La sua legazione ebbe un felicissimo successo, ed il duca di Baviera venne creato elettore, e nella città di Monaco compartì mille favori al detto Padre; e fra gli altri gli donò una quantità immensa di quadri e di bellissime reliquie legate in oro ed in argento, guernite di perle, diamanti ed altre pietre preziose, le quali furono dal detto padre Giacinto Natta donate a’ PP. dell’oratorio di S. Filippo Neri di Casale” (L. Tettoni, F. Saladini, “Teatro araldico, ovvero Raccolta generale delle armi ed insegne gentilizi e delle più illustri e nobili casate”, 1841). In due occasioni (nel 1619 e nel 1620) Fra’ Giacinto venne richiesto da Massimiliano di Baviera affinché gli

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venissero assegnate missioni diplomatiche, ma entrambe le volte non riuscì ad accettare l’incarico a causa di malattia. Questo può essere il motivo per il quale il nostro Giovanni Antonio della Noce si dice rassegnato di non poter ricevere di persona il molto reverendo padre e prese la decisione di scrivere questa lettera di donazione. Giacinto morì “in Casale in odore di santità nel convento de’ P.P. dell’Oratorio di S. Filippo Neri, ivi ritirato per le guerre il 18 gennaio 1827, d’anni 53. Fu il suo Cadavere portato alla Chiesa de’ P.P. Cappuccini allora fuori della porta del Po’, e fu sepolto sotto al Pulpito di detta Chiesa; rovinato poi questo Convento per le guerre, fu il detto cadavere di nuovo trasportato nella Chiesa de’ P.P. dell’Oratorio, ed avendo i P.P. Cappuccini rifatto il loro convento in Casale, ricuperarono il prezioso deposto, e riposero il detto Cadavere nell’andito, che va alla Cappella di S. Antonio di Pad.” (Morano, “Catalogo...”, 1771). Nonostante la ferma volontà espressa così chiaramente dal della Noce, la Bordona entrò sì nelle disponibilità degli Oratoriani, ma non diventò subito loro sede. Probabilmente venne da essi concessa in affitto ad abitanti del luogo che ne gestivano l’attività agricola. Dai documenti ecclesiastici leggermente posteriori sappiamo infatti che verso fine del ‘600 la zona era comunque popolata. “Le cascine elencate nello stato delle anime del 1678

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sono le seguenti (ancora quasi tutte esistenti): Bordona e Borghi [...]” e nella nota di riferimento Ticineto (“Fubine ed il Monferrato dal 1537 al 1659”, Vol. II, 2001) spiega: “La Bordona e Borghi (attuale Fugazza, dai vecchi ancora denominata Burghi) in realtà erano località già abitate anticamente (citate nel Medioevo), però potrebbe darsi che, dopo un periodo di decadenza, in questi secoli fossero state di nuovo intensamente popolate”. (Immagini che seguono: Atto notarile di donazione del 10 dicembre 1620 seguito dalla lettera olografa del della Noce datata 22 novembre dello stesso anno. Autorizzazione Min. BAC - ASAL n°1/2017, Notai del Monferrato, Chiesa Giacinto, Vol. 1407, pp 437-439)

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Dal XIX secolo ad oggi, Napoleone e la borghesia alessandrina

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Siamo a conoscenza del tentativo di fine ‘700 dei Padri di Casale di fondare una nuova chiesa utilizzando il “sacello” ubicato alla Bordona. Cominciarono i lavori di costruzione per un grandioso convento, ma questa impresa fallì praticamente sul nascere. Ormai sull’Italia settentrionale cominciava ad allungarsi l’ombra di Napoleone il quale, sulle soglie dell’800, confiscò tutti i possedimenti degli ordini religiosi considerati “minori” [editto pubblicato in apertura di capitolo, ndr]. Questi beni vennero messi all’asta, compresa la Bordona che venne acquistata dalla famiglia Archini di Alessandria. Questi ultimi convertirono il nucleo che doveva essere adibito a convento ad azienda agricola e la parte restante a residenza di campagna, pur conservando la piccola cappella dedicata a San Filippo Neri ancora oggi esistente [nell’altra porzione della tenuta Bordona, ndr]. Da una descrizione fatta nei primi anni dell’800 risulta “Un sacello dedicato a san Filippo Neri, eretto nella regione detta “della Bordona”, appartenente al signor Archini, di forma quadrilatera, con la facciata rivolta ad occidente e due finestre, una ricavata sopra la porta e l’altra rivolta a mezzogiorno; con a sinistra dell’ingresso un uscio che immette alla sacrestia ed all’abitazione del predetto Archini; e un altare in muratura posto di fronte all’entrata, sormontato da una icona raffigurante la beata vergine e san Filippo Neri” (E. Bo, “Castello di Fubine e

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Castrum Burgari”). Dei fratelli Archini, Sebastiano e Pietro Antonio Maria, non abbiamo fonti biografiche. Negli anni a loro contemporanei, o immediatamente successivi, abbiamo traccia di alcuni Archini nella Provincia di Alessandria: - Carlo Archini viene registrato tra i Notai nella Tappa

di Alessandria all’interno del “Calendario Generale pe’ Regii Stati” del 1843;

- Giuseppe Archini (1816-1891), è tumulato ancora oggi nel Famedio del Cimitero Monumentale di Alessandria;

- un certo Cavaliere Archini, risulta Tenente Colonnello della Brigata di Genova nel 1821.

