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STAGIONI

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SOMMARIO

AN N O IV

NUMERO 1

G. TAGLIACARNE Il reddito delle « due Italie»

M. AllRATE

M. BERNARDI

F. CLAVARINO

M. MARTINEZ

G. BOCCHINO

* * *"

E. G IANERI

F. BASTIAT

Religione, capitalismo e banca

La copertina

Il nuovo « San Paolo»

Verso un. w/avo calendario

Democrazia ed economia

R apporto all'Alta D ireziolle

Omaggio alla sintesi

Sessallt'anni che sconvolsero il //Iondo

Quel che si vede e quel che non si vede

IL COLLEZIONISTA I disegrli

M. LONGa

G. RlzONA

M. Dr LUIGI

Donne in toga

Vetrina di pensieri

~Divagazioni ferro viarie

LE STA GIO NI

pago 3

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Rivista trimestrale di varietà economica , edita dall 'Istituto Bancario San P aolo di Torino. Autorizzaz ione del Tribunale d i Torino n. 1465 in data 8 agosto 1961. Direttore responsab ile : Sergio Ricossa. D irezione e amministrazione: v ia Monte di Pietà 32, Torino (109). Le opinioni espresse nella rivista impegnano esclusivamente gli autori. La riproduzione di arti-

2 coli od illustrazioni è consentita citando la previa pubblicazione su L e stagiolli.

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G UGLI ELMO

TAGLIACARNE

IL REDDITO DELLE «DUE ITALIE»

D. Com'è nata l'idea di calcolare il reddito prodotto nelle singo le provincie e regioni d'Italia?

R. N egli anni 1946-47 si era reso necessario conoscere anche per l'Italia, come già si conosceva per gli altri paesi, a quanto ammontasse il reddito nazionale; e ciò special­mente allo scopo di confronto internazionale e per la deter­minazione della misura di talwù contributi attivi e passivi nei rapporti con le Nazioni Unite.

Si discusse molto sulla possibilità di istituire detti calcoli, e qualche economista-statistico sollevò al riguardo seri dubbi. Effettivamente le difficoltà da superare erano molte : in parte d'ordine tecnico e in parte dovute alla mancanza di talune statistiche di base, in quel tempo. Perciò le riserve stilla possibilità di eseguire un calcolo sul reddito nazionale italiano erano allora più che giustificate.

Tuttavia, con un po' di coraggio e di buona volontà si riusd a calcolare il reddito prodotto dall'Italia. Via via si sono raffinati i metodi, e si sono raccolte le statistiche 3

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LE STAGIONI

necessane per migliorare di anno ID anno il calcolo nazionale.

Successivamente si è incominciato a pensare a un calcolo più azzardoso, quello riguardante il reddito anche per le singole provincie e regioni d'Italia. Ed io mi sono assunto questo compito, come privato studioso, senza nascondermi le gravi difficoltà ClÙ andavo incontro. Ho eseguito questi calcoli la prima volta nel 195 I, e li ho presentati alla Società Italiana di Statistica; quindi, incoraggiato dal Presidente della Società stessa, prof. Gini, e dall' allora Ministro Pella, proseguii le elaborazioni per gli anni suc­cessivi; ed ora questo calcolo annuale è diventato una fatica d'obbligo, di cui mi faccio carico volontariamente ogni anno per rispondere alle richieste che continuano a pervenirmi da varie parti: uomini politici, operatori eco­nomici, studiosi, pubblicisti ecc.

A dire il vero, quando iniziai questo calcolo pensai che avrei dovuto aprire.. . 1'ombrello per ripararmi dalla pioggia di critiche che mi sarebbero piovute da ogni parte ; critiche che anche io facevo a me stesso. Ora ho chiuso 1'ombrello perchè 1'accoglienza fatta a queste elaborazioni è stata nel complesso benevola e incoraggiante; forse perchè non ne esistono delle migliori.

D. Come Lei effettua il calcolo?

R. Sarebbe tro~o lungo spiegare i criteri segUltl per queste elaborazioni che rappresentano serie difficoltà meto­dologiche; ma la difficoltà maggiore che incontro ogni anno è quella di dover raccogliere una quantità di serie statistiche aggiornate presso uffici pubblici, associazi01ù, istituzioni ecc. Mi sembra ogni anno di dover raccogliere elemosine. Devo pregare e penare per ottenere tutti i dati che mi occorrono. In molti casi si vuoI attribuire alle statistiche un carattere strettamente riservato anche quando non c'è nessuna ragione di riservatezza. Superate queste difficoltà, il calcolo viene eseguito partendo da quelli pub­blicati ufficialmente dall'Istituto Centrale di Statistica;

4: calcoli che per molti anni riguardavano soltanto il dato

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nazionale, e per gli tÙtimi anni concernono anche tre grandi ripartizioni territoriali. il Imo compito è stato quello di ripartire tali dati globali r.ei valori più piccoli, pr<?virIciali.

E necessario chiarire che il reddito che si ottiene in questo modo non è la somma dei redditi personali degli abitanti delle singole provincie, ma è il reddito prodotto dalle stesse, vale a dire il valore aggiunto dell' attività eco­nomica nel corso di lill anno: è una specie di dividendo ricavato dall'apparato econOlmco del Paese (reddito na­zionale) e di quello delle singole ripartizioni (redditi provinciali) .

D. Quali sono i ris~dtati più importanti di questi calcoli?

R. Credo inutile avvertire che non si tratta di dati esatti, ma soltanto approssimativi: sarebbe assurdo immaginare di poter raggilillgere l'esattezza in calcoli di questo genere, che in gran parte - forzatamente - comprendono stime e valutazioni personali. Ma l'interesse pill importante è quello di poter fare i confronti di alUlO in anno, e di avere lilla misura, sia pure di larga massima, sulle differenze fra le provirIcie e le regioni.

Nonostante le dovute riserve SlÙ valore dei calcoli, si constata che vi sono notevoli disparità fra le varie parti del territorio nazionale e quindi fra Nord e Sud. Fatta uguale a 100 la media del reddito dell'Italia, la media sale a 103,0 nell'Italia centrale e a 127,7 nell'Italia settentrionale; scende a 63,7 nell'Italia meridionale e a 65,9 nell'Italia inslùare. Pertanto si può dire che il reddito al nord sia circa il doppio di quello al sud.

Le provincie povere, in quanto a reddito per abitante, sono quelle di Cosenza, Agrigento ed Enna, con Wla

media di L. 160.000 (1962). La provincia che produce il reddito più elevato è quella di Milano, con lill valore di quasi 700.000 lire; vale a dire, fra le provincie più povere e quella pill ricca c'è lill rapporto di ben quattro volte e mezzo. 5

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LE STAGIONI

D. È per questo che si sente parlare spesso di « due Italie »?

R. Proprio per questo. Un dislivello fra le condizioni economiche nell' ambito di una nazione non è il caso soltanto dell'Italia; anche in Francia, in Inghilterra e per­sino nella ricca Confederazione degli Stati Uniti, esistono ampie zone molto povere in confronto ad altre molto ricche. Ma per l'Italia il disquilibrio copre due grandi estensioni del territorio nazionale, ed è per questo che il feI;lOmeno in Italia assume un aspetto più drammatico, onde appare giustificato parlare di due Italie.

Purtroppo il disquilibrio fra nord e sud, che da tutti giustamente si vorrebbe vedere ridotto e infine eliminato, tende invece a crescere. Negli ultimi dieci anni, ad esempio, l'aumento del reddito prodo'tto per abitante è stato dell'88,6 per cento nel nord-centro e del 78,2 per cento nel sud­isole.

Come si vede da queste cifre, anche l'Italia meridionale ha subìto un notevole aumento negli lùtimi dieci anni, ma è un fatto che l'incremento del nord-centro è stato sensibilmente superiore. Ciò si spiega facilmente col fatto che nel nord prevale l'industria, che può conseguire ogni anno degli incrementi percentuali notevoli, mentre nel sud prevale l'agricoltura, la quale, per sua natura, con­sente aumenti molto più limitati.

Il Professar Gug1ielmo Tagliaca",e, fra i pilì Iloti statistici italialli, è Segre­tario del/' Uniolle ltaliatla delle Camere di Commercio e direttore della ri"ista

6 • Sintesi Eco/lDmica »,

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RELIGIONE,

CAPITALISMO

E BANCA

Il IV centenario dell'Istituto Bancario San Paolo di T orino è stato celebrato, fra l'altro, con la pubblicazione, in due volumi monumentali, dell a storia dell'ente e dell' inventario del suo ricco archivio storico. A questa grande impresa editoriale hanno contribuito il professor Mario Abrate, per il testo di storia; il D ottor Giuseppe Locorotondo, per il materiale d'archi vio; il Dottor Luigi Sachcro, per le illustraz ioni numismatiche tratte da esemplari dei Civici Musei resi disponibili dal D ottor Vittorio

, Viale ; l'Ufficio Studi del Servizio di Segreteria dell'Istituto Bancario San Paolo, per il coordinamento e la realizzazione. r nostri lettori gradi­ranno, ci auguriamo, gli stra Ici che seguono, ri ca va ti dal capitolo r del­l'opera, e che riassumono acutamente i termin i del conflitto interno dell'" uomo economico » tra Riforma e Controrifo rma.

Non è possibile collocare in giusta posizione uno studio storico, anche di portata limitata, stilla economia moderna, senza accelU1are alla grande discussione sollevata, or sono cinq uant' anni, dalla tesi di Max Weber sull' affll~ità tra « etica protestante» e « spirito del capitalismo ». E bene clùarire che questa tesi, espressa in modo pill o meno rudimentale e polenùco, talvolta con intenti peggiorativi tal altra elogiativi, non risale affatto a Max Weber, ma è contemporanea alla Controriforma. Essa si trova infatti formtùata nel Trattato dell'usura del Bossuet, e, con una maggiore raffmatezza espressiva, nelle discussioni degli eco­nonùsti e degli scrittori politici del secolo XVIII sulla preponderanza commerciale e finanziaria degli Stati pro­testanti, come Olanda ed Inghilterra. La costatazione di una certa affllùtà di fatto tra « protestantesimo» e « capi-talismo» non è, perciò, una invenzione recente degli 7

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LE STAGIONI

storici, bensì una evidente realtà percepita da tutti gli osser­vatori di cose economiche. Questa evidenza è però equi­voca, come i termini medesimi che essa associa, e come ogni affastellamento tra spirituale e temporale. La contro­versia suscitata dal Weber, e in cui quasi tutti gli storici dell' economia moderna haIIDo preso posizione con mag­giore o nÙl10re originalità, ha soprattutto avuto il merito di me,ttere fme alle interpretazioni troppo semplicistiche di tali pretese affinità.

Non si tratta, infatti, di causalità e neppure di interdi­pendenza. Se si volesse stabilire 1m qualsiasi legame tra la Riforma, considerata nel suo insieme, e la comparsa del-1'« uomo capitalista», ci si dovrebbe limitare alla rottura della universalità cristiana. Da questa rottura il protestante è respinto nella solitudine della sua coscienza, onde deve trovare da solo la forza per dimostrare a sè stesso e al mondo di aver sopra di sè la protezione dell'Omùpotente. Occorre tuttavi~ guardarsi dal ricavare da ciò conseguenze troppo spinte, quanto al comportamento sociale. È forse seducente identificare nella « totalità organica» della Chiesa universale una trasposizione della società medievale e vedere nella Riforma l'avvento dell' individuo responsabile di sè stesso. Ma, in questo senso, la Riforma è soltanto uno dei molteplici aspetti della fine del Medio Evo, e cioè una traduzione religiosa di quella emancipazione del­l'individuo a cui l'Umanesimo ed il Rinascimento hanno teso per altre vie. Sotto questo aspetto, i Medici e i Fugger, Erasmo, Lutero, Cristoforo Colombo e Copenùco sono non soltanto contemporanei ma fratelli, membri di Wla fanùglia la cui unità sta per frantumarsi sotto la spinta di tempi nuovi. E fra tutti gli artefici della rottura fra le due età, lo spirito meno contemporaneo, quello più impre­gnato di tradiziOlù medievali, è certamente quello luterano.

