SPILLI - MAPPE nelle POLITICHE SOCIALI e nei SERVIZI – … · 2012-05-18 · duando delle tracce...

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SPILLI SMARRIRE IL PROPRIO FUTURO Franca Olivetti Manoukian LESSICO MINIMALE SUL FUTURO Cinzia D’Agostino “NON È UN PAESE PER VECCHIRIFLESSIONI SUL TESTO DI CORMAN MC CARTHY Barbara Di Tommaso LIBRI 113 129 145

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S P I L L ISMARRIRE IL PROPRIOFUTURO

Franca Olivetti Manoukian

LESSICO MINIMALESUL FUTURO

Cinzia D’Agostino

“NON È UN PAESE PER VECCHI” RIFLESSIONI SUL TESTO DICORMAN MC CARTHY

Barbara Di Tommaso

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Il rapporto tra futuro e passato è stato in vari modi considera-to e analizzato nel corso delle Giornate di Studio. A fronte del-le accelerazioni e complessificazioni che caratterizzano la so-cietà in cui viviamo sembra da un lato che il passato non co-stituisca di per sè una esperienza adeguata per orientare versoil futuro e dall’altro che ci si scontri in modo sempre più dram-matico con imprevedibilità e incertezze rispetto a ciò che puòavvenire. Risulterebbe pertanto inevitabile restare ben colloca-ti nel presente, sottraendosi al rischio di compiere salti “fanta-stici” (che spingerebbero verso un futuribile fantascientifico),ma anche a quello di avvicinarsi troppo a ricomposizioni traciò che è stato e ciò che sarà, di farsi risucchiare dalle nostal-gie e/o farsi accecare dalle angosce per l’inconoscibile, quasiinsondabile.A margine di queste riflessioni, forse assumendo uno sguardoun po’ antitetico rispetto alle tendenze dominanti, vorrei prova-re ad esporre un piccolo tentativo di ricerca sul rapporto pas-sato/futuro: un tentativo di illuminarne degli aspetti, indivi-duando delle tracce di futuro nel passato recente di un’orga-nizzazione che non ha realizzato un proprio futuro e che pureper anni ha rappresentato una propensione massima, un mas-simo di disponibilità e di mobilitazione verso di esso, attraver-so anticipazioni e precocità davvero significative. Parlo dellaazienda Olivetti.La sollecitazione per questa esplorazione, necessariamente as-sai limitata e accennata più che effettivamente sviluppata, ènata dalla lettura di un testo pubblicato di recente, a cura di R.Garruccio, F. Novara e R. Rozzi, per le edizioni Bruno Monda-dori, intitolato Uomini e lavoro alla Olivetti. Il volume raccoglie25 storie di persone (24 uomini e una donna) che hanno lavo-rato per molti anni (da 15 a 40) alla Olivetti, che si racconta-

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S M A R R I R E I L P R O P R I O F U T U R OFranca Olivetti Manoukian

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no e riflettono sulla loro esperienza, sulle vicende aziendali esulle loro evoluzioni, su quello che è stato realizzato e sui si-gnificati che ha avuto: persone collocate in vari settori (produ-zione, ricerca, settore commerciale, relazioni sindacali, relazio-ni aziendali, ecc.) e a vari livelli di responsabilità.Uso il testo come una fonte a cui attingere per dare rilievo adalcuni fattori che anche nella nostra quotidianità possiamoconsiderare critici rispetto all’immaginare e costruire futuri pos-sibili. Sono più che altro suggestioni che comunico a partire dauna mia lettura, partecipata perché il ceppo originario dellamia famiglia d’origine ha a che fare con la famiglia Olivetti,ma anche perché negli anni della mia prima formazione pro-fessionale, mi sono identificata con slancio ed entusiasmo, confiducia e ammirazione ad orientamenti, scelte, stili, prospettiveche l’Olivetti proponeva al mondo del lavoro e delle organiz-zazioni produttive.Per situare le mie riflessioni, richiamo per cenni la storia dell’azien-da Olivetti, ricordo alcuni dati generali, credo peraltro già noti.L’impresa nasce nei primi anni del ’900 per fabbricare macchi-ne da scrivere, per iniziativa di Camillo Olivetti che aveva rac-colto in un viaggio negli U.S.A. importanti indicazioni tecnolo-giche per realizzare questa produzione industriale. Nonostantele difficoltà e le discontinuità, in particolare quelle connesse al-la prima guerra mondiale, ha uno sviluppo notevole e per cir-ca quattro decenni si afferma sia nella produzione che nellapenetrazione in vari mercati, in Italia e all’estero, caratterizzan-dosi per le innovazioni in campo commerciale e per la consi-derazione dedicata al lavoro operaio. Dopo la seconda guerra mondiale nell’impresa emerge la fi-gura di Adriano Olivetti, imprenditore “sociale”, umanista, ap-passionato di arte, di letteratura, di urbanistica e insieme aper-to alla più avanzata ricerca tecnologica, propulsore di connes-sioni tra tecnica e organizzazione, fondatore della rivista Co-munità, e di una casa editrice con lo stesso nome che pubblicatraduzioni di autori come Weber, Simmel, Tonnies, Durkheim,precursori e promotori agli inizi del ‘900 di quelle che sarannochiamate scienze sociali. Sarà impegnato anche in politica,

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dando vita al movimento “Comunità” e presentandosi anchealle elezioni. Negli anni della ricostruzione l’azienda e tutte le iniziative invario modo ad essa collegate crescono con vigore e con suc-cesso. Nel febbraio 1960 Adriano Olivetti muore e l’anno suc-cessivo muore anche l’ing. Tchou, direttore del Laboratorio Ri-cerche Elettroniche in cui si andava preparando l’apertura allenuove tecnologie elettroniche e informatiche. Per ragioni che èdifficile rendere trasparenti, per interessi politici, nazionali e in-ternazionali, interessi finanziari, rappresentati da Mediobancae dal potente Enrico Cuccia, si definisce la separazione trameccanica ed elettronica che si acuisce negli anni immediata-mente successivi quando si pone in modo più cogente la que-stione della diversificazione della produzione. La Divisione Elet-tronica insediata a Pregnana Milanese viene ceduta alla Ge-neral Electric, nel 1964 parzialmente e poi totalmente nel1968. Rimane un Gruppo di Progetto che Roberto Olivetti ot-tiene di trasferire ad Ivrea e che nel 1965 presenta Programma101, precursore del personal computer.Tra il 1967 e il 1974 l’azienda è guidata dall’amministratoredelegato Bruno Visentini. La presenza di Olivetti si espande inSudamerica, in Europa, negli Usa; cresce il fatturato e il nume-ro di dipendenti in Italia e all’estero: nel 1971, complessiva-mente, sono più di 70.000. I prodotti hanno successo e le ven-dite aumentano ma non si hanno aumenti di capitale e l’inde-bitamento finanziario lievita notevolmente. Nel 1978 arriva Carlo De Benedetti, vicepresidente e ammini-stratore delegato che impone importanti ristrutturazioni e im-prime una svolta decisiva alla vita della società. Fin dalle primebattute appare come un imprenditore portatore di un’imposta-zione molto diversa da quella perseguita per decenni da Ca-millo e Adriano Olivetti. Strategie generali e atteggiamentiquotidiani si spostano da grande attenzione e investimento nel-la produzione a concentrazione sulla finanza; da una rappre-sentazione complessiva di un’impresa che vive innovando pro-dotti e processi produttivi, proiettandosi sempre più nella so-cietà e nel futuro a un’idea di azienda che anzitutto deve ga-

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rantire profitti nel più breve tempo possibile; si passa da unostile direttivo partecipativo orientato a considerare ogni lavora-tore come una persona, un soggetto a pieno titolo, a una mo-dalità di comando sbrigativa e impersonale, utilizzata per li-cenziamenti massicci di personale e anche di dirigenti; da unagrande vicinanza alle diverse aree organizzative e alle loro vi-cende interne ad una notevole distanza da qualsiasi iniziativache non abbia risvolti sull’andamento dei profitti.All’interno della Olivetti si avverte una cesura, una discontinuitàsostanziale con i valori fondativi e distintivi, che comunque dal-la morte di Adriano erano diventati più statici e sbiaditi.Negli anni ’80 si succedono continui scorpori, esternalizzazioni ecostituzioni di nuove società con vari partners; si avviano ristrut-turazioni che comportano consistenti riduzioni del personale.Negli anni ‘90 Olivetti entra con Omnitel nel mercato delle te-lecomunicazioni. A fronte della crisi mondiale dell’industriainformatica si individuano nuove strutture societarie, si chia-mano nuovi amministratori delegati, si hanno avvicendamentinei consiglieri di amministrazione. Il fatturato del gruppo nonaumenta e cresce l’indebitamento finanziario. A Carlo De Be-nedetti che lascia la presidenza, succede Roberto Colaninno.Le azioni Olivetti vengono cedute a varie società e si crea unaholding per le telecomunicazioni che riunisce Omnitel e Info-strada. Nel 1999 il gruppo di controllo della Olivetti acquisisceil controllo di Telecom Italia e l’attività nelle telecomunicazionidiventa predominante. Dal 2003 Olivetti non è più nemmenoun marchio nel listino di borsa.Riprendo dei fili da una matassa aggrovigliata e colorata chepotrebbe essere dipanata in tanti modi differenti. Rispetto a noiqui è interessante richiamare l’attenzione su qualche dato chepermea, attraversa, marca tutta la vicenda organizzativa a cuiho accennato per sommi capi.

