Stato, Società, Riforma agraria. · Sicilia, aveva una spiegazione: la tentata riforma agraria del...
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Dal 1948 all’inizio degli anni ‘90 l’Italia ha
avuto un sistema politico stabile, fondato su
governi a maggioranza democristiana con
l’appoggio della Chiesa cattolica.
E’ tuttora un paese capitalista-occidentale, con
molti squilibri sociali e contraddizioni che
ancora oggi lo caratterizzano:
scarsa trasparenza democratica;
molta presenza statale nell’economia;
assistenzialismo;
poco mercato;
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forte struttura sindacale;
corruzione;
trame segrete.
Dalla fine della guerra l’Italia è profondamente
cambiata:
paese industriale;
rimescolamento della popolazione (città-
campagna, Nord-Sud);
meno morale cattolica nella vita quotidiana;
modernizzazione della famiglia;
liberazione femminile.
In sintesi, l’Italia è divenuto un paese con un
vasto ceto medio moderato e assenza di
contrapposizioni particolarmente violente…
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Dopo una campagna elettorale in cui
- la DC accusava la sinistra di voler
trasformare l’Italia in una dittatura
comunista,
- il Fronte Popolare (PCI e PSI) accusava la DC
di tradire la Resistenza e la democrazia,
nell’aprile del ‘48 la DC prese il 48% dei voti e
la maggioranza assoluta dei seggi:
gli Italiani scelsero le proprie radici cattoliche,
moderate, occidentali e fino al tracollo del
comunismo avrebbe governato la DC…
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Il grande successo della DC fu dovuto anche
all’appoggio capillare assicurato dalla Chiesa
cattolica, che fino al Concordato del ‘29 con
Mussolini era sempre stata all’opposizione (cfr. la
questione romana): da sempre antiliberale e
antisocialista, era entrata in sintonia con il regime
fascista e con la monarchia e si era compromessa
tacendo di fronte allo sterminio degli ebrei.
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La «politica pluralista» della DC (cfr. lezioni
precedenti), a differenza di quella americana,
tende a essere conciliativa e non competitiva:
il partito di governo tenterà di armonizzare e
fondere liberisti e statalisti, clericali e laici,
padroni e operai, proprietari e contadini,
antifascisti e anticomunisti, Nord e Sud.
Nella DC entrò la piccola borghesia che si era
riconosciuta nel fascismo, i burocrati fascisti
non epurati, e alla destra del partito restarono
solo i liberali (grande e media borghesia
benestante) e i nostalgici del fascismo (MSI):
tutta la destra fu assorbita dai democristiani
(nuova forma di trasformismo, cfr. lezioni
precedenti).
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I contadini costituirono
la principale forza
popolare della DC:
tradizionalisti e cattolici
per cultura, favoriti dal
regime fascista,
impauriti da
un’ipotetica
statalizzazione delle
campagne ad opera dei
comunisti (vedi il
volantino a fianco),
votarono in massa per
la DC.
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L’altra metà degli Italiani aveva votato per la
sinistra marxista, e il PCI divenne il più grande
partico comunista occidentale, con 2 mln di
iscritti e il 35% dei voti alle elezioni (caso unico
in Europa).
Se la DC guardava alla «sovranazionalità» della
Chiesa, il PCI aveva come riferimento l’Unione
Sovietica: il modello cui si ispiravano i
comunisti italiani era quello della democrazia
popolare che interpretava il bisogno di
uguaglianza che usciva dal conflitto sociale.
Il PCI aveva due anime:
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quella togliattiana, moderata, antifascista, propensa al compromesso con i cattolici e con le esigenze della Costituente (appoggiata dall’URSS);
quella rivoluzionaria e
partigiana, che
lavorava in vista della
lotta armata. P.Secchia
e L.Longo
conservarono una
struttura clandestina
armata, la «Volante
Rossa» che doveva
intervenire in aiuto
degli operai in sciopero
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Mentre la DC cercava di rappresentare il
paese nelle sue componenti «pluraliste», i
comunisti lo volevano modificare: erede della
tradizione illuminista e giacobina e sulla base
degli scritti di A.Gramsci, il PCI si pone come
«moderno principe» che deve comprendere e
interpretare i bisogni di progresso sociale e
politico che emergevano dal paese e farsi
carico delle esigenze di miglioramento di tutti
i ceti sociali.