L'affInità tra Riforma e «spirito del capitalismo» si precisa meglio quando si rivolga l'attenzione ai riformatori di Zurigo e di ~inevra, organizzatori di comunità bor­ghesi e urbane, i quali erano cittadini legislatori, uomini politici e rinnovatori religiosi. Il problema centrale è quello della disciplina, non del dogma; ma della disciplina reli-

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INVERNO 1963-64

giosa, inseparabile dalla pietà. L'imperativo del lavoro non è, originariamente, diverso dalla regola monastica ora et labora: soltanto una vita trascorsa nella preglùera e nel lavoro può essere vissuta santamente; tra questi due poli si forma la disciplina che preserva il cuore dell'uomo dalle tentazioni dell' ozio. L'associazione della preghiera e del lavoro come servizio reso a Dio, non è, pertanto, WIa innovazione dei riformatori; l'innovazione vera consiste in ciò che è stata c1ùamata la secolarizzazione o la laicizza­zione della santità. In effetti, questa disciplina ascetica assume un senso ben diverso quando essa si applica non soltanto ai membri di Ull ordine religioso, che hanno rinunciato alla vita del secolo, al matrimonio e ad ogni proprietà personale, bensì anche alla società temporale medesima.

Ci troviamo così di fronte ad una nuova gerarc1ùa di valori. La dottrina della Clùesa cattolica era rimasta alla separazione delle funzi01ù di « coloro che pregano» e di « coloro che vivono nel secolo»; nella sua gerarc1ùa dei valori la santità, la meditazione, la carità, si pongono ben più in alto del lavoro utilitario, necessario per i bisogni del corpo ma non per la salvezza dell' alùma. Gli uomÌlù della Riforma, ma pill radicalmente di tutti Calvino, scomposero questa gerarchia delle funzioni e dei valori spirituali per riUlùrli tutti in una sola indissolubile Ulùtà, la vita cristiana ric1ùesta ad ognuno come impegno totale. Il dovere di ogni cristiano è quello di impegnare tutte le sue forze in una vita meditativa ed attiva, laboriosamente ed austeramente vissuta.

Inutile insistere sulle conseguenze economiche derivanti da una simile introduzione di disciplina ascetica nella vita comune: lavoro ed , austerità messi insieme portano fatal­mente all' arricchimento, e l'arricchimento a sua volta conduce alla corruzione di questa pietà laboriosa ed austera. Sennonchè, tutto quanto è stato detto a questo proposito pecca di eccessivo razionalismo, mentre la realtà è meno logica. Il calvÌlÙsmo non si è semplicemente annullato a causa dei suoi successi econonùci; si è anzi sviluppata Ulla morale del successo. 9

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LE STAGIONI

La santità di vita imposta dai riformatori, e special­mente da Calvino, comprende la preghiera ed il lavoro, la meditazione e la vita attiva; ma qual è il posto della carità in questa cittadella di virttl? La carità evangelica, tale e quale era stata compresa e praticata con maggior o minor sincerità durante quindici secoli di cristianesimo, non trova posto nella città riformata. La santwcazione del lavoro sottrae ogni giustificazione alla mendicità e, per converso, all'elemosina. La carità non ha cittadinanza nella città di Calvino perchè non ve n'ha il povero. Colui che vive di elemosina insulta all' ordine divino. Secondo la pietà cattolica il povero, volontario o no, ed il povero volontario ancor più dell' altro, conserva va una posizione speciale: il povero è il figlio prediletto dal Padre, nasce sulla paglia come Cristo e non sa ove potrà trovare il suo riposo; ma il ricco entrerà difficilmente nel Regno dei Cieli. La mendicità ha un suo posto preciso in questa visione del mondo, anzi è uno stato di grazia cui si ispi­rano gli ordini mendicanti; e l'elemosina è l'opera buona per eccellenza, perchè chi dona al povero dona a Dio. Anche qui la Riforma ha rovesciato questa tavola di valori, disprezzando quasi appositamente tutto ciò che sembrava l'essenza stessa della sensibilità cristiana. Per il calviIùsta la mendicità non è meritoria, ma iIuamante, ~ l'elemosina, o carità sconsiderata, non è una buona azione ma lill peccato in quanto incoraggia il pigro e soccorre q uesta intollerabile piaga sociale invece di estirparla. La sola buona opera è il lavoro, che sopprime contempora­neamente colui che domanda e colui che fa l'elemosiIla.

Anche se questo atteggiamento si è andato affievolendo nel tempo, la preminenza etica del lavoro è rimasta come fondamento nella morale calviIlista. Essa comportava l' ob-

, bligo, di cui forse non si è mai misurato la portata, di affrontare l'immenso problema del pauperismo, non con gli strumenti della beneficenza, ma attraverso la discipliIla del lavoro, l' orgaIùzzazione sociale, l'educazione al lavoro o semplicemente l'educazione (poichè per i riformatori, la mendicità era innanzi tutto mancanza di carattere come il lavoro era innanzi tutto una scuola di carattere), e al

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limite, spesso raggiunto, con le leggi sui poveri, e cioè con il lavoro forzato. In teoria, questa etica può realiz­zarsi in una società comunistica come in una società in cui sia lecita la proprietà privata e, in tal senso, si possono facilmente trovare nelle comunità calviniste originarie, simili a grandi monasteri laici este'si ad intere città, delle analogie di grande attualità. Ma è un puro gioco di spi­rito; storicamente il calvinismo si è incarnato in una società borghese ed ha fatto del lavoro la virttl borghese per eccellenza. Ora, se il lavoro è un dovere, è anche un

, diritto che la società cristiana non può rifiutare al povero di buona volontà.

Se chiedere l'elemosina è per l'uomo atto al lavoro un disonore, in nome di questo stesso sentimento egli può reclamare il diritto al lavoro. E per il potente la buona opera per eccellenza non è più far l'elemosina, ma dare il lavoro. Così il capitalista acquista una funzione emi­nente nel piano della salvezza divina e può considerarsi come strumento della volontà di Dio. Il capitalista che la società calvinista mette all' onor del mondo non è il ricco fannullone, il proprietario terriero, il finanziere o lo spe­culatore; è il capitalista attivo, colui che dà lavoro, l'im­prenditore che fa fruttare il suo capitale consentendo il lavoro agli operai, il commerciante che apre sbocchi nuovi. ai lavoranti, e il suo merito sarà quasi misurato al numero delle mani a cui dà occupazione. Pertanto la ftUlZione del capitalista è altresì un obbligo.

Evidentemente, il capitalismo industriale ha tratto da questo spirito slancio e giustificazione; se ne sono giovati i pionieri (ed i capitani di industria, ma altresì tutto ~l popolo che si è educato alla dura disciplina del lavoro. E chiaro che questa leva non poteva produrre tutta la sua efficacia se manovrata in un mezzo ostile, e che senza questo substrato morale, lo sforzo di industrializzazione, COlmUle a tutta l'Europa nei secoli XVII e XVIII, sarebbe dovuto venire dall' alto, suggerito dalla ragione di Stato, ma non avrebbe potuto realizzarsi se non attraverso diffi­coltà maggiori di quelle che ha effettivamente incontrato.

Se il calvinismo, specialmente quello ginevrino, ha esal- II

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LE STAGIONI

tato le virtù della disciplina del lavoro e dell' austerità e se, per conseguenza evidente ed involontaria, ha cosi favo­rito 1'accumLùazione di capitali attraverso il risparmio, nulla, nè nella dottrina nè nella pratica, i)[~disponeva a priori i suoi fedeli alla banca ed alla fmanza. E ben vero che · Calvino ammise il prestito ad interesse a Ginevra, distinguendo però accuratamente tra interessi legittimi ed usura, cioè tra il credito concesso ad un imprenditore come anticipo di capitale (che conferisce il diritto al capi­talista di esigere una parte dei profitti realizzati con questo prestito) e il prestito di consumo (che deve essere gratuito se è fatto ad un povero e che è condailllabile se è concesso ad un mutuante abituale che si rovina per pigrizia e legge­rezza). In realtà, da molto tempo prima di Calvino la condanna canonica indiscriminata dell' usura era caduta nei fatti . Non fu a Ginevra, nè dopo la Riforma, ma in Italia e nei Paesi Bassi negli ultimi secoli del Medio Evo che la banca iniziò il suo sviluppo e raggiwlse Wla perfezione di istituti non più sorpassata sin dopo la rivoluzione indu­striale. In sostanza, la Riforma non ha Ìill1ovato nulla nell' attività e nella tecnica della banca; la grande banca internazionale è nata non già dal prestito ad interesse o dalla cassa di deposito a risparmio, ma dal commercio delle lettere di cambio e delle tratte, operazione di credito molto specializzata e legata al commercio internazionale, e perfettamente lecita agli occhi dei dottori scolastici. Sino alla fine del secolo XVIII banca e cambio sono stati strettamente legati; il fmanziere, talvolta in opposizione al banchiere, è per definizione colui che si occupa di ope­razioni COilllesse con le finanze dello Stato. Nel settore di questi affari, prestiti a Stati ed a prlncipi laici od eccle­siastici, la pratica dell' interesse era corrente e patente già nel Medio Evo, nè la Chiesa la colpiva con quei divieti CanOl1lCl che erano invece applicati alle operazioni tra particolari.

In conclusione, la tesi di Max Weber è stata ispirata dal confronto tra lo sviluppo economico e politico dei Paesi protestanti e la relativa stagnazione dei Paesi cattolici,

I2 globalmente considerati, nei secoli XVIII e XIX. Ma

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questo punto di vista retrospettivo costituisce un com­pleto rovesciamento della situazione contemporanea alla Riforma. La secessione religiosa, vista dai vecchi centri economici e politici del Mediterraneo, era un movimento periferico, una specie di rivolta scoppiata in paesi lontani, sottosviluppati e semi barbari, contro 1'universalità della Chiesa cattolica romana e della civiltà di cui essa era depo­sitaria. A parte 1'eccezione, del resto scarsamente signifi­cativa a questo riguardo, del calvinismo, la Riforma si situava al di fuori della latinità ed è abbastanza facile, nelle agitazioni multiple e nella confusione che accom­pagnarono questa secessione, scorgere razione di un sen­timento ancora amorfo, di tipo nazionalistico, con tutte le limitazioni che può avere questo termine usato per il secolo XVI.

Ma questo sconvolgimento non può essere separato da tutti quegli altri che hanno segnato la fine del mondo medievale. Quell' evoluzione che, nel corso dei secoli seguenti, ha fatto inclinare la bilancia dalla parte dei Paesi protestanti o di alcmu di essi è, nelle sue grandi linee, la stessa che ha spostato i centri dell' attività economica e della potenza in generale oltre il veccluo quadro medi­terraneo in direzione dell' Atlantico e che continuerà forse a spostarli al di fuori della stessa Europa. In sostanza, si debbono elevare le più forti riserve rispetto ad ogni ten­tativo di interpretare la storia economica attraverso la storia religiosa. Nella formazione delle società moderne si framnuschiano diversi ordini di fatti e molteplici cau­salità, senza che appaia possibile isolarne alcuni e negarne altri.

MARIO ABRATE

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LA COPERTINA

Le tele che la rivista « Le Stagioni » riproduce a colori in copertina fm dal suo fascicolo d'autmllio furono esposte l'anno scorso a Palazzo Reale nella grande mostra dedicata al Barocco piemontese. Sono quattro allegorie - della Primavera, dell'Estate, dell' Autmllio, dell'Inverno - della misura di m. 1,12 x 1,05, appartenenti a collezione privata torinese, dipinte nella seconda metà del Settecento da Vittorio Amedeo Rapous.

Di solito quando si dice Rapous, od anche « Raposo », subito in Piemonte si pensa al notissimo e celebrato autore di nature morte, di trionfi di fiori e di frutte spesso com­binate con elementi architettonici fmti e fmte sculture, in fLillzione di soprapporte, paracamini, quadri decorativi: cioè a Michele Antonio Rapous, che, nato a Torino il 18 marzo 1733, lavorò dal 1751 al 1796 per la Corte Sabauda alla Venaria Reale, alla Palazzina di Caccia di Stupinigi, dipingendovi anche decorazioni a zoccolo, a Palazzo Chiablese, a Palazzo Reale, e per moltissimi pri­vati. Le sue opere (e noi riteniamo, come già Lorenzo Rovere, sue anche le bellissime soprapporte della prima sala del Palazzo Isnardi di Caraglio, ora Accademia Filar­monica) si confondono talvolta con quelle di Anna Cate­rina Gili, specialista settecentesca in pitture floreali, sono tuttora molto ricercate dai collezionisti - che dovrebbero diffidare dei numerosi analoghi lavori « di scuola» o di abili imitatori - e toccano alti prezzi.