= I singoli, le persone, i soggetti hanno un posto centra-le per la vita e il successo dell’impresa. Questo orientamento che è stato privilegiato fin dagli inizi co-me filosofia, come scelta caratterizzante, come cardine del fun-

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zionamento complessivo, si collega a un’“intuizione olivettia-na” riassunta da un intervistato, nel modo seguente: “Se mettole persone in condizione di esprimere il meglio di se stesse escelgo proprio quelle che hanno il meglio da esprimere, l’a-zienda che faranno avrà una grande capacità di crescere“. E“a livello degli impiegati e dei dirigenti l’Olivetti sentiva e ri-spettava la necessità di far esprimere il massimo dalle personeche aveva scelto e questo sempre e continuamente, tanto neimomenti positivi, quanto nei momenti negativi”1. Si tratta di unassunto non solo dichiarato ma realmente acquisito e applica-to, che forse ha avuto un peso così forte da costituire una sor-ta di predizione di un destino dell’organizzazione, la cui esi-stenza è stata effettivamente condizionata dalle vicende, dalleposizioni, dagli atteggiamenti soggettivi di coloro che hannocontribuito a costruirla, a dirigerla e anche a dissiparla.È stato per decenni sostenuto e mantenuto un grande investi-mento nelle persone e nelle loro potenzialità, fin dal momentodella selezione, che essenzialmente viene realizzata come unaricerca attiva nei confronti delle persone. Attraverso le modalitàpiù varie e inusitate si punta ad incontrare giovani dotati e mo-tivati ad impegnarsi con passione in campo tecnologico e pro-duttivo e anche in campo sociale: “quello che si cercava eranoampiezza di orizzonti, curiosità, senso critico, si cercavano ra-gazzi capaci di porsi la domanda: si fa così? Bene. Ma perchénon si può fare anche cosà? Persone in grado di porsi in ter-mini critici, non ipercritici, che non accettassero supinamente leistruzioni ricevute. L’Olivetti era un’azienda in cui chiunque, an-che chi vi era entrato per ultimo, poteva dare suggerimenti equesti suggerimenti venivano sempre valutati, se non accetta-ti”2. Si tratta probabilmente di una sorta di cooptazione guida-ta dalla condivisione dei valori dell’azienda più che da valuta-zione di qualifiche formali, come lauree o diplomi o attestazio-ni di competenze tecniche, punteggi per risposte ai quiz3. Nonsi accettano raccomandazioni, ma viene dedicata grande at-tenzione alle relazioni (anche nell’impostazione della lettera diconvocazione per un colloquio) e soprattutto a come le perso-ne si pongono, anche nei dettagli, come ad esempio il modo

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(1) Uomini e lavoro allaOlivetti, p. 375, 376; cfr.anche p. 172.(2) Op.cit., p. 133, p. 171,172.(3) Op. cit., p. 455-456.

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in cui scrivono la loro firma. Nella gestione del personale si ha un costante ed intenso inve-stimento sotto vari punti di vista. Ci si propone di migliorare lecondizioni di lavoro nella produzione, cercando di individuarevari adattamenti possibili dei singoli alla impostazione taylori-stica e alla relativa parcellizzazione e tentando continuamentedi innovare e razionalizzare per ricomporre. E questo avvieneattraverso la sensibilizzazione e la responsabilizzazione dei ca-pi a cogliere le difficoltà e attraverso la presenza in fabbrica diun gestore del personale in staff al direttore, ma anche attra-verso l’istituzione di strutture dedicate a analizzare i fenomeni ea formulare ipotesi e accorgimenti tecnici e organizzativi, comel’Ufficio Tempi e Metodi e il Centro di Psicologia diretto daFrancesco Novara che ha collegamenti e riconoscimenti sulpiano internazionale e che ha offerto contributi eccezional-mente significativi e innovativi per le trasformazioni del lavoroin fabbrica4. Si mettono a disposizione supporti per malattie,per maternità, per vicende familiari critiche attraverso i ServiziSociali e anche attraverso l’istituzione di un Centro di Riqualifi-cazione per chi manifesta disturbi e fragilità soggettive. Soprat-tutto si dà grandissima importanza alla formazione: sono istitu-zionalmente previsti corsi che vengono fatti frequentare subitodopo l’assunzione, che a seconda dei periodi e delle colloca-zioni professionali durano mesi, se non anni e prevedono inse-gnamento di materie tecniche, di cultura generale e sindacale,alternato a lavoro in fabbrica; si moltiplicano attività formativenelle fasi di apertura di nuove produzioni per tutti i livelli daglioperai ai dirigenti, corsi sulle nuove tecnologie, ma anche cor-si di inglese; vengono predisposti per i giovani dei processi di“affiancamento” da parte di una figura più esperta, perché nelrapporto interindividuale possano esporre e verificare le loroidee e costruirsi emancipazioni e autonomie; si promuovonogruppi di progetto a composizione eterogenea che diventanopalestre di apprendimento attraverso il confronto su questionidirettamente connesse alla produzione; e quando emergono alivello internazionale e nazionale nuovi orientamenti e stru-mentazioni formative, si sperimentano contatti con varie figure

(4) Molte esperienze sonodescritte nel testo curato daCesare Musatti, Psicologi infabbrica. La psicologia dellavoro negli stabilimentiOlivetti, Einaudi, Torino,1980.

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di formatori e con particolari strumentazioni5.Tutte queste iniziative costituiscono delle grandi anticipazioni diquello che trenta o quaranta anni dopo in molte aziende si sa-rebbe fatto o dichiarato di fare. Sono scelte strategiche e con-cretizzazioni operative di quello che oggi denominiamo “svi-luppo delle risorse umane”, che suscita stupore e ammirazio-ne. Ma la storia dell’azienda ci mostra anche il rovescio dellamedaglia. Le persone che sono cresciute in un contesto di va-lorizzazione dell’autonomia di ciascuno e di apprezzamentoper l’accrescimento delle competenze professionali, in un cli-ma “bellissimo” in cui ci si sente parte viva e attiva e si lavoracon interesse e soddisfazione, sono anche in grado al venirmeno di queste condizioni, di cercare altre strade: di prendereposizioni critiche e di manifestare dissenso e quindi di sostene-re anche all’interno contrapposizioni e competizioni, di solleci-tare collocazioni in società più piccole che vengono costituite,attraverso processi che potrebbero essere definiti di esternaliz-zazione, e anche di ricercare in altre grandi aziende delle op-portunità simili a quelle un tempo offerte da Olivetti.

= I capi sono attivi interpreti dei valori aziendaliNei racconti degli intervistati sono richiamati moltissimi episodiche segnalano un particolare stile nei rapporti tra capi e di-pendenti, improntati a informalità e schiettezza, connotati daspecifico impegno per la crescita dei collaboratori.I capi appaiono come figure carismatiche, figure con una for-mazione tecnica aperta al mondo, alla cultura umanistica, allapolitica, al dibattito, alla disconferma degli ordini che dà. “Seun capo le dava un ordine e lei non era convinta di quell’ordi-ne, lei non lo eseguiva, faceva di tutto per non eseguirlo: perprima cosa avrebbe cercato di far cambiare idea al capo, per-ché in linea di principio il capo deve riconoscere nel collabo-ratore una cultura specifica superiore alla propria... Il capo de-ve essere convincente, deve dare una motivazione molto chia-ra”6. Apprezzamento e ammirazione non ci sono solo nei con-fronti di coloro che hanno doti singolari, come Gino Martinolie esperienze di lavoro in campo internazionale, dall’Inghilterra

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(5) Cfr. tra i tantissimi riferi-menti alla formazione citatinelle interviste p. 183, p.241, p. 433-434, p. 341,p. 249, p. 261…(6) P. 414.

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al Brasile, agli Stati Uniti, ma anche rispetto a capi- reparto ecapi-squadra. “Conoscevano fino in fondo il proprio persona-le, sapevano cosa ottenerne e come aiutarlo nell’ambito delproprio operato”7. “Era rimasto in Olivetti uno stile fatto dicomportamenti quasi impercettibili: era il modo di parlare del-le persone, il modo con cui un capo si rivolgeva a un sottopo-sto; era la confidenza, anche la libertà con cui uno poteva ac-cedere agli alti livelli, senza burocrazia e senza troppi formali-smi. Era imperante il principio olivettiano del totale e completorispetto di chi lavora…”8

Dirigenti a vari livelli occupano questi ruoli grazie ad opportu-nità di dimostrare capacità reali di affrontare questioni e pro-blemi, al di là del possesso di una laurea e di lunghi anni dicarriera. L’idea guida è quella che i dirigenti non siano collo-cati in una posizione elitaria, distante e staccata, separata e asè stante ma piuttosto chiamati ad esercitare un’autorità fun-zionale entro rapporti dissimmetrici dinamici, sufficientementemobili. In più di un’intervista si ricorda come si potessero ritro-vare alla mensa, seduti alla stessa tavola, impiegati e direttorisenza particolari reticenze o imbarazzi. I capi sembrano per-tanto costituire dei riferimenti centrali per promuovere identifi-cazioni positive con l’organizzazione e con i prodotti e al con-tempo per mantenere connessioni tra le diverse parti dell’orga-nizzazione.Il venir meno di un capo come Adriano Olivetti è stato senz’al-tro un grande trauma, a cui si è cercato in vario modo di rea-gire e riparare, per un tempo che, nelle narrazioni degli inter-vistati appare più o meno lungo, probabilmente a seconda del-le diverse aree aziendali e che comunque è durato – con unasingolare convergenza di rappresentazioni – fino all’arrivo diCarlo De Benedetti. Questi viene descritto come figura con ca-ratteristiche del tutto opposte a quelle di Olivetti, portatore nonsolo di diverse e contrastanti politiche aziendali, ma anche diun diverso stile nei rapporti con le persone e con le cose. “Ar-rivò con la moglie, vide l’ufficio, non gli piacque e disse cheandava cambiato. Era un venerdì. Volle scegliere subito i nuo-vi mobili e scelse una scrivania che era stata progettata ma non

(7) P. 110, p. 228-229.(8) P. 544.

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ancora prodotta, una bellissima scrivania in legno (...) Con af-fannose telefonate, facendo lavorare alla Synthesis di Massatutti gli operai, misero in piedi, dalla sera alla mattina, questoufficio. Già questo mi parve un gesto poco olivettiano, da pa-drone vecchio stanpo”9.Nei racconti ciò che più colpisce è che anche là dove vengonoapprezzate e valorizzate le sue decisioni finanziarie e gestiona-li, considerate opportune e necessarie, anche là dove vienepositivamente richiamata l’impostazione manageriale rigoro-sa, non si avverte quella identificazione intensa e mobilitanteche circondava Olivetti. Si sottolinea invece il capovolgimentodi ciò che era stato prerogativa qualificante dell’azienda, equindi una sostanziale distanza, per non dire disprezzo, per iprodotti, un disinteresse per le valenze e gli impegni sociali del-l’impresa e parallelamente una enfatizzazione dei vincoli eco-nomici, attraverso il ricorso prevalente ed indiscutibile a criteridi redditività per qualsiasi decisione organizzativa.All’interno dell’azienda l’orientamento gestionale appare allo-ra guidato da esigenze di controllo che sono facilitate dallesuddivisioni e dalle competizioni, disinvestendo nella ricerca diconnessioni. L’organizzazione inevitabilmente vede allentarsi letrasversalità e le interazioni orizzontali e rinvigorirsi le dimen-sioni verticali, secondo una trasformazione che si mette in attoattraverso decisioni di organigrammi e relative attribuzioni difunzioni e compiti ma si avverte nella quotidianità delle comu-nicazioni e dei rapporti quotidiani. Qualcuno ne dà una de-scrizione a forti tinte, senz’altro eccessiva ma espressiva di at-teggiamenti e vissuti: “L’Olivetti era quello che era, era diven-tata un terreno di battaglia, di feudatari, l’un contro l’altro ar-mato; era un’azienda fuori controllo, non più gestita da nessu-no, un’azienda impazzita; se i feudatari non stavano attentiscoppiavano scaramucce sanguinosissime tra valvassini e val-vassori, non con morti, ma con scambi di lettere feroci, con te-lefonate bollenti tra i vari capi e chi era sotto ne subiva le con-seguenze”10. Coloro che rivestono ruoli direttivi reagiscono al-la nuova impostazione imprenditoriale con scelte individuali eprobabilmente entro rapporti interindividuali, ponendo in pri-

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(9) P. 544.(10) P. 544.