Gramsci, nei Quaderni del carcere, aveva
indicato la via attraverso il concetto di
«egemonia»:
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a differenza dei bolscevichi
russi che avevano sconfitto e
schiacciato i nemici con una
rivoluzione e una dominazione
di ferro, i comunisti italiani
volevano mettere in atto un
processo organico e
«molecolare» attraverso cui
esercitare una nuova direzione
intellettuale e morale sulla
società.
Era quella che Togliatti
chiamava «la via italiana al
socialismo», nel cui progetto
furono coinvolti soprattutto gli
intellettuali.
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La base consensuale del PCI era ovviamente
la classe operaia, tutta concentrata nel
triangolo industriale; inoltre, le «regioni
rosse» (Emilia, Toscana, Umbria) videro
l’adesione al PCI della piccola borghesia che
invece nelle altre regioni votava DC.
Meno significativa l’adesione al PCI da parte
di impiegati, commercianti e contadini: in
linea di massima, le lotte di classe si
attenuarono nell’Italia repubblicana col
passare degli anni e i comunisti seppero
interpretare questa progressiva
diminuzione della conflittualità.
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Rispetto al sistema liberale prefascista:
sistema esteso di partiti politici: sedi, dirigenti, funzionari, dirigenti locali democraticamente eletti, iscritti, etc.;
ceto politico selezionato e garantito dai partiti: intellettuali che avevano partecipato alla Resistenza e avevano scritto la Costituzione;
rispetto delle regole democratiche da parte dei politici.
Il sistema liberale prevedeva al massimo dei «comitati elettorali» che si preoccupavano della rielezione del candidato elargendo favori leciti e illeciti… MA:
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col passare dei decenni il sistema divenne
«bloccato»: normalmente, l’alternanza tra gli
schieramenti politici favorisce il ricambio e la
selezione competitiva del ceto politico (chi non
governa bene va a casa!).
In Italia questo non fu possibile perché il partito
di opposizione, il PCI, andava tenuto lontano dal
potere per questioni internazionali (la guerra
fredda): il quadro politico non riusciva a
rinnovarsi con le normali verifiche elettorali.
L’elettorato italiano fu sempre stabile:
DC 40%
PCI 30%
PSI sotto il 15%
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Così la politica si corruppe e tornò ad essere
quello che era stata in epoca crispina,
giolittiana e fascista: uno specchio di ciò che di
peggio emerge spontaneamente dalla società
civile: la parte più spregiudicata
nell’arricchimento, la meno propensa a
sottostare alle regole.
(P.Viola, Storia moderna e contemporanea. Il
Novecento, Einaudi 2000)
Istituzioni, magistratura, forze armate, grande
borghesia, gerarchie ecclesiastiche si
proteggevano a vicenda sentendosi minacciate
dal pericolo comunista a livello internazionale e
dalla lotta di classe all’interno del paese.
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A causa delle dinamiche internazionali, lo
scontro tra centrodestra e sinistra rimase forte:
il governo De Gasperi preferiva concentrarsi
sull’anticomunismo piuttosto che
sull’antifascismo.
Il Ministro degli Interni era M.Scelba, che
riorganizzò le forze dell’ordine allontanandone i
simpatizzanti comunisti e reintroducendo in
esse gli ex fascisti: era convinto che i comunisti
italiani fossero sul punto di mettere in pratica
piani insurrezionali appoggiati dai sovietici.