Meno conosciuto di Michele Antonio, morto il 17 aprile 1819 (e molto lodati erano ancora i suoi quadri nel 18II e nel 1812), è il suo fratello maggiore Vittorio Amedeo, nato a Torino verso il 1728, spentosi prima della fine del secolo, che nel 1747 con L1ll sussidio reale di 15 lire al mese (era figlio di ml maestro delle regie scuderie) cominciò

14 a frequentare la scuola del Beaumont, traducendo più

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tardi i bozzetti di questo nei cartoni per 1'Arazzeria tori­nese, e sforzandosi di imitare il maestro: sì da giustificare la quartina dedicatagli nel Pregiudiz io smascherato da Ignazio Nepote, povero poeta quanto mediocre pittore: « Del mastro Bomol1 imita / Rapos il bel dipingere / Grazioso nelli bamboli / Fra loro quando scherz ano».

Appunto i « bamboli », insieme con soggetti religiosi trattati in quadri d'altare per clùese di Torino, Biella, Mondovì e altri centri piemontesi - e va ricordato in particolar modo il S. Uberto, già attribuito al Beaumont, per la cappella della Palazzina di Stupinigi - furono uno dei tellÙ preferiti da Vittorio Amedeo Rapous, che riuscì ad animarli leggiadra mente creando intorno alle sue figu­rine infantili un' atmosfera boschereccia o arcadicamente rusticana assai gustosa, che in un certo senso si rifaceva a quella delle tarde « bambocciate » settecentesche dell'Oli­vero e del Graneri, e dei precedenti secentesclù romani e piemontesi del fiamnÙ11go MieI. Tali le sei gentili e pia­cevoli soprapporte, « Scherzi di putti con cacciagione e altro », dipinte verso il 1766 per la camera da letto del duca del Chiablese nella Palazzina di Stupinigi; e queste divertenti, se pur meno pittoricamente raffrnate, « Alle­gorie delle Stagioni », che ad esse si ricollegano, probabil­mente anche per la data d'esecuzione. Per le soprapporte di Stupinigi, che ci dàlllio la miglior nùsura del talento di Vittorio Amedeo, va notata la festosità e 1'arguzia della composizione, con 1'acuto studio dell' anatomia infantile che par tolta dai modelli di grandi maestri quattro-cin­quecenteschi, e con la vivacità di atteggiamenti degli animali.

In occasione della mostra del Barocco, Andreina Griseri ha segnalato al secondo piano" di Palazzo Reale « una serie .di soprapporte con soggetti allegorico-mitologici di sicura autografia (di V. A. Rapous) e di grande abilità di esecuzione, entro conùci che permettono una datazione circa 1770-80»; sottolineando che con questa datazione avanzata si spiega del Rapous « dapprima lo svolgimento rocaille e in seguito gli acceruù anticipatori di neoclassi-cismo, in parallelo al BonzaJùgo». In uno studio su La I5

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LE STAGIONI

Palazz ina di Caccia di Stupinigi (Torino, Istituto Bancario San Paolo, 1958) noi potemmo restituire con sicurezza a Vittorio Amedeo Rapous, sulla base di un indiscutibile documento che rinvenimmo nell' Arclùvio Mauriziano, gli ovali monocronù, molto ridipinti nell' Ottocento, della Anticappella di S. Uberto a Stupinigi, prima assegnati a Giovanni Battista Alberoni. Pure di Vittorio Amedeo ritelùamo (cfr. Tre palazz i a Torino, id. id., 1963) le soprapporte della terza sala al piano nobile del Palazzo dell' Accademia Filarmonica, che in passato erano state attribtùte al Beaumont.

MAnZIANO B ERNARDI

IL NUOVO « SAN PAOLO». Il 30 ottobre U.5. il Presidente della R epubblica on.le pro! Antonio Segni ha inaugurato la l1uova Sede di Piazza Sali Carlo dell' Istituto Bancario San Paolo di Torino. Il capo dello Stato, accompagnato dal Sindaco ing. Ansebnetti, è stato ricevuto dal Presidente dell'Istituto pro! Jona, dal Vice Presidente ing. Luigi Richieri, dal Direttore Generale dotto Francesco Rota. Assistevano alla cerimonia i rappresentanti del Parlamento e del Governo. le massime autorità cittadine e qualificati rappresentanti del mO/ldo economico e finanziario torinese e nazionale.

La l1I/Ova Sede dell'Istituto vuole essere la più significativa cOl/lme­morazione del lUI/go ca/limino percorso dal « San Paolo» 11ei quattro secoli di vita. Il l'luovo palazzo, trasformato in IIna delle sedi bancarie più modeme e razionali d'Europa, ove l'antico ed il modemo si sono mirabilmente ed armoniosamente fusi, fa rinascere nel cuore di Torir/O, nel « salotto dei torinesi» - come è comunemente denominata la Piazza San Carlo - un suggestivo angolo di vita. Il palazzo infatti non SOltat'ltO soddisfa le necessità funzionali di una banca I/loderna, ma anche alcune esigenze della cittadinanza corI la ricostruzione dello storico Caffè San Carlo, già ritrovo della Torino colta, la creazione di una piazzetta interna aperta al pubblico, contornata da boutiques, lo costruzione di un ampio salone per assemblee di società, riunioni culturali e conferenze, capace di 400 posti, nonchè di una galleria per

16 esposizioni o mostre.

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VERSO UN

NUOVO CALENDARIO

Innestato nel 1582 sul vecchio tronco della riforma di Giulio Cesare, il calendario cosiddetto « gregoriano» (dal papa Gre­gorio XIII) sta a sua volta per cedere a formule più idonee a regolare la nostra vita .di uomini della civiltà delle macchine I

ti calendario « repubblicano », introdotto dalla Rivoluzione francese, non fu che un' effimera meteora, come accade per lo più alle innovazioni che non rispondono a esigenze di sostanza - la sostanza della rivoluzione si rivelò ben altrimenti - ma a eleganze di forma. (Qualche cosa di simile si tentò sotto il fasci­smo, quand'era d'obbligo scrivere l'anno dell'« E. F.» in cifre romane.)

Ma', a parte il discutibile gusto di ribattezzare germinale, floreale e pratile i mesi di primavera; nevoso, piovoso e ventoso quelli d'inverno; e cosÌ via, altre stranezze per le rimanenti stagioni; vi era, nel calendario repubblicano, uno sforzo di razionalizzazione che lo apparenta, in certo senso, ai moderni progetti di riforma del calendario. Con la dilferenza che, a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, si trattava di un sacrificio gratuito sul!' altare della Raison, mentre di fronte agli inconvenienti dell' attuale calendario rispetto alle pratiche necessità del presente e più ancora dell'im­mediato futuro, una soluzione che venga ad aggil1l1gere mono­tonia, ed a sottrarre poesia e naturalezza, può eventualmente giustificarsi.

Tra i numerosi inconvenienti dell' attuale sistema di computo del tempo, chi ha pratica di cose finanziarie ricorderà certamente, anzitutto, taluni problemi connessi alla scadenza dei termini : in che giorno, ad esempio, si verifichi la scadenza di l1I1' operazione a ciclo mensile, quando quest'ultimo sia sfasato rispetto al mese 2I

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LE STAGIONI

solare (art. 2963, 4° comma Cod. Civ.); o che cosa succeda -nel caso di scadenza mensile - quando il mese sia carente del giorno che sarebbe dies ad quern (5° comma del medesimo articolo). Così, anche - per la difficoltà di prevedere, a distanza di tempo, in quale giorno della settinlana si avrà lo spirare del termine -è stato necessario che il Legislatore stabilisse una speciale dispo­sizione, per l'ipotesi di scadenza operal1tesi in giorno festivo (3° comma dell'articolo citato).

In analoghi ostacoli si è imbattuta la disciplina dei rapporti di lavoro, là dove ad esempio si è trattato di regolamentare la situazione retributiva, nascente dal caso di coincidenza della. domenica con una festività i.nfrasettinunale.

E qui il discorso scivola naturalmente dalla cQnsiderazione degli aspetti giuridici, a quella degli aspetti economici del pro­blema. Con l'evolversi - anche da noi - dell'industria da un concetto artigianale ad llil concetto di conduzione organizzata, sempre maggiore inlportanza ha asstmto il planning della produ­zione e delle vendite (con i conseguenti programmi di acquisti; di messa a punto degli impianti; di assunzione e addestramento del personale ... ), come pure la massima attenzione si è accentrata sui sistemi di controllo. Ora, soprattutto per le aziende di dimen­sioni notevoli - in tal senso è orientato il divenire dell'industria -e col gran parlare di progranilllazione che si fa per gli Enti Pub­blici, pianificazioni e controlli non possono ovviamente non risentire, in una certa misura, delle « variabili» insite nel calen­dario gregoriano.

Variabili che riguardano, come è noto, tanto la durata dei singoli mesi (28-29, 30-31 giorni); quanto lo spostamento delle festività domenicali lungo il mese; e lo spostamento della maggior parte delle festività infrasettimanali : come il Natale, che cade il 25 dicembre, ma in giorno diverso di anno in anno.

Tali - a farla breve - i motivi che halillo indotto a pensare seriamente ad una riforma del calendario. Se ne discusse a Londra nel 1910, a Boston nel 1912, a Liegi nel 1914; finchè nel 1931 ebbe luogo una conferenza internazionale convocata dalla SQcietà delle Nazioni. Fu costituita anche una « Associazione Internazio­nale per il calendario mondiale », con rivista periodica trimestrale.

Un progetto di riforma che pare abbia buone probabilità di 22 successo (ottenne larghi consensi anche nel mondo d'oltre cor-

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tina, e fu l'India, nel I953, che lo propose all'ONU), mantiene i mesi in numero di dodici, e prevede trimestri tutti uguali fra loro. Ogni giorno di un mese qualsiasi, e ogni festa, cadono sempre negli stessi giorni della settimana. I primi mesi di ogni trimestre (gennaio, aprile, luglio e ottobre) incominciano sempre di domenica. Tali mesi halmo, pertanto, sempre cinque domeniche ciascuno; inoltre, sono di trentun giorni tutti e quattro. Gli altri otto mesi hanno trenta giomi e q/lattro dcn/len iche, e cominciano essi pure sempre CO ri /III lIIedesilllo giomo della settilllana.

Per la stabilizzazione dell' almo, si avrebbe un trecentosessan­tacinquesimo giorno dopo il mese di dicembre, giorno da con­siderarsi festa mondiale. Negli almi bisestili, vi sarebbe poi un'altra festa mondiale, posta dopo il trenta di giugno.

Naturalmente, sono fin d'ora prevedibili molte difficoltà - di carattere internazionale, sindacale, tradizionale - all' introduzione di una riforma del calendario. In particolare, non è facile con­temperare i nuovi progetti di calendario con le esigenze litur­giche della Chiesa.

Nessun problema, verosimilmente, si avrebbe riguardo alle cosiddette feste «fisse» (Natale, Capodalmo, l'Assunzione ... ): esse verrebbero a cadere costantemente Ùl WIO stesso giorno della settimana. È dubbia invece la soluzione che potrebbe attuarsi per quelle feste che, tradizionalmente, S0110 « mobili »,

legate cioè ad un andamento naturale che comporta varianti di armo in almo: cosl la Pasqua e, di riflesso, l'Ascensione e la Pentecoste.

Tuttavia, una recente dichiarazione dell' assemblea dei Vescovi, nella seconda sessione del Concilio, testè conclusasi, sembra aver considerato un' eventuale riforma del calendario in senso assai possibilistico: neSSLUla innovazione verrebbe a priori condannata, purchè fosse conservato il prùlcipio della ripartizione del tempo in settimane, cioè in serie di sette giorni, di cui l'ultimo dedicato al Signore.