Tra questi tre personaggi e gli omonimi proprietari della Bordona, però, non conosciamo sicuri legami di parentela. Certamente gli Archini rimasero in possesso della tenuta fino alla loro morte avvenuta il 23 febbraio 1834 per quanto riguarda Sebastiano e pochi anni dopo per ciò che concerne il fratello Pietro Antonio Maria. In seguito alla loro dipartita la Bordona, insieme alle cascine Casazza Vecchia e Scamuscia andarono in proprietà all’unico erede designato, Tomaso Barozzi. Quest’ultimo compare citato in documenti dell’epoca come creditore nei confronti di alcuni cittadini di Alessandria. Tra i Barozzi, facoltosa famiglia alessandrina, nei primi anni dell’Ottocento troviamo un Gio’ Maria (o Giammaria) banchiere e prefetto cittadino, in seguito designato come membro, e poi Presidente,

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della “Commissione per la vendita di beni nazionali della Provincia di Alessandria”. La famiglia Barozzi rimase proprietaria di tutte e tre le cascine citate fino alla seconda metà del Novecento. Alla morte del Cavaliere Cesare Barozzi fu Giuseppe, avvenuta il 3 maggio 1953, le proprietà vennero suddivise tra la vedova e le quattro figlie, che le vendettero in un periodo compreso tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta del Novecento. In linea con la rivalorizzazione immobiliare del territorio che caratterizzò il periodo a partire dagli anni ottanta, circa metà della Bordona venne quindi convertita in residenziale a mezzo di importanti opere strutturali antisismiche. Le grandi superfici, intenzionalmente progettate come ambienti di un Monastero e poi, per breve periodo, utilizzate per l’allevamento dei bachi da seta, vennero frazionate in una ventina di ampi appartamenti. Oggi questa struttura storica del Monferrato non è più roccaforte di confine, né luogo di culto, ma può esser scelta come abitazione da chi ama la tranquillità e ancora rimane incantato dalle distanti luci di borghi e città visibili, sotto il cielo stellato, nelle limpide serate estive.

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(Rilievo topografico della Bordona e del territorio circostante, Archivio Storico del Comune di Vignale, 1910)

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Ringraziamenti

Quest’opera apparirebbe certamente più scarna se non avessi ricevuto il prezioso aiuto di molte persone che, in forme diverse, hanno contribuito ad arricchire la narrazione con argomenti importanti. Innanzitutto devo ringraziare colui che, prima ancora di avermi contatto, ha deciso di far rinascere la Bordona e di donarle nuova vita, l’attuale proprietario Giorgio Bogoni. Inoltre, ho un debito di gratitudine nei confronti del Sindaco di Fubine, Dina Fiori, per aver “creato” il contatto tra me e Giorgio. Un grazie è d’obbligo alle dipendenti del Comune di Fubine e a Don Macaire, parroco di Fubine, per avermi ospitato per l’ennesima consultazione dei rispettivi archivi. A Vignale Monferrato grazie al gentile Sindaco, Franco Ferrari, ho potuto consultare le antiche mappe del territorio e, in merito a questo, devo ringraziare la Responsabile dell’Ufficio Tecnico, Federica Gazzetta, che

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ha sopportato la mia “ingombrante” presenza nel suo ufficio mentre consultavo i suddetti libroni. Preziosissima è stata la collaborazione fornitami dal personale dell’Archivio di Stato di Torino e dell’Archivio di Stato di Alessandria che, andando oltre la loro mansione, mi hanno anche saggiamente consigliato e fornito preziose indicazioni. Particolarmente disponibili sono stati anche tutti gli addetti dell’Archivio Storico dell’Università degli Studi di Torino. Due scambi epistolari sono stati di primaria importanza: il primo, con Beatrice del Bo, a cui devo le preziose notizie su Leonello di Occimiano; il secondo, con Andrea Lercari, che mi ha illuminato sulla famiglia Della Noce di Genova. Entrambi, a distanza ed in maniera disinteressata, hanno subito risposto alle mie mail fornendomi molto materiale. Non ho potuto fare a meno, ovviamente, dei sempre saggi consigli dell’amico Roberto Maestri, custode acclarato della storia monferrina. Alla cara amica Donatella Gnetti si deve il preziosissimo lavoro di “traduzione” degli antichi documenti redatti in grafie per me incomprensibili. Senza il suo aiuto, quei testi sarebbero rimasti dei semplici segni su carta privi di significato. A tutti costoro devo i miei più sinceri ringraziamenti per essersi dimostrati più che disponibili nel dare una risposta ai miei molti quesiti.

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LA BORDONA è un sito storico del Monferrato alessandrino,

le cui prime tracce certe risalgono all'anno 1041.

La posizione privilegiata, che domina il circostante collinare,

ne ha fatto dapprima roccaforte di confine dalla quale osservare

l'avvicinarsi del nemico, successivamente prezioso patrimonio

della Chiesa e oggi esclusiva struttura residenziale.

Ringrazio l'Autore, Stefano Ettore, per il sapiente lavoro

di ricerca svolto, poi elegantemente tradotto in narrazione.

Un'affascinante percorso attraverso i secoli, fino ai giorni nostri.

Giorgio Valentino Bogoni (proprietà dal 2015)

Libro distribuito ad offerta libera

Valore commerciale euro 10,00