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mo piano le proprie attese e inclinazioni soggettive, ricercandoquindi percorsi e collocazioni che, o all’interno della compagi-ne olivettiana o all’esterno, possano offrire tutele e prospettiveper una propria crescita nel senso della competenza tecnica odella carriera, ma anche nel senso che costituiscano opportu-nità di continuare il lavoro e lo stile di lavoro per cui si è moti-vati e ci si sente preparati.

= Va mantenuto un impegno elevato per migliorare e in-novare i prodotti.L’attenzione ai prodotti in Olivetti è analoga a quella per le per-sone, in particolare perché possano essere sempre più affinatinella qualità e per poter continuamente proporre apparecchia-ture innovative, che precorrano esigenze e utilizzazioni possibi-li. E i prodotti è importante che siano ben funzionanti, rispon-denti alle attese dei clienti sparsi in tutto il mondo, ma ancheche siano belli, esteticamente studiati da grandi architetti, chenon siano soltanto macchine per scrivere e calcolare, per ren-dere più efficiente il lavoro d’ufficio, ma anche oggetti di desi-gn, che resteranno unici (anche se universalmente imitati) e en-treranno nei musei d’arte moderna. Le interviste mettono benin luce le affezioni che legano i singoli a ciò che in azienda siproduce, dal modo in cui si parla delle macchine (“…passaisubito all’MC24, la macchina calcolatrice con il “cappello ne-ro”, che ha fatto la fortuna dell’Olivetti”11) e dei processi “ (lasinterizzazione”, le linee di assemblaggio, le varie fasi di lavo-razione), nonché delle difficoltà che li caratterizzano e di comesono state affrontate e risolte. ”Quando andai a lavorare sullepiastre elettroniche presi un’iniziativa. I componenti erano del-le specie di ragnetti che si chiamavano DIP, con 18 pin, diciot-to gambette. Di questi oggetti in un piastra ne erano saldati unduecento. Quando uno di questi non funzionava , le riparatri-ci dovevano identificarlo con un’apparecchiatura elettronica,dissaldare uno per uno i pin, aspirare lo stagno liquido... tuttoquesto mangiava molto tempo ed era complicato. Ricordo cheun sabato mi è venuta un’idea... Allora ho preso i miei e hodetto “fatemi una specie di piccola vasca con dello stagno li-

(11) P. 241 e segg.

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quido”. Poi ho provato a prendere la piastra e mettere le gam-bette dentro lo stagno fuso: istantaneamente si fondevano tut-te, così si tirava via subito il componente e se ne metteva un al-tro”12. La perfezione del prodotto finito era ottenuta con investi-menti nella messa a punto dei processi di lavorazione e neicontrolli di qualità, trent’anni prima che si parlasse di qualsia-si tipo di certificazione e anche con razionalizzazioni e ottimiz-zazioni dell’organizzazione del lavoro, frutto di sistematiche eapprofondite ricerche.L’innovazione è collegata alla messa a punto e al migliora-mento dell’esistente ma anche all’invenzione, che viene solle-citata a tutti i livelli e porta anche a esplorare in vari paesi checosa sta accadendo. Con l’abbandono dell’investimento nel-l’elettronica o meglio della separazione tra meccanica ed elet-tronica e in seguito con l’avvento delle strategie aziendali di DeBenedetti si distanzia e si indebolisce la ricerca appassionata einstancabile del nuovo, si affievolisce una grande forza dell’a-zienda, una sua centrale energia propulsiva. Sintomatico è ilpeso e la collocazione che cambia per la Ricerca e Sviluppo :“l’era della Ricerca e Sviluppo è finita nel 1978. De Benedettiarrivò e cambiò l’organizzazione della società, creando tantedivisioni, La Ricerca e Sviluppo fu smembrata, perché ogni di-visione doveva avere la sua Ricerca e Sviluppo. (…) I laborato-ri cominciarono a dover denunciare i propri costi e ad essereguardati come centri di costo. De Benedetti iniziò subito a met-tere un freno e a premere sul business”13.Anche se per molti anni il Centro di Psicologia, la ricerca ergo-nomica, il Centro di Ricerche Sociologiche e diversi dirigentihanno continuato ad introdurre sperimentazioni significative,come le Unità di Montaggio Integrate (UMI), il controllo delgruppo funzionale, le cosiddette isole, che sono diventati riferi-menti per molte aziende e hanno ricevuto notevolissimi ricono-scimenti a livello internazionale, di fatto per l’azienda nel suoinsieme la preminenza dell’investimento nel produrre vienemeno. Il diffondersi di incertezze, titubanze, timori per il futurodell’azienda negli anni settanta secondo alcuni non sarebberocollegati a debolezza tecnologica e progettuale, ma alla ina-

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(12) P. 257 e segg.(13) P. 447.

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deguatezza delle scelte strategiche rispetto al mercato e ad unasopravvenuta inettitudine organizzativa e gestionale. Questogiudizio drastico è probabilmente troppo severo. In un’ottica più rivolta ad analizzare e a capire che a giudicaresi può ipotizzare che l’esistenza di un forte innamoramento perla produzione sia per un’organizzazione, contemporaneamen-te elemento di forza e di debolezza, perché rappresenta un at-taccamento all’esistente, a ciò che ha conferito identità fortenel passato e che rende troppo doloroso lo spostarsi, il lascia-re, per aprire altri sguardi e altre azioni. Non è forse qualchecosa di questo genere che accade in questo periodo per variservizi sociali e sociosanitari.

= La cultura dell’eccellenza e dell’eccezionalità“L’Olivetti era, già allora, un fiore all’occhiello. E quando unoandava in giro dicendo “Io sono all’Olivetti”, contava qualco-sa. L’alternativa poteva essere finire alla Fiat, che era moltopeggio”14.”Noi giovani laureati capivamo che quella era unagrande azienda che aveva un’organizzazione diversa dalle al-tre, che dal punto di vista organizzativo era all’avanguardia,che dal punto di vista tecnico aveva incredibili punti di vantag-gio sui competitori”15. Per molti anni anche all’interno dell’a-zienda si rinforza la rappresentazione di costituire a livello na-zionale e internazionale una realtà originale e unica, mobili-tando e consolidando uno “spirito d’appartenenza” un po’presuntuosamente élitario, che ci siamo sempre sentiti addos-so”16. Emblematici in questo senso sono i rapporti che negli an-ni ’70 si cominciano a stabilire con consulenti esterni, italiani estranieri che vengono chiamati da alcuni e al tempo stessoosteggiati da altri. “L’ingegner L. fu uno dei primi a insistere peravere la collaborazione di una società di consulenza: questosembrava scandaloso all’interno dell’Olivetti si confidava nellapropria eccellenza e si riteneva di non aver mai bisogno di nes-suno. Il casus belli fu l’ingresso della prima società di consu-lenza per gli aspetti di sviluppo del personale e per gli aspettiretributivi”17.Sembra ampiamente condivisa la valutazione che in Olivetti

(14) P. 347.(15) P. 360.(16) P. 284.(17) P. 117.

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nel campo della produzione e della gestione del personale sisono fatte scelte altamente innovative, ottenendo risultati ec-cellenti e che grazie ad essi si è garantita per molto tempo unaindiscutibile affermazione nel mercato, successi di vendite,creazione di nuove società e stabilimenti in tutte le parti delmondo. Si sono avuti riconoscimenti anche in esposizioni inter-nazionali, con premi di organismi europei, ma il considerarsisempre al massimo tende a favorire diffidenze e svalutazioni,chiusure e distanze nei confronti dell’esterno, come se il livellodi quel che si produce fosse così alto da non poter ammetterecontaminazioni, negoziazioni, cooperazioni con altri. Si creauna sorta di “autarchia”, un’impossibilità di vedere elementipositivi in ciò che circola al di là dei confini, una sorta di eliti-smo forse un po’ snob. Il senso di appartenenza nel tempo,probabilmente anche meno direttamente alimentato nei rap-porti e nei comportamenti quotidiani, va idealizzandosi per-dendo contatto con la realtà. Si mantengono le identificazioni,più che promuoverle verso altri progetti, in un quadro econo-mico-sociale e culturale, attraversato da accelerate, radicalitrasformazioni.