FERDTNANDO CLAVARINO

23

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V ARIAZIONI SUL TEMA:

DEMOCRAZIA ED ECONOMIA

Vi è una branca dell' economia, la cosiddetta « economia del benessere», che si propone di stabilire ciò che è giusto, indipendentemente dalla fede, dalla ideologia, dalle cre­denze degli uomini. Ma quand'anche 1'« economia del benessere» riuscisse nell'impossibile compito di defInire 1'ottimo per tutti, 1'ottimo «oggettivo», «razionale », resterebbe una gran fatica da compiere, convincerne cia­SClillO. Una cosa « razionale» non è pill credibile delle altre, anzi lo è meno se « la maggior parte delle az ioni degli uomini trae origine non dal ragionamento logico, ma dal senti­mento» (Pareto). Per ora 1'« economia del benessere» è andata poco oltre una alambiccata elaborazione dell' ottimo come defInito dallo stesso Pareto 1: uno stato che non può modifIcarsi, nel tentativo di favorire almeno un individuo senza scontentarne almeno un altro. Pochi, se son pochi gli invidiosi, metteranno in dubbio la convelùenza di fare tutto ciò che giova agli altri e non ci danneggia; ma meno ancora saranno gli altruisti pronti ad accettare che si faccia solo ciò che non spia ce al prossimo. Una collettività di altruisti sarebbe paralizzata dal timore di far del male, e si troverebbe in un bell'impiccio quando dovesse scegliere (con che criteri l) fra più stati, tutti ottinù nel senso pare­tiano, ma non egualmente ottimi.

l « La sloria di collie egli abbia .ma volta di più reso 1/1/ serviz io ad lilla causa per la qllale egli 11011 aveva o 11011 allrebbe dOlllltO avere alCI/ila simpatia,

21: 1101/ è priva di IIl110risl/10 » (SCHUMPETER).

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* L'espediente della compensazione (di coloro che altri­

menti subirebbero tm danno da tm provvedimento politico) è stato inventato per dar pill importanza pratica agli ottimi paretiani. Non credo che il Kaldor e gli altri illustri soste­nitori dell' espediente pensino tuttavia di poter compensare oglù pena su questa Terra, e con del denaro, nè che approvino di compensare i ladri danneggiati dalla polizia od i produttori incapaci i quali si oppongono alla con­correnza. ti Kaldor si limita a definire « efficienti» gli atti, che producano tanta abbondanza di frutti, da averne anche per un eventuale compenso ai danneggiati, cui si darà o non si darà in omaggio ad altri princìpi, etici e non più « razionali ». Si ricasca nell' etica, e si risclùa di accertare che Swift era « efficiente » con la « modesta proposta perchè i bimbi dei poveri non siano un peso per i genitori e per il paese» (ingrassarli e mangiarli) . Tanto il concetto di effi­cienza è disgitmto da quello di bene o di male.

* L'oggettività, a quanto pare, si deve fermare ad un

certo punto, e buon per noi che si femù innanzi alla fede nella libertà e nell'individualismo, e non a più pericolose staziOlù. Ma rendiamoci conto della audacia dell'ipotesi o credenza che ogni individuo sappia quel che vuole (e non solo voglia quel che gli fa volere la propaganda), abbia buone informazioni, badi anche a ce qu' on ne voit pas, ecc. Altra audacia maiuscola è nella regola democra­tica che la maggioranza abbia sempre ragione. Una deci­sione politica può avere tutti i crisnù democratici, ma se è irreparabile, se non ammette il pentimento degli stessi che decisero, è ripugnante.

* La democrazia porterebbe, secondo Galbraith, a spese

pubbliche inferiori all'« ottimo», per la nùopia degli elet-tori-contribuenti, i quali « vedono» i tributi che pagano, 25

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LE STAGIONI

non «vedono » i vantaggi collettivi che ne derivano. Complice la réclame, i produttori privati venderebbero anche il superfluo, la pubblica amministrazione non incas­serebbe abbastanza per finanziare scuole decorose. Ma, aggiungo, con il denaro pubblico si fauno gli «stadi dei centomila», la televisione ecc. I beni collettivi non solo sono goduti e «sentiti» in modo diverso, sono pure « domandati» diversamente. La domanda politica non è la domanda di mercato: fin qui siamo d'accordo. Ma la tesi del Galbraith è accettabile solo se raffinata e condizionata in modo da spiegare perchè appena alclme, e non tutte le domande politiche sono trascurate. Ben inteso, affrontare lma indagine del genere vuol dire uscire dall' economia ed entrare nella politica.

* Nulla è perfetto a questo mondo, tutto è perfettibile.

«Ho il diritto di proporre il " buono" o /1.on inJJece il dovere di scegliere il "meglio ", o, forse, di evitare il "peggio"»? (Einaudi). Il « buono» qui è inteso come 1'« ottimO», il meglio in senso assoluto. Accontentiamoci del «meglio» in senso relativo, rispetto alla situazione passata, vuoI dire 1'autore, ed anzi cerchiamo iunanzi tutto di non peggio­rarla. « Quell' uomo pubblico il quale, tratto dalle sue medita­ziO/li, si ponesse siffatte domande, il piìl delle volte o quasi sempre si asterrebbe dal proporre; avrebbe così fatto un gran passo sulla via percorrendo la quale si diventa benemeriti del paese». Nella ricerca operativa, si parla di subottimizzazione.

* I È stato scritto che l'indole, più del ragionamento, ci fa essere liberisti o socialisti ecc. Sembra che un certo libe­ralismo ed il liberismo vadano d'accordo con la prudenza, la tolleranza, 1'empirismo, lo scetticismo, il dubbio, 1'egoi­smo, il pessimismo non romantico sulla natura umana ecc. Secondo il cristiano Ropke, « soltanto una straordinaria ridu­zione delle prospettive 7storiche può ùldurre a scambiare iL liberalismo col libertinismo », eppure c'è qualche parentela. I

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prudenti saran riformatori, difficilmente rivoluzionari. Gli egoisti tolleranti preferiratlliO che ciascuno badi a se stesso. « Non l'ottimismo di im Rousseau, che proprio perciò perviene alle sue illaz ioni antiliberali, corrispol1de al liberalismo, bensl lo scetticismo di Pasca l che lascia lo spaz io libero a tutte le possibilità: l' homme n'est ni ange ni béte et le rnalheur veut que qui veut faire l'ange fait la béte» (Ropke). « Antropologia realistica », dlmque, e non credenza nel « peuple sage et vertueux », e nemmeno concessione alla teoria che il popolo, non essendo saggio e virtuoso, possa diventarlo: « credenz a temeraria, che si possano "fare " l'uomo e la società, cosi come si fan/'1.o una macchina o una bomba atomica» (Ropke). (Credenza da mgegneri e da fisici, tra i quali abbondano applUlto i pianificatori). Se il popolo od lma qualsiasi classe non sa governare, ed « every class is unfit to govern » (Gladstone), il male mmore è la suddivisione del potere, la creazione di contrappesi. Il piano è: tutto alla ragione e al centro; ma « come Fetonte, noi precipitiamo subito se nella nostra superbia vogliamo avvicinarci troppo al sole e non rispettiamo i limiti che sono posti all' uso della ragione» (Ropke).

* Un buon esercizio per l'economista: qualunque cosa gli

proponga il politico, traduca sempre in termirti di cosa produrre, quanto, quando, come e per chi. Bilancio m pareggio, equilibrio dei pagamenti con 1'estero, più mve­stimenti, pitI occupazione, moneta stabile ecc.: fini mde­finiti, anzi mezzi verso fini mdefmiti, finchè non si capisce cosa di conseguenza si viene a produrre o a non produrre, quanto, quando, come e per chi. (Senza scordare che i fini economici non sono i soli e che i loisirs sono beni producibili come gli altri).

MARCO MARTINEZ

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RAPPORTO

ALL'ALTA

DIREZIONE

In una bottega artiglana il responsabile dell' azienda di solito assomma in sè la maggior parte delle funzioni; egli lavora -guidando l'opera dei suoi aiutanti -, tratta con i clienti, registra su un taccuino i crediti, acquista quanto gli occorre per la propria attività, ricorre contro gli accertamenti dei redditi del fisco, insomma fa di tutto un po'. È ovvio che il responsabile di una tale bottega sappia praticamente tutto sulla sua azienda, mentre lavora segue l'attività di tutti i suoi collaboratori e le sue comunicazioni con questi non presentano alcun problema.

Ben diversa è la situazione in un'impresa di grahdi dimensioni. Qui il responsabile dell' azienda di solito non conosce che poclùs­sinù suoi dipendenti. Egli comunica soltanto con un ristretto numero di dirigenti e - quando esistono - con i responsabili di pochi uffici alle sue dirette dipendenze. il responsabile del­l'azienda ha sempre poco tempo (se ne avesse molto vorrebbe dire che non è lui il vero « cervello» dell'azienda). Nonostante gli sforzi più o meno fortunati per decentrare compiti e respon­sabilità, il massimo dirigente di un'impresa è sempre stracarico di lavoro. Per cui i suoi più diretti collaboratori debbono risol­vere ogni giorno il problema di informarlo su ciò che è utile che egli conosca per dirigere l'azienda nel più breve tempo possibile. il che non è f.'\Cile.

Molte notizie sono comunicate al maggiore responsabile di tm'azienda con colloqu.i, telefonate, discussiOlù di gruppo. Alcune

28 notizie, però, gli sono comunicate per iscritto. Si tratta, di solito,

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delle comunicazioni di maggiore importanza oppure di quelle che è bene rimangano nel testo scritto pcrchè sarebbero facil­mente dimenticate; è ad esempio il caso di dati statistici o contabili.

Come debbono essere queste comunicazioni scritte l Vediamolo. Il loro nome di solito è quello di « pro-memoria », « note », « appunti », « rapporti ». Il contenuto di questi memoranda è il più vario. Dell'importanza operativa dei rapporti per l'Alta Direzione è inutile parlarne. Qualche alIDO fa, l' ono Tremelloni ebbe a dire in un Convegno che « gran parte degli errori impren­ditorial,i dei recenti deceruu potevano essere evitati disponendo di maggiori e più esatte informazioni» 1.

Una qualità che dovrebbero avere i rapporti per l'Alta Dire­zione è la brevità. Tutti i maggiori dirigenti halIDo poco tempo a propria disposizione. I rapporti loro indirizzati non dovrebbero mai superare la paginetta dattiloscritta. I lWlghi rapporti, quelli di 20-30 pagine non sono mai letti. Qualora una tale lunghezza fosse inevitabile la cosa migliore sarebbe quella di far precedere il rapporto da un brevissin10 riassunto a punti, che presenti le conclusioni della relazione. Di solito quel riassunto è l'unica cosa letta.

Parrebbe ovvio il dirlo, ma queste relazioni - cosi come qualsiasi altra comunicazione all'Alta Direzione - devono essere realistiche e leali. Uno dei pericoli più gravi per l'azienda è che esse siano improntate ad un ottinusmo servile. Non sono poi tanto infrequenti i casi di aziende in cui tutti respirano un clima di generali osanna alle qualità e virtù del capo, del Commen­datore che si è fatto tutto da sè.

Vi sono aziende in cui l'Alta Direzione riesce ad essere infor­mata con relativa facilità di errori di politica aziendale. Questo succede soprattutto nei casi in cui nelle aziende si formano gruppi di potere contra pposti, che evidentemente non hanno nulla da perdere a rinfacciarsi reciprocamente gli errori commessi. Una certa « concorrenza» all'interno dell'azienda può dare dei risultati molto positivi, se la conseguenza è quella di allargare il flusso

1 Vedasi: Relazione introduttiva dell'ono Roberto Tremelloni in Atti del Convegno di Studi sullo scambio di informazioni nelle Aziende e tra le Aziende, Milano, 7-8 marzo 1959, a cura dell'Istituto Pubbliche Relazioni. 29

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LE STAGIONI

delle informazioni che giungono all' Alta Direzione, a condizione però che questa « concorrenza» non degeneri in lm blocco com­pleto di ogni informazione all'interno dell'azienda ed in un mancato rispetto dei compiti di ognuno. hl questi casi evidente­mente è compito dell' Alta Direzione intervenire per rimuovere gli eventuali ostacoli che si fossero creati nel normale svolgimento della vita aziendale.