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La Polizia (i «celerini»)
interveniva violentemente e
con le armi alle numerose
manifestazioni di piazza
dovute al tasso altissimo di
disoccupazione: l’Italia era in
crescita demografica e i
giovani non trovavano lavoro
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In generale, tra la fine dei
‘40 e l’inizio dei ‘50, ci fu in
Italia qualcosa di simile al
maccartismo americano: i
comunisti venivano
allontanati dai posti di
lavoro, soprattutto nelle
fabbriche (militanti e
sindacalisti della CGIL). Il
paradosso è che molti di
questi lavoratori avevano
militato nella Resistenza e
avevano difeso quelle stesse
fabbriche dai nazisti…
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Il senatore americano
Joseph McCarthy
(1908-1957)
Nonostante avesse la maggioranza assoluta dei
seggi al Parlamento, il governo approvò, in vista
delle elezioni del 1953, una legge elettorale che
prevedeva un larghissimo premio di maggioranza
(2/3 dei seggi) alla coalizione che avesse preso
più del 50% dei voti: subito definita «legge
truffa» dalle opposizioni (e molto simile alla
«legge Acerbo» del regime fascista), la legge si
inseriva nel quadro più vasto della democrazia
protetta di De Gasperi: una serie di leggi
eccezionali che restringevano le libertà civili,
rafforzavano l’esecutivo e la polizia, limitavano i
diritti delle opposizioni.
Le cose non andarono come la DC si aspettava:
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Alle elezioni del giugno 1953
la coalizioni prese il 49,85%
dei voti e non ottenne il
premio di maggioranza;
monarchici, neofascisti e
comunisti avanzarono
sensibilmente.
L’anno dopo la legge fu
ritirata, De Gasperi si dimise
segnando la fine della
propria carriera, i
neofascisti emersero come
forza stabile della politica
italiana (elettori al Sud,
pubblico impiego, piccola
borghesia)
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La perdita di consenso, soprattutto al Sud e in
Sicilia, aveva una spiegazione: la tentata riforma
agraria del 1950.
Alle numerose manifestazioni di protesta dei
contadini del Sud, che volevano una riforma della
legislazione sui contratti che li garantisse
maggiormente, lo Stato rispondeva spesso con
l’uso della forza e delle armi da fuoco (strage di
Melissa, in Calabria, ottobre 1949: tre morti e
quindici feriti).
Alla grande mobilitazione e alla povertà
contadina il governo doveva dare un altro tipo di
risposta:
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poiché la DC si era imposta anche come forza
politica riformista, nel 1950 decise di
intervenire con una vera e propria riforma
dell’agricoltura che prevedeva:
esproprio di una parte dei latifondi e
redistribuzione delle terre ai contadini (circa
120.000 famiglie).
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La DC aveva al proprio interno l’opposizione dei
proprietari del Sud, che lasciarono il partito per
spostarsi più a destra (MSI); recuperò però il
consenso dei nuovi piccoli proprietari (aiutati con
fondi statali, mutui agevolati, aiuti fiscali)
cambiando così sensibilmente la propria base
consensuale.
La riforma non ebbe i risultati sperati:
scarso valore e produttività dei terreni confiscati;
insufficienza rispetto al fabbisogno;
aumento del prezzo della terra (temendo
ulteriori espropri, i proprietari misero in vendita
grandi quantità di terreni: le agevolazioni
all’acquisto fecero aumentare la richiesta
alzando così i prezzi).
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Tra i ‘50 e i ‘60 l’Italia attraversò una fase di
grande sviluppo industriale, con conseguente
aumento degli operai nelle fabbriche,
diminuzione degli addetti all’agricoltura,
miglioramento del tenore di vita degli italiani:
inizia l’era del consumismo.
Si diffondono in Italia i beni di consumo durevoli:
elettrodomestici, mezzi di trasporto privato (la
Vespa, la Cinquecento, la Seicento...) anche
grazie al sistema della vendita rateale e ai prezzi
bassi.
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Per le donne italiane, queste novità significarono
una maggiore disponibilità di tempo libero dalle
faccende domestiche, che poteva essere
impiegato fuori casa; le ore «vuote», il «tempo
libero», il «weekend» consentirono la conquista
di un maggiore spazio di libertà per tutti gli
italiani.