= Quali apprendimenti da questa storiaL’azienda Olivetti con le scelte innovative che hanno caratteriz-zato il suo sviluppo nel corso di vari decenni, si è posta comeun precursore: si potrebbe dire che via via abbia anticipatoquanto in seguito sarebbe stato richiesto, prescritto o applica-to in modo generalizzato. Quando il futuro che aveva precor-so è diventato presente, l’organizzazione nei suoi assetti più ca-ratterizzanti non ha retto. Le interviste riportate nel libro Uominie lavoro alla Olivetti tentano varie interpretazioni della vicen-da, a volte ricorrendo a scissioni, esprimendo convinzioni radi-cate nelle esperienze personali, dichiarando atteggiamenti fa-talistici e talvolta anche rifugiandosi in colpevolizzazioni. Tuttiesprimono nostalgia per un’esperienza comunque ricordatacome entusiasmante, positiva, in cui si è lavorato con interes-se, passione, generosità e anche in modo divertente. Si sonoavute grandi soddisfazioni e si è goduto di grandi opportunità

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anche per lavorare altrove.Al di là delle ricostruzioni dei giochi di potere, delle lotte che davarie parti sono state condotte contro questa azienda, delle dif-fidenze nelle relazioni familiari, delle debolezze e delle distrut-tività manifestate dai vari leader, avvicendatisi dopo la morte diAdriano Olivetti, tento di segnalare alcune riflessioni che credoabbiano una particolare valenza per il nostro presente, per ilpresente delle organizzazioni in cui lavoriamo, soprattutto peraffinare il nostro sguardo aprendolo a prospettive che già com-prendono (anche nel senso che permettono di tener conto)evoluzioni diverse, possibili e probabili.= Ogni realtà organizzativa è sempre e comunque attraversa-ta da ambivalenze: e questo è vero anche quando ci sembra ditrovarci in un contesto quasi ideale, quando siamo soddisfattie ci identifichiamo in una pluralità di aspetti positivi, per cui èragionevole cercare comunque anche le altre facce, ovvero leparti oscure, negate o relegate ai margini, sottovalutate e re-spinte; è altrettanto vero quando nelle situazioni lavorative tut-to appare negativo, quando sembrano dominanti soltanto irra-zionalità e distruttività, quando si raccolgono solo sofferenze elamentazioni: significa cioè che anche in questi frangenti esi-stono parti che non vediamo e sono quelle in cui si nascondo-no motivazioni latenti, risorse e interessi indirizzati altrove, di-sponibilità represse, ragionevolezze ben nascoste. Queste am-bivalenze permeano sempre e comunque il funzionamento or-ganizzativo e i progetti (solo in parte consapevoli) che anima-no i singoli, nonostante tutti gli interventi di razionalizzazionetendenti a chiarire, a definire, a informare e spiegare, ad indi-rizzare e contenere. E sono anche mobili nel senso che in varimomenti sono più presenti in certi ambiti e in certe persone erispetto ad alcune scelte, possono attenuarsi e improvvisamen-te ripresentarsi da parte di qualcuno o rispetto ad una decisio-ne, in un modo che non ci si sarebbe proprio aspettato. Anco-ra una volta anche se le esigenze della organizzazione richie-dono di prevenire e prevedere non possiamo fare a meno di ri-cordarci che non si è mai effettivamente e pienamente prepa-rati per quello che può accadere: forse, sapendolo si è un po’

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più preparati ad affrontarlo.= Le organizzazioni reali non sono eterne: forse noi pensiamoo ci aspettiamo che abbiano vita più lunga della nostra, perchétendiamo a rappresentarle come entità sovra-ordinate in tutti isensi. Immaginiamo che si muovano nella società con strategiee decisioni congruenti con le finalità istituzionali e con i pro-blemi che emergono e siamo delusi e amareggiati quandoconstatiamo che ciò non avviene. In fondo dall’azienda, dalcomune, dall’ospedale, dalla cooperativa pretendiamo razio-nalità e coerenza probabilmente perché questo ci permettereb-be di collocare in modo più soddisfacente il nostro agire e cipermetterebbe di sentirci un po’ più tutelati e sostenuti. È piùdifficile rappresentarci che noi stessi contribuiamo alla vita diqueste organizzazioni con quello che facciamo e anche conquello che non facciamo, non esponiamo, non intraprendia-mo, non cerchiamo di capire. Le istituzioni nelle nostre societàtendono a permanere, ma le organizzazioni ovvero le loro con-figurazioni produttive e gestionali nascono e muoiono, vannoe vengono, si ampliano e si riducono, si accorpano e si divi-dono. In un certo senso le vicende della Olivetti sono state an-ticipatorie di ciò che in seguito è avvenuto in altre realtà.= Quel che realmente è stato costruito non si perde: non solonon si perdono i prodotti ma anche il patrimonio di conoscen-ze e di esperienze, non si perdono i contenuti, le elaborazioniculturali e valoriali che sono state elaborate e interiorizzate. At-traverso coloro che sono usciti dalla Olivetti gli orientamentimaturati al suo interno hanno incontrato la realtà di tante altreorganizzazioni in Italia e all’estero, in tanti settori, dalle indu-strie come la Zanussi o la Barilla, al sindacato, alle ammini-strazioni locali, alle società di consulenza. Si è seminato e dis-seminato, si è fatto crescere più diffusamente un approccio allavoro e alle organizzazioni che cerca di considerare e connet-tere realizzazione di prodotti e realizzazione di soggetti, con-nessioni tra esigenze del funzionamento organizzativo e valo-rizzazione delle dimensioni soggettive, che assume l’organizza-zione come realtà sociale complessa. Forse le stesse attività diconsulenza e formazione in cui siamo impegnati come Studio

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APS sono collegate ad aperture culturali promosse dalle vicen-de della Olivetti. Rievocarle forse invita a ricordarci che pensa-re/immaginare il futuro significa anche pensare/immaginareche altri, nel bene e nel male, più di noi, lo abiteranno.

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Ci sono alcune parole che ricorrono frequentemente quando siparla, si evoca, si aggira o si pensa al futuro.Ho provato a prenderne alcune per iniziare a comporre un pic-colo e assolutamente parziale lessico che possa suscitare qual-che suggestione e qualche pensiero a chi abbia voglia di pen-sare al futuro, sia individuale, che delle organizzazioni e deigruppi di cui fa parte.Credo che oggi la sfida di pensare e di costruire il futuro passianche dalla possibilità e capacità di riuscire ad aprire spazi apunti di vista e orientamenti culturali diversi, rispetto a quelli cuiognuno di noi appartiene per storia personale, culturale, so-ciale e professionale, in modo da contaminare, sporcare espiazzare le nostre più abituali lenti di osservazione del mondo.Per questo motivo ho provato a selezionare e ad associare adogni parola di questo lessico minimale alcuni testi di autori ab-bastanza distanti dalla mia area specialistica (quella di econo-mista) e molto diversi anche tra di loro. Distanza e diversità cheperò appaiono più accettabili se attivo anche l’orientamento diricerca di tipo psicosociologico cui cerco di ispirarmi nella miaprofessione.Una simile scelta ha per me un vantaggio ed uno svantaggio.Da una parte cercare di leggere, capire ed interpretare testiche parlano linguaggi differenti è come fare un viaggio in unaterra straniera in cui è necessario attivare tutti i sensi per poter-si orientare ed in cui quello che affascina e che rimane sonospesso suggestioni, e non piene comprensioni, che però hannoun effetto molto potente sulla costruzione e rielaborazione del-la nostra esperienza in quanto attivano sensi affettivi ed emo-zionali più che dimensioni razionali. Dall’altra parte l’”errare”per testi di autori e discipline meno familiari fa correre il rischiodi interpretare il verbo errare anche nel senso di sbagliare, pro-

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L E S S I C O M I N I M A L E S U L F U T U R OCinzia D’Agostino

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ponendo, agli occhi di lettori più esperti, delle semplificazionio delle interpretazioni che possono apparire inopportune. Correrò questo rischio considerando che questo lessico ha so-lo l’obiettivo di proporre alcuni consigli di lettura che possanoaprire, auspicabilmente, ad altri approfondimenti ed interpre-tazioni più personali.Le parole che ho scelto sono: incertezza, modernità e tempo.

La prima parola che ci introduce a questo lessico minimale sulfuturo è “incertezza”.Per parlare dell’incertezza mi piacerebbe proporvi un testo diDavid Lindley, astrofisico ed editor di diverse riviste scientificheamericane. In questo testo dal titolo “Incertezza” (Ed. Einaudi,2008) Lindley ha ripercorso, con un’affascinante rilettura, lastoria travagliata che ha portato alla formulazione ed alla af-fermazione, nel campo della meccanica quantistica, del princi-pio di intederminazione di Heisenberg1, stravolgendo moltedelle concezioni della fisica classica. Questo principio è molto importante in quanto ha comportato,di fatto, la fine di una concezione scientifica del mondo, distampo positivista, fondata sull’ambizione di poter riuscire ungiorno a descrivere compiutamente il mondo, in ogni suo det-taglio e con estrema precisione.Il principio di indeterminazione di Heisenberg ha dimostrato,infatti, l’impossibilità di conoscere sempre e precisamente tuttele variabili di un sistema facendo entrare il concetto di incer-tezza ed inconoscibilità nel mondo della scienza.Pur riuscendo a capire poco, lo confesso, di elettroni, protoni,mezzi quanti e così via, penso che questo testo sia interessanteper diversi motivi. Innanzitutto perché consente di entrare nella narrazione deidubbi, delle resistenze, delle opposizioni che scienziati diversi,primo tra tutti Einstein, hanno manifestato nei confronti di que-sto principio e dei significati profondi che si portava dietro. Etutto questo può offrire anche spunti interessanti su come agi-scono e come si manifestano le resistenze al cambiamento an-che in ambienti, quali quelli scientifici, strutturalmente tesi alle

INCERTEZZA

(1) Il principio di indetermi-nazione di Heisenberg sta-bilisce che possiamo misu-rare la velocità di una parti-cella, o la sua posizione, manon possiamo misurare en-trambe. Oppure: quantopiù precisamente si determi-na la posizione di una parti-cella, tanto meno si può co-noscerne la velocità. Oppu-re, in modo più indiretto emeno ovvio: l’atto di osser-vare cambia ciò che si os-serva (vedi Lindley, opera ci-tata).

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innovazioni ed alle sperimentazioni.In secondo luogo perché la storia del principio di indetermina-zione pone per la prima volta la scienza, e quindi il mondo tut-to che nel novecento considerava la scienza come lo strumentoprincipe di conoscenza e di conquista del mondo e quindi delfuturo, di fronte al tema ed al senso del limite e dell’incertezza.In terzo luogo perché il libro mi sembra offra spunti interessan-ti anche sul metodo utilizzato dai diversi scienziati per costruireil futuro della scienza e su alcune caratteristiche personali diquesti uomini del novecento (le donne erano ancora decisa-mente poche...) che forse hanno contributo a renderli costrut-tori di futuro.Prima di Heisenberg l’incertezza era per gli scienziati un segnodell’incapacità umana di comprendere il mondo fisico. Il ruolodell’incertezza era dunque quello di creare proprio quella ten-sione creativa e di ricerca sostenuta al fondo dalla “certezza”circa la conoscibilità del mondo. L’incertezza, dunque, era so-lo la spia che questa conoscenza era rimandata e che biso-gnava impegnarsi ancora di più per arrivare ad una piena, lo-gica e razionale conoscenza del mondo. Per sintetizzare tutto questo Lindley cita efficacemente Laplace2:“Possiamo considerare lo stato attuale dell’universo come l’ef-fetto del suo passato e la causa del suo futuro. Un intelletto chead un determinato istante dovesse conoscere tutte le forze chemettono in moto la natura, e tutte le posizioni di tutti gli oggettidi cui la natura è composta, se questo intelletto fosse inoltre suf-ficientemente ampio da sottoporre questi dati ad analisi, essoracchiuderebbe in un’unica formula i movimenti dei corpi piùgrandi dell’universo e quelli degli atomi più piccoli; per un taleintelletto nulla sarebbe incerto ed il futuro proprio come il pas-sato sarebbe evidente davanti ai suoi occhi”.Quindi per gli scienziati che si apprestavano alla ricerca nullapoteva essere incerto e come guida avrebbero potuto avere undetto francese che recitava “tout comprendre c’est tout prédire”(comprendere tutto vuol dire prevedere tutto).Il libro racconta la storia delle diverse scoperte scientifiche che,a partire da metà ottocento, hanno di fatto costruito il percorso

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(2) vedi “Incertezza” (Einau-di, 2008), pagina 25.