Se compito dei maggiori responsabili all'interno dell'azienda è quello di informare l'Alta Direzione dell'andamento della gestione e dei problemi che sorgono, è compito dell' Alta Dire­zione informare i maggiori responsabili dell' azienda di quanto interessa loro. Le comunicazioni aziendali sono tr/Jo-!/Iay. li diri­gente accentratore che tenesse sempre solo per sè tutte le notizie di cui viene a conoscenza, che non discutesse mai con i propri collaboratori quanto ha in animo di realizzare, la pagherebbe con un menefreghismo generale dei suoi maggiori collaboratori. mtanto - loro penserebbero - è soltanto « lui » che sa tutto.

È inutile dire che un dirigente dovrebbe, con il proprio atteg­giamento, cercare di stimolare i suoi collaboratori a comunicargli dati, notizie, idee, proposte, anche se fossero contrastanti con i suoi convincimenti. Rifiutare di conoscere le opinioni discordanti dalle proprie o i dati che le contraddicono significa restringere enormemente le possibilità di informazione. È stato detto dal­l'Humble che « le comunicazioni non sono che l'organizzazione in funzione» 1. Se il flusso delle informazioni aziendali non è buono evidentemente qualche cosa non va, o l'organizzazione o le persone in essa inquadrate.

Che le comunicazioni aziendali, e particolarmente quelle all' Alta Direzione, non siano facili da impostarsi è comprensibile. Esse di solito riguardano problemi di grande importanza, e debbono essere fatte in un tempo brevissimo. Di solito, si è detto, poichè a volte il massimo dirigente deve pure essere informato dell' orario del rapido che lo porta in vacanza ed anche questo, in fondo, non è meno importante.

Grov ANNI BOCCHINO

l Vedasi: J. W. HUMBLB, 5 cal/se difallilllcl/lo delle collllltlicaziolli azicndali, in « L'Ufficio M oderno », agosto 1962, ripreso da « PersolllleJ Management »

30 del settembre 1961.

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OMAGGIO

ALLA SINTESI

1. STORIA ECONOMICA

Se c'è qualcosa di cui abbiamo bisogno, oggi, è la sintesi. La velocità con cui i messaggi culturali giungono a noi supera di gran lunga la velocità del cervello di assimilarli. Di conse­guenza rischiamo di veder crescere la nostra ignoranza in pro­porzione con il diffol1dersi dei mezzi di trasmissione culturale. Sta capitando a noi quel che capiterebbe ad una pianticella cui il cielo mandi non una benefica rugiada, ma una inondazione dopo l'altra. L'assetato vuole un bicchier d'acqua, nOH la tortura medievale dell'imbuto o la morte per affogamento. Ma quel bicchier d'acqua limpida, fresca, vitalizzante che è la sintesi, oggi si trova difficilmente. La nostra è l'epoca degli specialisti e delle svecializzaziolli, è l'epoca dell' analisi, del parziale e del separato.

E tuttavia Og11i tanto ... Intendiamoci: la sintesi non si deve cOl'ifondere con il riassunto, la selezione, il digesto . Non basta scrivere un libro di poche pagine o in caratteri microscopici per fare della sintesi. Essa richiede chi abbia capito molte cose, abbia lentamente filtrato o alambiccato ciò che ha capito, così da eliminare le sCQrie e lasciare l'essenza, anzi la quintessenza. Richiede a/1cora chi sappia scriver bel1e, fare intendere con poche parole quel che di solito si dice con un fiume di pagine, racchiudere nel giro di I,/lla breve frase, in una massima, una verità memorabile. I l'al bei libri di sintesi sono le raccolte di massime, appunto, a non voler giungere sil/.O alla sintesi poetica, llel qual caso sarebbero i libri di versi q~/elli da sfogliare. Comunque la sintesi è un' arte difficile; e tuttavia, dicevamo, oglli tallto avviene l'incontro f elice tra il lettore alla ricerca del tesoro ed il tesoro stesso, lo scrigno prezioso da collocare in biblioteca sul piano privilegiato. Benchè solo il lettore sia in grado di gir,ldicare se,! ai suoi occhi i brillanti sonveri brillanti, se le 3I

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LE STAGIONI

perle SOli vere perle: ciascuno ha le sue personali esigenze intellettuali per cui (il problema si complica) deve cercare non una sintesi qualsiasi, ma quella sintesi particolare che lo soddisfa, la sintesi per II/i; in attesa di poter fare la sua sintesi, la sintesi fatta da lui.

La rivista « Le stagioni» tenta, a partire da questo numero, di aiutare nella ricerca, segnalando libri di sil1tesi, che abbiano probabilità di soddisfare UI! certo l1t/llzero di lettori o almeno di fornire un buon termine di paragone. I li'bri che ci interessano hanno fra 1'altro ql;lesto val'lta~gio, che di solito costano poco, perchè poco voluminosi: non e vero che ogni libricino sia di sintesi, ma è quasi sempre vero che la sintesi è iII un libriciz/O. Si può dunque tentare l'acquisto senz a rovinare le fi/1a/1 z e dome­stiche. Si pl/Ò istituire questa nuova rubrica delle « Stagioni » senz a rischiare 1'accusa di i/lcitamento alla dissipaz ione.

* La prima segnalazione riguarda la storia economica ed

uno storico dell' economia, Carlo Cipolla, professore al­l'Università di Torino, il quale ama i libricini. Sua è infatti una storia della lira in poco più di cento pagine, che con­tengono lilla incredibile quantità di notizie economiche dall' epoca di Carlo Magno ad oggi (<< Le avventure della lira», edizioni di Comunità, Milano I958, lire 800). Ma è un' altra opera sua che fa oggetto della nota presente, cioè la «Econonùc History of W orld Population » (Penguin Books, I962, 3 scellini e mezzo), di cui attendiamo l'immi­nente traduzione italiana. Sono ancora cento pagine o poco pill, di formato tascabile, nelle quali è sintetizzata la storia economica dell' umanità: anzi, la preistoria e la storia economica dell'umalùtà.

L'autore, con la disinvoltura che gli consente la padro­nanza della materia, segue nei secoli e nei millenni i pro­gressi o i regressi della produzione della ricchezza e della popolazione, nelle principali parti del mondo. Non si limita a descrivere ciò che accade, ma ne ricerca le cause, cosicchè il suo libro comprende anche lilla esposizione delle teorie

32 dello sviluppo economico. Cartine, diagrammi, tabelle

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statistiche movimentano il testo, che è sempre brioso nello stile, tanto che il lettore viaggia nel tempo dall' era paleo­zoica ai nostri gionù senza stancarsi minimamente.

Le tappe principali si famlo verso l'ottavo millennio prima di Cristo, in occasione della rivoluzione economica provocata dalla scoperta dell' agricoltura e dell' allevamento del bestiame; quindi nel XVIII secolo dopo Cristo, per la rivoluzione industriale. Questi due avvenimenti capitali sono studiati dal professor Cipolla secondo i loro effetti sulla qualità e sulla quantità di energia disponibile. L'agri­coltura e l'allevamento del bestiame aumentarono enor­memente questa dispOlùbilità grazie alla energia chinùca dei generi alimentari, al calore della combustione delle piante, alla forza degli animali da tiro. Le trasformazioni dell' energia da una forma ad un' altra pill utile furono facilitate dal progresso teclùco, che l'autore rievoca con tocclù rapidi ma suggestivi. L'energia del vapore (dal car­bone) è indicata come il segno della rivoluzione industriale, che qlùndi trasse alimento da altre fonti di energia (il petrolio, 1'elettricità, l' atomo) che hanno portato alle stelle, in tutti i sensi, la potenza dell'uomo.

Fin qui l'esposizione ricorre di preferenza alla teCllologia; ma nel capitolo 3 si attinge alla scienza econonùca, per descrivere il ciclo della produzione, del consumo, del risparnùo e dell'investimento nelle società primitive, in quelle agricole e in quelle industriali. Infine si attinge alla demografia per indagare le conseguenze di diversi tassi di natalità e mortalità nuovamente nelle società primitive, in q uelle agricole ed in quelle industriali.

Le sintesi riuscite si riconoscono perchè, fra l'altro, vi sbalordiscono contenendo più di quel che promettono e più di quel che vi attendete. Il libro del Cipolla, nell'ultimo capitolo, invece di ansimare per la fatica della corsa nei secoli e nei nùl1en~ù, affronta con baldanza tutta una serie di grossi problenù sociali e politici dell'umanità contem­poranea: il controllo delle nascite, l'educazione, la famiglia, la democrazia, la pace ecc. Sono poche pagine, ma bastano per farci capire che la storia ha una « morale », il passato insegna per il futuro. * * * 33

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CHE SCONVOLSERO

IL MONDO

Dovremmo innalzare un monumento alla Pigrizia, la più grande ispiratrice dell'Uomo, la molla di tutte - o di quasi tutte - le grandi invenzioni. Soltanto il Fran­cisco Goya di « Los Caprichos » potrebbe disegnare il bozzetto per un tal monumento.

« Per godere la Pigrizia - asseriva W olfgang Goethe che sapeva centellinare il delizioso ozio della solitudine, ozio libero e voluto - bisogna amare il lavoro ». La Pigrizia accende scatena deflagra la Fantasia, tantochè Ovi­dio definiva i poemi « otia », frutti della pigrizia. Si può concepire un poeta senza sogni l, Il pigro Cyrano fantastica di viaggi nella Luna; Albert Robida, mollemente sdraiato tra i cuscini, immaginava un iperbolico 2000 che il 1960

ha già superato. Viviamo nell' èra della velocità e il tempo è stato più veloce dei profeti. Nel 1892 Charles Richet scriveva nel suo « Tra cent' anni »: « Le vetture a cavalli saranno sostituite, almeno in parte, da vetture a vapore o elettriche. Vi saranno velocipedi a vapore o elettrici e da lill paese all' altro circoleranno tram a vapore». Tra

34 un secolo l 1992' 1 Già per oggi è storia passata. Tommaso

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Crudeli (1703-1745), nemico numero uno dell'Inquisizione e fortunato autore de «L'Arte di piacere alle donne », fu la sublimazione della Pigrizia:

Della poltroneria tale è il diletto che solleva l'uman nostro languire, che conùnciato questo mio sonetto, non lo volli per comodo finire ...

e ci offrll'unico esempio al mondo di un sonetto di quat­tro versi.

D'altronde, gli inventori non sono forse i poeti dei numeri dei calcoli degli ingranaggi dei meccanismi? Ilja Iljic O blòmov non costituisce un' eccezione. L'o blomo­vismo dovrebbe essere considerato come Wla condizione naturale istintiva dell'Uomo. Certo è che pensare all'oblo­movismo in questi tempi esagitati ed ubriachi di scienza, in questa affannata ed ansiosa nostra vita misurata col contachilometri, può apparire Wl paradosso, un contro­senso. È tuttavia indubbio che nel sottofondo, nelle acque placide, di ogni essere runano sOlmecchia, come una sug­gestiva pennatularia, Wl Ilja Iljic che preferisce centellinarsi la vita anzichè trangugiarla d'un sorso, che anela alla pace, al silenzio, alla tranquillità, alla serenità, al nostalgico bucolico «patulae recubans sub tegmine fagi». Senza motori, senza fungatomici, senza reattori. Senza transistors! .

Nell'ormai lWlgo corso dell'Umanità, quasi tutte le ùIVenziOlù fondamentali sono state ispirate dalla Pigrizia, hawlO avuto per movente lo «scansarfatica». L'Uomo inventa la mota perchè non se la sente piìl di portare a spalle o strascic;ar pesi, «ùIVenta» il cavallo perchè è bestiale ridursi a spingere carri o cacciarsi tra le stanghe, arclùtetta il motore in quanto trova molto comodo stra­vaccarsi Ùl lilla specie di poltrona gommapiuma con un docile volante tra le mani. Johan Gutenberg crea i caratteri mobili perchè neppure i più pazienti e più rassegnati monaci volevano più saperne di copiare a mano, allumi­nare platOlù Danti Virgili; il superpigro Aloys Senefelder scopre - suo malgrado - la litografia perchè è stufo di scribacchiare note musicali su pentagrammi. L'Uomo 35

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LE STAGIONI

costruisce la macchina da scrivere, la calcolatrice, il cervel­lettronico considerandosi stanco di scrivere, di calcolare d~le pill due quattro, di pensare. Gargantua sognava persino lm trabiccolo che gli portasse alle labbra succulenti boc­coni. Gli Arabi hatmo distillato lill saggio proverbio: « Non far nulla è più dolce del miele».