Inoltre, l’inizio delle trasmissioni della RAI (1954)
fu un fattore di socializzazione (le tv erano
prevalentemente nei bar), di sviluppo linguistico,
di indirizzo di consumo (la pubblicità), di
trasformazione di gusti e mode.
Iniziò anche il fenomeno dello svuotamento delle
città nel mese di agosto per le ferie al mare…
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Sul piano dell’industria, si svilupparono
particolarmente i settori metalmeccanico,
tessile, chimico, alimentare; l’edilizia crebbe
in modo sproporzionato, alterando l’equilibrio
urbanistico delle città.
Oltre alla concentrazione nel triangolo
industriale, si diffusero soprattutto nel centro-
nord (la terza Italia) tantissime piccole e
medie imprese (sia autonome che di
«indotto») che cambiarono completamente il
tessuto sociale e produttivo dell’Italia, che da
agricola diventava industriale: era la
«rivoluzione antropologica» di cui parlava
P.P.Pasolini in un celebre articolo del 1974: lucio celot - L'Italia degli anni '50 29
…i ceti medi sono antropologicamente cambiati: i loro
valori positivi non sono più i valori clericali ma sono i
valori dell’ideologia edonistica del consumo […] è stato lo
stesso Potere attraverso lo sviluppo della produzione di
beni superflui, l’imposizione della smania di consumo, la
moda, l’informazione (soprattutto la televisione) a creare
tali valori, gettando a mare cinicamente i valori
tradizionali […] lucio celot - L'Italia degli anni '50 30
Pier Paolo Pasolini
(1922-1975
L’omologazione «culturale» che ne è derivata
riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e
sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso
che si è estremamente unificato. La matrice che
genera tutti gli italiani è ormai la stessa. Non c’è più
dunque differenza apprezzabile tra un qualsiasi
cittadino italiano fascista e uno antifascista. Essi
sono culturalmente, psicologicamente e fisicamente
interscambiabili […]
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Milioni di italiani iniziarono a trasferirsi dalla campagna alla città e dal Sud al Nord dove c’era lavoro nelle industrie: fu una vera e propria emigrazione di massa, sia pure all’interno dei confini nazionali.
Si può affermare con sicurezza che nel ventennio 1951-1971 la distribuzione geografica della
popolazione italiana subì uno sconvolgimento. L’emigrazione più massiccia ebbe luogo tra il 1955 e il 1963 […] In tutto, fra il 1955 e il 1971, 9.140.000
italiani sono coinvolti in migrazioni interregionali.
(P.Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi 1989)
Con quali conseguenze sul piano socio-economico?
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problemi di inserimento nel tessuto sociale
(difficoltà linguistiche, razzismo, reperimento di
abitazioni, inserimento dei figli nella scuola,
differenze di mentalità, etc);
problemi di inserimento nell’ambiente
lavorativo: l’operaio meridionale è meno
specializzato, destinato a mansioni più umili,
non sindacalizzato, poco politicizzato, meno
pagato, in condizioni precarie, maggiormente
soggetto a incidenti sul lavoro; vota PCI ma è
estraneo alla tradizione della sinistra che aveva
fatto la Resistenza ed è più incline a
manifestazioni di violenza collettiva…
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In conclusione:
dopo le elezioni del ’53 ci fu un periodo di
instabilità politico-sociale, poiché la DC
oscillava tra un’alleanza con la destra
neofascista (MSI) e la sinistra del PSI.
A seguito degli scontri a Genova nel luglio del
1960 (gli ex partigiani impedirono lo
svolgimento del congresso del MSI), a Reggio
Emilia e in Sicilia (governo Tambroni), apparve
chiaro che ogni tentativo di svolta autoritaria o
di attacco alle libertà costituzionali avrebbe
scatenato nell’Italia antifascista un movimento
di massa enorme e incontrollabile.
Il quadro politico si spostò così a sinistra.
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