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che ha portato Heisenberg alla sua scoperta nel novecento.Interessante che tutto sembra aver inizio dalla scoperta di unbotanico scozzese, Robert Brown, (quindi tutto un altro camporispetto alla fisica) che studiando al microscopio alcune parti-celle di polvere inerte (realmente e non simbolicamente avevautilizzato particelle di polvere della Sfinge…) aveva scopertoquello che poi verrà definito “moto browniano” secondo cuiparticelle inerti, messe in una goccia d’acqua ed osservate almicroscopio, ondeggiavano in maniera casuale come ogni al-tra cosa. Da qui gli studi e le scoperte successive sui movimenti degliatomi e sull’attività del caso nell’influenzarne le traiettorie. Conla fisica quantistica e lo studio dei movimenti degli atomi inizia,infatti, a venire meno la speranza laplaciana di una perfettadescrittibilità scientifica del mondo, pur rimanendo l’implicitodi un mondo fisico deterministico che molti scienziati, primo tratutti Einstein, cercheranno strenuamente di difendere dai suc-cessivi attacchi di Heisenberg e del suo maestro Bohr.La domanda cui i fisici di inizio novecento cercavano di rispon-dere era: come fa un elettrone a decidere dove andare, chetraiettoria seguire? Il problema, infatti, era di come riuscire a pre-vedere esattamente dove sarebbe finito ogni singolo elettrone.Gli scienziati partivano dal presupposto che nella fisica classi-ca tutto ciò che accade, accade per una ragione, perché altrieventi precedenti hanno portato a quell’evento, ne hanno de-terminato le condizioni, lo hanno reso inevitabile. Ma gli espe-rimenti che venivano condotti dai fisici quantistici sembravanodimostrare che, almeno in apparenza, le cose accadono comeaccadono senza che sia possibile dire il perché. La meccanicaquantistica obbligava i fisici a ragionare in modi nuovi, a im-parare un nuovo linguaggio, forniva solo probabilità e noncertezze di traiettoria ed iniziavano a fare capolino, nel mondoscientifico, concetti fortemente disturbanti quali quelli di spon-taneità, discontinuità, incontrollabilità.Per la prima volta gli scienziati iniziavano a nutrire dubbi sullareale possibilità di sperimentare e spiegare logicamente ilmondo e forse non è casuale che i principali protagonisti di

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questa storia, Bohr ed Heisenberg per primi, abbiano anchecaratteristiche, storie, metodi di lavoro particolari e siano statiabbastanza trasgressivi nel voler far ricorso ad intuizioni e sug-gestioni, più che a sperimentazioni rigorose, per costruire le lo-ro teorie.Bohr, che ha vinto il premio Nobel per la comprensione intuiti-va della struttura degli atomi, dichiarava: “Quando si tratta diatomi il linguaggio si può usare soltanto come nella poesia.Anche il poeta non si preoccupa tanto di descrivere fatti quan-to di creare immagini e stabilire connessioni mentali”3. Heisenberg viene descritto come dotato di talento, ma tendentea fantasticare senza avere una padronanza assoluta della ma-teria, e sembra aver portato anche nel suo lavoro di scienziatol’esperienza giovanile in cui era solito far parte di gruppi di coe-tanei con cui si discuteva di grandi problemi: che cos’è la co-noscenza? Come possiamo esserne certi? Che cosa costituisceil progresso? Gruppi di ragazzi che girovagavano per le monta-gne e per le campagne e si perdevano in accalorate discussio-ni adolescenziali sull’arte, la scienza, la musica, la filosofia.Forse anche per questa sua storia Heisenberg, quando si tro-vava ad affrontare un problema difficile, non adottava la stra-tegia di cercare una soluzione all’interno dei confini della fisi-ca conosciuta, ma si metteva immediatamente alla ricerca diqualcosa di completamente nuovo, qualcosa di radicale.Questo sembrava collegato anche ad un metodo di lavoromolto praticato in quell’ambiente scientifico di inizio novecen-to, e che forse altri gruppi ed organizzazioni potrebbero riusci-re a riprendere e reinterpretare in maniera più rigorosa, un me-todo che potremmo sintetizzare con le espressioni di “largo aigiovani”, e di “libera discussione”.Scrive Lindley “per tutta la vita, il metodo di lavoro ideale diBohr fu il coinvolgimento in una discussione aperta e continua,un seminario informale con i suoi colleghi indetto in perma-nenza. Pensava a voce alta, discuteva a fondo le sue idee,commentava e criticava, procedeva per salti, faceva digressio-ni, si fermava e rifletteva”... “Studenti tenevano una riunionesettimanale di due ore per discutere sugli ultimi argomenti di ri-

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(3) vedi opera citata, pagi-na 90.

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cerca, delle discussioni a ruota libera che Heisenberg descris-se come una sorta di mercato dove scambiare opinioni sui piùmoderni sviluppi”4. Allora il principio di indeterminazione di Heisenberg sembrautile per parlare di futuro perché ha introdotto indirettamentel’idea che la verità assoluta non esiste, che quel che vediamovaria a seconda di quel che cerchiamo, che la storia non di-pende solo da chi agisce e da chi parla, ma anche da chiascolta e da chi guarda. Scrive Lindley: “La conoscenza scientifica, al pari della nostracomprensione generale, informale del mondo in cui viviamopuò essere al contempo razionale e accidentale, piena di si-gnificato e contingente. La verità scientifica è potente, ma nononnipotente”5. D’altra parte, e questa mi sembra un’interessante valutazionedi Lindley, forse il modo scientifico di pervenire alla conoscen-za, dopo Heisenberg, è diventato anche meno minaccioso diun tempo. “Fu il sogno classico della conoscenza scientifica perfetta, deldeterminismo rigoroso e della causalità assoluta, che provocòallarme una volta estrapolato dai confini della scienza. L’idea-le di Laplace della prevedibilità perfetta, la possibilità di preve-dere completamente il futuro avendo la conoscenza perfettadel presente trasformava gli esseri umani, così sembrava, inautonomi impotenti”6. Lindley conclude questo suo viaggio nell’incertezza dicendo: “èsolo grazie a un inesplicabile atto iniziale di incertezza quanti-stica che ha avuto origine il nostro universo, dando il via aduna catena di eventi che hanno portato alla comparsa sullascena di noi che ci domandiamo quale impulso originario ab-bia portato alla nostra esistenza” e con questo suo dire mi sem-bra riesca a fornire una riappacificazione con questo terminecosì tanto temuto e così spesso associato all’idea di un futuroche, essendo incerto, appare anche fortemente minaccioso7. Personalmente mi piacerebbe concludere questa prima vocedel lessico riportando una poesia, sempre citata da Lindley, sultema della relatività.

(4) vedi opera citata, pagina78.(5) vedi opera citata, pagina222.(6) vedi opera citata, pagina221.(7) vedi opera citata, pagina226.

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Mi piacciono le teorie della relatività e dei quantiPerché non le capiscoE mi danno il senso che lo spazio mi si muova intorno come un cigno inquieto,restio a star fermo e a lasciarsi misurare;è come se l’atomo fosse una cosa impulsivache cambiasse continuamente le sue intenzioni.

(David Herbert Lawrence)

La seconda parola cui ho pensato per questo piccolo lessico è“modernità”. Per parlarne ho trovato molto interessante la pro-spettiva offerta da Bruno Latour nel suo testo dal titolo “Disin-ventare la modernità” (Ed. Elèuthera, 2008).Bruno Latour, filosofo ed antropologo, ha creato un program-ma di ricerca, denominato antropologia simmetrica, con cuiapplica i metodi antropologici ed etnografici alla produzionescientifica, partendo dal presupposto che se si vogliono com-prendere le società contemporanee è necessario studiare la lo-ro principale fonte di verità, le scienze.Latour, quindi, ha passato molto tempo in laboratori scientificiamericani applicando i metodi antropologici classici ai ricerca-tori scientifici per riuscire a comprendere meglio le società mo-derne e per capire cosa significhi oggi essere moderni e perchéforse valga la pena di iniziare a “non essere moderni”.Latour, dunque, cerca di trasgredire all’imperativo della mo-dernità provando a descrivere una alternativa politica, cultura-le, scientifica, sociale alla modernizzazione e per farlo introdu-ce e discute, nel suo libro, con François Ewald di temi quali lanegoziazione, la diplomazia, la pluralità dei mondi, il significa-to di libertà e di emancipazione.Per Latour “Essere moderni significa avere una visione linearedel tempo, un fronte del progresso relativamente omogeneoche avanza in maniera regolare e che distingue sempre meglioi fatti dai valori”8. Essere moderni significa pensare che il futu-ro porti emancipazione, peraltro con una centratura pretta-mente individualistica.