L'artista più pigro nel Limbo dell' Arte è il Caricaturista, che cerca di sintetizzare, nel suo grafismo, il pensiero satirico col minor numero possibile di linee, e meno linee ci mette più risulta autentico caricaturista. Questo è il plmto di ravvicinamento tra due pigri, inventore e carica­turista .

. Se nei secoli passati le invenzioni sgocciolarono mutatldo lentamente le abitudini del trisnonno - ponendo però le indispensabili premesse per le strabilianti invenzioni odierne - in questo poco più di mezzo secolo abbiamo avuto un grandinar di scoperte e realizzaziOlù che hanno cambiato e rivoluzionato non soltanto la vita dell'Uomo, ma l'Uomo in sè. Trasformandolo da sedentario individuo terrestre in esagitata creatura spaziale; liberandolo cioè dalla condizione di incatenato saldato alla Terra.

Dal pallottoliere siamo passati alla calcolatricelettrOlùca, dal pestifero lume a petrolio al neon, dalla lanterna magica al circarama, dal ventaglietto sbattuto dal bey Hussein in faccia al console Deval all' aria condizionata, dal trottarello della cavallinastorna alle iperboliche velocità di Stirlin Moss, dal telefono a manovella al Telstar, dal trombone al mitra.

L'Ometto « belle époque», ai tempi delle ultime risuolate diligenze e dei primi tram mulomotore, sbigottiva alle follie delle rudimentali puzzolenti automobili e degli arcaici velociferi che ambivano al brivido dei 25 all' ora scatenando salaci commenti satirici negli umoristi di quei gionù non lontani. Haenigsen prevedeva, nel .I903, che gli uomini, abituandosi alle automobili, avrebbero finito col perdere l'uso delle gambe per cui sarebbero stati costretti a farsi portare sino all'ascensore da servi in livrea. Poi, l'uomo sarebbe nato senza gambe - darwinianamente la non funzione annulla 1'organo. Sebbene i tedeschi non

36 avessero inventato ancora il Talidomide!

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L' nl)iatore W rigilt , lIisto da L éalldre ilei 1908. NO li illlpressiollò i colltadilli

dalle atterrò, cile CO llllllellfarOIlO: « Vola qllasi belle collie le 1I0sfre pol/astre,

ma deve essere pilì coriaceo».

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l'\lfncchille sell/pre più gignlllesche eSCOIlO dnlln IIlisleriosn foresln delln sciellz n e delln /eCllica.

Ci schinccermll/o? (EII/elt, 1959).

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La sperallza dell'II/11all ista Adda/lls (1959) : che la potellza de lle /IIaceh ille sia 11 11 blllff;

chf l'Homo, al1z i /' 0 /1/;110 , contilllli ad essere impor/n11te.

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I caricaturisti si gingillano oggi con gli insufficienti 6054 chilometri orari dell'X 15 di Robert M. White o con i 30 mila degli spaziali, si sbizzarriscono sui Marziani, sul­l'inutilità - secondo il Sedentario - di andar sulla Luna, su Marte, su Saturno quando « si può star cosÌ bene anche sulla vecchia tarlata Terra». L'Ometto scettico, facendo suo il sofismo del dialettico Zenone di Elea, secondo cui la tartaruga sarebbe più veloce del « podakis» Achille, sostiene che, in fondo, il pedone è più rapido della fuori­serie da corsa. li che, considerata la situazione traffico­posteggi, potrebbe anche rispondere a verità.

L'Ometto è allergico al nuovo e agisce contro di esso come contro moleste mosche e zanzare. Ma che può il DDT dello scetticismo contro i razzinterplanetari? Quanti mai bisnonni, agli inizi dell'Ottocento, anche nelle più evolute città, non continuarono a pesticchiare i chicchi di caffè nei mortai da farmacista, segnandosi misteriosament~ e sbrigativamente al solo sentir nominare il « macinino », invenzione diabolica, roba da infedeli - infatti era stato inventato dai Turchi - aggeggio che « toglieva ogni sapore al caffè», trabiccolo impratico ed estenuante a causa di quella dannata manovella da ruotare! Mentre il pestic­àiar nel mortaio era considerato esercizio salubre corro­borante tonico e utile per mantenersi sani !

L'Ometto diffidente e sedentario della Caricatura si chiede: « Non si sta forse benissimo anche nella propria camera?» Henry David Thoreau (1817-1862), il solitario di Walden e celebre autore di « W alden or life in the woods», considerava il prossimo peggio che le locuste e, infastidito dagli uomini e dalle loro invenzioni e chiac­chiere - negli uomini naturalmente comprendeva anche le donne - non riusciva ad adattarsi alla vita sociale. Si costruÌ una capanna sulle rive del lago Walden e, miso­geno e misantropo, trascorse lì la sua esistenza assolutamente solo. Adattando, all' americana però, i modesti principi del savojardo Xavier de Maistre, il quale viveva anch' egli in quasi assoluta solitudine non sulle rive del Po, ma sui tetti di Torino per attuare la sua teoria di « vita semplice c integrale». Perchè viaggiare? diceva. Tutto il mondo 41

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LE STAGIONI

può essere contenuto in lilla stanza, e viaggiava quindi molto economicamente in casa. Svernava in salotto e trascorreva le ferie nel tinello. Sistema di turismo che non andrebbe certamente a genio agli Enti i quali hanno ino­clùato agli uomini il bacillo dell'irrequietezza cronica per cui le vacanze non si calcolano più a settimane o a mesi, ma a chilometri: « Ho fatto 15 mila chilometri di ferie in Spagna!»

ti sipario del nostro secolo si è sollevato su lillO scenario modesto, raccolto, silenzioso. Un mondo in pantofole. La caricatura si divertiva coi cascamorti in paglietta o pana­mino, con le donnine in complicatissime toilettes. Uno « strip-tease» a quei tempi sarebbe durato quindici ore. La macchina non aveva ancora fatto la sua irruzione nel bromurico cosmo della satira. Soltanto Daumier, Cham e John Leech si erano battuti con le loro velenose matite contro i treni che provocavano la tosse agli 'uomini e facevano avvizzire le patate nei campi! Improvvisamente, la rudimentale bicicletta, che pagava ancdra la tassa come « gioco in pubblico», aSSlillse una imprevista diffusione, si trasformò in strumento da lavoro, in formula sportiva. Treni cinematografia automobili fotografia dattilografia aereo fonografo furono i modesti semi che, in meno , di mezzosecolo, generarono tropica4nente astronautica dne­marama radar occhi cervello cuori artificiali.

Occorre ricordare 1'opposizione dell' O mino Gretto con­tro ogni progresso l Joseph Marie Jacquard, scaraventato - d'inverno! - nel Rodano dai « canuts» di Lione perchè aveva inventato il telaio meccanico, è regola non ecce­zione. L'abilissimo Steinlen irride il « Collignon », il fiaccheraio, che sfoga la sua rabbia frustando un taxi e il raffmato Einar Nerman, caricaturista di dive, ironizza sul miope e forforoso pianista da cinema che sbraita contro jl filmparlato, ma allo stesso tempo briga per una scrit­tura alla balbettante radio. Invenzione questa non meno rivoluzionaria dell' altra. ti grande Dana Gibson, inventore delle Gibson-Girls, difende con la sua arguta matita le prime « typewriter» che irruppero, con la violenza di una

'12 carica di plastic, nei muffosi uffici inizionovecento scate-

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nando la rivolta dei « grattapapè», gli occhialuti scrivani, i denutriti mezzemaniche, gli indebitati amanuensi che ingobbivano trascrivendo lentamente con pennino arrugi­nito atti e convenzioni per dieci ore al giorno! Uomini -si vantavano altezzosamente - non volgari macchine con tastiera! Ma, come osserva maliziosamente il grande James Thurber, la DOl1l1a rivoluzionò gli uffici: « ... dalla rosa sulla scrivania del principale si passò presto alla dattilo­grafa sulle ginocchia del medesimo ». Dopo la macchina­da-scrivere arrivò la Calcolatrice e l'Ometto sospettoso eli Boris Efremov maneggia con aria furbesca il vecchio pallottoliere: « Controlliamo i risultati! Non mi fido della macchina! »

Grazie a questa intelligente battaglia caricaturale e grazie soprattutto al dilagare di invenzioni e di scoperte sempre più strabilianti, l'Ometto che rischiava di morir d'infarto soltanto alla vista di 1m pedale applicato alla bicicletta la quale allora procedeva spinta coi piedi, si è ormai mitri­datizzato e non si stupisce più di nulla. Anzi si direbbe che « snobbi » le nuove invenzioni. Viviamo in tempi dell'Impossibile-Possibile e il mestiere del caricaturista profeta diventa difficile. Che cosa potrebbero architettare oggi fantasie accese come quelle di Grandville, Robida, Yambo, Robinson? O, nel campo degli scrittori, di Wells o di J ules Verne? Difficile dirlo. Persino Fred Hoyle e Ivan Antonovic Efremov, più che autori di fantascienza, appaiono oggi semplici cronisti.

Questo nostro secolo entrato nella maturità è stato cullato dalle fiabe di Cappuccetto rosso, di Barbablù, la Belladdormentata. Dalle poetiche invenzioni dei fratelli Grirn o di Andersen che l'attuale generazione ha sostituito con le fiabe parascientifiche di Superman, Mandrake, Dar Veter. Oggi si parla di « Kelvin» o di « Kor» come ieri si parlava della scarpetta di Cenerentola o dei sassi di Puçcettino. Che cosa racconteral1l1O le nOlme del Duemila ai loro nipotini? Che diamine dovral1l1o escogitare i cari­caturisti per i lettori di domani?

ENRICO GIANERI (GEC) 43

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ANTOLOGIA CLASSICA

QUEL CHE SI VEDE

E

QUEL CHE NON SI VEDE

Federico Bastiat (1801-1850) è noto come il campione della libertà economica; più precisamente, nell'opinione oggi dominante, è considerato un ottimista ad oltranza, perfino un illuso, circa i vantaggi della libertà economica. Noi crediamo tuttavia che, a parte i suoi meriti di scrittore (di artista e di poeta), l'economista Bastiat abbia qualcosa di realistico da insegnare ancora oggi. il suo ammonimento a proposito della impor­tanza di «quel che non si vede» in economia, è sempre valido, anche se egli stesso non vide tutto. Cent' anni dopo, con il progresso degli studi economici intervenuto nel frattempo, avremmo il dovere di vedere più a fondo; ma sono sempre numerosi i miopi e gli orbi .

Lo stralcio è da una edizione ottocentesca fiorentina dell' operetta di Bastiat: Quel che si vede e quel che f lon si vede.

Un atto, Wl' abitudine, una istituzione, ill1a legge qua­lunque, considerati nella loro azione economica, non generano solamente un effetto, ma una serie di effetti. Di questi solo il primo è immediato ; esso manifestasi simultaneamente alla sua causa, si vede; gli altri, che svol­gonsi successivamente, non si vedono: felice chi li prevede.

Tra un cattivo e un buon Economista v'ha quest'unica differenza: 1'uno si attiene all' effetto visi bile; 1'altro tien conto non tanto dell' effetto che si vede, quanto ancora di

44 quelli che è necessario prevedere.

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Nè questa è differenza di poco momento, perocchè avvenga quasi sempre che ove sia favorevole la conse­guenza immediata, riescano funeste le ulteriori, e viceversa. D'onde ne segue che il cattivo Economista mira ad un picciol bene attuale cui terrà dietro lill gran male avvenire, mentre il vero Economista intende ad un gran bene avve­nire, anco a rischio d' lill picciol male attuale.