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LA RELATIVITÀ

MODERNITÀ

(8) vedi “Disinventare lamodernità” (Elèuthera Edi-tore, 2008), pagina 13

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Questo modo di intendere e di interpretare la modernità sem-bra essere per Latour estremamente inadatto ed anche perico-loso per affrontare la complessità del mondo attuale.Disinventare la modernità, costruire nuove società non moder-ne, significa, dunque, assumersi la responsabilità di diventaretutti ricercatori, negoziatori e costruttori di legami.Per Latour “essere non moderni significa pensare che il doma-ni sarà “sempre più mescolato”, che non saremo emancipatiquanto piuttosto più connessi agli altri e che dovremo interagi-re con un numero di esseri ancora più ibridi di ieri”9. “Noi con-sideriamo il futuro non come ciò che ci slegherà, ci emanci-perà, ma come ciò che ci legherà a un numero maggiore di es-seri, con conseguenze e vincoli inaspettati”.Libertà intesa, quindi, non come emancipazione, ma interpre-tata e vissuta in un senso nuovo, non moderno, di connessionee di legame.Quello che per Latour è importante fare è sostituire lo slogandella modernizzazione (che potrebbe essere inteso anche comecolonizzazione da parte di una cultura egemone, quella piùscientifica e razionale) con il principio della negoziazione.La negoziazione contiene in sé il riconoscimento ed il rispettodelle diversità tra culture e implica il lavorare con e sulla diplo-mazia, perché la diplomazia “non pretende che noi siamo uni-ficati perché condividiamo la stessa natura, ma semplicementerileva che non condividiamo ancora un mondo comune”…“non possiamo immaginare un accordo tra noi e gli altri senon misuriamo prima l’abisso del disaccordo, che tocca tuttociò che ci circonda”10.Per fare questo occorre rimettere anche profondamente in di-scussione il rapporto tra scienza e politica superando quella cheLatour definisce “la tradizionale distinzione dei ruoli assegnatadalla “scenografia moderna” che affida agli scienziati di occu-parsi dei fatti ed ai politici di decidere sul versante dei valori”11.Questa distinzione non sembra più possibile proprio conside-rando che la scienza non porta più certezze, ma apre campi di-versi di possibilità. Mentre in passato si pretendeva che pur es-sendo in disaccordo ci si sarebbe potuti intendere comportan-

(9) vedi opera citata, pagina15.(10) vedi opera citata, pagi-na 16.(11) vedi opera citata, pagi-na 49.

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dosi in maniera razionale e scientifica, oggi il cambiamento stanel riconoscere che “più si è scientifici, più ci si trova in una si-tuazione sperimentale, più ci si trova nell’incertezza riguardo almondo comune”. Per questo il ruolo della diplomazia diventasempre più importante per permettere anche una sorta di “di-namica di apprendimento collettivo” sulle e nelle diversità.Se proviamo a portare questi discorsi a quanto accade nelleorganizzazioni, se riflettiamo su quanto le organizzazioni siostinino a pensare e costruire il futuro attraverso piani, previ-sioni razionali ed oggettivate da dati che puntano a fornire cer-tezze e che sono costruite spesso in una logica di tipo “top-down” e quasi mai fondate su processi dialogici, nati dall’in-contro e dall’integrazione tra le diversità, forse gli spunti di La-tour possono apparire interessanti ed anche un pò provocatoriper de-costruire alcune rappresentazioni e modalità prevalentidi lavoro e per introdurre nuove priorità.La conclusione di Latour è semplice e chiara “il mondo occi-dentale ha inventato la modernità, disinventarla sarebbe un at-to dovuto”.Questa conclusione mi porta anche a suggerire l’integrazionedella sua lettura con un’altra prospettiva offerta da GiacomoMarramao, professore di filosofia teoretica e politica, nel suo te-sto “La passione del presente” (Ed. Bollati Boringhieri, 2008).Secondo Marramao “è necessario sottrarsi all’alternativa para-digmatica per cui la globalizzazione o è omologazione totale odiventa scontro di civiltà. Sono convinto invece che uniformità edifferenziazione siano due lati di uno stesso processo: due lineedi tendenza che si integrano e contrastano allo stesso tempo”12. La proposta di Marramao è di riconquistare il futuro non comeprogresso garantito ed indifferenziato, ma come dimensionecontingente e come apertura all’orizzonte dei possibili. Perquesto suggerisce di vivere la passione del presente provandoa “scorgere nella complessità apparentemente indecifrabile enei conflitti del presente non solo un fattore di minaccia ma lachiave per accedere alla straordinaria ricchezza di un mondoplurale, senza vertici e centri stabili, segnato da una moltepli-cità irriducibile di esperienze, immagini e narrative. E solo così

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(12) vedi “La passione delpresente” (Bollati Borin-ghieri, 2008), pagina 29.

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riusciremo a ricomporre dentro noi stessi il multiverso tempo-rale che permea di sé la grammatica delle forme di vita: il tem-po di lavoro e il tempo per l’amore, il tempo perduto e il tem-po guadagnato. È questa la dimensione del tempo che io chia-mo cairologica: la sola in grado di riconnettere, in una tensio-ne feconda, passato e futuro dentro il presente dell’esperienzae dell’immaginazione creativa”13. Tutto questo ci porta alla terza ed ultima parola del nostro lessico.

La terza parola che propongo per riflettere sul futuro è “tem-po”. Per farlo suggerisco la lettura del testo di Daniel N. Stern,professore americano di psicologia e psichiatria, dal titolo “Ilmomento presente, in psicoterapia e nella vita quotidiana”(Raffaello Cortina Editore, 2006).Mi sembra un testo interessante perché fornisce, anche a colo-ro che non si occupano di psicoterapia clinica, degli spunti perriflettere sul senso che ognuno di noi può attribuire al tempo,alla sua consistenza ed al suo fluire. Suggerisce che se non sia-mo capaci di cogliere la dimensione del tempo vivendo l’espe-rienza soggettiva del momento che chiamiamo “ora” le stesseparole di passato, presente e futuro appaiono o rischiano diapparire vuote e difficili da riempire.Per introdurci nella dimensione del “momento presente”, defi-nito da Stern anche come “momento di incontro” (dell’altro), iltesto inizia con una descrizione della differenza tra Cronos, cherappresenta la definizione di tempo da noi comunemente uti-lizzata, e Kairos, che veniva usato dagli antichi Greci per espri-mere la concezione soggettiva del tempo.Scrive Stern “Cronos è la visione oggettiva del tempo in cui l’i-stante presente è un punto che si muove nel tempo in un’unicadirezione, nel futuro, procedendo in linea retta, circolare o aspirale, ma in ogni caso muovendosi incessantemente e nell’a-vanzare divora il futuro e lascia dietro di sé il passato. Kairosrappresenta il momento in corso, in cui accade qualcosa men-tre il tempo scorre. Kairos è un momento in cui si presenta unapossibilità, in cui gli eventi richiedono un’azione o sono propi-zi per un’azione, e convergono in un insieme che entra a far

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(13) vedi opera citata, pagi-na 106.

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parte della consapevolezza. Kairos è una piccola finestra suldivenire e sulla possibilità”14. Allora per Stern la questione è di come riuscire a vedere neimomenti presenti i momenti di kairos che ci fanno avere laconsapevolezza di ciò che chiamiamo “ora”.Peraltro stiamo parlando di un momento presente la cui dura-ta va da 1 a 10 secondi, in media circa 3-4 secondi. È questo,infatti, il tempo che, in base agli studi delle neuroscienze, ciserve per raggruppare stimoli percettivi del mondo esterno,mettere in atto unità funzionali di comportamento e diventarecoscienti di un evento15. Questa concezione del momento presente si basa in larga par-te su una prospettiva fenomenologica. La fenomenologia è lostudio delle cose così come appaiono alla coscienza; ovveroquando si rivelano alla mente. Ciò include percezioni, sensa-zioni, emozioni, ricordi, sogni, fantasie, aspettative, idee, tuttoquanto occupa la scena mentale.Come studioso e terapeuta Stern è interessato al momento pre-sente perché parte dall’assunto che ogni momento di cambia-mento implichi un’esperienza reale inaspettata, riguardante larelazione tra due o più persone in un intervallo di tempo cheviene esperito come “ora” e che questo momento generi unaforma particolare di coscienza, venendo inoltre codificato nel-la memoria e, fatto notevole, riscrivendo il passato16. Lavorare sul momento presente è importante per Stern perchéciò che esperiamo nel presente può diventare ostaggio sia delpassato che del futuro e la sfida consiste nell’immaginare ilmomento presente in una sorta di equilibrio dialogico con ilpassato e con il futuro in cui anche il momento presente devepoter influenzare, probabilmente allo stesso grado, il passatoed il futuro, così come essi influenzano il presente. Stern lo de-finisce un “trialogo” tra passato, presente e futuro che procedequasi senza sosta, attimo per attimo, nella vita, nell’arte ed inpsicoterapia. Il testo di Stern è per me molto complesso e ricco di spunti de-clinati utilizzando esempi vari, dalla descrizione di casi clinici alracconto dell’esperienza che ognuno di noi compie quando

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(14) vedi “Il momento pre-sente” (Raffaello CortinaEditore, 2006), pagina 6.(15) vedi opera citata, pa-gina 35.(16) vedi opera citata, pa-gina 25.

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ascolta musica. Impossibile rappresentare tutto in queste righe,in ogni caso, quello che mi sembra utile evidenziare è la sotto-lineatura che Stern fa del carattere relazionale17 della nostramente e quindi il rimando al fatto che vivere il tempo significaentrare in relazione con l’altro.Scrive Stern “la nostra mente, per sua natura, è costantementein cerca di altre persone con cui entrare in risonanza e con cuicondividere esperienze. Il nostro sistema nervoso è costruitoper “agganciarsi” a quello degli altri esseri umani, in modo chepossiamo fare esperienza degli altri come se ci trovassimo nel-la loro stessa pelle.Tutto quanto pensiamo, sentiamo e desideriamo è influenzatodai pensieri, dai sentimenti e dalle intenzioni che percepiamonegli altri, in un dialogo incessante (reale o virtuale). In breve,la nostra vita mentale è frutto di una co-creazione, di un dialo-go continuo con le menti degli altri, che io chiamo matrice in-tersoggettiva”18. Il tracciato che sembra suggerire questa lettura è quindi chel’esperienza soggettiva del tempo, che ci permette di ricono-scere, distinguere, ma anche costruire e ri-costruire il nostrorapporto con il passato, il presente ed il futuro richiede di la-vorare sul contatto intersoggettivo, a partire da quei piccolicontatti di alcuni secondi che implicano, nella relazione conl’altro un’azione: uno sguardo reciproco, una modifica dellapostura, un gesto, un’espressione del volto, una variazione delritmo respiratorio o un cambiamento nel tono o nell’intensitàdella voce.In terapia per riuscire a vivere questi momenti è necessario, perStern, che si compia quello che lui chiama “un viaggio affetti-vo condiviso”19 che definisce come il viaggio, della durata dialcuni secondi, in cui due persone attraversano insieme unostesso paesaggio emotivo dove passato, presente e futuro si ri-compongono ed al termine del quale le persone sentono chequalcosa è cambiato.Non mi addentro, ovviamente, nel territorio complesso ed insi-dioso, per una non esperta come me, della terapia clinica, maho desiderato riprendere questo tema di “viaggio affettivo con-

(17) vedi “Il momento pre-sente” (Raffaello CortinaEditore, 2006), pagina 6.(18) vedi opera citata, pagi-na 35.(19) vedi opera citata, pagi-na 25.

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diviso” perché racchiude parole che reputo altamente evocati-ve per affrontare il futuro. In un contesto in cui sembra essere molto evidente il peso di di-mensioni quali l’individualismo e la razionalità ed in cui le re-lazioni sono sempre più interpretate in chiave strettamente uti-litaristica, la sollecitazione a ricordarci che siamo consapevolidel tempo, che lo viviamo e lo memorizziamo, se passiamo peril movimento, la relazione e l’affettività mi sembra necessariaper provare a costruire il futuro.Nel libro di Stern si citano dei versi di W. Blake che penso pos-sano chiudere le riflessioni sulla terza parola del lessico:

Vedere un Mondo in un granello di sabbia.E un cielo in un fiore selvatico,tenere l’infinito nel cavo della manoe l’eternità in un’ora.

(William Blake)

Infine, se dopo tutto questo leggere di futuro, volete sapere co-me “andrà a finire” consiglio di leggere “Breve storia del futu-ro” di Jacques Attali (Fazi Editore, 2007) che invece uno sforzodi previsione lo fa e prova a raccontare la storia dei prossimicinquanta anni descrivendo quelle che lui definisce tre ondatedel futuro, che si succederanno e mescoleranno, da lui deno-minate: iperimpero, iperconflitto e iperdemocrazia.Secondo Attali il numero dei futuri possibili è quasi infinito, macontinueranno ad agire alcune grandi tendenze quasi immutabi-li, dal momento che da quando sono comparse la democrazia eil mercato, l’evoluzione è andata in un’unica direzione canaliz-zando la libertà politica e i desideri verso la loro espressionemercantile. Per Attali, dunque, la libertà mercantile e politica èstata e continuerà ad essere il motore della Storia, sebbene il suopersonale auspicio sia che alla fine riusciremo a costruire unmondo in parte diverso da quanto la storia ci ha insegnato finoad ora. Dice Attali: “Scrivo questo libro perché il futuro non as-somigli a quello che temo sarà, e per dare un aiuto al dispiega-mento delle formidabili potenzialità oggi in atto”20.

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(20) vedi “Breve storia delfuturo” (Fazi Editore, 2007),pagina 13.

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La storia del futuro di Attali trova le sue radici e le sue lezioninel passato, ripercorso a partire dalla nascita della vita sullaterra con cui è di fatto iniziata la ricerca della progressiva libe-razione dell’uomo da tutte le costrizioni.Nel corso di questa ricostruzione storica Attali rintraccia unaserie numerosa di lezioni per il futuro e cerca poi, in un modoche lui stesso definisce come apparentemente caricaturale, pe-rentorio ed arbitrario, di mostrare quella che può essere un’im-magine verosimile del futuro.Lascio alla lettura diretta del testo la scoperta del percorso diAttali tra iperimpero, iperconflitto ed iperdemocrazia e riportosolo alcune citazioni delle lezioni che secondo Attali la storia ciha dato e che sembrano destinate a condizionare anche il no-stro futuro. Penso che alcune di queste lezioni possano esseredi spunto di riflessione anche per costruire il futuro dei gruppi edelle organizzazioni.Lezioni per il futuro che Attali trae dalla storia passata: - trasmettere è la condizione indispensabile per il progresso;- la parola può diventare un’arma mortale, il mercato è peri-

coloso se non è in equilibrio;- è dal confronto tra nomadi e sedentari che l’umanità ac-

quisisce forza e libertà;- quando una superpotenza viene attaccata da un rivale,

spesso è un terzo a spuntarla;- il vincitore spesso fa propria la cultura del vinto;- l’apertura alle élite straniere è una delle condizioni del suc-

cesso;- una nuova tecnologia di comunicazione, che sembrava

centralizzatrice, si rivela un nemico inesorabile dei poteri incarica;

- nessun impero, anche se sembra eterno, può durare all’in-finito;

- è la penuria che costringe a cercare una nuova ricchezza,la scarsità è una benedizione per gli ambiziosi;

- poco importa chi inventa una tecnologia, l’importante è es-sere in grado, culturalmente e politicamente, di farla fun-zionare;

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- il vincitore di tutte le guerre è quello che non la fa, o alme-no che non combatte sul proprio territorio;

- il tempo che separa un’innovazione, anche socialmente ne-cessaria, dalla sua diffusione gira sempre intorno al mezzosecolo;

- numerose invenzioni fondamentali sono il prodotto del la-voro di ricercatori, pagati con fondi pubblici per trovaretutt’altro.

Secondo Attali, infine, il tempo sarà nel futuro l’unica vera pe-nuria; l’unica cosa rara perché non è possibile produrlo, e nonè possibile a chi ne dispone di venderlo, perché nessuno è ingrado di accumularlo21.Allora, per rintracciare una parziale conclusione, ma anche unlegame tra quanto detto a proposito di incertezza, modernità etempo mi sembra che una delle riflessioni possibili sia di pro-vare a costruire il futuro vivendo maggiormente la qualità el’intensità del nostro tempo e quindi la consapevolezza del no-stro presente. Per farlo sarebbe interessante ricercare e vivere la relazione“con l’altro” e costruire quei legami possibili che l’incertezza difatto, con i suoi buchi e le sue ombre, apre comunque come“luoghi” per sperimentare anche l’incontro tra diversità chepossono essere espressioni di una nuova modernità.

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(21) vedi opera citata, pa-gina 122.

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“I guai cominciano quando si comincia a passare sopra allamaleducazione. Quando non si sente più dire Grazie e Per fa-vore, vuol dire che la fine è vicina”.

Un Texas polveroso e in balia della violenza, vecchi e nuovicow boys, brandelli di sogno americano, personaggi differen-ziati ed indimenticabili, sono alcuni tra gli ingredienti che stan-no decretando il successo del libro di Corman Mc Carthy“Non è un paese per vecchi” (G. Einaudi Editore, Torino,2006), grazie anche al traino costituito dalla versione cinema-tografica del testo da parte dei fratelli Cohen.4 premi Oscar nel 2008 (miglior film, miglior regia, miglior at-tore non protagonista, miglior sceneggiatura non originale) edue Golden Globe (miglior attore non protagonista e migliorsceneggiatura non originale) oltre a costituire un importante ri-conoscimento al genio artistico dei due registi, già osannatidalla critica e dal pubblico per l’originalità e l’abilità dimostra-ti in opere precedenti quali “Fargo”, “Fratello dove sei?”, “Ilgrande Lebowsky”, stanno avvicinando nuovi lettori all’autoredi El Paso, il narratore della “trilogia della frontiera”1, uno scrit-tore del secolo scorso, forse proprio per questo capace di of-frire ai lettori sguardi inquietanti sul presente.

“No country for old men” è il verso di una poesia del poeta ir-landese W.B. Yeats, “Sailing to Bisantium”, in cui si parla di “ciòche è passato, sta passando e sta per venire”.Mc Carthy costruisce la trama del suo romanzo proprio in rap-porto al tempo che passa ed al significato che assumono glieventi in particolare agli occhi di uno dei protagonisti, lo sce-riffo Bell, voce narrante che assume tonalità filosofico-esisten-

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“ N O N È U N PA E S EP E R V E C C H I ”RIFLESSIONI SUL TESTO DI CORMAN MC CARTHY

di Barbara Di Tommaso

(1) “Cavalli selvaggi”, Ol-tre il confine”, “Città dellapianura”, tutti editi da Ei-naudi.

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ziali, in netto contrasto col tono asciutto, minuziosamente de-scrittivo e quasi distaccato che l’autore sceglie per raccontarela particolare vicenda.

Anni ’80, deserti del Sud Est degli Stati Uniti, al confine colMessico.Il saldatore, ex marine e cacciatore per passione Moss si im-batte casualmente in una strage tra narcotrafficanti, a seguitodella vendita di una grossa partita di droga.Mosso da uno strano istinto che gli fa fiutare l’occasione dellavita, si mette all’inseguimento del possibile superstite fuggitocol denaro e quando lo trova, ormai morto, gli sottrae una va-ligetta ricolma di dollari che nasconderà nella casa roulottedove vive con la compagna una vita semplice, ripetitiva e sen-za particolari pretese.Di notte, tormentato dal senso di colpa per aver lasciato un cri-minale moribondo su una camionetta, torna sulla scena del re-golamento di conti, per scoprire di non essere l’unico interes-sato alla sorte di quegli uomini, della droga e, soprattutto, deldenaro.Inizia così la sua fuga rocambolesca in paesaggi naturali edumani aridi e inospitali, sia che si tratti delle pianure assolate, siadei motel periferici ed anonimi, dove Moss si rifugia, inseguitoda bande di messicani inferociti e dal killer psicopatico Chigurh.Vera incarnazione del male, questo professionista della morteviaggia tra Stati Uniti e Messico per le sue missioni delittuosecon un’arma assai poco convenzionale: una bombola con pi-stola ad aria compressa che serve tanto ad aprire porte chiusequanto a perforare i cervelli delle sue vittime attonite, come sefossero manzi in un qualsiasi mercato del bestiame texano.

“Mi sa che gente così non la abbiamo mai vista prima d’ora.Gente di questo tipo. Non so neanche che cosa bisognerebbefare con loro. Se uno li ammazzasse tutti, toccherebbe costruireuna dépendance dell’inferno” dice lo sceriffo Bell, a fronte deinove omicidi irrisolti in una settimana, dopo 41 anni in cui nel-la contea non se ne era mai verificato uno.

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Personaggio chiave della vicenda, parla di sé dicendo “A 21anni entrai nell’esercito, e al campo di addestramento ero unodei più anziani del gruppo. Di lì a sei mesi ero in Francia a spa-rare alla gente col fucile. E all’epoca non lo trovavo neanchetanto strano. Quattro anni dopo ero lo sceriffo di questa con-tea. E non ho mai avuto dubbi su ciò che dovevo fare nella vi-ta. Al giorno d’oggi se ti metti a fare discorsi su cosa è giusto ecos’è sbagliato la gente spesso e volentieri si mette a ridere.Ma io su certe cose non ha mai avuto tanti dubbi. Nelle mieidee su certe cose. E spero di non averne mai.”Uomo di saldi principi, non più giovane ma neppure anziano,lo sceriffo si rapporta alla brutalità degli eventi e delle scene dimorte di cui è disseminata la sua contea con un misto di pietà,disincanto e stupore, perché “ai vecchi tempi c’erano sceriffiche non giravano neanche armati (…), la cura che avevano glisceriffi per la propria gente ai vecchi tempi ormai è diminuita(...)”, c’era chi “sapeva a memoria il numero di telefono di tut-ti gli abitanti della contea”.I vecchi tempi.Bell non è così ingenuo da pensare che nella storia del suopaese ci siano stati periodi di pace e armonia sufficientementelunghi, ma non riesce a non richiamare con qualche velaturadi malinconia il passato, evocandone alcune caratteristiche, senon di tranquillità, quantomeno di riconoscibilità.La sua voce off nel testo è una sorta di colonna sonora, chesembra accompagnare con note a volte amare e struggenti, avolte lucide e razionalizzanti, lo svolgimento ineluttabile di unacatena di violenze apparentemente senza senso.