Nè la cosa diversamente procede in igiene ed in morale. Di sovente quanto è più dolce il primo frutto di un' abi­tudine, tanto ne sono più amari gli altri. Ne siano prova la deboscia, 1'accidia, la prodigalità. Perciò quando un uomo, colpito dall' effetto che si vede, non ha peranco imparato a discernere que' che n0l1 si vedono, egli si abban­dona a funeste abitudini, non solo per inclinazione, ma eziandio per calcolo.

Ciò spiega la evoluzione fatalmente dolorosa della uma­nità. La quale, essendo ne' primi suoi anni circondata dall' ignoranza, è astretta a regolare le proprie azioni a norma delle conseguenze prime di esse, siccome le sole che in origine le sia dato discernere; perocchè lo imparare a tener conto dell'altre è lunga opera del tempo. E questa lezione la apprendono due ben diversi maestri: la Espe­rienza e la Previdenza. La Esperienza, con modi efficaci sì ma brutali, ne ammaestra in tutti gli effetti di lilla operazione facendoceli esperimentare; così a forza di bru­ciarci dovremo necessariamente imparare che il fuoco brucia. A questo acerbo maestro vorrei, per quanto è possibile, sostituirne uno più mite : la Previdenza.

FEDERICO BASTIAT

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LE STAGIONI

Claudio Lorenese: Disegno a peli/la di albero (circa 1650), dall'AlbulII

Wildel/steitl, di wi lilla eccelleI/te edizione il/ fac-simile è uscita ileI 1962

a Parigi (e Les Beatlx - Arts .) .

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INVITO AL

COLL EZIONISMO

10. I DISEGNI

Con il « Collezionista di disegni » di Tito Miotti (Neri Pozza Editore, Venezia 1962), il neofita italiano ha una guida completa ed aggiornata. Completa perchè, sia pure senza approfondirli, essa tocca tutti gli argomenti che possono interessare il princi­piante: la tecnica del disegno, la storia del disegno, 1'autentica­zione, la conservazione, la valutazione, il commercio del disegno. Guida aggiornata, inoltre, perchè per esempio menziona i prezzi di aste recenti, che già segnalano il risveglio di questo collezio­nismo, in precedenza piuttosto trascurato, almeno in Italia.

Non sembra però che le aste italiane siano destinate a nùgliorare molto di frequenza e di importanza. Le solite ragiOlù fiscali consigliano ai nostri collezionisti le trattative private. Perfino le esposiziOlù di colleziOlù private sono difficili da noi, quando si tema che le Soprintendenze possano approfittarne per « noti­ficare » i pezzi in mostra, secondo la legge IO giugno 1939, n. I089.

D'altra parte gli antiquari italiani trattano poco il disegno, anche per le difficoltà di autenticazione, e le librerie e le gallerie d'arte preferiscono le stampe o si linùtano ai disegni moderni, che harmo lm commercio più vasto. La scarsa orgaIùzzazione del nostro mercato fa sì che non converga qui 1'attenzione dei grandi collezionisti internazionali, e la conseguenza è che i prezzi italiani per i disegni di alta qualità sono generalmente inferiori a quelli fraIlcesi o svizzeri o inglesi (Sotheby a Londra è, per i diseglù come per quasi ogni altro oggetto da collezione, la prin-cipale casa d'aste del mondo) . .

Per contro i disegni di modesta qualità S0110 spesso più cari in Italia che all' estero, aIlche se la causa della anomalia è sempre la stessa : la peggiore organizzazione del mercato interno, che questa 47

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LE STAGIONI

volta danneggia gli acquirenti anzichè favorirli. S'intende che la clientela per i disegni di secondaria importanza è quasi esclusi­vamente nazionale e differisce dalla clientela internazionale fatta di grandi collezionisti.

I prezzi dei disegni variano dalle 20 mila lire ai 50 milioni e più: praticamente non ci sono limiti. Sui prezzi inffuiscol1o la valutazione critica, il gusto dell' epoca, la rarità dell' artista, la sicurezza dell' autenticazione, e poi altri elementi economici che magari hatmo nulla a che fare con l'arte. I disegni, come beni-rifugio, harmo il vantaggio di essere meno ingombranti di molti altri oggetti da collezione, per esempio; e può darsi che ciò spieghi in parte la recente rinascita dell'interesse verso di essi. Ma vi sono altre ragioni, s'intende: le quotazioni, eccessive raggiunte dai quadri, che non son più alla portata di molti appas­sionati d'arte; ' la crescente educazione dell' occhio moderno a favore dell'arte grafica, che tocca anche il disegno; e così via. Al contrario, il progresso delle tecniche di riproduzione in fac­simile dei disegni allontana alcuni collezionisti potenziali, sebbene il pezzo originale abbia sempre qualcosa di insostituibile.

Al collezionista novellino e di finanze limitate il ' consiglio è quello solito: comprare pochi pezzi, ma buoni, e avviare una raccolta specializzata, per non disperdere troppo le dispOlùbilità monetarie. La più parte dei disegni sono figure, ma perchè, per esempio, non collezionare paesaggi in bianco e nero l I Claudio Lorenese sono introvabili e se si trovassero pochissinù li potreb­bero acquistare. Ma vi sono disegni anOlùmi o di artisti minori del Seicento che conservano almeno un briciolo della poesia di Claudio; e nel Settecento e sopratrutto nell'Ottocento il disegno di paesaggio ha trovato artisti degnissinù (lasciamo stare i sommi) oggi ancora avvicinabili senza essere miliardari. Perfino tra i disegnatori viventi può capitare di trovare chi con spesa ragio­nevole ci fa"rivivere su un foglio di'l'carta la natura come noi l' auùamo. -

Se non è il paesaggio è il disegno architettonico o il ritratto o il nudo o qualsiasi altro genere, che determina la specializzazione della raccolta. A meno che si preferisca una epoca o una scuola regionale. Insomma tutti i gusti possono essere soddisfatti, e persino tutte le borse, con il disegno.

IL COLLEZION1STA

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D O N N E

I N T O G A

Di donne con la toga ne abbiamo ormai viste tante: donne con toghe professorali e donne con toghe da avvocato. Ma in Italia non abbiamo sin qui visto dOlme con toghe da magistrato.

Di magistrati donne ve ne sono all'estero (ma non molte), e noi - che, come ogni italiano, abbiamo così poca conoscenza coi paesi stranieri - non sappiamo davvero come funzionino. Del resto è certo molto difficile aver un giudizio sicuro in materia, perchè nulla è tanto spesso esaminato giudicato e criticato quanto l'operato della Magistratura, ma nulla appare più ribelle ad un giudizio sicuro quanto l'opera dei magistrati. Gli interessati in un processo, civile o penale, sono per loro natura inidonei ad esprimere un giudizio, perchè « nemo iudex in causa propria », e quelli che guardan le cose dal di fuori ben difficilmente possono penetrare nel fondo della complessa problematica che si annida in ogni causa giudiziaria e che costituisce il tormento del magi­strato.

Ora, poichè l'Italia vuoI essere Ull paese di avanguardia e poichè lIl1, certo articolo della Carta Costituzionale è stato interpretato in lIl1 certo senso, le donne powumo partecipare ai concorsi per i posti in Magistratura: e quanti si interessano del costume del nostro tempo stanno attendendo di vedere quante donne si presenteranno al cimento, quale levatura e quale preparazione culturale avranno, di quale estrazione sociale saranno, e quale accoglienza troveranno presso la commissione giudicatrice prima, e poi presso i colleghi magistrati, presso gli avvocati ( ... e le avvocatesse!) e presso il pubblico in generale.

In verità sta silenziosamente maturando lIl1a piccola (ma non tanto piccola) rivoluzione nel costume del nostro paese: rivolu- 49

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LE STAGIONI

zione che è strano che la stampa abbia scarsamente sottolineato (raranlente uscendo dai luoghi comuni delle frasi fatte), ma che in effetti giustifica un ben vasto interesse.

La cosa è fatta: bisogna essere tanto realisti d~ comprendere come sia difficile che si possa, per almeno un certo numero di anni, tornare indietro. Non tarderemo a vedere ondeggiare sotto i tocchi della magistratura italiana bionde e brune zazzere femmi­nili, ed i nostri figlioli vedralmo biancheggiare sotto i tocchi anche i callUti riccioli delle donne magistrate anzialle, sedenti in Corte di Appello e forse in Cassazione.

La cosa è fatta: si deve essere anche tanto realisti da credere che, in un paese come l'Italia, di donne magistrate ve ne sararmo di certo, ma non mai molte.

La cosa è fatta: e n~i sia mo allCOr Wla volta colti dalla profonda tristezza che ci dànno alclme .(e forse potrenuno dire molte) novità del nostro secolo. .

Ci ha sempre rattristato il pensiero che delle donne (talIte dOlliIe: ormai la maggioranza delle appartenenti alle categorie di medio censo) vadano sfiorendo negli alliÙ più fervidi della gio­vinezza sui testi wùversitari e nei certallÙ dei concorsi, combat­tendo con uomini della loro età che, per regola di natura, son ben più fanciulli. Ci ha sempre rattristato che questa nostra feroce civiltà moderna sospinga tante dOlme fuori della calda intinùtà domestica, lontano dagli affetti più schietti e profondi, in avventure professionali che non possono non contrastare la naturale inclinazione materna di OgIÙ dOlma. Abbiamo sempre .avuto pena nel vedere tante giovinette costrette contro natura alla disciplina degli studi teclùci, dei concorsi, degli impieghi, dei rapporti di affari. Ed ora non sappiamo non rabbrividire al pensiero della giovane magistrata costretta al sopralluogo assieme al medico legale o alI'analisi nÙI1uziosa di hmghe contabilità ermetiche o all'arido dipallamento di complicate matasse legali o all'escussione di decine di testimoni provelùenti dai più diversi anlbienti e non sempre in soggezione di fronte alla maestà della Giustizia, incarnata magari da una Sffilmta giovinetta romalltica o da una abbronzata ragazzona che ha finito le sue vacanze sciistiche. Ma più di tutto trel1ùall1o al pensiero di come una donna possa essere ancora donna quando sia costretta ad un lavoro

50 che, per sua stessa natura, non consente nessuna tregua mentale.

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Ci fanno pena queste nostre future magistrate. E ci fanno pena gli uomini, che hanno dovuto abbandonare tutti i loro sogni di vergini biancovestite, di trecce bionde e di chiome sciolte al vento, per accontentarsi della rigida eleganza del tailleur grigio e del domenicale abito sportivo, ma che ora dovralmo trovare elegante anche il tocco e la toga, interessante il discorso femminile sui codici e sulle procedure ed appassionante 1'idea di una fidan­zata o di una moglie o di una madre che studia i risultati di una necroscopia, che interroga i mezzani, pronuncia condanne civili e penali e si districa fra mafiosi e truffatori.

Ci fanno pena i figli che dovranno attendere i ritorni della madre dalle udienze e che non potranno disturbare la mamma mentre questa studia le comparse conclusionali o stende le sen­tenze o si tormenta nella soluzione di un quesito giuridico.

Ma abbiamo pena anche di noi stessi perchè non abbiamo tanta superbia di sentirci certi di non dover finire un giorno in tribunale come attore o convenuto o magari imputato e perchè noi, che credianlo nell' amore, nella carità, nella generosità e nell: eroismo della donna, in verità non crediamo nel suo equi­librio di giudizio (o, per meglio dire, nella continuità di detto equilibrio).

Ci auguriamo che nessuna dOlma legga queste parole e dichia­riamo sin d'ora che non risponderemmo ai volUll1inosi attacchi che ci perverrebbero se qualche dOlma leggesse. Avremo torto, ma tant'è ... : LUla non breve esperienza di vita ci ha fatti convinti di ciò che diciamo. E lo vogliamo scrivere perchè, siccome sUi codici stanno scritte delle norme che consentono di recusare per giusti motivi il giudice, noi speriamo che questa nostra pubblica dichiarazione possa, ove del caso, costituirci giusto motivo per recusare LUl giudice femminile. *

MARIO LONGO

* «Le Stagioni », che prudcntemente voglion restare neutrali, sarebbero però liete di dar notizia delle opinioni dei lettori e soprattutto delle lettrici, anche se in contrasto con la tesi del Prof. Longo. (N. d. D.). 5I

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LETTERE

DELL'INVERNO

VETRINA DI PENSIERI

Non so se davvero gli inverni di una volta erano più rigidi, ma ricordo la sofferenza che provavo, ragazzino secco secco, camminando controvento nelle strade buie della città, le sere di dicembre o di gennaio. Solo la luce gialla che le vetrine versavano di tanto in tanto sul marciapiede mi dava l'illusione di un tepore, senza il quale, pensavo, sarei morto di freddo. E perciò indugiavo nel caldo rettangolo di luce salvatrice; e da allora amo le vetrine.