Interessante la collocazione temporale della storia, ambientatanegli anni ’80, forse gli anni che più hanno marcato nella partericca ed occidentale del pianeta la discontinuità tra il periododelle speranze, dei cambiamenti, della crescita economica, e ciòche ne è seguito: fine dell’equilibrio tra superpotenze, migrazio-ni, trasformazioni profonde nell’economia, nella criminalità,...“Ci stiamo facendo comprare con i nostri stessi soldi”, al cen-tro di tutto ci sono i soldi: quelli che Moss si illude di poter sot-

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trarre ai narcotrafficanti per rifarsi una vita, quelli che Chigurhinsegue sistematicamente uccidendo senza esitazioni, ma an-che quelli sporchi di sangue che i cinici ragazzini al confine colMessico chiedono a Moss ferito e allo stremo in cambio di unagiacca pulita, o quelli che un adolescente pretende dal proprioamico che ha regalato a Chigurh una camicia per fasciarsi ilbraccio sanguinante.L’avidità e la quasi totale mancanza di pietà sembrano i tratticon cui Mc Carthy decide di presentarci le nuove generazioni,quelle a cui viene venduta fuori dalle scuole la droga, “E c’è dipeggio: i ragazzini la comprano”. La generazione che “nonvorrà tirar su i propri figli, e allora chi ci penserà? I loro genito-ri saranno gli unici nonni disponibili e neanche loro vorranno ti-rarli su”.

Rappresentazione un po’ nostalgica del passato, incomprensi-bilità del presente, inquietudine rispetto al futuro, sono gli in-gredienti su cui si dipana la riflessione laterale agli avvenimen-ti da parte dello sceriffo Bell.Una riflessione che interroga quel tempo, i suoi valori, i fatti eil loro significato: “Leggo il giornale ogni mattina. Direi che piùche altro cerco di farmi un’idea di quello che sta per capitare.Non che sia stato tanto bravo ad impedirlo. Diventa sempre piùdifficile. (…) Mia moglie non vuole più leggere il giornale. Pro-babilmente ha ragione”.Un continuo sforzo di capire la parte di mondo in cui vive,con la consapevolezza dei propri limiti di comprensione e diazione, col richiamo desolato alle proprie responsabilità edimpotenze.Risulta molto efficace e toccante questo continuo alternarsi,nelle parole dello sceriffo, di considerazioni che richiamano lapropria inadeguatezza ad adattarsi, la consapevolezza di in-vecchiare, il senso di superamento dei propri punti di riferi-mento, e l’irriducibilità del proprio nucleo di valori profondi, lasensazione che un giorno, forse tra 40 anni, “la gente avràaperto gli occhi. Sempre che non sia troppo tardi”. Lui, Cas-sandra in stivali, divisa e stella, oggi vede e ci mette in guardia.

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Il travaglio esistenziale e forse politico di questo filosofo dellafrontiera non ha implicazioni personali concrete particolar-mente complicate: pensa di dare le dimissioni, anche perchégli risulterà impossibile arginare la catena di delitti innescatadal traffico di droga e alimentata dall’inconsapevole Moss.Più tormentata e aperta è la gestione interna, profonda, dell’in-sieme di interrogativi e osservazioni che sembrano galleggiarenella sua testa e nel suo cuore, mentre insegue fisicamente epsicologicamente i vari soggetti che popolano la scena.Più sofferto è lo sguardo sul futuro, su ciò che sarà, anche ol-tre la propria vita; la piccola contea assolata diventa metaforadi un mondo alla deriva, dove scarsi e fragili sembrano esseregli ancoraggi per chi non vuole “mettere a rischio la propriaanima”.Davanti alla carneficina dei corrieri della droga Bell chiede alcollega di spostare i cavalli, perché non assistano all’orridospettacolo, e lo invita a non usare termini offensivi e gergaliverso i morti, in una ricerca quasi paradossale di un minimo didecenza, dignità e rispetto di fronte a tanto scempio. Nellosforzo quasi disperato di non farsi travolgere dall’abbrutimen-to che è costretto a conoscere e riconoscere, nel tentativo di ra-zionalizzare e fare la sua parte in un paesaggio così familiareeppure così diverso, quasi irriconoscibile.

Moss, più giovane, reduce del Vietnam, incarna valori diversi,rappresenta l’american dream di chi crede che ci si possa fareda sé. Rappresenta i tanti che pensano che con un po’ di co-raggio, fortuna e iniziativa personale si possa fronteggiarequalsiasi evento ed uscire indenni da qualsiasi situazione, an-che dai peggiori gironi infernali, rappresentati per l’occasionedalla nuova criminalità. In questo è molto allineato agli slogandegli anni ’80, sembra ben collocato nel tempo presente, tut-tavia il suo modo di essere cow boy in Pick Up, solo contro tut-to e tutti, riecheggia figure di antieroi western del passato e mi-tologie della frontiera radicate nell’immaginario collettivo. L’il-lusione dei soldi facili lo proietta in un possibile futuro, fanta-sticato come migliore, anche se nello svolgersi della vicenda e

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nell’accelerazione del dramma andrà lentamente sfumando,mentre tutti i suoi sforzi si concentreranno nello sfuggire ai va-ri inseguitori e nel vincere la sfida con chi lo vuole morto. Oforse contro un destino che sembrava condannarlo a vivere persempre in una polverosa roulotte. Forse è il desiderio quasi ingenuo di un futuro diverso per sé eper la sua Carla Jean che lo spinge a varcare una invisibile so-glia, oltre la quale nulla sarà più lo stesso: “Aveva già capitoche probabilmente da allora in poi non sarebbe stato mai più alsicuro e si domandò se era una cosa a cui ci si poteva abitua-re. E se uno ci si abituava?”.

Chi sembra muoversi contemporaneamente fuori dal tempo enel pieno del clima cinico e amorale del momento è Chigurh.L’assenza totale di emozioni con cui uccide le su vittime desi-gnate o casuali pare essere frutto dell’introiezione del desertocircostante, in cui nulla attecchisce. La vita e la morte degli altri dipendono dalla sua volontà, o dacome il caso si presta ai suoi giochi malvagi: testa o croce, vi-vere o essere uccisi, perché lui lo ha deciso e la monetina lan-ciata in aria decreterà la sorte del malcapitato.Non è chiaro da cosa sia spinto questo “cattivo”, che non mi-ra al denaro per qualche progetto particolare, ma che conti-nua a perseguire l’obiettivo di riappropriarsene quasi come sefosse una missione superiore, un dovere indiscutibile di fronteal quale vale tutto, anche se il senso e il significato di tanto ri-goroso e spietato investimento non è (più) comprensibile.Forse proprio questa è una delle chiavi dell’efficacia dramma-turgia del personaggio: la potenza dell’apparente non sensoche lo muove e per cui produce dolore e distruzione.Non c’è un altro modo di vivere per questo killer che si senteonnipotente, in quanto può determinare la vita e la morte de-gli altri, mentre la maggior parte di chi lo circonda pensa, co-me Moss, che “le cose capitano come capitano. Non te lo chie-dono prima. Non ti chiedono il permesso”.Solo l’uso della violenza sembra avere il potere di determinare l’an-damento delle cose, il resto è casuale, ineluttabile, incontenibile.

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Lo sceriffo Bell chiede allo zio Ellis: “Secondo te Dio lo sa checosa sta succedendo?”- “Immagino di sì” - “E secondo te puòimpedirlo?”- “No. Non credo”.Nemmeno Dio.

Non è un paese per vecchi quello dove accadono cose del ge-nere, ma forse neanche per giovani. È un paese per chi? Di chi?In fondo ne percorrono le strade ed i sentieri, condividendo lastessa condizione umana, tre co-protagonisti, radicalmente di-versi eppure legati dalla trama degli eventi, insieme a tantecomparse, a tanti personaggi minori.The country, però, sembra non essere la terra, la patria di nes-suno: non di chi la attraversa e la sfrutta per loschi traffici di de-naro, armi e droga, non dei clandestini che a migliaia dal Mes-sico cercano di varcare la frontiera del Rio Bravo, non dei gio-vani che non dimostrano alcun legame col contesto, non deivecchi che “non ti sembrano neanche confusi. Ti sembrano im-pazziti. (…) È come se si fossero svegliati all’improvviso senzasapere come sono arrivati lì dove sono”.

Un paese che non è più di nessuno e per nessuno, scenografiacupa per vite alla deriva e progetti distruttivi. Un paese irrico-noscibile, cambiato velocemente agli occhi dei suoi stessi, af-fezionati abitanti dei “vecchi tempi”, oggi alieni e smarriti.Per andare avanti, per avere la forza di continuare a vivere inun paese ed in tempi del genere, Mc Carthy regala al suo sce-riffo Bell ed a tutti i lettori alcuni piccoli, preziosi riferimenti nel-le pagine conclusive: la necessità di ritrovare una promessadentro al proprio cuore, qualcosa su cui investire per il futuro,come avevano fatto altri uomini scavando a mano abbeveratoidi pietra per i cavalli duecento anni fa, in quelle stesse terre.E la compagnia incoraggiante degli avi, di nonni e padri che,dal passato, ci facciano compagnia in sogno e nella memoria,aiutandoci a trovare la strada, giorno dopo giorno.Chissà che proprio in un rapporto attualizzato ed affettuoso colpassato, con la propria storia, non si possano rintracciare glielementi su cui costruire un presente più riconoscibile ed abita-

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bile, così come pezzettini di futuro che valga la pena immagi-nare e desiderare.Pensando a questo primo decennio del terzo millennio verreb-be da pensare che il mondo ha più che mai bisogno di “vec-chi” come McCarthy e come lo sceriffo Bell.

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