*

Le vetrine d'oggi sono troppo ordinate, belle fin che vuoi ma non pittoresche. Fanno eccezione quelle dei tabaccai, dove si confondono gli oggetti più vari ed inlprevedibili, anche se rivolti soprattutto ai bambini ed ai militari, che sorprendentemente hanno tanto in comune. Non ci trovi i tabacchi, ma le manife­stazioni di un particolare genio inventivo popolaresco, che esco­gita di continuo nuovi balocchi ai margini dell'automazione, nuovi giochi e scherzi di società di dubbio gusto, nuovi apparecchi domestici più o meno inutili, nuovi modi di commllcare le eterne parole « t'amo». Cinque minuti davanti alla vetrina del tabaccaio sono sempre spesi bene, ti aggiornano, ti inteneriscono.

*

Chi ha il senso dell' esotico arnmira le vetrine dei commercianti di prinllzie, invase dalla natura, frammenti dei tropici nel cuore delle nostre nordiche città. Quale sapore avrà, il mango o la papaia, la cirinloia, la chechenga 1 Le vetrine di primizie sono

52 profumati e bizzarri giardini in miniatura.

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* Gli scopi delle vetrine sono tanti. Fra l'altro, le vetrine sono

specchi, che le dOl1l1e cittadine trovano comodamente lungo' la via e dei quali approfittano senza spesa: una aggiustatina al cappello, un colpo ai riccioli... Servono per spiare senza dare nell' occhio le mosse riflesse . di un uomo o di una dOl1l1a sul marciapiede opposto. Servono anche semplicemente per voltare le spalle a chi non vogliamo incontrare. O per occhieggiare la merciaia al di là del banco, più seducente delle sue merci.

* Le vetrine sono un territorio abitato dal popolo dei manichini,

misterioso come quello etrusco, di cui imitano vagamente il sorriso. I manichini si prendono gioco di noi, ci scandalizzano mostrandosi nudi, ci spaventano all'improvviso apparendo deca­pitati. Le loro facce non sono come le nostre, ma le nostre stal1l10 diventando come le loro.

* « Vetrina»: se si bada al suono della parola, lo si trova inso­

spettatamente aggraziato.

* La vetrina del libraio : copertine imbellettate, titoli provocanti,

una mostra sfacciata, che è lilla forma di prostituzione intel­lettuale.

* Non occorre recarsi nell'emisfero australe per ammirare nuove

costellazioni. La vetrina del gioielliere è un firmamento che si trasforma di continuo. Sul velluto nero notte, perchè contrasti col fuoco delle gemme, si vedono le perle fioche come le nebu­lose, si vedono i diamanti raggianti come gli ammassi stellari, i rubini rossi come Antares, i topazi gialli come Arturo. Chi sa se è venuta prima l'idea di ingioiellare una dOl1l1a rendendola simile ad una costellazione, o !'idea di considerare le costellazioni figure ingioiellate come dOlllle.

GruLIO RIZONA 53

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LE STAGIONI

\

DIVAGAZIONI FERROVIARIE

Nelle varie raccolte di stampe ottocentesche, che starulO diven­tando di moda, non ho mai visto le vetture ristorante e le vetture letto dei treni. Intendo riferirmi a quei carrozzoni della Com­pagnia Internazionale, che ora sono metallici e di un orribile colore blu, ma che fino intorno al 1930 erano - . anche all'esterno - di legno lucidato, molto meno sicure ma molto piI'! eleganti. Eppure carrozze ristorante e carrozze letto (quelle in legno color mogano, alIDerrito dal fumo) fanno parte della oleografia otto­centesca non meno delle vaporiere, delle prime classi con i divani di velluto rosso e delle terze classi di legno a cui si accedeva da eleganti terrazzini aperti, della « Valigia delle Indie» e della « Transiberiana».

Nei miei ricordi di ragazzo non mancano vetture ristorante e vetture letto. Di queste ultime J;ni impressionava soprattutto il fatto di vedere tutte le tende rigorosamente abbassate e nessun finestrino illwninato. Mi parevano vetture misteriose, e ricordo di essere stato più di una volro. ad assistere alla salita dei « signori» in quelle carrozze del mistero non senza una segreta apprensione. Mi sembrava che la gente che saliva là dentro appartenesse ad tID' altra wnanità, diversa dalla mia: un' umanità fatta di uomini straricchi, strapotenti e misteriosi. Le voluminose valige (allora erano sempre molto voluminose: ... fra parentesi che fine haIIDO fatto le grosse valige I lo le vedo sol più dai valigiai) che veni­vano issate dai facchini nelle carrozze letto eraI10 per me oggetto di interesse e quasi di affaIIDo: mi pareva dovessero contenere valori favolosi o cose proibite o cose segretissime.

Molto più disincantato e molto più allegro il mio interesse per le vetture ristorante. li primo chiaro ricordo risale al 1920: anno quasi cruciale nella storia della mia vita e non privo di importanza per la storia nazionale. lo avevo fatto il mio ingresso nelle scuole elementari di Torino: se dovessi essere del tutto sincero dovrei dire che avevo sofferto di fare detto ingresso.

54 Poi nell'inverno era venuta una grossa influenza a disturbare

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tutta la famiglia: era la coda della « spagnola» che aveva gli anni prima mietuto più vittime della guerra . . Ad un certo mo­mento io non fui più mandato a scuola e velUlÌ spedito in riviera dai nonni, a flllir l'inverno e la convalescenza. CosÌ mi trovai . a passare più di un mese in una villetta con un terrazzo che dava sopra la ferrovia, vicino alla stazione. Le automobili allora erano molto cllÌassose (e gli automobilisti, che erano maleducati non meno di adesso, si attiravano l'epiteto di « pescicani », che è un nome restato in circolazione fra il 1919 e il 1924), ma poco numerose: il mio interesse per la velocità - proprio di tutti i ragazzini - non era ancor distratto, come ora, dalle ruote gom­mate e si proiettava tutto verso il treno; ed io passavo delle ore sul terrazzino ligure interessandonlÌ ai treIlÌ della Genova-Pisa­Roma.

I più vivi ricordi ferroviari di quel tempo sono due: quello delle carrozze ristorante e quello di un piccolo incidente occorso a una nostra parente.

L'incidente. Era venuta a trovarci in riviera quella signora, e dovette fermarsi più del previsto, perchè - andata alla stazione per ripartire - non potè salir sul treno, che il capo in berretta rossa non lasciò fermare in stazione. Erano le note manifestazioni scioperistiche del 1920. Ricordo anche che il capo dal berretto rosso restò male quando seppe che quella signora non si serviva dell' accelerato per un piccolo spostamento, ma per prendere a Genova la coincidenza del direttissimo per Torino: i manife­stanti - allora, come adesso - erano in fondo buona gente. E ricordo che quel capo stette peggio quando vide che la signora aveva il « biglietto di servizio» perchè madre di tm ispettore delle ferrovie: i malllfestanti '- allora, come forse adesso - erano in fin fine dei pavidi.

Molto più bello il ricordo delle carrozze ristorante. Vedevo passare quelle carrozze dagli amplissinll finestrlllÌ, dietro cui si stagliavano figure maschili e femminili, che mi sembravano sempre elegantissime, di signori intenti ad una operazione molto materiale - quale quella del manducare - che mi pareva tra­sformata III un capolavoro di estetica. Di notte poi la carrozza illunlinata diventava tm mondo di sogno. Chi più ricorda le lampade velate posate sui slllgoli tavolini da pranzo? il 1920 non era solo l'armo dei postumi della spagnola, degli scioperi 55

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LE STAGIONI

ferroviari e dei prodromi della marcia su Roma, ma anche quello degli abat-jours.

Fu in quella convalescenza ligure che strinsi un patto d'amicizia colle carrozze ristorante: patto al quale io non sono mai venuto meno, anche se la controparte mi ha largamente tradito (strin­gendo i posti per far star più gente, soppr:imendo il fasciame di legno esterno per dar più sicurezza al traffico, eliminando gli abat-jours per essere pill moderni, sostituendo il pubblico dei signori e delle signore eleganti con quella folla che tutti cono­scianlo) .

Vi entrai la . prima volta a dodici anni, quando papà mi portò in un viaggio premio e, a costo di non poche storture di pro­graJ11ma, riusd ad inserirvi una cena in carrozza ristorante (alla sera perchè è più bello colle luci, e perchè si mangia il dolce; alla II serie perchè i camerieri non hanno fretta). Fu una grande soddisfazione anche se mi trovai non poco in imbarazzo per sbucciare l'arancia. Non provetùvo da Eton e non sapevo come fare. Poi vi tornai molte volte, sempre con minor soddisfazione, ma colla gioia schietta di chi ritrova un vecchio amico, anche se questo lo tradisce un po'. Delle carrozze ristorante sapevo tutto: anche il trucco che nei primi anni di guerra salendo a Milano e scendendo (come io dovevo scendere) a Vercelli si poteva prendere il biglietto di terza e viaggiare comodi facendo cena, mentre i viaggiatori anche di prima stavan in piedi. Sapevo e so quello che pochi saI1I1o: ciò di recente mi pernùse di salire a Milano e scendere a Bologna lavorando seduto solo ad un comodo tavolo e facendo, in aggiunta al biglietto di prima, la modesta spesa di un caffè, mentre molta gente stava in piedi nel corridoio delle carrozze ordinarie.

A rinsaldare la vecchia amicizia veI1I1e definitivo il fatto che in carrozza ristorante feci la dichiarazione che mi portò all' altare.

Ed in carrozza ristorante continuo ad andare con gioia anchc se purtroppo non vedo più ragazzi - in imbarazzo a sbucciare arance, ma uomÌtù che minacciano di togliersi la giacca: del­l'estetica antica son pur sempre restati gli interni rivestinlenti di lucidissimo legno scuro.

MARro DI LUIGI

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LE

STAGIONI

znverno

FREDDO A VO LONTÀ. L'« Ecollomist » assicura che, dal 1940 circa, il tempo peggiora nell' emisJer setten.trionale, dopo un periodo di il/ vemi I/I ediamen.te dolci , comil/eiati I/ egli ultimi ilI/n i del/a R egil'lll Vittoria. Si tomerebbe ora alla « piccola gilleiaz iol/e» che stllgl/Ò per alcuni secoli, a pllrtire dal 1300, sI/Il' El/rapa e che contrnstò col relativo tepore medievale. A ql/Ill/to pllre, i Vichil/ghi HOIl il/ColltrarallO duraI/te i loro Ilvvel/.­tI/rosi villggi quei ghiacci che poi misero e mettoHo in pericolo 111 vita dei peswtori I/ or/legesi. Sembrerebbe pure che UI/ grado di temperatura medill il/ I/l eno basti per II/al/dare all'aria i piani agricoli di Krtlscev e per bloccargli per ql/Ilsi tutto l'aH/w i porti scttel/triol/Il/i.

TI/tta via , si prevede che verso il 2000, l'anno di tutte le scadel/ze dei progressisf~ , gli uomini Ilvran/'lO imparato Il con­trol/Ilre il clill/Il. Seiogliel/do parz ialmente i ghiacci polari, che riflettol/o troppa Il/ce solare e limitano cosi il riscaldamel/to terrestre, sapremo pianificare il caldo e il freddo. Si dice che un eccesso di zelo dll pllrte dell' EI/.te Internaz ionale Seiogli­mel/fa dei Poli (EISP) trasformerebbe l'El/rapa nel deserto del Sllharn e sO//I/llergerebbe tl/tte le coste del 110stro continente. Il1SOI///'I1a : a/lre//1O il wldo del pial/o e il freddo del terrore.

Anno IV, n. 1. - Pubblicazione trimcstrale (gclmaio- marzo 1964) del­l'Istituto Bancario San Paolo di Torino. - Spedizione in abbonamento

postale (gruppo IV) .